Gianni Celati - Lo Spirito Della Novella

25

Click here to load reader

Transcript of Gianni Celati - Lo Spirito Della Novella

Page 1: Gianni Celati - Lo Spirito Della Novella

Gianni CelatiLo spirito della novella

Il presente saggio, pubblicato per la prima volta nel numero VI (2006-2007) di

Griseldaonline, nasce da una lezione sulla novella e il racconto che Gianni Celati ha

tenuto il 22 novembre 2006 al Dipartimento di Italianistica dell'Università di Bologna,

organizzata da Griseldaonline.

1. Novelle come merci pregiate.

Le antiche raccolte di novelle, dal Novellino duecentesco al Decamerone, alle raccolte

quattrocentesche e cinquecentesche, fino a quel punto di svolta che è il Cunto de li

cunti di Basile, sono dei bazar di roba messa insieme, con un fasto rituale ancora

visibile, benché lontano dalle nostre abitudini. Il Decamerone somiglia a quei vecchi

suk arabi dove trovavi profumi, gioielli, spezie, stoffe che venivano da tutte le parti, e

ogni merce portava con sé il ricordo delle linee di circolazione dei commerci nel nord

Africa. Le raccolte novellistiche erano collezioni di aneddoti, favole, leggende, motti

arguti, d’origine scritta e orale. La varietà di questi zibaldoni dipendeva da una vasta

circolazione di motivi narrabili, legata alle rotte dei pellegrini e dei mercanti. Per questi

tramiti debbono essere giunti molti esempi di narrativa araba, indiana, provenzale e

francese, che hanno trasformato i modi dei racconti nostrani. Le prime due novelle del

Decamerone parlano di mercanti fiorentini a Parigi, un buon terzo delle altre sono

ambientate in luoghi d’Europa e del Mediterraneo, come vicende o emblemi o fantasie

di terre lontane. In tutte si vede l’afflusso di materiali eterogenei, passati da una

tradizione all’altra. Ed è ciò che rendeva le raccolte novellistiche degli empori di

mercanzie pregiate, dove ogni storia ha la natura del frammento disperso, come le

reliquie dei santi o i gioielli portati in Europa dagli antichi viaggiatori. È una narrativa

di motivi intrecciati, dove ognuno vale in sé come memoria di accadimenti nel vasto

mondo; e parla d’un mondo ancora inteso come un tessuto di meraviglie, alla maniera

di Marco Polo e dei viaggiatori arabi.

2. Le novelline. Accumulo di pezzi sparsi.

Quel libro di novellette che ora chiamiamo il Novellino, composto tra il 1280 e il 1300,

resta l’esempio d’una narrativa fatta con l’accumulo di pezzi di riporto, sparsi ed

eterogenei, collegati da nessun motivo oltre al gusto del narrare. Si è pensato a un

compilatore che disponesse d’una vasta biblioteca nel nord Italia, forse nella Marca

Trevigiana, perché il Novellino si distingue per la grande quantità di spunti presi

direttamente dai libri. Benché il suo titolo originale (Libro di novelle et di bel parlar

gientile) si inquadri in una tradizione già viva di raccolte novellistiche, questo libro

resta un unicum nel campo delle forme narrative. Perché è come un esperimento per

ridurre il fenomeno chiamato “raccontare storie” al suo nucleo minimo. Che cos’è una

storia? È un collegamento tra fatti antecedenti e conseguenti. Per gli antichi era una

specie di effetto ottico, definito post hoc propter hoc, per cui ciò che viene prima in un

Page 2: Gianni Celati - Lo Spirito Della Novella

racconto ci dà l’impressione d’essere la causa di ciò che viene dopo, anche, se non si

tratta d’una conseguenza logica. Tutto il narrare è un gioco di effetti illusori. Ma come

si produce l’effetto che una storia debba concludersi in punto preciso? L’interruzione

non è una conclusione. La conclusione giustifica il racconto, perché è il momento in cui

l’ascoltatore vede o crede di vedere il significato o la morale della storia. Nei ritagli nel

Novellino il modo usuale è quello di concludere la novella con un motto o con una

risposta arguta che risolve un contrasto. Anche dove si tratta di ritagli da romanzi noti,

come nella novellina LXV, che riassume un episodio del Roman de Tristan di Béroul, la

conclusione cade dove si ricompone un conflitto – e in questo caso si tratta del

conflitto tra Tristano e re Marco, ricomposto grazie ad un “savio avedimento”

(sotterfugio). La nota finale sul “savio avedimento”, che è l’inganno della regina Isotta

per nascondere al marito il proprio adulterio con Tristano, funge da morale e da

insegnamento. In questo senso produce l’effetto illusorio d’una conclusione.

3. Miniaturizzazione e fasto rituale.

Il carattere esemplare del Novellino sta in una fine arte del racconto scritto: arte del

ritaglio e della miniaturizzazione di episodi già narrati nei libri. Questi sono spunti che

(come dice il prologo) il lettore di “cuore nobile e intelligenzia sottile” può usare per

farne a sua volta dei racconti offerti a chi desidera istruirsi. Il fasto rituale delle

novellette sta in questo “sapere” racchiuso nell’involucro del “bel parlare”, come un

monile o un anello che racchiuda un motto sapienziale. La miniaturizzazione dei

racconti consiste nella loro brevità, che racchiude i “fiori del parlare”, le “belle

risposte” e le “cortesie” vantate nel prologo. Ecco il senso della riduzione d’ogni

frammento libresco a un nucleo minimo di parole, quelle strettamente necessarie per

creare l’effetto del racconto concluso. In alcuni casi basta addirittura una frase a far

tutto, come a esempio nella novella XVII: “Pietro tavoliere [mercante], fu grande uomo

d’avere [fu uomo molto ricco], e venne tanto misericordioso [e divenne così

caritatevole] che ‘mprima tutto l’avere dispese a’ poveri di Dio [che dapprima diede

tutte le sue ricchezze ai poveri], e poi, quando tutto ebbe dato, et elli si fece vendere

[dopo aver tutto dato, si mise in vendita come schiavo], e ‘l prezzo diede ai poveri

tutto” [e diede il ricavato ai poveri]. La consecuzione dei fatti qui culmina in ciò che

noi chiameremmo un colmo, il “più di così non si può”, ossia un comportamento

impensato o impensabile – il mercante che vende perfino se stesso per dare il

guadagno ai poveri. Il che fa l’effetto d’una conclusione, perché è come se il pensiero

non potesse procedere oltre e dovesse fermarsi a riflettere. Questo è un modo di

usare e incanalare sparsi pezzi di racconto, mescolando motivi che vengono da fonti

diverse, come succederà spesso nelle future novelle. Altrove può trattarsi d’un

paradosso, d’una burla, d’un inganno; ma l’arte novellistica dell’effetto conclusivo

tocca sempre qualcosa che dà l'idea dell’eccesso, del colmo, dell’imparagonabile, e

che ci lascia sospesi in uno stato di stupore o di meraviglia.

4. Un genere ibrido e anomalo.

Page 3: Gianni Celati - Lo Spirito Della Novella

Quando andavo a scuola io, tutta la novellistica italiana si riassumeva nel

Decamerone; ma il Decamerone non era studiato come l’esempio d’un genere

narrativo, bensì solo come l’opera di Boccaccio. L’abitudine di studiare i testi letterari

solo in quanto opere di autori illustri ha oscurato per secoli la tradizione della novella.

Soltanto nell’ultimo secolo sono diventate facilmente accessibili le raccolte di

Sacchetti, Masuccio, Sermini, Sercambi, Fortini, Straparola Grazzini e altri. Con questo

allargamento d’orizzonte si è cominciato a vedere come i narratori abbiano

abbandonato lo schematismo dei vecchi racconti morali, dando più peso ai dettagli,

alle figure dei personaggi, alle tonalità della lingua secondo i tipi di racconto. Si

intuisce anche l’esistenza d’un diffuso collezionismo dei motivi narrabili, legato

all’abitudine di scambiarsi aneddoti e storie: usanza innestata sulle pratiche della

conversazione quotidiana, che diventano la componente centrale di questo nuovo

sistema narrativo. Sulla scia del Decamerone e del Trecentonovelle di Sacchetti, la

novella fiorisce come genere prevalentemente toscano, ma anche ibrido e anomalo.

Infatti è una narrativa dove non c’è una netta separazione tra tragico e comico, tra

tono maggiore e tono minore, tra gioco immaginativo e verosimiglianza. Una novella

poteva essere fiaba, leggenda, burla, motto celebre, cronaca cittadina, tragedia

storica, avventura in terre lontane, oppure l’esempio morale nelle prediche di San

Bernardino o le facezie del Piovano Arlotto. Rispetto ai generi letterari affermati, si può

dire che fino al Cinquecento la novella non rappresenti un vero genere letterario

(nonostante la grande fama goduta da Boccaccio), ma il semplice riaffiorare d’una

usanza cittadina o borghigiana: lo scambio di storie, favole, facezie giunte all’orecchio,

trattenimento spicciolo, chiacchiera conviviale ma anche recita da strada, come

esisteva per le strade di Roma ai tempi di Plinio, e come esiste ancora in vari angoli

del mondo. Tutto questo ha reso la novella un genere un po’ equivoco, poco

riconoscibile, soprattutto fuori dalla Toscana. Ed è interessante che, nella sua Piazza

universale di tutte le professioni del mondo (1585), Tomaso Garzoni accenni solo di

sfuggita al mestiere del novellieri, nel Discorso L, e li identifichi con gli inventori di

burle (“burlieri”), dunque mettendo Boccaccio in compagnia dei buffoni di corte. Poi

nel famoso Discorso CIV, dedicato ai ciarlatani di piazza, Garzoni non nasconde la sua

schietta opinione su cosa fosse il novellare: un puro imbroglio e abbaglio delle parole.

“Qui si tesse la favola… Il plebeo s’arriccia, il villano stremisce alla novella che vien

raccontata...”

5. Circolazione fuori dai libri.

In realtà la novella non s’è mai staccata del tutto dallo sfondo in cui Garzoni la colloca,

vuoi come burla depositata nelle carte, fola o diceria da pubblica piazza,

intrattenimento di corte, o recita in raduni conviviali come quelli evocati in molte

raccolte novellistiche. Rispetto ai generi di maggior prestigio, come il poema epico, la

lirica e l’oratoria, la novella si distingue per quest’altro tipo di circolazione, non chiuso

negli spazi della pagina scritta. Si sa di novelle di Sacchetti raccontate fino a pochi

anni fa nelle campagne toscane. Una rara scena in ambito popolare è descritta in una

Page 4: Gianni Celati - Lo Spirito Della Novella

lettera di Andrea Calmo, commediografo, poeta e attore veneziano, morto nel 1571.

Parla dell’ascolto di novelle in una taverna veneta, attorno a narratori con repertori di

storie in voga, i quali raccontano: “le più stupende panzane, stampie e immaginative

[le più stupende panzane, stramberie e invenzioni] del mondo, de comare oca, del

fraibolan [del pifferaio], del osel bel verde [dell’uccellin bel verde], de statua de legno

[della statua di legno], de bossolo de le fade [del bossolo delle fate], d’i porceleti [dei

porcellini], de l’asino che adete romito [dell’asino che si fece romito], del sorze che

andete in pelegrinazo [del sorcio ch’andò in pellegrinaggio], del lovo che se fiese

miedigo [del lupo che si fece medico], e tante fanfalughe che non bisogna dir [e tante

fanfaluche che non è il caso di dire] ” (Lettere, libro IV, 42). Si riconoscono in questo

repertorio varie storie che gireranno in tutta Europa, cominciando da quella di Comare

l’Oca, che darà il titolo alla raccolta favolistica di Perrault, Les Contes de Ma Mère

l’Oye (1687). Simili usanze di racconti in comitiva accompagnano tutta la tradizione

della novella, negli intrattenimenti campestri, di stalla o di cortile, con repertori di

fiabe, storie di meraviglie e aneddoti buffi: in Rome, Naples et Florence, nel 1826,

Stendhal registra simili narrazioni in ambito popolare; e dice che arrivando una sera a

Calstelfiorentino, ha trovato una “compagnia di braccianti [che] improvvisavano,

ognuno al suo turno, racconti in prosa d’un genere come quello delle mille e una

notte”. E aggiunge: “Ho passato una serata deliziosa, dalle sette a mezzanotte,

ascoltando quei racconti [dove] il meraviglioso più stravagante crea avventure che

portano a sviluppare le passioni più vere e più impreviste”. Ancora mia madre da

bambina ascoltava fiabe e novelle su streghe e banditi, nelle riunioni di stalla in una

sperduta località sulle foci del Po. Tutto questo ci rimanda ad abitudini che arrivano

quasi fino a noi, come pratiche di conversazione e di intrattenimento, fuori dalla

testualità fissa dei libri.

6. Giochi di variazioni.

Il carattere misto dei materiali novellistici, senza limiti precisi tra la forma scritta e

orale, è stata la grande spinta vitale della novella; perché attraverso i motivi narrabili

che passavano da un narratore all’altro senza nessuna sorveglianza nascevano

variazioni imprevedibili. Un motivo novellistico tra i più diffusi è quello della donna

malmaritata. con marito stupido e geloso, la quale risolve la situazione accoppiandosi

con un amante simpatico. Questo tema trova una notevole variante in una novella di

Sermini, dove la donna per sottrarsi al marito beve una pozione che la fa sembrare

morta (Novelle, 1). Qualche decennio più tardi ritroviamo il motivo della pozione in una

novella di Masuccio, ma applicata a un altro tema diffuso, quello dei due innamorati

ostacolati dalle famiglie (Novellino, 33). Nel secolo seguente il racconto è rielaborato

da Luigi Da Porto, nella lunga novella di Giulietta e Romeo (Storia di due nobili

amanti): novella poi ripresa da Bandello (Novelle, II, 9), per finire attraverso altri

passaggi nella mani di Shakespeare. L’esempio mostra come un motivo narrabile si ri-

orienti di continuo, perché il fatto stesso di circolare lo traduce in una serie di

variazioni di cui non conosciamo i margini precisi – infatti niente ci assicura che non ci

Page 5: Gianni Celati - Lo Spirito Della Novella

fossero versioni orali con orientamenti ancora diversi, rispetto a quelli noti. Tutto

questo è lontano dal nostro modo di pensare, perché per noi ogni racconto

corrisponde necessariamente ad un testo unico, chiuso entro i limiti dello spazio

scritto. La novella invece si dichiara sempre come racconto d’un racconto, udito dal

narratore che lo ripete per noi. Questa è la differenza della novella rispetto ai racconti

moderni: nella novella non esiste l’idea del racconto originale, il racconto d’autore

come lo intendiamo ora, bensì quella d‘una ripetizione con continue varianti. Ed è

come in musica: un motivo implica sempre certe variazioni secondo lo stile di chi lo

esegue. Viceversa, i racconti moderni sono concepiti come parte di una testualità

fissa, in cui parrebbe che la lingua si fosse già tutta oggettivata e purificata nella

scrittura. Il risultato è un narrare chiuso, come immunizzato e sottratto

all’incontrollabile circolazione delle parole.

7. La compagnia d’ascolto.

Sulla scia del Decamerone e del Trecentonovelle, scrivere novelle è diventato un

passatempo privato, borghese, con tratti già stereotipati, sintassi modesta, ancoraggio

nel sentito dire locale. Ma anche in queste novelle si mantiene il senso e la forma del

racconto orale, dove chi narra si rivolge agli ascoltatori per mettere in comune la

storia che racconterà, come in una presupposta convergenza di gusti. Cito un attacco

di Sermini: “…perché non passi senza alcuna memoria, una piacevole novelletta alle

mie orecchie venuta, mi piace narrarvi” (Novelle, 1). È questo che distingue la novella

dal racconto storico: non una testimonianza sui fatti narrati, quanto una compagnia

d’ascolto che testimonia (“in effige”, per così dire) una comunanza di gusti e di

abitudini. Ecco un attacco di Sercambi: “Piacevoli donne, e voi altri, venerabili

persone, a me occorse in nella mente una novella la quale a vostro contentamento

dirò” (Novelle, 8). La compagnia di ascolto è parte stabile della cornice del

Decamerone, dove un gruppo di giovanotti e donzelle si scambiano racconti. Anzi, si

può dire che la novella nella sua forma più tipica sia precisamente questo: la messa in

scena d’uno scambio di racconti, con un appello agli ascoltatori, come richiamo

all’essenza dialogica del novellare: “Piacevoli donne e voi graziosi gioveni, fu, non è

ancor molto, in una nostra villa non guari lontana dalla città..." (Fortini, Notti, I). E

questa diventa una specie di segnatura che marca la tradizione più tipica della

novella, basata su dialoghi, pratiche di conversazione e scambi da narratore a

narratore.

8. Novelle e pratiche di conversazione

Nell’anonimo Novellino duecentesco si legge che il libro tratta di “fiori del parlare, di

belle cortesie e belle risposte”. La novella nasce come sviluppo di cerimonie cortesi ed

è largamente modellata sui modi del dialogo nei testi medievali. Boccaccio ha

elaborato quei cerimoniali con la cornice in cui sono incassati i racconti: ossia la storia

di sette donzelle e tre giovani fiorentini che vanno in campagna per sfuggire alla peste

Page 6: Gianni Celati - Lo Spirito Della Novella

e si raccontano novelle a turno per dieci giorni. Quella è la compagnia d’ascolto, da cui

si sviluppano dialoghi e commenti alle storie narrate; e che ci dà il senso d’entrare in

un luogo di amichevoli conversarî, dove il dialogo cortese si mescola alla

conversazione urbana, arguta, libera da censure dogmatiche. L’innovazione di

Boccaccio sta nell’usare gli schemi di conversazione per amalgamare materiali

narrativi eterogenei sul filo del discorso. E come avviene nelle conversazioni, anche

qui ognuno ha un turno di parola per raccontare una storia; poi ogni storia fa venire in

mente qualcosa di simile a un altro narratore e si creano catene di storie su temi

simili. Dopo Boccaccio, è Masuccio Salernitano che porta l’impianto conversativo delle

novelle alla forma più stilizzata. Il suo Novellino distingue le fasi del turno di parola,

dividendole in un esordio sotto forma di presentazione oratoria della novella per

definirne il tema o lo scopo morale, in una narrazione e infine in un commento

conclusivo dell’autore. È un modo per presentare gli schemi di conversazione come un

cerimoniale, con cui la merce pregiata dei racconti trova un fasto che li esalta,

portandoli all’altezza dei romanzi cortesi, con racconti che sembrano imitare le

illustrazioni miniate di quei libri. E già nel prologo, detto Parlamento de lo autore al

libro suo, l’immagine del libro di novelle come una nave incantata ricorda la nef de joie

e de deport dei romanzi arturiani, scena d’una conversazione favolosa su temi

d’amore e di svago.

9. Shahrazad

Nelle novelle di Sacchetti non esiste la messinscena della compagnia di narratori-

ascoltatori, né la presentazione oratoria delle novelle per annunciare il loro tema. Il

Trecentonovelle si regge sui modi elementari della ricreazione comica, che servono a

far svaporare le disgrazie individuali nelle risate collettive. L’istinto narrativo di

Sacchetti segue modi mimici ritmi a scansioni rapide, orecchiati sul dialogo familiare,

sul litigio comico, dove tutto torna sempre al grembo comunitario, alle chiacchiere del

sentito dire locale. La festa qui è soltanto sospensione del lavoro, momento di riposo

ascoltando racconti. L’elaborata messinscena di Boccaccio ha già perso contatto con

questi modi semplici di ricreazione, e per quanto il Decamerone preceda il

Trecentonovelle di circa 30 anni, sembra già proiettato in un’altra era. È la differenza

tra il narratore paesano e un nuovo narratore che si richiama all’esperienza allargata

dei viaggi e dei commerci e dei racconti venuti da lontano. In generale si sa poco di

come siano giunti in Europa molti esempi di novellistica orientale, dai tempi delle

crociate e poi per vari secoli, presumibilmente per via orale e attraverso viaggiatori

veneziani (F. Gabrieli, Dal mondo dell’Islam, 1954). Comunque, la cornice del

Decamerone, con la compagnia di narratori che si scambiano storie, deriva da un

imprestito venuto dall’oriente: ed è un modulo della novellistica arabo-persiana che

sarà conosciuto in Europa solo quattro secoli dopo, con la prima traduzione delle Mille

e una notte, realizzata da Antoine Galland. Nelle Mille e una notte lo scambio di storie

avviene tra Shahrazad, sua sorella Dinarzade e il sultano Schahriar. Ogni notte

Dinarzade sveglia Shahrazad invitandola a raccontare storie fino all’alba; e

Page 7: Gianni Celati - Lo Spirito Della Novella

Scherazade racconta storie che destano la curiosità nel sultano, in modo da poter

riprenderle la notte successiva, e poi di notte in notte - così sfuggendo alla morte che

la aspetta secondo il decreto di Schahriar. Se Shahrazad narrando inganna il sultano e

sospende la propria condanna, i narratori di Boccaccio ingannano il tempo in epoca di

peste, e sospendono l’incombenza della morte. Nei due casi c’è uno schema comune,

dove i racconti si propongono come una sospensione dell’incombenza del tempo che

ci porta verso la morte o le disgrazie della vita; e così i racconti prendono il senso d’un

incantamento in cui gli uomini dimenticano tutto il resto. Nella storia di Shahrazad

ogni racconto è un inganno; nessuno è al servizio d’una verità: tutti servono solo per

sospendere il tempo di vita, di novella in novella, di giorno in giorno.

10. Sul tempo sospeso del narrare.

Le novelle iniziavano sempre con tempi indefiniti come l’imperfetto, che è una

temporalità di scorcio, nel vago della lontananza: “Fu già in Siena uno dipintore, che

avea nome Mino, il quale avea una sua donna assai vana…” (Sacchetti,

Trecentonovelle, 84). E' la forma più antica di racconto, ed è il tipico attacco delle

fiabe: “C’era una volta…” L’imperfetto sospende tutto nell’atto del dire, del narrare, ed

è questo che produce un alone immaginativo nelle parole; una specie di in illo tempore

come quello dei racconti mitici. Le novelle passano ai tempi puntuali quando si tratta

d’un fatto che rompe un tran tran consueto: “Avvenne un giorno che…” Ma anche le

vicende intermedie hanno una temporalità di scorcio, finché si arriva al punto

memorabile della storia. Questo è sempre presentato con un tempo puntuale, il

passato remoto, passato assoluto che accentua la tensione del racconto. Andreuccio

da Perugia, ingannato dalla Siciliana, caduto nella discarica di escrementi, si ritrova di

notte nel vicolo e “cominciò a batter l’uscio e gridare; e tanto fece così che molti

circostanti vicini desti, si levarono.”(Dec. II, 5). Con questo tempo verbale il racconto

diventa più teso; ma è una scena dove niente è spiegato, niente descritto; l’azione in

corso è appena accennata; e qui “immaginare” vuol dire più che altro riconoscere un

movimento di ombre verso cui la nostra attenzione è attratta, e con cui si produce una

sospensione più netta del tempo vissuto – dove il telefono non suona più per noi, e

rumori del traffico nella strada accanto non arrivano più al nostro orecchio. Altro

esempio: la scena dove Nastagio degli Onesti vede sopraggiungere la donna ignuda

attaccata dai cani e dal cavaliere nero nella pineta di Ravenna (Decamerone, V,8):

quella pineta è un “là” ipotetico che ci costringe a uno sforzo immaginativo per

figurarci l’improvviso confluire dell’aldilà e della vita terrena in un’unica scena. Non

c’è nessuna descrizione d’ambiente; c’è solo lo slancio del dire, del narrare, che crea

una sospensione dove balenano fantasmi imprecisati, ma sufficienti per produrre

quell’altra sospensione che consiste nel dimenticare se stessi.

11. Cerimoniali introduttivi e loro inversione moderna.

Page 8: Gianni Celati - Lo Spirito Della Novella

I racconti che mirano alla sospensione del tempo hanno bisogno di cerimonie d’avvio,

con l’anda d’un bel parlare che crea l’effetto d’un tempo indefinito - non il tempo dei

fatti, ma quello del dire e del narrare. Nella novella di tipo boccaccesco, era questa la

funzione dell’esordio, sempre stilisticamente elevato, che creava l’atmosfera del

racconto: “Ornate donne e amorosi giovani, io voglio, [in] scambio di ridere, farvi con

la mia favola meravigliare” (Grazzini, Cene, 9). L’esordio serviva a mettere

l’ascoltatore al corrente del tenore della novella narrata, colmando le distanze - come

quando s’invita qualcuno a casa propria e la cerimonia dell'accoglimento abolisce

l’estraneità. Le narrative moderne aboliscono i cerimoniali e fanno un lavoro inverso:

partono da un'estraneità del lettore, che dovrà scoprire da solo di cosa si parla e cosa

succede, come se si ritrovasse di colpo in un paese sconosciuto. Ad esempio il Mastro-

don Gesualdo di Verga (1889), tra i più grandi romanzi europei del suo secolo,

comincia con il fuoco nella notte in casa Trao: le urla, il subbuglio, i vicini che

accorrono, i salvataggi. Ma noi non sappiamo chi siano questi Trao, non sappiamo

niente dell'ambiente e della storia. E' vero che poi tutto sarà chiarito, gli antecedenti

saranno dipanati; ma davanti a quell'inizio il lettore si trova come se piombasse in uno

stato d’emergenza. Non viene guidato cerimonialmente nel racconto, ma catapultato

nei fatti. L’inizio di Mastro-don Gesualdo è uno straordinario esempio di narrativa

moderna che porta in sé qualcosa vicino a una sintomatologia d’origine: quella

dell’estraneità dell’individuo moderno rispetto al proprio ambiente. In ciò si vede il

segno della vita urbana, degli individui che si sfiorano per strada in mutua lontananza,

ognuno chiuso nel proprio guscio. La situazione in cui piomba il lettore con il fuoco in

casa Trao dà subito l’idea d'una dimensione di vita dove tutti diventeranno estranei

rispetto a tutti gli altri. Premonizione formidabile sui tempi a venire, fino all'immagine

di don Gesualdo solo nella sua stanza, malato, isolato, che ascolta da lontano le voci

del mondo.

12. Il sapore dei fatti oggettivi.

Nella narrativa che sorge alla fine del XIX secolo, i romanzi e racconti debbono

impostare la narrazione su valori di verità relativi alla vita corrente; e non può più

esserci la sospensione nel tempo indefinito del narrare come nelle forme narrative

antiche (“C’era una volta”, “Narrasi”). Caratteristico delle nuove forme è l’uso del

linguaggio come serie di didascalie sceniche (“Egli disse”, “Essa si voltò e rispose”,

“Giovanni ebbe un sussulto e si destò” ), dove i fatti non sono più lasciati nella

vaghezza immaginativa, ma affidati a una descrizione puntuale, nella distanza del

vedere. Cito l’inizio d’un romanzo di Maupassant, Bel Ami (1885): “Quando la cassiera

gli ebbe dato il resto della moneta da cento soldi, Georges Duroy uscì dal ristorante”.

Tutto è posto subito nella distanza del vedere, come indicazione dell’oggettività

impersonale dei fatti. I fatti si svolgono su un piano di fondo senza contatto con chi

legge; senza il “qui” immaginoso dove in un romanzo di Balzac o Stendhal il narratore

confidava al lettore i suoi commenti, a mo’ di divagazione. Ora non ci sono più

commenti né divagazioni. Subito tutto assume il sapore di estraneità dei fatti

Page 9: Gianni Celati - Lo Spirito Della Novella

“oggettivi”. Ciò dipende molto dall’uso sistematico del passato remoto, che essendo

un tempo puntuale presenta i fatti come avvenuti in un luogo e in un momento precisi;

dunque fa sì che tutte le frasi diventino asserzioni assolute. Ed è come quando

Cartesio dice che posso concepire l’idea di triangolo senza il contributo dei sensi. Sì, io

intuisco l’idea di triangolo perché lui mi dice come è fatto, e posso ricostruirmelo in

mente. Così mi ricostruisco in mente questa scena. Il mondo è diventato un fatto

oggettivo là davanti ai miei occhi. Bene, non c’è più bisogno di immaginarsi niente.

Dice Cartesio: “le favole fanno immaginare molti avvenimenti come possibili, che non

lo sono affatto” (Discours de la méthode, I). L’immaginazione è la causa prima

dell’inganno dei racconti, questo si sa.

13. Trame novellistiche.

Due cose adunano lo sparso mondo delle novelle, facendone una narrativa senza

precedenti: il Decamerone, lettura di riferimento per più di tre secoli, e la passione del

dialogo e dello scambio, propria d’una classe dedita agli scambi, quella dei mercanti.

Protagonisti di centinaia di novelle, i mercanti sono una razza di gente pratica, pronta

a tutti gli incontri, che sa aderire all’eterogenea sostanza del mondo. “Conviene nella

moltitudine delle cose, diverse qualità di cose trovarsi”, dice Boccaccio a conclusione

del Decamerone. È il principio dell’ibridismo novellistico, e va assieme a un’idea della

vita terrena come variabilità e mutevolezza, che richiede perpetui adattamenti,

negoziati e scambi. Questo si applica alle trame novellistiche, dove la sorpresa viene

dall’eterogeneità degli incontri e casi, che producono continui ribaltamenti delle

situazioni. Lo schema elementare nelle favole e novelle consiste nel porre una

situazione e ribaltarla. Poi possono esserci due ribaltamenti, in andata e in ritorno,

come nella novella di Andreuccio, che va a Napoli per affari; è truffato dalla Siciliana,

perde i soldi; ma nell’avventura notturna trova l’anello dell’arcivescovo, recupera i

soldi e torna a casa ricco. Possono esserci ribaltamenti plurimi: Landolfo Rufolo, ricco

mercante, parte per fare affari, questi vanno male; allora lui si fa corsaro; di nuovo

ricco; catturato dai genovesi, di nuovo in disgrazia; ma la nave fa naufragio; lui si

trova a galleggiare su una cassa di gioielli, di nuovo ricco (Dec. II, 4). Può esserci il

ribaltamento paradossale: Ser Ciappelletto, ateo, ladro, sodomita, bugiardo, alla fine

fatto santo (Decamerone, I, 1). L’eterogeneità dei casi si coniuga con una ontologia del

mutevole, cioè con l’idea d’una perpetua instabilità negli stati di cose. “Considero le

cose di questo mondo non avere stabilità alcuna, ma essere sempre in mutamento”

(Decamerone, Conclusione). Questa concezione è la molla di tutti gli alti e bassi che

animano le trame novellistiche. La minaccia del mutevole incombe sulle ricchezze,

sugli amori, sugli affari, ed è personificata dalla figura mitologica della Fortuna: “Ma la

fortuna, nemica de’ beni umani, disturbatrice dei piaceri terreni, contraria alle voglie

dei mortali…” (Grazzini, Cene, II, 6). Al centro di questo universo sempre in altalena,

c’è il simbolo della Ruota del Tempo, dove ciò che è in alto è destinato a cadere in

basso, e viceversa: “Mirabile certamente è la instabil varietà del corso della nostra vita

[… ] Vedrai oggi uno nel colmo innalzato d’ogni buona ventura, che dimane troverai

Page 10: Gianni Celati - Lo Spirito Della Novella

caduto con rovina ne l’abisso delle estreme miserie” (Bandello, Novelle, III. 68).

Questo è un mondo dove, nell’eterogeneo flusso di situazioni e casi disparati

(“l’instabil varietà”, dice Bandello), niente è mai del tutto in salvo; dunque un mondo

con un alto tasso di imprevedibile. Il che ha una conseguenza sulle trame: quella degli

effetti di meraviglia, prodotti dai prodigi, dalla violenza o dalle stranezze del fato.

14. Effetti di meraviglia.

Le sorprese con meraviglia sono punti con un tacito risvolto numinoso, come paradossi

della sorte, esempi dell’instabile Ruota del Tempo che porta con sé l’impensato o

l’impensabile. In una novella alla quarta giornata del Decamerone, c’è la ragazza

Isabetta innamorata del suo Lorenzo. Poi i suoi fratelli glielo uccidono, allora lei prende

la testa di Lorenzo e la mette in un vaso assieme a una pianta di basilico, pianta che

ogni giorno irrora con le sue lacrime. Dopo di che: “Il basilico divenne bellissimo e

odorifero molto” E’ un passaggio che ricorda i crolli patologici con fissazioni ossessive,

ma anche le forme di destino tragico con metamorfosi nei miti greci: come il destino di

Dafne, di Progne e Filomela, che l’eccesso del soffrire trasforma in un lauro, in una

rondine e in un usignolo. Simile è la metamorfosi dove Isabetta, da normale ragazza

innamorata si trasforma in un mostro del dolore; dopo di che fa fiorire il basilico con le

sue lacrime. Altro eccesso del soffrire che produce una mutazione naturale impensata.

La meraviglia riflette un colmo emozionale, un traboccamento verso la dismisura,

verso la soglia del non umano o d’una follia arcaica, con il senso dell’uomo travolto

dalla violenza inconsulta del fato. L’effetto di meraviglia esiste anche sul versante

comico. La prima novella del Decamerone, quella su Ser Ciappelletto, concentra il

gioco delle sorprese precisamente su un effetto di meraviglia. Le attese dipendono

dalla presentazione di Ser Ciappelletto come bugiardo, ateo, falsario, ladro,

bestemmiatore, assassino e sodomita; mentre la sorpresa spunta a metà racconto,

nella sua confessione col frate, dove il suddetto si spaccia per ferventissimo credente.

Questo diventa poco a poco un punto d'eccesso, perchè ad ogni battuta di Ser

Ciappelletto si va oltre tutte le aspettative, e ogni volta spalanchiamo gli occhi per il

crescendo delle sue invenzioni da falsario, fin quando sappiamo che è diventato un

santo del luogo. E’ il colmo che un tipo come lui sia canonizzato come santo, ed è un

punto d'eccesso paradossale che corrisponde sul lato comico all’eccesso del dolore di

Isabetta. Le sorprese con meraviglia hanno questo tacito risvolto: come mutazioni

paradossali che portano verso un divenire impensato o impensabile. La novella non

sorprende con i fatti narrati ma con le metamorfosi dell'impensato. Ricordo quella

novella di Basile, nella prima giornata del Cunto de li cunti, dove la moglie del re

riesce a ingravidarsi con una pozione magica, ma per i fumi della pozione si ingravida

anche la serva, e si ingravidano perfino i mobili, i tavoli, gli armadi, che partoriscono

degli armadietti e dei tavolini. Questa mi sembra la sintesi paradossale degli effetti

impensati di meraviglia, una tendenza al metamorfismo generale.

15. Il narrare festivo.

Page 11: Gianni Celati - Lo Spirito Della Novella

Quando si legge Boccaccio, Sacchetti, Masuccio, Grazzini, Fortini o Basile, a ogni

novella si ha il senso che raccontare sia una festa. L’estro ameno dei nostri novellatori

era legato a raduni di allegre brigate, e buttava sempre in giochi di stravaganza,

d’oscenità, o nelle burle crudeli di Grazzini o nel capriccio delle parole che fanno una

danza come in Basile. L’esaltazione novellistica non è pensabile se non come evento

festivo che sospende le usanze pratiche della vita quotidiana, e raduna una

compagnia in un luogo di lieti conversarî, dove si consuma cibo e parole e ricchezza. Il

tema privilegiato era sempre nel segno d’una burla, con virtuosismi immaginativi che

rendono memorabili certi giochi del “far credere”, ingannare, turlupinare mariti gelosi,

menar per il naso gli stolti, creare sotterfugi, travisare una cosa per l’altra. Le

metamorfosi dell’inganno sono al centro dell’invenzione novellistica, con punte

ineguagliabili come quella di Ser Ciappelletto che diventa santo a forza di frottole, o

del Grasso Legnaiolo, a cui riescono a far credere d’essere diventato il compare

Matteo. Tutto ciò porta con sé un’ebbrezza, uno stato esilarante: come se il novellare

fosse un uso benefico e purgativo dell’umana propensione alla credulità, all’imbecillità

- a illudersi, ingannarsi, allucinare una cosa per l’altra. Il brio narrativo vive di questi

giochi illusori, sprechi di parole, ghiribizzi e stravaganze che sospendono ogni serietà

dei discorsi, ogni serio proposito per la vita. Nello stesso tempo la licenza festiva della

novella ha un’aria di fronda, come sfida ai “barbagianni” (categoria indicata nel

Pecorone di Giovanni Fiorentino), agli ottusi, ai gretti, ai bigotti. Di più: narratore e

ascoltatore sembrano già da sempre uniti dal gusto dei sottintesi e delle facezie, che

implicano un’apertura mentale, una sottigliezza ironica, un’indipendenza di testa.

16. Lo spirito della novella.

Lo spirito della novella è lo spirito della beffa, e la beffa, la burla, l’inganno sono

innanzi tutto racconti per corbellare qualcuno. Calandrino è la figura boccaccesca del

corbellato per eccellenza, e appena sente dire che nel paese di Bengodi v’è una

montagna di parmigiano e un fiume di vernaccia, è subito preso all’amo dalle parole.

Poi va in cerca della pietra che rende invisibili, con i suoi soci beffardi Bruno e

Buffalmacco, i quali fingono di non vederlo più; sicché lui, credendosi invisibile,

quando torna a casa e s’accorge che sua moglie lo vede benissimo, la vuole

ammazzare di botte perché crede gli abbia rovinato la magia (Decamerone, VIII, 3). Il

centro di questi racconti è l’eccesso di stupidità, che si porta dietro la profanazione

comica di ciò che la stupidità accetta supinamente. Ad esempio: Puccio, a forza di

sentir prediche, vuole diventare santo; al che un monaco promette di aiutarlo e gli

prescrive certe penitenze, dove Puccio si consuma in digiuni, mentre il monaco in

un’altra stanza prende piacere con sua moglie (Decamerone, III, 4). Lo spirito della

novella è uno scetticismo fantasioso che ci illumina su un generale inganno: l’inganno

delle parole per spacciare come dogmi le rimasticature di ciarle, i castelli di panzane, i

panegirici di frottole, le prediche dei preti per inebetire le folle o le invenzioni dei frati

per sfogare le voglie carnali. Ed ecco una storia su questi temi: un abate convince

Ferondo di esser morto e già arrivato in purgatorio, dove lo trattiene per un po’ con

Page 12: Gianni Celati - Lo Spirito Della Novella

belle invenzioni, per godersi intanto sua moglie. Quando poi Ferondo miracolosamente

resuscita, va in giro a raccontar alla gente “novelle sulle anime dei loro parenti” e “le

più belle favole del mondo de’ fatti del purgatorio”, e “la rivelazione statagli fatta per

la bocca del Ragnolo Braghiello [L’angiolo Gabriello]” (Decamerone, III, 8). Sono

esempi di inganni delle parole, dove non c’è più divario tra ingannatore e ingannato: le

fole dell’uno producono le panzane dell’altro, e tutto scivola nella generale tendenza

degli uomini ad essere presi all’amo dalle chiacchiere. Questa vertigine generalizzata

produce mostri, perchè il mondo così pesantemente inquadrato dalle ciarle è simile a

quello di Ferondo quando parla del purgatorio, e ogni ciarla diventa un raggiro del

proprio simile, rintontito dalle parole.

17. Uomini, dementi e bestie.

Nel Decamerone una buona metà delle novelle parla di inganni, raggiri, eccessi di

stupidità, effetti comici delle burle. Questa è materia privilegiata di racconto, quasi

l’immaginario allo stato puro, paragonabile solo a quello dei poemi cavallereschi,

come volo di testa. Ma la massa dei creduli e ottusi che popolano queste novelle fa

anche pensare a uno stato di idiozia diffusa nell’umanità. Dante parlava della “mente”

come parte superiore dell’anima, dove si colloca la virtù intellettiva; e diceva che molti

paiono essere del tutto privi di tale facoltà, perciò sono chiamati “amenti e dementi”

(Convivio, III, ii, 19). Va anche ricordata la novella boccacesca su Guido Cavalcanti, il

quale, trovandosi un giorno presso una chiesa dove sono delle arche sepolcrali,

accerchiato da una banda d’amici intenzionati a trascinarlo con loro, risponde: “Voi mi

potete dire a casa vostra ciò che vi piace”. Poi, con un salto da “uomo leggerissimo”,

scavalca l’arca e se ne va. La sua battuta viene spiegata dal capo brigata così: egli ha

voluto dire che “noi e gli altri uomini idioti e non letterati siamo, a comparazione di lui

e degli altri uomini scienziati, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo [presso

le arche sepolcrali], siamo a casa nostra” (Decamerone,VI, 9). La nozione di “uomini

morti” è simile a quella di Dante, il quale, parlando di chi non segue nessuno studio o

disciplina, diceva: “è morto [come uomo] ed è rimasto bestia” (Convivio, IV, vii, 14). La

battuta ha senso anche in rapporto alla filosofia averroista di cui Guido è stato

studioso, e dove uno dei punti critici era la proposizione “Homo non intelligit” – da

intendere: chi comprende non è il singolo, ma l’intelletto generale che raduna tutti gli

uomini. Ciò implica che dove non vi sia uno sviluppo mentale per risalire dai propri

fantasmi immaginativi alle forme dell’intelletto generale, l’uomo resta un “uomo

materiale”, “semplice” o “grosso”, come si diceva nelle novelle. Dai “dementi” di

Dante agli “uomini morti” di Guido c’è la linea d’un dubbio sulle facoltà umane, che

tocca una vasta zona del pensiero d’epoca. È anche il senso riposto delle beffe: come

è possibile che un Calandrino sia detto uomo razionale? Lo spirito della novella ha

l’aria d’un umanesimo ribaltato, che anziché convincerci che umanità e razionalità

sono la stessa cosa, ci mette nella posizione di cogliere la formula della loro massima

distanza (“Homo non intelligit”).

Page 13: Gianni Celati - Lo Spirito Della Novella

18. Comica di Ganfo pellicciaio.

La figura comica più proverbiale nella storia della novella è Calandrino: “uom

semplice”, con una “semplicità” da cui da cui Bruno e Buffalmacco “gran festa

prendevano”. Il semplice deriva dalla figura evangelica dei poveri di spirito destinati al

regno dei cieli, ma qui assume il ruolo di zimbello degli uomini di mente sottile. Sullo

sfondo di queste implicazioni, si profila una strana novella di Sercambi – quella su

Ganfo pellicciaio,“omo materiale e grosso di pasta”, altro semplice tra i più memorabili

(Novelle, 2). Dunque Ganfo va ai Bagni di Lucca per curarsi; ma quando deve entrare

in acqua e vede tante persone, si chiede: “Tra tanti, come farò a riconoscermi?” Allora

si mette un segno di croce sulla spalla, ed entrato in acqua guarda il segno e si dice:

“Sì sono proprio io”. Poi però l’acqua spazza via il suo segno di croce e lo deposita su

un altro bagnante, al quale Ganfo dice: “Tu sei io e io son tu”. E l’altro per mandarlo al

diavolo gli risponde: “Va’ via, tu sei morto”. Al che Ganfo si crede morto, torna a casa,

si stende sul letto, si lascia mettere nella bara. (Ganfo è sempre come se obbedisse

agli ordini o alle ingiunzioni delle parole, prendendo tutto alla lettera). Poi, mentre lo

portano al cimitero, per strada una cliente gli manda una maledizione, perché gli

aveva portato una pelliccia da riparare e lui è morto senza restituirgliela. E Ganfo

risponde nella bara: “Se io fossi vivo come sono morto, ti risponderei come si deve”.

Racconto d‘una idiozia misteriosa e assoluta, che ricorda le comiche del cinema muto;

ma dà anche l’idea d’un paradiso dei semplici, essendo peraltro intitolato De

simplicitate. Niente qui indica che l’uomo sia uomo in quanto creatura razionale; al

contrario, c’è una viva incertezza su cosa sia la razionalità, e su quella coincidenza con

se stessi che chiamiamo “io”, nonché sui segni che ci mettiamo addosso per

distinguerci dagli gli altri – parodia dell’identità razionale che tutti perpetuiamo.

19. La novella del Grasso legnaiuolo.

Uno degli sviluppi più sintomatici delle burle novellistiche non va cercato nei testi

letterari, bensì nella voga delle beffe cittadine. Erano beffe architettate da artisti d’un

genere quasi teatrale, perché implicavano una messinscena e una recita delle parti

per ingannare la vittima designata. L’esempio più celebre è una beffa organizzata a

Firenze nell’anno 1409, architettata da Filippo Brunelleschi, con una brigata d’artisti e

artigiani fiorentini, e un vasto concorso di comparse. La beffa sarà narrata in molte

versioni, tra cui la più ampia è attribuita ad Antonio Manetti, redatta attorno al 1446, a

cui si dà il titolo di La novella del Grasso legniaiuolo. Vittima designata: “il Grasso”,

artigiano intagliatore, che “aveva un poco del semplice”. Si tratta d’una recita

collettiva per far sì che il Grasso creda d’essere diventato un tal Matteo. Dunque,

quando torna a casa alla sera, una voce che sembra la sua gli grida da dentro:

“Matteo vai via che ho da fare”. Passa un amico e lo saluta: “Buonasera Matteo”. Lui

va in piazza ed è arrestato su denuncia d’un creditore che lo identifica come Matteo. Si

chiede: “Sono forse Calandrino a esser diventato un altro senza accorgermene?” Il

Grasso vede l’ombra della beffa, ma trovando mezza città concorde nel prenderlo per

Page 14: Gianni Celati - Lo Spirito Della Novella

Matteo smette di far resistenza, per non essere trattato da scemo. Ciò non toglie che

sia travagliato dall’idea d’una possibile metamorfosi di se stesso, e che a momenti

cominci a crederci, stimolato dalle chiacchiere dei suoi persecutori. A un certo punto

gli organizzatori della beffa mandano un prete, ignaro dello scherzo, per convincere il

Grasso a smetterla di credersi il Grasso; e questo prete lo rimprovera per la sua

ostinazione, perché si fa ridere dietro come strambo. Secondo il prete la stramberia si

cura con i buoni esempi: esempi dei “valenti uomini” che con “lo scudo della

pazienza” superano ogni avversità. Qui la beffa retroagisce dalla burla al sempliciotto

alla caricatura di untuose figure delle morale: quelli che incarnano una sicura

coincidenza con sé stessi, ciò che loro chiamano coscienza - col motto incosciente di

Ganfo: “io sono proprio io”. Nella storia del Grasso c’è il senso di un’incursione da

parte dei fantasmi pubblici della morale, i fantasmi d’un “dover essere”, che

sconvolgono il luogo delle immagini della mente e vi impiantano i segni d’un ordine

coercitivo esterno. In realtà è la storia di un’incertezza fondamentale che riguarda

tutti, tra l’idea d’una coincidenza con se stessi e il senso d’una estraneità a se stessi:

incertezza disonorevole, da tenere sempre nascosta, perché somiglia alla pazzia.

20. Mariotto diventato albero.

Nella schiera dei semplici va inscritto il Mariotto di Grazzini, che faceva ridere tutti con

le sue castronerie, perché “credeva in cose tanto sciocche e goffe” da sembrare

piuttosto una bestia addomesticata che un uomo vero e proprio (Cene, II, 2). E come il

Puccio boccaccesco a forza di ascoltare i frati voleva diventare santo, così Mariotto a

forza di ascoltare prediche non vedeva l’ora di morire - perché gli era stato detto che

“questa vita non era vita, anzi una vera morte“, e invece “chi moriva, di là cominciava

a vivere una vita senza affanni”. Questo è l’avvio del racconto. Dopo di che sua moglie

si prende nel letto un amante; e i due assorti nell’acre piacere dello spasmo genitale

sono seccati dal grullo Mariotto che invoca la morte, per cui decidono di metterlo in

una bara e spedirlo al cimitero. Potrebbe essere una comica come quella di Ganfo, se

non fosse per come si risolve. Grazzini segue la filosofia boccaccesca d’un

determinismo naturale, come quello che produce l’attrazione tra i sessi. Ma in Grazzini

il determinismo tocca tutti i comportamenti umani, come esempi d’una natura

indifferente a qualsiasi ordine morale. E non ci sono santi né eroi; ci sono solo trucidi e

sciocchi; e una vita governata da scelleratezze e sordide mene Ma ecco allora che il

semplice non è più come Calandrino, un balordo marginale rispetto al saldo mondo dei

Bruno e Buffalmacco. Mariotto incarna l’essenza pura della bestialità di questo mondo,

dove niente ha la salda trama del reale, tutto pare un incubo di fantasmi posticci.

Come quando sulla via del cimitero, dopo essersi cacato addosso, lui salta fuori dalla

bara; e a quel punto si capisce che niente è controllabile, tutto svaria e tracolla

nell’insensato. L’acqua dell’Arno prende fuoco, lui resta bruciato in Arno, quasi

obbedendo a un detto popolare fiorentino; e dopo non somiglia più a un uomo, ma ad

un “ceppo di pero verde, abbronzato e arsiccio”. Proprio quella morte comica fa di lui

una figura che spicca tra tutte le maschere d’una bestialità nascosta dietro le norme

Page 15: Gianni Celati - Lo Spirito Della Novella

dei traffici quotidiani; mentre lui, fin dall’inizio vicino all’essenza della pura bestialità,

morendo regredisce a purissima materia vegetale, come quella da cui nascerà

Pinocchio. E questa mi sembra la conclusione ideale di tutte le leggende novellistiche

sull’idiozia dei “semplici”.

21. L’eredità provenzale.

Nel prologo alla prima giornata del Decamerone, Boccaccio annuncia lo scopo delle

sue cento novelle. Queste sono narrate per dare sollievo a chi ne ha bisogno, dice, ma

in particolare alle donne con amori segreti, costrette a nascondere le loro fiamme

amorose e perciò tanto più assillate dai pensieri. Che il narrare sia una cura contro le

tristezze e gli affanni è un’idea antica, che in qualche modo associava l’arte narrativa

a un sapere medico di tipo ippocratico. La novità nell’annuncio di Boccaccio sta

nell’indicare una cura non più rivolta a pratiche e usi esterni, ma alla dimensione dei

pensieri intimi e delle fantasie incontrollabili. La familiarità con tale dimensione è

attribuita soprattutto alle donne, perché più soggette alla reclusione nell’ambito

familiare. Le donne, soggette ai “comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e

de’ mariti,”, chiuse nelle loro stanze, dice l’autore, rimuginano pensieri facilmente

inclini alla malinconia, quando siano mossi o insidiati da forti desideri. Queste turbe

sono l’oggetto della cura novellistica e anche il punto d’intesa con le donne amorose a

cui il libro si rivolge. È un punto d’intesa che si colloca nella sfera intima dei fantasmi

amorosi; ciò che Dante chiama “la secretissima camera de lo cuore”: ossia l’interiorità

come luogo completamente immaginario, e proprio perciò sede di tutti i tremori ed

emozioni del corpo. Nei suoi cenni introduttivi Boccaccio sembra ripercorrere la via dei

poeti provenzali, che usavano la poesia come alleanza segreta con la donna, segno di

amori da tenere nascosti nel luogo immaginario dell’interiorità. Ed ecco le donne con

amori segreti a cui è destinato il libro, che fanno pensare a casi simili nelle storie dei

poeti provenzali, ma anche ai modi di devozione alla donna sviluppate nella lirica

italiana: modi che lo stesso Boccaccio ha ripreso ed esaltato nelle sue precedenti

opere e nei suoi versi. Così il Decamerone recupera la ricerca dei poeti provenzali,

d’un contatto tra genere maschile e femminile che non sia esteriore come quello del

matrimonio. Il mezzo di contatto per i poeti provenzali era la poesia, come alleanza

segreta e intima con la donna, e qui sono queste “cento novelle, o favole o parabole o

istorie che dire le vogliamo” – che nell’ultima pagina l’autore chiama “le mie novelle

per cacciar la malinconia delle femmine”.

22. Il piacere degli amanti.

Nella novella di Masetto da Lamporecchio, due novizie parlano dell’amore e una dice

di aver udito “che tutte le altre dolcezze del mondo sono una beffa rispetto a quella

quando la femina usa con l’uomo” (Dec. III, 1). Si capisce l’insistenza di Boccaccio

nell’evocare il piacere carnale provato dalle donne. È un richiamo alle “leggi di natura”

da cui il corpo è regolato, e all’amore come una potenza di natura che è “vano voler

Page 16: Gianni Celati - Lo Spirito Della Novella

contrastare” (Decamerone, IV, introduz.) L’amore visto come “legge di natura”

giustifica l’arbitrarietà degli impulsi sessuali, e di conseguenza giustifica anche le

mogli che sfogano quegli impulsi fuori dal matrimonio. Ad esempio, Madonna Filippa,

denunciata per adulterio, convince i giudici di non aver fatto niente di male, in base a

questo ragionamento: che lei non si è mai negata al marito, ma avendo in corpo

qualche bisogno in più, e non volendo gettarlo ai cani, le è parso giusto prendersi un

amante (Decamerone, VI, 7). In realtà, a una veduta d’insieme, parrebbe che gli sfoghi

carnali delle mogli abbiano poco sapore senza l’inganno ai mariti; perché un buon

venti per cento di novelle presentano mogli che optano per le “dilettose gioie” con

l’amante, mentre il numero di mogli non adultere è veramente minimo in tutto il libro.

Certo, la moglie che gabba il marito con una frottola mentre gode con l’amante, è un

motivo tra i più ricorrenti in tutta la nostra novellistica; ma in Boccaccio prende un

sapore diverso dal solito. Anche nei racconti più vicini alla farsa sessuale popolare, gli

amori muliebri extramatrimoniali nel Decamerone prendono il senso d’una sovranità

che si realizza tramite l’arbitrio; perché i sotterfugi, gli inganni, i nascondimenti,

realizzano l’arbitrio d’un piacere carnale senza più le sorveglianze di marito o famiglia

(Decamerone, VII, 2, 4, 9). Cito la novella di quel marito che si spaccia da confessore

per cogliere in fallo la moglie; ma la moglie gli ribalta l’inganno, lo mette dalla parte

del torto e lo tradisce a piacimento: “Per che la savia donna, quasi licenziata a’ suoi

piaceri [divenuta libera nei suoi piaceri]”, “poi più volte con lui [con l’amante] buon

tempo e lieta vita si diede” (Decamerone, VII, 5). Conclusione con una strana

leggerezza, dove l’arbitrio del piacere sembra l’adesione ad una amicizia tra i sessi

che non ha più niente di esteriore. Ci sono altre novelle che andrebbero studiate da

questo punto di vista. Il piacere degli amanti diventa una sovranità intima, sottratta

alle censure della consapevolezza, per il sotterfugio che rende segreto il loro piacere.

Come nell’esempio di Tristano e Isotta: tenuta segreta, l’amicizia tra uomo e donna si

realizza nella dimensione più immaginaria possibile, che è anche la più impenetrabile,

e perciò ha l’aspetto d’una piena sovranità. Anche questo fa parte dello spirito della

novella, come residuo d’un esperimento mentale tentato dai provenzali, di cui restano

tracce fino alla storia della Montanina di Sermini (Novelle, 1), quella di Mariotto e

Ganozza di Masuccio (Novellino, 33), di Giulietta e Romeo di Da Porto, e fino a

Shakespeare.

.23. Sull’eros nel Decamerone.

Le novelle boccacesche sfuggono a qualsiasi assegnazione morale, anche là dove

presentano modelli di comportamento esemplare. L'atto di Federigo degli Alberighi di

offrire all'amata il falcone, ultima sua risorsa, è un modello di devozione e nobiltà; ma

è anche un colmo paradossale che ci colpisce come uno strano gioco della sorte, non

come un esempio da seguire. E la silenziosa costanza di Griselda nell’obbedire alla

“matta bestialità” del marito ci lascia sbalorditi, anche ammirati, ma è un monstrum in

cui non potremo mai vedere una virtù condivisa da altri umani. In Boccaccio manca

del tutto una metafisica della virtù, sostituita da un determinismo di natura, come

Page 17: Gianni Celati - Lo Spirito Della Novella

quello che produce l’attrazione tra i sessi. Per questo l’unica vera colpa individuabile

nel Decamerone è la colpa del disamore, condannata nella novella di Nastagio degli

Onesti con una pena infernale, e in quella di Tedaldo degli Elisei con queste decise

parole: “L’usare la dimestichezza d’un uomo [per] una donna è peccato naturale”, “il

discacciarlo da malvagità di mente procede” (Decamerone, III, 7). Il naturalismo

boccaccesco si regge semplicemente sulla favola di quel tale che, vissuto sempre in

isolamento assieme a un padre ascetico, la prima volta che vede delle donne desidera

soltanto quelle, e il resto non conta più niente per lui.. Morale: “ha più forza la natura

che l’ingegno”(Decamerone, IV, introduz.). La “natura” è la potenza attrattiva tra i

sessi, come un incantesimo generale che guida le vite degli uomini. Ma questa

attrattiva non si distingue mai dal suo fondo illusorio: l’abbaglio delle apparenze, i

miraggi delle favole, i travisamenti della passione. Nell’introduzione alla quarta

giornata c’è chi deride l’autore per la sua passione per le donne, consigliandogli di

trovar del pane per risolvere quella fame, e d’andare a cercarselo nelle favole (nelle

illusioni). Al che l’autore risponde: che i poeti trovarono più risorse nelle favole che i

ricchi nei loro tesori. L’intreccio tra attrazioni dell’eros e illusioni delle favole non è

negato, bensì presentato come ciò con cui “i poeti fecero fiorire la loro età”

(riferimento ai maggiori poeti del dolce stil novo, indicati qualche pagina prima come

maestri d’amore). La novella boccaccesca crea sempre l’esaltazione narrativa con le

ombre dell’illusorio, spandendo inganni, sotterfugi, abbagli e raggiri, come quelli delle

mogli per imbrogliare i mariti; e per il resto narra semplicemente i movimenti

d’attrazione tra i sessi (solo una ventina di novelle parlano d’altro), che hanno l’aria

d’essere l’infinita ripetizione d’un gioco, o il gioco del mondo. Ed è il risultato del

naturalismo boccaccesco: se l’eros è una follia che porta a seguire un’attrazione

irresistibile attraverso le ombre di ciò che è illusorio (le ombre che avvolgono tutta la

terra come una marea, diceva Giordano Bruno), questa follia è però integrata nella

natura e nel gioco del mondo.

24. Coda.

Il Cinquecento è il secolo in cui la novella diventa un genere letterario riconosciuto, di

moda, e un genere che tutti si sentono di poter praticare - un po’ come succede col

romanzo al giorno d’oggi. Cosi diventa una forma ufficiale, ancora ibrida, ma

ufficializzata dall’uso, e con libri che stabiliscono cosa sia e come si debba scrivere

una novella. Nel 1573 è dato alle stampe un Decamerone ripulito nella lingua e nelle

parti licenziose, messo in regola secondo i canoni dei libri correnti, e secondo

un’uniformità letteraria ormai prescritta. Si capisce che la novella boccacesca è una

memoria illustre, ma con una vivacità fuori epoca, che stona con gli stili in voga. Una

cosa che si può notare negli stili dei novellieri cinque-seicenteschi, è una patina

d’indifferenza sistematica che avvolge i loro testi, rendendoli quasi tutti come

appiattiti nello stesso stampo oratorio, con una sparizione della singolarità del diverso.

Qui sto cercando d’abbozzare un panorama di fondo senza nessun valore critico, ma

che mi serve per far capire quale miracolo sia stato l’apparizione di Lo Cunto de li

Page 18: Gianni Celati - Lo Spirito Della Novella

cunti di Basile, nell’anno 1634. Lo cunto è nello stesso tempo un seguito della

tradizione boccaccesca, e la fine di questa tradizione con l’apertura verso un altro

genere – quello della fiaba. Come in nessun’altra raccolta di racconti per trecento anni,

qui si vede riapparire la festosità del narrare e l’ebbrezza dell’illusorio. E questo per un

effetto regressivo, con il ritorno a un prima della novelle, al tipo di racconto minimo e

più elementare: quello per bambini, affidato da tempo immemorabile alle nonne. Dice

una narratrice di Boccaccio: “Quando c’invecchiamo, né marito né altri ci vuol vedere,

anzi ci cacciano in cucina a dir delle favola colla gatta e noverare le pentole e le

scodelle” (Decamerone, V.10). Quel genere infimo diventa uno spettacolo di parole, un

intrattenimento senza nessuna volontà di narrare i “fatti del mondo”, e che

svuotandosi di senso prende il senso d’una parodia generale del milieu per cui è stato

confezionato. Dice Michele Rak, che le fiabe di Basile erano scritte per riempire le

conversazioni del dopo pasto, come gioco cortigiano inteso a far sorridere la smorta

nobiltà napoletana. E pensando alla storia della principessa che non riusciva a ridere,

con cui il Cunto si apre, c’è da credere che la festosità barocca fosse più o meno

arenata in simili secche. Ma la felice ebbrezza che attraversa questo libro viene da

un’altra parte; viene dal dialetto napoletano, dalla raccolta di modi di dire napoletani,

e dalla raccolta di fiabe delle nonne, per la prima volta ordinate e raccontate in modo

da farne veramente un genere. E in tutto questo fin dall’apertura si sente l’eco del

sapere di Shahrazad, il sapere del narratore-guaritore che sa tenere il tempo sospeso

con l‘artificio delle parole, allontanando di racconto in racconto l’incombenza della

morte: “L’ultima felicità dell’uomo è il sentire racconti piacevoli, perché ascoltando

cose amabili, gli affanni evaporano, i pensieri fastidiosi vengono sfrattati e la vita si

allunga” (Basile, Cunto, Apertura.)

Questo articolo si cita: Gianni Celati, Lo spirito della novella, "Griseldaonline",

numero VI (2006-2007).