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Andrea Beltratti GESTIONE FINANZIARIA E CONSULENZA: MERCATO E INTEGRAZIONE VERTICALE Assogestioni Working Paper 2008/3

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Andrea Beltratti

Gestione finanziaria e consulenza: mercato e inteGrazione verticale

Assogestioni Working Paper

2008/3

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Andrea Beltratti

Gestione finanziaria e consulenza: mercato e inteGrazione verticaleaggiornamento del testo presentato dall’autore all’Offsite 2007 di Assogestioni

Assogestioni Working Paper 2008/3

maggio 2008

Indice

1. introduzione

2. l’industria dell’asset management

2.1 L’industria in Italia

3. Produzione e distribuzione di prodotti finanziari

4. il controllo da parte degli investitori

5. studio di due casi: stati uniti ed israele

5.1 Il caso degli Stati Uniti: i problemi della separazione

5.1.1 La descrizione della struttura

5.1.2 Vantaggi e svantaggi

5.2 Israele: i rischi di una riforma drastica

6. conclusioni: implicazioni per il caso italiano

6.1 La distribuzione

6.2 La gestione

Bibliografia

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I working paper sono preparati per successiva pubblicazione o per presentazioni nel corso di seminari professionali o accademici. Vengono pubblicati on-line a scopo di discussione e riflessione. Il loro contenuto esprime la posizione dell’autore(i) e non necessariamente quella di Assogestioni.

Ringrazio Marcello Messori per commenti su una versione precedente del lavoro, Fabio Renzi per numerose spiegazioni sulla normativa MiFID e Deborah Anzaldi per la stesura del paragrafo 2.1 sulla struttura dell’industria italiana. Il lavoro è stato presentato all’off-site di Assogestioni a Milano, il 9 novembre 2007. Ringrazio tutti i partecipanti per i commenti ricevuti. Qualsiasi errore ed imprecisione è a me attribuibile.

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Sommario: l’Italia è caratterizzata dalla concentrazione della proprietà delle attività di asset management e di distribuzione, tipicamente presso le ban-che. Il “mercato interno” prevale sul “mercato esterno”. I venditori tendono a proporre agli investitori i prodotti gestiti internamente, seppur l’architettura aperta si sia fatta strada negli ultimi anni. La concentrazione e la vendita dei prodotti internamente gestiti crea alcuni problemi, tra cui: (a) la non corretta percezione dal punto di vista del cliente finale del costo di ciascuno dei due servizi (b) un insufficiente incentivo a migliorare l’efficienza di ciascuna delle due attività. E’ necessario intervenire su questa situazione? Lo spontaneo affermarsi dell’architettura aperta dimostra che gli operatori riconoscono i casi in cui il “mercato esterno” funziona più efficacemente del “mercato inter-no”. Un intervento del regolatore teso a modificare la struttura proprietaria potrebbe avere effetti negativi di breve periodo sulla produzione italiana. E’ invece opportuno che la regolamentazione continui a migliorare il proprio grado di efficienza anche aumentando l’omogeneità di trattamento tra pro-dotti finanziari. Dal punto di vista dell’investitore finale, è auspicabile sia che la distribuzione di prodotti finanziari diventi più efficace tramite un miglio-ramento della qualità della consulenza sia che la gestione aumenti l’efficien-za. Entrambi questi sforzi richiedono comunque investimenti sostanziali in capitale umano ed infrastrutture.

1. introduzione

Il sistema finanziario italiano viene generalmente definito “bancocentrico”. Le banche:

- effettuano normale attività bancaria di concessione di prestiti ed assun-zione di depositi;

- sono proprietarie di società di gestione del risparmio che gestiscono fondi comuni di investimenti ed effettuano altre operazioni legate all’in-vestimento finanziario;

- effettuano varie attività di consulenza alle imprese;

- dispongono di personale di vendita, generalmente sotto forma di operatori bancari, che colloca prodotti finanziari (o gestiti dalla fab-brica di riferimento, caso definito tipicamente mono-brand, o gestiti da altre fabbriche di riferimento, caso multi-brand) spesso assieme

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a prodotti assicurativi con contenuto finanziario.

In quanto proprietarie, le banche percepiscono buona parte del valore cre-ato dalle società di gestione: secondo i dati presentati dalla Consob nella Relazione per il 2006 i soggetti bancari hanno percepito nel 2005 il 76% dei ricavi netti da intermediazione mobiliare mentre le Sgr ne hanno percepiti solo il 16% a causa delle commissioni passive (retrocessioni di commissio-ni effettuate nei confronti di banche dello stesso gruppo) che remunerano soprattutto l’attività di collocamento e distribuzione. Il margine di interme-diazione dei principali gruppi bancari italiani è composto per circa il 55% dal margine di interesse, per il 25% da ricavi da intermediazione mobiliare (metà dei quali associati a commissioni da gestione del risparmio), per il 15% dai ricavi da servizi bancari, per meno del 5% da altri proventi di gestione.

Questa situazione non è certo unica. In generale in tutta l’Europa continen-tale le banche hanno posizioni dominanti su più mercati, in particolare sia nella produzione sia nella distribuzione di prodotti finanziari. Negli Stati Uni-ti la situazione è meno netta e meno confrontabile con l’Europa a causa del diverso contesto istituzionale, in cui le banche per lungo tempo sono state costrette a restare fuori dall’asset management e in cui gli investitori sono da anni abituati ad acquistare i fondi comuni da consulenti indipendenti. Non esistono quindi strategie univoche a favore dell’integrazione tra produzione e distribuzione. Anche recentemente alcune grandi banche hanno venduto le attività di gestione. Come conseguenza di queste varie dinamiche, le ban-che negli Usa vendono prodotti di terzi nel 70% dei casi, mentre in Europa la situazione è opposta, con una larghissima prevalenza di vendite di prodotti gestiti internamente dalle società di asset management.

In questa situazione, è opportuno che la regolamentazione spinga l’Italia ad una netta separazione tra attività di asset management ed attività di di-stribuzione, costringendo le banche a vendere le società che si occupano della gestione del risparmio a livello collettivo ed individuale? Sono possibili soluzioni intermedie? Quali potrebbero essere le conseguenze della separa-zione?

2. l’industria dell’asset management

2.1 l’industria in italia

Il settore dell’asset management è una fonte rilevante di valore aggiunto a li-vello macroeconomico: conta circa 10mila occupati ed ha un fatturato di 11 miliardi di euro. Nonostante ciò, il settore si è contratto negli ultimi anni. La Relazione della Banca d’Italia per l’anno 2006 nota che i fondi comuni di investi-mento aperti di diritto italiano, che nel 1999 gestivano il 17% dei risparmi delle famiglie italiane, ne hanno oggi il 7% a causa di un deflusso di risorse che negli ultimi tre anni ha sfiorato 100 miliardi di euro. Come nota Rosati (2007), delle 736 banche iscritte all’Albo, solo 226 sono abilitate ad esercitare il servizio di gestione. Il numero delle banche che davvero effettuano gestione è anche più ridotto a causa dell’utilizzo della delega: il 40% delle banche esercenti il servizio di gestione ha delegato le scelte su oltre due terzi del patrimonio gestito.

A metà 2007, l’attività di gestione svolta dai principali 41 gruppi di gestio-ne del risparmio operanti in Italia comprende attività finanziarie per oltre

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1.107 miliardi di euro. I gruppi, principalmente di origine italiana, sono com-posti da società con sedi in Italia e con sedi all’estero. 30 dei 41 principali gruppi gestiscono il 92,6% delle masse complessive e appartengono formal-mente a gruppi bancari (76,8%) o assicurativi (15,8%)2. I primi cinque gruppi gestiscono il 60,1% del patrimonio complessivo e, ad eccezione del gruppo Generali, oltre la metà delle gestioni sono costituite da OICR (in percentuali che variano tra lo il 57% e il 63%). Le caratteristiche dei primi cinque gruppi sono contenute nella Tavola 1:

(*) in gestioni patrimoniali individuali e collettive (OICR + GPF retail + GPM retail + Gestioni di patrimonio previdenziali + Gestioni di patrimoni assicurativi + Altre Gestioni)al lordo delle duplicazioni degli oicr di gruppo

(^) comprensivi dei fondi del gruppo Banca Lombarda incorporato in UBI BANCA il 1/4/07

Per stimare l’apertura di questi gruppi alla distribuzione di prodotti esterni, si può osservare la quota di OICR captive utilizzate nelle gestioni comuni-cata per l’analisi mensile di Assogestioni denominata Mappa del risparmio gestito. La tavola seguente mostra come nel corso degli ultimi anni si sia assistito ad una graduale riduzione della rilevanza degli OICR captive per alcuni gruppi:

2 Il valore di 92,6% scende a 89,2% se si riclassificano i gruppi considerando appar-tenente ad un gruppo bancario Arca SGR (+2,8%), società non appartenente ad alcuni gruppo, ma il cui azionariato è composto principalmente da banche, e considerando indipendente Anima SGR (-0,6%), società che, pur appartenendo ad un gruppo banca-rio, è quotata in Borsa, e Fideuram SGR (-5,6%), in virtù della sua passata quotazione.

EURIZON FINANCIAL GROUP

PIONEER INVESTMENTS -Gr. UNICREDITO IT.

LE ASSICURAZIONI GENERALI

Gr. CREDIT AGRICOLE - Gr. BANCA INTESA

GRUPPO UBI BANCA

TOTALE

MEDIA

MIN

MAX

DEV. STD.

191.625 40,4% 107,206 261 42,91% 5,36% 41,76% 1,92% 4,98% 3,07%

171.341 42,2% 94.082 147 29,93% 6,80% 34,69% 0,00% 7,48% 21,09%

134.418 87,1% 13.795 52 28,85% 11,54% 38,46% 3,85% 11,54% 5,77%

121.368 36,6% 81.565 296 32,09% 5,07% 35,81% 4,39& 12,50% 10,14%

47.377 43,4% 29.279 84 35,71% 13,10% 32,14% 2,38% 10,71% 5,95%

1.107.977 45,0% 657.698 3.449

27.024 38,7% 8.654 45

362 0,0% 5 1

191.625 100,0% 107.206 296

45.372 28,5% 18.898 54

Patrimonio gestito (*)al 30/6/2007

Mln. di eurodi cui % Gestioni

individuali

Patrimonio(mln. euro)

NumeroRipartizione in % del numero di fondi

Azionari Bilanciati Obblig. FlessibiliFondi hedge

Fondi di liquidità

Fondi promossi al 31/3/07

% di OICR captive 30/06/2004 30/06/2005 30/06/2006 29/06/2007

EURIZON FINANCIAL GROUP 91,1% 89,5% 85,4% 78,4%

PIONEER INVESTMENTS - Gr. UNICREDITO IT. 98,6% 98,1% 96,5% 92,3%

LE ASSICURAZIONI GENERALI 82,5% 74,0% 57,7% 37,3%

Gr. CREDIT AGRICOLE - Gr. BANCA INTESA 99,9% 82,9% 76,8% 61,6%

GRUPPO UBI BANCA 84,6% 75,4% 69,6% 64,3%

TOTALE 85,4% 78,7% 73,0% 66,5%

tavola 1

tavola 2

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Allargando l’indagine, si sono ripartiti i gruppi censiti in tre fasce a secon-da dell’apertura al multimanager:

- Apertura completa: % di OICR non captive inseriti nelle gestioni >50%

- Apertura parziale: % di OICR non captive inseriti nelle gestioni compresi tra il 10 e il 50%

- Chiusura: % di OICR non captive inseriti nelle gestioni <10%

Per rendere omogeneo il perimetro di riferimento, si è costituito un cam-pione chiuso composto dai soli 29 gruppi esistenti e partecipanti per tutto il periodo considerato. In questo modo non si considerano i gruppi nati più recentemente, che dovrebbero utilizzare in quota maggiore fondi non cap-tive. Le caratteristiche del campione chiuso sono simili a quelle del campione aperto: il peso delle gestioni effettuate da gruppi bancari o assicurativi rima-ne intorno al 90% (93,5%). Gli OICR captive utilizzati dai gruppi componenti il campione chiuso passano dall’86,4% nel 2004 al 69% nel 2007. Nel corso degli anni si è assistito mediamente ad un’apertura dei diversi gruppi all’uso di fondi non captive: diminuiscono infatti i gruppi Chiusi e quelli che hanno un’Apertura parziale ed aumentano i gruppi con Apertura completa.

Ponderando il patrimonio tra i gruppi bancari, assicurativi e indipendenti si osserva il cambiamento della situazione nel corso degli ultimi tre anni.

Numero di gruppi suddivisi 30/06/2004 30/06/2005 30/06/2006 29/06/2007per “apertura agli OICR non captive

Chiusura 9 6 4 5

- di cui bancari 6 4 2 3

- di cui indipendenti 3 2 2 2

Apertura parziale 11 15 14 10

Apertura completa 9 8 11 14

N° gruppi complessivi 29 29 29 29

30-giu-04 Patrimonio gestito Apertura completa Apertura parziale Chiusura Totale

Gr. Assicurativo 109.269 12,5% 27,18% 72,82% 0,00% 100,00%

Gr. Bancario 706.658 80,6% 2,69% 29,56% 67,75% 100,00%

Gr. Indipendente 61.261 7,0% 61,34% 11,82% 26,83% 100,00%

TOTALE 877.187 100,0% 9,84% 33,71% 56,45% 100,00%

29-giu-07 Patrimonio gestito Apertura completa Apertura parziale Chiusura Totale

Gr. Assicurativo 174.960 16,5% 100,00% 0,00% 0,00% 100,00%

Gr. Bancario 813.355 76,9% 12,68% 61,39% 25,93% 100,00%

Gr. Indipendente 69.265 6,5% 51,05% 12,37% 36,58% 100,00%

TOTALE 1.057.580 100,0% 29,64% 48,03% 22,34% 100,00%

tavola 3

tavola 4

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I dati sono quindi coerenti con alcune recenti analisi che mostrano la sempre maggior rilevanza della cosiddetta “architettura aperta” nel caso italiano, si veda ad esempio McKinsey (2007).

Occorre infine ricordare, per dare un’immagine completa degli “economi-cs” delle società ed utilizzando dati apparsi su Il Sole 24 Ore del 18 ottobre 2007, che le commissioni attive registrate dalle prime 18 s.g.r. hanno rag-giunto nel 2006 una cifra pari a 4,5 miliardi di euro mentre quelle passive, vale a dire quelle che la Sgr hanno retrocesso ai proprietari, sono state pari a 3,4 miliardi. Una buona parte delle commissioni non rimangono quindi all’interno delle s.g.r., ma vengono retrocesse a banche ed assicurazioni. Peraltro, nel 2006 l’utile netto aggregato delle prime 18 s.g.r. è stato pari a 482 milioni di euro che sono stati utilizzati per pagare dividendi per un am-montare di 458 milioni. In sostanza, gran parte delle risorse disponibili non restano a disposizione delle società che le producono.

In sintesi, le caratteristiche principali della situazione corrente sono le seguenti:

- gli investitori non pagano esplicitamente alcun servizio di consulenza fi-nanziaria, ma pagano indirettamente tramite la retrocessione da parte delle s.g.r. di alcune commissioni alle banche stesse,

- le s.g.r. retrocedono gran parte delle risorse ottenute sotto forma di ricavi alle banche e pagano in dividendi gran parte degli utili, non avendo quindi risorse sufficienti per investire;

- le banche ricevono quasi 5 miliardi di euro all’anno dalle s.g.r. o sotto forma di commissioni passive o come dividendi.

La situazione esistente quindi presenta oggettivamente varie caratteristi-che di inefficienza:

- non esplicita chiaramente agli occhi degli investitori finali il costo della consulenza finanziaria, che viene percepita come gratuita,

- non lascia risorse alle s.g.r. per investimenti atti a migliorare la qualità della gestione finanziaria,

- non fornisce alle s.g.r. sufficienti incentivi per il miglioramento della qua-lità dei prodotti, che vengono comunque venduti dalle banche tramite vari canali.

3. Produzione e distribuzione di prodotti finanziari

E’ efficiente combinare sotto un’unica struttura proprietaria le attività di gestione e di distribuzione finanziaria? E’ difficile trovare studi che quan-tifichino in maniera diretta la presenza di economie di scala e/o di scopo nell’ambito delle attività di produzione e distribuzione di prodotti finanziari. La poca evidenza disponibile è di tipo qualitativo e si riferisce ad analisi effettuate dagli stessi protagonisti del mercato. La concentrazione di pro-duzione e vendita è generalmente positiva per i profitti. Un rapporto di Bear Sterns (2005) evidenzia come l’Europa solo lentamente tenderà, senza inter-venti dovuti alla regolamentazione, a convergere verso una situazione come quella statunitense (in cui è frequente il caso di vendita di prodotti di terzi), dato che per un conglomerato finanziario è generalmente costoso (in termini

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di opportunità) vendere un fondo comune esterno piuttosto di uno gestito direttamente all’interno del conglomerato.

McKinsey (2004) evidenzia che in Europa la struttura proprietaria ha una relazione con la profittabilità, che è maggiore per gli asset managers as-sociati a istituzioni attive nel private banking, seguiti da quelli associati a banche commerciali, poi da quelli associati a compagnie di assicurazione ed infine da quelli autonomi. McKinsey rileva che solo in parte la differenza di profittabilità è legata al mix di prodotto (vale a dire una maggiore quota di vendite retail); paiono quindi esserci vantaggi legati alla vendita di prodotti a più elevato valore forse grazie a sinergie create dalla vicinanza tra produttori e venditori.

La teoria economica affronta il tema della estensione dei confini dell’im-presa considerando i costi di produzione e i costi di transazione e prevede che in equilibrio emergerà una soluzione di integrazione verticale o di se-parazione a seconda di quale tipo di organizzazione che minimizza i costi complessivi. Ci sono numerosi elementi che devono essere considerati per comprendere quale soluzione è appropriata in varie situazioni, tra cui la com-plessità dei compiti e dell’ambiente, l’incertezza, la necessità di effettuare investimenti non recuperabili. In generale l’integrazione verticale presenta benefici come la maggiore informazione che complessivamente perviene ai soggetti produttori, la riduzione degli incentivi ad esercitare un livello insuf-ficiente di impegno da parte dei distributori, l’allineamento degli incentivi, la possibilità di adattarsi all’ambiente, ma anche costi, legati alla comples-sità organizzativa, alla distorsione degli incentivi associati ad una eccessiva burocratizzazione dell’impresa, alla minore capacità di assorbimento del ri-schio che ricade tutto sugli azionisti dell’impresa integrata invece di essere ripartito tra gli azionisti dell’impresa di produzione e gli azionisti dell’impre-sa di distribuzione.

Nel caso della gestione e della consulenza finanziaria ci sono elementi a favore della separazione:

- un produttore/consulente agisce per risolvere il problema finanziario dell’investitore, sia dal punto di vista della ripartizione dell’investimento tra classi di attività finanziarie sia da quello delle efficienza dei prodot-ti usati per mettere in atto gli indirizzi strategici. In una situazione di separazione ogni parte ha una sua missione ben definita: il consulente pensa all’asset allocation e probabilmente anche ai prodotti che posso-no renderla efficace, il produttore pensa all’efficacia della gestione. Un chiarimento delle due diverse missioni può essere utile dal punto di vista della valutazione della qualità del servizio fatta dal cliente e può quindi aumentare gli incentivi a svolgere bene ciascuno dei due compiti,

- un produttore/consulente assume un rischio complessivo sul risultato del portafoglio, a sua volta risultante dal rischio di assegnazione di una asset allocation sbagliata e dal rischio di cattiva gestione. La separazio-ne assegna ad ogni parte un rischio ben definito, anche se impedisce di sfruttare una eventuale ridotta covarianza tra errori di asset allocation ed errori di gestione. Peraltro, il rischio sostenuto da ogni parte è ridotto dalla possibilità di interagire con più parti: il consulente venderà prodotti di più case di gestione ripartendo il rischio di errori di gestione di ogni singolo produttore, mentre il produttore venderà a più consulenti ripar-tendo il rischio di cattiva asset allocation,

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- un produttore/consulente è maggiormente soggetto al problema di cre-dibilità, in quanto è sempre presente la possibilità che un certo suggeri-mento di asset allocation sia influenzato dalla qualità dei prodotti gestiti. La separazione elimina questo problema ma solo nel caso in cui i criteri di selezione dei prodotti con cui mettere in atto l’asset allocation siano noti e trasparenti per eliminare la possibilità che la vendita sia influenzata da eventuali retrocessioni,

- nel mono-brand, un operatore che dispone di una limitata fabbrica-pro-dotto e di una capillare forza di vendita può suggerire portafogli ineffi-cienti alla clientela a causa di insufficienza della gamma di riferimento (ad esempio non si gestisce un fondo comune specializzato sull’area del Pacifico) e/o a causa di inefficienza relativa dei prodotti finanziari gestiti internamente rispetto a quelli che sarebbero disponibili presso i concor-renti (si vendono fondi comuni caratterizzati da un coefficiente alfa infe-riore a quello dei concorrenti). Il problema di insufficiente gamma sembra ormai essere relativamente circoscritto dal punto di vista quantitativo. Le s.g.r. associate a grandi strutture bancarie italiane dispongono di tanti fondi comuni, che coprono una gran parte dei mercati finanziari rilevanti (mercato azionario domestico, europeo, mercato del reddito fisso statu-nitense e così via)3;

- nel multi-brand, un operatore può essere portato a vendere soprattutto i prodotti della propria fabbrica se il margine di guadagno complessiva-mente generato è più elevato rispetto al guadagno che può essere ottenu-to dal collocamento dei prodotti terzi, oppure può preferire la vendita dei fondi comuni della società X se le retrocessioni da questa praticate sono superiori alle retrocessioni effettuate dalla società Y. Linciano e Marocco (2002) svolgono un’analisi delle retrocessioni nei fondi di fondi con dati relativi al 2001 sostengono che nel regime che si applicava in quel tempo la società che gestisce il fondo di fondi tendevano ad investire percentuali elevate del patrimonio in quote di OICR emesse dalle società con le quali erano stati conclusi accordi di retrocessione e tendevano quindi a selezio-nare i prodotti che garantivano retrocessioni più elevate;

- lo scarso incentivo al miglioramento dell’efficienza della gestione dei fondi comuni e delle metodologie per la consulenza alla clientela, a causa della difficoltà di esaminare la validità di ciascuna delle due attività e della mancanza di un mercato concorrenziale per ogni attività separatamente dalle altre. L’inefficienza gestionale/distributiva può assumere varie for-me, alcune delle quali spesso citate nelle analisi sui conflitti di interesse, ad esempio la presenza di opportunità di collocamento presso i clienti oppure presso i fondi comuni di titoli finanziari che sono nel portafoglio proprietario delle banche ma sono ritenuti indesiderabili dalle stesse, op-pure la mancata ricerca delle migliori opportunità di mercato, ad esempio

3 Semmai il problema in molti casi potrebbe essere ricondotto alla presenza di un eccesso di offerta di fondi, con molte s.g.r. che offrono tutta quanta la gamma possi-bile di fondi comuni. Si tratta però potenzialmente di un problema a livello di utilizzo generale delle risorse del sistema economico ma non certo di un elemento negativo per la concorrenza, che viene anzi massimizzata in questa situazione. Proprio la con-correnza tra le s.g.r. e tra le banche spinge le singole società a dotarsi di un’ampia gamma, per evitare che un cliente venga perso sulla base di un semplice confronto di estensione della gamma di prodotti offerti.

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nel trading, per privilegiare contrattazioni con altre società appartenenti allo stesso gruppo. Il proprietario delle attività di produzione e distri-buzione può avere poco interesse ad investire nel miglioramento della gestione qualora riesca comunque a collocare prodotti finanziari indipen-dentemente dalla loro efficienza. Anche in questo caso le conseguenze negative sono sopportate dai portafogli delle famiglie che ricevono una consulenza insufficiente in merito alle scelte di portafoglio e si trovano ad investire in prodotti inefficienti, particolarmente nel caso mono-brand.

Ci sono però anche elementi a favore dell’integrazione:

- un produttore/consulente può vantare una superiore conoscenza dei prodotti proposti alla clientela finale e questo riduce i costi di acquisizio-ne dell’informazione,

- un produttore/consulente è maggiormente portato ad effettuare inve-stimenti in sistemi informativi presso il singolo punto di vendita dato che può ammortizzare l’investimento nel corso del tempo, mentre un produttore indipendente ha meno incentivo a tale investimento che può addirittura beneficiare i propri concorrenti.

4. il controllo da parte degli investitori

In teoria gli investitori dovrebbero essere in grado di valutare i risultati della distribuzione e della produzione e quindi dovrebbero abbandonare gli ope-ratori meno capaci per affidarsi a quelli migliori. Se l’integrazione verticale fosse inefficiente rispetto a soluzioni alternative, ad esempio la separazione, nuovi operatori perseguirebbero la soluzione più efficiente, creando valore per sé e anche per i consumatori. Nel caso in esame però la libera concorren-za può non funzionare perfettamente. Si può essere scettici sulla capacità di controllo del servizio da parte degli investitori, a causa di fattori quali: (a) la scarsa informazione in merito al portafoglio suggerito e alle alternative di-sponibili sul mercato, (b) la presenza di caratteristiche comportamentali, (c) la presenza di rapporti pre-esistenti con la banca di riferimento e mancanza di alternative concorrenziali e (d) ineliminabili elementi di incertezza nella scelta finanziaria legati a rischi di modello.

Informazione: varie analisi hanno mostrato che gli italiani si informano poco in merito alle scelte finanziarie, per motivi riconducibili alla mancanza di tempo, alla presenza di delega, alla difficoltà di comprensione della materia finanziaria, alla difficoltà di valutare il beneficio atteso dell’informazione, alla limitata fiducia nella indipendenza e veridicità della fonte di informazio-ne. Questa situazione non è del tutto sorprendente quando si rammenti che il mercato finanziario presenta oggettive caratteristiche di difficoltà. Per fare alcuni esempi di queste peculiarità:

a. la valutazione del rendimento atteso di un fondo comune o di una qual-siasi attività finanziaria richiede anni di osservazioni prima di poter giun-gere a conclusioni che siano statisticamente affidabili;

b. i ranking dei fondi comuni dipendono dal benchmark prescelto e l’iden-tificazione di un benchmark non corretto può completamente modificare il ranking stesso;

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c. la distanza di un certo portafoglio dalla frontiera dell’efficienza è eser-cizio spesso opinabile e comunque effettuabile solo da chi disponga di competenze finanziarie e statistiche sofisticate.

La regolamentazione non può fare molto relativamente a questi aspetti cul-turali, che devono invece essere affrontati con iniziative di tipo educativo. La regolamentazione può addirittura avere effetti perversi, quando ad esempio vieta la vendita a certi investitori di determinati prodotti, come gli hedge funds, che per le loro proprietà di efficienza sono presenti in misura mas-siccia nei portafogli di altri investitori. La crescente complessità dei prodotti finanziari rende sempre più difficile pensare che prospetti informativi più immediati e comprensibili possano migliorare la situazione. Nel caso italiano poi l’informazione è minima quando si rammenti che l’investitore non per-cepisce l’esistenza di alcun costo della consulenza, ma solo del costo della gestione.

Comportamento: analisi effettuate nel caso statunitense mostrano la relativa insensibilità degli investitori a certe voci di costo, ad esempio le commissioni di ingresso, e la notevole sensibilità ad altre voci, ad esempio le commissio-ni di gestione. Questo comportamento può essere inefficiente e dannoso perché ad esempio porta i sottoscrittori ad escludere prodotti, come i fondi load, che invece presentano spesso buoni rendimenti proprio perché ten-dono ad attrarre investitori di lungo periodo che minimizzano gli shock di liquidità a cui il gestore del fondo viene sottoposto (shock che sono invece rilevanti nel caso di fondi no-load che vengono comparati e venduti molto spesso da investitori con orizzonte di breve periodo). Altre analisi mostrano la tendenza degli investitori a detenere troppo a lungo titoli o fondi comuni acquistati ad un valore superiore al prezzo corrente oppure ad effettuare un numero eccessivo di transazioni finanziarie con reazioni eccessive alla volatilità di breve periodo dei mercati. Inutile in questa sede approfondire i tanti risultati della finanza comportamentale che illustrano le carenze di comportamento degli investitori al dettaglio.

Altri prodotti: non deve essere dimenticato che la fruizione di servizi tipi-camente associati all’attività bancaria in senso stretto, come ad esempio il conto corrente, la carta di credito e così via, consente di ottenere un grado di fidelizzazione complessiva che può indurre il cliente finale ad accettare un portafoglio finanziariamente inefficiente senza indurlo a cambiare fornitore. Inoltre in presenza di una limitata competizione da parte di altri operatori, gli investitori possono non avere possibilità alternative reali.

Rischi di modello: una corretta asset allocation prevede un complesso pro-cesso che mischia elementi di avversione al rischio, psicologia, analisi della situazione economica corrente, analisi delle passività future. La teoria finan-ziaria non offre indicazioni particolarmente precise in tema di consulenza finanziaria, si veda ad esempio il lavoro su “Household finance” scritto da John Campbell che mostra quanto sia primitivo lo stato delle conoscenze in materia. La letteratura infatti suggerisce una risposta molto precisa ma diffi-cilmente attuabile: la struttura del portafoglio dipende dal grado di avversio-ne al rischio, una variabile estremamente difficile da misurare. La letteratura recente peraltro ha mostrato la rilevanza di altre variabili, come l’orizzonte temporale, la covarianza con i redditi da lavoro, lo scopo di protezione a fronte dell’andamento stocastico di variabili di stato, ma non ha semplificato il quadro, lo ha semmai complicato ulteriormente.

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5. studio di due casi: stati uniti ed israele

5.1 il caso degli stati uniti: i problemi della separazione

5.1.1 la descrizione della struttura

Vale la pena analizzare in dettaglio il caso degli Stati Uniti, che è proprio caratterizzato dalla separazione tra produzione e distribuzione. In quanto segue si sintetizzano analisi effettuate da Reid e Rea (2003). Dagli anni ‘80 c’è stata una dinamica che ha portato le società che sponsorizzano i fondi comuni ad adattare i costi di distribuzione alle caratteristiche dei vari canali distributivi, utilizzando diverse classi di quote per lo stesso fondo. Più in particolare è possibile distinguere tra:

- il canale diretto,

- il canale del supermercato,

- la vendita nell’ambito di piani pensionistici tipicamente a contribuzione definita (classe retirement),

- il canale della consulenza offerta da consulenti finanziati indipendenti (classe indipendente) e il canale della consulenza offerta da esperti che lavorano all’interno di full-service brokers, banche, compagnie di assicu-razione (classi A, B e C a seconda della struttura commissionale).

Il canale diretto: gli investitori acquistano direttamente dal fondo (o me-glio dal transfer agent del fondo). La società che gestisce il fondo non for-nisce consulenza (ma mette in genere a disposizione degli investitori vari strumenti di selezione) e fornisce servizi ricorrenti, ad esempio i rendiconti trimestrali e servizi telefonici. Spesso viene richiesto un valore minimo di investimento per compensare i costi fissi della reportistica.

Il canale del supermercato: emerso nel 1992, si tratta di vendita effettua-ta presso discount brokers che offrono prodotti di varie case di gestione. L’acquirente non paga niente (no-transaction fee program, NTF) perché non riceve alcuna consulenza. Il supermercato offre strumenti di analisi che pos-sono essere usati dagli investitori e soprattutto fornisce una piattaforma che consente facilmente di confrontare le condizioni offerte dai vari fondi, aumentando in questo modo la trasparenza e la concorrenza. Il supermer-cato ha un unico conto per ciascun fondo comune e registra l’investimento effettuato da ogni investitore in ogni fondo. Offre anche servizi legati ad esempio alla reportistica e risponde alle domande degli investitori sui vari fondi. Alcuni fondi remunerano il supermercato tramite le 12b-14 oppure tra-mite un prelievo diretto sugli assets del fondo. Quando gli investitori acqui-stano tramite questo canale fondi che non fanno parte del programma NTF,

4 Le commissioni 12b-1 sono state introdotte nell’ottobre del 1980, in un momento di rande crisi per i fondi comuni statunitensi, per compensare le spese di marketing e distribuzione sostenute dalle società di investimento. Tali costi erano stati giusti-ficati dal fatto che una maggiore spesa di marketing che aumenta gli asset under management consente a tutti i sottoscrittori di beneficiare di maggiori economie di scala. Walsh (2004) sostiene che in effetti gli AUM dei fondi con 12b-1 crescono più velocemente ma mostra che non esitono benefici in termini di riduzioni di costi.

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il supermercato viene remunerato per i servizi offerti mediante commissioni sulle transazioni ad esempio quelle legate al pagamento dei dividendi e alla distribuzione di capital gains. Infine, alcuni supermercati vendono anche a consulenti indipendenti senza alcuna commissione di transazione.

Il canale della vendita nell’ambito di piani pensionistici: si tratta di un canale molto importante, usato nel 2002 dal 62% dei detentori di fondi comuni. I datori di lavoro che offrono queste possibilità ai loro lavoratori si avvalgono di terzi (third-party administrator, TPA) che svolgono il lavoro amministrativo e aiutano l’impresa a preparare le opzioni di investimento per i lavoratori. I TPA inoltre possono svolgere formazione all’interno dell’azienda. I TPA sono a volte pagati interamente dall’impresa e a volte anche dai lavoratori oppure da commissioni incluse nelle spese dei fondi comuni tipicamente nell’ambito delle 12b-1 (classe retirement).

Il canale della consulenza in cui il fondo viene venduto da full-service bro-kers, consulenti finanziari indipendenti, consulenti che lavorano presso ban-che e compagnie di assicurazione: la consulenza è multidimensionale, vale a dire comprende identificazione di obiettivi finanziari, fisco, formazione finanziaria, pianificazione ereditaria, misurazione della propensione al ri-schio. I consulenti si occupano della comunicazione tra fondo e cliente: ef-fettuano le transazioni per conto degli investitori, tengono la contabilità, inviano reportistica periodica al cliente, distribuiscono i prospetti e gli altri documenti che il fondo invia al cliente. I consulenti sono remunerati in vari modi, mediante varie classi di quote:

- classe A: prevede il pagamento sia di un load iniziale (di circa l’1%) da par-te dell’investitore (che sottoscrive nuove quote, generalmente non si applica agli switch) al distributore (un’entità legalmente separata ma generalmen-te affiliata al consulente del fondo) che retrocede quasi tutto al consulente finanziario che ha venduto il fondo, sia il pagamento di una commissio-ne 12b-1 (tipicamente tra 25 e 35 pb) che serve a compensare il venditore dell’assistenza continua data durante il periodo di mantenimento dell’inve-stimento. Strategic insight (2007) stima che l’80% delle vendite di classe A comprenda un’eliminazione del load iniziale;

- classe B: prevede sia il 12b-1 (circa 1%) sia il pagamento di un costo all’uscita (5% il primo anno con successivi decrementi di 1% per ogni ulte-riore anno di mantenimento; al termine del quinquennio la classe B diventa classe A). Quando la classe B viene venduta il distributore paga al consulente una upfront fee simile a quella pagata sulla classe A, inoltre il consulente riceve 25 pb della 12b-1 che rimane al distributore per soli 75 pb, che ven-gono usati per finanziare il finanziamento necessario per pagare l’upfront fee. Strategic Insight (2007) nota che la classe B sta diventando residuale ed interessa circa il 2-3% degli assets complessivi;

- classe C: è simile alla classe B, anch’essa prevede il pagamento di costi periodici legati alla regola 12b-1 per circa 100 pb inoltre prevede un costo di uscita di 1% limitato al primo anno. Il distributore gira entrambe le somme di denaro immediatamente al consulente;

- classe indipendente: prevede un pagamento diretto dal cliente al consu-lente di circa 1-2% del valore dell’investimento.

Come si vede esiste una differenza sostanziale tra classi A, B e C da una parte e classe indipendente dall’altra. La differenza tra classi A, B e C è soprattutto legata all’orizzonte temporale dell’investitore, un elemento particolarmente

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importante come evidenziato da Chordia (1996). Chordia mostra infatti che la struttura di costo, in particolare la quota di costo pagata immediatamente tramite somma una tantum di entrata, influenza la scelta dell’investitore. Investitori con breve orizzonte di mantenimento saranno meno attratti da fondi che fanno pagare una parte elevata di costo come somma una tantum iniziale. A sua volta, l’orizzonte temporale degli investitori influenza la ge-stione del fondo. Un fondo che ha investitori di breve orizzonte temporale sarà influenzato da notevoli shock di liquidità e dovrà mantenere una parte più elevata del patrimonio in liquidità, con una penalizzazione del rappor-to tra rendimento atteso e rischio. Il fondo dovrebbe quindi selezionare la struttura di costi più adatta per il tipo di gestione che si prefigge.

5.1.2 vantaggi e svantaggi

Il sistema statunitense è caratterizzato dalla separazione e da una ricca strut-tura di consulenza. Come tale, esso viene spesso preso a modello per altri sistemi. In effetti, nel corso del tempo c’è stata una diminuzione del costo della distribuzione, grazie a vari elementi tra cui l’introduzione del canale dei 401(k), la diminuzione di vendite di fondi con load iniziale e la riduzione del costo della consulenza. Secondo una ricerca di Investment Company In-stitute i costi di distribuzione sono scesi del 60% per le classi di fondi comuni con load iniziale e del 43% per i fondi obbligazionari tra il 1980 e il 20015.

Alcune ricerche sostengono però che la discesa del costo della distribu-zione è andata a discapito della qualità della stessa. L’introduzione di classi multiple, analizzata da Nanda, Wang e Zheng (2003), ha coinvolto sottoscrit-tori con orizzonti temporali brevi e maggiore sensibilità alla performance. Queste caratteristiche sono state negative per la performance stessa dei fon-di comuni, che è scesa di circa 1,4% all’anno dopo l’introduzione delle classi multiple. Tale riduzione di performance ha ovviamente ridotto i flussi di rac-colta. L’innovazione di canale distributivo quindi si è solo parzialmente tra-sformata in un ampliamento del mercato: attraendo investitori che generano maggiori costi di gestione, ha allontanato alcuni degli investitori originari con un più elevato orizzonte temporale, meno predisposizione alla gestione attiva e maggiore attenzione ai costi di gestione. In sostanza, la minor quali-tà della distribuzione ha influenzato negativamente la performance ponendo maggiori difficoltà dal punto di vista della gestione e questo ha allontanato una parte della clientela originaria.

Dal punto di vista dell’efficacia della distribuzione, Bergstresser, Chalmers e Tu-fano (2006) mostrano che nel 2002 gli investitori in fondi comuni hanno pagato 3,6 miliardi di dollari per front load fees, 2,8 in back end loads, 8,8 in 12b-1 fees e 23,8 per commissioni di gestione e altre spese operative. Gli autori ritengono che i costi del sistema distributivo siano superiori ai benefici in quanto:

(a) i fondi venduti tramite consulenza non hanno costi più bassi di quelli venduti direttamente,

(b) i fondi venduti tramite consulenza hanno performance corrette per il rischio inferiori a quelle dei fondi venduti direttamente,

5 Il caso italiano è diverso, almeno se valutato sulla base delle analisi della Consob, che nella Relazione per l’anno 2004 sosteneva che “nel 2001-2003 i costi a carico degli Oicr armonizzati hanno registrato un incremento passando dall’1,01% all’1,18% della massa gestita”.

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(c) in aggregato, il rendimento dell’asset allocation implicitamente propo-sta dalla consulenza non è superiore a quello dell’asset allocation associata alle scelte dirette di investimento,

(d) esiste un legame tra remunerazione ricevuta (tramite 12b-1 e tramite front end loads) e vendite da parte dei consulenti: un aumento di 25 punti base nel 12b-1 è associata ad un aumento del 9% delle vendite. Il legame positivo tra flussi e 12b-1 era già stato riscontrato da Barber, Odean e Zheng (2003) e da Zhao (2003),

(e) l’expense ratio è negativamente legato alle vendite nel canale diretto ma non esiste legame nel canale di consulenza.

Christoffersen, Evans e Musto (2004) studiano la differenza tra consulenti indipendenti (unafilliated brokers) e consulenti che fanno parte di un gruppo che gestisce anche fondi comuni (captive brokers) e che quindi vendono so-prattutto prodotti del gruppo. Gli autori trovano che:

(a) gli investitori pagano costi più elevati per usufruire del servizio dei primi,

(b) i clienti di entrambi i tipi di broker sono più sensibili alla cattiva perfor-mance dei fondi detenuti rispetto a coloro che acquistano da soli i fondi

(c) nel caso di disinvestimento i captive brokers tendono a vendere ai clien-ti fondi che fanno parte della stessa famiglia.

Interessanti sono le osservazioni formulate da una commissione no-minata dal NASD nel 2003, formata da esponenti dell’industria, accade-mici e giuristi, per collaborare con la SEC su vari temi legati alla gestio-ne e alla vendita di fondi comuni. La Commissione ha sostenuto in un suo documento che la SEC dovrebbe operare per rendere maggiormente comprensibili e visibili agli investitori finali i costi nascosti e i conflitti di interesse dei fondi comuni di investimento. Tra i costi nascosti si menzionano:

(a) i revenue sharing agreements, che hanno luogo quando la società di ge-stione paga a un consulente di vendita delle somme in denaro non riportate in alcun prospetto, date in cambio di visibilità per la vendita,

(b) i differential cash compensation, che hanno luogo quando un consulen-te (broker) paga maggiormente i suoi affiliati per la vendita di certi prodotti ad esempio quelli della società di gestione che ha anche una quota di pro-prietà del consulente stesso.

Citando direttamente: “the task force recommends that the SEC address these concerns by requiring broker-dealers to disclose these incentives to their customers in a simple, understandable way. Disclosure of revenue sha-ring and differential cash compensation arrangements would enable inve-stors to ask informed questions and evaluate whether a registered repre-sentative’s recommendation may be inappropriately influenced by these arrangements”.

Queste ricerche quindi dimostrano che anche un sistema che separa produzione e distribuzione può essere affetto da problemi di vario tipo, relativi alla trasparenza, all’efficacia dei canali distributivi e al costo degli stessi.

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5.2 israele: i rischi di una riforma drastica

Il documento su Structural reform in the capital market contenuto nell’Inter-ministerial committee report, evidenzia la situazione esistente prima della riforma, in particolare notando che le prime 2 banche (Poalim, Leumi) dete-nevano il 60% del mercato dei depositi, il 75% del mercato dei fondi comuni, il 69% del mercato dei fondi pensione, l’88% del mercato dell’underwriting. Questa situazione era ritenuta negativa perché concentrava in pochi decisori la scelta dei finanziamenti, riduceva la concorrenza, aumentava il rischio per il sistema nel suo complesso, frenava lo sviluppo dei mercati finanziari. Inoltre, dal punto di vista dell’asset management, rafforzava l’incentivo delle banche a consigliare ai clienti l’investimento nei propri prodotti, consentiva alle banche di trasferire a fondi comuni e fondi pensione le attività finanzia-rie sottoscritte in fase di collocamento, permetteva alle banche di dirigere la domanda dei fondi verso le imprese che sono indebitate con il sistema bancario, consentiva ai fondi comuni di ricevere i servizi dal sistema banca-rio senza cercare venditori alternativi e più efficienti. La situazione israeliana quindi era molto peculiare, a causa della ridotta dimensione del mercato finanziario locale, e poco confrontabile con quella italiana odierna.

Sokoler (BIS paper no 28, 2006) descrive i conflitti di interesse esistenti e cita lo State Comptroller che afferma “the Chinese walls set up by the Bank of Israel and the Ministry of Finance are not strong enough to overcome conflicts of interest and entail regulatory cost”6. La relazione per il 2003 dello State Comptroller evidenzia esempi in cui i conflitti di interesse si sono concretamente manifestati, mostrando che una parte rilevante degli investi-menti dei fondi pensione sono stati diretti verso società detenute dalle (o collegate alle) banche e che servizi di custodia e brokeraggio sono stati svolti a pagamento dalla stessa banca che controlla il fondo.

Come conseguenza, nel luglio del 2005 è stato scelto di provare un espe-rimento di separazione forzosa delle attività di produzione e distribuzione. Si è preferita una soluzione drastica ad alternative meno radicali: “alternative solutions that focus on the compulsory outsourcing of the management of financial assets while permitting banks to retain ownership, do not eliminate potential conflict of interest, and artificially separate accountability to fund members from powers of management. Such an artificial separation is not viable and is bound to become meaningless over time”.

I principi fondamentali della riforma proposta da Bachar sono così riassumibili:

- aumento della competizione nell’asset management mediante lo svilup-po di gestioni alternative a quelle bancarie e la separazione tra banche e sgr, effettuato mediante il divieto per una banca di detenere più del 10% in una società che gestisce fondi comuni o fondi pensione (percentuali da raggiungere gradualmente nel giro di 2-3 anni per le banche grandi ed entro 7 anni per quelle medio-piccole),

- divieto di detenzione di più del 20% del mercato dei fondi comuni e del 15% del mercato dei fondi pensione,

6 Uno studio di Bar e Kosanko (2004) che mostra come nel caso israeliano i rendimenti dei titoli che sono stati suggeriti dagli analisti indipendenti nei 150 giorni successivi alla raccomandazione sono pari a 4,5% mentre i rendimenti dei titoli suggeriti da ana-lisi legati al sistema bancario è nullo nello stesso periodo temporale.

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- aumento della facilità di switch tra prodotti e banche,

- possibilità per le banche di vendere prodotti pensionistici ed assicurativi nell’ambito però di una regolamentazione della attività di consulenza e marketing, attività che dovranno essere soggette a licenza:

I proprietari di una società di consulenza non potranno avere più del 10% di controllo indiretto (5% diretto) in una istituzione. Si consente a chi effettua consulenza di ricevere retrocessioni (chiamate distribution fees) dalle socie-tà che gestiscono i prodotti venduti purché siano trasparenti e note, mentre non sono previste retrocessioni per prodotti assicurativi del ramo vita. Le banche potranno vendere prodotti assicurativi e pensionistici solo se non deterranno una quota superiore al 10% di proprietà di una compagnia di assicurazione.

Lo scenario futuro per il sistema finanziario israeliano immaginato da questa proposta è così descritto:

a. classiche banche commerciali, specializzate anche nella consulenza fi-nanziaria e nella distribuzione di prodotti pensionistici ed assicurativi,

b. società assicurative del ramo vita life, produttrici di prodotti pensioni-stici e di rendite

c. investment banking.

Le relazioni della Banca Centrale evidenziano che le banche nel corso del 2005 si sono rapidamente liberate delle partecipazioni nei fondi comuni. Le quote delle 5 principali banche nella gestione del risparmio previdenziale sono scese dal 52% del 2003 al 19% del 2006 mentre per le compagnie di assicurazione le quote sono rispettivamente 21% e 47%. Il risultato principale è stato quin-di quello di modificare in modo importante la rilevanza relativa di banche e compagnie di assicurazione, al punto che nel suo rapporto del 2006 la Banca Centrale stessa riconosce che “The quick restructuring of the financial system makes it difficult at this stage to determine whether the main goals of the reform, intended among other things to reduce concentration and make the system more competitive, has been attained…insurance companies’ control of the long-term savings industry has intensified greatly. Thus, rapid action is ne-eded to toughen the regulation of these companies and adjust it to standards that are conventional vis-à-vis the banking system”.

Per quanto riguarda i fondi comuni, il sistema bancario è uscito in pochi mesi dal mercato. Circa metà delle attività sono state acquistate dalle com-pagnie di assicurazione e metà da società straniere. Il commento della Banca

Consulenza Marketing

No Si

Si No

Non deve consigliare Può riguardare singoli prodotti singoli prodotti

Si Si

Fornitori di prodotti pensionistici (compagnie di assicurazione, fondi pensione, provident funds)

Banche

Requisiti di prudenza

Distribuzione

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Centrale è in questo caso: “In regard to the mutual fund market too however it is difficult to analyze the results of the reform as long as the structure of the system has not yet stabilized. Indeed, in the first post-reform year, the share of money managed by mutual funds decreased significantly due to withdrawals of NIS 20 billion (out of 125 billion at the beginning of the year). The magnitude of money flows in the public’s portfolio of financial assets underscores the need to strengthen the financial consultancy system so that customers may obtain objective advice as law requires”.

Infine, per quanto riguarda la separazione tra marketing e consulenza “it was determined that a bank that sells off the provident funds that it mana-ged may serve as a pension consultant...Since the banks quickly sold off their provident funds and met the terms of the law, most of them moved quickly to make preparations for entry into the pension consulting indust-ry…For the time being, there is much uncertainty about how the pension marketing/consulting market will settle in terms of its players…there is also no certainty about the success of the attempt to erect a wall between the consulting and marketing functions and about whether financial companies can serve as consultants when the fees are paid only by customers and not by producers”.

Come si vede i risultati sono preliminari e difficili da valutare, ma si nota chiaramente l’elevato costo di transizione associato ad una riforma così ra-dicale delle attività sia di produzione sia di consulenza.

6. conclusioni: implicazioni per il caso italiano

6.1 la distribuzione

La situazione esistente è caratterizzata in Usa e Inghilterra dalla presenza predominante di un settore di consulenti indipendenti mentre in Europa (non solo in Italia, ma anche in paesi come Germania, Francia e Spagna) la distri-buzione avviene soprattutto tramite banche ed assicurazioni, che tendono a vendere soprattutto fondi comuni gestiti interamente. Le criticità più elevate non sembrano riguardare tanto il conflitto di interessi nelle scelte di portafo-glio dei fondi, anche grazie alla grande attenzione dedicata a questo aspetto dalla regolamentazione, quanto:

(a) il grado di efficienza dei prodotti inseriti nei portafogli dei clienti, che in un sistema integrato possono essere scelti sulla base dell’identità del pro-duttore più che della sua capacità di produrre performance,

(b) la confusione esistente nella mente dell’investitore in merito al costo relativo (ed alle relative responsabilità in termini di risultato finale) di attività di stretta gestione finanziaria dei prodotti inseriti nel portafoglio ed attività di indirizzo e consulenza in merito alla struttura del portafoglio (ad esem-pio il tema della ripartizione dell’investimento tra grandi classi di attività finanziarie). Nella situazione attuale la banca non pare fornire consulenza finanziaria vera e propria al cliente al dettaglio (almeno, se il termine di con-fronto è la descrizione dell’attività di consulenza che viene effettuata negli Stati Uniti, vale a dire “identify financial goals such as retirement security, tax management, education savings, and estate planning, assess the risk

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tolerance of their clients and select mutual funds and other investment sto meet these goals”, si veda ICI (2004)) ma vende prodotti finanziari senza apparentemente vendere un servizio di consulenza che pare essere gratuito. In realtà come è noto il cliente paga commissioni al gestore del fondo che vengono quasi interamente retrocesse (o come commissioni passive o come dividendi) alla banca. Quindi in molti casi attualmente l’investitore percepi-sce la banca come istituzione amica che presta gratuitamente un servizio di indirizzo di investimento e la s.g.r. come istituzione predatrice i cui servizi di gestione sono molto cari e spesso, di nuovo stando alla percezione pro-mossa dai media, inefficienti.

La conseguenza di (a) e (b) è che l’Italia ha investito poco nella qualità delle gestioni (ne è prova anche il limitato numero di hedge funds single manager promossi in Italia e, paradossalmente, anche dall’ampio uso di consulenti stranieri per la gestione dei fondi di hedge funds), ma è riuscita comunque ad inserire i prodotti del risparmio gestito nei portafogli dei clienti, a volte persino ignorando le reali esigenze di avversione al rischio e di diversifica-zione da parte della clientela. Difficile non essere d’accordo sulle necessità di cambiamento.

La normativa MiFID aumenta la trasparenza. Il cliente ha maggiori possibi-lità di comprendere quanta parte del costo complessivo remunera la “consu-lenza finanziaria” e quanta parte la gestione del fondo. Proprio in riferimento a ciò, la Relazione della Consob per l’anno 2006 sosteneva che “gli inter-mediari dovranno effettuare scelte strategiche sui segmenti di mercato nei quali specializzarsi, evidenziando chiaramente il contenuto e i costi delle di-verse prestazioni fornite al cliente”. In particolare, mentre al momento molti clienti dei fondi comuni e dei prodotti che utilizzano fondi comuni ritengono probabilmente che tutto il costo di gestione annuale remuneri l’attività di gestione7, con la MiFID dovrebbe diventare chiaro che una quota rilevante del costo remunera in realtà attività di vendita e consulenza. In questo modo il cliente potrà valutare se la consulenza ricevuta nel momento della vendita e l’assistenza successiva siano plausibilmente legate al costo delle stesse attività.

Le conseguenze sono molto rilevanti. L’acquirente di un fondo azionario per un valore di 10mila euro, che ha una commissione annua di 1,5% proba-bilmente ritiene al momento che 150 euro all’anno remunerino il gestore. Secondo l’aspettativa quindi il gestore dovrebbe attrezzarsi per produrre rendimenti superiori a quelli del benchmark di riferimento per compensare i 150 euro e anche per produrre ulteriore valore che giustifichi l’acquisto del fondo comune. Supponiamo che nel regime post-MiFID emerga che 120 euro remunerano l’attività di vendita e 30 quella di gestione. E’ plausibile pagare 120 euro l’anno per l’investimento in quel fondo comune? I 120 euro vengono pagati perché le metodologie di scelta tra fondi davvero riescono a produrre un consiglio adeguato? Se il fondo viene detenuto per tre anni, quanto valore deve essere creato dalla consulenza e dall’assistenza post-vendita per giustificare un costo complessivo di 360? Si tratta della domanda

7 La Relazione della Consob per l’anno 2004 evidenzia che la remunerazione dei di-stributori costituisce oltre il 70% del costo sostenuto direttamente e indirettamente dall’investitore in quote di fondi. Le commissioni di sottoscrizione e di rimborso sono retrocesse interamente al collocatore,mentre le commissioni di gestione e di incentiva-zione sono retrocesse in media, rispettivamente, nella misura del 73 e 50%.

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che l’investitore si porrà in misura sempre maggiore con il crescere della consapevolezza finanziaria.

Le banche dovranno attrezzarsi per il nuovo scenario. Knuutila, Puttonen e Smy-the (2006) analizzano il caso finlandese e mostrano l’esistenza di una differenza tra fondi venduti dalle banche e fondi venduti da altri canali in quanto i primi sono caratterizzati dalle cinque stelle di Morningstar (risultato già evidenziato da Kor-keamaki e Smythe (2004)) meno frequentemente dei secondi. La differenza è tale che i fondi venduti tramite canali non bancari con cinque stelle attraggono l’80% della raccolta mentre non c’è relazione per quelli venduti dalle banche.

Nel nuovo mercato cambieranno probabilmente i fattori rilevanti per la vendita. Investitori di diversi mercati finanziari sono diversamente sensibili a varie caratteristiche importanti di ogni fondo, tra cui la performance passata, il costo e la ripartizione del costo tra varie voci altri elementi di presentazio-ne. Una ricerca dell’Investment Company Institute (Understanding investor preferences for mutual fund information, Sandra West e Victoria Leonard-Chambers, ICI, 2006) per gli Stati Uniti mostra che prima di acquistare un fondo comune gli investitori acquisiscono informazioni su vari aspetti, in particolar modo sui costi e sui rendimenti ma anche su rischi, tipi di attività finanziarie detenute, rendimento rispetto ad indici di riferimento. Più rara-mente si informano sulla composizione del consiglio di amministrazione, sul manager del portafoglio, sulle politiche di voto. Inoltre consultano varie fonti, tra cui in primo luogo i consulenti, utilizzati dal 75% degli investitori. Nel caso europeo le ricerche sono poche.

Nel futuro la distribuzione dovrà dotarsi di strumenti di analisi sistematica di performance in misura superiore rispetto a quanto fatto oggi, in quanto in un’architettura maggiormente aperta ci si troverà a scegliere tra un’ampia offerta. In misura superiore al passato, la consulenza diventerà esplicitamente responsabile per l’asset allocation. Tra l’altro in questo campo la distinzione tra produzione e distribuzione è molto labile. Nel caso italiano, potrebbe es-sere immaginabile avere fabbriche prodotto che si dedicano in misura prio-ritaria alla individuazione di forme sofisticate di ingegneria finanziaria per il miglioramento della consulenza alla clientela e che utilizzano come blocchi di base singoli prodotti di gestione di terzi. In sostanza, il paese si sposterebbe dalla gestione di semplici prodotti finanziari alla gestione di prodotti intelli-genti che siano in grado di soddisfare almeno parzialmente alcune necessità della clientela dal punto di vista del portafoglio nel suo complesso. Vale la pena ricordare che Fidelity ha puntato proprio su prodotti per la soluzione di problemi pensionistici per aumentare la raccolta, con risultati all’altezza delle aspettative, anche grazie all’investimento in ricerca e in prodotti informati-ci utilizzabili dai sottoscrittori. Georgakopoulos (2006) evidenzia che Fidelity amministra 2.500 miliardi di dollari e che la quota degli stessi associata al tema dell’investimento pensionistico è fortemente cresciuta negli anni8.

8 Una appropriata consulenza finanziaria porterebbe probabilmente ad una drastica ri-duzione della domanda di titoli italiani, in particolar modo per quelli azionari. Gli inve-stitori italiani sono infatti caratterizzati da un elevato home bias, che dovrebbe essere ridotto nel caso di una appropriata consulenza, non importa se condotta da banche o da consulenti indipendenti. La conseguente riduzione per la domanda di fondi comuni azionari italiani potrebbe essere rilevante. Anche i titoli obbligazionari potrebbero sof-frire nella misura in cui ci si orientasse verso una diversificazione almeno nei confronti dei paesi dell’area dell’euro.

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Nell’analizzare le implicazioni per la distribuzione occorre ricordare un risul-tato consolidato nella letteratura finanziaria: nel lungo periodo la maggior parte del rendimento, circa l’80% è legato all’asset allocation strategica e non a quella tattica. Questo ricorda la rilevanza di una corretta allocazione tra classi di attività finanziarie più che tra singoli titoli di ogni classe. Tale compito è soprattutto assegnato alla distribuzione, sebbene in alcuni pro-dotti finanziari ci siano già componenti di asset allocation.

Nel futuro potrebbero subentrare problemi relativi alla willingness to pay per la consulenza da parte degli investitori. Negli Usa il costo della consu-lenza è stimabile in 1-2% dell’investimento all’anno. Se anche in Italia la fee di consulenza diventasse pari all’1% sarebbe necessario procedere alla revisione dei costi dei fondi comuni. Poniamo che oggi un cliente che in-veste 30% in liquidità, 50% in reddito fisso e 20% in azioni abbia un costo medio di 0,3%+0,9%+0,46%=1,66%. Post-MiFID, se il costo di gestione dei fondi comuni italiani venisse abbassato significativamente si potrebbe avere un costo fisso di circa l’1% per la remunerazione della consulenza più un costo di gestione di 0,12%+0,34%+0,18%=1,64%, con un costo complessivo più elevato di quello corrente. In equilibrio il maggior costo dovrebbe essere controbilanciato da maggior valore creato per i clienti, appunto tramite una migliore asset allocation.

6.2 la gestione

Le autorità di regolamentazione hanno indicato con chiarezza al sistema la strada della separazione, seppure sotto varie forme. La Consob nella Rela-zione per l’anno 2006 nota che “le diverse componenti del costo del servizio pagato dall’investitore finale, spesso ripartite tra produttore e distributore, dovranno essere più trasparenti e corrispondenti ai servizi effettivamente resi. Ne deriva una spinta verso architetture distributive aperte a più fonti di produzione di strumenti finanziari con vantaggio per gli investitori. L’in-dustria italiana del risparmio gestito – tuttora legata ai canali distributivi del gruppo di appartenenza – potrà beneficiare di maggiori spazi di autonomia operativa e di maggiori incentivi alla innovazione produttiva. Condizione per-ché questo processo si realizzi è l’adozione di strutture di governo societario che garantiscano l’indipendenza dalle logiche di gruppo, pur in assenza di modifiche degli assetti proprietari”. Nelle Considerazioni Finali della relazio-ne per il 2006 il Governatore della Banca d’Italia afferma che “le strategie del risparmio gestito restano ancora in gran parte subordinate a quelle delle società controllanti: la riduzione del conflitto di interessi insito nell’intreccio azionario con banche e assicurazioni, la concentrazione degli asset mana-gers sono vitali per la crescita del settore…architettura aperta, netta separa-zione societaria, finanche nella proprietà, sono di beneficio per gli azionisti delle banche, per i clienti dei fondi”. Quali sono gli scenari possibili?

scenario 1: mantenimento della attuale struttura proprietaria e debole concorrenza.

La presente struttura proprietaria manterrebbe l’incentivo da parte del col-locatore di vendere i “prodotti di casa” a causa della possibilità di ricevere retrocessioni. In questo caso il sistema non cambierebbe molto. I collocatori potrebbero continuare a vendere i prodotti di casa ma i gestori non avreb-

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bero incentivi, né soprattutto risorse, per investire nel miglioramento della qualità. I collocatori del resto, non essendo minacciati da forze alternative indipendenti di peso rilevante, almeno nel breve periodo, potrebbero non avere l’incentivo a migliorare in maniera drastica la qualità della interazione con gli investitori per trasformarla da distribuzione in consulenza (predispo-sizione di personale attrezzato e software adeguato e soprattutto utilizzo del tanto tempo necessario per effettuare un’efficace asset allocation a livel-lo di singolo cliente).

scenario 2: mantenimento della attuale struttura proprietaria ma forte concorrenza.

Esiste certamente la possibilità che la proposizione commerciale attuale non sia sostenibile nel medio periodo e che la competizione da parte di società indipendenti e dei fondi esteri fornisca sufficienti elementi di incentivo per procedere con decisione verso “l’architettura aperta”. In questo caso la ban-ca dovrebbe assumere direttamente la gestione dei rapporti con i clienti e vendere tutti i fondi migliori disponibile sul mercato internazionale. In que-sto caso l’industria italiana delle s.g.r. verrebbe presumibilmente fortemente penalizzata dal momento che crescerebbe fortemente la presenza di fondi esteri. Il processo sarebbe però probabilmente lungo.

scenario 3: immediata separazione della struttura proprietaria.

Una modifica della struttura proprietaria sembra essere il miglior rimedio, in teoria, per modificare la situazione esistente. Peraltro l’esperienza di Israele è molto illuminante sui rischi di breve periodo. In Italia non sarebbe possibile costringere le banche a vendere le s.g.r. per farle acquistare dalle compagnie di assicurazione anche perché si rischierebbe di avere poi gli stessi proble-mi correnti. La soluzione praticabile sarebbe quindi la vendita delle s.g.r., magari per quote, a operatori internazionali, tra cui anche operatori di pri-vate equity. Peraltro il caso israeliano insegna che, se ci fosse una deadline esplicita per questa operazione di vendita, il valore delle s.g.r. si ridurrebbe, perché il vantaggio sarebbe chiaramente dalla parte dei compratori. Il valore delle s.g.r. sarebbe presumibilmente molto al di sotto del potenziale anche a causa di fenomeni già ricordati: i pochi investimenti nella qualità della ge-stione effettuati negli ultimi anni a causa del drenaggio esterno di risorse, la reputazione non eccellente delle s.g.r. presso il pubblico a causa della con-fusione esistente sulla reale struttura dei costi, la continua perdita di asset degli ultimi anni.

scenario 4: la separazione della struttura proprietaria come processo.

Per evitare lo scenario 3 occorrere prima aumentare il valore delle s.g.r. e poi procedere alla separazione. Questo può essere fatto ad esempio consenten-do alle s.g.r. di sviluppare nuovi canali di vendita (contatti diretti via Internet, canale di accumulazione di risorse pensionistiche) e soprattutto lasciando alle s.g.r. risorse per investire nella qualità della gestione. Anche la vendita di parte del capitale ad operatori specializzati, in grado di contribuire al miglioramento della gestione, potrebbe essere utile. Gli attuali proprietari potrebbero ricavare un beneficio da questa situazione: investire risorse per qualche tempo per vendere un asset di valore potrebbe essere meglio che

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vendere adesso un asset che rischia di essere sottovalutato. La separazione proprietaria dovrebbe quindi essere intesa come percorso e non come de-cisione immediata. Un percorso che dovrebbe avere l’obiettivo di tutelare l’investitore nella fase di transizione e di consentire di migliorare la strut-tura dell’offerta. Un patto tra intermediari ed autorità di regolamentazione sarebbe alla base di questo scenario virtuoso. Nel breve periodo si potrebbe chiedere ai proprietari delle s.g.r. di investire una quota sostanziale di ricavi in attività di ricerca, di miglioramento di software, di programmi di forma-zione, di ricerca dei migliori talenti internazionali con adeguate strutture di remunerazione.

Ipotizziamo di trovarci alla fine del percorso virtuoso delineato nel quarto scenario. Il perfezionamento della governance e della struttura proprietaria sarebbero sufficienti a rilanciare anche quantitativamente, oltre che qualitativamente, l’industria italiana dell’asset management? Esistono alcune criticità:

(a) la localizzazione: la letteratura empirica ad esempio ha mostrato la presenza di una certa relazione tra possibilità di effettuare con successo ge-stione di tipo attivo e la localizzazione della fabbrica-prodotto, a causa della possibilità di sfruttamento di informazione privata. Molti fondi azionari ed obbligazionari sarebbero quindi posti in concorrenza con fondi internazio-nali aventi un benchmark simile ma localizzati in zone più convenienti. Dato che il mercato azionario italiano pesa per circa il 3% sulla capitalizzazione mondiale, pur tenendo conto di un considerevole home bias che caratterizza gli investitori italiani, non sarebbe implausibile immaginare uno scenario in cui le attività di gestione rimangono in misura limitata all’interno dell’Italia;

(b) economie/diseconomie di scala: un ulteriore elemento di svantaggio per i fondi comuni italiani sarebbe costituito dalle economie di scala, la cui presenza è stata evidenziata da varie ricerche per elementi come le spese amministrative e pubblicitarie. Le economie di scala ovviamente avvantag-gerebbero i fondi comuni più grandi. Peraltro, le economie di scala sarebbe-ro bilanciate da problemi legati alla liquidità incontrati dai fondi maggiori. Chen, Hong, Huang e Kubik (2004) evidenziano l’esistenza di una relazione inversa tra rendimento di un fondo comune di un certo periodo e sua dimen-sione in un periodo precedente. Questa relazione inversa tenderebbe quindi a favorire i fondi comuni italiani, inizialmente più piccoli di molti competitor europei. Peraltro, Chen, Hong, Huang e Kubik (2004) evidenziano anche la presenza di una relazione positiva tra rendimento di un certo fondo e di-mensione degli altri fondi comuni gestiti nell’ambito della stessa famiglia, evidenziando nuovamente i rischi della piccola dimensione.

Queste difficoltà di fondo rappresentano elementi strutturali che devono essere attentamente valutati considerando il presente e il futuro dell’industria italiana di asset management. Tali elementi devono essere un ulteriore stimolo al miglioramento della qualità della gestione in Italia (e una prova dell’urgenza dell’investimento nell’industria dell’asset management) e non possono essere esclusi dalla riflessione in corso in termini di regolamentazione e policy. Il caso statunitense, verso il quale sostanzialmente si andrebbe negli scenari de-scritti precedentemente, mostra tra l’altro che la separazione proprietaria non risolve certo il problema dei conflitti di interesse e della tutela degli investitori. Anche la regolamentazione dovrebbe quindi adeguare i propri strumenti per operare in maniera efficace nel nuovo contesto che si potrebbe creare.

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