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HA KEILLAH (LA COMUNITÀ) - BIMESTRALE - ORGANO DEL GRUPPO DI STUDI EBRAICI DI TORINO Sped. in A.p: 70% - filiale di Torino - n. 1 - 2° semestre 2017 - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare i diritti dovuti - C/O CMP TORINO-NORD www.hakeillah. com [email protected] LUGLIO 2017 ANNO XLII -209 TAMUZ 5777 NELL’INTERNO: n STORIE DI EBREI A TO- RINO (OMRI KIMCHI FELDHORN INTERVISTA- TO DA DAVID TERRACI- NI) 3 n ITALIA (ANNA SEGRE) 4 n EUROPA (GIACOMO PAOLONI, MARIA SAVIGNI) 5 n ISRAELE (GIORGIO BER- RUTO, REUVEN RAVEN- NA, GIORGIO GOMEL, ALESSANDRO TREVES) 6-12 n LETTERE (MAR- CO MAESTRO, FEDERI- GO DE BENEDETTI, FRAN- CA BARBERIS) 12-13 n FILM (GIORGIO BERRU- TO, ANNA SEGRE) 14-15 n LIBRI (PAOLA DE BE- NEDETTI, EMILIO HIRSCH, MARIO FUÀ) 15-19 n L’UNIVERSO IN RETE (DA- VID TERRACINI) 20 n C’è un argomento che la stampa ebraica in Italia considera tabù: le conversioni all’e- braismo, i ghiurim. Ah, non c’è dubbio: il ghiur è cosa di cui proprio non si può parla- re. Pensare sì, forse, ma per prudenza meglio non sbilanciarsi. E giù con la censura, allo- ra. Vi sfido a cercare articoli e analisi sul te- ma sulle testate del mondo ebraico italiano, piccolo ma vorace di letture e discretamente grafomane. Fatica sprecata, e lo sapete: non troverete niente, non-una-riga-una, silenzio totale. Ma perché poi? Vorresti cominciare un percorso di conversione? Vieni al tempio, poi vedremo (e gli anni, nel frattempo, pas- sano...). Scriverne? Ma sei matto? È una fac- cenda delicata! Hai una conversione in cor- so? Hai solo da provarci, a parlare o scrive- re di quello che vivi, e tanti auguri. Sei tra coloro che, di solito dopo lunghi anni e dure prove, sono riusciti a superare le forche cau- dine di un tribunale rabbinico? Felicitazioni, bravo bravissimo. Di quello che hai vissuto, di quello che ti è successo, però, non puoi Gerusalemme e Sion Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia mano destra; si attacchi la mia lingua al mio palato se non ti ricorderò, se non consi- dererò Gerusalemme la massima gioia” (sal- mo 137). Così come non dimentichiamo Ge- rusalemme non ci siamo dimenticati del cin- quantesimo anniversario della sua riunifica- zione. Una ricorrenza che non possiamo fare a meno di festeggiare pur nella consapevolezza dei problemi ancora aperti che tale riunifica- zione ha comportato e comporta. Un’annes- sione (della parte orientale) non riconosciuta internazionalmente, una popolazione che non viene trattata in modo uniforme. Tuttavia non possiamo neppure avere nostalgia di una città divisa, attraversata da un muro e con il divie- to assoluto di passare da una parte all’altra. (Questo, peraltro, non sarebbe necessario, e tanto meno auspicabile, neppure se la città fos- se divisa politicamente). Ogni proposta, idea o sogno sul futuro di Gerusalemme a nostro pa- rere non può che prevedere una città unita, una città di pace, secondo la più nota e diffusa tra le possibili etimologie del suo nome. Storicamente il sogno di uno stato ebraico si lega indissolubilmente a Gerusalemme attra- verso il suo stesso nome. Un nome che per noi è abituale ma che a pensarci bene suona un po’ anomalo. Perché sionismo? Non Ge- rusalemmismo (o Yerushalaimismo che dir si voglia), e neppure Moriahismo, in omaggio al monte dove sorgeva il Tempio e dove av- venne la legatura di Isacco. Che cos’ha Sion, questa collinetta – che è pure fuori dalle mu- ra della Città Vecchia, queste strade che io non ho mai visto troppo piene di turisti, dove si incontrano senza sovrapporsi la supposta tomba del Re David, la supposta sala dove JCALL IN ISRAELE E PALESTINA UN SEMINARIO ITINERANTE GHIURIM TRA CENSURA PREVENTIVA E DIRITTO ALLA DECENZA Baruch l’Occhialaio (segue a pag. 2) Giorgio Gomel (segue a pag. 6) fare parola. Cambia l’ordine degli addendi, non il risultato, e alla fine della fiera è sem- pre la mannaia del silenzio a imporsi. Tutto chiaro? Insomma, queste benedette conversioni devono essere cosa davvero sca- brosa per essere ricacciate sistematicamente sotto il tappeto anche quando, inevitabil- mente, le esperienze di chi le ha portate a compimento diventano qua e là visibili. Sarà che la polvere, da sotto il tappeto, non viene tolta da un pezzo, ma qui si comincia un po’ a soffocare. Però le persone parlano, acci- denti. E chi è che parla? Fuori i nomi! Forse chi si converte, a cui già è stato fatto un re- galo, insomma l’ingrato di turno? Eh, lo di- cevo io, questa è la prova che bisogna farne meno, di ghiurim! Già è stato convertito, al- meno un po’ di riconoscenza! Calmi tutti, niente paura, tranquilli: di solito il terrore in- culcato funziona e l’autocensura scatta im- placabile come la censura. Non chi si è con- Come già nel 2013, circa 50 ebrei di più paesi d’Europa in viaggio fra Israele e i territori, per dieci giorni densi di visite e incontri, ansiosi di ascoltare voci, comprendere opinioni e inquie- tudini, dibattere circa le prospettive di ripresa dei negoziati fra le parti, partecipare, solidali con ONG e movimenti della società civile, ad azioni sul terreno. Quest’anno inoltre, nel ri- correre dei 50 anni della guerra del ’67 e del- l’inizio dell’occupazione, vi era un’urgenza Anna Segre (segue a pag. 6) particolare: essere, in quanto ebrei della diaspo- ra europea, vicini agli animatori della campa- gna SISO – Save Israel, stop the occupation –, promossa dall’Appello di 500 israeliani agli ebrei del mondo 1 in una comune battaglia del- le idee che ispira la nostra azione nelle comu- nità ebraiche, nonché nelle opinioni pubbliche e nei rapporti con i governi dei nostri paesi. CENTO PASSI Beppe Segre (segue a pag. 2) Era la sera del 12 ottobre 1882, e un elegan- te signore francese, diretto alla stazione di Porta Nuova di Torino per prendere il treno per Roma, si sentì male. Fu riaccompagnato al vicino Albergo Liguria, in via Carlo Al- berto, dove aveva preso residenza, e fu chia- mato un medico, ma i soccorsi furono inuti- li. Così moriva nella notte, in solitudine, sen- za il conforto di amici e conoscenti, il conte Joseph Arthur de Gobineau. Fu sepolto nel Cimitero Monumentale di Torino, sotto l’87- esima arcata del primo ampliamento, e la la- pide posata in sua memoria non avrebbe po- tuto essere più semplice: “Arturo Gobineau, morto il 13 ottobre 1882, di anni 66”. Seppure poco conosciuto in Italia, il Conte di Gobineau era un grande personaggio della cultura e della diplomazia: ambasciatore, storico, archeologo, filosofo, etnografo, viaggiatore, scultore, collaboratore del gran- de saggista Alexis Tocqueville, amico di mi- nistri e ambasciatori, viaggiò dall’Iran al Brasile, fu amico di Richard Wagner, Prosper Mérimée, Giorgio V re di Hannover e don Pedro, ultimo imperatore del Brasile. Scrisse una quarantina di opere, tra libri di fi- losofia, storie d’amore e resoconti di viaggi in ogni parte del mondo. Era un uomo di grande cultura e di variegati interessi, ma tut- ti noi lo conosciamo come autore di un’ope- ra sola: il “Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane”. Come Charles Darwin pochi anni prima ave- va analizzato e classificato specie animali, così Gobineau si proponeva di classificare e di spiegare con criteri scientifici le evidenti e inconciliabili differenze tra i popoli. Nella specie umana esistono tre gruppi principali: quello bianco, quello giallo, quello negro ma la superiorità razziale va alla razza ariana, es- Abramo riceve i tre inviati e Sara ride nella tenda (Gen. 18,8-15), disegno di Stefano Levi Della Torre

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HA KEILLAH (LA COMUNITÀ) - BIMESTRALE - ORGANO DEL GRUPPO DI STUDI EBRAICI DI TORINOSped. in A.p: 70% - filiale di Torino - n. 1 - 2° semestre 2017 - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare i diritti dovuti - C/O CMP TORINO-NORD

www.hakeillah. [email protected]

LUGLIO 2017 ANNO XLII -209 TAMUZ 5777

NELL’INTERNO:

n STORIE DI EBREI A TO-RINO (OMRI KIMCHIFELDHORN INTERVISTA-TO DA DAVID TERRACI-NI) 3 n ITALIA (ANNASEGRE) 4 n EUROPA(GIACOMO PAOLONI,MARIA SAVIGNI) 5 nISRAELE (GIORGIO BER-RUTO, REUVEN RAVEN-NA, GIORGIO GOMEL,ALESSANDRO TREVES)6-12 n LETTERE (MAR-CO MAESTRO, FEDERI-GO DE BENEDETTI, FRAN-CA BARBERIS) 12-13 nFILM (GIORGIO BERRU-TO, ANNA SEGRE) 14-15n LIBRI (PAOLA DE BE-NEDETTI, EMILIO HIRSCH,MARIO FUÀ) 15-19 nL’UNIVERSO IN RETE (DA-VID TERRACINI) 20 n

C’è un argomento che la stampa ebraica inItalia considera tabù: le conversioni all’e-braismo, i ghiurim. Ah, non c’è dubbio: ilghiur è cosa di cui proprio non si può parla-re. Pensare sì, forse, ma per prudenza meglionon sbilanciarsi. E giù con la censura, allo-ra. Vi sfido a cercare articoli e analisi sul te-ma sulle testate del mondo ebraico italiano,piccolo ma vorace di letture e discretamentegrafomane. Fatica sprecata, e lo sapete: nontroverete niente, non-una-riga-una, silenziototale. Ma perché poi? Vorresti cominciareun percorso di conversione? Vieni al tempio,poi vedremo (e gli anni, nel frattempo, pas-sano...). Scriverne? Ma sei matto? È una fac-cenda delicata! Hai una conversione in cor-so? Hai solo da provarci, a parlare o scrive-re di quello che vivi, e tanti auguri. Sei tracoloro che, di solito dopo lunghi anni e dureprove, sono riusciti a superare le forche cau-dine di un tribunale rabbinico? Felicitazioni,bravo bravissimo. Di quello che hai vissuto,di quello che ti è successo, però, non puoi

Gerusalemme e Sion“Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi lamia mano destra; si attacchi la mia lingua almio palato se non ti ricorderò, se non consi-dererò Gerusalemme la massima gioia” (sal-mo 137). Così come non dimentichiamo Ge-rusalemme non ci siamo dimenticati del cin-quantesimo anniversario della sua riunifica-zione. Una ricorrenza che non possiamo fare ameno di festeggiare pur nella consapevolezzadei problemi ancora aperti che tale riunifica-zione ha comportato e comporta. Un’annes-sione (della parte orientale) non riconosciutainternazionalmente, una popolazione che nonviene trattata in modo uniforme. Tuttavia nonpossiamo neppure avere nostalgia di una cittàdivisa, attraversata da un muro e con il divie-to assoluto di passare da una parte all’altra.(Questo, peraltro, non sarebbe necessario, etanto meno auspicabile, neppure se la città fos-se divisa politicamente). Ogni proposta, idea osogno sul futuro di Gerusalemme a nostro pa-rere non può che prevedere una città unita, unacittà di pace, secondo la più nota e diffusa trale possibili etimologie del suo nome.Storicamente il sogno di uno stato ebraico silega indissolubilmente a Gerusalemme attra-verso il suo stesso nome. Un nome che pernoi è abituale ma che a pensarci bene suonaun po’ anomalo. Perché sionismo? Non Ge-rusalemmismo (o Yerushalaimismo che dir sivoglia), e neppure Moriahismo, in omaggioal monte dove sorgeva il Tempio e dove av-venne la legatura di Isacco. Che cos’ha Sion,questa collinetta – che è pure fuori dalle mu-ra della Città Vecchia, queste strade che ionon ho mai visto troppo piene di turisti, dovesi incontrano senza sovrapporsi la suppostatomba del Re David, la supposta sala dove

JCALL IN ISRAELE E PALESTINAUN SEMINARIO ITINERANTE

GHIURIM TRA CENSURA PREVENTIVA E DIRITTO ALLA DECENZA

Baruch l’Occhialaio (segue a pag. 2)

Giorgio Gomel (segue a pag. 6)

fare parola. Cambia l’ordine degli addendi,non il risultato, e alla fine della fiera è sem-pre la mannaia del silenzio a imporsi.Tutto chiaro? Insomma, queste benedetteconversioni devono essere cosa davvero sca-brosa per essere ricacciate sistematicamentesotto il tappeto anche quando, inevitabil-mente, le esperienze di chi le ha portate acompimento diventano qua e là visibili. Saràche la polvere, da sotto il tappeto, non vienetolta da un pezzo, ma qui si comincia un po’a soffocare. Però le persone parlano, acci-denti. E chi è che parla? Fuori i nomi! Forsechi si converte, a cui già è stato fatto un re-galo, insomma l’ingrato di turno? Eh, lo di-cevo io, questa è la prova che bisogna farnemeno, di ghiurim! Già è stato convertito, al-meno un po’ di riconoscenza! Calmi tutti,niente paura, tranquilli: di solito il terrore in-culcato funziona e l’autocensura scatta im-placabile come la censura. Non chi si è con-

Come già nel 2013, circa 50 ebrei di più paesid’Europa in viaggio fra Israele e i territori, perdieci giorni densi di visite e incontri, ansiosi diascoltare voci, comprendere opinioni e inquie-tudini, dibattere circa le prospettive di ripresadei negoziati fra le parti, partecipare, solidalicon ONG e movimenti della società civile, adazioni sul terreno. Quest’anno inoltre, nel ri-correre dei 50 anni della guerra del ’67 e del-l’inizio dell’occupazione, vi era un’urgenza

Anna Segre (segue a pag. 6)

particolare: essere, in quanto ebrei della diaspo-ra europea, vicini agli animatori della campa-gna SISO – Save Israel, stop the occupation –,promossa dall’Appello di 500 israeliani agliebrei del mondo 1 in una comune battaglia del-le idee che ispira la nostra azione nelle comu-nità ebraiche, nonché nelle opinioni pubblichee nei rapporti con i governi dei nostri paesi.

CENTO PASSI

Beppe Segre (segue a pag. 2)

Era la sera del 12 ottobre 1882, e un elegan-te signore francese, diretto alla stazione diPorta Nuova di Torino per prendere il trenoper Roma, si sentì male. Fu riaccompagnatoal vicino Albergo Liguria, in via Carlo Al-berto, dove aveva preso residenza, e fu chia-mato un medico, ma i soccorsi furono inuti-li. Così moriva nella notte, in solitudine, sen-za il conforto di amici e conoscenti, il conteJoseph Arthur de Gobineau. Fu sepolto nelCimitero Monumentale di Torino, sotto l’87-esima arcata del primo ampliamento, e la la-pide posata in sua memoria non avrebbe po-tuto essere più semplice: “Arturo Gobineau,morto il 13 ottobre 1882, di anni 66”.Seppure poco conosciuto in Italia, il Conte diGobineau era un grande personaggio dellacultura e della diplomazia: ambasciatore,storico, archeologo, filosofo, etnografo,viaggiatore, scultore, collaboratore del gran-de saggista Alexis Tocqueville, amico di mi-

nistri e ambasciatori, viaggiò dall’Iran alBrasile, fu amico di Richard Wagner, ProsperMérimée, Giorgio V re di Hannover e donPedro, ultimo imperatore del Brasile.Scrisse una quarantina di opere, tra libri di fi-losofia, storie d’amore e resoconti di viaggiin ogni parte del mondo. Era un uomo digrande cultura e di variegati interessi, ma tut-ti noi lo conosciamo come autore di un’ope-ra sola: il “Saggio sulla disuguaglianza dellerazze umane”.Come Charles Darwin pochi anni prima ave-va analizzato e classificato specie animali,così Gobineau si proponeva di classificare edi spiegare con criteri scientifici le evidenti einconciliabili differenze tra i popoli. Nellaspecie umana esistono tre gruppi principali:quello bianco, quello giallo, quello negro mala superiorità razziale va alla razza ariana, es-

Abramo riceve i tre inviati e Sara ride nella tenda(Gen. 18,8-15),

disegno di Stefano Levi Della Torre

2vertito parla, e men che meno chi eroica-mente si trova nel mezzo di un percorso dicui è di solito impossibile prevedere i tempie pronosticare la fine. Parlano gli altri, gliebrei che sono nati ebrei, gli ebrei per casose vogliamo, che spesso stanno loro vicino.Pensano e parlano, accidenti a loro. E questoè un problema, ma per davvero: perché cosìsi diffondono le voci, quelle di conversionicomprate e di umiliazioni quotidiane, di ri-valità tra rabbini che condizionano – che di-co, che determinano – i ghiurim e autenticheprese in giro di chi vuole diventare ebreo,magari dopo che da anni e persino da decen-ni frequenta assiduamente la comunità. Ma questo è niente, niente di diverso daquello che succede normalmente, voglio di-re. Perché una testimonianza non basta aprovare il crimine, se però le testimonianzesono cento le cose cominciano a essere unpo’ diverse. Se poi vengono anche da addet-ti ai lavori, allora anche gli ultimi dubbi sisgretolano. Ci sono poi quelle voci che, co-me la calunnia di Rossini, da venticello e au-retta assai gentile crescono e crescono, iper-bolicamente, e finiscono per diventare benaltro. E allora nascono le leggende di sadicirabbini torturatori, prove di sopravvivenzadegne del sergente maggiore Hartman e con-vertendi immolati sull’altare del rigore. Maanche questa non è forse una conseguenza,certamente spiacevole e tuttavia una conse-guenza, del silenzio imposto con misura si-stematica, implacabile?Mi dite che non sappiamo che cosa pensanodavvero gli ebrei italiani a riguardo? Oh no,certo che lo sappiamo, lo sappiamo abba-stanza bene da poter identificare tendenzesignificative. Ce lo racconta, per esempio, laricerca Campelli, un progetto di pochi annifa voluto dall’Unione delle comunità, cheraccoglie una diffusa insoddisfazione da

parte degli intervistati nei confronti della si-tuazione. Inevitabile, quindi, che si apra unbaratro tra quello che le persone pensano edicono, che è molto, e quello che viene scrit-to, cioè nulla.E poi ci sono i linciaggi mediatici di quei pa-ladini domenicali della halakhà, il sistemanormativo ebraico, che sui social networkdimenticano i più basilari principi, ancheebraici, del rispetto per gli altri, per andarein caccia dell’errore di chi si è convertito osi sta convertendo. Ci sono quelli che il Tal-mud definisce “stupidi pii”, fanatici che perlo più in buona fede, ritenendo così di renderun gradito servizio al Signore, riducono alle-gramente a brandelli codici millenari dellanormativa ebraica (“Non fare ad altri...”) neltentativo di imporre qualche discutibile ca-villo. Ci sono quelli che se ne escono, nellavita reale o virtuale, con frasi demenziali alsolo scopo di ferire, far male e danneggiarealtri. E la Comunità ebraica di Torino, be-ninteso, è ancora un caso felice, assoluta-mente non rappresentativo della situazionecomplessiva. Ma di episodi a dir pocosgradevoli è pieno, e si capisce alloraperché la censura diventi anche auto-censura. Come potrebbe essere diver-samente, quando si sa di essere in ba-lia dell’arbitrio di un rabbino, che co-munque la si pensi è una persona, unsingolo che come tutti può prendereabbagli, con opinioni personali, in-teressi, pregi e difetti? Come po-trebbe essere diversamente, quandosi vedono miserabili avvoltoi (po-chi? Sempre troppi!) che roteano so-pra la testa delle vittime designate,pronti a cogliere qualsiasi opportu-nità – una cosa fatta o non fatta, det-ta o non detta – per attaccare, ferire,insultare, deridere, offendere, umilia-re? Si tratta di una piccola minoranza, maè sufficiente per creare danni e ingiustizie,

piccoli drammi individuali oggi e grandidrammi forse domani. Convertirsi è forse un po’ come attraversareun fiume in piena a guado. Comprensibile,prima che il protagonista scenda in acqua,metterlo in guardia dai rischi, ma se si trovagià in mezzo alle onde per me è inumanonon allungare una mano e trarlo in salvo, al -l’asciutto, sull’altra riva. Ed è un crimine pe-stare le mani che afferrano una roccia o unarbusto, un appiglio qualunque per non esse-re sommerso dai flutti. Nessuno chiede chela conversione sia un diritto già scritto, emen che meno lo chiedono coloro che conimpegno, volontà e sforzi davvero notevolivogliono entrare a tutti gli effetti a far partedi una comunità ebraica e contribuire al suopresente e futuro. L’unico diritto che c’è ungran bisogno di affermare è quello, per chi

vuole convertirsi, a esseretrattato con decenza.

Baruch l’Occhialaio

Leo Contini,bicchieri specchianti

per Kiddush e mezuzah -

maghen David, copia

(segue da pag. 1) Ghiurim tra censura...

sendo quella con il monopolio della bellezza, dell’intelligenzae della forza. Le varie civiltà declinano e decadono quando ac-cade che le "razze" si mescolino; se si vuole evitare il collas-so della moderna civiltà ariana, è quindi necessario evitare lamiscelazione con altre razze non ariane.Inaugurando il concetto di “razza ariana”, Gobineau viene

considerato il padre del razzismo moderno, e la sua fama cre-sce nel tempo di pari passo con l’importanza che via via assu-me l’ideologia razzista in Europa. Nel cinquantesimo anniversario della morte – siamo dunquenel 1932 e il razzismo costituisce un elemento caratterizzantedell’ideologia fascista e della propaganda del regime - il Con-siglio Comunale di Torino lo celebra ed elabora il testo di unanuova iscrizione, che è quella che si può vedere oggi: “Giu-seppe Arturo Conte di Gobineau, nato in Villa d’Avray nel1816 e morto in Torino il 13 ottobre 1882 diplomatico, scrit-tore filosofo, il tempo e gli eventi ne esaltano la figura di pre-sago pensatore”.Della sua opera, che si trovava nella biblioteca del Führer,aveva una venerazione Alfred Rosenberg, l’ideologo del raz-zismo nazionalsocialista e della supremazia ariana nel mondo.Peraltro ancora dopo la guerra c’è stato chi ha usato il suoSaggio per propagandare ideologie razziste: nel 1963 FrancoFreda inaugurò la sua brillante carriera di leader della destraestrema e d’ideologo della supremazia ariana con la pubblica-zione del Saggio di Gobineau, cui si sarebbero presto affian-cate, nel catalogo della casa editrice AR di Padova, le operecomplete di tanti ideologi del razzismo e dell’antidemocrazia,tra cui Joseph Goebbels, Alfred Rosenberg, Giovanni Prezio-si, e naturalmente Adolf Hitler.La tomba del Conte di Gobineau si ritrova oggi, casualmente,contigua al Settore Ebraico. Un visitatore che dalla grande la-pide con l’e lenco degli oltre quattrocento ebrei torinesi vitti-me delle persecuzioni nazifasciste compia cento passi, o pocopiù, troverà facilmente il varco per passare dal Settore Ebrai-co al l’Area Storica, e di qui, dopo pochi metri sotto il portica-to, potrà ammirare la lapide dedicata al “presago pensatore”;il brevissimo percorso serve a rammentarci il piccolo inter-vallo che intercorre tra l’elaborazione teorica, astratta, ed in-nocente di un sistema razzistico e la conseguente creazionedei lager.

Beppe Segre

(segue da pag. 1) Cento passi

Leo Contini Lampronti

Anche questo numero propone opere diun artista ebreo. Leo Contini Lampronti,italo-israeliano, è nato a Nizza nel 1939da genitori ferraresi. Il padre Nino, avvo-cato antifascista e sionista, detenuto emandato al confino durante la secondaguer ra mondiale fino alla caduta del fa-scismo, morì a Napoli all’età di soli 37 an-ni. La madre Laura Lampronti, pianista eimpegnata nel sociale, morì anch’essaprematuramente all’età di 47 anni. LeoContini ha studiato a Roma e Milano, do-ve si è laureato in ingegneria nucleare.Emigrato in Israele nel 1967, sposato contre figli, per qualche anno ha lavorato inun’industria, ma in seguito all’incontro conl’artista israeliano Naftali Bezem e col criti-co italo-brasiliano Pietro Maria Bardi, gra-dualmente è passato dall’ingegneria al-l’arte. La sua multiforme creatività si èespressa nel tempo con linguaggi diver-si: dalla grafica alla pittura figurativa, allapittura frammentata, all’”anascultura”detta anche “arte dei buchi neri”, unanuova rappresentazione pittorica dei vo-lumi tridimensionali. Della serie “judaica”sono anche nuove e geniali forme peroggetti rituali ebraici. Ha esposto le sueopere in mostre personali a Tel Aviv, SanPaolo, Ferrara, Milano, Parigi. Vive e lavora a Jaffa.

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Com’era l’atmosfera tra di voi a Gaza?Fuori dalle azioni militari: fame, sete, caldo,noia, stanchezza, rabbia. Ci preoccupavamodei compagni d’armi, di noi stessi, ma neiconfronti di quello che accadeva fuori e nelmondo, l’indifferenza più assoluta.E durante le azioni militari?Non dico che non capisci nulla, ma il fra-stuono, la polvere, la fretta dell’azione ti fan-no “andare fuori”, non provi nemmeno pau-ra… Devo aggiungere che personalmentenon ho mai ucciso nessuno. Non ho sparatoun colpo. I miei compiti erano di esplorazio-ne e guida, non di combattimento. Ma l’at-mosfera era quella. Ho saputo dell’uccisionein battaglia di tre miei amici di un altro re-parto il giorno stesso della loro morte, manon ho provato commozione, come se ciòfosse avvenuto lontano da me. Circa tre setti-mane dopo ho preso coscienza di quello cheera successo loro. Uno di loro era un caroamico che non vedevo da anni, ci eravamo ri-visti sul treno due settimane prima di entrarea Gaza, gli avevo promesso una birra. Nonpotremo mai più bere una birra insieme … Hai perso altri amici in guerra? Ho saputo di altre vittime, ma non erano mieiamici come quelli. Cinque anni prima, nel2009, mio fratello maggiore sempre a Gaza,nella stessa unità della mia ed in un’azione

simile era stato ferito. Naturalmente per lamia famiglia è stata dura, quando è toccato ame, accettare che io fossi mobilitato nellostesso identico modo.Hai altri fratelli?Siamo in due. Attualmente mio fratello, piùvecchio di me di quattro anni, studia all’Uni-versità Ebraica di Gerusalemme relazioni in-ternazionali e mediorientali in particolare.E tu cosa intendi fare?Intendo studiare psico-biologia, ossia neuro-scienze umane, tema nel quale gli studi inIsraele sono particolarmente avanzati. Mi in-teressano in particolare gli effetti biologici epsicologici indotti dalle diverse esperienzeed emozioni provate.Anche tuo padre è stato in guerra?Mio padre ha finito il servizio militare nel1973 quattro giorni prima della scoppio del-la Guerra del Kippur. È stato richiamato im-mediatamente come riserva in un’unità di in-telligence per tutta la durata della guerra, im-pegnato nel Sinai, e non ama parlare di quel-lo che erano i suoi compiti. So solo che haperso in guerra un sacco di amici. Che mestiere fa tuo padre?È ingegnere aeronautico. Dirige un gruppo diprogettisti di droni ad uso civile alla IAI,Israel Aerospace Industries, che produce ap-parecchi sia per usi civili sia militari. I dronisono aerei senza pilota. Lui ne progetta dipiccole dimensioni, di quelli che possono de-collare anche su terreni accidentati, senza bi-sogno di una pista, lanciati da uno in corsa.E tua madre?Dirige la o.n.g. chiamata Kesher, un ente diaiuto alle famiglie con figli che hanno pro-blemi di handicap. Mio fratello invece lavo-ra in un ufficio governativo che si occupa deirisarcimenti alle vittime della shoah.Parlami della tua famiglia. Quando sonovenuti in Israele i tuoi avi?La mia nonna paterna è venuta in Palestinada Berlino quando aveva quattro o cinqueanni, prima della seconda guerra mondiale, eha abitato coi genitori a Rechovot. Il miononno paterno dalla Galizia fuggì in Russia,e appena finì la seconda guerra mondiale,quando la Palestina era protettorato britanni-co, tentò l’aliah con i suoi, ma per un anno emezzo fu bloccato a Cipro dagli inglesi. In-vece la mia nonna materna era nata a Varsa-via, aveva lavorato in un orfanotrofio con JanKorczak, il pedagogo innovativo che fu de-portato e ucciso coi suoi ragazzi a Treblinka.Mia nonna fuggì in Russia con le sue sorellee fece l’a liah con la Hashomer Hatzair. Miononno materno in Russia era ingegnere e co-nobbe mia nonna in un campo profughi inFrancia. Emigrò in Israele con mia nonna nel’47 o ’48, e lì si sposarono.Puro sangue askenazita, dunque.Sì, a quanto pare, ma chissà prima…

Intervista di David Terracin

Cosa ci fai in questa foto, che sembri FidelCastro?Sono stato fotografato per scherzo da amici aCuba. Come spesso fanno i ragazzi, dopo ilservizio militare sono andato all’estero, e hovisitato, in America del sud, Colombia,Equador, Argentina, Perù, Uruguay, Cile eCuba, insomma tutti i paesi di lingua spa-gnola. È lì che ho imparato lo spagnolo, chemi è servito per quel poco di italiano chi hoimparato qui.Com’è che hai deciso di venire in Italia? Tornato dal Sud America, era troppo tardi periscrivermi all’università. Sono andato all’A -genzia Ebraica, che mi ha proposto di venirequi un anno, perché la Comunità di Torinoaveva chiesto uno shaliach. Volevo fare un’e -sperienza utile per la vita, ed ho accettato.Cosa avevi fatto da militare?Sono stato ranger in una compagnia di blin-dati.Qual è il compito di un ranger?Un ranger della Brigata 401, la mia brigata,ha il compito di precedere l’avanzata deiblindati per verificarne la possibilità di pas-saggio e prevenire eventuali imboscate. Noieravamo specializzati in camouflage, mime-tismo, che voleva dire esplorazione del terri-torio, individuazione di rifugi per proteggerei nostri e anche individuazione, in avansco-perta, dei bersagli da colpire. È una missione pericolosa… Dove e quan-do l’hai compiuta?Certo che è pericolosa. Ho operato a Gazanell’estate del 2014, durante l’operazioneProtective edge. Non sono entrato in GazaCity, ma sono rimasto in periferia. Il nostrocompito principale è stato anche quello di in-dicare all’artiglieria, all’aviazione, alla mari-na ed ai tank gli obiettivi da colpire. Duranteuna di queste missioni abbiamo individuatoil punto dove le milizie di Ḥamās nasconde-vano i missili Qassam (fatti in casa) e Grad(russi, a lunga gittata) e da dove li lanciava-no su Israele. Tra questi punti c’era una scuo-la delle Nazioni Unite. Prima dell’operazio-ne l’esercito israeliano aveva buttato volanti-ni preannunciando l’attacco, e declinando re-sponsabilità nel caso non venissero evacuatigli studenti. Abbiamo effettuato l’operazionequando gli occupanti erano stati evacuati. Hai operato in altre aree di guerra?Sul confine libanese, dove ho avuto compitidi sminamento lungo la frontiera. st

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italia

“Insieme per contrastare e prevenire la radi-calizzazione e l’estremismo” è il nome di unpercorso promosso dall’ANPI in collabora-zione con diverse comunità religiose, con loscopo di comprendere le cause del fenomenoe al tempo stesso “individuare misure, inter-venti e programmi in grado di prevenire taletendenza e riaffermare e consolidare le mol-te e buone ragioni del pluralismo e dell’im-pegno per una convivenza pacifica tra perso-ne uguali (nei diritti e nei doveri) e, al tempostesso, libere e perciò diverse.”L’incontro del 29 giugno, il quarto della se-rie, che si è tenuto nella moschea di via Chi-vasso, verteva in particolare sul ruolo deimezzi d’informazione e ha visto dialogare,moderati dall’on. Andrea Giorgis, l’ImamIzzeddin Elzir Presidente dell’UCOII (Unio-ne delle Comunità e Organizzazioni Islami-che in Italia), la sottoscritta (invitata inquanto direttrice di Ha Keillah), AbdellahLabdidi, segretario nazionale di Partecipa-zione e Spiritualità Musulmana, il pastorePaolo Ribet, don Fredo Olivero e MaurizioMolinari, invitato nella doppia veste di di-rettore della Stampa e di autore di saggi sul-l’estremismo di matrice jihadista. Interventoconclusivo di Lorenzo Gianotti dell’ANPIprovinciale.Un incontro, come sempre in questi casi, fat-to di molte dichiarazioni di principio a favo-re del dialogo e di poche e garbate punzec-chiature (rivolte quasi sempre al proprio in-terno, o ai mass media in generale, in pochicasi a Molinari in quanto esponente dei massmedia in generale). La sua importanza, comenel caso dei tre incontri precedenti, sta giànel fatto di essere avvenuto, perché in molticontesti la possibilità di sedersi e ragionareinsieme tra ebrei, cattolici, valdesi e musul-

mani è tutt’altro che scontata: a Torino èuna cosa normale – ha sottolineato l’on.Giorgis – ma ciò è stato reso possibilegrazie ad un lungo lavoro. Anche l’i-mam Izzeddin Elzir (che oltre ad essereil presidente dell’UCOII è anche l’imamdi Firenze) ha sottolineato i rapporti piùche cordiali con la comunità ebraica fio-rentina, e la sua amicizia personale conil rabbino capo Joseph Levi, ma ha ri-cordato anche come questo rapporto co-sì intenso non sia stato scontato fin dal-l’inizio: se oggi per lui è normale entra-re nella sinagoga, così come per RavLevi è normale far visita alla moschea,ed entrambi sono ben accolti – ha detto– una quindicina di anni fa queste visiteavrebbero suscitato un certo scalpore. Ineffetti non si può negare che ancora og-gi questo dialogo sia visto da qualcunocon una certa diffidenza, come dimo-stra, a mio parere, anche la scarsissimapresenza di esponenti della Comunità

ebraica.Vale la pena di ricordare che l’imam Izzed-din Elzir è nato a Hebron; un dato che in ap-parenza potrebbe apparire come un ostacoloal dialogo (e in effetti, rispondendo a una do-manda dell’on. Giorgis dopo la fine dell’in-contro, l’imam ha ammesso che è preferibilenon parlare del conflitto israelo-palestinese,perché è meglio partire da ciò che ci unisce enon da ciò che ci divide), ma che è anche ilsegno di una vicinanza fisica e culturale cheprobabilmente ha avuto un certo peso neisuoi rapporti con il mondo ebraico fiorenti-no; una caratteristica che era già stata rileva-ta da Hulda Brawer Liberanome quando loaveva intervistato per Ha Keillah (maggio2013): Ci salutiamo. Lui arabo palestinesedi Hebron, io israeliana di Gerusalemme,due città poco distanti ma per molti aspettirappresentanti di mondi diversi. Probabil-mente potevamo parlare in ebraico – l’Imamper un anno ha frequentato l’università di

Gerusalemme, mi dice – ma parliamo in ita-liano.Certamente il discorso dell’imam IzzeddinElzir è stato non solo molto interessante maanche ampiamente condivisibile. Oltre al dia-logo interreligioso – ha esordito – è necessa-rio anche un dialogo intrareligioso, perchél’Islam italiano è tutt’altro che una cosa uni-ca (il pluralismo c’è, afferma, ma talvolta nonsi vuole vederlo). Da parte del mondo islami-co italiano – ha detto – è comunque necessa-ria un’assunzione di responsabilità, perché lalibertà senza responsabilità e regole è anar-chia: i musulmani sono cittadini italiani, de-vono riconoscersi nella nostra Costituzione erispettarla. A suo parere negli ultimi anni si èfatto molto ma non abbastanza. In particolaresi è soffermato su alcune indicazioni che l’U-COII ha dato alle singole moschee: uso del-l’italiano (che peraltro viene naturale tra per-sone che provengono da diversi Paesi, spessonon arabi; per molti musulmani, dice con unabattuta, “l’arabo è arabo”, cioè è solo la lin-gua del Corano e delle preghiere, non quelladelle conversazioni); trasparenza nella gestio-ne dei fondi; comunità democratiche; dialogocon la società civile. Più volte ha sottolineatola necessità di intese con lo stato, e si è ram-maricato che solo da poco tempo ci sia uncoordinamento per quanto riguarda l’inter-vento nelle carceri, che sarebbe molto utileper contrastare il fenomeno della radicalizza-zione; anche in altri settori, per esempio lacostruzione delle moschee, ha rilevato un cer-to ritardo da parte delle istituzioni statali.Molto interessante anche il discorso di Mau-rizio Molinari: dopo aver ringraziato, anchein arabo, per l’ospitalità (elemento forte del-la cultura islamica, che ha il suo precedentenella tenda del nostro comune padre Abra-mo, aperta sui quattro lati per accogliere tut-ti), il direttore della Stampa ha analizzato ladinamica tra immigrazione e integrazione,portando in particolare l’esempio degli StatiUniti, in cui una maggioranza ha scelto con-sapevolmente di diventare minoranza; ha poiribadito l’importanza della Costituzione, cheè un testo di principi collettivi ma che richie-de al contempo un’adesione individuale, co-me singoli e non come gruppi o comunità. Inconclusione – ha affermato – accogliere lostraniero è una libertà che lui ritiene un do-vere, così come è un dovere per chi arriva ac-cettare l’identità del Paese che lo accoglie.Nel mio intervento, dopo aver esposto breve-mente cos’è Ha Keillah e di quali temi ci sia-mo occupati nei nostri 42 anni di vita, ho ri-levato che una minoranza come la nostra,esigua numericamente ma presente in Italia

INSIEME da molti secoli, può offrire ad altre minoran-ze religiose un modello di integrazione econvivenza. Il dibattito sull'inquadramentogiuridico degli ebrei italiani, e sulle Inteseche regolano i rapporti con lo stato, a cui ilnostro giornale ha dedicato ampio spazio nelcorso degli anni, offre utili spunti di rifles-sione, in particolare per le comunità islami-che, che hanno esigenze simili alle nostre (èpossibile, per esempio, conciliare la laicitàdello stato con la possibilità di osservare pre-cetti come la circoncisione o le regole ali-mentari?) Come è scritto nella presentazione sul nostrosito, le minoranze religiose, offrendo ciascu-na il proprio punto di vista, arricchiscono ildibattito sulle varie tematiche di attualità. Inquest’ottica ho affermato la necessità di su-perare una malintesa idea di laicità che portaa guardare con diffidenza a pratiche indivi-duali che non comportano nessuna violazio-ne delle leggi dello stato e non ledono in al-cun modo la libertà altrui. Per esempio, nonriesco a capire, e tanto meno a condividere,alcune leggi introdotte negli ultimi anni inFrancia: bollare la pratica di tenere il capocoperto come “ostentazione” significa fareun processo alle intenzioni di chi magari in-tende semplicemente rispettare un precettoreligioso. Se anche ammettessimo che leggicome queste possano rendersi necessarie insituazioni specifiche e in determinati conte-sti, questo non autorizza comunque i mezzid’informazione ad interpretare in modo arbi-trario i comportamenti delle persone. Perchégiudicare le azioni non per la loro intrinsecapericolosità sociale ma sulla base di una lorosupposta intenzione recondita? Mi sembranon solo scorretto, ma anche controprodu-cente, perché la mancanza di conoscenza ecomprensione reciproca non può che favori-re la chiusura di ciascuna comunità in sestessa.Ho poi ricordato come negli ultimi anni ilnostro giornale non abbia potuto fare a menodi occuparsi della crescita preoccupante del -l’antisemitismo in Europa e dei numerosi at-tentati che hanno colpito ebrei e istituzioniebraiche. Anche in questo caso abbiamo cer-cato di presentare i fatti evitando il più pos-sibile di cadere nella trappola del noi controloro: non si può presentare l’antisemitismoin Europa come un conflitto tra ebraismo eIslam, così come non deve essere presentatacome un conflitto tra ebraismo e Islam laquestione israelo-palestinese. Da questa logi-ca, che blocca in partenza ogni possibilità didialogo, non si può che uscire sconfitti. Viceversa, incontri come quello del 29 giu-gno ci permettono di guardare al futuro conmaggiore fiducia e speranza.

Anna Segre

Il progetto “Insieme” è nato nel novembre 2016 per iniziativa della Moschea di Via Saluz-zo e della sezione “Nicola Grosa” dell’ANPI, raccogliendo da subito l’adesione del Conci-storo Valdese di Torino, della Comunità Ebraica di Torino, del mondo cattolico (rappresen-tato nella fattispecie da don Fredo Olivero, ex responsabile della Pastorale migranti).Obiettivo primario di questa serie di incontri e dibattiti tra cittadini di culture diverse è quel-lo di analizzare le cause delle possibili estremizzazioni e devianze religiose, definendo i ri-schi di radicalizzazioni quali potenziali generatrici di violenza e terrorismo. La finalità co-noscitiva rispetto al fenomeno vuole contribuire in modo tangibile sia alla prevenzione delterrorismo a partire dalla base territoriale sia all'avvio di un percorso di incontro, di cono-scenza, di comprensione reciproca tra religioni e visioni del mondo diverse, nel rispetto enella salvaguardia delle specifiche differenze.Appare molto significativo che l’iniziativa di questo progetto sia partita anche dal mondoislamico del tessuto urbano di Torino, a testimonianza di una evidente volontà di dialogo edi integrazione con la società cittadina e di un preciso intento di denuncia rispetto a ten-denze dichiarate estranee ai fondamenti dell'Islam.Il gruppo organizzatore è coordinato dall’onorevole Andrea Giorgis, coadiuvato da Raffae-le Scassellati presidente dell’ANPI della circoscrizione di San Salvario e da Valentino Ca-stellani presidente del Comitato Interfedi della Città di Torino. Dopo gli incontri alla Mo-schea di Via Saluzzo, al Centro Sociale della Comunità Ebraica, alla Parrocchia della Spe-ranza di Via Chatillon, il quarto appuntamento si è svolto il 29 giugno scorso presso la Mo-schea Taiba di Via Chivasso.

Leo Contini,Lattina di birraschiacciata, 2002

5Cracovia -Gerusalemme andata e ritornoCos’hanno in comune Cracovia e Gerusa-lemme? Questo è il grande interrogativodella 2a edizione del Festiwal Kultury Ży-dowskiej (Festival di Cultura ebraica) diCracovia, che si è tenuto dal 24 Giugno al 2Luglio e che quest’anno – in onore del cin-quantesimo dalla Guerra dei Sei Giorni – hascelto proprio Gerusalemme come temaprincipale.A prima vista l’antica città polacca, con isuoi tetti appuntiti e un’anima smaccata-mente esteuropea, non sembra avere nienteda condividere con Gerusalemme. È moltodifficile guardare al rapporto tra Polonia emondo ebraico senza usare le lenti dellaShoah, ma questo rende impossibile rende-re la complessità di un rapporto sviluppatoin secoli di presenza ebraica in Polonia. Illegame tra Cracovia e Gerusalemme, mal-grado le apparenze e le distanze, è infatti diuna connessione pro fonda, un cordone om-belicale ancora non del tutto reciso che col-lega l’antico cuore della diaspora alla terrapromessa. Una nota leggenda chassidicanarrava come gli ebrei, in fuga dalla Repub-blica Ceca e Germania del l’XI-XII secolo,avessero letto proprio “Polin”, Polonia, in-ciso sugli alberi e da questo fosse nata la de-cisione di stabilirsi qui. Un’altra leggendaraffigurava la Polonia come direttamentecollegata con Gerusalemme per vie miste-riose: quando il Messia sarebbe arrivato, gliebrei polacchi sarebbero stati i primi ad es-sere trasportati a Zion e assistere alla reden-zione. L’aura di sacralità che circonda laPolonia in queste leggende, che sembranoquasi voler costruire una “nuova terra pro-messa” localizzata nella diaspora, tradiscele profonde difficoltà di dare un senso allapropria identità ebraica lontano dalla terrad’Israele, una riflessione che non ha maiperso attualità. La scelta degli organizzatori è stata di evita-re qualunque implicazione politica riguardola Guerra dei Sei Giorni, e dunque celebrareGerusalemme per lo spazio unico che occupanel cuore dell’ebraismo senza addentrarsi inambiti estranei allo scopo di un festival cul-turale.Delle installazioni chiamate Taxi-Link hannopermesso ai visitatori di percorrere il centrodi Gerusalemme senza lasciare Cracovia, unviaggio virtuale che per il pubblico – compo-sto in larga parte di non ebrei – rappresenta-va un’occasione unica per conoscere la capi-tale d’Israele dal punto di vista ebraico. Tourguidati condurranno i visitatori all’interno diKazimierz, il quartiere ebraico di Cracovia,con una particolare attenzione ai tentativi diricordare Gerusalemme dentro il quartierepolacco, nella sua progettazione e nel suo pa-trimonio artistico. Una delle peculiarità del festival di Cracoviala presenza non solo di un pubblico ma anchedi un team in larga parte di non ebrei. Il fe-stival vuole proporsi come un tentativo (sen-za dubbio tra i più riusciti) di una riscopertadell’antico pluralismo culturale, etnico e reli-gioso della Polonia andato perduto con la se-conda guerra mondiale. Questa nostalgia, pa-radossalmente, non è rivolta al passato, e atestimoniarlo è lo spazio lasciato alla valo-rizzazione della lingua yiddish: alcune lezio-ni erano proprio in yiddish ed una stanza eradestinata per permettere ai partecipanti di fa-re conversazione solo nella lingua degli ebreiashkenaziti. Una lingua che, come l’ebrai-smo in Polonia, appariva destinata inevitabil-mente a scomparire, ma che forse ha ancoraqualcosa da dire.

Maria Savigni

A 50 anni dalla Guerra dei Sei Giorni e dal-l’occupazione di Cisgiordania, Golan e Ga-za, diverse iniziative sono avvenute sotto labandiera della Campagna internazionale SI-SO [Save Israel Stop the Occupation, ndr] inGran Bretagna. I promotori principali dellacampagna internazionale nel Regno Unitosono Yachad e il New Israel Fund UK. Fra le iniziative per 50 anni d’occupazione, cisono stati un concerto ‘alternativo’ di YomHatzmaut, il giorno in cui si celebra l’indipen-denza d’Israele, con ospite Rona Kenan, can-tautrice ed attivista LGBT israeliana, nota frale altre cose per essere finita nella ‘lista nera’del gruppo di estrema destra ‘Im Tirzu’.Un’altra iniziativa importante ha visto unaquarantina circa di giovani ebrei riunirsi nellospazio comunitario ‘Moishe House’ per discu-tere sul significato dei 50 anni d’occupazioneper la comunità ebraica. Questa iniziativa èstata animata da Eli Gaventa ed Emily ‘Em’Hilton, due giovani dal profilo radicalmentediverso: Eli Gaventa è un fotografo ebreo or-todosso che lavora per la sinagoga del quar-tiere di Muswell Hill, a Londra; ‘Em’ Hilton èuna giovane ebrea australiana residente nelRegno Unito e cresciuta in seno al movimen-to Reform. Entrambi sono stati premiati di re-cente dal Jewish News come giovani promes-se della comunità ebraica. Eli Gaventa fa par-te del New Israel Fund, mentre Em Hilton èun membro dell’esecutivo di Yachad UK. Du-rante l’iniziativa, il primo ha tenuto una lezio-ne sulla definizione talmudica di responsabi-lità collettiva; dal canto suo, ‘Em’ ha parlatodel suo lavoro con diverse organizzazioni pa-cifiste in Gran Bretagna e in Israele. Dato il ruolo che Yachad e New Israel FundUK hanno finora avuto nell’ampliare il dibat-tito su Israele e Palestina nella comunità ebrai-ca britannica, bisogna descrivere in breve dicosa si occupano le due organizzazioni. Laprima è nata nel 2011; in maniera simile all’a-mericana JStreet, Yachad si descrive come‘Pro - Israele’ e ‘Pro-Pace’; l’obiettivo dell’or-ganizzazione è quello di dare voce ai sosteni-tori di una soluzione a due stati al conflittoisraelo-palestinese all’interno della comunitàebraica. Il New Israel Fund UK non è altro chela filiale britannica dell’omonima organizza-zione filantropica internazionale fondata nel1979. Essa opera in Israele e nella diasporaebraica organizzando onerose raccolte fondiper la società civile israeliana. Le organizza-zioni sostenute dal New Israel Fund operanosu fronti diversi, da quello del pluralismo reli-gioso (come Women of the Wall) a quello del-l’occupazione (come Breaking the Silence).Il lavoro di queste organizzazioni sembrerebberispecchiare l’orientamento politico della mag-gior parte della comunità ebraica nel RegnoUnito. Ciò sarebbe quanto dimostrano due son-daggi, uno del 2010 condotto dall’Institute ofJewish Policy Research, l’altro da IPSOS Morinel 2015: entrambi i sondaggi confermano che

la maggior parte degli ebrei britannici rimanecritica verso le politiche di Israele nei confrontidei palestinesi. Circa il 75% infatti sarebbe con-trario all’espansione di insediamenti ebraici inCisgiordania. Il 58%, come rilevato dal secondosondaggio, sarebbe scettico sul futuro democra-tico di Israele se l’occupazione dovesse conti-nuare. Allo stesso tempo, oltre l’80% degli ebreibritannici riconosce ad Israele un ruolo impor-tante come stato ebraico e democratico. Circa il92% ritiene che Israele giochi un ruolo fonda-mentale nella loro identità ebraica. Di conseguenza, il dibattito sul conflitto israelo-palestinese nella comunità è meno conflittualeadesso rispetto a qualche anno fa. Basti pensareche quest’anno l’organizzazione comunitariaprincipale, il ‘Board of Deputies of BritishJews’, ha ospitato a maggio la ONG israelo-pa-lestinese ‘Parents’ circle’, che riunisce parenti divittime israeliane e palestinesi nel conflitto.Nonostante ciò, l’accusa frequente rivolta dal-la dirigenza del Board of Deputies verso orga-nizzazioni quali Yachad e New Israel FundUK è di ‘rappresentare una minoranza estre-mista’. Ad esempio, dopo il voto del consigliodi Sicurezza dell’ONU sulla risoluzione 2334lo scorso dicembre, la posizione favorevole diYachad è stata pubblicamente condannata dalpresidente del Board of Deputies JonathanArkush. Tale risoluzione invita la comunitàinternazionale a differenziare Israele dai Terri-tori da esso occupati e rinnova l’impegno del-l’ONU verso il processo di pace. Allo stessotempo, le posizioni del presidente del Boardof Deputies Arkush quest’anno sono spessostate criticate da buona parte della comunitàebraica. In particolare, il tempestivo comuni-cato congratulatorio nei confronti di Trumpsubito dopo la vittoria ottenuta nelle scorseelezioni presidenziali americane; più recente-mente, ha fatto discutere un suo articolo nellastampa ebraica dopo gli attentati di Manche-ster e Londra, che invita la comunità musul-mana britannica a dissociarsi perentoriamentedal terrorismo islamico. Queste posizioni farebbero trasparire una di-vergenza politica fra la dirigenza comunitariae le organizzazioni ebraiche progressiste, manon necessariamente esse sono indicative del-l’orientamento generale comunitario. Questonon significa che le organizzazioni progressi-ste non abbiano sfide dinanzi a loro: esatta-mente come rivelano per la comunità ebraicaamericana statistiche quali quella condotta dalPew Research Centre nel 2016, il divario po-litico più ampio è rappresentato dalla divisio-ne fra ebrei religiosi e laici. In questo casospecifico, si intendono gli ebrei di orienta-mento ortodosso rispetto non solo ai laici, maanche alle denominazioni ‘Reform’ e ‘Masor-ti’ (Conservative). Ciò indicherebbe il bisognoda parte di queste organizzazioni di avvicina-re ebrei provenienti dal mondo ortodosso perallargare la base del proprio consenso.

Giacomo Paoloni

SISO IN GRAN BRETAGNA

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Sul cartellone:La violenzaè il nostro futuro?

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mura della Città Vecchia ma non certo nellacittà nuova, dentro la Linea Verde – i confinidi Israele fino al 1967, quelli internazional-mente riconosciuti (almeno, stando a GoogleMaps, cioè, al punto in cui Google Maps in-fila il segnaposto quando gli viene chiesto“monte Sion”) – ma quasi sul confine, e for-se in parte in quella che prima del ‘67 era ter-ra di nessuno. Ci sono tante parti di Gerusalemme più si-gnificative di questa collinetta. Ci sono laGerusalemme israeliana e quella araba, quel-la ebraica, quella cristiana e quella musulma-na. Tante Gerusalemme che a volte neppuresi percepiscono a vicenda, se non come unfastidioso ostacolo. E non si può certo direche esista una sola Gerusalemme ebraica oisraeliana: c’è la Gerusalemme laica e c’èquella religiosa, c’è la Gerusalemme politica(parlamento, governo, presidenza della re-pubblica, corte suprema), quella della memo-ria (Yad Vashem), quella universitaria, la col-lina con le tombe di Herzl, di Golda Meir edi Rabin; e c’è anche una Gerusalemme ita-liana. È vero che si potrebbe dire lo stesso diqualunque città, da Torino a Parigi, da Lon-dra a New York, per non parlare di Roma(che per di più ha la caratteristica di essereuna capitale divisa tra due stati – come Nico-sia e come Gerusalemme secondo il dirittointernazionale ma non secondo la leggeisraeliana). Ma Gerusalemme resta comun-que un incredibile e affascinante miscugliodi contraddizioni. Come il Monte Sion e co-me il sionismo.E se il significato simbolico di Sion stesseproprio nel “tutto qui”? Non che la collinetta abbia molto in comunecon il sionismo, ed è un caso che si sia ritro-vata a rappresentare un movimento politico;ma forse almeno in parte il “tutto qui?” èproprio ciò che riassume meglio l’essenzadel sionismo: movimento troppo religioso

avvenne l’Ultima Cena, un monastero e unayeshivà – per dare il nome a un movimentopolitico che ha cambiato in modo così radi-cale la storia del popolo ebraico? D’accordo,Sion è ampiamente nominata nel Tanakh:“Poiché da Sion uscirà la Torah e la paroladel Signore da Gerusalemme” dice Isaia; eanche il già menzionato salmo 137 inizia rac-contandoci che “Sui fiumi di Babilonia, làsedemmo e piangemmo, e ricordammoSion”. Senza dubbio ci sono centinaia di ot-time ragioni storiche che spiegano la predile-zione biblica per questa collinetta un po’anonima (anche se, per la verità, non è detto

che le fonti bi-bliche quandoparlano di Sionintendano ilMonte Sion dioggi). Devo co-munque con-fessare cheogni volta chemi sono trovatasul monte Sionnon sono mairiuscita a sfug-gire alla sin-drome del “Macome? Tuttoqui?” Tanto piùche, diciamo-celo, non è cheil Re David siasempre statoesattamenteuno stinco disanto. Una collinettaun po’ ambi-gua, fuori dalle

per i laici e troppo laico per i religiosi, nonutopistico, non appassionante, fondato sucompromessi che scontentano un po’ tutti enon entusiasmano nessuno ma sono gli unicia funzionare nella pratica. Sionismo significacredere in uno stato ebraico e democraticoanche quando appare difficile conciliare idue termini, in una storia fatta di piccoli pas-si e piccole conquiste, nella consapevolezzache non esistono soluzioni semplici né indo-lori.La mia definizione di sionismo richiamaquella che Michael Walzer in Esodo e rivolu-zione chiama la politica dell’Esodo, quellafatta di piccoli passi, di un cammino difficol-toso verso una terra promessa che sarà un po’meglio dell’Egitto ma richiederà comunqueimpegno e fatica. Alla politica dell’EsodoWalzer contrappone la politica del Messia,quella che vuole tutto e subito senza media-zioni, e osserva come (almeno nei primi annidi vita dello Stato di Israele) le metafore le-gate all’Esodo ricorressero maggiormentenei discorsi della sinistra mentre nei discorsidella destra erano più frequenti i riferimential Messia. Tutto ciò può suonare strano inItalia (e in generale nella diaspora) dove laparola “sionismo” è largamente percepita co-me sinonimo di nazionalismo di destra. Manon dobbiamo dimenticare che nelle ultimeelezioni israeliane “campo sionista” era ilnome della lista di centro-sinistra.Non dimentichiamo Gerusalemme, non di-mentichiamo nessuna delle sue mille anime enon dimentichiamo Sion che simbolicamen-te le riassume tutte e le rappresenta nella lo-ro molteplicità e contraddittorietà. E se nondimentichiamo Sion non dimentichiamoneanche il sionismo, per non dover scopriretra non troppo tempo che è stato soppiantatodal moriahismo o da qualcosa del genere.

Anna Segre

(segue da pag. 1) Gerusalemme e Sion

tando di essere soggetti alla sovranità palesti-nese, senza la protezione dell’esercito e d’al-tra parte che gli israeliani accettino l’ingressoancorché graduale di rifugiati palestinesi sulterritorio di Israele 2.Insomma, l’interrogativo preminente per lapossibilità dei “due stati” riguarda i coloni eil loro atteggiamento. Gli assertori più coe-renti dei due stati, dagli accordi di Ginevradel 2003 alle trattative fra Olmert e Abu Ma-zen fino alla mediazione appassionata diKerry del 2014, insistono sul fatto che circametà dei 120 insediamenti sono piccoli e re-moti (in totale circa 30.000 abitanti), in altri50 risiedono circa 100.000 coloni. Restano15 insediamenti, detti, nel linguaggio degliaddetti ai lavori “settlement blocs”, in untriangolo compreso fra Modiin Illit a nord diGerusalemme, Maale Adumim a est e GushEtzion a sud, dove risiedono oltre 400.000israeliani (l’80 per cento di coloro che vivo-no oltre la Linea verde pre-67). La superficiedi questi occupa circa il 4 % della Cisgiorda-nia e uno scambio paritario in cui Israele ce-derebbe suoi territori vicini alla striscia diGaza o nel sud vicino al Mar Morto consen-tirebbe di incorporare quell’80% e di eva-cuare gli altri 130.000 con il favore di ade-guati indennizzi economici. Una posizione affine è avanzata da Com-manders for Israel’s security – un’associazio-ne di ex generali dell’esercito, Mossad e Sha-bak – che ci ha esposto in un incontro MichelMaayan, ex alto dirigente del Mossad 3. Ri-conoscendo che un accordo di pace non è og-gi possibile per la debolezza e le divisioni inseno al mondo palestinese, il settarismoideologico di Hamas, la frantumazione deglistati nel Medio Oriente, essi ritengono chesia necessaria una fase transitoria che garan-tisca la sicurezza di Israele e consenta l’af-fermarsi nel tempo di un clima di fiducia cheprepari un accordo di pace. L’annessione frail 3 e il 4% della Cisgiordania con scambio di

Due stati, ancora possibile?

Un sabato sera a Tel Aviv incontriamo A.B.Yehoshua, sempre arguto, bonariamente po-lemico e irriverente. Ci ripete quanto giàespresso in recenti interviste: la presenza dicirca 600.000 israeliani fra Gerusalemme este la Cisgiordania, la stessa topografia degliinsediamenti così intrecciata con le localitàpalestinesi, gli ostacoli enormi allo sgombe-ro delle colonie, il timore di una quasi “guer-ra civile” che scuota e sconvolga Israele ren-dono molto difficile la spartizione della terracontesa come voluto dal paradigma “a duestati” che domina la scena politica dagli anni’80 e soprattutto dagli anni ’90 con gli ac-cordi di Oslo. Come soluzione forse transito-ria occorre alleviare le condizioni di oppres-sione dei circa 100.000 palestinesi abitantinella Area C – circa il 60 % della Cisgiorda-nia, sotto il controllo pieno di Israele – e dei300.000 residenti arabi di Gerusalemme estaccordando loro diritti di cittadinanza. Altri sostengono che, pur nel rispetto del prin-cipio di “due stati sovrani per due popoli” lun-go i confini pre-67, il paradigma, dominantenegli ultimi 20-30 anni, della separazione fraisraeliani e palestinesi contraddice geografiadei luoghi e demografia – che vedono le duepopolazioni frammiste sullo stesso territorio –nonché il legame affettivo-spirituale di ambe-due i popoli con la terra. Propongono quindidi passare a un modello “confederale” in cuiisraeliani e palestinesi, pur rispettivamentecittadini dei loro stati ed elettori dei propriParlamenti, godano di libertà di movimento edi residenza in un’unica “patria” comune. Èun’ipotesi seduttiva, stretta fra il realismo deifatti sul campo che spingono verso un esitodel genere e l’utopia del ritenere che i colonisiano disposti ad alterare drasticamente il lorostile di vita, aprendo le loro comunità, accet-

territori, il ritiro dell’esercito e lo sgomberodei circa 130.000 coloni saranno rinviati almomento in cui si giungerà a quell’ accordo.Nel frattempo Israele dovrebbe accettarel’offerta di pace della Lega araba e la con-vergenza di interessi con il mondo sunnitacontro l’espansionismo dell’Iran e la minac-cia dell’ISIS; dichiarare di non nutrire prete-se territoriali ad est della barriera, interrom-pere ogni attività di costruzione nelle coloniein quell’area e soprattutto consentire lo svi-luppo di attività edilizia ed economica nel-l’area C della Cisgiordania così vitale per ipalestinesi che vi abitano.

I palestinesi

A Ramallah negli uffici dell’OLP incontriamoNabil Shaat, uno dei principali negoziatori diCamp David, Taba, Annapolis, e MuhammadAl-Madani, capo del comitato per i rapporticon la società israeliana. Si discute dei modiin cui l’ANP possa influire sull’opinionepubblica in Israele, in particolare di quei va-sti segmenti della stessa rassegnati all’inelut-tabilità del conflitto, scettici circa la possibi-lità di una ripresa della trattativa o convinti,come la retorica della destra agita da sempre,che non vi sia tra i palestinesi un “partner”negoziale. Afferma Shaat: un assetto a “duestati” in pace e buon vicinato è vitale per ilfuturo della Palestina ma anche di Israele, mavi è fra gli israeliani una corrente annessioni-sta via via più forte che trae alimento dall’i-deologia nazional-religiosa che rifiuta ilprincipio della spartizione. D’altra parte son-daggi recenti 4 mostrano che soltanto il 44%dei palestinesi sostiene una soluzione a “duestati”, mentre ben il 36 mira ad uno stato uni-co con pari diritti per i suoi cittadini. Il 71%non ritiene che vi sarà uno stato di Palestinasovrano entro i prossimi cinque anni. I pale-stinesi intervistati, disillusi dai fallimenti

(segue da pag. 1) Jcall...

Il centro storico di Gerusalemme, il Monte del Tempio e il Monte Sion

7cordo che preveda la nascita di uno stato pale-stinese smilitarizzato, il ritiro di Israele suiconfini pre-67 con scambio di territori, il ri-torno in Israele di circa 100.000 profughi pa-lestinesi in virtù della riunificazione delle fa-miglie, Gerusalemme capitale dei due staticon il Muro del pianto e il quartiere ebraicosotto giurisdizione israeliana, il Monte delTempio e i quartieri cristiano e musulmanosotto quella palestinese, sarebbe approvatoappena dal 41 % degli ebrei israeliani, dall’88degli arabi israeliani e dal 42 dei palestinesi. Su questi incerti strati d’opinione tendono adorientare la loro azione nuovi movimenti dibase, che nascono dalla società civile, ma fa-ticano per ora a tradursi in azione politica:fra questi, Darkenu – volontari che agisconoquasi “porta a porta” nelle periferie del pae-se, fra gli elettori di destra, gli strati più mar-ginali della società che non intravvedono illegame fra la loro povertà, le disuguaglianzeacute nel paese e il costo dell’occupazione –e “Women wage peace” – un movimento didonne nato appena l’anno scorso e che haportato migliaia di donne, ebree ed arabe, amarciare per giorni nell’ottobre invocando lafine del conflitto. In una visita a Sderot, lacittà scossa da anni dalla guerra di guerrigliacondotta da Hamas e ad Ofakim, una mode-sta città di sviluppo nel Negev, donne di que-sto movimento, di famiglie originarie deipaesi arabi e orientate per tradizione a votareper la destra ci danno il senso del potere tra-sformativo di siffatte azioni dal basso.Quanto alle ONG più affermate nel campodella pace, aggregate in un Foro che ne coor-dina più di 100, diretto da Yuval Rachamim,prima Direttore di Parents’Circle, sono inuna condizione difficile sotto la minaccia diuna proposta di legge di Netanyahu che vie-terebbe il finanziamento da parte di governio istituzioni internazionali. Di quelle che be-neficiano di tali fondi ben 25 su 27 sonoONG attive sul fronte della pace e della dife-sa dei diritti umani.

Azioni sul terreno

Due i momenti di grande potenza emotiva: ilprimo, l’esserci uniti ad una Marcia lungo laLinea verde – il confine armistiziale fra Israe-le e Giordania del 1949, tuttora riconosciutointernazionalmente come il confine di Israele,ma rimosso dalla pubblicistica ufficiale inIsraele (mappe, libri di testo) – organizzata daMachsom Watch, la ONG composta essen-zialmente da donne che vigila sul comporta-mento dei militari nei posti di blocco e lungoi punti di frontiera fra Israele e la Cisgiorda-nia, conclusasi con una serata di discorsi, let-ture di testi e canti ispirati alla pace a NeveShalom, la comunità arabo-ebraica fondatada Bruno Hussar; il secondo, la visita conMachsom Watch alle 5 di mattina di un gior-no qualsiasi al posto di blocco di Eyal, vicinoa Qalqilia, un luogo di ingresso di lavoratoripalestinesi diretti ai posti di lavoro in Israele.Circa 120.000 palestinesi lavorano legalmen-te in Israele, soprattutto nel settore delle co-struzioni e dei servizi; un numero incerto di“illegali” inoltre varca la barriera di separa-zione e trova un qualche lavoro occasionalenelle città di Israele. Il controllo è affidato al-la tecnologia delle impronte digitali e alla vi-gilanza di guardie private in virtù di contratticon l’esercito; dall’altra parte del confine do-po un passaggio stretto da inferriate una ma-rea immane di furgoni, pullman, auto privateattende gli operai, una vita segnata dalle 3 dimattina alle 7 di sera dalla povertà che afflig-ge i loro villaggi e dal bisogno di assicurarequalcosa alle famiglie (il reddito pro capite inCisgiordania è intorno ai 3000 euro annualicontro oltre 30.000 in Israele). Poi a Hebron, in una visita guidata da LiorAmichai, di Shalom Achshav: una città segre-gata, da una parte 200-300.000 palestinesi,dall’altra circa 700 ebrei, raccolti in alcune

strade di una zona limitata, dove si alternanocase e yeshivot, protette da garitte, inferriate esoldati di guardia. Vigilano anche e si inter-pongono in momenti di frizione osservatoriinternazionali fra cui alcuni nostri carabinieri.Una delle strade principali è ancora in parteabitata da arabi; si susseguono negozi sigilla-ti, abbandonati, spettrali, i muri coperti digraffiti e cartelli che celebrano il “possesso”ebraico di Hebron, il ritorno degli ebrei dopol’eccidio del ’29 e la riconquista del ’67.A Gerusalemme, in compagnia di un giovanedi Ir Amim 5, ci appare la complessità di unacittà, che la retorica ufficiale celebra come“capitale unita, eterna, indivisibile” di Israel,invece profondamente divisa, etnicamente esocialmente. Basta un occhio intellettualmen-te onesto, una visita a quartieri come JabelMukabber, Sur Bahar o Ras Al Amud a sud, opiù a nord Beit Hanina o Shuafat. Nella parteovest della città vivono circa 300.000 ebreiisraeliani, nella parte est 230.000 israeliani e350.000 palestinesi, con lo status di residentipermanenti. Sono cioè in larga parte natividella città, riconosciuti dopo l’annessione del’67 come residenti, ma non cittadini dello sta-to nella cui capitale essi vivono, nel perennetimore che i loro diritti siano revocati se la-sciano la città per studiare all’estero o per al-tre ragioni. Secondo le proposte di Clintonnei negoziati di Camp David del 2000 i quar-tieri “ebraici” sarebbero stati parte di Israele,quelli “arabi” parte della Palestina; un princi-pio simile si sarebbe attuato nella città vec-chia. Ma il governo di Israele è ostinatamen-te contrario alla condivisione della città, pun-to invece irrinunciabile per i palestinesi.

Giorgio Gomel

1 Vedi miei articoli su Ha Keillah (ottobre 2016 emaggio 2017)2 www.2states1homeland.org3 Materiale dettagliato sul loro piano “Security first”si trova in www.en.cis.org.il4 Polls by Tami Steinmetz Center for Peace Research,Tel Aviv University e Palestinian Center for Policyand Survey Research, Ramallah. Dicembre 20165 Ir Amim è una ONG israeliana che sostiene l’idea diuna Gerusalemme fisicamente unita e capitale condi-visa dei due stati – Israele e Palestina – con opportu-ne autonomie municipali da negoziarsi fra le parti.Nel frattempo, combatte perché siano assicurati servi-zi sociali e sanitari decenti ai quartieri arabi di Geru-salemme est separati dalla città dalla “barriera” e lostatus quo a tutela dei luoghi sacri nella città vecchiasia rigorosamente osservato (per dettagli, cfr. www.ir-amim.org.il)

dell’ANP nel negoziato con Israele, restanoscettici circa la ripresa di trattative bilateralicon Israele e optano per forme di resistenzanon violenta all’occupante unite ad un’azio-ne diplomatica volta a “internazionalizzare”il conflitto (ONU, Corte penale internaziona-le, ecc.). Secondo Shaat, per giungere a unaccordo Israele dovrebbe accettare l’offertadi pace e di normali rapporti avanzata dallaLega Araba anni fa: in un contesto regionaledi pace i palestinesi potrebbero godere di unsostegno economico soprattutto per la riabi-litazione dei rifugiati e Israele di garanzie disicurezza strategica di cui necessita in cam-bio del ritiro dai territori in un Medio Orien-te scosso dalla frantumazione degli stati.L’ANP sostiene la non-violenza, ma il per-manere dell’occupazione e delle vessazioniquotidiane che ne derivano (900.000 palesti-nesi hanno vissuto periodi di detenzione nel-le carceri d’Israele dal ’67 ad oggi) è un de-tonatore costante di violenza; Hamas, che inun suo recente documento malgrado alcuneambigue aperture esita a scegliere l’opzionedella non violenza, perderà consensi nelleeventuali elezioni qualora si giungesse ad unaccordo di pace che sarebbe condiviso da lar-ga parte dei palestinesi elettori.

L’opinione pubblica in Israele

Inchieste d’opinione che si susseguono de-scrivono un quadro complicato ma la cui let-tura è essenziale in quanto data l’enormeasimmetria di potere fra le due parti in lottaquanto accade all’interno di Israele, nella so-cietà e nella classe politica, è cruciale per lesorti del conflitto. Una minoranza di ebreiisraeliani – Alon Liel, ex Direttore del mini-stero degli Esteri e tra i promotori della cam-pagna SISO, la stima in poco più del 20 % –ritiene urgente porre fine all’occupazione edè disposta ad agire contro lo status quo e indifesa della democrazia nel paese lesa dal-l’offensiva di sapore maccartista della destracontro i media, la giustizia, l’accademia, leistituzioni culturali, le ONG. Una minoranzapiù ampia predica l’annessione dei territori ecela con ambiguità lessicale la sorte dei pale-stinesi che vi abitano: saranno annessi ancheessi ma senza diritti civili e politici, oppureespulsi, oppure spinti con lusinghe economi-che ad emigrare, ed emigrare dove? La mag-gioranza fluttuante ammette che vi sia unprezzo da pagare per la pace, ma vuole chequel prezzo sia il minimo possibile, cioè cheIsraele mantenga il controllo sul massimo diterritorio e conceda il minimo dei diritti ai pa-lestinesi che resteranno sotto occupazione.Per un complesso di ragioni – la separazioneprofonda fra le due società, la percezione pre-valente in Israele dei palestinesi come il ne-mico omicida e ingrato, che non merita fidu-cia né diritti di un popolo, la valutazione er-rata dei costi materiali ed umani del conflittoda un lato e dei dividendi della pace dall’al-tro, l’illusione che lo status quo possa esseresostenuto indefinitamente, il sentimento di in-sicurezza connesso con il ritenere che il con-flitto arabo-ebraico sia un elemento perma-nente, quasi esistenziale della condizione diIsraele – per larga parte degli israeliani il ri-schio della “pace” con i suoi benefici incerti elontani nel tempo eccede il costo della “nonpace”, di una normalità in fondo tollerabile,un’economia florida, una società vibrante, no-nostante l’irrompere ricorrente della violenzae il degrado della democrazia nel paese.Come ci ha confermato Stav Shaffir, giovaneparlamentare laburista, in un incontro allaKnesset, il 55 % degli israeliani (il 50% fra gliebrei, l’80% fra gli arabi di Israele) appoggiai “due stati”. È una quota declinante fra gli in-tervistati, ma resta solida malgrado la retoricaossessiva della destra circa la mancanza dipartner e le nequizie infinite dei palestinesi.Ma allorché si precisano i dettagli di un ac-cordo sulla base dei negoziati passati, un ac-

Leo Contini,Cantiere,acquerello

La redazionedi Ha Keillahringrazia

calorosamentei lettori checi hannosostenutocon le lorogeneroseofferte

Grazie!

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isra

ele

La mia prima volta in Israele è stata nel2006, con la mia famiglia. Era agosto e anord c’era la guerra, con i missili di Hezbol-lah che raggiungevano la Galilea fino a Hai-fa e l’inevitabile risposta israeliana, che por-tava i soldati di Tzahal a penetrare tempora-neamente nel Libano meridionale fino al fiu-me Litani. È stata anche la prima volta a Ge-rusalemme, nel dedalo di viuzze un po’ ma-gico e un po’ da emicrania della Città vec-chia. In uno dei cento negozietti di souvenirrigorosamente identici uno all’altro ho acqui-stato una piccola scacchiera per diverse cen-tinaia di shekalim: non ricordo esattamentel’ammontare del l’esborso, ma conservo inci-sa in mente l’e spressione appena vagamenteironica del beneficato venditore subito dopoaver incassato quella che – me ne sarei ac-corto successivamente parlando con personepiù esperte – era poco meno di una generosaelargizione. “Bisogna contrattare, discuteresempre: qui funziona così”, mi è stato detto,“non solo per evitare di pagare somme spro-positate, ma anche per ottenere il rispettodell’interlocutore. Non siamo in Europa,benvenuto in Medio Oriente”. Quando si èripresentata l’occasione ho provato, un po’per curiosità e un po’ per sfida, a seguire iconsigli. I risultati sono stati sbalorditivi: peresempio l’acquisto per 15 shekalim (all’epo-ca meno di 3 euro) di oggetti per cui il primoprezzo che mi era stato chiesto superava i200. Probabilmente il loro valore reale arri-vava a malapena alla metà della somma pa-gata, ma questo è un altro discorso.Perdonate il lungo prologo, ma non è mia in-tenzione compilare un prontuario del buonacquirente – o, più prosaicamente, del turistache non vuole farsi imbrogliare. Quello chevorrei dire è molto semplice e non troppooriginale: la mia impressione è che in MedioOriente spregiudicatezza, tentativo di raggi-rare il prossimo, orgoglio e senso dell’onoresproporzionato alla realtà, almeno se con-frontati ai nostri standard europei, siano prin-cipi diffusi non soltanto tra i merciai all’om-bra della Porta di Damasco, ma in tutto l’agi-re pubblico, dalla contrattazione dal salumie-re alla diplomazia tra Stati. È anche per que-sto modo di fare che le alleanze e le faide, inquella regione, possono durare generazionima anche cambiare repentinamente. Certa-mente l’autoritarismo diffuso ovunque fuor-ché in Israele e il perdurare, soprattutto neiPaesi arabi in senso stretto e in ampie zonedel Maghreb, di una struttura sociale fondatasu nuclei tribali, rendono più agevole la non-chalance diplomatica. Non credo però chequesto basti a spiegare la girandola delle al-leanze: ormai i nostri quotidiani, per racca-pezzare il lettore, sono costretti a ricorreresempre più spesso a schemi e mappe per sin-

tetizzare gli schieramenti contrapposti. I pa-ladini della crociata, poi, abituati a dividerepersone e Paesi interi in buoni e cattivi, sonoin evidente difficoltà: non resta loro che con-fidare nella memoria corta delle moltitudinivotanti. Alleati oggi, nemici implacabili domani,dunque. Della girandola di alleanze è casoevidente, ma in linea con la tendenza globa-le, la guerra in Siria. Assad, la Turchia, l’I-ran, Hezbollah, Isis, la Russia di Putin, alNusra, gli Stati Uniti, i curdi: gli attori, nel-l’arco di pochi anni, hanno spesso dovuto ag-giornare la tabella amici/nemici. Ci sonoquelli per cui è un’abitudine cambiare sodaliall’occorrenza, come la Turchia di Erdogan ola Russia di Putin, e che non si fanno proble-mi a gettare qualche migliaio di morti – è ilcaso di dirlo – sul tavolo di nuove alleanze, oa sacrificare diritti e democrazia sull’altaredell’onore, del rispetto internazionale, deldecisionismo eletto a sistema e di altri stru-menti di deterrenza. E non c’è davvero biso-gno di scomodare i gruppi terroristici, i lorosostenitori e finanziatori diretti, come l’Iran,o chi come Assad ha fatto del massacro unapratica quotidiana. Rimangono i Paesi democratici, quelli percui l’opinione pubblica è un meccanismo dibilanciamento e confronto. In Medio Orientenon sono molti, in realtà. Anzi ce n’è uno so-lo, e sappiamo tutti benissimo quale. Mavanno considerati anche gli Stati Uniti che,pur distanti geograficamente decine di mi-gliaia di chilometri, hanno interessi, basi mi-litari e la responsabilità di essere, piaccia ono, corifei dell’Occidente e dei suoi valori.Per costoro non è facile muoversi nei desertidell’Arabia e del Sahara, stretti come sonotra le sacrosante remore ad adeguarsi allepratiche non proprio di bisturi degli altri pro-tagonisti regionali e la necessità di non per-dere la faccia, in un contesto in cui il rispet-to e l’onore contano eccome. Quando Obamaha scelto di non intervenire in Siria dopo ilsuperamento della linea rossa da lui stessoposta, la perdita di immagine degli Stati Uni-ti è stata colossale. Si trattava d’altra parte diuna situazione lose-lose, in cui l’allora Presi-dente a stelle e strisce avrebbe comunqueperso, doveva solo decidere che cosa. Il suosuccessore alla Casa bianca è apparentemen-te molto più spregiudicato, più mediorienta-le direi, nonostante il pallore wasp. L’im-pressione è che in una circostanza analogasceglierebbe di salvare onore e rispetto, an-che a costo di gettare benzina sul fuoco dellaormai almeno quarantennale guerra civilearabo-islamica. Trump non è un intellettualecome Obama, e portare avanti la bandiera delmondo libero non sembra proprio una suapriorità, così come farsi garante di diritti odel futuro del pianeta. Divide il mondo ingood guys e bad guys, e chiede loro di azzuf-farsi quanto vogliono a patto di lasciarlo insanta pace. Nel primo gruppo piazza l’Ara-bia Saudita, nel secondo l’Iran. Quello cheannichilisce della proposta politica di Trumpè l’utilizzo di una strumentazione ipersem-plificata da applicare a una realtà che non hadi colpo, come per magia, risolto le proprieasprezze e difficoltà. Non credo che Obamanon abbia preso decisioni discutibili e fattoerrori, ma certamente il livello di comples-sità del modo con cui la sua amministrazioneha cercato di risolvere i problemi era moltosuperiore. Però c’è un però. Se il modello diTrump ha qualche chance di produrre risulta-ti, sospetto che possa farlo proprio in MedioOriente, anche se ovviamente non è detto chei risultati siano positivi. La domanda è seconsiderare la linea di Trump rozza e bastaoppure rozza e pragmatica. Credo che i de-spoti arabi comprendano la logica amico/nemico molto bene, mentre interpretano i

BAZAR MEDIO-ORIENTE

dubbi, i ripensamenti e i distinguo in stileObama come segni di debolezza. Compren-dono la logica tribale amico/nemico, chiaracome una condanna senza appello ma in cuii rapporti potrebbero rovesciarsi con il muta-re degli interessi in un domani non lontano.Comprendono questa logica perché è anchela loro.E Israele? Che cosa dire del minuscolo Statoebraico, l’unico democratico della regionean che se non senza problemi di ogni genere,inclusi recenti e veementi tentativi, da partedel l’attuale governo, di lanciarsi all’armabianca alla conquista dei territori dell’ammi-nistrazione dello Stato, della giustizia, deimedia? In estrema sintesi direi che Israele ri-sente da una parte dell’origine dei suoi fon-datori, che erano intellettuali europei anchequando rinunciavano agli studi per imbrac-ciare la vanga e, per sopravvivere, il fucile.Dall’altra, però, Israele oggi è molto cambia-ta, e la massiccia immigrazione degli ebrei infuga dai Paesi islamici, di poco successivaallo sterminio di due terzi degli ebrei euro-pei, ha trasformato la società e di conseguen-za anche la politica. Oggi Israele è un Paesepiù mediorientale e meno europeo di quantofosse 60 anni fa, e poco importa se i centricommerciali e i fast food hanno sostituito lemense comuni dei kibbutzim: di McDonaldsce ne sono anche nelle capitali arabe, se è perquesto. Chi governa senza sostanziale oppo-sizione la politica e la diplomazia israelianada molti anni, Benjamin Netanyahu, somi-glia sempre più ai leader dei Paesi circostan-ti. Con le debite distinzioni, perché Israele èancora, e mi auguro rimanga, una democra-zia e uno Stato di diritto, con tutti i problemidelle democrazie, dall’Atene di Pericle agliStati Uniti nel Novecento. Eppure se penso aNetanyahu penso anche a spregiudicatezza,propaganda interna e populismo con unaspolverata di razzismo quando serve (ricor-date le grida a fermare il “voto arabo” duran-te le ultime elezioni politiche?), assalto allaCorte Suprema e all’indipendenza della ma-gistratura, tentativo di controllo sui media,volontà di imporre con l’azione il rispetto de-gli altri attori della scena internazionale, de-cisionismo e accumulo sulla propria personadi incarichi e ministeri, capacità di costruireil vuoto politico intorno a sé, emarginandogli astri nascenti del suo stesso partito, vitti-mismo e complesso di Masada, sforzo di su-scitare l’orgoglio nazionalista, accuse di altotradimento rivolte a chi non è d’accordo, di-plomazia sfrontata più attenta a guadagnarequalche punto che a difendere il sistema deidiritti e delle libertà e una buona dose di fac-cia tosta. Mi chiedo se quel venditore di pac-cottiglia di Gerusalemme che ha cercato diraggirarmi fosse davvero un anonimo piazzi-sta. O non fosse, piuttosto, il Primo ministrodello Stato di Israele.

Giorgio Berruto

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Martedì, 9 maggio 2017, notiziario principa-le sul primo canale. Gheula Even, conduttri-ce ufficiale, scoppia a piangere in diretta.Circa un’ora prima dell’inizio della diretta èstato diffuso un comunicato ufficiale in baseal quale, quello in programma sarebbe statol’ultimo notiziario presentato nel contestodell’attività del canale pubblico.Questo notiziario così drammatico ed emo-zionante ha segnato la fine delle attività del-la “Rashut ha-tzibur” (Autorità pubblica perle comunicazioni) dello Stato d’Israele e l’i-nizio di un nuovo network: “Kan”.La Rashut ha-tzibur è stata l’autorità re-sponsabile del funzionamento del primo e dialtri canali in televisione, alla radio e su in-ternet. Fino agli anni ’90 del secolo scorso,quest’autorità è stata l’unica a gestire un ca-nale televisivo e di gran lunga l’organo prin-cipale nel settore dei canali radio. La popo-larità in questo periodo era al suo massimoed il canale televisivo operava in regime dimonopolio, praticamente senza competizio-ne. Il finanziamento di questo canale avve-niva attraverso un canone pagato da tutte lecase in cui c’era un televisore, da program-mi a pagamento e da fondi provenienti dalloStato.Da quel periodo, sono stati introdotti moltialtri canali e la Rashut si è trovata ad opera-re come un canale tra i tanti, in forte compe-tizione con i canali commerciali. L’audiencedel canale è diminuita in modo evidente so-prattutto rispetto ai risultati ottenuti da tuttigli altri canali commerciali.Nel corso degli anni, si è registrata una di-minuzione preoccupante nel livello e nell’at-tività della Rashut ha-tzibur. I diversi con-sulenti e commissioni statali che hanno ana-lizzato la situazione hanno stabilito che eracausata dall’alto numero di dipendenti, dalleelevate retribuzioni, dalla rigidità dei con-tratti di lavoro e dalla legge che rendevacomplicato dirigere l’Autorità con profes-sionalità. Nel 2007 il governo ha varato un progetto al-ternativo volto al cambiamento della Rashut.Il progetto ha portato al pensionamento di700 dipendenti, ma i cambiamenti necessarierano ancora lontani da venire. La discussio-ne sulla qualità dell’Autorità, la sua utilità edefficienza finanziaria è continuata. Tra i principali sostenitori del processo c’erail ministro degli interni (ex ministro per lecomunicazioni) Ghilad Erdan, membro delpartito del primo ministro (Likud); questiaveva proposto la cancellazione dell’Auto-rità per le comunicazioni e la creazione diuna nuova azienda pubblica [Taaghid, ndt].Il primo ministro ha appoggiato pubblica-mente questa posizione ed in un paio di oc-casioni, si è anche espresso contro l’Autoritàper le comunicazioni. Durante la propagandaelettorale delle ultime elezioni del 2015, inun video ha persino paragonato i dipendentidell’Autorità ai terroristi di Hamas. In segui-to alle critiche, il primo ministro si è dovutoscusare spiegando che non era sua intenzio-ne. Ma oramai il danno era fatto. Quando la nuova azienda incominciava aprendere forma, Netanyahu ha iniziato a te-mere di non avere sufficiente controllo dellastessa Taaghid e dei suoi contenuti. Secondo

il suo punto di vista era composta da troppidipendenti critici nei confronti suoi e del suogoverno. Per questo motivo ha iniziato ad at-taccarla in ogni contesto possibile ed a di-chiarare che non c’era alcun bisogno di essa. Tutta la discussione intorno alla chiusuradella Rashut ha-tzibur avrebbe potuto essereun soggetto di una serie televisiva drammati-ca piena di politica, istinti e storie personalitoccanti. Né il programma nucleare iraniano,né il terrorismo palestinese né questioni eco-nomiche fondamentali hanno occupato il si-stema politico israeliano come questa vicen-da. Giochi di potere e di ego, controllo poli-tico sui media, scontro sui valori democrati-ci, accuse di razzismo e discriminazione emolto altro ancora hanno accompagnato lachiusura della Rashut e la costituzione dellanuova Taaghid. I contrari alla chiusura della Rashut ha-tzibursostenevano il bisogno di avere un canalepubblico in grado di dar voce a tutte le com-ponenti della società, di risparmiare soldipubblici ed essere sotto il controllo del go-verno che avrebbe dovuto fungere da garan-te. “A cosa serve un’azienda se noi non lacontrolliamo? Noi mettiamo i soldi e loro fa-ranno i programmi come vogliono?”. Questadichiarazione è stata fatta dal Ministro perl’Istruzione in persona, Miri Regev, nel lu-glio 2016, durante la seduta del Consiglio deiministri che ha posticipato l’inizio della atti-vità della Taaghid.Nel corso della medesima riunione burrasco-sa, il ministro degli Interni, Ariè Deri, ha di-chiarato: “Io sono il presidente del partito deicharedim [ultraortodossi, ndr] sefarditi erappresento gli abitanti delle periferie. Que-sta popolazione si sente come un corpo estra-neo rispetto alla comunicazione… Il pubbli-co che io rappresento non è parte in alcunmodo della comunicazione israeliana: ne èstaccato del tutto”.Al contrario, i sostenitori della formazionedella Taaghid hanno continuato a ribadirel’importanza di una comunicazione indipen-dente, che rappresenti tutta la società e liberadal controllo del governo. “Una comunica-zione libera è la base portante fondamentaledi una democrazia sana. Nello stesso modoin cui il partito Kulanu ha protetto lo statusdei tribunali ed ha frenato l’emanazione dileggi che avrebbero potuto danneggiare lademocrazia, anche in questo caso, ci assicu-reremo che lo status della nuova aziendapubblica sia forte ed indipendente. Propongoa tutti i politici, di smettere di intromettersinella gestione dei media e concentrarsi sulbene pubblico sociale che è lo scopo per cuisono stati eletti”. Questa la dichiarazione deldeputato Roy Folkman, presidente di Kula-nu, il partito del Ministro del Tesoro MoshèKahlon, che ha molto spinto per la creazionedella Taaghid.Ad un certo punto, dopo diversi tentativi diannullarla e quando il primo ministro avevacapito che il treno era ormai uscito dalla sta-zione, ha cercato di limitare i danni in ognimodo. Ha persino minacciato di indire ele-zioni anticipate ed alla luce della storia delloStato di Israele non era certo impensabile chesi potesse arrivare ad elezioni per un tema si-mile. Per esempio, molti commentatori poli-tici sostengono che l’anticipazione delle ele-zioni nel 2013 da parte dello stesso Ne-tanyahu era dovuta alla volontà di bloccare lalegge “Israel haYom”. Israel haYom è il quo-tidiano gratuito più diffuso in Israele e c’èchi lo chiama “bibiton” [da iton, giornale,ndt]. Questo quotidiano è sotto il controllodel miliardario americano Sheldon Hadel-son, buon amico e sostenitore del primo mi-nistro da diversi anni. Fin dal primo giornodella sua pubblicazione, sostiene in modoacritico e senza dubbio alcuno la linea di Bi-

CANALE 1, 1965-2017 bi. Quando la Knesset ha cercato di limitareil potere di questo giornale ed i danni causa-ti al mercato dei quotidiani in Israele, lo Sta-to di Israele, proprio per decisione di Bibi, èandato ad elezioni anticipate. Infatti la leggeè decaduta. Dopo un periodo di forti turbolenze nel siste-ma politico, alla fine di marzo 2017, il primoministro ed il ministro del Tesorohanno raggiunto un compromesso,che prevedeva la chiusura della Ra-shut ha-tzibur come programmatocon la contestuale costituzione diun nuovo network per le notizie el’attualità diviso e distinto dall’a-zienda per le comunicazioni pubbli-ca “Kan”. Il consiglio della Taaghid ha espo-sto la sua totale contrarietà a questocompromesso. Questa manovra hafatto sì che fino a quando non saràfondata la nuova società di notizie,la direzione della Rashut ha-tzibur,considerata vicina a Netanyahu, ri-marrà in carica. Il timore della Taa-ghid è che questo accordo momen-taneo diventi definitivo nel tempo. Inoltre, secondo questo nuovo ac-cordo, una parte dei dipendenti del-la Rashut ha-tzibur sarà assunta alposto dei dipendenti della Taaghid,molti dei quali saranno licenziati. Il capo della coalizione di governo,il deputato David Biton, in seguitoal nuovo accordo, ha dichiarato che“la sezione attualità della nuovaazienda sarà composta per la mag-gior parte da dipendenti della Ra-shut ha-tzibur. Vi sono molte voci che sostengonoche a riorganizzazione terminata, lanuova società per le notizie conti-nuerà ad esser sotto pressione ed in-fluenza del mondo politico; in que-sto modo, nonostante la creazionedel nuovo network, l’obbiettivoprincipale – l’allontanamento dellapolitica dal mondo delle comunica-zioni – non è stato raggiunto.La direzione della Taaghid ha ri-sposto che si oppone totalmente al-l’accordo tra il primo ministro ed ilministro del Tesoro. Il significato diquesto accordo è la costituzione diun soggetto “sdoppiato” che nonpuò unire variabili in modo efficaceed economicamente vantaggiosocome programmato e l’unico risultato saràdi sprecare inutilmente fondi pubblici. Noiinvitiamo tutti i soggetti, i consulenti legalidel Governo e la magistratura ad interveniree proteggere l’interesse pubblico e i dirittidei lavoratori.Il 15 maggio 2017 i giudici del Bada”tz[Corte Suprema, ndr] hanno emesso una sen-tenza che almeno per un mese, impedisce losdoppiamento dell’azienda in due soggetti,obbligando lo Stato a rispondere entro unmese. Lo Stato dovrà spiegare come, pursdoppiando l’azienda, non verranno danneg-giati la libertà di parola del pubblico, i dirittidei lavoratori, i diritti dei giornalisti ed in ge-nerale, la democrazia.Il significato pratico, al momento, è che finoa quando tutta la questione non verrà trattatadella Corte Suprema e non ci sarà una sen-tenza, qualunque essa sia, la programmazio-ne delle notizie continuerà ad essere una se-zione della Taaghid e non diventerà una so-cietà separata, come invece desidera il primoministro.Adesso, quindi, non rimane altro che aspetta-re la sentenza del Bada”tz e constatare comefinirà questa vicenda che, negli ultimi tempi,tanto turba ed agita il sistema politico e so-ciale israeliano.

Osnat Leon-Safrai e Nadav Munk(traduzione di Edoardo Segre)

Vignetta di Davì

Leo Contini, Forme,anascultura

Abbiamo sempre pensato che la forza di Israele sia nella sua democrazia,nella vitalità e libertà del suo dibattito politico inter-no. Per questo due mesi fa sono rimasta un po’ per-plessa nel leggere che Netanyahu aveva cancellatoun incontro previsto con il ministro degli esteri te-desco Sigmar Gabriel perché quest’ultimo inten-

deva incontrare anche gli esponenti di dueONG israeliane, Breaking the  si-

lence (in ebraico ShovrimShtika) e B’tselem. Una

presa di posizione chesarebbe stata logicase si fosse trattato diorganizzazioni ter-roriste, o che nega-vano il diritto al l’e -sisten za dello Statodi Israele, ma qui sitrattava di israelia-

ni, ex militari, per-sone che hanno ri-

schiato la propria vitaper difendere Israele.

Uno stato circondato da nemici non può permettersi critiche troppo du-re al proprio governo? A parte il fatto che se le permette felicementeda 69 anni, è anche opportuno ricordare che certamente Netanyahunon pensava nulla del genere quando era all’opposizione: tutti noi loabbiamo visto nei filmati di ventidue anni fa arringare una folla chegridava “Morte a Rabin!” Perché denunciare violazioni dei diritti uma-ni da parte del proprio Paese è considerato un tradimento tale da nonessere reputati degni neppure di incontrare un esponente politico stra-niero, mentre invocare a gran voce l’assassinio del proprio primo mi-nistro (assassinio poi puntualmente realizzato, tanto per chiarire chenon si trattava di esagerazioni retoriche) è considerata una normale eaccettabile espressione di dissenso politico? Va bene, si sa che i politici dicono cose diverse quando sono all’oppo-sizione e quando sono al governo. Purtroppo, però, questa diffidenzaverso le critiche sembra influenzare anche la diaspora (tant’è che que-sto articoletto non era nato originariamente per Ha Keillah, ma è statogiudicato troppo divisivo per trovar spazio sui media ebraici istituzio-nali). Ma se anche nelle nostre Comunità si potesse dare spazio soloalle organizzazioni favorevoli al governo israeliano in carica, cosa sidovrebbe fare quando cambia il governo? Negare l’accesso agli uniper darlo esclusivamente agli altri?

Anna Segre

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isra

ele

gione, siamo la villa in mezzo la jungla”. L’i-sraeliano medio procede, programmando le va-canze estive e leggendo il quotidiano distribuitogratis “Israel ha-yom”….

ConfessioneFin da bambino mi sono appassionato alla sto-ria, sfogliando i volumi della Treccani paterna,leggendo gli articoli e ammirando le illustra-zioni. Arrivando all’Università, non ho avutodubbi per quale facoltà scegliere: Lettere mo-derne, indirizzo storico. L’appeal per le news eper la politica derivano da questa passione. Avolte mi deprimono i paragoni e le previsioniche mi abbattono in prospettive pessimistiche.“Ecco il prezzo della mia infarinatura storio-grafica”. Una confessione autocritica: invidiocugini carissimi, storici di professione, per nonessermi accodato a loro, per pigrizia di chi nonsi è sentito di analizzare in archivi e bibliote-che documenti e testi, limitandosi al godimen-to intellettuale di “utente” direi passivo…

TefillàI miei ricordi di infanzia in una storica Co-munità duramente provata dalla Shoah sononelle sporadiche frequentazioni alle funzioninel “Tempio”, dove l’officiante quasi sempreil Rabbino, recitava le orazioni in una linguaper me incomprensibile. Ho conosciuto la Tefillà in Erez Israel, ingran parte per merito di mio cugino ShaulPaolo Bassi z.l. nel suo Kibbuz Sdeh-Eliahu. Ho appreso il significato delle paro-le del Siddur di pari passo allo studio dellalingua “sul terreno” e poi in un Ulpan. Da al-lora la Tefillà è diventata parte integrantedella mia quotidianità. Mi preoccupo di trovare un minian per espli-care la mitzvà. Non è che capisca il significatodi tutte le parole, soprattutto nei Salmi. Per me il Siddur è il testo base per percepirela millenaria formazione della nostra ebrai-cità, per modo di dire la cartina di tornasoledella nostra consapevole e ininterrotta te-shuvà.

Reuven Ravenna

BarcamenarsiSeguendo al quotidiano le vicende del mondo e,in primis, quelle israeliane,sono, mio malgrado,afferrato da un sentimento di inquietudine, di in-certezza come mai provato nel passato. Mi èquasi impossibile di analizzare le situazioni conpacatezza, per non parlare con “obiettività”, intempi di fake news… Nel fronte interno, il KingBibi appare inamovibile, senza possibili succes-sori, nonostante l’antipatia suscitata dai media ele paventate incriminazioni “en attendand Go-dot”… La realtà è che il premier rispecchia isentimenti di molti, forse dei più. Le trattativeper una soluzione del conflitto israelo-palestine-se sono più che mai in un’impasse letargica.“Israele è pronta a sedersi al tavolino, ma nonabbiamo un partner dall’altra parte”, “Trattativesenza condizioni preliminari” e intanto si conti-nua a costruire nei “territori”, pardon “in GiudeaSamaria e in Gerusalemme est”, che compren-de ventidue villaggi. “Il Medio Oriente è infiamme, e noi, unica reale democrazia della re-

BLOCKNOTES

posto alla striscia di Gaza. Tale politica nonsolo viola il diritto internazionale ma è in al-cune circostanze in contrasto con la stessalegge israeliana. L’occupazione genera vio-lenza e impone un prezzo elevato alla vitadegli israeliani. Se essa continuerà ciò ren-derà impossibile la soluzione “a due stati” epregiudicherà il futuro di Israele come statoebraico e democratico, così importante perIsraele e per l’ebraismo mondiale.Per 50 anni le famiglie israeliane hanno invia-to i loro figli soldati a proteggere insediamen-ti che non assicurano né sicurezza né pace.Le chiediamo, Sig. Ambasciatore, un incon-tro con una nostra delegazione al fine di di-scutere di quali passi Israele nel cinquantesi-mo anno dall'inizio dell'occupazione intendaassumere per porre fine all’espansione degliinsediamenti che rendono quell’occupazionevia via più permanente e per avanzare versouna soluzione negoziata del conflitto affinchéisraeliani e palestinesi possano vivere fiancoa fianco in pace nei loro due Stati sovrani.

Seguono circa 70 firme

Jcall Italia www.jcall.eu

Per adesioni, scrivere [email protected]

Ebrei di più paesi della Diaspora, aderentialla campagna promossa da SISO, hanno de-ciso di esprimere collettivamente il loro dis-senso rispetto alla condotta del governo diIsraele, attraverso petizioni rivolte alle Am-basciate di Israele nel mondo.Alleghiamo la lettera indirizzata all’Amba-sciata di Israele a Roma

S.E. Ofer SachsAmbasciatore di Israele in ItaliaRoma

Noi, ebrei italiani, profondamente legati allostato di Israele e alle ragioni della sua esi-stenza sicura, siamo preoccupati per il per-manere dell'occupazione di territori densa-mente abitati da palestinesi, un’occupazioneche è nociva sia al popolo palestinese che al-lo stesso Israele. Abbiamo risposto con favo-re all’Appello agli ebrei del mondo – SalvaIsraele, ferma l’occupazione – promosso dapiù di 500 israeliani, figure eminenti nelmondo intellettuale, accademico e imprendi-toriale, ex membri della Knesset e dei gover-ni di Israele. Le chiediamo di esprimere al governo d’I-sraele la nostra forte preoccupazione circa lacontinua occupazione della Cisgiordania, l'e-spansione degli insediamenti e il blocco im-

LETTERA ALL’AMBASCIATORE

DUE PESI, DUE MISURE, ZERO CRITICHE

Visitate il Sito dei Siti

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Oltre 400 siti commentati e aggiornati su23 argomenti ebraici, da An tisemitismo aYiddish, un mare di informazioni e di linkulteriori.

Leo Contini,Ferrara, città biciclica

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un ingrediente indispensabile di un qualsiasifuturo accordo di pace, accanto alla riduzionedella conflittualità e alla rimozione di gran par-te degli insediamenti. Non è chiaro come im-postarlo efficamente, questo processo di ricon-ciliazione. Non ci sono modelli particolarmen-te calzanti. Si fa spesso riferimento alla Com-missione per la Verità e la Riconciliazione, cheha operato con discreto successo in Sud Africa,ma proprio per sottolineare le forti differenzefra i due contesti. Secondo le recenti dichiara-zioni dell’ex Primo Ministro Ehud Barak, la di-namica israelo-palestinese è sulla “scivolosastrada” verso l’apartheid, ma potrebbe non arri-varci, ed approdare invece ad una situazione diguerra civile. Allegra alternativa. Ed in SudAfrica le vittime vere e proprie sono state qua-si esclusivamente di una parte, quelle dell’altraerano sostanzialmente solo potenziali vittimefuture di perdita d’identità e di beni materiali. Èpossibile istradare un processo di riconciliazio-ne in un contesto più bilanciato sul piano dellesofferenze e delle recriminazioni, e che seguaun processo di equipartizione piuttosto che diribaltamento del potere politico?È questa domanda che ci può spingere a rico-struire la storia dei signori ridenti della primafotografia. Quello più giovane e più compostoè Martin McGuinness, ex comandante del -l’Esercito Repubblicano Irlandese, ed in segui-to politico del Sinn Féin, negoziatore capo peri cattolici degli accordi del Venerdì Santo chehanno posto fine al conflitto con i protestanti,ed infine vice Primo Ministro dell’Irlanda delNord. L’altro è il Reverendo Ian Paisley, pasto-

Le convulsioni generate dall’incauta decisionedi indire elezioni anticipate, da parte del Pre-mier britannico Theresa May, passeranno prestoin secondo piano rispetto alla questione piùpreoccupante del futuro della Gran Bretagnadopo Brexit. Un’immagine però mi è rimastaimpressa, solo indirettamente collegata all’esitodelle elezioni. Ritrae due signori piuttosto an-ziani che ridono beati, stretti spalla a spalla, i ve-stiti e le cravatte molto simili (una col nodo stor-to, l’altra increspata nell’esplodere della risata)quasi a suggerire, se non una parentela, una lun-ga consuetudine. L’immagine di un’amicizia dicui è difficile scorgere invece la benché minimatraccia nella fotografia qui sotto, che ritrae ilPremier israeliano Netanyahu col Presidentedell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas.

La sostanziale mancanza di simpatia, ed evi-dentemente di empatia, fra i due leader neces-sariamente riflette quella, reciproca, di buonaparte della popolazione in Israele e in Palestina.Da politici consumati, e sensibili agli umori so-prattutto di quelle componenti da cui ritengonodipenda la propria sopravvivenza, ben sannoquanto possa essere pericoloso essere sorpresia sorridere col nemico. E non potrebbero ba-stare i sorrisi e nemmeno le risate a sciacquarvia la narrativa dei palestinesi terroristi e la nar-rativa degli israeliani predatori ed oppressori;due narrative che si basano sulle esperienzeconcretamente vissute da tre generazioni, e cheperdureranno per almeno altrettante.D’altra parte, una forma strutturata di riconci-liazione emotiva fra i due popoli sembra essere

AMICONI

A sinistra: Ian Paisley e

Martin McGuinness.Qui sotto:

Mahmoud Abbas e Bibi Netanyahu

re evangelico dall’età di ven t’anni, fiero predi-catore contro il cattolicesimo, l’ecumenismo el’omosessualità, fondatore della Libera ChiesaPresbiteriana del l’Ulster nel 1951 e del PartitoDemocratico Unionista (DUP) nel 1971, dopol’inizio dei “Troubles”, come sono stati eufe-misticamente chiamati i trent’anni di violenzein Irlanda del Nord. Violenze cui Paisley ha al-meno moralmente contribuito sia come orga-nizzatore di movimenti paramilitari fra i prote-stanti, sia come principale volto pubblico del-l’intransigenza unionista. E invece dopo l’ini-ziale rifiuto da parte del DUP degli accordi delVenerdì Santo, coi successivi accordi di St An-drews Paisley ed il suo partito accettano dicondividere il potere con i cattolici, e diventaPrimo Ministro, con McGuinness come suo vi-ce. Col quale sviluppa una tale affinità, nono-stante i 24 anni di differenza e la passata mili-tanza su sponde ferocemente contrapposte, daguadagnarsi insieme il soprannome di Chuck-le Brothers, dal nome d’arte di una coppia dicomici inglesi, ma traducibile come i “fratelliridanciani”. Per un certo periodo è stato comese in quella fratellanza ridanciana fra gli ex-ne-mici si fossero dissolte ostilità un tempo pen-sate come insanabili. Adesso la situazione èmeno rosea. Al momento di scrivere queste no-te, l’Irlanda del Nord non ha ancora un gover-no, ed il DUP è tornato su posizioni così retri-ve da mettere in forte imbarazzo gli stessi Con-servatori, che dopo le elezioni andate malehanno bisogno dell’appoggio esterno del DUPper il governo della Gran Bretagna. Paisley eMcGuinness sono morti. Ma come avrannofatto a fare tanta amicizia? Da approfondire.

Alessandro TrevesTrieste e Tel Aviv

Disturbare la pace?Il documentario Disturbing the peace del regi-sta americano Stephen Apkon, presentato per laprima volta al Jerusalem Film festival, proietta-to almeno in un’occasione lungo il muro di se-parazione fra Gerusalemme e Betlemme, è unaproduzione militante. Illustra principi, finalità,attività di Combatants for Peace (www.cfpea-ce.org), una ONG israelo-palestinese fondatanel 2006 che riunisce ex militari israeliani ed exguerriglieri palestinesi, reduci da lunghi perio-di di detenzione carceraria, il cui motivo ispira-tore sta nel potere trasformativo della non vio-lenza, del riconoscimento dell’umanità del “ne-mico” e di un percorso comune di educazionealla riconciliazione e alla pace (termine ormaiin disuso nel lessico di quella piccola e contesaparte del mondo). Il film, denso, doloroso, atratti straziante documenta le biografie, l’itine-rario psicologico e politico che ha condottoqueste persone, dai due campi opposti di unconflitto che contrappone da oltre un secolo idue popoli in un’orgia di reciproche brutalità,ad affermare un principio di ripudio della vio-lenza in un contesto socio-culturale e familiarespesso nutrito di odio, di pulsione alla vendet-ta, di rifiuto dell’altro. Un contesto che li isolaed esclude, incolpandoli di utopismo romanti-

co, di cedimento alle lusinghe ingannevoli del-la pace, persino di tradimento degli ideali patrii.I lutti e le sofferenze della propria gente ottun-dono fra gli israeliani la sensibilità alle soffe-renze degli altri; impediscono la comprensionee compassione per i palestinesi, per i diritti ne-gati di un popolo, visto come un tutt’uno, unnemico irriducibile e minaccioso. Fra i palesti-nesi agisce un meccanismo opposto e simile:gli israeliani sono racchiusi nell’immagine ste-reotipata del soldato occupante, che invade lecase di notte, che aggredisce, arresta, uccide. Il titolo del film può apparire oscuro, enigma-tico, ma è fortemente rivelatore. “Disturbare lapace”, nel senso di rompere quel velo di indif-ferenza, di rassegnazione al perdurare del con-flitto come fosse qualcosa di ineluttabile, qua-si fosse impossibile mutare lo status quo egiungere a un accordo di pace che consenta aIsraele, con il ritiro dai territori, un futuro distato democratico, la cui esistenza legittima siariconosciuta entro confini sicuri, e ai palestine-si di conseguire l’indipendenza, in uno statosovrano degno di questo nome, in rapporti dibuon vicinato con Israele.Concludo con le parole di David Grossman,insignito di un premio a Pistoia nell’ambito dei“Dialoghi sull’uomo”.“Il dialogo è la vera esperienza dell’altro da te.Ed è quello che cerco di fare … è uno sforzo

quotidiano tentare di infiltrarmi sia nel mododi pensare israeliano che in quello palestinese.Nel farlo non posso non vedere che non stan-no sullo stesso piano: noi siamo gli occupanti,loro gli occupati, noi abbiamo risorse e pote-re, loro no. Ma so che non potrà mai essercidialogo se prima non accetto di immedesimar-mi in loro … Cosa vuol dire a un posto diblocco essere umiliato davanti a tuo figlio cheti credeva Superman? ... L’immedesimazionefa paura, crea anticorpi al l’odio. Pochi giornifa eravamo invitati a Tel Aviv al Memorialdelle vittime [la Cerimonia congiunta del Ri-cordo delle vittime copromossa da alcuni an-ni da Combatants for Peace e Parents’Circle,n.d.r.]. Lo reputo da sem pre un momento im-portantissimo. Ebbene il governo israelianoper la prima volta in dodici anni ha negato ipermessi necessari, con il risultato che la ceri-monia si è svolta senza i palestinesi. Di cosa siha follemente timore per agire così? Sempli-ce: si teme che il dolore altrui non ti appaiacome il dolore di un nemico, bensì così comeè: perfettamente identico al tuo”.

Giorgio Gomel

Stephen Apkon, Disturbing the peace,2016

12 PERDERE OCCASIONIzioni di Nasser. Ma, appunto, su basi di prin-cipio (il principio per cui prima di passareagli spari è meglio rifletterci... e poi non far-ne nulla) non mi sembra che si possa sgrava-re il governo di coalizione israeliano di que-sto carico. Ed è per questo (qui è il primo ap-punto) che mi sembra trovi giustificazione ilprincipio dell’imposizione all’aggressore (dasottolineare) l’obbligo di restituire, nella sededella composizione diplomatica del conflitto,tutti i territori eventualmente conquistati nel-la guerra. Questo (sano) principio mi sembrasia stato rigorosamente applicato nel caso inquestione, perché Israele ha restituito all’E-gitto fino all’ultimo chilometro quadrato delSinai (e più tardi, per la seconda volta, Gaza).Ma la situazione nel caso del fronte giordanoè completamente diversa. I “territori”, la fa-mosa Cisgiordania, Yerushalaim est e la valledel Giordano sono state conquistate in unaguerra voluta sciaguratamente da Hussein(che, immagino, si sia poi pentito per tutto ilresto della sua vita di tale scelta). Israele nonha sparato le prime cannonate su quel fronte!Il principio della restituzione integrale, tantevolte invocato dagli arabi nella sede dell’O-NU e ovunque è stato possibile, lo è stato inbase a leggi “ad personam” (o meglio “con-tra” Israel) con pochissimi precedenti come sipuò verificare in cento casi di conflitti di quelsecolo sciagurato.Chi si è azzardato a pretendere la restituzio-

ne della Venezia Giulia all’Italia, della Slesiaalla Germania o della Manciuria al Giappo-ne? L’opinione (condivisa a quanto pare an-che da personaggi come Ben Gurion) che sa-rebbe stato molto meglio che Israele i territo-ri li avesse restituiti non cambia nulla sullainsussistenza giuridica del principio invocatoper imporre la restituzione. Vengo ora al secondo punto.Dato il pervicace atteggiamento arabo duratodecenni di rifiuto totale di ogni trattativa con“l’entità sionista” (i no di Kartum; Israele perdecenni nella pubblicistica ufficiale arabanon meritava la qualifica di stato, della quale– ma guarda un po’ – si fregia l’Isis), è bencomprensibile che i governi di Israele primadi sgombrare i territori occupati ci pensasse-ro sopra due volte... e poi non ne facesseronulla. Si è rivelato uno sbaglio; ma compren-sibile. Niente più paese largo in certi puntisolo 15 Km! Ma è a questo punto che i go-verni di Israele (in primis la destra; ma ancheil centro sinistra ha gravi colpe) si sono di-mostrati incapaci (tragicamente, colpevol-mente incapaci) di preparare la strada a unasoluzione del conflitto. Nuove provocazioni,nuove aggressioni, nuove angosce da accer-chiamento, potevano essere sventate daun’occupazione militare. L’esercito è semprestato la miglior guardia e (come si è dimo-strato ben due volte nel Libano) in pochi gior-ni si mobilita nelle basi occupate e (soprattut-to) in una notte si sgombra senza colpo ferire.La colonizzazione dei territori, in qualunquemisura, doveva apparire subito nella suarealtà: una scelta miope, ingiusta, costosa etalora crudele; e, per Israele, un tragica trap-pola. A ben vedere essa può essere addiritturavista come uno stravolgimento nefasto dellebasi stesse del sionismo; almeno quelle dellasua ala storicamente maggioritaria.Vengo ora all’ultima nota. Da tempo, almenonelle file della sinistra sionista democratica,è invalso l’uso di personalizzare, in modo amio giudizio eccessivo, le responsabilità deivari dirigenti politici nello stato (purtroppofallimentare) del processo di pace. Ora a mesembra che, seppure è giusto valorizzare l’o-pera di Rabin e deprecare l’orribile e sciagu-rato suo assassinio, non mi sembra che lo siaaltrettanto il dimenticare il contributo di Shi-mon Peres, che probabilmente era tra i trevincitori del Nobel il più fiducioso nella pos-sibilità di un accordo e che, peraltro, è statoil più pervicacemente rifiutato come interlo-cutore da parte araba (vedi ondata terroristi-ca che investì il suo governo). E ancora,quando da parte di qualcuno si invoca l’as-sassinio di Rabin come segno dell’inaffidabi-lità di Israele come partner di un processo dipace, sarebbe bene ricordare che sul frontearabo ben tre dirigenti che avevano mostratoqualche intenzione di trattare con Israele(Abdallah emiro di Giordania, Shishakli diSiria e Gemaliel in Libano) sono stati elimi-nati per via violenta e la stessa sorte è tocca-ta Sadat. E oggi ci troviamo in una empasserovinosa e di poche speranze. A volte si hal’impressione che la amara battuta di AbbaEban sui palestinesi che “non perdono occa-sione di perdere occasioni” valga tuttora; macon il vizio che si è rivelato contagioso.

Marco Maestro

20 giugno

Cara Direttrice, ho trovato molto sensato che Ha Kehillah ab-bia dedicato largo spazio e cura a analisi, ri-cordi e riflessioni alla guerra del ’67 che, ineffetti, sembra rivelarsi sempre di più comepunto storico di svolta in tutta la vicenda delconflitto arabo-ebraico in Medio Oriente. Delresto, tutta la stampa si è mostrata sensibile esollecita. In Ha Kehillah ho trovato partico-larmente stimolanti i contributi di Sergio Del-la Pergola e di Israel De Benedetti. E, per laverità, non mi ha stupito per nulla di averlitrovati tali. In questa nota vorrei solo segna-lare pochi punti sui quali mi è parso che la ri-flessione non sia così diffusa. Il primo riguar-da la responsabilità dello scoppio della guer-ra. Questo fatto nei casi più frequenti di ana-lisi storica di conflitti cruenti (aperti, comeoramai sembra in uso, senza dichiarazioneformale) va sotto il titolo di “individuazionedell’aggressore”. Il caso in questione meritapiù attenzione di quello che mi sembra sia ap-parso nelle rievocazioni attuali. Per quanto ione so, nel caso specifico mi sembra assodatoche il colpo della “pistola fumante” control’Egitto sia stato sparato da Israele e questodato di fatto si è rivelato importante per l’esi-to della guerra. La chiusura degli Stretti di Ti-ran era una plateale violazione degli accordiarmistiziali, e l’atteggiamento violento e ag-gressivo del governo e della stampa egizianasembravano lasciare pochi dubbi sulle inten-

lette

re

Ugo Caffaz e l’Orfanotrofio

di via Lombroso 13(fotomontaggio

di Davì)

magino nella villa di Santa Margherita in col-lina, dove ancora negli anni successivi veni-vano organizzate le vacanze estive. Vi do-manderete come mai tanta emozione negati-va. Io devo molto, tutto a quel collegio. Ri-masto orfano di madre a soli dieci anni, fuiaccompagnato a Torino da mio padre perchéfossi seguito negli studi. L’Orfanotrofio fu lamia salvezza. Ho completato le scuole medieebraiche (Preside allora Amalia Segre ved.Artom, così si firmava) per passare poi al Li-ceo Alfieri, poco distante da lì e ho seguitoper diversi anni la Scuola Rabbinica direttada Rav. Disegni zl. Ho poi iniziato l’univer-sità che ho concluso a Firenze. Ma come medecine e decine di ragazze e ragazzi, ospitiper vari motivi di quella struttura, hanno tro-vato una strada da percorrere per le loro gio-vani vite. Usando le parole di Primo Levi, i“salvati” furono sicuramente molto più nu-merosi dei “sommersi”. I meriti di tutto que-sto vanno attribuiti sicuramente alla Comu-nità ebraica di Torino, ma in particolare, perquanto mi riguarda, a Laura Vita (personameravigliosa alla quale ho dedicato qualcheanno fa un ricordo proprio su Ha Keillah) eanche al Direttore e a sua moglie, Avraham eRaia Shokatovitz, che ho rivisto con grandepiacere pochi mesi fa in Israele insieme a seivecchi compagni di Collegio, appunto salva-ti. Noi, “Quelli del Collegio”, come ci chia-mavano, eravamo fondamentali per fare mi-nian al Tempio, ma anche per riempire leclassi della Scuola ebraica prima citata. Cisentivamo importanti, nelle nostre divisescozzesi. Sembrerà strano ma per me, invec-chiando, sono ricordi straordinari. Ecco per-ché quel cartello con la scritta “Vendesi” mi èapparso come una ferita lacerante, quasi unabestemmia. Immagino che la Comunità se nesia disfatta per motivi economici. Voglio spe-rare che ormai non ci siano più ragazzi in dif-ficoltà da aiutare. Ma mi sarebbe piaciuto, lodico con un po’ di fantasia, che nel tempoquelle mura fossero destinate ad attività co-munque benefiche e/o a scopo culturale. Scu-sate lo sfogo, ma vi ricordo tutti con affetto.

Ugo Caffaz

Cari amici,da cinquant’anni, in forma quasi rituale, fac-cio una sorta di pellegrinaggio biennale a To-rino dove ho vissuto nove anni, dai dodici aiventuno, dei quali sei in collegio, detto a vol-te orfanotrofio, ma più precisamente Educa-torio Israelitico Enrichetta Sacerdote, via Ce-sare Lombroso, 13. Ed è proprio qui che ri-torno ogni volta. Finché era visitabile, ancor-ché adibito ad altri usi, chiedevo anche, gen-tilmente, di poter entrare per soffermarmi nel-le varie stanze (camerate, sala pranzo, Tem-pietto, ecc.) per qualche minuto. Ho portatolà, di volta in volta, familiari ed amici i qualimi hanno sempre bonariamente preso in giro,ma con affetto. Un mese fa sono tornato co-me al solito in quel luogo (per me “sacro”) edho avuto un’amara sorpresa: un “dissacrante”cartello diceva che era in corso una trasfor-mazione in appartamenti da vendere. Natural-mente l’antica intitolazione era sparita. Capi-sco che è ridicolo, ma mi è preso un tuffo alcuore. Accanto c’è ancora (penso per poco) latarga del Museo diffuso torinese con la qualesi ricorda l’escamotage con il quale la diret-trice Carmi salvò i ragazzi del tempo di guer-ra dalla deportazione, fingendo una gita, im-

L’ORFANOTROFIOFU LA MIA SALVEZZA

Errata corrigeL’articolo di Israel De Benedetti pubblicatosul numero scorso di Ha Keillah terminava:“In questo rigurgito di neofascismo nelmondo, non ci resta che sperare che primao poi l’elettorato nostro si renda conto deipericoli cui si va incontro. E speriamo chequesto accada più tardi che mai.” Ovvia-mente si tratta di un refuso, che abbiamocorretto nell’edizione di Ha Keillah on linee di cui ci scusiamo con l’autore: si intende,naturalmente, il più presto possibile.

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Clava mi si aprì un mondo. Studiai geografiasul testo di Monti Sturani, la storia sul testo del-lo Spini, lessi l’Iliade e l’Odissea nella tradu-zione di Ettore Romagnoli, tutti autori innova-tori della scuola italiana. In seconda media sitraducevano già il De bello gallico e il De bel-lo civili, nei quali lei ci faceva apprezzare lo sti-le piano, giornalistico di Cesare. E in terza me-dia ci avvicinò alle Metamorfosi di Ovidio fa-cendocene gustare la fantasia. Ma soprattutto,in anni in cui ancora si stentava a parlare di Re-sistenza, lei ci introdusse agli ideali antifascisti.Ci faceva ascoltare “le lettere dei condannati amorte della Resistenza” incise nella lettura digrandi attori in dischi a 33 giri. Tornata allaManzoni in veste di insegnante, ritrovai in undeposito polveroso quei preziosi dischi presso-ché intonsi. Probabilmente la prof. Clava li ave-va fatti comprare alla scuola e poi li aveva usa-ti solo lei. Quando commentava quelle lettere cisottolineava giustamente che la Resistenza erastata un fenomeno europeo e non solo di unanazione o due. Ma in quante aule italiane si fa-cevano (e ahimè si fanno oggi) queste lezioni?Ci testimoniava che le grandi città del nord era-no già tutte libere quando vi entrarono gli allea-ti, sottolineando così il valore dell’ azione parti-giana che spesso allora era negata. In terza me-dia leggemmo il diario di Anna Frank, appenaedito: scoprimmo una realtà quasi sconosciuta.

Emilia Clava non raccontò mai in classe di sé,dei suoi anni terribili dopo il 1938. Lo fece conme, dopo, quando non più sua allieva andavonella sua casa di via Bidone 26. Allora scopriiche dopo il ’38 aveva insegnato alla scuolaebraica dove ebbe allievi mai più tornati dai la-ger, scoprii che si era salvata dalle persecuzio-ni, nascosta in un convento (ma quale? non melo disse). E in quel convento una suora che le siera affezionata si disse dispiaciuta che non si sa-rebbero incontrate nell’altra vita in paradiso.Allora Emilia le rispose: “perché lei non ha in-tenzione di andare in paradiso?” Alla fine dellaterza media la Clava lasciò a ciascuno dei suoiallievi, precorrendo le successive riforme dellascuola, un giudizio sulla personalità e sulle in-clinazioni dimostrate. Possiedo ancora quelgiudizio nel quale mi sono riconosciuta in tuttala mia vita. Andai spesso a trovare la professo-ressa nella sua casa dove trascorse una serenavecchiaia con la sorella. Si dilettava anche dimaglia e alla nascita di mia figlia sferruzzò unpaio di scarpine, ma quando rimase sola, de-clinò in fretta e fu ricoverata nella casa di ripo-so della Comunità. Andai a trovarla anche lì:era lucida, ma stanca di vedere le storture delmondo. Spirò al Mauriziano dove era stata ri-coverata e lì la salutai per l’ultima volta. Non ri-cordo che anno fosse, ma ricordo il vuoto av-vertito. Grazie, Cara Emilia, di tutto ciò che mihai dato e come a me a tanti allievi.

Franca Barberis

Alla soglia dei settant’anni mi capita spesso divolgere lo sguardo indietro a persone e luoghidel passato per trattenere lembi della vita chevolge al termine. Una di queste persone, che oc-cupa un posto di rilievo nella mia formazione èla professoressa Emilia Clava. La vidi per laprima volta nella commissione d’ esame perl’ammissione alla prima media in un’aula dellascuola Manzoni di via Giacosa, nel lontano1958. Arrivavo dalla scuola elementare Pellicodove avevo appena superato l’esame di quintaelementare. Allora gli allievi che intendevanocontinuare gli studi erano tenuti ad affrontareun’ulteriore prova alla scuola media. Era il pri-mo esame impegnativo di tanti che si sarebberosucceduti e infatti la mia maestra si diede mol-to da fare per prepararci in modo esauriente. Latremarella era tanta e la prof. Clava incarnavatutta la serietà degli studi che andavo ad inizia-re. Piccolina di statura, guardava dal basso inalto molti dei suoi allievi giunti in terza media,ma bastava il suo sguardo severo lanciato attra-verso gli occhialini tondi per farci tacere. Era lostesso sguardo con cui ci zittivano i nostri padria casa. Esigente negli studi, ci diede davvero unmetodo che ci accompagnò negli anni. Eppureattraverso la disciplina ci passò grandi insegna-menti di libertà. Io provenivo da una scuola ele-mentare in cui imperava ancora la retorica deglianni appena trascorsi e con la professoressa

RICORDO DI EMILIA CLAVA

talità” in America. Sembrano fatti avvenuti nel-la notte dei tempi, ma chiedete a un afro-ame-ricano preso a caso – anziché al duo Serra/Ser-racchiani – cosa pensa della propria condizioneattuale rispetto a quella dei bianchi, specie inrelazione ai tanti ragazzi di colore che recente-mente solo in base a vaghi sospetti sono statiuccisi a colpi di pistola da poliziotti bianchi. Faccetta nera, bell’abissina, aspetta e sperache già l’ora si avvicina… La canzone, rimasta famosa, nei versi succes-sivi dichiara che gli Italiani con la guerra d’A-frica intendevano portare laggiù la libertà e laciviltà, ma c’è un ma, il solito maledettissimoma, legato al significato rimasto ancora incer-to del termine “ospite”. Tanto per chiarire lecose, “gli italiani” non erano solo Mussolini oCiano, erano molti dei nostri nonni, i nostricari nonnini, che riempivano piazza Veneziaper inneggiare al Duce, al Re e all’“impresa”,quell’impresa che costò anche a loro lacrimee sangue, e per la quale ancora oggi paghiamoun’accisa sulla benzina; lo sapevate?L’atteggiamento degli italiani relativamentealle donne abissine, almeno fino al momentodella conquista dell’Etiopia, era in linea conla “porno-tropics tradition” (McClintock,1995). Alla donna nera veniva riconosciutacome unica identità quella sessuale. Ne deri-vava una sorta di “harem coloniale” (Alloula,1986; si veda anche Gautier, 2003) che avevala funzione di rendere desiderabile ai lavora-

tori italiani il trasferimento nelle colonie (co-pia e incolla da Wikipedia). Durante la guerrad’Africa, gli Italiani commisero a più ripresecrimini di guerra, in particolare facendo usodi gas tossici vietati dalle convenzioni inter-nazionali, e bombardando ospedali della Cro-ce Rossa, ma i loro capi, e in particolare Ba-doglio e Graziani, se la cavarono alla grande.Nel corso della repressione della guerrigliaabissina (1935-1937) nella sola cittadina diCufra, considerata “centro di raccolta di tutto ilfuoriuscitismo libico”, 17 capi senussiti furonoimpiccati, 35 indigeni evirati e lasciati moriredissanguati, 50 donne stuprate … a donne in-cinte venne squartato il ventre e i feti infilzati,giovani indigene violentate e sodomizzate (adalcune infisse candele di sego in vagina e nelretto), teste e testicoli mozzati e portati in girocome trofei; torture anche su bambini (3 im-mersi in calderoni di acqua bollente) e vecchi(ad alcuni estirpati unghie e occhi). E infine: che dire degli ebrei della Diaspora e inparticolare di quelli che da secoli vivono nel“nostro” Paese, e nei cui confronti il 44% degli(altri) italiani manifesta opinioni ostili (sono,queste, le conclusioni di una indagine parlamen-tare di qualche anno fa, ma sembrerebbe che nelfrattempo tale percentuale sia salita e tenda an-cora a crescere)? Capace che fra qualche annoscopriremo che a raggiungere nuovi record han-no contribuito i signori Serracchiani/Serra. “Mi-chele Serra? Dai, stai scherzando!”.Grazie per l’ospitalità

Federigo De Benedetti

Ai gentili componenti la Redazione di Ha Keillah

Come si sa il mese scorso la Serracchiani, aproposito di un tentativo di stupro subìto dauna minorenne a Trieste da parte di un cittadi-no iracheno richiedente asilo, rilasciò in qua-lità di Governatore della Regione autonomaFriuli-Venezia Giulia, una dichiarazione uffi-ciale: “La violenza sessuale è un atto odioso eschifoso sempre, ma risulta socialmente e mo-ralmente ancor più inaccettabile quando ècompiuto da chi chiede e ottiene accoglienzanel nostro Paese”: tale dichiarazione è statafatta propria da migliaia di potenziali elettori,politici, giornalisti, fra i quali ultimi MicheleSerra (“Noooo! Michele Serra, stai scherzan-do?” “No, pare proprio di no”). Dunque se untentativo di stupro analogo a quello perpetratoa Trieste fosse stato fatto non da un nostroospite temporaneo, ma, dico il primo nomeche mi viene in mente, dall’On. Mario Bor-ghezio (Torino, 3/12/1947), italianissimo eper di più padanissimo), la cosa sarebbe stata“più accettabile”? È solo una domanda.Secondo Il Vocabolario Treccani il termineospite ha “tutti e due i significati fondamen-tali, in quanto la parola alludeva soprattuttoai reciproci doveri dell’ospitalità”.Se le cose stanno così il problema a mio av-viso diventa squisitamente grammaticale. Gli immigrati ospiti del CARA di Isola diCapo Rizzuto, uno dei più affollati d’Italia,secondo il Procuratore della Repubblica diCatanzaro, hanno ricevuto fino a poco tempofa un trattamento di questo tipo: cibo appenasufficiente a sfamare settanta persone cheperò veniva ripartito fra cento “ospiti”; qua-lità del cibo: “da maiali”. Era giusto o no?Non vorrei prendere una decisione avventa-ta, chiederò a Serra/Serracchiani.Durante la seconda guerra mondiale – quellareclamata a gran voce da milioni di italianinelle piazze (“Volete burro o cannoni?” “Can-noni!”) – le autorità greche segnalarono stupridi massa ad opera di soldati italiani. Il co-mando tedesco in Macedonia arrivò a prote-stare con gli italiani per il ripetersi delle vio-lenze contro i civili. È storia di ieri. Ma anchequi: gli italiani erano ospiti oppure ospiti? Lo stesso quesito si può porre per i negri chenon del tutto spontaneamente ricevettero “ospi-

OSPITI

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film

Lo confesso: ero terrorizzato all’idea di vedereil film. Perché questo film è tratto da Una sto-ria di amore e di tenebra, per me indiscutibil-mente il capolavoro di Amos Oz, che non habisogno di presentazioni. Leggere le pagine diOz è per me il viatico migliore per capireIsraele, le sue origini e la sua complessità. È lastoria di una famiglia e di un Paese che nasce,ed è una straordinaria prova d’artista e un’e-sperienza emozionante per chi ha a cuoreIsraele. Il mio timore era quello che si provasolitamente in questi casi: il film sarà all’altez-za del libro? La visione corroderà irrimediabil-mente l’articolata costruzione immaginificache la lettura ha regalato?Il libro fonde la storia della famiglia Klau-

sner e quella di Israele negli anni cruciali delpassaggio dallo Yishuv allo Stato, e lo fa at-traverso i ricordi di Amos, il protagonistabambino divenuto scrittore. Nell’autobiogra-fia di Oz il flusso della memoria ha una fun-zione strutturale, perciò la narrazione non èperfettamente diacronica e anzi alcuni episo-di tornano a più riprese. Inoltre l’intrecciodelle storie è tale da rendere indispensabileuna scelta e una selezione nella scrittura del-la sceneggiatura. La scelta dell’attrice e regi-sta Natalie Portman, alla prima prova anchedietro la macchina da presa, è di spostare alcentro il rapporto tra il giovane Amos e lamadre Fania, interpretata dalla stessa Port-man, di fatto marginalizzando sia le altreesperienze del bambino, sia il protagonistacollettivo, cioè Israele e Gerusalemme inparticolare. Il film sceglie lo sviluppo perfettamente dia-cronico, anche se ci sono alcune incursioninella giovinezza di Fania, ed esordisce nel1945: questo vuol dire rinunciare al raccontodell’infanzia di Amos, l’incontro con i libri,le battaglie del conflitto mondiale riprodottecon i soldatini sul pavimento del corridoio, idialoghi dei genitori, abituati a passare condisinvoltura da una lingua all’altra, gli incon-tri con il signor Agnon, il personaggio dellozio Yosef Klausner, importante studioso delperiodo del secondo Tempio, le dispute nelquartiere tra tolstojani, dostoevskijani e che-coviani e moltissimo altro. Scelte legittima eforse anche inevitabili per garantire un ruolodi primo piano alla regista e attrice israelia-na. Guardando il film emerge l’importanza delprogetto e l’autentico amore di Natalie Port-man, per l’occasione anche sceneggiatrice, peril romanzo e la materia trattata. La grande ab-bondanza di immagini sfocate, slow-motion esguardi in macchina, a mio avviso, vorrebbeesprimere proprio questo amore, ma si risolvein soluzioni tecniche retoriche e francamentepoco originali. Il film è inoltre diviso piuttostonettamente in due parti: non sarebbe di per séun problema se non fosse per la frattura che ledivide, non ricomposta né dal finale né dalsenso complessivo dell’opera. La prima metà è

una collezione di momenti tratti dal libro, e ri-sulta dunque abbastanza disorganica. La se-conda, più compatta, pone invece al centro ilrapporto tra Amos e Fania. Soprattutto nellaprima parte multicentrica numerosi passaggisono ellittici: chi ha letto e amato il libro nonha difficoltà a seguire, per gli altri ho l’impres-sione che possa esserci qualche problema.Questo dipende dal ruolo del montaggio, chenello sviluppo del film è protagonista, al pun-to da dettare il flusso libero dei ricordi. Il fattoperò che alcune svolte non siano approfonditepuò determinare difficoltà di comprensioneper chi già non conosce la materia trattata. Unflusso, insomma, che tanto fluido non è, maprocede un po’ a scatti o per giustapposizione.Nel complesso, comunque, si tratta di unfilm onesto che credo meriti di essere visto.Non ha nulla dell’esercizio di stile autorefe-renziale ed è sicuramente emozionante e in-tenso. È anche poetico, nonostante la foto-grafia e il montaggio superino la soglia delretorico. Ai colori caldi degli esterni, in ge-nerale meno convincenti e comunque del tut-to incapaci di rendere giustizia a Gerusalem-me, rispondono le tinte fredde del claustrofo-bico appartamento, con un predominio delblu intorno alla figura di Fania per tutta ladurata della pellicola, dai flashback sull’in-fanzia a Rovno al drammatico finale.Tra i momenti più significativi l’incontro conla bambina araba di cui Amos ferisce inav-vertitamente il fratellino, una perfetta imma-gine della tragedia degli arabi della regionecon l’avvento di Israele: e poco importa, inquesto caso, che di questa tragedia siano pro-prio le leadership arabe, con il loro rifiuto ra-dicale opposto all’esistenza di uno Statoebraico, le principali responsabili. Meritevo-li di menzione anche i racconti di Fania al fi-glio e la tensione immaginifica della madre,anche se gli inserti onirici mi sono sembratieccessivamente espressionisti e in definitivapoco convincenti.Il film ha infine il grande pregio di esserestato girato in ebraico, una scelta fortementevoluta dalla regista. Inspiegabile, invece, ilcambiamento di titolo nella versione italiana,dal momento che l’originale ebraico e le edi-zioni in altre lingue mantengono il titolo dellibro: Sipur al ahava vechoshekh, A Tale ofLove and Darkness eccetera. Purtroppo ilmercato italiano non è nuovo a prediligere ti-toli ridicoli, e Sognare è vivere entra senzadubbio nel gruppo.In sintesi, credo che il limite principale di unfilm che tuttavia non è da condannare senzaappello nasca dal tentativo di riprodurre l’o -pera originale, al cui paragone si rivela copiastinta. Come capita talvolta ai registi al pri-mo film, ma anche agli scrittori al primo ro-manzo, l’artista cerca di rovesciare nel calde-rone dell’opera troppi materiali, con il risul-tato che molti spunti non possono essere ap-profonditi e valorizzati come meriterebbero.Un libro monumentale, almeno per me, comequello di Amos Oz, meriterebbe un film apuntate sul modello di Heimat, il capolavorodi 15 ore del regista bavarese Edgar Reitzche intreccia la storia della Germania nel No-vecento a quella di alcune famiglie della re-gione rurale dell’Hunsruck. Una Heimat diIsraele, se mai verrà girata, vedrebbe nel -l’opera di Oz un caposaldo prezioso. Maquesta è un’altra storia. Quella di un altrofilm, un giorno, forse.

Giorgio Berruto

SOGNARE È VIVERE

Uno sguardo dal margineDopo il grande successo ottenuto dalla registacon La sposa promessa molti hanno trovato ilsecondo film di Rama Burshtein un po’ delu-dente. Probabilmente non hanno torto, perchéla storia di Un appuntamento per la sposa ècertamente meno originale. Di film su matri-moni più o meno improbabili se ne sono vistidi tutti i colori: matrimoni per convenienzache diventano per amore, matrimoni combina-ti che si scombinano, matrimoni in cui all’ul-timo momento si sostituisce uno dei due sposi(o entrambi), sposi che scappano, sposi che ar-rivano, e chi più ne ha più ne metta. In questogenere frequentatissimo è vasto anche il sotto-genere dei film dedicati ai preparativi per unmatrimonio che poi per un motivo o per l’al-tro non andrà secondo le previsioni (oppureandrà secondo le previsioni nonostante a uncerto punto tutto sembri andare all’aria). E poiè ben praticato anche il sottogenere dei matri-moni etnici (indiani, greci, ecc.), tra cui quelliebraici sono tutt’altro che rari.Dunque l’idea della sposa lasciata dal fidan-zato a meno di un mese dalle nozze che deci-de di non interrompere i preparativi del ma-trimonio pur in assenza di uno sposo, confi-dando che Dio provvederà a mandarglieneuno (del resto la data fissata è l’ultima nottedi Chanukkà, tempo di miracoli) è simpaticama non straordinariamente originale, e laconclusione è ampiamente prevedibile (an-che se nel corso del film viene seminato quae là qualche falso indizio che sembra portarein altre direzioni). Eppure devo confessareche il film non mi è dispiaciuto, e non soloper la mia debolezza di preferire le commediealle storie drammatiche (La sposa promessa,ricordiamolo, prendeva l’avvio da un eventotragico). Entrambi sono interessanti per il lo-ro sguardo dall’interno sul mondo haredì (ul-traortodosso), che ci viene mostrato nel suocurioso connubio di tradizione e modernità,cellulari e matrimoni combinati, donne libereed emancipate ma costantemente alla ricercadi un marito. La sposa promessa, tuttavia, of-friva una visione di questo mondo più agio-grafica, a tratti quasi propagandistica (il Reb-be che interrompe qualunque attività per dareascolto a un’anziana signora che chiede con-sigli sulla cucina da comprare? Alzi la manochi lo ritiene credibile). Un appuntamentoper la sposa è più realistico e ci mostra unmondo fatto anche di sofferenza, frustrazioni,pettegolezzi, cattiverie. E poi c’è un’altra dif-ferenza sostanziale: La sposa promessa cimostrava una famiglia totalmente all’internodel mondo haredì e, anzi, al centro di quelmondo (il padre della protagonista era lui

(segue a pag. 15)

Natalie Portman, Sognare è vivere(titolo originale Sipur al ahava vecho-shekh, A Tale of Love and Darkness),Israele-USA, 2015

15GaliziaMartin Pollack, scrittore e giornalista au-striaco, non ebreo come ci rivela ClaudioMagris nella postfazione, propone l’itinera-rio di un viaggio immaginario; ci segnala lestazioni in cui scendere, le linee ferroviariesu cui viaggiare, gli alberghi, le locande rac-comandabili (e anche quelle meno racco-mandabili) i ristoranti, i caffè, i ritrovi, i luo-ghi di interesse turistico, industriale, cultura-le, i centri religiosi, le chiese e le sinagoghe.Ci informa sulle varie popolazioni che sipossono incontrare, tedeschi, polacchi, rute-ni, ebrei, e i montanari dei Carpazi, gli huzu-li e i boiko; sui culti professati, sulle linguemaggiormente in uso, tedesco, polacco, yid-dish, in eterno conflitto tra di loro.Questo è il viaggio nello spazio; ma l’autoreci avverte subito che il viaggio si svolge inluoghi, la Galizia e la Bukovina, che hannorisvegliato l’interesse degli occidentali sol-tanto dopo la loro distruzione, e che quelloche ci viene proposto è un viaggio nel tempoe nello spazio (espressione sfruttata, ma nonne trovo una diversa e altrettanto sintetica). Iltempo è quello tra gli ultimi venti anni delXIX e i primi trenta del XX secolo.I protagonisti sono scomparsi travolti dallevicende del secolo scorso, che hanno coin-volto tutte le popolazioni del territorio, masoprattutto gli ebrei: la disgregazione del-l’Impero Austro Ungarico con il fraziona-mento del territorio tra vari stati, i passaggi dauno stato all’altro, l’emigrazione di massa,soprattutto ebraica, lo sterminio nazista, lacancellazione delle lingue e delle culture lo-cale, segnatamente l’yiddish. Pollack attingeesclusivamente a fonti documentali, che testi-

moniano la ricchezza e la vivacità della cul-tura galiziana: scritti di Bruno Shultz, JosephRoth, Paul Celan, Helene Deutsch, ArturSandauer e tanti altri, articoli apparsi su gior-nali locali (stupisce il numero di quotidianiche venivano pubblicati, se si tiene contodella presenza di una forte percentuale di sot-toproletari analfabeti), non disdegnando arti-coli di cronaca che sono dei gioiellini di let-teratura, e anche inserzioni pubblicitarie.Le pagine dedicate alla popolazione ebraicadi Cernivci e di Leopoli, culla sia dell’illu-minismo ebraico sia del chassidismo varreb-bero da sole la lettura del libro. Martin Pollack si ferma prima che si apra l’a-bisso; fa un’operazione di costruzione dellamemoria di quello che c’era, e non va oltre,non cerca fosse comuni o lapidi; quando holetto i capitoli dedicati ai pozzi di petrolio diBoryslav e Drohobyc ho voluto rileggerequello che ne aveva scritto Gad Lerner inScintille, il libro sulla ricerca delle sue radici,e ho notato una volta di più quanti diversimodi esistano per ricostruire una memoria:partire da ciò che siamo e sappiamo oggi, co-me fa Lerner nel suo bel libro, o immergersinel passato attraverso la voce – spenta persempre – dei contemporanei di allora, comefa Pollack. E qui Pollack lo fa con un registrodi empatia che coinvolge il lettore e che tro-va una ulteriore testimonianza nell’“archivioprivato dell’autore”, la raccolta di immaginiche illustrano la copertina e il libro: vecchiecartoline, antiche fotografie di persone, dipaesaggi, di città.La lettura del libro si completa con la bellapostfazione-lettera all’autore di Claudio Ma-gris di cui pubblichiamo l’incipit qui a fianco.

Paola De Benedetti

stesso un rabbino); qui, invece (e a mio pare-re è questo l’aspetto più interessante e origi-nale del film) conosciamo un mondo curioso,che si potrebbe definire ai margini, tra con-vertiti esotici e nuovi osservanti che non ri-nunciano ai propri mestieri insoliti e ai pro-pri gusti musicali, famiglie e amicizie “mi-ste” di ortodossi e non ortodossi, laici chenon si fanno scappare l’occasione di visitarele tombe di grandi rabbini del passato. In-somma, un mondo haredì tutt’altro che im-permeabile, contrariamente all’idea che forsemolti di noi si erano fatti (o, per lo meno, ten-diamo a pensare che l’unico mondo permea-bile sia quello dei Lubavitch mentre qui, aquanto viene detto, siamo tra i chassidim diBreslav). Si intuisce, però, che queste persone“ai margini” vengono fatte incontrare e spo-sare esclusivamente tra di loro; e viene allorail sospetto di essere in presenza di un mondofatto di cerchi concentrici, che vanno da uncentro davvero impermeabile a una periferiapermeabile attraverso una varietà di sfumatu-re che possono sembrare sottili ma non sfug-gono ad uno sguardo allenato e vengono te-nute ben presenti. È dunque probabile che losguardo di Rama Burshtein non sia davverodel tutto interno ma continui ad essere, alme-no in una certa misura, dal margine, internoed esterno nello stesso tempo: forse è proprioquesto a rendere i suoi film affascinanti.

Anna Segre

libri

(segue da pag. 14)

Rama Burshtein, Un appuntamento perla sposa (titolo originale Laavor etHakir/Through the Wall), Israele 2016

“Alcuni libri vanno assaggiati, altridivorati e alcuni, rari, masticati

e digeriti” Francis Bacon

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Minima moraliaUna volta ero al caffè San Marco, moltianni fa, a Trieste, con Giorgio Voghera,l’indimenticabile autore di Quaderno d’I-sraele e di tanti altri indimenticabili libri,forse pure di quel capolavoro che è Il se-greto, e gli chiedevo alcune cose su unMidrash talmudico. C’era con noi un altroebreo triestino molto più giovane, dottis-simo ma un po’ aggressivamente sospet-toso nei confronti dei gojm troppo inte-ressati all’ebraismo, il quale sbottò: “Ec-co, prima ci ammazzano e poi ci studia-no!”. Al che il sempre ironico e impertur-babile Voghera replicò: “Ma non sono lestesse persone!”. Ci mettemmo a rideretutti tre e la cosa finì lì.Ci può essere peraltro un pizzico di vero,non certo per quel che mi riguarda, nel so-spetto di quel mio bizzoso concittadino.Un inconsapevole e sfumato antisemiti-smo può insinuarsi anche nell’interesse dichi lo studia, un senso non della partico-larità di una cultura, diversa da tutte le al-tre come lo è ognuna, ma la convinzioneinconscia di una diversità particolare e ir-riducibile degli ebrei, inesorabilmente eanche volutamente straniera, desiderosadi vivere in un invisibile e invalicabileghetto. È anche da questo antisemitismoinconsapevole e incolpevole che nasce opuò nascere l’antisemitismo vero e pro-prio, sino alla violenza più abietta.

Claudio Magris, prefazione a Galizia di Martin Pollack

Martin Pollack, Galizia-Viaggio nelcuore scomparso della Mitteleuropa,Keller Editore 2017, trad. Fabio Cre-monesi, pp. 288, € 18

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libri

HOMO DEUSuna forma di informazione. L’informazionevia via si coniuga poi in tutti i rivoli piùprosaici del vivere quotidiano. L’informa-zione è essa stessa vita che si esplica comeun turbinio di azioni determinate dai genicontenuti nel DNA e dalle loro reciprocheinterazioni. Come le informazioni vengonoassimilate ed elaborate diventa quindi il ve-ro sistema per dominare e plasmare larealtà. L’autore ci descrive allora come glialgoritmi, ovvero i meccanismi di proces-samento delle informazioni in senso lato,siano gli strumenti fondamentali per deter-minare la vita, ma allo stesso tempo l’intel-ligenza e potenzialmente la coscienza. Se-condo Harari, gli animali, da noi ritenuti in-feriori o privi di intelligenza, sono come

noi anche loro algo-ritmi, in grado dicomprendere ed in-terpretare larealtà/informazionequanto noi. Da ciòl’autore riflette sul-l’indifferenza concui l’uomo imponeviolenza alla naturae agli animali suoisimili e ci pone da-vanti al paradosso diun futuro in cui lesorti dell’Homo sa-piens potrebbero ro-vesciarsi. Gli algo-ritmi operanti in uncervello elettronico

possono agire con apparente intelligenzama in fondo potrebbero dimostrare la stes-sa indifferenza verso l’umanità che l’uma-nità riserva all’ambiente e a tutti i suoi abi-tanti. Allo stesso tempo, gli esseri post-umani che l’ingegneria genetica inevitabil-mente porterà in essere potrebbero rinnega-re il nostro umanesimo in base ad una loroalterità intelligente e cosciente.La descrizione potrebbe risultare semplicisti-camente apocalittica, ma il cambiamentolento e strisciante è inesorabile. I dilemmimorali a cui dovrà fare fronte un’automobileche guida da sola non è fantascienza, è qual-cosa di imminente. La scelta se modificare ilDNA di un bambino malato per poterlo ve-dere crescere sano e felice è una questionedirompente ma attuale. Il suo conseguentecorollario è se sia etico modificare il genomadi figli che non si ammaleranno più di cancrooppure alterare su misura tutte le altre carat-teristiche che finora hanno fatto dell’Homosapiens quello che conosciamo.In un contesto in cui l’informazione e la suagestione diventano sempre più determinanti,gli scenari possibili sono ancora più straordi-nari ma pur sempre possibili. E se da ciò cheviene scritto su Facebook si potesse costrui-re un algoritmo che prevede con incredibileprecisione statistica le inclinazioni politiche

della società?Dopo tuttol’accesso a taliinformazioniviene concessoappena ci iscri-viamo a qual-che socialnetwork. Unprogrammache interpretile nostre incli-nazioni politi-che e voti pernoi non esisteancora. Tuttavia, Harari predice un mondo incui la stessa democrazia potrebbe essere ra-dicalmente modificata se non addiritturacompletamente abbandonata. A soppiantarel’umanesimo democratico, si intravede, a dirdell’autore, il “datismo”, una sorta di religio-ne che venera “i dati”, le informazioni e laloro elaborazione portate ad un livello tra-scendentale.Viene da pensare, in un contesto del gene-re, a cosa andrà incontro l’ebraismo. L’e-braicità dell’autore, anche se sapientemen-te occultata per motivi forse di una pretesamaggiore universalità di messaggio, in ognicaso spesso trasuda abbondantemente, so-prattutto all’occhio del lettore più attento.L’ebraismo, secondo Harari, ha la capacitàdel mutamento. L’autore racconta di quanto la distruzionedel Tempio abbia messo in serio pericolouna tradizione in quel momento basata sulruolo portante dei Kohanim, una “casta sa-cerdotale” ereditaria, sostanzialmente igno-rante e bigotta. L’ebraismo ha saputo reagi-re con un cambiamento radicale che ha por-tato a dominare la scena: i Rabbini, non piùcasta bigotta ma eccellenza nello studio,delocalizzabile e indipendente dalla con-creta esistenza del Tempio. A dispetto di altre tradizioni religiose, l’e -braismo sembrerebbe possedere una intrin-seca variabilità algoritmica che potrebbemantenerlo in vita anche ai tempi del “dati-smo”. Come evolverà l’ebraismo per coglierequesta sfida, Harari non lo affronta. Ci diceperò che potrebbe essere una nuova sfidamortale ben più immateriale di persecuzio-ni e stermini ma, forse, per questo ancorapiù insidiosa. Un obiettivo che secondol’autore si darà il datismo è il superamentodella morte come orizzonte biologico insu-perabile. Se nel futuro (a parer mio non così prossi-mo), l’Homo sapiens sarà sostituito dal-l’Homo deus di Harari, a chi si riferirà l’A-dam di Bereshit? A chi sarà stata donata laTorah?

Emilio Hirsch

L’ultimo libro di Yuval Harari Homo Deus:breve storia del futuro edito da Bompiani edi cui ho supervisionato la traduzione in ita-liano è un testo vasto, innovativo e nello stes-so tempo urticante e provocatorio. Il leitmo-tiv dell’analisi di Harari lungo tutto il libro èla fine dell’umanesimo come principio fon-dante della cultura moderna. Il contesto cul-turale dell’attuale mondo civilizzato ci haeducato a cercare le risposte a tutte le do-mande nel nostro intimo, a partire dal con-cetto cartesiano che il nostro pensare defini-sce l’esistenza alla nozione che la trascen-denza si esprime nel l’intimità del pensiero.Tutto questo si basa su una profonda fiduciache l’intelligenza e la coscienza, muovendo-

si su binari non paralleli ma intimamenteconnessi, lavorino nell’indicarci il modellodel mondo con cui costruire etica, società edinterazione con l’universo che ci circonda.L’umanesimo visto, quindi, come modernaalternativa alla religiosità che rimane pursempre inquadrabile, nel suo evolversi di co-stumi e tradizioni, come una creazione dellamente umana.Tuttavia il mondo contemporaneo ci sta fa-cendo intravedere che anche questa conce-zione moderna, evolutasi dal superamentodella cultura tribale, è destinata a cambia-menti radicali. Lo sviluppo scientifico e tec-nologico sta ponendo le basi a ciò che prestopotrebbe sostituire la concezione umanisticache vede uomo e l’umanità come elementiunici e centrali nell’universo, ma anche inquesto pianeta, nella quotidiana realtà in cuici troviamo ogni giorno immersi. L’uomo sta ponendo le basi per il suo supe-ramento in quanto specie. L’ingegneria ge-netica ha già ora le basi per permettere diaffiancare all’Homo sapiens nuove formederivate, se non addirittura nuove specie diHomo potenziato più resistente alle malattiee più adatto a certi contesti ambientali. Allostesso tempo, l’informatica e la roboticahanno già raggiunto la capacità di agire inmaniera apparentemente intelligente ed in-distinguibile da un essere in carne ed ossa.Da tempo possiamo chiedere alla rete dispiegarci un concetto o di tradurci un testoa grandi linee. Presto robot e computer po-tranno raggiungere obiettivi impensabili so-lo poco tempo fa. Un capitolo del libro ri-porta sagacemente l’effetto di un computer,programmato dal musicista e informaticoDavid Cope, a comporre musica come Ba-ch. Il risultato del programma ha incantatouna platea umana, alla fine sorpresa ed an-che amareggiata dalla scoperta della beffa:il distillato del lavoro di una macchina erastato inteso come una supposta vetta del-l’intelligenza.Harari ci pone davanti al fatto che è semprepiù chiaro come a dominare la realtà sial’informazione. Fisici teorici all’avanguar-dia prospettano che l’universo stesso sia

Vignetta di Davì

Yuval Noah Harari, Homo deus. Brevestoria del futuro traduzione di M. Pia-ni, Bompiani 2017, pp. 672, € 25

17IL CASO DEL BUNDViva la lotta degli operai ebrei per la dignità e la libertà

do in quanto nazione una certa autonomia digoverno.La richiesta di autogoverno in seno al PartitoOperaio Socialdemocratico Russo è percepi-ta come una minaccia all’unità e alla forza ri-voluzionaria della classe operaia. Le rivendi-cazioni di tipo federalista dei bundisti porta-no allo scontro frontale, con il Bund suo mal-grado costretto a lasciare il Partito che pochianni prima ha contribuito a fondare. Leninsceglie un modello di controllo centralizzatoin cui le diversità culturali e nazionali devo-no annullarsi in nome della lotta della classeoperaia oppressa dai padroni e dal capitali-smo. Il centralismo bolscevico propone, difatto, l’annullamento o l’assimilazione dellespecificità nazionali, e di quella ebraica inparticolare, non considerata una vera nazioneperché priva di territorio.Il Bund si contrappone anche alla stessa bor-ghesia ebraica che nulla fa per riscattare lacollettività ebraica, praticando invece unapolitica della mediazione che non la poneapertamente in conflitto con la temuta auto-rità. Il Bund è invece determinato a rovescia-re quel mondo e così riconquistare la dignitàdegli ebrei: quanto più questi terranno labocca chiusa, quanto più chineranno la testa,tanto maggiore sarà l’oppressione che gra-verà su di loro. Solo dalle classi oppresse diun popolo oppresso, ritiene il Bund, può na-scere la forza del riscatto. I rivoluzionari per-seguono con tenacia i loro obiettivi, anchecon la lotta armata contro l’autarchia e i po-grom che colpiscono le comunità ebraiche, eportano avanti con coraggio, nell’incom-prensione delle grandi correnti di pensierodel tempo, la loro battaglia esistenziale.Se in Russia il Bund è assorbito dalla corren-te dei bolscevichi che rimangono, nonostan-te le posizioni divergenti, unici difensori de-gli ebrei nei pogrom e contro l’antisemiti-smo, in Polonia il Bund, divenuto assai radi-cato e importante, è annientato nella Shoah.Oggi che il mondo multiculturale ci pone difronte a sfide simili, dove nazioni diverse sitrovano a stretto contatto e si fanno portatri-ci, ciascuna a suo modo, di istanze sindacali,di classe e di caratteri culturali e nazionali, lerisposte del Bund meritano di essere studiatee comprese e il libro di Massimo Pieri è unvalido strumento per farlo.Le identità che, oggi come ieri, si confronta-no, infatti, sono intrinsecamente non assimi-

Un libro sulle vicende del Bund, il potentepartito operaio ebraico e del suo ruolo nellarivoluzione, potrebbe sembrare appannaggiodi pochi appassionati. La sua lettura rivela,invece, una storia ricca di spunti di sorpren-dente attualità, un testo intenso che offre unanuova linfa vitale a una sinistra ormai datroppi anni in crisi.Nello sposare le tesi del Bund, l’interessantesaggio di Massimo Pieri con la prefazione diValentina Sereni, Gherush92, si pone quasicome un manifesto politico evidenziando ciòche i rivoluzionari del Bund furono in gradodi capire dal contatto con il proletariatoebraico, allora recluso nella Zona di residen-za, soggetto a leggi speciali antisemite, sfian-cato da usuranti orari di lavoro e salari irri-sori, e senza dignità: la lotta di classe nonpuò e non deve prescindere dalla specificitàcultural nazionale ebraica e non può ignora-re la particolarità di ciascuna componentenazionale di quel crogiolo di lingue e cultureche formano l’Impero Russo.Intuendo che la lotta di liberazione passa ine-vitabilmente per la libera espressione dellalingua e delle tradizioni di un popolo, i bun-disti fanno della questione nazional culturaleun punto cardine della loro lotta, rivendican-

Leo Contini, Bici e cotto, 1985

Il Giuramento Bundista

Fratelli e sorelle nella fatica e nella lotta,Tutti coloro che ovunque sono dispersi,Venite, venite insieme sotto la stessa bandiera,Essa sventola di rabbia ed è rossa di sangue!Un giuramento, un giuramento di vita e di morte.

Il cielo e la terra ci sentiranno,Le stelle di luce saranno testimoni.Un giuramento di sangue, un giuramento di lacrime,Noi giuriamo, noi giuriamo, noi giuriamo!

Al Bund giuriamo eterna fedeltà.Solo il Bund può liberare chi è schiavo ora.La grande bandiera rossa è innalzata.Essa sventola di rabbia ed è rossa di sangue!Un giuramento, un giuramento di vita e di morte.

Di Shvue, Yiddish, letteralmente il giuramento; canzone scritta daS. Ansky che divenne nel 1902 l’inno del Bund. Noto come Il Giu-ramento Bundista, esorta gli Ebrei a unirsi e lottare per la sconfittadello zar e del capitalismo (Courtesy of Gherush92).

labili, per ciascuna vale il grido rivoluziona-rio di battaglia del Bund: Doikeyt, noi siamoqui ora, non fuggiremo, non ci assimilerete,non ci annienterete, dovrete fare i conti connoi e con quello che siamo, qui e adesso.

Mario Fuà, Gherush92 Committee for Human Rights

Massimo Pieri, DOIKEYT NOI STIA-MO QUI ORA! Gli Ebrei del Bund nel-la Rivoluzione russa, Prefazione diGherush92, Valentina Sereni, MimesisEditore, maggio 2017, pp. 182, € 16

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libri

RassegnaChristophe Boltanski – Il nascondiglio –Ed. Sellerio, 2017 (pp. 276, € 16) Le pian-tine dei vani abitati quale controcanto grafi-co al testo scritto e la descrizione accuratadel l’arredamento e degli oggetti (sia artisticiche d’uso) accomunano questa ricostruzionea quelle di Safran Foer, Daniel Mendelsohn ealtri, pur distinguendosi per l’originalità del -l’approccio alla materia trattata. Si parla in-fatti di una famiglia di intellettuali borghesi,anticonformisti, la cui origine risale fino aipogrom ottocenteschi di Odessa, proseguecon abiure e conversioni, matrimoni misti eidentità molteplici… tutti intorno alla ma-triarca ereditiera e comunista. Ma l’identitàpiù importante, e tale da far ascrivere que -st’opera tra le “testimonianze” sulla Shoah, èil nonno dell’autore. Medico ebreo costrettoa nascondersi in una intercapedine dell’ap-partamento parigino durante l’occupazionenazista. Prix Fémina del 2015, l’opera è incorso di traduzione in numerosi paesi europei:lode a Sellerio per avercela offerta quale pri-mizia. (s)Elisabetta Fiorito – Carciofi alla giudia –Ed. Mondadori, 2017 (pp. 271, € 18) Ar-gomenti quali “troppa religione fa male edue anche peggio”, “espiazione, benedizio-ne, limonata” e ancora “sogni e carciofi”,fan no perfettamente presagire l’ironia diquesto piacevole romanzo ambientato tra gliebrei romani, gli ebrei tripolini, gli ebreiisraeliani e… tutti gli altri. Giornalista viva-ce e spigliata, Elisabetta Fiorito costruisce ilpersonaggio di una giovane donna moderna,sostanzialmente agnostica eppure sempre incerca di risposte, a cui capita di innamorarsidi un ebreo che le regala un figlio ma-schio… Lasciamo a lettrici e lettori il gustodi scoprire lo svolgersi di questa vicenda,non poi così originale… (s)Heda Margolius Kovaly – Sotto una stellacrudele. Una vita a Praga 1941-1968 – Ed.Adelphi, 2017 (pp. 214, € 20) Fuggita for-tunosamente da Auschwitz, Kovaly, ritorna-ta in patria, subisce personalmente la de-menziale efferatezza del regime sovieticoche tacciava i sopravvissuti di tradimento eli impiccava dopo spaventose torture. Molti,e in particolare molti ebrei, avevano entu-siasticamente abbracciato l’ideologia marxi-sta che pareva offrire risposta a tutte le pro-blematiche: in primis sembrava offrire la li-bertà personale, il rispetto dell’individuo acoloro che si consideravano “generazioneperduta”. Ma dopo la guerra l’umanità mo-strò ancora il peggio di sé e si assistette dinuovo alla “sconfitta del l’umano”. Testimo-nianza diretta ed efficace per immediatezzae concisione del racconto e per la luciditàdel giudizio, nonostante il coinvolgimentopersonale. (s)Anna Scandella – Aliya bet. Sciesopoli: ilritorno alla vita di 800 bambini sopravvis-suti alla Shoah – Ed. Unicopoli, 2016 (pp.70, € 15) Formato orizzontale per un graphicnovel bilingue (italiano/inglese) per ragazzi.Tesi di laurea sui bambini accolti a Selvino,tra le Prealpi Orobiche, nella ex colonia fa-scista affittata alla Comunità ebraica di Mila-

no per il culto e le attività di soccorso ai pic-coli profughi. Dopo anni di abbandono il MI-BACT ha posto l’edificio sotto la propria tu-tela per farne un luogo della memoria. Nu-merosi ex Bambini di Selvino, accorsi daogni parte del mondo, contribuiscono a man-tenere vivo il ricordo di quei fatti e di quellasolidarietà. Le tavole e i patchwork di AnnaScandella illustrano “ai bambini di oggi lastoria dei Bambini di allora affinché non siripeta ciò che è successo ai bambini di ieri”.La presentazione, curata dallo storico MarcoCavallarin, e l’elenco, seppur parziale, deinomi completano il prezioso lavoro. (s)Tromba, Sinicropi, Sorrenti – Il viaggiodella Pentcho – Ed. Prometeo, 2016 (pp.234) Preziosa ricostruzione della straordina-ria odissea di un gruppo di disperati in fugadall’Europa nazista: speravano di raggiun-gere la Palestina su di uno sgangherato bat-tello fluviale a ruota. Partiti da Bratislava, lanavigazione proseguì fino al Mar Nero e al-l’Egeo, dove naufragarono su di un isolottoinospitale e vennero presi a bordo da un’u-nità delle Regia Marina Italiana. Ma l’Italiafascista li internò a Ferramonti dove trova-rono la salvezza. Le immagini dei salvatag-gi operati oggi nel Mediterraneo sembranoriaffermare le mai smentite teorie di Giam-battista Vico. (s)Giorgio Pressburger, Mauro Caputo –L’orologio di Monaco – Ed. Marsilio, 2017(pp. 216, € 19,50) Siamo praticamente inpresenza di una “ring komposition” se, par-tendo dalle Storie dell’Ottavo Distretto ci ad-dentriamo in questa ricostruzione genealogi-ca dei Pressburger con cui l’autore sembravoler chiudere un ciclo. Il volume (corredatodel DVD del film tratto da Caputo) ci ac-compagna attraverso città, cimiteri, campi disterminio e archivi popolati da antenati ino-pinati, non inopinabili, quali Heine, Marx,Mendelssohn e altri, che hanno connotato

circa due secoli di storia. La complessa vi-cenda di migrazioni e spostamenti a cui è sta-to costretto l’ebreo “errante”, rivive in que-sto romanzo, espressione di una vecchiaiaamaramente pacata. (s)Clotilde Pontecorvo, Asher Salah – Diaririsorgimentali: due ragazzi ebrei si raccon-tano. (Giuseppe Luzzatto, Amalia Cantoni)– Ed. Salomone Belforte&C., 2017 (pp.231, € 20) Entrambi i diari, indipendente-mente dal contenuto, evidenziano il partico-lare percorso formativo privato e offrono unospaccato sulla presenza ebraica, le parentelee le socializzazioni di famiglie ramificate einfluenti. Alla ricostruzione storica ad operadi Asher Salah, si affianca l’analisi psicoso-ciale e pscicolinguistica di Clotilde Ponte-corvo con forte risalto al contributo intellet-tuale e concreto all’unità d’Italia da parte diquella gioventù educata a “Torah e Risorgi-mento”. Giuseppe, figlio di Shemuel DavidLuzzatto SHADAL, scrive quasi tredicenneun memoriale di viaggio in cui mostra auto-nomia di giudizio e vena ironico-caricatura-le. Amalia, sorella del futuro illustre intellet-tuale Alberto Cantoni, compone sedicenne iltipico resoconto di una “jeune fille en fleur”,imbevuta di letture francesi e di tutte quellediscipline e attività che si addicono ad unafutura giovane sposa borghese. (s)Josh Aronson, Denise George – L’orche-stra degli esuli. La vera storia del violinistache sfidò Hitler – Ed. Rizzoli, 2017 (pp.372, € 20) La musica come arma contro ilnazismo fu il mezzo con cui Bronislaw Hu-berman salvò vite umane e riuscì a crearel’Orchestra Sinfonica Palestinese, inaugurataa Tel Aviv da Toscanini nel 1936. La biogra-fia del violinista narra i tormenti di un enfantprodige sfruttato dal padre avido di proventi,

Cerimonie di estremo saluto

PRIMO STABILIMENTO DI TORINOCASA FONDATA NEL 1848

ORGANIZZAZIONE FIDUCIARIA DELLA COMUNITÀ EBRAICA DI TORINO

Via Barbaroux, 46 - 10122 TORINO - Tel. (011) 54.60.18 - 54.21.58

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specializzata in studi storici e religiosiscienze umane e sociali

ebraismo

classici e narrativanovità e libri per ragazzi

a due passi dal Centro Ebraico

(segue a pag. 19)

19ma anche la straordinaria rete di solidarietàattivatasi attorno al progetto e culminata conla raccolta fondi promossa a New York daAlbert Einstein. All’atto della creazione del-lo Stato, David Ben Gurion assegnò al com-plesso il nome di Orchestra Filarmonica d’I-sraele che, sotto la direzione di maestri qualiBernstein, Barenboim e Zubin Metha, perl’alto valore di umanità e cultura, è stata de-finita “il bene più prezioso d’Israele”. (s)Sara Berger (a cura di) – I signori del ter-rore. Polizia nazista e persecuzione antie-braica in Italia (1943-1945) – Ed. Cierre,2016 (pp. 248, € 16) Un manipolo di giova-ni ricercatori e altrettanti valenti e noti stu-diosi contribuiscono a questo volume collet-taneo di saggi da cui sembra scaturire la ne-gazione del concetto di “banalità del male”sostenuto da Hannah Arendt. “Motivati, ca-paci, affidabili” furono gli uomini che da Ve-rona gestirono l’apparato del RSHA (Ufficiocentrale per la sicurezza del Reich). Il pre-sente lavoro mira a ricostruire “la storia degliattori attraverso i vissuti biografici, gli uni-versi cognitivi, le rappresentazioni mentali ei comportamenti sul campo”. Tutti loro sonocomunque deceduti da uomini liberi. (s)Simon Dunstan – La guerra dei Sei Giorni.1967: Sinai, Giordania e Siria – Ed. Leg,2017 (pp. 305, € 24) Approccio tecnico,competente ed esaustivo di un lavoro che, in-serito nella collana GUERRE, riferisce sulteatro delle operazioni, sui contingenti dellevarie forze in campo, sugli armamenti e sustrategia e tattica. Corredato di mappe e di unampio repertorio fotografico offre un quadrocompleto di una vicenda unica nel suo gene-re, anche per il contesto geopolitico in cui siè svolta. (s)Maria Teresa Milano – La voce è tutto.Mosaico di donne nel mondo ebraico – Ed.Effatà, 2017 (pp. 141, € 12) Studiosa e do-cente di Ebraismo e musicologa apprezzata,l’autrice raccoglie storie di donne la cui vo-ce è stata ascoltata, contribuendo così alladiffusione di conoscenza e cultura. Sebbenela voce umana sia considerata lo strumentopiù perfetto per elevare una preghiera e no-nostante gli esempi biblici, in epoca rabbini-ca la voce femminile è stata relegata entro lepareti domestiche ed è stata necessaria unavera e propria rivoluzione culturale per dar-le diffusione, affermando così l’imprescindi-bilità dell’accesso della donna ai diritti civi-li. (s)Silvia Cuttin – Il vento degli altri – Ed.Pendragon, 2017 (pp. 334, € 16) Romanzoa più voci in un ambito mitteleuropeo nel-l’arco del Novecento successivo alla PrimaGuerra Mondiale. L’impero asburgico avevalasciato anche nella città di Fiume un conte-sto sociale sfaccettato e multiculturale e ipersonaggi, suddivisi per famiglia e presen-tati nei rispettivi ruoli (quasi una locandinadi un lavoro teatrale) andranno incontro atragedie, sofferenze e traversie ormai regi-strate nei libri di storia. (s) Gianpaolo Anderlini – Qabbalàt Shabbàt.Meditazione sui salmi del Sabato – Ed. Ali-berto, 2017 (pp. 253, € 18) L’autore tradu-ce e commenta i sei Salmi (95, 96, 97, 98, 99,29) che, secondo l’uso di diverse Comunità,aprono, nella liturgia sinagogale del venerdìsera, la qabbalàt shabbàt, l’accoglienza delSabato. Nella seconda parte trovano posto ilSalmo 92 (Canto per il giorno di Shabbat) eil Salmo 93 (Le testimonianze fedeli). Anchea prescindere dal commento – che pure sem-bra analitico e ben argomentato – tutti posso-no godere della bellezza della poesia dei Sal-mi. (e)Riccardo Calimani – Storia degli ebrei diRoma. Dall’emancipazione ai giorni nostri– Ed. Mondadori, 2017 (pp. 810, € 35)L’autore, dopo i tre volumi dedicati, in gene-rale, alla Storia degli ebrei italiani (2013-2015) punta il suo sguardo sulla storia parti-

colare degli ebrei di Roma. Dopo aver dedi-cato un primo breve capitolo ai primi ventisecoli di presenza ebraica a Roma (dal II se-colo a.e.v. al XVIII secolo), la narrazione siallarga trattando della prima metà dell’Otto-cento e dell’emancipazione ma si concentrapoi, soprattutto, sul XX secolo, sul periodofascista con le leggi razziali, la persecuzione,con particolare riguardo all’atteggiamentodella Chie sa cattolica, e sul successivo perio-do post fascista. L’ampiezza della materianon permette grandi approfondimenti ma lanarrazione è precisa e incalzante fino allaconclusione bene augurante: “in questo libroè stata narrata la storia avventurosa di unapiccola minoranza vissuta a Roma fra Otto-cento e Novecento con la segreta speranzache questo racconto sia fonte d’ispirazioneaffinché tutti i popoli, nessuno escluso, inogni parte del mondo, sappiano trovare la viadella concordia e della giustizia e possano vi-vere insieme su questa terra, se non congioia, almeno in pace fra loro”. (e)Paolo Orsucci Granata – Moisè va allaguerra. Rabbini militari, soldati ebrei e co-munità israelitiche nel primo conflitto mon-diale (con l’Agenda del soldato 1916 di Ga-stone Orefice) – Ed. Salomone Belforte&C.,2017 (pp. 836, € 38) Il libro – inserito dallapresidenza del Consiglio dei Ministri nelleiniziative per il Centenario della prima guer-ra mondiale 2014/2018 – contiene la cronacadettagliata di fatti inerenti al conflitto alter-nati con riflessioni, preghiere e citazioni bi-bliche; un esemplare della Agenda del solda-to, libretto consegnato a ogni militare sulquale lo stesso annotava fatti e impressioni; il“Censimento ragionato degli ebrei italiani alfronte” con le schede di tutti gli ebrei cheparteciparono al conflitto ricche di dati bio-grafici e relativi al comportamento in batta-glia di singoli combattenti, talora accompa-gnate dalla loro fotografia. (e)Antonella Fimiani – Donna della parola.Etty Hillesum e la scrittura che dà origineal mondo – Ed. Apeiron, 2017 (pp. 159, €12) L’autrice ci offre una biografia di EttyHillesum tutta fondata sul suo Diario e sulleLettere dal campo per fare emergere, oltre al-la coraggiosa vita di lei, la forza e la bellezzadella sua scrittura che si trasforma in testi-monianza. (e)Mirella Serri – Bambini in fuga. I giova-nissimi ebrei braccati da nazisti e fonda-mentalisti islamici e gli eroi italiani che lisalvarono – Ed. Longanesi, 2017 (pp. 256,€ 17,60) Tra storia e romanzo, l’autrice rac-conta la vicenda di 73 ragazzini ebrei, fuggi-ti dalla Germania, dall’Austria, dalla Jugo-slavia, dalla Polonia, diretti in Palestina, chearrivano fortunosamente a Nonantola, in pro-vincia di Modena donde, protetti dalla popo-lazione locale (tanto che due suoi abitanti,Don Arrigo Beccari e Giuseppe Moreali, so-no stati riconosciuti “Giusti fra le nazioni”)riescono a passare in Svizzera e poi, final-mente, a raggiungere la Palestina. La stessavicenda era stata raccontata nel libro Anni infuga. I ragazzi di Villa Emma a Nonantola,(pubblicato in italiano nel 2004 dall’editriceGiunti) scritto da Josef Indig Ithai, membrodell’Hashomer Hazair, l’uomo che in effettisalvò il gruppo dei giovani ebrei. L’autrice sisofferma sul ruolo avuto dal gran muftì diGerusalemme, collaboratore di Hitler nellapersecuzione antiebraica, per impedire l’ac-cesso alla Palestina agli ebrei che fuggivanodall’Europa, e quindi anche ai ragazzi di No-nantola. (e)Bruno Forte – La santa radice. Fede cri-stiana ed ebraismo – Ed. Queriniana, 2017(pp. 143, € 12) L’autore, dottore in teologiae in filosofia, membro della CommissioneMista fra la Santa Sede e il Gran Rabbinatod’Israele, presenta, in questo libretto, alcunipiccoli saggi, nutriti di dotte citazioni del-l’Antico e del Nuovo Testamento, di autoriebrei e cristiani, di contenuto diverso ma tut-ti orientati alla conciliazione fra le due reli-

gioni scaturite dallo stesso ceppo precisando,peraltro, che “ciò che è possibile e doverosocercare è un cammino verso la riconciliazio-ne più che una riconciliazione compiuta, ri-conoscendo che questa apparterrà al tempoche il Dio della promessa riserva per tuttinoi”. (e)Raniero Fontana – Gesù ebreo. Alle radicidel ripensamento cristiano – Ed. Effatà,2017 (pp. 94, € 9) “Gesù è ebreo e lo è persempre”: partendo da tale affermazione chesegna la riscoperta dell’ebraicità di Gesù daparte dei cristiani, l’autore analizza i libri ditre studiosi che hanno, di recente, preso inesame in maniera critica le conseguenze po-sitive dell’ebraismo nel pensiero cristiano ele questioni ancora aperte: Gesù l’ebreo diAgnes Heller (Milano, 2010); Vangelo ebrai-co di Daniel Boyarin (Milano, 2012); PierreLenhardt L’Unité de la Trinité. A’ l’écoute dela Tradition d’Israel (Paris, 2011). L’autore,inoltre, confronta quella che chiama “triadeebraica” (Dio-Torah-Popolo) con la TrinitàCristiana (Padre-Figlio-Spirito Santo) ipotiz-zandone una corrispondenza e, infine, nel -l’ultima parte, riporta un episodio citato inmodo diverso nel Talmud palestinese e inquello babilonese nei quali si accennerebbe(in modo peraltro piuttosto oscuro) a un di-scepolo di nome Yeshu... (e)Joann Sfar – Lui era mio padre – Ed. Cli-chy, 2017 (pp. 155, € 15) L’autore, un fa-moso fumettista e regista francese, figlio diun famoso avvocato ebreo, scrive questo bre-ve romanzo autobiografico in cui, sia pure inuno stile scanzonato e ironico, difende leproprie convinzioni ideologiche e religioseed esprime la suapreghiera in morte ememoria del padrenonostante i contra-sti che avevano pun-teggiato la sua vitacon lui. La lettura èscorrevole e piace-vole. (e)Marco CassutoMorselli e Gabriel-la Maestri – EliaBenamozegh nostrocontemporaneo –Ed. Marietti, 2017(pp. 130; € 14) Unutile ripasso per tuttigli allievi del Corsodi ebraismo tenutodall’Ing. Franco Se-gre ma il personag-gio di cui gli autoritracciano la biografiae presentano le opereè interessante pertutti. Nel capitoloconclusivo L. Aské-nazi dice: “… Dopoun eclisse di un seco-lo, ecco che Elia Be-namozegh è di nuo-vo presente, nostrocontemporaneo… te-nuto conto dei due grandi eventi storici cheha presagito e al di fuori dei quali il suo mes-saggio non sarebbe stato possibile: la restau-razione della società ebraica da un lato e lariabilitazione del discorso cabbalistico dal-l’altro”. (e)Pasquale Rineli – BASTA! Discorso di uncristiano sulle menzogne e sui pregiudizicontro gli ebrei – Ed. Salomone Belfor-te&C, 2017 (pp. 89; € 12) Non può non stu-pire, in un momento in cui domina il dialogocristiano-ebraico, questo pamphlet di stampopopolare di un cristiano palermitano (non pernulla, peraltro, soprannominato “teorico diMontmartre”) che si scaglia a pugni alzaticontro la Chiesa cattolica (ma anche tutte lealtre Chiese) imputata di avere ora e sempre

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Leo Contini,Violino, anascultura

perseguitato gli ebrei, il popolo eletto, “convuoti e dannosi insegnamenti umani” che“… lungi dall’essere una dottrina divinamen-te ispirata… è un miscuglio ibrido di paga-nesimo, di superstizione e di autentico sin-cretismo religioso che sfocia in una malcela-ta idolatria”. (e)Massimo Pieri – Doikeyt, Noi stiamo quiora! Gli ebrei del Bund nella rivoluzionerussa – Ed. Mimesis, 2017 (pp. 182, € 16)La storia del Bund, l’Unione dei LavoratoriEbrei di Russia, Polonia e Lituania, che, na-to nel 1897 a Vilna, in Lituania, diventa pre-sto una delle più importanti organizzazioniebraiche di sinistra e svolge un ruolo fonda-mentale nella fondazione del Partito OperaioSocialdemocratico Russo. Proprio nel nostrotempo in cui, di nuovo, “da una parte, sichiudono frontiere, s’innalzano barriere e li-nee di protezione immaginando che nuovi

ghetti, discriminazione e razzismo siano lagiusta e ovvia risposta a un fenomeno incon-tenibile e inarrestabile, dall’altra si formula-no piani di integrazione culturale e socialesenza voler comprendere che l’incorporazio-ne di un gruppo in una società è sinonimo diassorbimento e di assimilazione e, quindi, an-cora una volta, di discriminazione e razzi-smo”, è importante rammemorare questoesempio di lotta ideale. Questo libro, moltodenso e ben documentato, è una lettura impe-gnativa ma interessante. (e)Giulia Mafai – Ebrei sul Tevere, storia, sto-rie e storielle – Ed. Gangemi, 2017 (pp.125, € 15) Non ci si lasci ingannare dal tito-lo di questo libro che un po’ lo sminuisce.L’autrice immagina di raccontare al nipoteElia la storia degli Ebrei di Roma ab illo tem-pore e lo fa con uno stile semplice ma preci-so, con lievità ma con accuratezza, accompa-gnando la storia con la tradizione ebraica, lesue regole e i suoi insegnamenti, condendo il

tutto con le ricette della cucina “romanesca”.Detto che anche le illustrazioni sono belle eappropriate, è una lettura scorrevole e piace-vole da non perdere. (e)Iole Di Simone – QABBALÀ e ALCHIMIA.Sefer Alef – Ed. Bonanno, 2017 (pp. 93, €10) L’autrice nella vita fa tutt’altro: è “dottoredi ricerca in Pianificazione territoriale e culto-re della materia in politiche urbane e territo-riali presso la Facoltà di Architettura del l’U -niversità di Reggio Calabria”. Però, pur nonessendo ebrea, confessa che sin dal 1992 hainiziato a studiare la Qabbalà è ha scritto que-sto sefer alef (generalmente utilizzato nel con-testo di corsi per studenti che sono a livello diprincipiante). Perciò il testo, che si aggira traQabbalà, Alchimia, Magia, Massoneria, Er-metismo, ha carattere eminentemente divulga-tivo e illustrativo ma è, nonostante ciò o forseproprio per ciò, interessante per tutti quelliche desiderino avere almeno qualche informa-zione su queste dottrine. (e)

L’Universo in reteÈ un organismo, altro che società nazista!Da ragazzo osservavo con mio zio la riparti-zione miracolosa di compiti all’interno di unalveare. C’erano le operaie, che, mi avevaspiegato, scambiavano tra loro con gli odorie la danza le informazioni sull’itinerario daseguire e sulle cose da fare. C’erano i maschiche morivano subito dopo aver fatto certe co-se, e poi le balie, le api-ventilatore, e le colfaddette alla pulizia e la regina, che stava alcentro dell’alveare e non comandava nessu-no ma non faceva altro che uova tutta la vita.Ecco, avevo detto, questa è la società idealeche voleva Hitler. E mio zio mi aveva spie-gato che l’alveare era come il corpo di unqualsiasi essere vivente, ove ogni cellula haun compito preciso. Nel corpo umano, peresempio, c’è un turbinio vorticoso di comu-nicazioni tra le cellule: correnti elettriche, or-moni, batteri, anticorpi, liquidi, compostichimici che come porta-ordini danno infor-mazioni e disposizioni sul comportamentoche ciascuna parte del corpo deve seguire ri-gorosamente. Ma allora, gli avevo chiesto, in natura nonc’è solo la lotta per la sopravvivenza, chevince il più adatto! C’è anche la collabora-zione… Certo, mi aveva risposto, e non soloc’è collaborazione all’interno dell’alveare edentro al nostro corpo, ma anche tra esseriviventi di specie diverse, e anche nel mondovegetale. Ma questo fa parte di un’altra le-zione…

Sarà perché sono ebreo, che da bambino mihanno insegnato il Dio unico, ma l’idea del -l’unità mi ha sempre affascinato. Unità di re-lazioni, reti unitarie di collegamenti. E alloraho fantasticato dell’unità della mia vita conquella dei miei avi, che si sono trasmessi l’unl’altro le informazioni genetiche per costrui-re i nostri corpi per milioni di anni, dai tem-pi dei dinosauri e ancora prima, dalle primecellule in avanti. Ma poi mi sono chiesto:Non è che per caso tra me e il mondo che micirconda ora ci sia un’unità? E allora ho sco-perto l’e cologia, non quella della pubblicità,ma la scienza dei rapporti tra gli esseri vi-venti ed il loro ambiente. E di colpo mi sonotrovato in una ragnatela di strettissime rela-zioni col mondo che mi fornisce cibo, acqua,aria, informazioni, valori… E ho scoperto chequeste reti ci collegano tutti, viventi e naturemorte, che morte poi non lo sono tanto. E le stelle? Le stelle stanno a guardare?Ma dove vivi? Risponderebbe un astro-biolo-go. È ormai dimostrato che sulle comete e sul-le meteoriti ci sono tracce di vita vissuta, epertanto non è azzardato pensare che sugli al-tri pianeti del sistema solare e di altri sistemisimili al nostro la vita ci sia, eccome! A que-sto punto, dico io, i fili della nostra ragnatelasi allungano di alcuni milioni di anni luce, el’età del nostro universo diventa di qualchemiliardo (miliardo!) di anni. Reso orgogliosodall’aver constatato l’estensione spazio-tem-porale del mio mondo e delle mie relazioni,ma perplesso sull’estensione dei buchi neri esulle mie relazioni con gli stessi, chiudo l’ar-gomento precipitevolissimevolmente.

Davì

Monarchia e compromessiPer deformazione professionale non posso fa-re a meno di ricordare che Virgilio nel quartolibro delle Georgiche propone proprio le apicome esempio di società ideale: un mondo pa-cifico, in cui ciascuna ha il proprio ruolo e tut-te obbediscono al re (sì, proprio così, gli anti-chi erano convinti che fosse un maschio). Inte-ressante confrontare quest’utopia con quellaimmaginata da Primo Levi nel racconto “Pie-no impiego” in Storie naturali, in cui la colla-borazione tra uomo e insetti porta enormi van-taggi a entrambe le parti: gli insetti possonocompiere in pochi minuti imprese che per l’uo-mo sarebbero difficilissime e dispendiose, e incompenso l’uomo può provvedere con speseirrisorie al loro nutrimento. Niente di simile(neanche come metafora) all’idea di un orga-nismo unitario: la collaborazione (o, almeno,nel caso delle zanzare, la non belligeranza, chein questi giorni estivi ci appare già un risultatostraordinario) si ottiene attraverso il dialogo elunghe trattative. Virgilio aveva in mente pro-babilmente la Roma di Augusto che dopo leguerre civili trovava la pace rassegnandosi al-la monarchia; Primo Levi sognava un mondopossibile ma non ancora realizzato, e infatti laconclusione del racconto non sarà pienamentepositiva. Resta comunque affascinante l’im-magine del grande congresso in cui ogni ani-male illustra le proprie esigenze e si cerca ditrovare soluzioni accettabili per tutti; soluzioniche in fin dei conti si rivelano non troppo com-plicate da realizzare. as

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