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Gianfranco Miro Gori

Guida alla Romagnadi Secondo Casadei

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Le fotografie sono state gentilmente concesse da Riccarda Casadei

Copertina di Enzo Grassi

© 2002 Panozzo Editore, Rimini - via Clodia, 25 - tel. e fax 0541/24580

Maggio 2002

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Edizione digitale: settembre 2014 ISBN digitale: 978-88-7472-241-9
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Da rimpiangere c’è poco, però…

Per fortuna siamo diversi. Anzi, in passato lo eravamomolto di più: una volta c’era il “popolo”, ed ogni regioneitaliana era contraddistinta e caratterizzata da modi divivere peculiari, che facevano leva soprattutto sul patri-monio umano di quella classe che potremmo chiamare – senon fossimo pieni di imbarazzo politico – proletariato.Oggi grazie al cielo (e al lavoro degli uomini) abbiamotutti un piede nel benessere, viviamo certamente meglio.C’è poco da rimpiangere. I tempi della miseria e del lavo-ro duro, e manuale, li abbiamo lasciati provvidenzialmen-te alle spalle. Eppure, a volte – non dite di no – ci soffer-miamo a ricordare e a rivivere con un certo struggimentole espressioni più calde della vita popolare di un tempo.Può bastare veder riapparire in televisione la mimica diTotò, o entrare in un bar di periferia mentre un gruppettodi avventori surriscaldati commenta in dialetto la tradi-zionale partitella a carte… È come se avvertissimo unavampata di affetto e nostalgia, e fossimo avvolti improvvi-samente da un calore rilassante: è un mondo che avevadegli aspetti coinvolgenti. C’era una vita più spontanea esincera, che sgorgava come acqua limpida da quelle esi-stenze intrecciate fra loro molto di più di quanto capiti allepersone oggi.

Era bello il “popolo di Romagna”, come quello napole-tano o toscano (tanto per citare quelli più illustri).

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Attenzione, però, non tutto è finito. Anche se stiamo cam-biando, trasformandoci rapidamente in qualcosa che nes-suno sa bene come definire, rimane tra di noi la ricchezzaumana di quel mondo più schietto e più cordiale. Bastasaperlo vedere o andarlo a cercare. In fondo è proprio que-sto l’obiettivo della presente guida.

Vorrei, però, chiarire subito quel problema di fondo,che un po’ ci angustia: se io dico o scrivo “popolo diRomagna”, voi – siate sinceri – pensate subito al perso-naggio Mussolini, alla sua demagogia, alla sua retorica, masoprattutto alle sue origini romagnole. A voler essere one-sti bisogna ammettere che anche lui è figlio di questa terra,in tutti i sensi. Ne ha assimilato, però, lasciatemelo dire,più i vizi che le virtù. La strada che lui ha tracciato e sullaquale ha condotto, con la forza, il popolo italiano si è rive-lata massimamente nefasta. In Romagna, il popolo avevaintravisto un’altra via, un’altra soluzione, per risolvere ipropri problemi.

E nel corso dello scorso secolo, durante quel ’900 pienodi vicende drammatiche, riuscì a trovare una propria viad’uscita, superando le dure condizioni di vita alle quali erasempre stato soggetto. Non ci fu bisogno di rivoluzioni; ilpopolo romagnolo aveva dentro di sé quelle capacità neces-sarie ad approdare ad una vita migliore. Estroverso e cor-diale, laborioso e coraggioso, si buttò a capofitto nellamischia delle attività economiche; e, senza capitali, sfruttòil vento favorevole: costruì dal nulla piccoli alberghi, chio-schi e trattorie, cooperative e officine dalle dimensioniridotte, negozi e locali da ballo… Senza paura del mondo,i romagnoli andarono incontro agli altri con il sorriso sullelabbra. Fu un successo a tutti i livelli, e in pochi anni laRomagna debellò la miseria. E c’è un personaggio, traquelli famosi in questa regione, che interpreta alla perfe-zione questo cammino verso l’emancipazione. Non si trat-

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1927. Quartetto Casadei. Agli albori del turismo nella piccola loca-lità di Gatteo Mare. La musica popolare romagnola conquista unospazio nei luoghi della vacanza. Come aveva fatto a suo tempo Zaclènaprendo il “capannone” Brighi a Bellaria, Secondo Casadei porta lasua musica, oltre che nei tradizionali luoghi dell’interno, le aie e icosiddetti cambaréun (alla lettera cameroni), anche sulla riviera.

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ta né di Giovanni Pascoli, né di Federico Fellini, né dialtri illustri romagnoli, che di strada ne hanno fatta tantama che non affondano le proprie origine nel proletariato,povero e campagnolo, della Romagna d’un tempo.Quest’uomo è Secondo Casadei, nato a Sant’Angelo diGatteo, figlio di un sarto di campagna, che di casa coloni-ca in casa colonica, andava a cucire vestiti per le famigliecontadine; un ragazzino con l’argento vivo addosso, che siribellò a modo suo a quella vita senza respiro e senza scuo-la; incominciò con tanto entusiasmo a suonare, con tantatenacia a frequentare lezioni di musica, ad allietare le sera-te nelle più sperdute balere; a soli 22 anni, nel 1928, riu-scirà a costituire la sua prima orchestrina. Inizia, così, lasua irresistibile ascesa, come compositore di famose canzo-ni, anche in dialetto, e come imprenditore musicale.Costruisce per sé, e per tanti altri, una fortuna economicae un lavoro gratificante. Ha interpretato, meglio di chiun-que altro, la voglia di vivere e di ballare dei romagnoli.Ma, soprattutto, ha scritto la colonna sonora di un’epopeapopolare, vittoriosa, che lo vedeva protagonista a fiancodegli altri romagnoli come lui, spalla a spalla. E insieme cel’hanno fatta.

A loro vorrei dedicare questa guida, scritta da MiroGori, un romagnolo d’oggi, un esperto della nostra storia;tra l’altro favorito dalle sue origini; ci tiene, Miro, a ricor-dare che è nato a San Mauro Pascoli e che la sua casa avevadue porte: una dava sulla piazza del paese e l’altra, nelretro, sulla campagna del Rio Salto, mezzadri, poderi,pioppi…

Buona lettura!

Giovannino MontanariMontanari Tour - Rimini

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Il lungo viaggio di una “casetta”

A proposito di Romagna mia

È il 1954. E in Italia, qua e là, cominciano a manife-starsi i segnali del “boom economico” imminente. La tele-visione inizia a trasmettere programmi regolari: quei pro-grammi che cambieranno, in pochi anni, lo stile di vitadegli italiani. Nelle strade imperversano ormai gli scooter.Nelle case compaiono i primi elettrodomestici. Di lì apoco la FIAT lancerà la 600; e lo Stato il piano di costru-zione delle autostrade che trasformerà il paesaggio nazio-nale. Nell’Italia del nord una “rivoluzione” è prossima: ilpassaggio, in breve tempo, dall’agricoltura all’industria.

Secondo Casadei, figlio del popolo e genuino cantoredella Romagna contadina e preindustriale, ha quarantot-to anni. Interprete sommo, per tutti gli anni trenta, dellamusica romagnola, non riscuote più il successo di unavolta. Adesso, forse, teme di non riuscire a dare rispostemusicali adeguate ai tempi che cambiano. Intravede,forse, il “viale del tramonto” come recita il titolo di quelfamoso film che aveva inaugurato il decennio. Ma laresurrezione è proprio là dove lui non s’aspetta.

È in un giorno, non precisato, di quel 1954 cheSecondo Casadei va a casa di suo cognato Emilio per far-gli ascoltare un pezzo. E subito dopo un altro. Aveva l’a-bitudine di consultare gli amici, prima di decidere cosaincidere o eseguire. Emilio, senza esitare, gli dice che pre-ferisce il secondo. Lui gli dà ragione. Sceglie il brano che

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al cognato pareva più bello. Si trattava di Romagna mia. Più di una volta, in seguito, Secondo Casadei ripeté

ai suoi orchestrali che era stato suo cognato a sostenereche era migliore questa canzone. A lui piaceva di piùquell’altra.

Così, a detta del cognato di Casadei, marito di suasorella Angela o più affettuosamente Angelina, nacquequella famosa e fortunata canzone. Canzone? una paro-la “modesta” che non ne restituisce appieno il valoremusicale e sociale.

Diversa. Più dettagliata, narrativa e suggestiva, la ver-sione del nipote Raoul. Confermata dalla figlia Riccarda.«Fu una canzone – racconta Raoul – che scrisse intera-mente lui, melodia e parole, senza collaboratori. Dovevaentrare in sala d’incisione per fare un disco. Ma invecedei tradizionali dodici brani richiesti, ne aveva portatoun altro di scorta, che aveva lì da qualche anno e si chia-mava Casetta mia; lo aveva dedicato alla sua casa diGatteo Mare. Un brano che teneva in panchina perchénon ci credeva molto. Guarda i casi della vita! Quellavolta va a ammalarsi un elemento dell’orchestra chedoveva sostenere l’assolo in un brano da incidere, e allo-ra mio zio dovette tirar fuori Casetta mia. Il maestroDino Olivieri – quello di Tornerai – che era un dirigentedella casa discografica, La voce del padrone di Milano,gli dice: ‘Casadei, perché Casetta mia? Lei è un roma-gnolo purosangue, la chiami Romagna mia’. Mio ziorimase folgorato: cambiò lì per lì qualche parola, in salad’incisione, e nacque il pezzo».

Pezzo. Canzone. Inno. Potrà sembrare pomposo evagamente – neanche tanto – retorico: la retorica, si sa, èuna componente non secondaria del (presunto) caratte-re romagnolo. Eppure sono in molti, qui e altrove, a con-siderarlo tale.

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Nell’ottocento – secondo la testimonianza di un auto-revole letterato, Alfredo Panzini, romagnolo d’elezionese non di nascita – i romagnoli, quelli ch’erano capaci dileggere (e non erano tanti), avevano un libro prediletto:I miserabili di Victor Hugo. Che toccava i loro cuori. Liriempiva di passione. Nel novecento, appena consuma-to, i romagnoli, quelli che cantano e ballano, cioè secon-do un’idea diffusa tutti quanti, due inni: Bella ciao eRomagna mia. Che toccano i loro cuori. Li colmano dipassione.

«Sento la nostalgia d’un passato / ove la mamma miaho lasciato. / Non ti potrò scordar casetta mia, / in que-sta notte stellata / la mia serenata io canto per te. //Romagna mia, Romagna in fiore, / tu sei la stella, tu seil’amore. / Quando ti penso, vorrei tornare / dalla miabella al casolare. // Romagna, Romagna mia, / lontan date non si può star!»

Spiegarne il successo presso i romagnoli non è diffi-cile. Anzitutto parla di loro. La mamma. La morosa.Parole universali che qui si appesantiscono o si esaltano– dipende dai punti di vista – di un sovrappiù di senti-mento. Ma soprattutto parla al loro lato triste e intro-verso. Che è il perfetto corrispettivo di una “natura”socievole e festaiola. E lo fa attraverso un particolaresentimento che è citato nella prima strofa della canzone:la nostalgia. Una parola di origine colta che però e d’usodiffuso e comune (tant’è vero che lo stesso Casadei lainfila nella sua canzone più popolare; e nessuno batteciglio). Tutti ne conosciamo, a un dipresso, il senso. Èstata coniata, se ben ricordo, in epoca moderna per i sol-dati mercenari lontani dalla patria. Deriva dal greco.Dall’unione delle parole nostos (ritorno) e algos (dolore).Dunque: dolore per il ritorno: per il desiderio di ritor-nare. La Romagna, per chi non lo sapesse, è stata, fino a

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non troppi lustri fa, una regione di poveracci e di emi-granti. Al sud e al nord. Nelle paludi malarichedell’Italia centrale. Nelle miniere della ricca Europa set-tentrionale... E per un romagnolo, dato il suo attacca-mento alle radici, emigrare è un’autentica tragedia.«Vuole la sua terra, sente il sapore della sua terra, comesente il sapore della piada – annota ancora Panzini, nonsenza una quota di retorica – intrisa col suo grano,abbrustolita sul testo». Come non ricordare quel grandeinterprete della Romagna che fu Giovanni Pascoli. I suoiversi che trasudano nostalgia per la “Romagna solatia,dolce paese”.

«Sempre un villaggio, sempre una campagna / miride il cuore (o piange), Severino: / il paese ove, andan-do, ci accompagna / l’azzurra vision di San Marino: //sempre mi torna al cuore il mio paese / cui regnaronoGuidi e Malatesta, / cui tenne pure il Passator cortese, /re della strada, re della foresta».

Più difficile, semmai, sarà interpretare il successouniversale di una canzone così “provinciale”. LeandroCastellani, regista di cinema e di televisione, biografo diCasadei propone questa spiegazione: «Le parole diSecondo, sia quelle in lingua che quelle in dialetto, sonosempre state di una disarmante semplicità. Eppure nonhanno nulla della banalità in cui affondano i parolierinello stesso periodo. Basti pensare alle canzoncine diArmando Fragna, zeppe di Pompieri di Viggiù, dipompe che vanno su e giù, di Cadetti di Guascogna chedalla Spagna finiscono a Bologna, di onorevoli Bricolle,deputati di Gioia del Colle, e simili. Le parole di Casadeisono sostenute da un esile filo di poesia naïve, dallasconcertante e sorridente prevedibilità degli accosta-menti. Seguono poche regole, pochi stilemi, dove cuorerima con amore, così come campagnola con romagnola,

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dove si parla di turisti di spiagge, di incanti del mare, edove una certa malizia bonariamente erotica rende ilgioco delle allusioni scoperto e accettabile.

La Romagna e l’amore: i due termini coincidono. Èun accostamento elementare, ma anche forte, coraggio-so, imprevedibile. Nessun paroliere di rispetto l’avrebbeazzardato: Casadei sì. E sposa queste parole a un filomelodico triste ma non depressivo, struggente ma ancheaperto alla speranza. I turisti stranieri della riviera roma-gnola la portano con sé nell’inverno delle loro patrie, gliitaliani del nord e del sud la canticchiano sulla via delritorno.

Romagna mia diventa un inno nazionale, senza elmidi Scipio a incoronare crani vittoriosi, l’inno dell’italianoche crede nel lavoro, nella propria terra, nell’amore».

Luciano Sampaoli, musicista riminese, approfondiscel’aspetto più propriamente musicale. La prima parte,quella dedicata alla «nostalgia – ci spiega – viene svilup-pata nella tonalità del Re minore, per poi passare repen-tinamente in Re maggiore, quando il canto esplode nellagioia di ‘Romagna mia, Romagna in fiore...’». Se provas-simo a cantare da soli o in compagnia ci accorgeremmodi scorrere spontaneamente dalla tristezza alla gioia.Anche perché la musica classica, che ha influenzato ilnostro gusto, lungo i secoli «ha utilizzato la tonalitàminore per esprimere la tristezza e la tonalità maggioreper esprimere l’allegria».

Romagna mia ha le carte in regola per diventare unsuccesso. Ma deve trovare un habitat adeguato. Untrampolino di lancio. Dei mezzi di diffusione. «Pensavoche fosse una canzoncina come tante altre, forse un po’più cara perché ricorda la nostra terra e infatti, in unprimo tempo, piacque abbastanza, rimanendo peròconosciuta nella nostra regione e dintorni» racconta

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Secondo Casadei che, intanto, la sente canticchiare ingiro: da un facchino alla stazione di Forlì da un murato-re sulle impalcature che ne fischia il ritornello... Invece«mi ha fatto conoscere – continua Secondo – non solo inEmilia e Romagna, ma in quasi tutta l’Italia e molto all’e-stero, grazie ai turisti che durante l’estate affollano lenostre spiagge e agli emigrati che si portavano questodisco oltre frontiera come ricordo».

Da un lato gli emigranti – lo si accennava poc’anzi.Dall’altro i turisti. Romagna mia suona e risuona nellebalere della riviera romagnola. E insinua, nella variegatacomunità dei vacanzieri che arrivano dall’Italia e dalnord dell’Europa, lo stesso sentimento. Non per lapatria, alla quale si farà di certo ritorno. Ma per quelluogo di vacanza dove s’è abbandonato il sole, il mare,l’ospitalità romagnola e magari un felice, quanto fugace,incontro amoroso. Sono i turisti i primi messaggeri diRomagna mia. Sono loro che la portano in giro nelmondo. Ne parlano. La ascoltano. La fanno ascoltare. Eintanto la nostalgia lavora

Ma non basta il “passaparola” per costruire un suc-cesso internazionale. Ci vuole altro. Il primo viatico, diceCasadei, furono i dischi. Quindi il juke-box. «Era unabella canzone – scrive il nipote Raoul – ma i mezzi di dif-fusione allora erano scarsi e si doveva accontentare disuonarla lui [Secondo] e di farla eseguire a qualcheorchestra amica. Poi arrivò il juke-box, e gli fu di gran-de aiuto. Fu col juke-box infatti che Romagna mia presea girare e mettere radici...». Ma tutto questo ancora nonbastava per la consacrazione definitiva. Occorreva laradio. Ma la radio – è ancora Raoul che parla – «conti-nuava a snobbare questa musica, definita ‘campagnola’ enon ci dava mai la soddisfazione di sentire un nostrobrano inserito nei normali programmi. C’era però un’e-

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mittente estera Radio Capodistria, che mandava in ondaun programma di musica a richiesta, e riceveva lettereanche dall’Italia.

È strano che sia stata una radio non italiana a lancia-re la nostra musica popolare, ma fu così. InfattiCapodistria, grazie alle lettere che riceveva per la tra-smissione Musica per voi, iniziò a dare sempre più spazioa brani come Romagna mia...»

Fu nel 1958, precisa Secondo, che Radio Capodistria«a cui debbo tutta la mi gratitudine, lanciò Romagna miain Musica per voi, un programma di canzoni richieste dalpubblico per messaggi augurali e fu trasmessa persinotre volte al giorno».

La canzone comincia a girovagare nel mondo.Castellani, già citato, rammenta d’averla incontrataalmeno due volte. «La prima diffusa da un impiantoovattato, nella sala del grande albergo sull’isolaElefantina, ad Assuan, la più famosa cateratta del Nilo.La seconda in un circolo esclusivo all’ultimo piano diuno degli sporadici grattacieli di El Paso, Texas. Dueoccasioni sofisticate, da raffinata musica soft. E mi stupì– confessa il regista-biografo – come quell’inebriantemotivo campagnolo fosse arrivato tanto lontano, scon-figgendo i più prevedibili ’O sole mio e Fenesta ’ca luci-ve». Probabilmente Castellani sarebbe rimasto ancor piùmeravigliato non tanto se avesse ascoltato la versionerussa (non hanno sempre sostenuto Fellini e Guerra chei russi sono dei romagnoli che vivono molto più a norde a est o viceversa?) quanto quella giapponese. Sicuro.Perché Romagna mia è stata tradotta, tra l’altro, anche inrusso e giapponese. Come ci spiega il sito telematicodelle Edizioni musicali Casadei Sonora che gestiscono,condotte con capacità imprenditoriale, intelligenza eaffetto dalla figlia Riccarda, dal genero Edoardo Valletta

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e dalle nipoti Lisa e Letizia, il patrimonio artistico diSecondo Casadei: www.romagnamia.it è il sito. Cheelenca: incisa da molti prestigiosi cantanti tra i quali:Claudio Villa, Narciso Parigi, Giorgio Consolini...Interpretata, altresì, da: Francesco Guccini, GigiProietti, Spagna, I nomadi, Jovanotti (versione rap),Fiorello e Renzo Arbore nei loro popolari programmi (ilsecondo non senza ironia, ma poco importa), GloriaGaynor... Cantata in privato da Pavarotti e dal Papa chesostituirebbe Romagna con Polonia. Proposta in versio-ni musicali moderne (rock, funky ecc.) da un gran nume-ro di gruppi. Venduta in oltre quattro milioni di copie e“non passa giorno” che bande e orchestre non ne richie-dano gli spartiti.

Un palmarès sontuoso riassunto per sommi capi. Unsuccesso mondiale. Un monumento alla musica. E allaRomagna. Da parte di un musicista che coltivava un’a-spirazione somma: far ballare la gente. Molti testimonine ricordano lo slogan prediletto: «Stasera bisognadarci!». Sottinteso: nelle gambe. Oppure nella musica.Per renderla sempre più trascinante. Per staccare ipotenziali ballerini dal muro dove stanno appoggiati e,appunto, trascinarli sulla pista. E Romagna mia – si notiil paradosso – non è, pur essendo con tutta evidenza unvalzer (e dunque musica da ballo per eccellenza),“buona da ballare”.

«Una sera a Castrocaro dissi a Casadei che non mipiaceva Romagna mia: come canzone sì, però non si bal-lava. I suoi orchestrali mi sentirono e mi dissero: ‘Oggivai a mangiare tardi’. Infatti restammo, io e Casadei, aparlare in una panchina sul palco sino alle due e unquarto. E mi parlò non solo di Romagna mia, ma dellasua vita, di tutto». Questa testimonianza è riportata daCastellani che però non cita la fonte limitandosi all’an-

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notazione: «racconta un amico». A rigore come provanon dovrebbe essere accolta. Ma è assai verosimile quan-to al personaggio Casadei e, tutto sommato, vera quantoa Romagna mia.

Secondo era un fulèt, un folletto (così l’avrebbe chia-mato con affetto un’ipotetica nonna: a indicarne lavoglia di fare, l’attivismo sfrenato collegato, nella fatti-specie, all’amore per la musica unito a un indubbiotalento), o un maledèt, un maledetto (come ama definir-lo con altrettanto indubitabile affetto la sorellaAngelina): un termine che in Romagna, causa il notopudore regionale, l’incapacità (o la non volontà) dimanifestare i sentimenti e per converso l’attitudine aatteggiarsi e parlare brusco, non reca un senso negativo,anzi è un complimento che, in genere, si attribuisce aqualcuno che non manca di carisma.

Era logico che un personaggio con caratteristiche sif-fatte (aveva dedicato una vita alla musica e al ballo), nonpotesse pacificamente accettare che il suo pezzo, se nonpiù bello certo di gran lunga più famoso, si fosse impo-sto più per il significato delle parole che per la musica.

Sembra questo un esito paradossale, ma lo è fino a uncerto punto. Di fatti Secondo, come vedremo più avanticon maggiori dettagli, sin dall’inizio prestò particolareattenzione alle canzoni e ai testi. Fu lui a proporre,quand’era ancora quasi una mascotte dell’orchestra diEmilio Brighi, figlio del “mitico” Zaclèn, di inserire nelrepertorio dell’orchestra le canzoni di successo dell’ini-zio degli anni venti. Quelle che eseguiva, tra gli altri, ungiovane “artista” del teatro e del cinema, Vittorio DeSica, che sarebbe poi diventato uno dei padri del neo-realismo in coppia con Cesare Zavattini. L’OrchestraBrighi, dunque, cominciò a proporre Io cerco la Titina,Creola dalla bruna aureola, Adagio Biagio, Parlami d’a-

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more Mariù... Non basta. Secondo, il maledetto, nonpoteva contentarsi di roba d’altri. Prese così a scriverelui stesso. Canzoni sue che raccontavano di personaggi efatti di cronaca o parlavano d’amore e lo facevano, spes-so, nella lingua romagnola. Non erano novità da poco –come sottolineano i biografi di Casadei. Per esempio: il“semplice” fatto di introdurre nella musica da ballo ilritornello cantato e la canzone; per non dire dei testi indialetto romagnolo, inaugurati da Burdèla avèra(Bambina avara, alla lettera, ma burdèla assai spesso –come in questo caso – è sinonimo di ragazza).

Tutto ciò accadeva negli anni venti. All’inizio deglianni cinquanta, dopo un periodo di scarsa fortuna divalzer, polche e mazurche, Casadei rimonta lentamentema sicuramente la china. Uno degli elementi della sua“rinascita” sono i testi. Vere e proprie canzoni che cam-peggiano nella tradizione nazionale. Testi che si basanosoprattutto sui significati delle parole e si staccano sem-pre più dal rito del ballo. Romagna mia appunto.

D’altra parte Casadei, da valente “comunicatore”, damusicista sempre attento ai gusti e alle preferenze delpubblico che decreta la validità o meno di un brano musi-cale e di una canzone, ha sempre conosciuto l’importanzadelle “storie”. L’avesse imparata ancora bambino, nellasua Romagna d’inizio novecento, dai narratori orali che sipotevano trovare nelle piazza, nelle osterie e nelle stalle(cantastorie dilettanti o di professione, semplici e improv-visati “raccontatori” d’occasione) oppure la conoscesseda sempre (perché l’aveva dentro), poco importa. Sta difatto che disponeva di questo sapere. E lo mise in pratica.

Certo, nella storia e nella nostra storia in particolare,un ruolo e uno spazio l’ha avuto – come sempre – il caso(«il naso della regina Cleopatra» secondo una formulacara agli storici). Domanda: se il soggetto di Romagna

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1928. La prima formazione “ufficiale” guidata da Secondo Casadei.Da sinistra: Elmo Bonoli (Managa), Guido Rossi (Poiali che suonavaa orecchio), Secondo Casadei, Primo Lucchi (Balilòun), GiovanniFantini (Pizaréin), Olindo Brighi (Faraòun). Ogni orchestrale ha ilsuo soprannome. In Romagna una specie di attestato doc. Provenivadalla famiglia o veniva attribuito nell’infanzia o guadagnato sul pal-coscenico. Lo stesso Casadei, all’anagrafe, rispondeva al nome diAurelio. Secondo stava a significare che lo aveva preceduto una sorel-la morta prematuramente pochi giorni dopo la nascita. I musicisti sono in posa. La fotografia è scattata in uno studio. Ildebutto dell’Orchestra Casadei avvenne a Gatteo Mare, all’iniziodell’estate, alla Pensione Rubicone.

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mia fosse rimasto “casetta”, se una regione, con determi-nate caratteristiche (per esempio: una forte “vocazione”turistica, una ben precisa fisionomia nell’immaginariodella gente eccetera), non ne avesse occupato il posto, lanostra canzone avrebbe percorso un lungo viaggio su unastrada lastricata di successo? La domanda è quasi retori-ca. La risposta è: con ogni probabilità no.

Romagna mia è nata dalla perfetta fusione tra unuomo e la sua terra. Un musicista di genio, con lo sguar-do proteso altrove ma allo stesso tempo con potentiradici nella “piccola patria” estroversa e ospitale, hasaputo esprimere i valori e gli umori provinciali della suaregione elevandoli a una dimensione generale. Comealtre volte è accaduto, grazie alla poesia (la citataRomagna di Giovanni Pascoli, per esempio), al cinema(Amarcord di Federico Fellini, per esempio)...

Che poi si tratti della Romagna autentica o di trasfi-gurazioni o, detto in altri termini, di tradizioni inventa-te, questo è un altro discorso. Al quale cercherò di offri-re alcune possibili risposte (non la risposta beninteso) inseguito. Per il momento mi limito a indugiare su unadelle cosiddette componenti del carattere romagnolo. Iromagnoli (dovrei precisare: noi romagnoli) indulgonoalla retorica . Si prendono molto sul serio. Amano l’iro-nia se non ne sono l’oggetto. Allo scopo di sfatare que-sto “pregiudizio” – a maggior ragione tale nel nostrocampo che è quello del ballo, della musica, del diverti-mento: «sono solo canzonette» recita una canzone diBennato – concluderò il presente capitolo con una bat-tuta, non rammento più di chi: «Comunque nel ricorda-re Romagna mia ho avuto un ‘rigurgito di piadina’ e misono immerso nel piacevole incubo della riviera».

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La periferia di una periferia

A proposito della “rivalutazione”della Romagna nel secondo dopoguerra

Alla fine della seconda guerra mondiale la Romagna ècosparsa di macerie. Il fronte vi ha stazionato per mesicon un impressionante carico di sangue e dolore ancheper la popolazione civile. I bombardamenti l’hanno feritapesantemente e ripetutamente. Non basta. Se mettiamo afuoco lo sguardo sulla cultura sia dotta sia popolare, cheè il nostro argomento, la Romagna risulta una periferia diquella più grande periferia che è, ancorché avamposto ebaluardo del cosiddetto mondo “libero” contro i tartaridelle democrazie cosiddette “popolari”, l’Italia. LaRomagna non ha università. L’avrà molti anni dopo; manon sua. Non ha propri quotidiani; anche questi tarde-ranno parecchio a arrivare. La leggendaria socialità degliindigeni si esercita nel ballo. Il cinema svolge la sua clas-sica funzione d’intrattenimento – anche istruttivo.

In quel clima di riacquistata libertà dalla dittaturafascista, la piccola regione all’incirca tra gli Appennini,l’Adriatico e il fiume Reno deve scontare anche un debi-to: essere stata, nel ventennio precedente, la terra delduce.

Alla metà degli anni trenta, quando Mussolini riscri-ve la geografia e la storia della sua Romagna (poteri di undittatore), gran parte degli italiani (o quasi) sono fascisti,per esplicita ammissione di una fonte non sospetta comelo stesso Togliatti. Ma questo non conta. Adesso aver

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dato i natali e di conseguenza aver ricevuto lustro daldittatore, che trascinò la nazione a fianco di un sadicocriminale come Hitler in una guerra perduta, costituisceun’onta. Soprattutto in Italia dove la vocazione naziona-le è da sempre – secondo la caustica battuta di Flaiano –precipitarsi in soccorso del vincitore.

A rendere la situazione ancor più difficile contribui-sce il fatto che la Romagna è “rossa”. Lo era prima delfascismo e lo è rimasta dopo. Il che a Roma, dove attra-verso la democrazia cristiana comandano gli americani,non aiuta.

In verità, come è noto, non è che i romagnoli avesse-ro goduto sempre buona fama. Anzi. Quella del roma-gnolo delinquente è un’“immagine” che ebbe, nell’otto-cento, ampio credito in ambienti scientifici positivisti:ambienti che in seguito – ma solo in seguito – fu facileliquidare come “ingenui” quando non “ideologici” e“razzisti”. Ma il credito non fu solo scientifico per cosìdire. Tutt’altro. Fu assai diffuso come dimostra, peresempio, un classico per eccellenza della letteraturamondiale nonché capolavoro dell’Italia unita e della for-mazione dell’italiano, Cuore di De Amicis del 1886. Unlibro che rappresentò, con la forza “indiretta” della let-teratura presso tutta la comunità dei lettori, il romagno-lo violento: «con una pezzuola scura sul viso, con duebuchi davanti agli occhi» (queste le parole di De Amicis)e l’immancabile coltello che trafiggerà a morte il giovaneprotagonista Ferruccio. La vicenda, che si svolge pressoForlì, è contenuta nel racconto Sangue romagnolo. E, aonor del vero, offre dei romagnoli un’idea controversa.Perché se da un lato agisce a scopo di rapina il “prototi-po” dell’accoltellatore, dall’altro si erge Ferruccio,monello tredicenne, che s’immola per salvare la nonna.«[...] non era mica tristo di cuore – precisa De Amicis –,

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tutt’altro [...]. Buono era, piuttosto che tristo; ma capar-bio e difficile molto [...]». Da un lato la colpa (l’assassi-nio); dall’altra il riscatto (il gesto eroico). Il tutto rac-chiuso nel sangue e nel cuore di Romagna.

Sia come sia, la Romagna, del dopoguerra, dovevaessere “rivaluta”. Il “movimento” della rinascita – anchese non è esatto chiamarlo movimento; difatti non lo fuper nulla non avendo alcuna coscienza di sé – nasce nelsud della regione. In quel lembo di terra che un lingui-sta austriaco, il più autorevole studioso del dialettoromagnolo, Friedrich Schürr, definì «isola linguistica deldittongo». Dove insomma – sia detto così, alla buona –le vocali di molte parole, attraverso complicati processilinguistici, si sono raddoppiate in dittonghi. Si tratta deicomuni di Santarcangelo, San Mauro, Savignano,Gatteo (frazione Sant’Angelo), Longiano. Il movimento– continuo a chiamarlo impropriamente in questo modo– ha “propaggini” riminesi e cesenati. Rimini e Cesena(con Cesenatico), di fatti, stanno da un lato e dall’altrodella nostra “isola”.

(Digressione. Chi si rechi oggi in quel “piccolomondo”, troverà la vecchia Santarcangelo, quella dellecontrade, ormai ampiamente ristrutturata, raccolta suuna collinetta, in cima alla quale s’ergono il “campano-ne” e la rocca Malatestiana. Terra, da sempre, dell’ospi-talità: di fiere e mercati, la città, letteralmente pullula diristoranti che hanno sostituito le antiche osterie. Da visi-tare: il Museo degli usi e costumi della gente diRomagna. Risalendo la via Emilia, a un pugno di chilo-metri, Savignano che il duce, alla metà degli anni trenta,stabilì essere “sul Rubicone”. Quello autentico. Bisognasapere che da secoli imperversava un’annosa disputa suquale fosse il Rubicone attraversato da Cesare con lelegioni. Fu Mussolini che, vista la documentazione,

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troncò la diatriba con l’autorità che gli derivava dall’es-sere il dittatore. Chi passi da Savignano, definita untempo “l’Atene della Romagna”, non manchi di visitarela Rubiconia accademia dei filopatridi. Nelle cui stanzeaustere si respira ancora l’erudizione dei secoli scorsi: lasi può vedere nella ponderosa biblioteca; la si può persi-no toccare negli arredi. Due chilometri verso la marinaSan Mauro. Nel cuore del paese Casa Pascoli. Pochesobrie stanze. Modesti gli arredi. Che rimandano all’in-fanzia di Zvanì. A due chilometri dall’abitato la Torre.«Nella Torre il silenzio era già alto / sussurravano i piop-pi del Rio Salto...» scrive Giovanni Pascoli ricordando lasua fanciullezza e l’uccisione del padre. La Torre, oggiribattezzata Villa Torlonia, è un monumentale edificio:metà fattoria e metà villa signorile. Non molto lontanoGatteo conserva i ruderi di un castello medievale.Longiano è sovrastata da una rocca assai ben conserva-ta, che oggi ospita la Fondazione Balestra; nel paese unpiccolo teatro ottocentesco all’italiana ancora assai atti-vo. Cesenatico si raccoglie sul porto canale progettato daLeonardo. Dove s’affaccia, tra le basse case a schiera,Casa Moretti che conserva la “memoria” dello scrittore.A Cesena l’antica biblioteca Malatestiana. Tanto impor-tante dal punto di vista scientifico quanto suggestiva; vifu direttore, tra gli altri, Renato Serra quello dell’Esamedi coscienza di un letterato. Rimini, che tutti definisconola capitale del turismo e del divertimento, è iscritta, l’an-tica Rimini, tra l’arco d’Augusto e il ponte di Tiberio. Dauna parte e dall’altra il tempio Malatestiano, parto del-l’umanesimo, e la rocca che rivendica, in conflitto conquella di Santarcangelo e non poche altre, d’essere statail teatro della tragedia di Paolo e Francesca cantata daDante.)

Si diceva, poc’anzi, della riscossa romagnola. Tutto

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ebbe inizio, se proprio vogliamo fissare una data, nel-l’immediato dopoguerra. Con la poesia – il bisticcio lin-guistico è inevitabile – di Tonino Guerra. «Andè a di acsèmi bu ch’i vaga véa, / che quèl chi a fat i à fat, / che adèssu s’èra préima se tratòur. // E pianz e’ cór ma tótt, èncamu mè, / avdài ch’i à lavurè dal mièri d’an / e adès i àd’andè véa a tèsta basa / dri ma la córda lònga de mazèl(Andate a dire ai buoi che vadano via che il loro lavoronon ci serve più che oggi si fa prima ad arare col tratto-re. E poi commuoviamoci pure a pensare alla fatica chehanno fatto per migliaia d’anni mentre eccoli lì che se nevanno a testa bassa dietro la corda lunga del macello)».Canta Tonino. E prende congedo, come ha scritto uncritico letterario, Franco Brevini, dall’universo munici-pale. Dalla vecchia Romagna.

Non a caso, uno degli alfieri della cultura regionaledell’anteguerra, Francesco Balilla Pratella, compositoree musicologo, indicava, come simbolo «dell’anima can-terina della Romagna», la cavèja dal j’anëli (caviglia deglianelli) ovvero il perno di ferro che s’infila nel timone pertenere fermo il giogo. Tralasciando d’indugiare sull’a-spetto sonoro che, per altro, è per noi assai pertinente,osserviamo che la coppia dei buoi – in Romagna perantonomasia rò (quello di destra) e bunì (quello aggio-gato a sinistra) – è un po’ l’emblema di ogni civiltà con-tadina. Tonino, che piange la scomparsa dei buoi, indi-ca, allo stesso tempo, la via per andare oltre. Basta con laRomagna di Mussolini. E anche con quella, ben piùautorevole e suggestiva, di Aldo Spallicci. La Romagna“propagandata” dalla rivista “La Piê” (La piada). LaRomagna contadina povera e felice o, se non altro, fierae di sani principi morali. La Romagna – non poco “idea-le” e ideologica – del buon tempo antico. QuellaRomagna, «solatia dolce paese», che trovava ispirazione

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e sostegno in una certa lettura della sublime poesiapascoliana.

Ma fino a che punto possiamo credere al congedo diTonino? Lui che addirittura scrive in dialetto e fonda isuoi versi sulla piccola patria santarcangiolese. Saràandato anche oltre, ma restando coi piedi ben conficca-ti nella sua terra. Come Giovanni Pascoli, poeta inimita-bile, che, pur avendo ancor bambino abbandonato ilpaese natio, nutrì tutta la sua poesia degli umori, deidolori dell’infanzia sammaurese. Come Federico Felliniche non seppe mai – pur avendo sempre desideratoandarsene e in realtà ben presto se ne andò – staccarsidal borgo riminese. È questo un “filo conduttore” delcarattere romagnolo. E Guerra non ne è immune. Comenon ne è esente Secondo Casadei.

A Santarcangelo, attorno a Guerra, si raccoglie ungruppo di intellettuali e artisti. In poesia guardano aMontale. In pittura vengono influenzati dal grupporomano del Portonaccio (Vespignani, Urbinati,Muccini) trascinato a Santarcangelo da Guerra, ma ten-gono lo sguardo fisso sul loro paesaggio. Il cinema cheamano è quello neorealista. De Sica e Zavattini.Rossellini col quale s’è fatto le ossa, come sceneggiatore,il giovane Fellini. Sarà un caso. Ma un episodio di quelcapolavoro della nuova Italia che è Paisà è ambientato aSavignano sul Rubicone (anche se nella realtà girato aMaiori sulla costiera amalfitana). A Santarcangelo ven-gono realizzati due film di cortometraggio: La bamboladi Flavio Nicolini con la collaborazione di Gianni Fucci,voce narrante di Paolo Carlini, anch’egli nativo diSantarcangelo, già attore affermato; e Nasce un campio-ne, soggetto di Guerra, regia di Elio Petri, sulla passionetutta romagnola per la bicicletta.

Il gruppo di Santarcangelo, definito non senza ironia

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“e’ Circal de giudéizi” (il Circolo del giudizio, come direil circolo dei sapientoni), intrattiene rapporti col poetadi Longiano Tito Balestra e i pittori cesenati Sughi,Caldari, Cappelli. Da Cesenatico Dante Arfelli dà allestampe I superflui, ovvero lo spaesamento di un provin-ciale scivolato nell’indifferenza della metropoli. (Citoancora, ancorché non appartenente né limitrofo al terri-torio delimitato sopra, Francesco Serantini, faentino e ilsuo Il fucile di Papa della Genga, ispirato alle gesta delPassatore e premio Bagutta.)

Il 1952 è, per la Romagna, un anniversario di nonpoco conto. Sono quarant’anni dalla morte del più gran-de dei poeti romagnoli, Giovanni Pascoli. GuidoGuerrasio, già autore di documentari, arriva a SanMauro e vi gira La cavallina storna: è un film corto,appena dieci minuti, ma Guerrasio, alternando le ripre-se documentarie della casa natale del poeta, della Torree della campagna circostante, a riprese ricostruite dellatragedia (uccisione del padre di Pascoli) narrata nellapoesia quasi omonima (La cavalla storna), riesce a con-densare il senso del rapporto controverso e “fecondo”tra il poeta e la sua terra. Il film viene presentato allaMostra del cinema di Venezia dell’anno successivo. Làincontra altre immagini di un ipotetico album di fami-glia. Sono riminesi. Federico Fellini ha realizzato il suosecondo film e mezzo come regista. E lo presenta allaMostra. Vi otterrà il secondo premio: il Leone d’argen-to. Si tratta dei Vitelloni. Un ritorno alla provincia natia.Ai compagni della giovinezza. Alle «loro avventure, leloro ambizioni, le piccole manie, il loro modo particola-rissimo di passare il tempo [...] al biliardo o sulla spiag-gia a guardare il mare d’inverno o a cantare canzoncineoscene nel silenzio notturno delle antiche piazze» ricor-da Fellini. E rammenta i loro discorsi: «‘Ma te, se venis-

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se Jane Russel e ti dicesse: dai, pianta tutto e vieni conme, ci andresti?’ ‘Ostia se ci andrei!’». La parola “vitel-lone”, dopo il film, entrerà di prepotenza nei vocabola-ri. Ne prendo uno a caso: «Giovane che trascorre iltempo il tempo oziando o in modo vacuo e frivolo, senzacercare di uscire da un ambiente sociale mediocre eprivo di stimoli». Dopo il successo italiano il film comin-cerà a girare il mondo.

Che poi, nella realtà, I vitelloni non fosse stato giratoRimini e che, in fondo, rappresentasse la provincia ingenerale è una vecchia questione. Luoghi e personaggidel racconto (e un film è un racconto, una finzione) sonoinequivocabilmente riminesi e romagnoli.

Guerra, intanto, grazie alle sue poesie in dialetto, èarrivato a Roma. Dove fa lo sceneggiatore. Come narreràlui stesso, in seguito, all’inizio tra miseria e privazioni,ma pur sempre nel cuore pulsante del cinema italiano.Federico Moroni, antico sodale di Tonino, pittore emaestro elementare, viene invitato negli Stati Uniti gra-zie all’esperienza didattica d’avanguardia della scuola dicampagna del Bornaccino che insegna ai figli dei conta-dini attraverso il disegno e la pittura. San Mauro ritornanel cinema con Cavallina storna di Giulio Morelli: vicen-da Pascoli riletta secondo i canoni del melodrammacinematografico. Interpreti: il popolarissimo Gino Cervie la maliarda Franca Marzi.

La Romagna esce dai suoi angusti confini. È “buona”per l’esportazione.

Si tratta, tuttavia, di un fenomeno ancora legato adelle minoranze. Intellettuali in particolare. Poesia.Pittura. Cinema. Certo il cinema è anche (e soprattutto)uno spettacolo popolare. Ma non lo sono i documenta-ri. Né i cortometraggi. E nemmeno Cavallina storna diMorelli, nonostante si collochi nella scia dei popolarissi-

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Alla fine degli anni venti, un Quintetto Casadei, davanti alle scuoleelementari di Sant’Angelo, frazione di Gatteo, e “piccola patria” diSecondo Casadei. All’epoca, a Sant’Angelo, si ballava dalla Rosina eda Carlin d’Imbrus. Il veglione più amato dai santangelesi era quelloche si teneva il 19 gennaio per la festa di sant’Antonio protettoredegli animali.Da sinistra: Primo Lucchi, Secondo Casadei, Giuseppe Fantini,Giovanni Fantini (il cantante), Giulio Turci. Turci, esercente cinema-tografico e noto pittore di Santarcangelo, fece parte, assieme a artistie intellettuali del suo paese (Federico Moroni, Lucio Bernardi,Tonino Guerra, Flavio Nicolini, Raffaello Baldini, Nino Pedretti,Gianni Fucci, Rina Macrelli) di quello che fu definito, non senza iro-nia, e’ Circal de giudéizi (il Circolo del giudizio, come dire il circolodi quelli che la sanno lunga).

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mi melodrammi di Raffaello Matarazzo, arriva al grandepubblico. Ci arriva, invece, Federico Fellini. Lui chesembrava destinato agli ultimi posti dei guadagni ai bot-teghini, coi Vitelloni, rovescia ogni previsione. Nella sta-gione cinematografica 1953-54 il film incassa oltre 570milioni e s’insedia ai primi posti della classifica. Un suc-cesso che coinvolge – puntualizza Vittoria Spinazzola inun originale studio sul pubblico cinematografico –anche «le platee più schiettamente popolari, come dimo-stra l’elevato rapporto fra i risultati delle prime visioni(109 milioni) e quelli dell’intero mercato».

È il momento buono per allargare il “pubblico” dellaRomagna. E sarà pure un caso, ma nel ’54 Casadei, ch’ènativo di Sant’Angelo di Gatteo e s’è trasferito aSavignano, lancia Romagna mia. Del successo dellaquale abbiamo già ampiamente riferito. Secondo non èun intellettuale. Bensì un capo naturale e un musicista ditalento. E affianca quel gruppetto di intellettuali dellasua terra nel proporre una “nuova immagine” dellaRomagna.

Nelle gallerie d’arte, nelle biblioteche e nelle librerie,nei cineclub in cui si discetta di linguaggio e storia dellasettima arte, fino alle affollate e vocianti sale cinemato-grafiche della seconda e terza visione, fino alle baleregrondanti di sudore e di rumore, il riscatto romagnolostava per compiersi o, addirittura, era già compiuto.

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Òs-cia i madéun!

A proposito della Romagna popolare

Alla metà degli anni cinquanta la Romagna, comegran parte dell’Italia centrale e settentrionale, cominciaa intravedere i segni del “miracolo economico” incipien-te. Quella regione che, nella classica (e limpida e icasti-ca) descrizione pascoliana, era «sempre un villaggio,sempre una campagna»; quel paesaggio che meritava l’e-sclamazione di Spallicci – «quanta ciarezza in tota lacampagna! (quanta chiarezza in tutta la campagna)» – staradicalmente mutando. Tra breve non ci sarà più. Ormaigli si addice, piuttosto, una bella lirica di Guerra del ’54,I madéun (I mattoni) che nella versione “storpiata” delmanovale-dicitore del film Amarcord è andata ben oltreil ristretto nucleo degli appassionati di poesia.

«E’ mi nòn e’ féva i madéun / e’ mi ba e’ féva i madéun/ mè a faz i madéun: òs-cia i madéun! / Mèlla, dismélla, almuntagni ad madéun / e mè la chèsa gnént. // Ò fat la cisanóva de Sufràz / ò fat tótt quant al chèsi de Paségg, / ò fatal tòrri, i péunt e di teràz, / ò fat la vélla granda di padréunch’la ciapa tótt e’ sòul, / e mè la chèsa gnént (Mio nonnofabbricava i mattoni mio padre fabbrica i mattonianch’io faccio i mattoni, ostia i mattoni! Mille, diecimi-la, le montagne di mattoni e io la casa non l’ho. Hocostruito la chiesa nuova del Suffragio, tutte le case delPasseggio, le torri, i ponti e i terrazzi, la grande villa delpadrone che prende tutto il sole e io la casa non l’ho)».

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Uno storico romagnolo, Stefano Pivato, notava chequesti versi «sono quanto di più appropriato» per rap-presentare l’evoluzione della Romagna dell’ultimo seco-lo. Con particolare riferimento al dopoguerra e allacosta: da Cattolica a Milano Marittima. Montagne dimattoni e di cemento che sono dilagate sul litorale e nel-l’entroterra. E ancora: un groviglio di asfalto. La “ferita”aperta dall’autostrada. Fabbriche e ciminiere. Insegneluminose e raggi laser. Fino agli ultimi esiti: supermerca-ti e poi ipermercati che proiettano questo paesaggionella periferia-mondo. Se facessimo nostra l’idea, quisopra adombrata, che la poesia costituisce, anche informe non sempre dirette, un’efficace descrizione dellarealtà, a questo punto dovremmo ricordare una raccolta– sempre in dialetto – di Giovanni Nadiani: TIR.Esattamente gli autotreni o autoarticolati adibiti a tra-sporti internazionali. La Romagna s’è ormai “moderniz-zata”. Omologata, per usare un termine caro a PierPaolo Pasolini, paladino, fino all’ultimo, della societàcontadina. Allineata al resto del nord industriale.

E la Romagna tradizionale, la Romagna del popolo,figlio della cultura contadina e marinara, dov’è finita?Con ogni probabilità nell’ospitalità della struttura ricet-tiva (usiamo questa locuzione per indicare alberghi,ristoranti e affini) e nella passione per il ballo e la vitaassociativa.

Premesso che quel romagnolo, prodotto di quellaRomagna, quell’immagine assai diffusa e abbastanzaprecisa che circola dall’ottocento a oggi senza sostanzia-li modifiche, è frutto – come abbiamo già accennato – diun singolare impasto di realtà e finzione: poesie, opereletterarie, film, tesi propagandistiche (per esempio: ilcitato “mito” del romagnolo criminale generato dallacriminologia positivista e sostenuto dal potere regio per

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screditare una regione di oppositori politici, confermato,in maniera sarcastica, da Olindo Guerrini quando, inuna famosa poesia, lamenta che tutti se la prendano conla sua regione, dove tutti, invece, si vogliono bene e bril-lano per onesta: «il male è che vanno via di tanto in tantoe non si sa più notizia», tant’è vero che il sindaco diCastrocaro vuole «buttar giù il camposanto che in ognimodo muoiono tutti in galera»), tradizioni popolari tra-mandate oralmente come la leggenda della creazioneche, secondo Alfredo Panzini, era ancor assai viva inRomagna negli anni trenta (quando Dio ebbe creato ilmondo, san Pietro gli disse: «La Romagna è fatta, mancail romagnolo». Il padre eterno sferrò un calcio per terrae ne scaturì, nella versione poetica di Spallicci, e’ viglia-caz de rumagnol spudé (letteralmente: il vigliaccaccio delromagnolo sputato), in maniche di camicia, petto sco-perto, agghindato con un cappello da gagà: «A so iquàme, ció, b... de Signor!»), convinzioni diffuse come quel-la secondo cui la Romagna comincia, scendendo lungo lavia Emilia da Bologna, dove, se domandate da bere,smettono di versarvi acqua e vi offrono del vino: “ilbere” per antonomasia in Romagna. Eccetera. Eccetera.

Tutto ciò premesso, avventuriamoci nell’arduaimpresa di abbozzare un possibile ritratto del “cittadi-no” romagnolo traendo spunto dall’abbondante lettera-tura su di lui. Ricordiamo, innanzitutto, un articolo ditaglio storico di un giornalista riminese, Guido Nozzoli,intitolato Il pianeta Romagna, e pubblicato, nel 1963,nell’insuperato volume collettivo, a cura di AndreaEmiliani, Questa Romagna.

Nozzoli scrive bene. Una bella scrittura giornalistica.Ricca e, allo stesso tempo, di agevole comprensione.Sostiene, detto in estrema sintesi, che la Romagna è unaregione senza precisi confini «che non si riconosce dai

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boschi, dai monti, dai fiumi, dal clima, ma dalla gente edalle sue abitudini. Non una regione geografica, dun-que, ma una regione del carattere, un’isola del senti-mento. Un pianeta inventato dai suoi abitanti». (A con-clusioni simili era giunto Guido Piovene che, alla metàdegli anni cinquanta, realizzò un “viaggio in Italia” perconto della Rai: i romagnoli «si compiacciono di roman-zarsi» fu la sentenza dello scrittore.) Posta la premessa,Nozzoli racconta l’evoluzione del “cittadino” romagno-lo: dal mito della lontana origine barbarica, che ne spie-gherebbe la focosità, fino al suo praticare la violenza, lasua politicizzazione, il suo prediligere l’opposizione.

Quanto al carattere poi, il romagnolo si distinguereb-be – fonte Olindo Guerrini – perché sputa per terra,parla a voce alta e non chiude le porte. Nozzoli aggiun-ge altri particolari: «la loquacità, l’intransigenza, la spa-valderia, l’aggressività polemica, l’amore per il parados-sale e lo spettacolare, una certa trascuratezza nel vestire,il gusto delle burle, una finta disinvoltura che mascherala ruvidezza dei modi e l’impaccio del paesano, queldisordine un po’ estroso e velleitario del pensiero».

Non basta. Nozzoli elenca ancora: «Gioviale, ciarlie-ro, aperto, fantasioso, di appetiti robusti, di parola gras-sa e colorita, di gesti clamorosi e teatrali, poco inclinealle smancerie tanto da parere – anzi, da essere – sgar-bato, polemista aggressivo e puntiglioso, disposto alloscherzo ma pronto a impennarsi (e a menar le mani), ilromagnolo di oggi, come quello di ieri, nasconde con unpudore fanciullesco una sua inconfondibile gentilezzad’animo che affiora raramente dai tratti esteriori, neirapporti con gli estranei e persino con gli amici, ma chesi rivelerà inaspettatamente, insieme a un’illimitata gene-rosità, nei momenti brutti della vostra vita o quandosiete suo ospite, e anche il più povero di loro vuoterà la

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dispensa e metterà sottosopra la casa perché non vi man-chi nulla».

Arduo afferrare un carattere individuale. Quasiimpraticabile la definizione di un carattere collettivo,regionale. Il carattere è sfuggente per definizione.Eppure Nozzoli riesce quasi a convincerci. Convince,magari, soprattutto il sottoscritto. Che se pensa ai suoinonni, romagnoli doc, che praticavano entrambi la reli-gione della generosità e dell’ospitalità, non può cheassentire. Ma se queste potrebbero, in fondo, essererubricate come “impressioni” personali, Nozzoli risultaincontrovertibile quando definisce, anticipando conacume il tema dell’“invenzione della tradizione” intro-dotto vent’anni dopo da Hobsbawm e Ranger, laRomagna una regione “inventata dai suoi abitanti”. Inaltre parole: l’identità romagnola è il frutto di un pro-cesso culturale. Nozzoli insiste anche, a ulteriore confer-ma della sua già condivisibile argomentazione, sullavariabilità e dunque di fatto sull’assenza di confini dellaRomagna. Ma qui sono costretto a contraddirlo: almenodalla fine dell’ottocento un confine più o meno accetta-to esiste: è quello stabilito da Rosetti.

Un altro libro di storia, che desidero segnalare, è LaRomagna di Roberto Balzani. Un libro recente. Piùimpegnativo. Ma assai stimolante e molto ben documen-tato. Balzani, al quale chiedo venia della semplificazioneche sto per proporne, afferma che la principale caratte-ristica dei romagnoli è l’estroversione. Come dire cheessi non trovano la loro identità in se stessi ma nel rap-porto con gli altri. Ritorna come un metronomo il temadella socialità.

Si dice che le origini del romagnolo si debbano cer-care nelle antiche popolazioni che abitavano la zonaprima della colonizzazione romana: i bellicosissimini

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galli senoni che, prima di soccombere, si permisero illusso di mettere a sacco Roma e quindi tornarsene inpatria. Se ciò che andiamo ripetendo è vero, chi, checosa, avrà trasformato l’iniziale aggressività in genuinasocialità?

Non so. Certo è che questo dei romagnoli estroversiè molto più che un luogo comune. Essi si confrontanocostantemente con gli altri. Fuori dal loro “pianeta”, perseguitare nell’uso della felice espressione di Nozzoli, edentro il loro “pianeta”. Con gli italiani, gli europei e,oggi, gli extraeuropei in generale e, altresì, con gli altriromagnoli. Rincontriamo così, fatalmente, l’ospitalitàromagnola, la socialità romagnola. Come sintomi piùevidenti di un modo di essere e di comportarsi.

I luoghi di ritrovo degli indigeni di questa “isola delsentimento” sono famosi fin dall’ottocento. All’inizio,almeno per chi comanda, in senso negativo. L’associarsi,lo stare assieme nei “circoli”, anche per ballare (diverti-mento che i cattolici non vedevano di buon occhio perle sue potenzialità peccaminose e in Romagna fino all’u-nità d’Italia governò il papa-re), fonda il teorema dellasovversione. L’associarsi, lo stare assieme sfocerebbenella politica. Nel variegato arcipelago dei luoghi diritrovo, in quella che è stata definita «ipertrofica dimen-sione associativa romagnola», troverebbero un terrenodi coltura o un trampolino di lancio bello e pronto, gliagitatori politici nemici del re e del neonato regnosabaudo.

Invano il deputato ravennate Domenico Farini s’af-fanna a spiegare a una camera dei deputati incredula –annota Balzani – che nei circoli non si fa politica, ma sitratta di «luoghi di festevole ritrovo, vi si mangia, vi sibeve, vi si sta l’inverno al riparo dei rigori del freddo,così come si potrebbe stare in un caffè o in un’osteria

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colla differenza che, invece di essere luoghi pubblici,sono privati, e che per intervenirvi bisogna esserne socie pagare uno scotto mensile. Questi festevoli ritrovi rac-colgono gente di ogni età, di ogni condizione e di ogniopinione politica. Io non avrei mai neppure sognato chei contadini delle ville di Mezzano, Piangipane, Santerno,di Sant’Alberto [paesi del ravennate] [...] potesserovenire un giorno confusi con settari; le loro riunionidipinte come altrettanti clubs giacobini».

Il fatto è che la gente di queste terre – come dimostra-no gli studi di Maurizio Ridolfi – si era costruita, datempo, dei luoghi di ritrovo con funzione prevalentemen-te ricreativa al di fuori della famiglia. E che questi luoghierano assai più diffusi in Romagna che altrove e, inRomagna, avevano un’accentuata dimensione interclassi-sta: vi convivevano i contadini coi piccoli borghesi, il pro-letariato urbano con la nobiltà più o meno decaduta.

Se, dunque, possiamo ragionevolmente convenireche era questa la Romagna di un tempo, dobbiamo, allostesso tempo, ammettere che detta Romagna è cambiata.È cambiata negli anni cinquanta. Quando il “miracoloeconomico”, in pochi anni, ha trasformato ciò che neisecoli era rimasto, nella sostanza, immobile: ha portatola ricchezza e, attraverso la televisione, nuovi stili di vitainsieme a una lingua italiana standard che ha sopraffattoi dialetti.

Dov’è finita, allora, la Romagna di un tempo (un po’vera e un po’ inventata dai suoi abitanti: nessuno potràmai stabilire il confine tra realtà e finzione), la miticaRomagna del popolo? L’ho già detto e lo ribadisco. Se nepossono trovare ancora esempi, tracce e riflessi soprat-tutto nell’ospitalità proposta da alberghi, ristoranti eaffini, e nella socialità e ricreazione offerta da balere,locali notturni, discoteche (luoghi della più volte citata

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passione ballerina locale che pare contagiare anche turi-sti in gran copia), pub (come dire un ritorno – vi allude-va lo scrittore Eraldo Baldini – ai celti che abitaronoqueste terre avanti i romani), sale giochi, cinema, parchitematici, fino (è notizia di questi giorni) a buddha bar,disco pub, risto dance, wine bar, dinner club, beachdance che, nonostante i nomi esotici o fondati sull’ingle-se dominante, sono luoghi dove si balla e si mangia: unritorno, in forme mutate ovviamente, agli antichi veglio-ni romagnoli?

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In principio era Zaclèn...

Due o tre cose che so su Carlo Brighie la musica popolare romagnola

Non poco è stato scritto e detto sulla musica popola-re romagnola. Che nasce e s’afferma come musica daballo. E, insieme, della relativa passione locale per ilballo.

Per cercare di rendere un’idea e magari qualche sen-sazione (certo non meno importante) di questo singola-re fenomeno, mi rivolgerò, questa volta, alla letteratura.Sono certo che essa, sebbene affabulata, offrirà un’im-magine “fedele” di ciò che poteva capitare nella secondametà dell’ottocento in Romagna (e che è seguitato aaccadere).

Rino Alessi, giornalista, romanziere, autore teatrale,nato nel 1885 a Cervia (città della costa che esibisce,assieme a Milano Marittima, una folta pineta propriodietro la spiaggia), pubblicò nel secondo dopoguerra, unciclo di romanzi, tra invenzione, “amarcord” e ricostru-zione storica, dedicati alla Romagna tra otto e novecen-to. Il primo di questi, Calda era la terra (1958), secondoun giudizio comune, il più bello, in alcune pagine evocaciò che viene definito il romagnolo “demone delladanza”. Che, per esempio, s’era impossessato della casa-ta cervese dei Balach.

«Il vecchio, detto e Gagg, per il fulvo colore dellapelle e dei radi capelli – scrive Alessi –, aveva chiamatole figlie Tersicore e Euterpe, spiegando agli amici che

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avrebbe voluto crescerle sacerdotesse del ballo e dellamusica. E il suo proposito non era andato deluso [...].

Un romagnolo che non sappia ballare il valzer non èun romagnolo – sentenziava spesso e Gagg. E del mododi ballarlo conosceva tutti gli stili: dal valzer stretto, gira-to su un soldo, si udiva dire, dei forlivesi a quello largoe strisciante dei cesenati, dal valzer intervallato da furio-si mulinelli dei faentini a quello lento e slanciato deilughesi [...].

Allora per ballare, fatta eccezione delle feste all’aper-to durante l’estate balneare, che dava i suoi primi segnidi vita, bisognava attendere il carnevale. I balli pubblicisi alternavano coi balli politici. I partiti, le associazioni, icircoli si mettevano in gara per assicurarsi la partecipa-zione delle più famose orchestre e delle più acclamatecoppie. Tersicore e Euterpe erano le trionfatrici: ma nes-suno le avrebbe volute avere per mogli. Quelle due sca-tenate! Chi sarebbe riuscito a domarle?

I tre fratelli Balach non erano da meno delle sorelle.Iscritti al partito repubblicano, quando veniva il periododelle ‘feste danzanti’, dal cui esito dipendeva in certaguisa il buon nome della loro organizzazione politica, simettevano all’opera con segreto entusiasmo, con spiritodi dedizione, come se avessero dovuto organizzare unmoto insurrezionale [...].

Ogni paese di Romagna aveva le sue orchestre. IBalach le conoscevano tutte. Chiamavano a nome i suo-natori con cui familiarizzavano. Erano suonatori campa-gnoli, quelli. Qualcuno non conosceva nemmeno le notemusicali. Ma che orecchi fini! Che senso del ritmo! Chegenialità nell’inventare temi melodici e accompagna-menti con intonazioni impeccabili!

La più famosa delle orchestre da ballo della Romagnafu per molto tempo quella del cesenate Zaclèn. Un vio-

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lino primo, un violino secondo, una chitarra, un con-trabbasso e un clarinetto, gorgheggiante a orecchiocome un usignolo. Zaclèn, con i suoi valzer travolgenti,faceva impazzire i ballerini. L’orchestra suonava senzamusica. Il clarino inventava il controcanto con una fan-tasia inesauribile. Il contrabbasso batteva il tempo sullacorda con il fragore di una cannonata. Si portava dietrouna misteriosa cassetta sulla quale poggiava il puntaledello strumento per rinforzare il suono [...].

I Balach avevano fatto del ballo il piacere più altodella loro vita. Il loro caso era l’indice rivelatore di uncostume.

Può darsi che anche la Romagna oggi paghi il suo tri-buto ad altre passioni. Ma se i partiti allora volevanoavere un’influenza sull’anima popolare, non potevanodisinteressarsi del ballo. Ciò spiega perché un invernoanche i cattolici di Faenza e dell’alta valle del Lamone –attivi e combattivi quanto i repubblicani e i socialisti, sianel campo politico che in quello economico – avesseroanch’essi deciso di organizzare le loro veglie danzanti,con premi, gare di ballo, banchetti e oratori.

Venne, così, fuori una canzonetta un po’ sguaiata, disapore polemico, che nemmeno a farlo apposta, propriosu un ritmo di valzer diceva: ‘Al saviv i mi burdell / quellch’ià fatt i squaciarell! / ià mess so una societé / che st’in-vern i vo balè. // Par paghèr i sunadur / ià vindù tot isignur; / par paghèr al balarèn / ià vindudi al madunèn.’Tradotte alla meglio le strofette dicevano: ‘Lo sapeteragazzi, ciò che hanno fatto i squaciarell? (Squaciarellerano soprannominati i democristiani avanti lettera dellavallata del Lamone). Hanno messo su un circolo perchénei prossimi inverni vogliono ballare. Per pagare i suo-natori hanno venduto tutte le immagini del Signore e perpagare le ballerine, quelle della Madonna’. [...]

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Bevitore a nessuno secondo il vecchio Balach morì diun colpo secco (un genere di morte apprezzato, almenodai romagnoli, i quali, di solito, si consolavano commen-tando: ‘poveraccio, almeno non ha sofferto!’). Quando ifigli apersero il testamento, fecero un salto; e benchéancora commossi per la imprevista dipartita del lorocapo, sbottarono in una fragorosa risata.

Balach non aveva terre da lasciare all’infuori dellatomba di famiglia. Il testamento conteneva soltanto unavolontà: essere accompagnato al cimitero a tempo di val-zer invece che con la solita marcia funebre della bandamunicipale».

La richiesta che, all’epoca, dovette apparire a qualcu-no irrispettosa al limite dell’indecenza o ai più benevoliquanto meno bizzarra (ma in seguito diverrà una“volontà” diffusa specie se accompagnata dall’innoRomagna mia eseguito dall’Orchestra Casadei), dette lastura all’immancabile polemica col parroco che sovrin-tendeva al cimitero. Alla fine, però, l’accordo fu rag-giunto. Il valzer venne eseguito, davanti al morto, dal«concertino di strumenti a fiato» diretto da Zvanì adBaroia, prima che venisse chiuso nella cassa, alla solapresenza dei figli. Pare che la gente fuori ridesse mentrei figli piangevano. Poi si formò il corteo e tutto filò liscio.Con grande afflusso di popolo.

Da un’intesa tra la casata dei Baroia e quella deiPulétt era nata la fanfara socialista Andrea Costa, mapure il concertino da ballo, diretto da Zvanì, che suonòin morte del vecchio Balach, e che era assai richiestonella zona. Alessi descrive un’altra esibizione del gruppoe ci propone un’assai vivida descrizione di un locale daballo dell’epoca. Gli lascio un’altra volta, l’ultima, laparola.

«Il nostro arrivo venne salutato festosamente dai diri-

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All’inizio degli anni trenta, l’epoca delle sfide musicali tra le forma-zioni che eseguivano musica romagnola. L’Orchestra Casadei esibiscela sua divisa. Da sinistra: Guido Rossi, Secondo Casadei, ElmoBonoli, Primo Lucchi, Giovanni Fantini, Olindo Brighi. Una delletante innovazioni che Casadei introdusse nella sua orchestra fu,appunto, l’uso della divisa.

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genti [s’inaugurava una sezione socialista], i quali siaffrettarono ad indicarci una specie di lungo pulpito,sotto il soffitto della stamberga, destinato all’orchestra.

Dal centro del soffitto pendeva una grossa lampada agas acetilene, di un genere assai diffuso nella ‘bassa’.Essa spandeva raggi accecanti che, per altro, a causa delviolento contrasto tra luce ed ombre, impedivano didistinguere nettamente volti e fattezze delle persone.

La sala rigurgitava di uomini e donne, prevalente-mente giovani. Tutti attendevano in silenzio che le primenote del concertino rompessero quell’atmosfera dandoinizio al ballo.

Salimmo sul pulpito, piuttosto traballante. A stentoriuscimmo a sistemarci su vecchie sedie che, sotto il pesodei nostri corpi, scricchiolarono [...].

Attaccammo un valzer; anzi, il famoso valzer delFaust di Gounod, che Zaclèn, con il suo portentoso vio-lino, aveva reso popolare. La folla, che si era addensatacompatta sotto l’orchestra, fu come frustata da unimprovviso brivido collettivo. Le coppie, pronte per lan-ciarsi come in una gara, furono travolte dalle prime bat-tute. Un denso polverone si levò dal pavimento sino aformare un’impenetrabile cortina sopra la testa dei bal-lerini. Ci sembrò di suonare cavalcando una nuvola; mauna nuvola che salisse da un enorme pentolone di pecein ebollizione.

Rassegnati al nostro destino, continuammo a suonareun valzer dietro l’altro senza preoccuparci di quello chestava avvenendo sotto di noi. Ogni tanto consultavamol’orologio invocando la mezzanotte, l’ora del discorso[inaugurale] e del banchetto, che ci avrebbero permessodi uscire dalla bolgia, di andare un po’ all’aperto a respi-rare».

Nelle pagine di Rino Alessi, dedicate al “demone

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della danza”, campeggia un altro demone quello dellapolitica. Che, nell’opinione comune, sopravanza di granlunga quello medesimo della danza. A esso avevamo giàalluso. E non potevamo non incontrarlo di nuovo. Contutto il suo peso di sentimenti e valori. Subito ce ne con-gediamo. Non perché di poco momento. Anzi. Ma per-ché ci trascinerebbe fuori dal nostro tema. Che ripren-diamo soffermandoci su un personaggio sbucato daCalda era la terra: Zaclèn musicista e compositore.

Zaclèn, al secolo Carlo Brighi, nasce a Fiumicino, dauna famiglia di contadini, nel 1853. Secondo un usoassai diffuso in Romagna gli viene affibbiato, a un certopunto della sua vita, il nomignolo di “anatroccolo”dovuto alla sua passione per la caccia alle anitre.Fiumicino è frazione di Savignano di Romagna (poiSavignano sul Rubicone). Era (e è ancora) un pugno dicase addossate al fiume Rubicone o meglio al Fiumicino:al quale, solo dopo lunga diatriba – alla quale abbiamogià fatto cenno – con i limitrofi Pisciatello e Uso, venneassegnata ufficialmente la qualifica di Rubicone: quelloattraversato da Cesare con le legioni dando inizio allaguerra civile. Fiumicino sta tra Savignano, San Mauro,Gatteo e Sant’Angelo (terra natale, già lo sappiamo, diSecondo Casadei). Nel cuore di quella che abbiamodefinito area linguistica “del dittongo”. Lì (o qui dato ilpunto di vista di chi scrive) anatra si dice zàqual invecedi zàcul, e anatroccolo, non zaclèn ma, a seconda delluogo: zacléin (a Savignano), zaclòin (a San Mauro),zaclòen (a Bellaria) ecc. Tutto ciò, ovviamente, con reci-proche influenze e scambi. Dato il luogo di nascita diCarlo Brighi il soprannome ovvio e dovuto è quello nellaparlata savignanese. Al massimo si potrebbe accettareun’influenza della vicinissima San Mauro. O di Bellaria,la cui spiaggia e il cui mare furono assai amati da Panzini

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che vi tenne casa, proprio quando Brighi vi si trasferìaprendo una balera. O magari la versione Zaclain checompare, inopinatamente, in una poesia del savignaneseGino Vendemini: «La saira i bala e’ boston da Zaclain».Non certo il soprannome, Zaclèn, ecumenico, per cosìdire, romagnolo.

In un bel libro sul dialetto di Pascoli, Il dialetto diGulì, Claudio Marabini, fine letterato e giornalista faen-tino, dati alla mano, dimostra che il poeta di San Mauronon usava il dialetto materno. Insomma si serviva di unalingua priva di dittonghi. Augusto Campana, che è pro-babilmente il più grande studioso della cultura roma-gnola, originario di Santarcangelo, ebbe a sostenere laseguente tesi: «noi quando siamo con romagnoli di altrezone, in Romagna o fuori, ci vergogniamo di questanostra particolarità e la correggiamo» adeguandoci allaparlata dominante. Zaclèn, che il successo portò benpresto oltre i confini paesani, avrà fatto lo stesso – comeconfermerebbero anche appunti autografi nei quali eglifirma Zaclèn. Oppure, più verosimilmente, sarà statol’ampio pubblico romagnolo a imporgli, con la forza deinumeri, della quantità, la propria dizione. L’esortazioneal suonatore, «Taca Zaclèn!» (alla lettera: cominciaAnatroccolo), è divenuta proverbiale. E a essa, per nondare l’impressione di un ingiustificato sussulto campani-listico, anch’io, rigorosamente, mi attengo.

Quella che noi oggi chiamiamo musica popolareromagnola o, più comunemente, liscio ha origini lonta-ne. Sia spaziali sia temporali. Il luogo: la Mitteleuropa. Iltempo: la prima metà dell’ottocento. Accade, là e allora,che le danze cortigiane, come per esempio i minuetti,cedono il passo a valzer, polche e mazurche. La classeborghese, che ormai sopravanza quella nobile, non s’i-dentifica più (a patto che si sia mai identificata) negli

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stantii rituali delle danze cortigiane, ma ambisce a nuovemusiche, a diversi balli. Che possano essere ascoltate edanzate fuori dai saloni nobiliari: nell’ambiente vivo efrenetico delle città, nei luoghi pubblici destinati a ritro-vo come i caffè concerto che si diffondono sempre più.

Le vecchie tradizioni scompaiono in fretta. S’imponeil ballo di coppia che s’esegue abbracciati volteggiando.I corpi entrano in contatto. Anche questo è un segno deinuovi tempi. Di un pur se timido mutamento, in sensoliberale, delle abitudini sessuali. O, per dirla con piùesattezza, della prossemica: dello spazio che l’uomo, inogni società storica, interpone tra sé e gli altri. Più vici-na è la donna. Più facile è l’occasione. Il che non man-carono di notare, aspramente, i moralisti allora in catte-dra sottoponendo i balli di coppia a una violenta propa-ganda censoria. Ma nulla valsero le loro proteste. La pas-sione per le nuove danze dilagò in fretta in tuttal’Europa. Il valzer ne fu il principale veicolo.

In Romagna, dove la passione per la danza – almenosecondo a quanto si dice – è già forte, il valzer s’imponeben presto come ballo urbano. Nelle sale o nei capanno-ni di paese o di città. Solo in seguito dilagherà nelle cam-pagne dove sono ancora in voga le caratteristiche danzedi gruppo saltate: furlana, monferrina, saltarello e tre-scone che pare fosse tipicamente romagnolo.

È a questo punto che entra in scena Carlo Brighi. Ilpadre è violinista autodidatta e gli trasmette forse, il“demone” della musica che, certo, mal si concilia con ledure necessità del lavoro dei campi. Immaginiamo che ilgiovane Carlo abbia discusso e lottato non poco perseguire la sua passione: per riuscire a acquisire un’edu-cazione musicale; per diventare un suonatore. Sappiamoche ci riuscì e si perfezionò in violino a Cesena col mae-stro Antonio Righi presso la scuola di musica comunale.

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All’epoca le scuole di musica comunali e le bande muni-cipali erano assai diffuse. Furono queste l’“accademia”di generazioni di suonatori e compositori romagnoli diestrazione popolare.

Brighi è un ragazzo di talento è viene subito arruola-to in orchestre di rango dirette da maestri autorevoli tracui lo stesso Toscanini. Più tardi abbandona quel tipo diattività musicale che si svolgeva a teatro per suonare ingiro per la Romagna. Non sono a conoscenza di testi-monianze circa le motivazioni che indussero Carlo.Suppongo che, essendo lui un socialista della prima ora(aderì al Partito socialista rivoluzionario di Romagna diAndrea Costa che precorse la nascita del Partito sociali-sta italiano di Turati), fosse spinto da un senso di giusti-zia. Mi piace pensare, insomma, e credo di non sbaglia-re, che egli avesse come scopo principale quello di por-tare, opportunamente da lui rielaborata, la musica deiricchi, dei benestanti, dei borghesi, ai poveri, al popolodella sua terra. Fu così che «per circa cinquant’anni, conla sua orchestra errò trionfalmente per la Romagna –come testimonia Dario Mazzotti – suonando musica daballo, nel suo salone di legno, che innalzava a sera sulleaie, nei campi, nei paesi», e solo «alle prime luci dell’al-ba faceva smontare». Nel salone «la gente ballava tuttala notte senza stancarsi. I ballerini pagavano un soldoogni due balli, poi tiravano la corda ed il baraccone sisfollava per riempirsi tra urtoni e gomitate sino al matti-no». Era questo il caratteristico bal de’ baiòch regola-mentato da una corda tesa che serviva a dividere quelliche avevano pagato per ballare da quelli che non l’ave-vano fatto. Accorrevano da tutta la Romagna per danza-re con Brighi e il suo complesso che risultava, oltre aBrighi, direttore e primo violino, così composto: EmilioBrighi, suo figlio, secondo violino; Lugaresi, padre, di

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Villalta, clarinetto in Do; Francesco Bugli di Savignano,chitarra; Lugaresi, figlio, di Villalta, contrabbasso.

Ma non basta suonare, occorre pure comporre. Ladomanda di musica da ballo “romagnola” è crescente. EBrighi, in quel periodo così fervido, non si risparmia.Compone circa 1200 tra valzer, polche e mazurche. Perse stesso e per altri. Soprattutto per i direttori d’orche-stra di campagna che ormai pullulano. Nasce allora, pro-babilmente, l’esortazione eponima «Taca Zaclèn!». Cheè anzitutto la richiesta di eseguire un pezzo o magari direplicarlo; ma rappresenta più in generale un modo diessere romagnoli e un mondo fatto di musica e danza.

Zaclèn intanto si è sposato e si è trasferito in quel diBellaria, dove, al piano terra della propria casa, apre unasala da ballo nota come il “capannone Brighi”: qui, neipomeriggi della domenica, affluisce gente da ogni parte.

Ma quali sono le caratteristiche di questa musica daballo che per alcuni costituisce la semplice trasmigrazionedi una moda borghese (quella del ballo a coppia chiusa,in particolare il valzer) ai ceti popolari urbani e contadiniche semplicemente l’assimilano e per altri, invece, rap-presenta l’autentica, la genuina espressione dell’“anima”popolare romagnola?

Sono pochi anni ch’è caduto il vieto pregiudizio chegravava sulla musica da ballo come oggetto di studiomentre, purtroppo, non è del tutto scomparsa la suffi-cienza con cui spesso s’è trattata la musica popolareromagnola, Lauro Malusi, uno dei primi studiosi, assie-me a Franco Dell’Amore, a occuparsi con serietà di que-sti argomenti ci aiuta a rispondere alla domanda.

«Fu certamente una musica assai diversa da quellache si crede fosse; una musica dallo stile inconfondibilela cui caratteristica grintosa e particolare la differenziaassai da quella delle altre regioni [...].

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Queste musiche si basavano essenzialmente sull’an-damento veloce e sul virtuosismo tecnico strumentale,sulla accentuazione ritmica e dinamica dei tempi quasisempre ternari – i balli lenti non esistevano affatto, nétanto meno canzoni o melodie cantate – perciò le coppiedi ballerini erano costrette ad un vero e proprio tour deforce specialmente a causa dell’ossessione ritmica e dellalunghezza dell’intero ballabile.

Se queste composizioni virtuosistiche venissero ese-guite oggi in un pubblico concerto – cosa non certo dif-ficile da realizzare – si stenterebbe ad immaginare chenel secolo scorso servivano da semplici ballabili a picco-li complessi (quintetto) che li eseguivano in ampie saleda ballo [...] affollatissime di persone vocianti e allegre,affumicate dai lumi a petrolio e frastornate da suoni chearrivavano ai loro orecchi sempre assai distinti e brillan-ti, nonostante la mancanza di qualsiasi mezzo di amplifi-cazione.

Il violinista, che quasi sempre era il capogruppo(capo-orchestra), era anche il compositore dei ballabiliche costituivano l’intero repertorio; esso ispirava il suovirtuosismo strumentale sul modello paganiniano, tantoche era raro trovare un complesso di un certo nome chenon avesse in repertorio qualche brano di Paganini,come per esempio Il carnevale di Venezia o qualche altropezzo del genere, naturalmente adattato alle esigenzetecniche, sia dello stesso violinista che a quelle degli altrielementi del complesso.

Era un genere quindi di non facile esecuzione, cherichiedeva soprattutto un violinista abilissimo ed unaltrettanto bravo clarinettista [...].

La formazione tipica di questi complessi era compo-sta da due violini, clarinetto in Do, chitarra e contrab-basso; solo nelle grandi occasioni, nei veglioni a teatro o

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nei luoghi all’aperto, a questa formazione si andavano adaggiungere altri strumenti ad arco, gli ottoni (due trom-be e trombone) e qualche altro strumento d’accompa-gnamento».

Il repertorio dei gruppi era composto di ballabili,creati dallo stesso capo-orchestra o da qualche collegacon l’aggiunta di «brani in voga tratti da opere liriche,operette e ballabili viennesi». Il tutto veniva raccolto inalbum manoscritti. I ballabili venivano ordinati pernumero. Assai di rado avevano un titolo, per esempio unnome femminile.

Non siamo in grado di addentrarci in sofisticate disqui-sizioni di carattere musicale. Dunque ci accontenteremodi affermare – confidando di non incappare nelle ire dimusicisti e musicologi – che il valzer romagnolo come lapolca e la mazurca sono caratterizzati dal virtuosismo del-l’esecuzione e dalla velocità dell’andamento (assai piùveloce, per esempio, di quello del valzer viennese che èall’origine). Insomma più grinta nell’esecuzione musicale;più grinta nei gesti della danza. Se nel valzer viennese si ècome cullati dal tempo e dal ritmo: si “galleggia”; nelromagnolo si è come sospinti da ritmi più rapidi: si“salta”. Si salta al ritmo degli archi ma soprattutto a quel-lo del clarinetto in Do che è, secondo l’opinione comune,la “vera voce della Romagna”. Poiché esegue il cosiddettostile “staccato”. Che consiste appunto nello “staccare”tutte le note slegando ogni frase musicale. Una melodia“saltellante” che i ballerini romagnoli apprezzano inmodo particolare, che sentono e eseguono come loro.Non a caso, a detta di Raoul Casadei, lo «stile della musi-ca romagnola è determinato dall’uso del clarinetto». Chein seguito, ma solo in seguito, quando Secondo, suo zio, lointrodurrà, «lavorerà in coppia col sax contralto». Ma suquesto avremo occasione di ritornare.

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Raoul confessa di chiamare il clarinetto in Do (cosìdetto per distinguerlo dal clarinetto in Si bemolle, «dalsuono robusto, con la voce più bella») «clarinaccio, perla sua violenza, la sua capacità di trascinare, di far muo-vere le gambe alla gente. Uno col clarinaccio è costrettoa ballare anche se non ne ha voglia». (Tutto romagnolo,osservo di passaggio, quest’uso del suffisso dispregiativo“accio”, in dialetto “az”: indica l’esatto contrario: nonspregio ma simpatia e anche ammirazione. Come direche un romagnolo, per una strana espressione di quelpudore a cui abbiamo accennato, quando ama qualcosadeve, in qualche modo, ostentare un certo distacco, edisprezzo.) Il clarinetto in Do, rispetto a quello in Sibemolle, «ha il suono più acerbo, più stridulo, più alle-gro». Nei conservatori nemmeno si studia. E «si fabbri-ca esclusivamente per la Romagna». Sempre a detta diRaoul, i romagnoli, anche quando non ballano, ma sem-plicemente ascoltano, si piazzano accanto al clarinettistaper cogliere, oltre alle note, persino la sua mimica fac-ciale. Poi, nel bar, discutono di clarinettisti come fosse-ro capi politici o campioni del calcio e della bicicletta.

Resta di dire, infine, sulla controversa questione,sopra adombrata, se la musica popolare romagnolacostituisca una forma di supina assimilazione di pratichee modi d’essere e d’agire di classi superiori o, al contra-rio, rappresenti una sorta di genuina e spontanea espres-sione popolare.

La cultura, intesa come la più ampia estrinsecazionedell’attività umana, non funziona come la logica astratta(a è l’esatto contrario di non-a, secondo la filosofia diAristotele). Non vi domina il chiaro e lo scuro. Le per-sone, le cose, gli avvenimenti s’incontrano, si scontrano,s’influenzano a vicenda in un andirivieni perenne.Perché ciò non dovrebbe succedere nel campo della

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musica e della Romagna? I romagnoli, “estroversi pernatura”, hanno accolto a braccia aperte la nuova modache, per di più, incontrava una loro esigenza di socialità.L’hanno assimilata. E hanno prodotto qualcosa dinuovo. Con le caratteristiche che abbiamo sommaria-mente tracciato sopra.

Se a qualcuno le mie affermazioni sembrassero unamodesta applicazione di un altrettanto mediocre pre-sunto “giusto mezzo” o niente di più che una sempliceapplicazione del buon senso, mi atterrò, per concludere,ai sintetici fatti seguenti.

Quando Zaclèn muore, nel 1915, la sua musica èaffermata in Romagna. Ha conosciuto, è vero, una sortadi appannamento nell’ultimo ventennio dell’ottocento.Ma poi, grazie anche al turismo balneare nascente, haripreso smalto e brio nei primi decenni del novecento.

A cavallo dei due secoli nella scia di Zaclèn, inRomagna, hanno operato un gran numero di gruppimusicali (in dialetto squèdri, squèdra al singolare). Che sispostavano col calesse o la carrozza, zeppa all’inverosi-mile di strumenti, musicisti e l’immancabile cassa conte-nente gli album col repertorio dei ballabili. Malusi ne hastilato un catalogo: Galvên, i fratelli Fusconi di MassaMatelica, Ravenna; Aldo Bovolenta di Cervia; Bitelli diFusignano; Bond, Gaspare Bondi di Ravenna; Bruto,Bruto Gentili e la figlia Lidia di Cesenatico; Cappelli diPredappio; Carletto e i Febar ad San Martên, CarloBarbieri e i fratelli Rinaldi di Forlì; Chiccöun, i fratelliChecconi di Lugo; Giustinett di Ravenna; Leonardi, ifratelli Mario e Nino Leonardi di Ravenna; Mentore,Mentore Dallamora di Cervia; Negri di Conselice;Ortolani e Bernabè di Faenza; Resta, Alfredo Resta diFaenza; Semprini di Rimini; Spaghet; GeremiaFusignani di Matelica; Zangheri, Domenico Zangheri di

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Meldola; Zanzi, Romolo Zanzi di Ravenna; Zcarel eBrustol di Cesena; Zaclèn figlio... In alcuni casi (pochi)ci è pervenuto il nome del complesso. In altri (di più)quello del capo-orchestra. Che dava il nome all’interogruppo.

Anche se la storia non s’è data troppa pena di con-servare a futura memoria nomi e vicende dei suonatoriromagnoli, non c’è alcun dubbio che c’erano; erano assaiattivi; e piacevano. È questo il clima, quando irrompesulla scena Secondo Casadei.

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... e poi venne Casadei e’ sunadòur

Due o tre cose che so su Secondo Casadeil’uomo della musica

Secondo Casadei nasce a Sant’Angelo, l’abbiamodetto, una frazione di un piccolo paese, Gatteo, il primoaprile del 1906, da Federico e Ernesta Massari, nella«prima casa a sinistra dopo il ponte sulla Rigossa, andan-do verso il centro del paese» ricorda Angelina, la sorellaminore. All’anagrafe gli viene imposto il nome Aurelio.Ma, come per tutti i romagnoli che si rispettano, questonome non viene usato. Gli si preferisce, nell’uso quoti-diano, diverso da quello delle carte comunali e statali,ufficiale, ma discosto dalla vita di tutti i giorni, il sopran-nome. Secondo appunto. Che certifica l’appartenenza auna comunità assai più e meglio degli astratti registriparrocchiali o comunali. Legittimati da un potere lonta-no e neanche tanto amichevole: prima il papa-re; poi ungenerale francese, anche se di nome italiano, che diven-terà imperatore; infine un re italiano, con non sporadi-che ascendenze francesi.

Il soprannome era «diffusissimo, un tempo, inRomagna, ‘colpiva’ – ci racconta nel suo sapidoDizionario romagnolo (ragionato) Gianni Quondamatteo– sia il singolo individuo, sia il nucleo famigliare: accom-pagnava il primo dall’infanzia alla morte, accompagnavail secondo di generazione in generazione. Impietoso omeno, ridicolo o no, il soprannome personale avevacento motivazioni cui aggrapparsi, mille giustificazioni

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da addurre: muoveva da un tratto caratteristico del fisi-co, a un portamento, difetto, inclinazione, fino alle pie-ghe del carattere, del cuore, del sentimento. La fantasia,la creatività, l’inventiva nel campo dei nomignoli merite-rebbero ben altra attenzione. Restiamo in superficie: ilnomignolo colora, accarezza, fotografa colui cui è statoaffibbiato: l’ironia è molto spesso presente, la politicanon manca, così come, a torto o a ragione, la guerra e igrandi avvenimenti. Il nomignolo del gruppo famigliarenasceva spesso, invece, da una distorsione del verocognome, da una vecchia professione o attività, dalluogo di origine. Il fatto è che nel passato – concludeQuondamatteo – nove persone su dieci, e anche piùconoscevano Bruglòn e non Giovanni Fabbri, Saraghinae non Giuseppe Rossi, e che spesso era il manifesto fune-bre che ci rivelava, è proprio il caso di dire ‘in extremis’,il vero nome dell’amico defunto».

Così Aurelio diventa Secondo. In ragione del fattoche la primogenita dei Casadei muore prematuramentepochi giorni dopo la nascita. Aurelio-Secondo manifestain breve tempo la sua vocazione musicale. Sarà lui l’ere-de di Zaclèn. Sarà lui il rinnovatore della musica popo-lare romagnola. Sarà lui il fondatore della moda del balloliscio. Secondo il seguente percorso. L’aristocrazia e laborghesia romagnola s’appassionano alle musiche daballo dell’Europa centrale. Zaclèn & Co. le metabolizza-no e le portano dai centri urbani nelle campagne e neivillaggi. Secondo, attraverso le modalità che vedremo, leriporterà nelle città, in Italia e nel mondo (come dimo-stra il successo di Romagna mia).

Fatto bizzarro. «Anche se il genere folcloristicoromagnolo oggi viene chiamato liscio, Secondo Casadeinon usa mai tale espressione negli anni dell’anteguerra esi stupirà, anzi, di sentire definire in tale modo la sua

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musica negli anni sessanta e confida alla figlia Riccarda:‘Sai che fuori dalla Romagna chiamano liscio il nostrogenere? Non mi convince questo termine, anche perchéla nostra musica frizzante e briosa tutto mi sembra esse-re, fuorché una cosa liscia’. Forse gli sfugge in quelmomento – annota Riccardo Chiesa in un puntuale reso-conto della prima parte della vita di Casadei – che l’e-spressione ‘liscio’ non vuol riferirsi tanto al tipo di musi-ca, quanto al modo di ballarla, che richiede un continuolisciare di piedi».

Malusi, che concorda con Secondo, spiega: «In epocarecente, probabilmente per esigenze commerciali, si èvoluto chiamare questo genere musicale nostrano con iltermine improprio di liscio, un termine che non si addi-ce affatto alla caratteristica di questa musica che, pro-prio per il suo stile spiritoso, vivace, elettrizzante, colgenere liscio proprio non ha nulla a che fare».

Castellani, biografo ufficiale, rincara la dose: «Lochiamano ballo liscio, perché si balla strisciando i piedisulla pista della balera. Ma quando mai! I piedi volano,saltellano, punta e tacco, audaci giravolte e imprevedibi-li figure, come in un film di Gene Kelly. Anzi meglio!»

Raoul attribuisce ai soliti giornalisti l’introduzionedel termine. Si sarebbero ispirati ai milanesi che (tantoper non smentire un luogo comune da loro stessi accre-ditato, che li vede sempre protagonisti) dicono di averloinventato loro, il liscio, tanti anni fa: si chiamava liscioambrosiano. Sarà pur vero – chiosa Raoul. Fatto sta cheil liscio autentico, quello che la gente conosce, nel qualecrede, che ha impresso nella testa, è il romagnolo. E que-sto è fuori discussione.

Chiediamo soccorso ai musicologi. Il termine liscio,secondo gli esperti, è effettivamente di origine setten-trionale. Nasce per distinguere balli ottocenteschi come

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valzer, polca, mazurca e, in seguito, one-step e tango, daitradizionali balli “saltati”. Sono queste le nuove danzeche – l’abbiamo detto – rivoluzionano il concetto stessodi ballo: catturano prima aristocratici e borghesi, quindidilagano tra le masse popolari.

Torniamo a Secondo. Il padre Federico (dettoRichéin) fa il sarto per i contadini. Come quel mestierefosse buono, dati il luogo e i tempi, ce lo spiega arguta-mente Secondo stesso in un suo diario inedito. Nel qualerivela qualità non banali di narratore.

«Mio padre faceva il sarto, un mestiere rinomatissimoin quei momenti, ed era conosciuto in tutta la zona. Nonappena ebbi finito le elementari, mi avviò subito a questaprofessione con grande entusiasmo perché sapeva didarmi un lavoro sicuro e di soddisfazione. Infatti in queitempi regnava la miseria in tutte le case ma nella nostra siandava molto bene, perché mio padre aveva una cliente-la per la maggior parte di contadini ed alla fine del rac-colto si passava da queste famiglie in campagna con unsomarello, generalmente lo guidavo io, e ci si riempiva unpo’ di tutto. Chi ci dava mezzo quintale di grano oppureottanta chili di granturco, chi legna, chi uova; insomma ilfabbisogno per tutto l’anno in cambio dei lavori da sartoricevuti. La nostra era una delle posizioni migliori: infat-ti quando una famiglia poteva avere tutto questo ben didio in casa, era allora considerata benestante [...]».

Siamo nel 1916, un anno dopo la dipartita di Zaclèn,e Secondo giustamente insiste sulle caratteristiche dieconomia di sussistenza e di scambio del luogo. I conta-dini ricavano i prodotti della terra che servono a vivere;i borghesi o meglio i borghigiani (il termine borghesepotrebbe generare confusione) producono beni chescambiano coi contadini. Tutto questo, che sembraremoto anni luce, accadeva poco più di ottant’anni fa.

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Chi, disponendo di un lavoro sicuro e stimato (che glisarebbe arrivato in eredità dal padre, un artista, il sartopiù rinomato dei dintorni), avrebbe rinunciato, lì e allo-ra, scegliendo un altra strada? Per di più incerta comequella del suonatore. Per di più in una società patriarca-le nella quale i voleri del capo famiglia sono ordini. Nonè dato sapere se Richéin fosse un patriarca “liberale”; dicerto Secondo era un ribelle, un “maledetto” come sot-tolinea Angelina, e prese risoluto il suo cammino.

Un ritratto divertente della Sant’Angelo dell’epoca celo propone, sul filo della memoria, Grazia BravettiMagnoni. «[...] era solo un borgatino di poche case, conla stessa chiesa e un palazzo di chi sa quale epoca sulponte della Rigossa, che ora non c’è più. Di sicuro c’eratanta miseria e poco lavoro, perché mancavano le indu-strie che ci sono adesso. In giro c’era solo disoccupazio-ne, perché le possibilità di lavorare erano solo d’estate.Lavori difficili, sempre insicuri e così si diceva:‘Santanzal: i piénta i fasul e i nas i lédar (Sant’Angelo:piantano i fagioli e nascono i ladri)’ e alcuni aggiungeva-no: ‘... e i pórta vi ènca e’ fóm me vapòur (e portano viaanche il fumo al vapore)’. Le donne, più che potevano,andavano a arraffare l’erba dai campi, un po’ d’erbadappertutto che sarebbe servita per i carrettieri delluogo. Di carrettieri ce n’erano quattro o cinque nelpaese, come Pelota, che lavorava con tutta la famiglia, ocome i parint dla Rusina ad Scarnécia. Loro, partendo dalMarecchia, arrivavano fino a Ravenna. Trasportavano laghiaia che serviva per le strade e poi portavano anche lebietole fino alla stazione di Gambettola e le bietole ser-vivano allo zuccherificio di Cesena. I due fiumiciattolidella borgata erano il Re e la Rigossa, ma non ci si anda-va neanche a lavare i panni e servivano solo come scoli.Nel centro della borgata s’incontrava lo spaccio, due

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osterie, il barbiere e nelle scuole elementari c’era solo laprima, la seconda e la terza. C’erano anche il fabbro e ilfornaio [...]».

Un sarto era il babbo di Secondo, «l’altro sarto abi-tava su per la Rigossa. Per l’uno e per l’altro i clientierano i contadini, che per il pagamento contrattavanocol sarto per tutta l’annata e pagavano di solito col rac-colto di grano. Il sarto, come il calzolaio, andava anchea lavorare nella casa del contadino per due tre o più gior-ni e, a mezzogiorno, mangiava lì e se era d’inverno,quando s’ammazza il maiale, al sarto si chiedeva:‘Mèstar, a magné se bagòin? (alla lettera: Maestro, man-giate col maiale?)’. E il sarto: ‘Mó... s’un da ’d mórs?(Mah... se non morde?)’. Il lavoro del sarto si potevapagare anche col maiale o coi polli o col vino, oltre checon la farina.

Trovandosi così spesso, sia sarto che calzolaio coicontadini nelle loro case, era spontaneo che ne nascesse-ro battute o barzellette come quella sull’insalata, che simangiava in quei tempi soltanto la sera. Una volta capitòche una famiglia, in campagna, la mangiasse a mezzo-giorno. Dopo il pranzo l’arzdóra [reggitrice, colei chegoverna la casa], andando di sopra a controllare il lavo-ro del sarto, si accorse che nella stanza dove lavorava, ilsarto stava dormendo. Svegliandolo, gli chiese se stavapoco bene e il sarto, tranquillamente volle precisare:‘No, no, mèl a n stag, mó mè, ma chèsa mi, quant ò magnèl’insalèda, a vag a lèt parchè l è nòta (No, no, non stomale, ma io, a casa mia, quando ho mangiato l’insalata,vado a letto perché è notte)’. E l’altra barzelletta: ‘Amagné sa nòun òz? (Mangiate con noi oggi?)’ chiesel’arzdóra al mèstar, mentre lei faceva la sfoglia. E lui chela stava osservando vicino al tagliere, infreddolita e conla goccia al naso: ‘Mó sgnòura, sgònd duò ch’la chésca

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(Ma signora, secondo dove cade)’ con l’equivoco tramoccolo e sfoglia».

Se la miseria non mancava, non potevano mancareneppure le danze. «Il veglione più sentito, aSant’Angelo, era quello del 19 gennaio, sant’Antonioabate. Di solito si teneva dalla Rosina, perché da Carlind’Imbrus c’era stato l’ultimo dell’anno. [...] i giorniprima del 19, il parroco passava in tutte le stalle a darela benedizione agli animali, lasciando all’arzdóra dellacasa dei piccoli panini per darne pezzettini ad ogni ani-male. Erano panini insipidi ma i bambini, incuriositi, lirubacchiavano per assaggiarli. Il parroco lasciava anchel’immagine del santo che ogni anno veniva posta sullaporta della stalla. La ricompensa data dai contadinipoteva consistere in uova, ‘parchè znèr l è uvèr (perchégennaio è ovaiolo)’, ma se si era tanti in famiglia, le uovaservivano tutte, allora si lasciavano due, tre, anche cin-que lire. Con quell’offerta, per il 19, i priori organizza-vano una festicciola con messa cantata e i violini e mol-tissimi addobbi. Per la messa sarebbe entrata moltissimagente; se la giornata era buona, poteva darsi che il pome-riggio ci fosse la banda. Non era come adesso, chedurante la giornata si portano gli animaletti da cortile,ma allora, dopo il passeggio, verso le quattro, c’era lapredica e la benedizione e i ragazzi accostavano le ragaz-ze per combinare la serata».

È questo, all’incirca, l’ambiente nel quale Secondomuove i primi passi e ascolta le prime note musicali chegl’instillano il demone musicale e ballerino. Nel suo dia-rio annota che il lavoro di suo padre gli piaceva “abba-stanza”. Ma immediatamente aggiunge: «a tredici anni,quando ebbi modo di ascoltare le prime orchestrine daballo nelle balere, fui subito preso da una grande pas-sione per la musica ed il giorno dopo cantavo i motivi

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della sera precedente, facendo la parte del clarino avoce, imitando con due bastoncini i movimenti del vio-lino, mentre i miei genitori mi guardavano con una certameraviglia e anche con una certa soddisfazione». Che sisarà tramutata, in breve, in preoccupazione. Secondo èsempre più attratto. A Richéin, ago e filo in mano, quelfiglio sfugge. Non si riesce più a trattenerlo dentro lemura di casa perché qualcosa lo sospinge irresistibil-mente là dove si balla. «Allora – ricorda Secondo –, perla maggior parte, i minorenni non li volevano, ma io inun modo o nell’altro (ero molto furbo e soprattutto desi-deravo entrare a tutti i costi) con qualche trucco o scher-zetto ci riuscivo, però non poche erano le volte che miprendevo, dai soci organizzatori di queste feste, qualchescapaccione, ma ne valeva la pena!»

Sempre più spesso Richéin, che supponiamo, all’usodel tempo, si sarà servito anche della maniera forte, lacinghia, deve recuperare Secondo, al mattino, all’uscitadei locali da ballo, dove suonano Zaclèn figlio, al secoloEmilio Brighi, i Galvên, Bruto Gentili eccetera. Secondoè ubriaco di musica e di danze, e distrutto dal sonno.Una rinfrescata con l’acqua di fonte e poi via. Sulla stra-da. Verso le case dei contadini. A zcurté (accorciare) oslunghé (allungare). Arpzè (rattoppare) o arvultè (rivol-tare un vestito vecchio) o, più raramente, arnuvè (confe-zionare un vestito nuovo). Solo nel primo pomeriggioSecondo può recuperare almeno una parte del sonnoperduto nella balera il giorno avanti. Allora si appisolasotto il portico della casa colonica che sta visitando consuo padre. Ma non è quella la sua strada. Non è la pol-vere e il silenzio della campagna: i ritmi lenti e lunghidella società contadina. Desidera altro. Sogna – quandoriesce a dormire – altro. Magari altra polvere: quelladelle piste da ballo improvvisate. Magari altri ritmi:

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quelli rapidi dei violini. «La passione della musica – con-fessa – stava sempre di più aumentando: in certi momen-ti la sentivo tanto dentro me stesso, che mi sembrava discoppiare».

A Secondo non c’è verso di farlo desistere. Così,complice la madre, viene mandato a imparare i primirudimenti musicali da un rinomato liutaio, il maestroArturo Fracassi. Forse i genitori pensano che, costrettoa studiare, quel benedetto figlio magari cambierà d’avvi-so. Si stuferà allineandosi alla vita normale della sua bor-gata. Tempi regolari. A letto preso alla sera; sveglia pre-sto al mattino. La madre Ernesta ha un’altra chance, l’ul-tima a suo parere: il servizio militare. Se non lei eRichéin, provvederà, quando sarà il momento, il serviziomilitare a raddrizzare il suo discolo insegnandoli soprat-tutto a alzarsi al mattino all’ora di tutti i cristiani. Non amezzogiorno. Che manca poco ormai a tornare di nuovonel letto. Ma quando sarà il momento, Secondo avrà giàimboccato al sua strada. E, comunque, da soldato saràriformato per insufficienza toracica.

Il maestro Fracassi lo istruisce. Secondo studia dibuona lena. «Mio padre, le prime volte che mi vide sol-feggiare – racconta – e fare quegli strani movimenti conle mani, rimase molto male e quasi si impressionò.Cominciò a dire con mia madre: abbiamo un pazzo incasa». Ben presto Fracassi, visti i risultati ottenuti, glisuggerisce di presentarsi dal professor AchilleAlessandri che insegna violino alla scuola comunale diCesena. Costui mugugna che non si porta qualcuno aimparare a suonare a tredici anni. Poi, data la testardag-gine e il talento del ragazzo, è costretto a ravvedersi.

«Dopo due anni che studiavo – conferma Secondo –il maestro mandò a chiamare i miei genitori che nel frat-tempo, pur notando una certa volontà da parte mia, spe-

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ravano sempre ardentemente che prima o poi mi stan-cassi e riprendessi l’antico mestiere, per informarli cheandavo molto bene e di continuare a farmi studiare per-ché sarei riuscito in pieno».

Secondo è una di quelle persone che nascono con unprogetto in testa, anche se magari all’inizio un po’ con-fuso, e lo perseguono senza tentennamenti. Non avevadato retta ai genitori. Figurarsi se avrebbe ubbidito almaestro di violino. E non sarà stata certo la distanza delsuo borgo dalla città: l’essere costretto a pedalare fino aCesena con qualsiasi tempo (colla pioggia, col freddo) afarlo desistere. Come lui stesso confessa nel suo diario.«Purtroppo invece [di continuare nello studio del violi-no], appena imparate le prime sonatine che trovavo neilibri di studio, cominciai a andare a fare le serenate sottole finestre delle ragazze che conoscevo, accompagnatoda mio fratello Dino che suonava la chitarra. Questosuccedeva tutte le sere». Ma non basta. C’è un altro pas-satempo prediletto. «Poiché queste serenate portavano auna certa ora della notte, approfittando del fatto chenon c’era in giro anima viva, cambiavo le insegne; maga-ri c’era Osteria, mettevo quella di Sale & Tabacchi, dovec’era Macellaio, il giorno dopo si trovava Farmacia e cosìvia; insomma ne combinavo di tutti i colori. Ero anchecapace, in collaborazione di qualche amico compiacen-te, di spostare il pagliaio di un contadino dall’aia alcampo vicino». Addirittura, una notte, un mucchio dipaglia e legna prende fuoco. Il mattino seguente e’ Gag(il Rosso) piomba in casa Casadei minacciando l’esterre-fatto Richéin: «A n la i ò sa vò ch’a si un galantòm. Mó saciap che delinquént de’ vòst fiul a i spach la pènza te’ mèze a stend al budèli sla siva! (Non ho nulla contro di voiche siete un galantuomo. Ma se prendo quel delinquen-te di vostro figlio gli apro la pancia a metà e stendo tutte

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1934. Una fotografia scattata in uno studio milanese. Da sinistra:Elmo Bonoli, Guido Rossi, Primo Lucchi, Secondo Casadei, LeoSirri, Giovanni Fantini, Olindo Brighi.In questi anni l’Orchestra Casadei, oltre a incidere dischi, ha ormaiconquistato, una dopo l’altra, tutte le piazze romagnole: le cosiddet-te sette sorelle che una filastrocca di un tempo così definiva: Riminiper navigare, Cesena per cantare, Forlì per ballare, Lugo per tende-re imbrogli, Faenza per lavorare, Imola per far l’amore, Ravenna permangiare.

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le budella sulla siepe!)». Immaginarsi il disappunto delpovero Richéin...

Così andavano le cose, almeno secondo la bella bio-grafia, più volte citata, di Castellani. Una biografia cheassomiglia a una sceneggiatura cinematografica. E aquando, a proposito di sceneggiatura, il film su SecondoCasadei? Discorrendo di cinema, poi, non possiamo nonricordare analoghi episodi della vita di altri illustri roma-gnoli. Penso a Amarcord, alle vicende della Rimini delgiovane Fellini, e in particolare al malcapitato spettatoredel cinema Fulgor che si presenta inferocito in casa diAurelio, padre del protagonista Titta, perché il ragazzogli orinato nel cappello dalla galleria del cinema. È que-sto, in realtà, un ricordo autobiografico di ToninoGuerra, che scrisse con Fellini la sceneggiatura diAmarcord, e il fatto avvenne non già al Fulgor maall’Eden di Santarcangelo.

Un’impresa che Tonino Guerra avrà compiuto qual-che anno dopo (pochi) degli scherzi e delle serenate diSecondo Casadei. Quelle serenate che sono l’ovvio enaturale prologo del debutto come suonatore. Alleveglie nelle stalle, il luogo più tiepido di tutta la casa,vicino alle bestie che fungevano da calorifero, quandos’ammazzava il maiale, con piadina, salame e musica.Oppure per l’Epifania a cantare la Pasquella di casa incasa per riceverne qualche soldo, un po’ d’olio o di vinoo qualche uovo. Finché a mezzanotte ci si ritrovava nelluogo fissato per il “cenone”; poi danze fino al mattino.Oppure, l’estate, alle feste nelle aie in una polvere acce-cante per la trebbiatura e poco tempo dopo per la ven-demmia.

Secondo ricorda con soddisfazione i suoi anni diapprendistato tra la gente delle sue borgate e delle cam-pagne. Tutti gli «volevano bene» e gli «dimostravano

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simpatia e affetto». Lo pagavano, per così dire, imman-cabilmente «in natura: Sangiovese, polli, salami,uova...». E quando arrivava «si sentiva dire: ‘L è ’rivatCasadei, e’ sunadòur’».

Il giovane violinista, che verosimilmente indossaancora i calzoni corti, s’è conquistato una certa fama. Ilsuo nome comincia a circolare sulle bocche dei roma-gnoli e giunge alle orecchie dei diversi capiorchestra.Finché arriva il giorno del debutto sul palcoscenico.Secondo la testimonianza di un musicista di Cesena, talGuglielmo Benvenuti, tra la fine degli anni dieci e l’ini-zio dei venti.

«[...] avevo l’impegno di una festa da ballo di unacerta importanza e, trattandosi inoltre dell’inaugurazio-ne di un nuovo locale, il proprietario mi richiese perl’occasione un elemento in più del solito [...]. Io cheavevo udito suonare questo ragazzetto che mi aveva fattoun’ottima impressione mi premurai di chiamarlo a veni-re a suonare con noi. [...] Il proprietario del locale, appe-na lo vide col violino sottobraccio in calzoni corti, mifece quasi un rimprovero. [...] In quei tempi l’orchestrausava fare gli assolo richiesti dal pubblico. [...] Ioresponsabile dell’orchestra chiesi un cortese breve silen-zio e detti subito avvertimento al ragazzetto, il qualealzandosi in piedi eseguì la difficile celebre Mazurcavariata di Migliavacca (che in quei tempi non era paneper tutti i giorni) e tra un religioso silenzio del pubblicogli venne proprio eseguita bene tanto che alla fine sisentì uno scroscio di applausi che insistentemente dovet-te fare il bis».

L’episodio non trova conferma nel diario di Casadeiche colloca il suo esordio nel 1922 e ricorda un suo asso-lo con la Mazurca variata, accolto con applausi scroscian-ti, nel 1924. Siamo più portati a credere a Secondo, pur

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non sentendoci di escludere del tutto la testimonianza diBenvenuti. Sul quale, tuttavia, aleggia il sospetto di esser-si attribuito la scoperta di un famoso musicista.

E così – nello stesso anno della “marcia su Roma” diun altro romagnolo, questi originario di Predappio: dinome Benito, in onore di un celebre rivoluzionario mes-sicano, e cognome Mussolini: che all’inizio indossava lacasacca socialista (la stessa di Secondo, anche se il musi-cista non s’è mai impegnato direttamente)che poi mutò in fascista – Casadei debutta nei localidella Società di mutuo soccorso di Borella di Cesenaticocon l’orchestra di Aurelio Bazzocchi, suonatore di con-trabbasso.

«Dal palco al soffitto c’era poca altezza – ricordaSecondo –, tanto che bisognava stare un po’ curvi e lagente per guardarci doveva tenere il collo proteso versol’alto, rischiando un sicuro torcicollo. Eravamo quattroelementi: violino, clarino, chitarra e contrabbasso. Perleggere bene la musica avevamo una candela appoggiataall’asse dove tenevamo la cartella con gli spartiti. Inmezzo alla sala c’era un lume a carburo e negli angolidue lumini a petrolio che servivano per i casi di emer-genza. Essendo il pavimento di mattoni grezzi c’era ungran polverone, ed a fine serata, verso il mattino erava-mo irriconoscibili».

Tempi duri, ancorché entusiasmanti, per suonatori eballerini. Il suonatore Casadei, che riceve quattro lire dicompenso, ormai è lanciato. Sedici anni – oggi quasi l’in-fanzia – all’epoca erano il momento giusto per costruir-si un avvenire.

Incontra Giovanni Fantini di Gambettola, chitarri-sta, che diventerà suo sodale per eccellenza. E poi ilpadre di lui, Giuseppe, che suona il clarinetto nell’or-chestra di Emilio Brighi, figlio del grande Zaclèn.

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Formano un trio che si dedica al cinema. La settima arte,che ha qualche anno in più di Secondo (dieci e mezzoscarsi a voler essere pignoli), s’avvia a occupare il postodi divertimento popolare per eccellenza, a superare per-sino – anche in Romagna – la musica da ballo. E a lui,che nel popolo ci sguazza, non può non suscitare inte-resse. E poi il cinema è ancora muto. O meglio necessitàdi un accompagnamento di voci e suoni. Il trio, pocoprima dell’inizio dei film, si piazza davanti all’ingressodella sala e comincia a suonare. Attira gente e l’accom-pagna all’interno continuando la melodia fino all’iniziodella proiezione. «[...] accompagnavamo con gli stru-menti i film muti – spiega Secondo –, adattando i moti-vetti ai soggetti dei film. Componevamo praticamentequella che ora si chiama colonna sonora». Ma non sitratta solo di cinematografo: quella specie di rito laicoche trascina il pubblico all’immersione nella sala buiaper ricevere la luce che emana dallo schermo. Casadeiirrompe – è il caso di dirlo – anche nel luogo ufficialedella funzione religiosa: per gli italiani l’unica. «Per lefeste di chiesa soprattutto a Natale formavo un com-plessino con un piccolo coro di cantanti collaborando atutte le funzioni. Avevo scritto un paio di litanie e atempo di 3/4 andante, ma con l’istinto che avevo del-l’un-pa-pa a poco a poco andavamo a finire a tempo divalzer, e le donne in chiesa cominciavano a battere iltempo con i piedi. Il parroco durante la funzione man-dava da me il sagrestano tutto scandalizzato ad avvisaredi andare molto più adagio, perché altrimenti avrei fattoballare la gente che assisteva alla messa!»

Il suo attivismo sfrenato lo induce a suonare anchecome contrabbassista, a conferma della sua versatilità,nell’orchestra di Arturo Fracassi. Finché gli arriva unacartolina da Cesena. Mittente Emilio Brighi, alias Emilio

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ad Zaclèn, il capo della più famosa orchestra diRomagna. Che lo vuole a suonare nel suo gruppo comesecondo violino. Potrebbe trattarsi di uno scherzo.Qualcuno che ricambia le burle di un tempo. Oppure sitratta di un suggerimento di Giuseppe Fantini. Fatto stache Secondo inforca la bicicletta e si presenta all’appun-tamento. Partono su un automobile stipata all’inverosi-mile. Raggiungono il locale da ballo alla ragguardevolevelocità di venticinque chilometri all’ora. Cominciano asuonare. Al momento degli assolo la gente prende a gri-dare: «Vogliamo il ragazzetto». «Il capo – scrive Casadei– mi guardò e mi chiese se me la sentivo di fare qualco-sa da solo. ‘Volentieri’ risposi e attaccai immediatamen-te con la solita popolarissima mazurca di Migliavacca.[...] Fu uno scroscio di applausi tanto ma tanto insisten-ti, che per accontentare il pubblico, dovetti con l’appro-vazione del maestro Brighi, bissare il pezzo e poi suo-narne un altro. La gente non finiva mai di battere lemani». La performance gli vale l’arruolamento in serviziopermanente effettivo (il che significa, più o meno, chepoteva campare suonando) nell’orchestra di Zaclènfiglio. E dimostra definitivamente la sua valentia dimusicista. Doveva ancora rivelare, del tutto, le sue dotidi capo. Che comincia a sperimentare costituendoun’orchestra che suona nelle occasioni meno importan-ti. Ne fanno parte i già citati Giovanni e GiuseppeFantini (rispettivamente chitarra e clarinetto), EdgardoGusella di Cesenatico alla batteria: una novità che anti-cipa uno dei talenti di Casadei: la capacità di innovare edi rinnovarsi. Il gruppo (che dispone di un calesse pertrasportare gli strumenti, dove siede accanto al condu-cente il capo-orchestra; gli orchestrali seguono in bici-cletta) si avvale, nelle serate più rilevanti, di IrisMordenti come secondo violino.

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Tornando a casa da una veglia, il canto del cuculo gliispira la prima composizione: il suo primo valzer intito-lato, appunto, Cucù. Alla quale, visto il successo, segui-ranno molte altre. Casadei svela l’ennesimo dei suoitalenti: quello di compositore. «Già in questo primobrano – commenta Castellani – la musica di Secondopossiede in modo inequivocabile le caratteristiche chedefiniranno il suo stile: una linea melodica semplice eaccattivante, un accompagnamento martellato, un con-trocanto ricco e preciso, tutti elementi che faranno deisuoi brani irresistibili ‘inviti alla danza’».

Mentre si perfeziona, come musicista, con EmilioGironi, nelle sere libere va a “spiare” cosa accade sullespiagge della riviera «dove venivano lanciate le novità.Vidi – ricorda – la prima batteria moderna, il primosaxofono bello e lucidissimo, divise fatte all’ultima modacon stoffe molto colorate (di solito noi orchestrali vesti-vamo sempre in nero e comunque in scuro) e dei can-tanti che cantavano in degli imbuti di cartone (i microfo-ni erano ancora lontani): il tutto era di grande effetto».Ode anche le canzonette alla moda del momento,sospinte soprattutto da nuovi media come la radio e ildisco, e convince – come abbiamo ricordato all’inizio –il capo-orchestra a introdurle nel repertorio.

Ormai all’esuberanza del giovane di Sant’Angelo, l’a-bito scuro di Brighi va sempre più striminzito. Emilio,pur dimostrandosi un valido suonatore e un autorevolecapo-orchestra, si limita a ripercorrere il cammino delvecchio Zaclèn: non possiede la sua capacità di intuire epraticare il nuovo. Secondo invece sì. E progetta unabbandono. Il destino di un capo non è esente da lace-razioni. Chissà quali sentimenti avranno scosso EmilioBrighi, capo-orchestra, quando il suo secondo violino glisquadernò che se ne sarebbe andato per fondare una sua

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orchestra. Si sarà sentito tradito? Avrà ringhiato control’ingratitudine? O avrà tratto contentezza dall’abbando-no? Vuoi per genuina generosità ovvero per togliersi dimezzo – sentimento meno nobile – questo ragazzo che èsempre più invadente. Il ragazzo in questione, nel suodiario, si limita a annotare: «[...] lasciai il maestro Brighicon molta tristezza, con suo grande dispiacere e con unbellissimo ricordo di tutti».

Il mondo va avanti. Secondo va avanti. E il suo pro-getto è sempre più chiaro. Lo definiamo col seguenteslogan: innovare e conservare. Che i linguisti definireb-bero endiadi cioè esprimere un concetto attraverso duetermini coordinati, e ossimoro cioè accostare due termi-ni contraddittori. La scommessa di Secondo è, allo stes-so tempo, semplice e irta di difficoltà. Attraverso la suanuova orchestra, che suonerà ballabili da lui composti,vuole offrire al pubblico un repertorio musicale rinno-vato, ancorché saldamente radicato in quella che – comesappiamo – con Zaclèn & Co., è diventata la “tradizio-ne” della musica da ballo romagnola, fino a allora impo-stata sulla coppia violino-clarinetto.

Canzonette, megafono di cartone per il cantante,divise per gli orchestrali, il ritmo scandito dalla batteriain luogo del contrabbasso e delle chitarre, la pubblicità(Casadei si rivelerà anche un eccellente promotore dellapropria musica e della propria orchestra): ecco le novitàda innestare sulla tradizione. A cui Secondo aggiunge ilsax contralto. Dalla combinazione di voce che canta, cla-rinetto in Do, tipico della musica romagnola, e sax con-tralto ha origine lo “stile” Casadei. Il primo strumento«fiorisce»; il secondo «canta la melodia» – spiega Raoul.

È 21 giugno 1928. Pensione Rubicone di GatteoMare: una piccola località turistica costituita da una fra-zione di Gatteo. Giovanni Fantini, nel ruolo di cantante

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e presentatore, introduce, la voce amplificata dalmegafono di cartone, il debutto dell’Orchestra Casadei.Non manca la sigla di chiusura e d’apertura. I musicisti,che indossano un’elegante divisa, sono pronti al via delcapo-orchestra e primo violino Secondo Casadei. Si trat-ta, oltre al citato Giovanni Fantini, di Elmo Bonoli,secondo violino; Guido Rossi, clarinetto; Primo Lucchi,sax; Olindo Brighi, batteria.

Come Zaclèn anni avanti a Bellaria, Secondo s’im-pianta in un posto del turismo nascente, Gatteo Mare,non abbandonando, di certo, i luoghi soliti della musicapopolare: aie o cambaréun (cameroni). Ovvero le baleredell’epoca. In genere delle ampie sale rettangolari disa-dorne: su un lato il palco di legno dell’orchestra, tutt’in-torno delle panche (oppure tavolini e sedie), nel centrola pista. In un angolo della sala il bar che fornisce vino,liquori e bibite. Come liquore va di moda e’ turchèt(miscela composta per metà di caffè, per metà di rumcon un goccio di gin). I bicchieri vengono lavati in unabacinella d’acqua che sta lì da qualche parte. Le madri,che accompagnano e sorvegliano le ragazze, portanoseco cibarie nelle sporte: ciambella, pollo, coniglio... Amezzanotte si cena. Non di rado il pretendente, purchégradito anche all’accompagnatrice, viene invitato.L’orchestra, invece, è ospite di una delle famiglie bene-stanti. A volte si pratica il metodo del già citato bal de’baiòch; altre volte è previsto un biglietto d’ingresso: ingenere solo per gli uomini. La maggior parte delle orche-stre espone a ogni tornata di balli un cartello con l’indi-cazione delle musiche che saranno suonate. Dominanovalzer, polca e mazurca. Meno praticato il tango.

Sempre in quell’anno, il 1928, Casadei componeanche la sua prima canzone: ispirata a un campione del-l’automobilismo. Mentre sfreccia la Mille miglia, si sor-

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prende – parole sue – «a canticchiare un motivo» albordo della strada. Immediatamente, con la collabora-zione di Primo Lucchi, il suo sassofonista, abbozza lenote e il relativo testo su un foglio di carta gialla cheavvolgeva dei panini con la mortadella. La sera stessa ilbrano venne eseguito a Case Finali di Cesena che equi-valeva, in Romagna, alla Scala di Milano – parola diSecondo. Fu un successo.

Più o meno nello stesso periodo Casadei inaugura unaltro filone, quello della canzone dialettale romagnola.Che consolida lo stile e l’“immagine” dell’OrchestraCasadei. Rinnovare pur rimanendo ben piantati nellacultura della terra di Romagna. La prima canzone in dia-letto è Burdèla avèra (Ragazza avara). Naturalmente unvalzer. Alla quale seguiranno molte altre. Famosissima èUn bès in biciclèta (Un bacio in bicicletta) della primametà degli anni trenta, composta al ritmo avanguardisti-co dell’one-step. Secondo mescola costantemente il vec-chio e il nuovo. Contamina la lingua antica dei padri coni ritmi moderni d’oltreoceano. E se provoca sconcerto,soprattutto nei “puristi”, se sconvolge i guardiani dellaporta delle tradizioni (che, come sappiamo, sono statestabilite solo nel secolo precedente), affascina i giovani,i ballerini disponibili alle novità. E conquista un pubbli-co sempre più vasto. Un bès in biciclèta è una canzonet-ta delicata e ironica che ruota attorno a un oggetto assaiamato dai romagnoli: la bicicletta. Le canzoni diSecondo parlano dell’eterno tema dell’amore e dei con-tingenti argomenti della cronaca. Lo fanno in italiano ein dialetto. Al tempo “classico” di valzer, polca e mazur-ca. Senza disdegnare tango e one-step. Come abbiamogià detto, e osiamo ripetere, la direzione di Secondo hauna bussola: il pubblico danzante. Col quale il musicistaha un rapporto fecondo. Non ne è succube. Anzi. Come

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ogni “creativo” che si rispetti, pur guardandone conattenzione i gusti, riesce sempre a farli evolvere, a cam-biarli.

La conferma definitiva che la musica e le canzoni diCasadei ormai oltrepassano i confini della “piccolapatria”, sono buone per l’esportazione in tutta la peni-sola, arriva con una proposta della casa discograficaFonit di Milano.

Secondo confessa tutta l’euforia e i timori del provin-ciale che deve “affrontare” la grande città. «Vivevo nellamia Sant’Angelo, una piccola frazione, e potete immagi-nare quando per la prima volta vidi Milano!» Si era pre-parato meticolosamente e col solito entusiasmo. Ciònonostante quella notte non chiuse occhio: «non fecialtro che ripassare più di una volta il programma». Almattino, in sala d’incisione, cominciò con un suo valzer,Ricordo. «Il direttore dell’incisione fu soddisfatto delprimo pezzo e subito diedi il via al secondo che fuNuvolari, seguito da Attenti al treno, La nostra orchestra,Bimba bionda, Alla pesca...». L’anno successivo abban-dona la Fonit e passa alla Voce del Padrone, con la qualeresterà per ben trentasette anni.

Gli anni trenta sono per Casadei anche il periododella conquista di tutta la Romagna. E del matrimonio:il 10 gennaio del 1934 sposa Maria Boschetti alla qualededicherà oltre venti canzoni. Maria gli darà due figli:Giampiero e Riccarda. Casadei coltiva, nella praticaquotidiana, un culto della famiglia. Alla quale, appagatoil demone musicale che lo infiamma, dedica gran partedel suo tempo.

I suoi biografi collegano gli anni trenta, oltre agliavvenimenti citati, alle cosiddette sfide. I proprietaridelle sale da ballo per rendere più spettacolari le seratee accrescere l’interesse del pubblico mettevano a con-

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fronto due o più orchestre. Se l’idea che ci siamo fatti diSecondo Casadei è giusta, lui di gran lunga preferiva allealgide sale d’incisione, che aveva pur preso a frequenta-re con entusiasmo, all’atmosfera fredda e anonima dellagrande città settentrionale, il calore, il rumore, il sudore,la passione delle sue balere romagnole. Nelle quali iltermometro cresceva all’atto delle sfide. GiovanniFantini non ha dubbi. Con la vittoria contro il EmilioBrighi, figlio del mitico Zaclèn, alla disfida di Fratta, cit-tadina termale del forlivese, comincia, nell’agosto del1930, l’invasione della Romagna. Una ad una le princi-pali città della regione vengono “espugnate” dal briodell’Orchestra Casadei. Che – come sottolinea qualcuno– a differenza delle altre orchestre era costituita di pro-fessionisti; di fatto un’orchestra stabile che l’entusiasmoe il talento del capo tenevano insieme e guidavano sem-pre più avanti.

Ma questo periodo felice subirà, nel 1937, una battu-ta d’arresto. Casadei è coinvolto in un grave incidentestradale nel quale, addirittura, rischia la vita. Durante lasua assenza nel gruppo esplodono discussioni e contra-sti. Occorre intervenire. Secondo ricorda, nel suo diario,che tutto ingessato lo issarono sul palco che era colloca-to molto in alto, prossimo al soffitto secondo l’uso del-l’epoca; poi lo appoggiarono letteralmente contro ilmuro. «Davo solo le disposizioni necessarie – precisa –per evitare che il complesso si sgretolasse». La presenzadel capo riporta la pace.

«Era per me un periodo particolarmente positivo:felice in famiglia, felice per il lavoro, giovane ed ottimi-sta [...]. L’orchestra era considerata la migliore in asso-luto nella Romagna. Ero chiamato l’Angelini di questaterra e questo complimento mi faceva un enorme piace-re e tanto onore [...]». Aveva, insomma, conquistato –

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Casadei e la sua orchestra nel 1935. La tenuta è estiva. Mentre i musi-cisti sfoggiano le mezze maniche, il fondale dietro a loro mostra unpaesaggio innevato.A sinistra: Primo Lucchi e Guido Rossi. Casadei è il quinto, accantoa lui Elmo Bonoli.Nelle formazioni estive venivano arruolati musicisti “stagionali”.

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come s’è detto – le città della regione: le cosiddette settesorelle – nessuna parentela con le temibili multinaziona-li statunitensi – avevano, non senza resistenza – dato ilmunicipalismo particolarmente tenace tra loro –, unadopo l’altra, allineato il passo (di danza) al violino diSecondo. Già ricordate nei versi della Divina Commedia(Inferno, Canto XXVII) un bel po’ di secoli or sono, aesse è stata dedicata anche una filastrocca genuinamen-te popolare: Rimini per navigare, Cesena per cantare,Forlì per ballare, Lugo per tendere imbrogli, Faenza perlavorare, Imola per far l’amore, Ravenna per mangiare.Una filastrocca va presa per quello che è. E la presente,in particolare, necessita di aggiornamento. Nessunopensa oggi il riminese come un marinaio. Semmai sarà ilravennate, per quanto lo consentono i fondalidell’Adriatico, ad aver diritto a questa qualifica. Per ilriminese si potrebbe poporre il “ruolo” di albergatore obagnino o gestore di discoteca... Sta di fatto che laRomagna è varia e diversi tra loro i romagnoli.

Allo scadere degli anni trenta Casadei ha compostooltre 230 pezzi. E la sua vena creativa sembra inesauri-bile. Pare che niente e nessuno possa arrestarne lo slan-cio. Intanto, però, la guerra ha cominciato a sconvolge-re l’Europa. Le armate naziste avanzano col ferro e colfuoco infrangendo ogni resistenza. Mussolini, che s’èaccodato all’infamia delle cosiddette legge razziali con-tro gli ebrei, si prepara a scendere in campo a fianco del-l’alleato tedesco. A offrire qualche migliaio di morti persedere vincitore al tavolo della pace – come ebbe a affer-mare col cinismo, per non dire peggio, che lo contraddi-stingueva. Secondo non si è mai interessato direttamen-te di politica. Non è mai stato un militante. Però le sueidee le ha. Di certo non ama la retorica e la magnilo-quenza del regime. È senza dubbio uno spirito libero e

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non sembra il tipo da porgere “servo encomio”. Appenaragazzo ha subito un pestaggio da parte delle camicienere. Un musicista suo compaesano, figlio del già citatoCarlin d’Imbrus e di dichiarata fede fascista, con la scusache il fratello di Secondo, Dino, s’è portato a casa l’im-magine del deputato socialista, Matteotti, martire dellaviolenza fascista, se la prende assieme ai suoi cameraticon Secondo. Con tutta evidenza non si tratta di politi-ca bensì di un uso strumentale della stessa: Casadei,come musicista, era incomparabilmente superiore alfiglio di Carlin.

Si dice che il duce del fascismo, tra l’altro suonatoredi violino (ma all’epoca lui era tutto: cavaliere, aviatore,contadino, scrittore, soldato, amatore eccetera eccetera),apprezzasse la musica di Casadei. Certo è che entrandoin guerra lo precipitò nella disoccupazione ma soprat-tutto gl’impedì di suonare in pubblico, di far ballare lagente. Secondo, nonostante non si ballasse più a causadel conflitto, non si perse d’animo. Le donne più anzia-ne ancora lo ricordano, con la sua valigetta da commes-so viaggiatore, girare le campagne attorno al suo paeseper vendere qualche pezzo di stoffa. Memore dell’inse-gnamento paterno s’ingegna anche come sarto. E conti-nua a comporre. Sono di quegli anni brani musicali ecanzoni ispirati a vicende famigliari, liete e tristi, comeGiampiero per la nascita del figlio o Dolore e A mammaper la morte del padre e della madre o la canzone ARiccarda per festeggiare la nascita della figlia.

Intanto le sorti della guerra volgono a favore deglialleati. Le loro armate risalgono lentamente la penisola.Finché il fronte si stabilizza (o forse più esattamente rista-gna) sulla linea gotica che attraversa proprio il sud dellaRomagna. La guerra arriva a Sant’Angelo di Gatteo.

«Ci siamo trovati nel bel mezzo della linea gotica – rac-

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conta Raoul –, in trincea lungo il fiume Rigossa un affluen-te del Rubicone. Avevamo fatto un rifugio sotterraneo sca-vando nell’argine del fiume. Per proteggerci meglio, papàDino e zio Secondo misero nel bunker un bancone dilegno prelevato nella sartoria di famiglia e per un mese,tutti e due i nuclei, il nostro e quello dello zio, vissero sottoun bancone e sottoterra. Eravamo sulla linea di sparo.Dalla nostra parte del fiume c’erano ancora i tedeschi, sul-l’altra sponda gli inglesi, che per liberarci per poco non ciammazzavano. Infatti i bombardamenti alleati sulle truppetedesche erano regolari, ma lì c’eravamo anche noi».

Sant’Angelo e lo zone circostanti sono duramentecolpite dai bombardamenti. La casa dei Casadei distrut-ta. Si decide di sfollare a Savignano in casa della sorellaAngelina. A Savignano, in seguito, Casadei si stabiliràdefinitivamente.

«Attraversammo la linea del fronte di notte – testi-monia ancora Raoul –, i tedeschi erano ormai pochedecine, ma per far credere che fossero in tanti passavanocontinuamente da un cannone all’altro. Per salvarcidovemmo attraversare il fiume. Fu una notte drammati-ca. C’era acqua da tutte le parti: dal cielo diluviava unmisto di acqua e di bombe».

Finalmente il fronte passa oltre; sale a nord. I paesiromagnoli si liberano dai crucchi. Si riprende a ballare.In principio per i militari. Poi la vita riprende a scorrerecome prima. Le ferite della guerra – e quelle più dram-matiche della guerra civile – cominciano a rimarginarsi.Si respira, come appresso ogni grande tragedia, un’ariadi rinnovamento. La gente vuole ricostruire, dimentica-re e, allo stesso tempo, ricordare per non ricadere piùnell’orrore. C’è voglia di festa: di canti, di danze.Parrebbe l’ambiente ideale di Secondo Casadei...

Si torna a ballare nei vecchi cameroni. Dove è cam-

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biato ben poco dall’anteguerra. Certo aleggia un altrospirito ma i luoghi si presentano, le persone si muovononello stesso modo. Salvo un particolare, almeno perquanto riguarda il nostro discorso: la gente, soprattuttoi giovani, vuole ballare lo swing, il boogie-woogie: i ritmimoderni arrivati con gli alleati.

È con gli alleati, gl’inglesi in particolare che control-lano questo settore del fronte, che si torna a ballare. Cichiamavano e ci davano «molte am-lire: abbiamo trova-to l’America» ricorda Giovanni Fantini. Non manca,però, il rovescio della medaglia. Lo stile alla GlennMiller, con trombe, tromboni, pianoforte, relega valzer,polche e mazurche nel passato. I giovani, appena sento-no un pezzo romagnolo, fischiano. Anche a Sant’Angelo.Proprio lì. Nella piccolissima patria. Un sabato sera delcarnevale del ’48. Con il camerone che rigurgita digente.

«Il camerone – spiega Raoul – era la più grande salada ballo allora esistente. Lo chiamavano così perché erauna grande stanza di quindici metri per venti [...].Sant’Angelo è una borgata allungata di lato a una strada.La chiamavano la strada delle botteghe, perché c’erano idue o tre negozi che davano vita al paese, ed in fondo adessa c’era un ristorante famoso per la cacciagione: daCarlein. Ed era da Carlein che c’era il camerone: unasala un po’ affumicata, con grossi travi che sporgevanosul soffitto e che sembrava dovessero crollare da unmomento all’altro».

Quella sera tutta Sant’Angelo era lì. C’erano anche lemamme, che accompagnavano le figlie. Sedute sulle pan-che sistemate attorno al muro, data la quasi impossibilitàdi disporre di tavoli, controllavano le figlie. «Quando unragazzo chiedeva di ballare alla figlia di una di esse, lavecchia faceva col capo un cenno di assenso o di rifiuto,

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decidendo così se la figlia doveva accettare o non quelcavaliere. Ad un certo punto della serata, quando l’or-chestra attaccava un lento, tutte le madri salivano in piedisulle panche per controllare dall’alto le figlie», che cerca-vano di sottrarsi alla sorveglianza e stringersi al propriocompagno. «Ma alle vecchie non sfuggiva niente».

In questo clima Secondo Casadei, al violino, chiusela prima serie di balli con un valzer «tra i fischi dei gio-vani, che lo contestavano urlando» parola di Raoul.

«Suonare un valzer – chiarisce Remo Panzavolta, unmusicista di Forlì, amico e collaboratore di Casadei – eracome parlare di cose sconce davanti a una signora. Finoa che suonavano le musiche di moda andava tutto bene,ma quando cominciava a voler provare a fare il valzer,oppure una polca o una mazurca, erano fischi, perché glispettatori si sentivano offesi, come fossero trattati daretrogradi, e lo dicevano: ‘È venuto Casadei, con un cla-rinetto, truliruliru...’. Lo mettevano in ridicolo». Proprioil clarino in Do: la voce della Romagna.

Ma Casadei non è tipo da mollare. E tanto meno unoda “ribaltoni”. Seguita per la sua strada. Disposto a rin-novare ma senza abbandonare – come ha capito o intui-to sin da ragazzo – gl’insegnamenti del passato.

Una certa ripresa comincia con le polche. Che luibattezza atomiche. Un aggettivo terribile che ha assunto,in quegli anni, una connotazione positiva. Moderna.Esuberante. L’atollo di Bikini, dove si fanno esperimen-ti nucleari, è diventato addirittura il nome di un costumeda bagno: il famoso “due pezzi”.

Alla polca romagnola – commenta Castellani –manca «l’energia estroflessa, ostentata, del boogie-woo-gie». Rivela, in compenso, un’energia compressa e«repressa, scattante, cronometrica e inesorabile». Comenegli anni trenta, alla base di tutto è il brio, l’aggressività.

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Darci nelle gambe. Spiccarli dal muro. Per Secondo que-ste frasi esprimono quasi una visione del mondo. E,com’è sua abitudine, non aggiorna solo il repertoriomusicale. Modifica anche l’orchestra. Aggiunge, secon-do il modello americano, i fiati: tromba e trombone. E ilsax tenore. Non basta. Nel 1952 lancia Arte Tamburini,con ogni probabilità, la prima voce femminile introdot-ta da un capo-orchestra. Mentre compaiono i primimicrofoni e le chitarre cominciano a essere amplificate.

Il gruppo risale lentamente la china. Ma manca laconsacrazione definitiva. Che arriverà – già lo sappiamo– con un valzer. La mazurca, la polca saranno purediventate romagnole. Magari anche il tango. E l’one-step. Ma il valzer è un’altra cosa: Romagna mia.

L’Orchestra Casadei entra trionfalmente negli annidel “boom economico”. Conquista la radio e il juke-box.Secondo diventa “il liberatore”. Così almeno lo definisceun autorevole giornalista, Dino Biondi. Liberatore, peruna sorta di risarcimento o di legge del contrappasso,dagli americani. O, per meglio dire, dalle musiche d’im-portazione, dalle mode esterofile. Casadei ha compostouna canzone a ritmo di valzer che racconta come andò.Intitolata, appunto, Il liberatore. Dopo l’ubriacaturaamericana canta: «Il valzer è tornato / quanta gente haliberato. / È ritornato a tutti l’amore / tutti mi chiamanoil liberatore. / La mamma tu vedi ballare / la nonna feli-ce guardar. / Il figlio danzando si mette a cantar / dicen-do che bello mi par di sognar».

Accade così che le generazioni si ricompongono. ESecondo seguita nella sua carriera di musicista, capo-orchestra, compositore, promotore della propria musi-ca. Non è possibile, difatti, definirlo con una o due paro-le: musicista totale non vuol dir niente. Forse lo sipotrebbe dire uomo della musica.

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All’inizio degli anni sessanta entra in scena il nipoteRaoul. Che diventa, ben presto, il successore designatodello zio. Iniziano anche i dissapori e le separazioni nel-l’orchestra. Nel ’62 se ne va Carlo Baiardi per costruireun suo gruppo. Nel ’68 un’altra pesantissima defezione:sei orchestrali escono per fondare il gruppo Folklore diRomagna. Intanto, l’anno prima, l’orchestra ha cambia-to nome in Secondo & Raoul Casadei. E continua, nono-stante gli abbandoni, a mietere successi nella Romagnache è diventata ricca. E altrove. Si trasforma sempre piùin orchestra spettacolo nella linea di Raoul. Con storiel-le e numeri di ballo. Ma questa, che comincia, è un’altrastoria.

Secondo è ormai un musicista acclamato. I giornali ela televisione gli prestano sempre maggiore attenzione.Proprio allora lo coglie la morte, all’età di sessantacin-que anni. Lascia – tanto per citare un numero, uno solo– oltre mille incisioni. Con lui si congeda l’ultimo espo-nente di un mondo che aveva saputo coniugare il vec-chio e il nuovo. Con lui se ne va lo Strauss dellaRomagna.

Ma per noi romagnoli, che oggi abbiamo attorno aicinquant’anni, ultimi sopravvissuti di un mondo scom-parso (il suo mondo), e, confidiamo, per le generazioni avenire, egli seguita a restare, semplicemente, nella linguadella sua terra: Casadei e’ sunadòur!

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La figlia, l’appassionato, la cantante

Conversazione con Riccarda Casadei,Riccardo Chiesa e Arte Tamburini

Nei nuovi locali delle Edizioni musicali CasadeiSonora, a Savignano sul Rubicone all’incrocio tra vialedella Libertà e via della Pace, accanto alla casa diSecondo Casadei, dove si può visitare lo studio del musi-cista conservato com’era ai suoi tempi, abbiamo incon-trato la figlia di Secondo, Riccarda, che dirige la CasadeiSonora istituita per diffondere e conservare (tra brevesarà allestito anche un centro di documentazione) lamusica e la memoria del padre. Insieme a lei, RiccardoChiesa, studioso e appassionato di musica e canzoniromagnole e Arte Tamburini, la prima voce femminile diun’orchestra romagnola, che si esibì per sedici anni afianco di Casadei. Riportiamo di seguito una sintesi delcolloquio.

GORI: Cominciamo dal vostro rapporto con SecondoCasadei.

CASADEI: Come figlia ho sempre avuto con lui un rap-porto profondo e affettuoso. Era molto legato allafamiglia. Magari non molto presente. Ma certo pre-muroso. E poi brillante, spassoso, da compagnia... Loricordo sorridente. Ci veniva sempre a svegliare, a mee a mio fratello Piero, per raccontarci com’era anda-

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ta la serata. Aveva bisogno di comunicare il suo entu-siasmo. Spesso non andava neanche a letto. Si mette-va a scrivere... A volte mi chiedo perché mi ha dedicato un tango enon un valzer o...?

CHIESA: Tuo padre è da rivalutare come autore di tanghi.Era un genere che amava molto.

TAMBURINI: Sono salita sul palco per cantare conCasadei, per caso, poco più che ragazzina, a Cella diFaenza. Il mio debutto vero e proprio, però, è stato aNovalfetria. Andò bene. Ricordo, come fosse adesso,quando alla fine il Maestro disse al gestore: la can-tante non è inclusa nel contratto; è un regalo alveglione. Così ricevetti 3.000 lire dal gestore e 3.000lire da Casadei. Una bella cifra che mi fece prendereseriamente in considerazione la professione di can-tante. Con Casadei sul palco bisognava dare il massimo.Diceva: voglio che la gente si balli le gambe! La suamusica è una musica d’istinto; viene diritta dal cuore. Il Maestro m’incuteva un certo timore. E per lui hosempre nutrito un profondo rispetto. Che lui con-traccambiava. D’altra parte aveva un grande rispettoper tutti i suoi collaboratori. E anche per i colleghi eil loro lavoro.Era un generoso. Parlava sempre di musica. Faremoballare tutto il mondo! amava ripetere.

CHIESA: Non ho conosciuto personalmente Casadei che,per me, è da accostare a Spallicci. Uno è il cantore inmusica, l’altro in prosa della Romagna. Essendo iouno dei fondatori del festival della canzone dialettale

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romagnola, ho un solo grande rimpianto: non averloinvitato a partecipare: temevo che ci avrebbe snob-bato, poiché era un personaggio famoso e “viaggia-va” con cachet elevati. E noi non avevamo soldi o neavevamo veramente pochi.

TAMBURINI: Non credo che l’avrebbe fermato il denaro.Se la proposta gli fosse andata a genio, sarebbe venu-to gratis. Per esempio, quando gli affari per gli orga-nizzatori dei veglioni non andavano troppo bene,Casadei praticava spontaneamente uno sconto. «ConCasadei non si rimette!». Era soprattutto un genero-so, come ho detto. Anche se girava sempre senzasoldi. Invitava un amico a bere poi si accorgeva chenon aveva il denaro per pagare.

GORI: Parliamo dell’uomo allora. Per esempio delle suesimpatie politiche.

CASADEI: Di politica non parlava. Ritengo, però, chenutrisse simpatie socialiste. Anche Cristo era unsocialista, diceva.

GORI: E Casadei il romagnolo? che rapporto aveva colcibo, tanto per parlare di un altro “stereotipo”appioppato ai romagnoli?

CASADEI: Non era il “classico” romagnolo vorace. Anzi,mangiava poco soprattutto quando doveva salire sulpalcoscenico. A casa le sue preferenze andavano allapiadina con le erbe (che una contadina gli portavasempre fresche) e un bicchiere di Sangiovese. In ognicaso piatti semplici. Spesso, da mia mamma, si facevacucinare i tagliolini cotti nell’acqua con un filo d’olio.

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Milano, aprile 1940. Nei pressi della casa discografica La Voce delPadrone l’Orchestra Casadei (Brighi, Rossi, Borghesi, Bonoli, Lucchi,Fenati, Casadei, Fantini, Bargossi) schierata davanti alla lussuosaLancia Landa acquistata dal Vaticano. L’abbigliamento e l’atteggia-mento rimandano al cinema americano degli anni trenta. Casadei

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amava molto il cinema e ne trasse anche ispirazione per l’abbiglia-mento e l’immagine complessiva dell’orchestra. L’autista, fuori dalgruppo, sorride. Sul tetto dell’automobile il profilo del contrabbasso(e’ liròn) incontenibile per il furgone portastrumenti al traino.

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Per disintossicarsi, diceva. Alla fine prendeva la chi-tarra e suonava con noi.

TAMBURINI: Aveva anche una predilezione per i “gobbi”cioè i cardi in umido. E poi la fava col formaggio e lapiadina.

CASADEI: E anche per le cantarelle [schiacciatine di fari-na olio e zucchero, impastate con acqua e cotte sultesto].

TAMBURINI: Ma soprattutto amava vedere mangiare glialtri, l’atmosfera conviviale.

CASADEI: Come ogni romagnolo che si rispetti era pureun appassionato di motociclette.

TAMBURINI: La patente, però, non l’ha mai presa. Eratroppo distratto. Troppo preso dalla sua musica. Lesue autiste preferite eravamo io e la Riccarda. Amavaanche il giardinaggio.

CASADEI: Non dimentichiamo, tra le sue passioni, il cine-ma. Andavamo spesso al cinema. Gli piaceva molto ene ricavava anche degli spunti, delle idee: soprattuttodai film musicali per le divise, le scarpe, i leggii...Insomma tutto quanto riguardava l’immagine dell’or-chestra.

GORI: Che tipo di musica preferiva?

CASADEI: Gli piaceva tutta: dal jazz alla napoletana finoall’opera e l’operetta. Ascoltando la musica classica sicommuoveva al punto di piangere.

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GORI: Qual è il fondamento, la caratteristica peculiaredella sua musica?

TAMBURINI: L’amore, la capacità di trasmettere emozionialla gente.

CHIESA: Anzitutto occorre ricordare che lui fu il natura-le erede e continuatore di Zaclèn. Cosa aveva fattoZaclèn? Aveva introdotto la musica mitteleuropeanella cultura romagnola eseguendola in modo assaipiù rapido. Casadei coglie la “rivoluzione” di Zaclèn e la com-pleta. Certo, in tutta questa vicenda, non può esserestato ininfluente, per Casadei, l’apprendistato comesecondo violino nell’orchestra di Emilio Brighi, ilfiglio di Zaclèn. Il quale, forse, intuì il talento del gio-vane Secondo. Tant’è vero che eseguì la sua primacomposizione, Cucù, in deroga alla norma ferreasecondo cui si suonavano solo dei ballabili. Casadei, da parte sua, introduce la batteria e il saxcontralto, un tipico strumento jazz. Non va dimenti-cato che lui, a differenza di Zaclèn che aveva una cul-tura musicale di stampo classico, possedeva una cul-tura jazzistica. E, infine, l’invenzione della canzone indialetto romagnolo che è ben altra cosa rispetto alla“canta” che è corale e non è ballabile.Quanto allo specifico della domanda, direi: la capa-cità di far suonare l’orchestra. Con lui suonavanotutti. Se guardiamo un’orchestra con attenzione, ciaccorgiamo che spesso suonano solo alcuni musicisti.Con lui no. Suonano tutti. E nessuno esegue la notadi un altro. Non è la banda, dove tutti fanno la stessanota; c’è veramente armonia. Insomma era un grandearrangiatore.

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Proviamo a dirla in un altro modo. Nell’OrchestraCasadei non ci sono comprimari. Ognuno ha la suaparte; diversa dagli altri ma in totale armonia con glialtri. Riuscire a far convivere un violino, un sax e unclarinetto, tutti valenti, non è facile. Lui riusciva a faresprimere tutti, senza che nessuno calpestasse glialtri, prevaricasse.

CASADEI: Scriveva per ogni orchestrale la cosa giusta. Econ semplicità.

CHIESA: Cose semplici. Ma mai banali. E soprattuttonon si scriveva addosso.

TAMBURINI: Non componeva un pezzo per il sax ma peril suo sax. E tutti gli strumenti trovavano il loro postonella melodia. Ma ancora prima, lo ripeto, c’è il sen-timento. Che si esprimeva soprattutto attraverso ilritmo. Se un solista “davanti” non era in serata, anda-va così così, il Maestro si stringeva un po’ nelle spal-le e continuava a suonare. Ma se qualcuno “didietro”non “tirava”, per esempio il batterista, allora lo spro-nava: «... T é magné mèl staséira! (Hai mangiato malestasera)». Ciò che contava era “il didietro”. Poi lui era un vero trascinatore. Me lo ricordo nellesfide. Si vedeva proprio che “tirava”. Con tutto ilcorpo.

CASADEI: È vero. Forse non era un grande violinista. Madi certo era un trascinatore impareggiabile.

TAMBURINI: C’era sentimento. Adesso è troppo facile.Col playback basta che ridano, che salutino. Al restoprovvede la registrazione. Allora, invece, sì che si can-

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tava. Adesso c’è più tecnica ma allora c’era il cuore.Ricordo che una volta facemmo un’incisione alla Vocedel Padrone; e venne fuori una piccola imperfezione.Il maestro D’Amico, che era il direttore artistico dellacasa discografica, disse: la vostra musica è come il jazzè una musica d’espressione. Non stiamo a sottilizzaresulla tecnica. Anche nei dischi di Charlie Parker c’èqualche errore. Così abbiamo lasciato quell’imperfe-zione nel disco. Perché è l’istinto che conta.

GORI: Parliamo del pubblico.

CASADEI: Il pubblico della musica popolare romagnola èesigentissimo. Addirittura, oltre ai ballerini, c’erasempre un gruppo che stazionava davanti al palco-scenico senza ballare.

TAMBURINI: Stavano lì attenti a ogni nota: afferravano ilminimo errore... Noi di certo non ci risparmiavamo. Siamo arrivatifino a 34 servizi in un mese. E i veglioni fino alle seidi mattina. A Ospedaletto, l’ultimo dell’anno, suona-vamo fino alle otto. E Casadei l era cuntént! (era con-tento). Soprattutto quando gli altri orchestrali cheavevano finito il loro servizio ci venivano a trovare.Allora “ci dava”...

CASADEI: Bastava rimanesse una sola coppia in pista aballare che lui andava avanti a oltranza.

TAMBURINI: Aveva amore. E istinto.

CASADEI: È vero: anche quando scriveva, lo faceva d’i-stinto. Di getto.

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TAMBURINI: L’ispirazione poteva arrivargli in qualsiasimomento. I tovaglioli erano la sua “carta” preferita.

GORI: Componeva prima le musiche o i testi?

CHIESA: Nella tradizione musicale italiana è sempre nataprima la musica. Le parole venivano dopo. Erano ifrancesi che puntavano di più sul testo.

CASADEI: Anche lui partiva dalla musica, credo, non daitesti. Fumava le Diana. Buttava giù le note sui pac-chetti e sul fazzoletto su cui appoggiava il violino. Poia casa completava quello che aveva abbozzato.

GORI: Prendiamo Romagna mia.

CASADEI: Penso abbia scritto simultaneamente parole emusica.

CHIESA: Romagna mia è una canzone. Le parole nonsono al servizio della musica, come succede in gene-re. Parole e musica hanno, come dire? pari dignità.

GORI: Immaginiamo un disastro generale. Possiamo sal-vare solo pochi pezzi, a parte Romagna mia che con-serviamo come “monumento”, cosa salvereste diSecondo Casadei?

TAMBURINI: Un valzer: Dolore. A mamma per la bellezzadel testo. Poi una polca. Ce ne sono di bellissime.

CHIESA: Campane romagnole, un grande valzer lento. Untango: Signora. Poi Dolore. Una mazurca: Lia. Unapolca: Marlene.

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CASADEI: A me piace molto Maria.

TAMBURINI: E Giampiero? è un gran bel valzer.

GORI: Il pubblico, però, al di là delle vostre scelte per-sonali da specialisti, tende a identificare la musicaromagnola col valzer.

CHIESA: Certo la musica popolare romagnola è il valzer.

CASADEI: Non a caso la prima composizione di miobabbo è un valzer: Cucù.

TAMBURINI: Anche nei programmi prevaleva il valzer: sisuonavano prima due valzer, poi una mazurca, anco-ra un valzer e infine una polca.

CHIESA: Insistiamo a parlare di ballo. Ma vorrei sottoli-neare che la musica di Casadei non è soltanto daballo. Anzi, è un’autentica musica da spettacolo. Pertroppo tempo è stata considerata semplicementemusica da balera. D’altra parte siamo stati noi romagnoli a fare il peg-gior servizio al liscio. Abbiamo fatto circolare, neglianni sessanta e settanta, della musica e dei musicistipietosi.

TAMBURINI: Hai detto liscio. Ma quando andavamo asuonare alla Perla di Torino, per esempio, la nostramusica non veniva presentata come liscio ma comemusica “alla romagnola”. Di liscio, nella musica diCasadei, non c’è proprio niente. Non c’è nei valzer etanto meno nelle polche e nelle mazurche.

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CHIESA: Forse il riferimento non è tanto al ritmo quantoallo strisciare dei piedi dei ballerini...Probabilmente è stato Raoul, il nipote di Casadei, afar trionfare il termine. Cercava di “emanciparsi” unpo’ dalla Romagna.

TAMBURINI: Lui, putroppo, ha cambiato molte cose.

GORI: È ancora possibile ballare la musica popolareromagnola di Secondo Casadei?

TAMBURINI: In tutti i locali della Romagna. Pure leorchestre non romagnole, nel loro repertorio, hannoalmeno un pezzo del Maestro. D’altra parte anchecon Casadei non si eseguivano solo brani romagnoli.Il programma era vario e spaziava fino ai ritmi latinoamericani... Il nome di qualche locale? il Bul-Bul di CastrocaroTerme, la Ca’ del Liscio, le Cupole diCastelbolognese, l’Odeon di Santarcangelo,l’Euroclub, famoso un tempo come Bastia, aSavignano; il Rio Grande a Igea, il Piteco a Godo diRussi... Non mancano locali nel pesarese: il Tris aSchieppe di Orciano e il Nuova Europa a MercatinoConca... E il Pamela a Faenza...

CASADEI: Lì si respira proprio l’atmosfera di una volta.

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Secondo, Zaclèn e la Romagna

Qualche libro

Questa “guida” si fonda, essenzialmente, sulla bellabiografia di Leandro Castellani, Lo Strauss dellaRomagna. Le avventure di Secondo Casadei, Camunia,Milano 1989 e sul saggio di Riccardo Chiesa, con la col-laborazione di Riccarda Casadei, Secondo Casadei: dagliinizi al 1940 pubblicato in Il ballo liscio. Alle origini diun fenomeno musicale e di costume, a cura di MarioTurci, Museo degli usi e costumi della gente diRomagna, Santarcangelo di Romagna 1989.

Mi sono stati molto utili anche: Franco Dell’Amore,La musica di Carlo Brighi detto Zaclèn e le origini delballo popolare in Romagna (1870-1915) in Il ballo liscio,cit.; Lauro Malusi, Il ballo popolare romagnolo,“Romagna arte e storia”, n. 13, 1985; Raoul Casadei, Ilmio libro del liscio, Anthropos, Roma 1981; la tesi di lau-rea di Marco Maretti, Secondo Casadei. La vita e l’opera“d’un sonadour”, Università degli studi di Bologna, Annoaccademico 1998-1999; nonché Guido Nozzoli, Il piane-ta Romagna in Questa Romagna, documenti di storia,costumi e tradizioni, a cura di Andrea Emiliani, Alfa,Bologna 1963.

Mi sono servito inoltre di: Rino Alessi, Calda era la terra, 1958, ristampa Il Ponte

Vecchio, Cesena 2000.Eraldo Baldini, La metà oscura della Romagna. Nostalgia

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del mistero, provocazione sul futuro in Tra lun e scur.L’immagine del romagnolo nella poesia, nel dialetto,nel cinema e altrove, a cura di Paolo Guiducci, IlPonte, Rimini, sd.

Roberto Balzani, La Romagna, Il Mulino, Bologna 2001Grazia Bravetti Magnoni, Sant’Angelo di Gatteo: terra di

orchestrali e suonatori, ma una volta..., “RomagnaMia”, 26 maggio 1992.

Franco Brevini, La linea romagnola nella poesia dialetta-le del novecento in La poesia dialettale romagnola delnovecento, a cura di Gualtiero De Santi, Maggioli,Rimini 1994.

Augusto Campana, Intervento in Lingua dialetto poesia.Atti del seminario popolare su Tonino Guerra e la poe-sia dialettale romagnola, Edizioni del Girasole,Ravenna 1976.

Franco Dassisti, Raoul Casadei. La storia vera, una can-zone lunga 70 anni, De Agostini, Novara 1988.

Federico Fellini, Strada sbarrata via libera ai vitelloni,“Cinema nuovo”, n. 2, 1953.

Tonino Guerra, I bu, Rizzoli, Milano 1972, ristampaMaggioli, Rimini 1993.

Olindo Guerrini, Sonetti romagnoli, Zanichelli, Bologna1920.

Eric J. Hobsbawm, Terence Ranger, L’invenzione dellatradizione (1983), Einaudi, Torino 1987.

Claudio Marabini, Il dialetto di Gulì. Il Pascoli e il dialet-to romagnolo, Edizioni del Girasole, Ravenna 1973.

Luca Marchi, Il liscio: pratica sociale e genere musicale inDal blues al liscio. Studi sull’esperienza musicalecomune, a cura di G. Stefani, Ianua, Verona 1992.

Dario Mazzotti, Carlo Brighi (E Zacléin) nel primo cente-nario della sua nascita, “Il Pensiero Romagnolo”,1954 ora in Il ballo liscio cit.

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Una cartolina pubblicitaria dell’immediato dopoguerra. Casadeiponeva molta cura nella promozione pubblicitaria del suo gruppoche seguiva di persona. Ma, in questo caso, pare che avesse suscitatole attenzioni poco benevole di una censura assai occhiuta e decisa-mente sessuofoba. Il nodo del contendere: la ballerina troppo discin-ta e audace. Per quell’epoca naturalmente.

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Giovanni Nadiani, TIR, Mobydick, Faenza 1994.Alfredo Panzini, Romagna, Nemi, Firenze 1932, ristam-

pa Edizioni di Romagna arte e storia, Rimini 1982.Guido Piovene, Viaggio in Italia, Mondadori, Milano

1966.Stefano Pivato, L’isola dei sentimenti. Tipi stereotipi e

immagini in Romagna tra ’800 e ’900, Il PonteVecchio, Cesena 2000.

Gianni Quondamatteo, Dizionario romagnolo (ragiona-to), La Pieve, Villa Verucchio 1982.

Maurizio Ridolfi, Il circolo virtuoso. Sociabilità democra-tica, associazionismo e rappresentanza politicanell’Ottocento, Centro Editoriale Toscano, Firenze1990.

Emilio Rosetti, La Romagna geografia e storia, ristampaanastatica a cura di S. Pivato, University Press,Bologna 1995.

Luciano Sampaoli, Non solo canzonette, “Romagna mia.Speciale Quarantesimo”, 8 aprile 1994.

Aldo Spallicci, La madunê, Milano, Mondadori 1926,ora in Id. Opera omnia, Maggioli, Rimini 1988-1993.

Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo fil-mico in Italia 1945-1965, Bompiani, Milano 1974.

Angelo Varni, Storia della Romagna e storia d’Italia,“Padania”, n. 9, 1991.

Gino Vendemini, Aegri somnia e Una capa ad sunétt t’e’patuvà rumagnol (cm’u ’s zcorr a Savgnen), 1908,ristampa Pazzini, Villa Verucchio 2001.

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Notizie utili e alcuni consiglia cura di Giuliano Ghirardelli

Per scoprire ciò che rimanedella Romagna popolare

Non si può pensare alla Romagna trascurando, o sot-tovalutando, il suo carattere popolare. Fortementepopolare. Pure passionale. E non solo in politica.

La voglia di vivere, in Romagna, ha sempre trovatomodo di esprimersi: si doveva far di tutto per raggiunge-re un’esistenza piena. Con la lotta e con il lavoro. Daimazziniani ai garibaldini, dagli anarchici ai socialisti, dagliavanguardisti della prima guerra mondiale (poi vestitisi di“nero”) ai comunisti dell’ultimo dopoguerra… La politi-ca italiana, nelle sue espressioni più forti, sembra cheabbia preso il via ogni volta da qui, dalla Romagna, dalsuo popolo di braccianti, salinari, mezzadri, ciabattini,fiaccheristi, unitamente a maestri e studenti squattrinati,ai medici dei poveri o ai nobili convertiti alla causa.

Ma con il tempo prevalse, piano piano, al posto delfanatismo politico, il buon senso. I romagnoli si sonodetti: perché non impegnarsi soprattutto nel lavoro, nel-l’iniziativa privata? visto che possiamo – seguendo questastrada – risolvere rapidamente i nostri problemi economi-ci, perché non tentare la fortuna mettendosi in proprio,dando vita ad una piccola impresa o ad una cooperativa?

E, così, nella seconda parte del novecento, qui, tuttifurono costretti (e ben contenti) ad impegnarsi dura-mente: era arrivata per moltissimi l’occasione di sottrar-si definitivamente ad una esistenza povera e dura.

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Chi lasciò le campagne, chi emigrò, chi venne sullacosta in cerca di fortuna: fu una grande epopea che, fraalti e bassi, tra pace e guerra, fra dittature e libertà ritro-vate, portò un popolo, una regione, a conquistare undiscreto benessere, all’interno di un’Italia diventata defi-nitivamente – e finalmente – democratica e civile.

Non va dimenticato, appunto, che qui da noi il turi-smo ha un cuore antico: proprio da queste radici si è svi-luppato lo strepitoso successo di questa esperienza.Questo nucleo, queste radici, hanno un carattere benpreciso: e sono le qualità migliori di una certa Romagna,di una Romagna abile, operosa, desiderosa in tutti imodi di emanciparsi: che non relegava le donne al chiu-so delle cucine, che amava il contatto con gli altri… checredette di rovesciare e di rivoluzionare il mondo. Lecose poi andarono in un certo modo: questi uomini equeste donne hanno innalzato – dal nulla – un gigante-sco impero dell’ospitalità. Un’epopea del lavoro, vario-pinta, cordiale, rumorosa. Hanno giocato se stessi fino infondo, costruendo – oltre agli alberghi – amicizie sparsein tutta Europa, legami profondi quanto tenaci.

Ed è alle cose migliori di questa Romagna – popola-re, si è detto – che noi vogliamo affidare la Vostra vacan-za, piena di relax e di interessi da soddisfare. Non solola cortesia e l’ospitalità che in tanti ci riconoscono, ma ilmeglio di questa terra, di una “certa Romagna popola-re”: il meglio in fatto di cucina, di divertimento, di musi-ca e ballo, dancing & balere, di feste e variopinti merca-ti, di centri storici e di … centri sociali, di punti di ritro-vo e di botteghe artigiane, di cooperative (qui sono natee qui resistono!). Concentriamo l’attenzione sulle loca-lità della riviera, da Cattolica a Cervia, dove più fortebatte il cuore dell’ospitalità e del divertimento, e suquell’entroterra romagnolo a portata di mano.

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NON C’È FESTA SENZA BALLO,NON C’È BALLO SENZA LISCIO

Qui tutto è subito festa. Quasi per vocazione. Teneteben presente che anche i “comitati turistici” organizza-no – lungo la riviera e per tutta la stagione – feste in piaz-za e sui lungomari, dove su di un palco si esibisce di soli-to un complessino romagnolo: si balla, magari, sull’asfal-to, si assaggia la “rustida” di pesce, e l’immancabileciambella e Sangiovese, tutto offerto gratuitamente: unmodo per onorare la vecchia ospitalità, per rinnovarne lafama, per dare il benvenuto, o l’arrivederci, agli ospiti.Pure alle Feste dell’“Unità”, e a quelle degli altri partiti,si cena all’aperto, si balla o si ascolta un concerto, in unclima sempre cordiale, in cui la politica sembra non esi-stere e tutti sono ben accetti, indipendentemente dalleidee di ciascuno. Un giorno sì e uno no, c’è una festa, daqualche parte. Basta chiederlo al vicino ufficio informa-zioni o al proprio albergatore. Senza contare le serate,programmate o improvvisate, negli hotel che ospitano lavostra comitiva. Se non c’è niente in vista, è sufficientelanciare l’idea. Gli albergatori non si faranno pregare.Buon sangue (romagnolo) non mente. Per le serate asso-lutamente vuote, ricordatevi che la nostra riviera offreun numero spropositato di locali da ballo. Attenzione:non sono tutte “discoteche”, ci sono tanti ambienti incui prevale il ballo di coppia, il liscio, i ballabili deglianni sessanta, ma soprattutto c’è la musica dal vivo, conpiccole o grandi orchestre. Sono dancing che stannoregistrando un rinnovato successo. Anzi, nei prossimianni è facilmente prevedibile un loro “boom”. Ci voletescommettere?

Ed ecco dove si coltiva, espressamente, questa pas-sione.

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I FAMOSI DANCING,PICCOLI TEMPLI DEL LISCIO E DEL BALLO DI COPPIA

A Bellaria-Igea Marina• C’è il “tempio del liscio”, dove si balla di tutto, a

grandi numeri, con una capacità ricettiva che superale duemila persone, con ristorante, gran giardino eservizio di bus navetta gratuito (come dire: vi venia-mo a prendere…), in aperta campagna, Rio Grande,via Abba 18, Igea Marina, tel. 0541331764.

• Mentre in centro, a Bellaria, c’è Il Giardino delleMagnolie, via Fratelli Cervi, 27, tel. 0541345014.

A Castelbolognese• Le Cupole, sulla via Emilia.

A Castrocaro Terme• Il Bul-Bul, in via Mengozzi, 1, tel. 0543766170.

A Cattolica• Alla Bell’Italia, pizzeria trattoria con intrattenimento,

si balla… in via Marconi, 24, tel. 0541 967752.• Da Antonio, originalissima trattoria-dancing, in via

Nazionale Adriatica, 10, tel. 0541962290.

A Cervia • Sul lungomare accanto al Grand Hotel, il Kursaal

Lido, con orchestra, lungomare D’Annunzio, 1, tel.054471474, un locale sulla spiaggia, con una classe eduna tradizione che supera i quarant’anni.

A Cesena• L’Orchidea, a Ronta di Cesena.

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A Cesenatico • Besame (l’ex Kiss Kiss), zona ponente, via Magrini 24,

054784842.

A Coriano • La Torre Folk, nelle campagne a monte di Riccione,

precisamente a Coriano, in via Rio Melo, 2, tel.0541657110, si balla di tutto, si cena pure, con unacapacità che supera le 400 persone.

A Gatteo Mare• Ippocampo Dancing, piazza della Libertà, tel.

0547680060, dal liscio alla musica latino-americana.

A Godo di Russi• Il Piteco, via Faentina nord, tel. 0544419493.

A Misano Monte• Il Grillo Bianco, in via Arsiano, 9, tel. 0541600745,

dancing, ristorante, pizzeria più liscio, revival e musi-ca latino-americana.

A Ravenna• La Ca’ del Liscio, in via Vismano, tel. 0544497878,

lungo la strada che da Ravenna porta a Cesena, unvero tempio del liscio!

A Riccione • Il Sirenella, in via D’Azeglio, 12, tel. 0541641777, con

il liscio, gli anni sessanta e il ballo di coppia… è tra ilocali più apprezzati.

A Rimini• 007 Dancing a Rivazzurra, in viale Mantova 31, tel.

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0541373398, regno del liscio e della musica anni ses-santa e settanta.

• Tra Rimini e Riccione, esattamente a Miramare, c’è ilMon Amour, viale Principe di Piemonte, 30, tel.0541373434. Per tutte le età e tutte le musiche.

A Santarcangelo• L’Odeon, in via De Garattoni, 6, tel. 0541626562.

A Savignano sul Rubicone• L’Euroclub, in via Bastia, 475, tel. 0541932401.

A Verucchio• La Tramontana, su una collinetta sopra Villa

Verucchio, nella Val Marecchia, via SerraTramontana, 181, tel. 0541678282.

I NOSTRI CENTRI SOCIALI,APERTI ALL’INCONTRO CON GLI OSPITI

Cercate qualcosa di ancor più familiare dei dancing?Si possono trascorrere piacevoli serate in alcuni centrisociali della riviera, particolarmente attrezzati e pieni diattività. Sono “centri” nati come punti d’incontro deiresidenti, appartenenti alla fascia della terza età: duran-te la stagione ospitano volentieri singoli turisti e comi-tive (per queste ultime è consigliabile accordarsi conuna telefonata, anche per verificare, in linea di massi-ma, se possono accogliere ospiti non iscritti alle loroassociazioni).

• A Cattolica, in via XX Settembre 8, è attivo il CentroAnziani Domus Nostra Pio XII.

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• A Cesenatico, nel Parco di Levante, nei presso dellostadio, si trova il Centro Sociale, tel. 0547672922:anche lì si gioca a carte e si balla, oppure si possonofare due chiacchiere in tutta tranquillità.

• A Igea Marina, vicino al canale, è sorto il CentroSociale Alta Marea; attività ludiche e culturali simescolano nel programma: dalle serate danzanti allapresentazione di libri.

• A Riccione, nel vecchio paese, è nato da poco unpunto d’incontro culturale-ricreativo over-anta, sichiama Nautilus e si trova in viale Lazio, 18, tel.0541601866; al Nautilus si balla il liscio tutte ledomenica, con orchestre tipiche, o si organizzanoeventi e piccole feste su richiesta: interpellare il pre-sidente Franco Baratti, tel. 3387443949 oppure0541643622.

• Al Centro Sociale di Miramare di Rimini, in piazzaleRaggi, 1, si balla quattro volte alla settimana: il mar-tedì, il giovedì, il sabato e la domenica. Per informa-zioni telefonate al presidente di quell’associazione,Antonio Castellucci, allo 0541378536.

• A Rimini, San Giuliano a Mare: Centro Sociale CasaColonica, via Brandolino, 25, Parco Briolini, tel.054124551. Presidente: Giorgio Innocenti. Orarioestivo, tutti i giorni: ore 14.00-18.00/20.00-23.30;sabato e domenica si balla.

• A Rimini, Viserba, a monte della ferrovia: CentroSociale Viserba 2000, in via Barone 9, tel.0541733846. Il presidente è Donato Briscese, vera

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“forza della natura”, vulcanico organizzatore dimanifestazioni a getto continuo; conta settantatre pri-mavere, è originario di Venosa (Potenza), e dal ’46vive a Rimini. Soprattutto a lui si deve la realizzazio-ne di questo “centro”, imponente e moderno; lì èsempre festa. Provare per credere. Briscese ci halasciato anche il suo numero di cellulare 3392611810,pronto com’è ad andare a prendere le comitive… dipersona.

LE CASE DEL POPOLO

Un discorso a parte meriterebbero le “Case del Popolo”:un fenomeno che rappresenta una vecchia eredità otto-centesca della Romagna che sapeva “mettersi insieme”:società di mutuo soccorso, cooperative, circoli e associa-zioni, qui nascevano come funghi.

Ce ne sono, sparse sul territorio, di antiche e direcenti; nella maggioranza dei casi hanno subito grossetrasformazioni, e assomigliano a bar e caffè tradizionali.E neppure la politica è presente più di tanto. Due esem-pi, a portata degli ospiti, a Rimini, nelle frazioni vicine almare: quella del “Ghetto Turco”, in via Rosmini, aMarebello, e il Circolo Innocenti, in via Meucci aRivazzurra.

QUELLA MARINARA E QUELLA CAMPAGNOLA:DUE CUCINE AL PREZZO DI UNA

E, in ordine di importanza, dopo il ballo viene latavola. O viceversa. La Romagna a tavola non è cosìunita come potrebbe pensare qualcuno. Sulla costa si

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sentono di meno le radici propriamente romagnole: quinon siamo a Lugo, a Faenza o a Forlì, dove essere roma-gnoli è un fatto di prestigio, molto sentito, come esserenapoletani veraci a Napoli. E, così, anche nella cucina lacosta si distingue dall’entroterra romagnolo, sanguigno eterragno. Prendiamo, per esempio, la piada. Quella del-l’interno è proprio gravida, spessa, dorata, umorale;sulla costa, nel riminese, è sottile, friabile, più leggera manon per questo meno gustosa; per inciso, pensate allanostra piadina sfogliata, unta e saporosa, così come sipuò apprezzare nella “mitica” Grotta Rossa, alle porte diRimini, uscendo dalla città, sulla vecchia strada cheporta a San Marino. Così pure la tagliatella, ancor oggicavallo di battaglia della cucina regionale: la sfoglia fattain casa, tirata a mano – una tradizione quasi scomparsanel resto dell’Italia. Tanto alta, larga, tosta quella classi-ca, quanto sottile, stretta e digeribile quella riminese: adun passo dall’ormai dominante “tagliolino”, che domina– a giusto titolo – i menù di tutti i ristoranti di pesce.

Sulla costa, in quest’ultimo mezzo secolo, la cucina dipesce ha preso il sopravvento su quella contadina.Quest’ultima presenta ancora molti “santuari”, meta dipellegrinaggio da parte dei fedeli. Volete qualche nome?EccoVi serviti. Zanni a Villa Verucchio, sulla stataleMarecchiese (quella che porta in Toscana, con le vicinetappe di Verucchio e San Leo), che si rifornisce di carnenella adiacente macelleria di sua proprietà (specialitàprincipali: castrato, salumi, tagliatelle larghe e saporose,piadine servite in cesta). Oppure a Santarcangelo, daZaghini, che oltre alle tagliatelle offre (per non citaretutto) un favoloso coniglio in porchetta. E nelle campa-gne attorno, e precisamente a Canonica, da Renzi, altreclassiche tagliatelle (e piada), all’ombra di betulle e ippo-castani. Nella “sperduta” San Giovanni in Galilea

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(comune di Sogliano), infine, Rigoni, che offre abbon-dante cucina di carne “allevata in proprio”.

Ben più difficile fare delle scelte se si passa a parlare dicucina a base di pesce: cavallo di battaglia della stragran-de maggioranza dei ristoranti della costa. La creatività deinostri ristoratori si sbizzarrisce negli antipasti e nei primi.Per i “secondi” nessuno ha il coraggio di rinunciare a pro-porre la famosa “grigliata mista dell’Adriatico”. Sono natequi, sulle nostre località marine, alcune ricette che stannofacendo – o hanno già fatto da tempo – il giro d’Italia:tagliolini allo scoglio, insalata di mare, maccheroncini allecanocchie, tortellini ripieni di pesce, sardoncini marina-ti… Piatti ormai consueti da noi, ma mai banali, e arric-chiti sempre da qualche piccola trovata. E qui c’è solol’imbarazzo della scelta: Oberdan e lo Squero sul molo diRimini, da Elio all’Embassy lungo la passeggiata di vialeVespucci, e in via Roma, non distante dalla stazione, Pieroe Gilberto; senza trascurare il recente Storie di mare, sullasinistra del porto, sempre a Rimini. Oppure le trattoriedel vecchio Borgo San Giuliano, a Rimini al di là delPonte di Tiberio: dal Lurido, dalla Marianna, da Marco…E così per tutte le località della costa romagnola:Cesenatico, Bellaria, Riccione e Cattolica, che in comunehanno la caratteristica di presentare ristorantini e trattoriea base di pesce attorno, o lungo, il porto canale.

La costa romagnola? una suggestiva (e “prelibata”)terra di frontiera tra la cucina contadina e quella mari-nara. Ma ecco le coordinate.

A Rimini • Per il pesce, al Ristorante Marinelli, da Vittorio, viale

Valturio, 39, tel. 0541783289: una buona creativitàapplicata alla tradizione; da segnalare i “bianchetti”fritti, i cosiddetti uomini nudi.

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• Sempre per il pesce, dal Lurido, la famosa trattoriadel Borgo San Giuliano, in piazzetta Ortaggi, tel.054124834. Abbondanza e tradizione.

• A due passi dal Lurido c’è l’Osteria del Borgo -Osteria de Borg, via Forzieri 12, tel. 054156071: lavera cucina romagnola in edizione moderna.

• Invece da Piero e Gilberto - Ristorante Europa, viaRoma, 51, zona stazione, tel. 054128761, la cucina èveramente ricercata, a base di carne e di pesce.

• A Marebello, c’è L’Osteria del mare, viale ReginaMargherita, 77, tel. 0541376622. Ad attendervi c’è,assieme alla squisita gentilezza di Gaetano, una cuci-na a base di pesce e fantasia; per esempio, “i petali dibranzino” e “le foglie di polipo”.

• Sempre a Marebello, in via Siracusa, 73, L’angolo blu,tel. 0541370931, del simpatico e disponibile Leo,rappresenta un bell’esempio di quei locali ormai tipi-ci sulla riviera, specializzati in pesce & pizze, dovepuoi consumare anche uno spuntino.

Lasciando Rimini• Fatti pochi chilometri sulla superstrada che porta a

San Marino, in località Sant’Aquilina, c’è la trattoriaSole, via S. Aquilina, 34, tel. 0541756396: ottimetagliatelle e prezzi popolarissimi.

• Invece, in direzione della Toscana, sulla Marecchiese,le trattorie “a base” di tagliatelle si sprecano: dallaDelinda, o nel piccolo e lindo Ristorante Spadarolo(dove al ragù romagnolo si aggiungono i fagioli, allamarchigiana) o da Rinaldi, a San Paolo, per i cappel-letti in brodo e il galletto al tegame.

• Sempre nella Valmarecchia, in località Torriana, un

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locale quanto meno originale risponde al nome diOsteria i Malardot, in via Castello 35, tel.0541675194: sembra un piccolo museo della nostraciviltà contadina.

• Sulla strada che porta nella Valconca, appena fuori lacittà di Rimini, in via Coriano 161, tel. 0541731215,c’è l’Osteria del Quartino, sempre per una cucinaromagnola sapientemente “rivisitata”.

• A Bellaria, Da Gianola, in via Alicata, 1, tel.0541347839, dove Roberto ce la mette tutta per recu-perare gli antichi piatti: dal brodetto di pesce, quellopovero che si preparava sulle barche, al pesce cottosulla teglia, alla polenta alle vongole, ai sughi a basedi “stridoli” e di rigaglie…

• Nella località di Bordonchio, sempre nel comune diBellaria-Igea Marina, in via San Vito 7, tel.0541330162, par magné cumè di sgnur c’è l’ Osteriadella Contessa, un nuovo ristorante che rilancia nel-l’arredo e nella gastronomia la nostra grande tradi-zione; basta leggere il suo menù per capire come siain linea con la cucina di una classica famiglia roma-gnola, di ieri e di oggi: tagliatelle al ragù, strozzapre-ti salsiccia e piselli, cappelletti in brodo, grigliatamista, piccione ripieno, galletto in umido, coniglioalla cacciatora, patate arrosto, gratinati e verdura allagriglia.

• Sul porto di Cattolica, gestita da Marco e dalla bellis-sima Gloria, c’è la moderna trattoria Forza eCoraggio, valida come cucina e come punto di ritro-vo. Lì, tirano a far tardi personaggi legati al mondo

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1953. Teatro Verdi di Cesena. Tradizionale veglione del valzer. Inqueste occasioni l’Orchestra Casadei si esibiva in formazione “tea-trale” ovvero potenziata da altri musicisti. Da sinistra: Marino Gori(tromba), Domenico Bucchi (tromba e trombone), Guido Rossi (cla-rinetto), Elmo Bonoli (sax tenore e violino), Carlo Baiardi (sax con-tralto), Iris Mordenti (secondo violino), Secondo Casadei (capo-orchestra, primo violino), Arte Tamburini (voce), Nevis Bazzocchi(batteria); in seconda fila: Terzo Fariselli (contrabbasso), EttoreBattelli (chitarra), Pasquale Vincenzi (pianoforte).Le danze duravano dalle 20 alle 6. Le mamme, che, immancabilmen-te, accompagnavano le ragazze, arrivavano con sporte colme di ciboper la cena di mezzanotte. Se gradito alla madre, il corteggiatore dellafiglia veniva invitato a cenare.

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della musica, a partire dal “leggendario” HenghelGualdi, che vive tra Cattolica e Bologna: è personasquisita, con la quale si può parlare di tutto e di tutti(lui ha conosciuto, e frequentato, Pavarotti,Armstrong, Romano Mussolini…). Due parole sullacucina: da non perdere i primi (pasta e fagioli, spa-ghetti alla carbonara e la polenta alle vongole rosse) ela trippa. Henghel, per inciso, passa le sue serateanche al Bistrot, sul Lungomare Rasi e Spinelli.

• Mentre a Santarcangelo di Romagna, non dovete per-dere, oltre alle antiche Contrade, La Sangiovesa, piùche un ristorante è un “monumento”, disegnato eprogettato dal poeta e sceneggiatore Tonino Guerra:preziosa e originale la serie di stufe, presenti in tuttigli ambienti che compongono questa grande osteria.Si trova in piazza Balacchi, 14, ed è chiusa il lunedì,tel. 0541/626710.

• Vicinissima a Santarcangelo, nelle campagne, localitàCanonica, una trattoria “storica”, Renzi, da ricordareper le tagliatelle e per il pollo al coccio, nonché per lepiante, per il verde che ospita i tavoli all’aperto.

VECCHIE (ED AUTENTICHE) OSTERIE E TRATTORIE:TRE INDICAZIONI SOLTANTO, PER NON SBAGLIARE

• A Cattolica, da Antonio: osteria, trattoria, dancing,vicino al sottopassaggio della ferrovia; chiedere diGiorgio o della Milena: crostini, tris di minestre,gnocchi all’anatra, ravioli e tagliatelle ai piselli, polloalla cacciatora o coniglio alla porchetta, via NazionaleAdriatica, 10, tel. 0541962290; sull’elenco telefonico

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c’è scritto Da Antonio Danze, il che depone bene; dalcentro ci si arriva a piedi; si balla il liscio, soprattut-to, dalle ore 20 a mezzanotte, ma se siete nottambulinessuno vi manda via.

• Sempre a Cattolica, Dalla Gina, in via GiordanoBruno, 31, tel. 0541962954, da non perdere, come siusa dire; nel cuore della vecchia Cattolica, una cuci-na altrettanto antica: risotto alle vongole, quadruccicon le seppie, brodetto di canocchie…

• A Cesenatico la trattoria San Marco, nella zona delporto, dalle 11 in poi ci trovi, per l’aperitivo e per ilcaffè, tutti i vecchi “personaggi” del centro storico.

LA PIADINA

Un discorso a parte va fatto per la piadina, che sipuò apprezzare ormai in tutti i ristoranti e le trattorie,ma che in riviera e nell’entroterra viene offerta in tantinegozietti o chioschi; un nome per tutti: Dalla Lella, inviale Rimembranze, a Rimini, piadine e cassoni alleerbe, di prim’ordine (il figlio ha aperto un negozio aNew York!).

BOCCE CHE PASSIONE

In spiaggia, lungo tutta la riviera, il gioco delle bocceè diffusissimo, ma esistono anche tanti campi, veri e pro-pri bocciodromi, nelle cittadine della costa e nelle peri-ferie. Ecco i principali.

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• A Cattolica da segnalare un moderno bocciodromo alcoperto, in via Quarto, 3, sulla vecchia Statale, tel.0541962939.

• A Cervia, a monte di Pinarella, nella via Caduti per laLibertà, al centro sportivo, si trovano grossi impiantiper bocciofili.

• A Cesenatico, sulla spiaggia di Ponente, tutti i bagni-ni, ovvero tutti gli stabilimenti balneari hanno il giocodelle bocce: una vera specializzazione.

• A Riccione, il Bocciodromo del centro sportivo di viaForlimpopoli (più precisamente in viale Carpi),anche al coperto, tel. 0541643914; lì c’è il ritrovo dinumerosi “personaggi” riccionesi, e le occasioni perorganizzare feste non mancano.

• Sempre a Riccione, nella zona Colle dei Pini, esisteuna bocciofila annessa al locale Centro Sociale, vici-no alla chiesa di San Francesco; feste e serate dan-zanti sono frequenti.

• Bocciodromo al coperto a Rimini, al “mitico”Dopolavoro Ferroviario D.L.F., in via Roma, 70, tel.0541643914.

ANGOLI DA VISITARE E PUNTI DI RITROVO

A Bellaria non c’è solo quello straordinario salottoche è l’Isola dei Platani, ma c’è anche la Borgata Vecchia,lungo il fiume, che organizza sul posto tante serate spe-ciali (per saperne di più, telefonate a Bramante Vasini, il

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presidente del locale Comitato, allo 0541344777). E, nelmaggio, una grossa iniziativa: “La Borgata che danza”, ed’estate, concerti e operette. Oppure ci si ritrova lungo“la palata”, sul porto canale, lato Bellaria, dalle partidella Pescheria.

A Cattolica, non perdetevi la passeggiata nella vastaarea pedonale (un vero e proprio esempio di comedovrebbero essere organizzate le cittadine… occhioall’arredo), nei viali Bovio, Curiel e Dante, ma anche inpiazzale Primo Maggio o in piazza del Mercato Coperto(che belle ristrutturazioni! che fontane!), in questiambienti si tengono spesso dei concerti, offerti agli ospi-ti; oppure al porto, per arrivare al ponte mobile che uni-sce la Romagna alle Marche, Cattolica a Gabicce, sepa-rate dal fiume Tavollo. Una cittadina all’insegna dell’ar-redo (come si deve) e del relax. La “vecchia guardia cat-tolichina” si riunisce, d’inverno e d’estate, nel piazzalePrimo Maggio: e non mancano gli ex-pescatori, con leloro storie dell’Adriatico.

A Cesenatico, tutto gravita intorno al Porto: dallaRomagna delle Vele, un museo galleggiante di vecchieimbarcazioni, all’asta del pesce, uno spettacolo che siripete quotidianamente, al mercato Ittico: lì c’è ancheun’asta esterna a cui si può assistere; a due passi puoitrovare la piazza delle Conserve (gli antichi “frigoriferi”del Centro storico); senza dimenticare la passeggiata, lamattina presto, lungo il Molo di Levante (quello latoRimini), dove puoi incontrare tutta la “vecchiaCesenatico”. La Romagna tutta bici, donne e motori, sidà invece appuntamento al chiosco della famigliaPantani, in viale Torino: è il regno del Pirata e della pia-dina.

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A Rimini, consigliamo di fare un salto ai “Venerdì seradel Centro”: durante l’estate le piazze e il Corso, nella cittàvecchia, si animano d’improvviso una sera alla settimana.Mercatini, bar sfavillanti, “bella gente”, traffico zero.

Mentre di giorno il “Senato” riminese si riunisce inpiazza Cavour e lì sentenzia… magari contro i giovani;questi ultimi sono attratti, invece, dal nuovo ed elegantearredo di piazza Tre Martiri.

Per chi volesse immergersi nella folla, tra Rivazzurrae Miramare, d’estate; sembra che il mondo sia tutto lì,ordinato e festoso. La gente che scorre, in massa, lungola passeggiata, è uno degli spettacoli più belli della rivie-ra. E, tanto per essere più precisi, segnaliamo vialeOliveti, viale Catania e viale dei Martiri.

LA SPIAGGIA

Sulla riviera, la spiaggia, voi lo sapete, è uno straordi-nario luogo d’incontro: ve ne potere stare tranquilli aleggere il giornale, come partecipare all’animazione ealla ginnastica – di solito la mattina – organizzata edofferta gratuitamente a tutti gli ospiti; ginnastica conmusica, ginnastica in acqua, per adulti o per bambini(tutte le località organizzano qualcosa).

MERCATI E MERCATINI

Da noi c’è solo l’imbarazzo delle scelta: ci sono loca-lità che tutte le sere ospitano un mercatino. Qui, però, vivogliamo segnalare i più importanti, quelli consolidati,dove si può trovare di tutto, compresa l’allegria, il colo-re e il nostro dialetto.

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A Rimini, in piazza Malatesta e nelle strade e nellepiazze vicine: le mattinate del mercoledì e del sabato. Danon perdere. È l’occasione per visitare un centro storicopiù vitale che mai. Mentre al mare, segnaliamo quelloestivo, a Bellariva sul lungomare, dal Bagno 100 fino aMarebello; ci si va anche in costume. A Cattolica, il saba-to mattina, in via Petrarca. A Bellaria, attorno al nuovoComune, tutti i mercoledì mattina (e tutte le sere, in viaPerugia, puoi visitare un mercatino specializzato: quellodell’artigianato artistico). Mentre a Igea, il venerdì mat-tina, in via Calatafimi si svolge il mercato “generalista”.E così pure a Riccione, in piazza Unità, il venerdì matti-na. A Misano, il martedì (fuori stagione) si tiene in viaToscana, mentre d’estate lo puoi frequentare, sempre dimartedì, in via Verdi.

ALTRI PERSONAGGI DA CONTATTARE

Chi sa tutto su Bellaria-Igea Marina è MarcoCampana: lavora da anni nel locale ufficio informazioni(IAT, tel. 0541344108), scrive e legge “cose” sulla suaterra, e i suoi consigli sono sempre giusti e calibrati.

Mentre per gli studiosi segnaliamo il Centro di docu-mentazione sulla nostra tradizione popolare, presso ilMunicipio di Bellaria. Il responsabile è Gualtiero Gori.

Il “personaggio” che va associato a Cattolica è lui,Mario Ceccarelli, rintracciabile presso lo IAT, Cattolica0541963341, in via Matteotti, 44; Mario, oltre ad occu-parsi dell’ufficio informazioni, è il numero uno nellepubbliche relazioni di questa località; è lui ad acco-gliere giornalisti, ospiti speciali e tour operators esteri,da perfetto anfitrione, a tempo pieno. Sempre dispo-nibile ad organizzare visite, cene ed incontri. E oltre

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alla professionalità c’è l’amicizia, che lui non nega anessuno. È proprio vero: questi single hanno una mar-cia in più!

Se capitate al Borgo San Giuliano, la “Trastevere diRimini”, chiedete di Mario Pasquinelli e Dino Spadoni,al bar Auto, a due passi dal Ponte di Tiberio: loro soncapaci di mollar le carte ed accompagnarvi subito lungoquel dedalo di stradine e piazzette che compongono ilquartiere “più riminese del mondo”. Anche per ammira-re i murales dedicati a Fellini. Ma c’è di più: ogni dueanni, ai primi di settembre, i borghigiani organizzano“La Festa de’ Borg”, diventata con il passare degli annila festa della città e della “Rimini popolare”. Nel 2002,l’evento è previsto per il 7 e l’8 settembre.

Anche il nostro turismo ha una storia – anch’essapopolare –, ed Elio Tosi ne è il “cantore”: nel suo risto-rante Embassy, in viale Vespucci, rivivono le stagioniriminesi di Berlusconi (giovane cantante squattrinato) edi Fred Buscaglione, un artista legato a doppio filo allanostra riviera.

“Dogi”, Domenico Galavotti, tel. 0541640536, testimo-ne anche della Riccione di Mussolini, uomo squisito, inse-gnante in pensione, conosce assai bene la storia della PerlaVerde; così pure Orio Rossetti, intellettuale appartato; conlui si può ripercorrere la storia di Riccione dagli anni cin-quanta in poi: lo si trova tutti i pomeriggi a casa, rintanatoin una soffitta piena di libri, ma sempre disponibile.

Ma in un tipo di turismo dalle origini popolari comeil nostro, ogni albergatore è un buon anfitrione, bendisposto a dialogare e ad indicare le cose migliori, capa-ce perfino di introdurvi nei retroscena della nostra realtà.Assieme ai bagnini, logicamente. Ed è proprio sullaspiaggia che possiamo capire, più facilmente, i mutamen-ti “antopologici” della stirpe romagnola, dove si va dal

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bagnino (magari un po’ attempato) che rinnova e tra-manda la vecchia cultura marinara, al giovane gestore diquei moderni stabilimenti balneari che fanno pensare allaCalifornia, con le loro palestre a cielo aperto dedicate alfitness e gli ombrelloni di paglia. E tanto per fare degliesempi, tratti dall’arenile riminese: dal mitico EdmoNanni, capo storico della vecchia cooperativa bagnini(Bagno 134), al culturista e “tecnologico” Giampietro(Bagno 63A). E non fatevi fuorviare dalla “numerazione”(gli stabilimenti sono centinaia e centinaia, e per orien-tarsi non c’era altro sistema): ogni Bagno, ed ogni bagni-no, è un mondo a sé: non c’è nulla di standard!

E PER FINIRE, ATTENZIONE ALLE DIFFERENZE!

Tutte le località sulla Costa sono uguali fra loro? Solochi non ci conosce bene può pensare una cosa del gene-re. Ogni cittadina che compone questa “capitale dell’e-state” ha una sua forte personalità: come accade trasorelle tanto diverse tra loro.

E se Riccione è, soprattutto, viale Ceccarini (ma oggianche via Dante), luogo in cui si coltiva più che altrovel’immagine e la bella presenza, Cervia-Milano Marittimavuol dire, innanzitutto, “pineta”, infatti si tratta dell’uni-ca grande località turistica italiana cresciuta senzadistruggere la ricchezza di verde che aveva ereditato…Mentre Cesenatico è il paese dei ristoranti di pesce, piùdi 70, e tutti di ottima qualità: una cittadina che ha sapu-to trasformare la zona del porto in un vero e propriosalotto, che ospita, tra l’altro, un museo galleggiante divecchie barche. Per non parlare di Cattolica, che in fattodi isole pedonali teme solo la concorrenza di Bellaria.Quest’ultima, con la sua Isola dei Platani, ha creato un

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ambiente unico: non c’è luogo più piacevole per starse-ne, la mattina, a leggere il giornale. Lì accanto, un po’più a nord, la minuscola San Mauro Mare, luogo“ameno”, a un pugno di chilometri dal capoluogo SanMauro Pascoli, con la Torre e la casa natale del grandepoeta: Giovanni Pascoli. E poi c’è Rimini, capoluogodella riviera, città in cui c’è tutto e il contrario di tutto:dal Grand Hotel per gli sceicchi arabi (immortalato daFellini in Amarcord) alla mensa del dopolavoro ferrovia-rio, dall’aeroporto in cui atterrano i jet con i capi di statoal Borgo San Giuliano, da dove partiva ogni giorno, finoa poco tempo fa, la carrozzella trainata dal cavallo.

COME PRENOTARE

L’agenzia Montanari Tour, in questi ultimi anni, harealizzato esperienze significative nell’organizzazione divacanze e di stage legati alla storia, ai personaggi e allevicende della “Romagna popolare”; la sua sede è in viaCirconvallazione Occidentale, 104, 47900 Rimini, tel.0541786501-786517, fax 0541786159, e-mail:[email protected] ; http://www.montanaritour.it

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INDICE

Da rimpiangere c’è poco, però…di Giovannino Montanari 5

Il lungo viaggio di una “casetta”A proposito di Romagna mia 9

La periferia di una periferiaA proposito della “rivalutazione”della Romagna nel secondo dopoguerra 21

Òs-cia i madéun!A proposito della Romagna popolare 31

In principio era Zaclèn... Due o tre cose che so su Carlo Brighie la musica popolare romagnola 39

... e poi venne Casadei e’ sunadòurDue o tre cose che so su Secondo Casadeil’uomo della musica 55

La figlia, l’appassionato, la cantanteConversazione con Riccarda Casadei,Riccardo Chiesa e Arte Tamburini 85

Secondo, Zaclèn e la RomagnaQualche libro 97

Notizie utili e alcuni consigliPer scoprire ciò che rimane della Romagna popolarea cura di Giuliano Ghirardelli 101