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Genova e Milano, la grande via del Risorgimento di Mauro Bocci Genova - Stazione Brignole ai primi del Novecento

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Genova e Milano,la grande via del Risorgimentodi Mauro Bocci

Genova - Stazione Brignole ai primi del Novecento

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Il legame tra Genova e Milano ha radici lontane,determinate dalla geografia, non meno che dallastoria e dall’economia: l’una è il più naturalesbocco al mare dell’altra, che a sua volta delineal’ampio retroterra del grande scalo marittimoe gli spalanca le porte dell’Europa...

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Genova, Civico Museodel Risorgimento.Episodiodell’insurrezione a Genova del 1746 in una tela del pittorepopolare Camotto.

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Questa realtà si consolidò in modo peculiare nell’età moderna e soprattutto nel-

la stagione fra Cinque e Seicento che vien ricordata come il secolo genovese. Stret-

tamente interconnessa con i possedimenti spagnoli della Lombardia e capoli-

nea, ancorché non esclusivo e “centrale”, dei traffici transatlantici, Genova svolgeva ruoli

molteplici all’interno del sistema spagnolo, in una stretta connessione “intermodale” con

Milano, sebbene non troppo agevolata da gravi problemi di comunicazione viaria, che sus-

sisteranno peraltro fino ai tempi di Carlo Felice e Carlo Alberto.

Funzioni strategiche (da Genova transitavano gli eserciti imperiali inviati nella piazzaforte

milanese) e ragioni economiche rafforzavano quell’asse tra le due città; per la Superba, la

capitale lombarda rappresentava la prima e fondamentale stazione di quel “corridoio

valtellinese” che portava alle Fiandre imperiali e al collegamento con Anversa. Per il con-

trollo di quella “rotta” marittima e continentale venne combattuta la guerra dei Trent’Anni

(1618-1648), che di là dalle motivazioni religiose appariva come «un affare di finanzieri

di Genova e di patrizi del Brabante» (Giorgio Spini, Storia dell’età moderna); delle tragi-

che ripercussioni del sanguinoso conflitto nel Milanese ha offerto incomparabile affresco

il Manzoni nel Promessi sposi.

La catastrofe dei fino allora invincibili tercios spagnoli a Rocroi (1643) e a Lens (1648) e

il riassetto continentale stabilito, a favore della Francia, dalla pace di Westfalia (1648) e

poi da quella dei Pirenei (1659) ridimensionarono il peso della potenza genovese e anche

il carattere strategico del “corridoio valtellinese”. Le periodiche bancarotte della Corona

spagnola resero più difficili le condizioni finanziarie della Superba: grandi debitori dei

Genovesi, los Reyes catolicos avevano avuto peraltro la funzione di grande volano dell’al-

ta finanza della città-Stato ligure e la decadenza spagnola si accompagnò con quella del-

la Repubblica dei Magnifici. La situazione, per Genova, era complicata dalla politica ag-

gressiva dei Savoia nei suoi confronti, che risaliva addirittura al tardo Cinquecento e a

Emanuele Filiberto: il baricentro dell’azione savoina si era spostato allora in direzione ci-

salpina e italiana, soprattutto con la ricerca di uno sbocco al mare – alternativo a Genova

e ritagliato a suo danno – nel Ponente ligure.

La questione dei rapporti tra la Superba e il background padano e subalpino – del quale

Milano restava un punto chiave – si era già evidenziata nella disputa savoino-genovese sul

feudo del Finale, acquistato poi dagli Spagnoli nel 1598: anche Madrid – alleata di Geno-

va, ma non abbastanza per fidarsi completamente dei Magnifici – meditava probabilmente

di creare un’alternativa logistica (alquanto improbabile) alla linea maestra Genova-Mila-

no, attraverso una direttrice che avrebbe previsto la valorizzazione portuale di Varigotti e

un passaggio attraverso il Monferrato; l’intervento diretto spagnolo aveva inoltre lo sco-

po di contrare eventuali manovre francesi nella regione.

Per tutto il Seicento, del resto, la Francia avrebbe mantenuto una politica antigenovese (cul-

minata nel bombardamento navale della città, ordinato da Luigi XIV nel 1684) e filosa-

voina, la cui posta in gioco era spezzare le relazioni tra Genova, Milano e gli insediamenti

imperiali nordeuropei. Già durante la guerra dei Trent’Anni, la guerra di Zuccarello (1625),

combattuta tra Genovesi e Savoini per il controllo di un minuscolo feudo dell’estremo

Ponente ligure, portò l’esercito di Carlo Emanuele I alle porte di Genova, che si salvò gra-

zie alla resistenza dei contadini polceversaschi e al tempestivo arrivo di una squadra spa-

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gnola nel golfo. I Savoia tentarono ancora di rovesciare il governo dei Magnifici con la fal-

lita congiura di Giulio Cesare Vachero (1628), che indusse la Superba alla costruzione del-

le nuove imponenti mura difensive (1629-1632).

Dopo la guerra di successione spagnola, che apre il Settecento, con la pace di Utrecht (1713),

Genova riuscì a strappare ai Savoia il marchesato del Finale, estirpando una pericolosa con-

correnza contrabbandiera e bloccando i disegni di una via alternativa ai traffici genovesi

verso la Padania. In quegli stessi anni, l’aspro contenzioso dei Magnifici con Cosimo III

de’ Medici per la Lunigiana era alimentato probabilmente anche dall’esigenza di meglio

dotarsi di un ulteriore percorso, certo più antieconomico, verso Milano, dove la Repubbli-

ca manteneva tra l’altro una delle sue sedi diplomatiche, che si affiancava a quelle di Pari-

gi, Madrid, Roma, Londra e Vienna.

L’impennata della guerra di successione austriaca (1742-1748) – nella quale la Superba si

trovò naturalmente schierata con i nemici dei Savoia, cioè con la coalizione franco-spa-

gnola – e l’orgogliosa insurrezione del 1746 contro l’occupazione austro-piemontese, che

lega il suo nome a Balilla, non allentarono la pressione savoina su Genova, che andava an-

zi accentuandosi, poiché una nascente potenza regionale, fortemente ostile, s’insinuava ora

nel vitale canale commerciale con Milano, adesso sotto amministrazione austriaca. Fin

dal 1735, i Savoia avevano raggiunto il Tortonese e Serravalle; con il trattato di Aquisgra-

na (1748) avevano acquisito Voghera e l’Oltrepò pavese, creando un ostacolo tra la nemi-

ca Genova e la capitale lombarda. La crisi irreversibile della Corsica (ceduta a Luigi XV nel

1768) e l’affacciarsi dei Savoia in Sardegna accentuarono i problemi per i Magnifici, sem-

pre più simili a un “comitato d’affari” piuttosto che a uno Stato moderno. La cesura con

Tortona e Voghera, e quindi la maggior complessità dei rapporti con Milano e l’Europa,

contribuirono a peggiorare le condizioni della Repubblica, ormai anacronistica come isti-

tuzioni, struttura e mentalità. In quel passaggio finale della sua storia come entità statale

propria, i migliori spiriti genovesi guardarono tuttavia all’illuminismo francese e lombar-

do, portatore di esigenze di cambiamento. La circolazione delle opere del Verri e del Bec-

caria – o delle traduzioni di Montesquieu e Voltaire – accompagnava la percezione di una

crisi strutturale, che investiva il piccolo Stato di fronte al riassetto politico ed economico

europeo. Figura esemplare di questa nuova sensibilità, rivolta anche al riformismo austriaco

nel Milanese, fu Agostino Lomellini – doge fra il 1760 e il 1762 – traduttore già nel 1753

del manifesto degli Enciclopedisti. La Rivoluzione francese e le campagne napoleoniche

in Italia e in Liguria contribuirono, con la refrattarietà di molti esponenti della classe diri-

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Il porto di Genova alla fine del XIX secolo.

gente genovese, al mancato compimento di un processo di rinnovamento, che poteva pas-

sare in quella fase attraverso il modello del buon governo austriaco di Milano; e precipita-

rono la città-Stato in un’epoca di drammatici contrasti.

La caduta della Repubblica di Genova seguì quella dell’antica rivale, Venezia, e venne

programmata quasi a tavolino da Bonaparte, che il 15 maggio 1797 dalla sua residenza

milanese a Mombello scriveva a Guillôme Charles Faypault, ambasciatore francese a Ge-

nova: «La piena caduta del governo dogale di Venezia deve tirarsi dietro quella dell’ari-

stocrazia di Genova; ma conviene aspettare quindici giorni finché le faccende di Venezia

siano state ultimate». Orchestrata dalle truppe francesi in coordinamento con i giacobini

locali, l’insurrezione scoppiò a Genova il 22 maggio 1797 e incontrò l’opposizione arma-

ta di quei “popolani” che avevano bloccato i Savoini nel 1625 e gli Austriaci nel 1746.

Tuttavia, l’ultimatum di Napoleone alla città – fermissimo nel tono, ma meno duro nella

sostanza – costrinse i Genovesi ad accettare la fine della Repubblica dei Magnifici e l’av-

vento della Repubblica democratica ligure. In otto anni di esistenza, prima della definiti-

va annessione francese, questa Repubblica avrebbe vissuto momenti travagliati e luttuo-

si, culminati nell’assedio austro-inglese del 1800, che non hanno forse pari per intensità

nella storia di Genova, almeno fino alla seconda guerra mondiale. La convenzione di Mom-

bello – che ridisegnava gli equilibri italiani in vista di Campoformio (17 ottobre 1797) –

venne approvata a Genova il 9 giugno 1797. I rapporti della nuova entità statale genove-

se con la Repubblica cisalpina – formata da Napoleone unendo la Lombardia alla Repub-

blica cispadana – restituirono per breve momento impulso all’asse tra Genova e Milano.

In condizione di pace, la Superba avrebbe potuto trarre giovamento da un dominio maritti-

mo francese del Mediterraneo e ritrovare pienamente la via per Milano e per l’Europa. La ter-

ribile sconfitta subìta da Napoleone ad Abukir (1° agosto 1798) limitava tuttavia le ambizio-

ni francesi, prima ancora che quelle dello Stato satellite li-

gure. Alla fine del 1798, una vasta coalizione (Russia, Gran

Bretagna, Austria, Portogallo, Impero ottomano e inizial-

mente Regno di Napoli) scese in campo contro Bonaparte e

l’Italia settentrionale venne invasa: l’esercito austro-russo, fra

la primavera e l’estate 1799, inanellò una serie di vittorie,

prendendo Milano e Torino. Fu la fine della Repubblica ci-

salpina. Soltanto il generale André Masséna riuscì a dare re-

spiro all’Armée, sconfiggendo i russi a Zurigo e asserra-

gliandosi a Genova. Fu la strenua resistenza della capitale li-

gure (aprile-giugno 1800), isolato caposaldo, a impedire un’in-

vasione da sud-ovest del territorio francese e a consentire a

Napoleone di riaffacciarsi in Italia e di riprendere Milano (2

giugno 1800), costringendo gli austriaci a riposizionarsi su

Alessandria, nelle cui vicinanze avrebbero subito la sconfit-

ta di Marengo (14 giugno 1800). Dopo Marengo, però, l’I-

talia settentrionale “pacificata” perdeva per il Primo Conso-

le il valore geopolitico: sarebbe divenuta terra di razzìa, in

qualche caso, non certo un laboratorio politico, come si po-

teva pensare prima di Campoformio. I ragionamenti dei re-

pubblicani del Nord-Ovest, in quell’albeggiare del secolo XIX,

immaginavano piccoli Stati italiani confederati (il Piemon-

te, la Repubblica ligure e la Cisalpina), nella amplificata ri-

proposta dell’asse Genova-Milano; ma Napoleone, ormai im-

peratore, li gelò annettendo il Piemonte (11 settembre 1802).

Tuttavia, in quel 1802, Bonaparte – oltre a Loano, Oneglia e

Carrosio – attribuì alla Repubblica ligure Serravalle, punto

logistico importante verso Milano.

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Frontespizio di una pubblicazionededicata ad AgostinoLomellino, doge a Genova dal 1760 al 1762 e traduttore del manifesto degliEnciclopedisti.

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Ma ormai la stessa Repubblica ligure era ben poca cosa: nel maggio 1805 vennero liquida-

te le ultime autonomie genovesi: la città e i suoi territori entravano a far parte direttamente

dell’impero francese. Quello che avrebbe potuto essere un elemento di crescita per l’eco-

nomia genovese, mettendole a disposizione un più vasto bacino commerciale, divenne una

catastrofe con l’inasprirsi delle guerre napoleoniche: l’incrociarsi del blocco navale ingle-

se e del blocco continentale francese (che faceva ricorso a meccanismi autarchici in tutti i

territori occupati, nella convinzione di poter creare seri problemi ai traffici europei di Lon-

dra) ebbe effetto nefasto per l’antica Superba. Paradossalmente, il blocco continentale

aveva valorizzato gli scali mediterranei del contrabbando di merci inglesi, Gibilterra e Mal-

ta, dai quali quei prodotti giungevano senza troppe difficoltà nel cuore dell’Impero napo-

leonico, attraverso un sistema delle “triangolazioni” con paesi neutrali. Nella sua sogge-

zione a Parigi, Genova era al contrario esclusa da questo remunerativo gioco di interme-

diazioni – ben sperimentato attraverso i secoli dalla sua antica classe dirigente – e impos-

Scontro navale davantial porto di Genovadurante l’assedio del 1800. Acquatinta di anonimo degli inizidel XIX secolo.

“Guida per il viaggio in Italia in posta”. Yves Gravier, Genova1786. (Collezione dellaGalleria San Lorenzo al Ducale).

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sibilitata a svolgere il suo ruolo tradizionale di grande por-

to dell’Europa meridionale, aperto sull’entroterra europeo.

Le “rotte” continentali vennero sconvolte e l’asse Genova-

Milano venne fortemente compromesso. L’analisi di Geor-

ges Lefebvre appare convincente: «Tra il Mediterraneo e i

mari settentrionali, la guerra marittima accrebbe l’impor-

tanza del collegamento continentale. Assicurato sino allo-

ra, in gran parte, attraverso la Francia, l’Italia, la Svizzera e

l’Olanda, fu compromesso dalla chiusura della via renana.

[…] Una parte del traffico si orientò, per Emden, verso

Francoforte, per alimentare il contrabbando o raggiunge-

re la Svizzera. Quest’ultima, d’altra parte, si vide separata

da Genova. La trasversale europea rinculò, di conseguenza,

verso est, come al tempo di Luigi XIV: essa passò, da allora

in poi, per Amburgo e Lipsia verso Venezia e, soprattutto,

verso Trieste». Ci sarebbero voluti decenni perché Genova

si riprendesse da una crisi tanto grave, che compromette-

va i suoi tradizionali sbocchi continentali.

Genova venne separata ancor più drasticamente da Mila-

no con il Congresso di Vienna (1814-1815), che consegnava

le terre liguri ai Savoia. Non è un caso se, subito dopo l’an-

nessione al Piemonte – accanto a sentimenti repubblicani

e giacobini, municipalistici e filosavoini – sorgesse una cor-

rente che riteneva più vantaggiosa per i traffici genovesi

una unione con l’Austria: non pochi mercanti genovesi apprezzavano la buona ammini-

strazione imperiale e guardavano a Milano come “stella fissa” del loro commercio. Seb-

bene fosse uscita stremata dal periodo delle guerre napoleoniche, la città restava ricca, con

un tessuto sociale discretamente articolato e la relativa “ripresa”, sotto l’occupazione in-

glese del 1814, lasciava sperare. Ma l’Anschluss al Piemonte, paese agricolo e arretrato an-

che quanto a cultura d’impresa, risultava una fusione innaturale; vincolati a Milano, gli

interessi genovesi dovevano invece volgersi verso Torino, nel momento in cui la monar-

chia sabauda affrontava una congiuntura pesante: «In Piemonte gravarono sul bilancio

le spese per la frettolosa riorganizzazione dell’esercito in occasione dei Cento Giorni (nel

marzo del ’15 fu emesso un prestito forzoso di 4 milioni di lire) e per il mantenimento de-

gli inglesi a Genova e degli austriaci in Piemonte, rimasti fino al dicembre del ’16. Erano

tali le ristrettezze che non fu possibile eliminare la barriera doganale tra Liguria e Pie-

monte» (Alfonso Scirocco). Nel sistema sabaudo del 1815, Genova e la sua borghesia non

potevano che risultare imbrigliate. Neppure la tariffa doganale introdotta nel 1818, a con-

dizioni che tenevano parzialmente conto delle esigenze genovesi (per esempio con la di-

minuzione dei dazi sui rottami di ferro, lavorati nelle primissime ferriere locali) era ca-

pace di offrire nuovo impulso alla città.

I sentimenti repubblicani, in città, alimentavano il risentimento antisabaudo; nel tempo

stesso, Genova guardava con non minore preoccupazione al giro di vite austriaco nel Lom-

bardo-Veneto, che rischiava di condizionare i fruttuosi rapporti con Milano. Ormai – spe-

cie dopo i moti costituzionali del 1821, ai quali la città prese parte, in modo relativamen-

te anomalo – anche quei rapporti cominciavano a essere visti in una prospettiva nuova,

quella dell’unità d’Italia.

Non è forse un caso se la Giovine Italia, fondata a Marsiglia nel luglio 1831 dal genovese Giu-

seppe Mazzini, avesse già a metà del decennio tremila aderenti proprio a Milano. Nell’aprile

di quel 1831 si era spento Carlo Felice, accompagnato da una fama di tiranno, soltanto in

parte giustificata. Era stato amico di Genova – mentre detestava Torino – e insieme al suo

ammiraglio Des Geneys aveva contribuito allo sviluppo della flotta; ma, per quanto au-

Napoleone in un’incisione degliinizi del XIX secolo.

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striacante (e anche questo è in parte un pregiudizio storico) non si era troppo preoccupato

di sviluppare i collegamenti tra Genova e Milano, se si eccettua la carrabile dei Giovi, rea-

lizzata nel 1822. I disegni economici della monarchia sabauda, rurali e protezionistici, re-

stavano incompatibili con quelli genovesi.

Ma lo stesso protezionismo, nell’età della Restaurazione, poteva significare qualcosa di as-

sai diverso da quel che aveva rappresentato il blocco continentale nell’età napoleonica. Con

grande lucidità, il milanese Carlo Cattaneo guarda a questi temi in un saggio del 1836, Ri-

cerche sul progetto di una strada di ferro da Milano a Venezia, nel quale si parla anche dif-

fusamente del nodo genovese. La riflessione sulle differenze fra gli equilibri economici

dell’epoca napoleonica e quelli della Restaurazione è si-

gnificativa per comprendere il ruolo che Genova di lì a bre-

ve andrà a svolgere. «Durante il sistema continentale pre-

valsero adunque le vie terrestri. Il contrabbando terrestre

era assai maggiore del marittimo, si faceva attraverso il cen-

tro dell’Europa, e si depositava a Francoforte e nella Sviz-

zera. La Francia poi riceveva da terra per Costainizza e Trie-

ste i cotoni, le lane, le pelli, la vallonea e le altre merci le-

vantine. […] Alcuni che guardano solo alla corteccia delle

cose diranno che il sistema continentale demolito nel 1814

rivive nel sistema protettivo adottato poi da quasi tutti gli

Stati europei. La somiglianza non si può negare; ma gli ef-

fetti sul transito sono precisamente opposti. L’effetto del si-

stema continentale napoleonico era quello di far preferire

le vie di terra; perché si trattava di far senza il mare, e dalle

rive del continente europeo si dovevano affamare tutte le

isole e le altre quattro parti del mondo. […] Al contrario

l’effetto del sistema protettivo è quello di far preferire le vie

di mare, rendendo intricate, lente e costose le vie di terra»».

Carlo Felice e Des Geneys avevano già compreso l’impor-

tanza strategica di Genova, se avesse potuto esprimere un’e-

conomia forte (che non poteva che essere in stretta con-

nessione con Milano), e ne avvertivano probabilmente le

potenzialità, insieme alternative e complementari al sistema

sabaudo. Ma non era stato sufficiente. Alle lacune d’impo-

stazione della monarchia, corrispondeva fin verso la metà

degli anni Quaranta l’intrinseca incertezza degli imprendi-

tori genovesi, pur in un costante clima di ripresa. Ancora per

molto tempo, sotto Carlo Alberto, l’industria locale avrebbe dato segni di arretratezza, men-

tre tutto il quadro economico subiva abbastanza supinamente, anche per mediocrità, le li-

mitazioni doganali piemontesi, prospettiva che Cavour ribalterà radicalmente.

I mercanti genovesi, intanto, guardavano con discreta rassegnazione a realtà lontane piutto-

sto che a quelle di un entroterra non adeguatamente servito da spedite vie di comunicazio-

ne. Ma qui stava uno dei problemi centrali di una riaffermazione genovese. Fino a metà an-

ni Quaranta, sull’economia cittadina gravava infatti un peccato originale: la separatezza ri-

spetto a Milano era un limite gravissimo, che toglieva molto di quel che l’integrazione con

Torino non sarebbe riuscita a restituire. Il rapporto fra Genova e Milano aveva connesso a

lungo Mediterraneo ed Europa. Sull’asse Genova-Milano la Superba ritrovava quelle vastità

continentali che l’orografia le aveva negato. Ma quella relazione tanto stretta era adesso sof-

focata dalle restrizioni doganali imposte da entità statali – il regno sardo, l’impero asburgico

– che tenevano soltanto in relativa considerazione le esigenze delle due città, entrambe in-

quiete, tendendo per ragioni politiche ad allontanarle piuttosto che a riavvicinarle.

Lo spostamento verso est, su Venezia e Trieste, dell’asse dei commerci negli ultimi anni del-

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18 marzo 1846 Carlo Alberto “firma” la nascita della Cassa di Risparmio di Genova.

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le guerre napoleoniche, non aveva del resto limitato, se non

temporaneamente, il peso di quella che restava una delle

vie maestre dei traffici del Vecchio Mondo; fondamentale

per l’Italia settentrionale, ma assai importante anche in un

sistema di comunicazioni globali progressivamente inte-

grato, il perno Genova-Milano si allargava del resto in rag-

gi più ampi Genova-Milano-Europa e non meno Europa-

Milano-Genova-America o ancora Europa-Milano-Geno-

va-Istanbul-Odessa-Oriente. Nel suo saggio del ’36, Carlo

Cattaneo offriva ancora una analisi molto precisa dei po-

tenziali movimenti di merci e transiti di persone intercon-

nessi in una sorta di organismo unico continentale, che su-

perasse nel libero scambio le frontiere e le ostilità fra gli Sta-

ti, e attraverso il quale raccordare navi e ferrovie, terra e ma-

re: «[…] sulla carta geografica d’Europa si diramino da Mi-

lano tre linee, l’una verso Genova, l’altra verso Lione e la

terza verso il Reno. Parimente tre linee simili si diramino

da Venezia o da Trieste, l’una verso Vienna, l’altra verso Bel-

grado e Odessa, l’altra verso la bocca del Golfo Adriatico.

[…] si abbia la pazienza di osservare un istante, che conti-

nuando per mare da Venezia a Trieste, e superate quindi le

Alpi Giulie che sono le più facili di tutte e sembrano già pre-

se di mira dai progettatori di strade ferrate, si giunge per le

valli quasi rettilinee della Culpa e della Sava appunto a Belgrado o Semlino, ciò che è tut-

t’uno. Quivi da poco tempo hanno cominciato a scorrere le navi a vapore che giù pel Bas-

so Danubio, continuando quasi sempre la stessa direzione giungono al Mar Nero nel Gol-

fo di Odessa. Se supponiamo fatta la strada ferrata da Milano a Venezia, […] alternando

due corse di terra e due d’acqua si perverrebbe da Milano a Odessa in tre o quattro giorni.

Ora il commercio dei Genovesi con Odessa e tutte quelle marine è antichissimo e vivacis-

simo. Ma pel giro immenso che vuolsi fare dalle loro navi intorno alla Turchia, alla Grecia

ed all’Italia, e per la tempestosa natura dei mari, è lungo, pericoloso e in molti mesi del-

l’anno affatto impossibile. I Genovesi potrebbero dunque trar partito a certi rami di traf-

fico, massime in caso di perversa stagione o di guerra marittima che ostruisse gli accessi del

Mar Nero […]. Questo può dirsi frutto maturo e vi si può

fare qualche assegnamento, ma le corse da Trabizunda, da

Odessa o anche solo da Vienna, a Genova, a Lione, a Bor-

dò o a Gibilterra saranno discorso di fiori finché la costru-

zione di altre strade ferrate non congiunga per Genova i

due mari d’Italia ».

Il fitto reticolo di collegamenti immaginato da Carlo Cat-

taneo si scontrava con i complessi equilibri politico-mili-

tari del primo Ottocento europeo; ma l’intuizione della ne-

cessità di un’evoluzione intermodale dei traffici attraverso

Genova, Milano e Venezia è modernissima: ci vorranno qua-

si vent’anni, dal suo scritto, prima che la ferrovia giunga nel

capoluogo ligure, ma per ancorarlo a Torino, su un asse di

commerci non certo determinante per il congiungimento

dei due mari d’Italia. Fra le ragioni che faranno della Su-

perba e di Milano due capitali del Risorgimento – almeno

nella sua accezione più avanzata, anche se in definitiva per-

dente – non va trascurata la costante ricerca di ricostitu-

zione dell’antico, naturale e vitale background comune.

Genova, Civico Museodel Risorgimento. Giuseppe Mazzini in un dipinto di Emilie AshurstVenturi.

Miniatura riproducente il ritrattodi Vittorio Emanuele II.

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Molto di quel che avvenne a Genova fra le celebrazioni del centenario di Balilla nel 1846 e

la rivoluzione del 1849 va tenuto presente anche come un capitolo della battaglia per rial-

lacciare con Milano un legame non sottoposto a vincoli sovradeterminati ed esterni; ma le

condizioni oggettive per porsi in una tale prospettiva matureranno soltanto a partire dal

decennio cavouriano. Il momento di ripresa di Genova andò tuttavia di pari passo con il

deciso affermarsi di una politica antiaustriaca da parte del sovrano, a partire soprattutto

da quella guerra del sale e del grano (1843-1846) che vide – forse per la prima volta – una

convergenza fra la monarchia e la città repubblicana. Una convenzione del 1751, confer-

mata dal Congresso di Vienna, consentiva ai Savoia di far transitare per la Lombardia au-

striaca il sale veneziano destinato al regno sardo, contro la rinuncia a favore di Milano del

commercio di sale con i Cantoni svizzeri. Ma proprio l’annessione di Genova aveva fatto

cadere in disuso la convenzione, poiché il Piemonte non aveva più necessità di rifornirsi

di sale a Venezia, divenuta frattanto provincia imperiale. Nel 1843, i Ticinesi, che l’Austria

non riforniva adeguatamente di sale veneziano, si rivolsero a Marsiglia e stipularono una

convenzione con il governo piemontese per consentire il transito del sale in territorio sa-

baudo. Vienna cercò invano di far annullare da Torino l’accordo sardo-ticinese e dopo tre

anni di inutili negoziati fece scattare la rappresaglia economica, aumentando del 130 per

cento i dazi austriaci sui vini piemontesi, fonte primaria delle esportazioni sabaude. Nelle

relazioni economiche, l’atteggiamento austriaco era stato d’altro canto assai discutibile, fi-

no ad allora, nei confronti del porto di Genova. Per una scelta rigidamente protezionisti-

ca – che per i suoi costi risultava particolarmente insensata alle imprese e ai mercanti del

Milanese – fino al 1840 l’Impero aveva preferito dirottare i traffici sui porti asburgici di Ve-

nezia e Trieste. Il 20 maggio 1846, Carlo Alberto affidava alla Gazzetta piemontese una du-

rissima protesta dinanzi alla ritorsione austriaca sui vini: era forse il primo segnale del

malumore del sovrano verso Vienna.

Intanto, il risveglio dell’economia genovese passava attraverso la riflessione sull’affinamento

delle infrastrutture e la nascita di importanti istituti bancari, la Banca di Genova (1844) e

Chiave da Ciambellanodi Ferdinando I,1835/1848, in bronzodorato con punzone di garanzia di Vienna.(Genova, PalazzoDucale. Fulvio Miglia,“Antichità Militaria”).

Tocco da Magistratocon custodia in cartonee carta marmorizzataappartenuto a tal Gio. Bianchi, 1840/1850. (Genova, PalazzoDucale. Fulvio Miglia,“Antichità Militaria”).

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la Cassa di Risparmio (1846). Nuove idee segnarono quella stagione, in cui settori econo-

mici e sociali cittadini, quand’anche in forte contrasto politico fra loro, cercarono con ugua-

le determinazione di riguadagnare la strada per Milano. Esclusa per il momento la possi-

bilità di una ferrovia “diretta”, si discusse allora di una tratta tra Genova e il Lago Maggio-

re; Michele Erede (1806-1878), brillante economista genovese, fu tra i propugnatori di quel-

la linea ferrata, sebbene si trattasse di un ripiego.

Sia l’VIII Congresso degli scienziati (settembre 1846) sia, e ancor più, le celebrazioni per il

centenario di Balilla, nel dicembre di quell’anno, evidenziarono le pressioni genovesi per

una politica antiaustriaca della monarchia; dopo quelle gior-

nate, Carlo Alberto dovette avviare il dialogo con i liberali

piemontesi (Gioberti e Balbo, D’Azeglio e Cavour), con i

patrizi genovesi (Pareto e Ricci) e con i moderati milanesi

del conte Gabrio Casati. Genova visse in quei giorni un’e-

sperienza esaltante e fondamentale fu la pressione delle ma-

nifestazioni popolari genovesi del dicembre 1847 e del gen-

naio 1848 per arrivare alla concessione dello Statuto al-

bertino (8 febbraio 1848). Carlo Alberto temeva del resto

un’insurrezione, se non un tentativo di secessione a Geno-

va, che Londra, in quella fase della sua politica mediterra-

nea – condizionata dalla presenza francese in Algeria – avreb-

be forse appoggiato; ma i Genovesi si muovevano esplici-

tamente contro Vienna e guardando a Milano, in una pro-

spettiva radicale, ma legalitaria.

Frutto di una grande crisi economica europea, il Quaran-

totto italiano fu anche il risultato di comuni energie geno-

vesi e milanesi. Il 22 febbraio il popolo di Parigi insorgeva

contro Luigi Filippo: cominciava quella che sarebbe stata

chiamata la primavera dei popoli – e Genova e Milano ne

avevano percepito in anticipo le inquietudini e i fermenti.

Il 13 marzo Vienna si ribellò all’onnipotente principe Kle-

mens von Metternich, reazionario arbitro delle sorti d’Eu-

ropa; il 18, a Milano, vennero erette le prime barricate: sep-

pure gonfiata dall’agiografia risorgimentale, l’epopea del-

le Cinque Giornate si sarebbe conclusa con la ritirata dei 13

mila soldati del vecchio generale Radetzky: di certo, di fron-

te ai tumulti, quest’ultimo – un vecchio militare indebita-

tissimo, che conviveva da molto tempo con una amica mi-

lanese, amava la città ed era golosissimo di gnocchi di pa-

tate – non intervenne con pugno di ferro.

Nell’insurrezione ebbe ruolo centrale Carlo Cattaneo, re-

pubblicano e federalista, che si mantenne assai critico nei

confronti della politica di Carlo Alberto. Il governo provvisorio presieduto dal conte Ga-

brio Casati, espressione dei moderati filosabaudi, chiese invece aiuto ai piemontesi e invi-

tò il re sardo ad annettersi la Lombardia, trovando la vigorosa opposizione di Cattaneo e

dei suoi, che lo definirono un ciambellano. L’esercito sabaudo passò il Ticino il 28 marzo.

La deliberazione con la quale il sovrano dichiarava guerra all’Austria era un capolavoro

d’ambiguità, nell’agitare lo spauracchio repubblicano, certo ben presente, e nell’agitare pre-

rogative e diritti dinastici. Il Savoia-Carignano aveva ben presente – grazie ai suoi sgherri,

peraltro non meno efficienti di quelli austriaci – il pericolo di certe posizioni repubblica-

ne e addirittura socialiste che andavano emergendo tra Genova e Milano.

La replica del Cattaneo a questo manifesto fu durissima: Carlo Alberto viene definito tra

l’altro «l’usurpatore di Genova». Mazzini, giunto a Milano l’8 aprile 1848, aveva invece ma-

Feluca da funzionariosabaudo con rangoprefettizio, 1840 ca.,modificata con lasostituzione dellacoccarda tricoloredurante la prima guerradi indipendenza.

Spalline da Cavalieredell’Ordine dei SantiMaurizio e Lazzaro,ordine dinastico dellaCasa Savoia, 1840 ca. (Genova, PalazzoDucale. Fulvio Miglia,“Antichità Militaria”).

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nifestato un “basso profilo”, a tal punto da offrire discretamente al re il sostegno suo e dei

repubblicani, purché vi fosse una svolta della monarchia in senso democratico. Non se ne

fece nulla e il patriota genovese incassò anche questa sconfitta politica; fu inoltre bollato

da Cattaneo come un venduto. In quei giorni, Genova era la porta attraverso la quale af-

fluivano i volontari destinati a combattere nella pianura del Po. Sbarcarono sotto la Lan-

terna siciliani e napoletani, comprese le truppe regolari; alla fine di aprile arrivarono oltre

cento volontari dell’Associazione nazionale italiana, fondata da Mazzini, unendosi poi ai

tanti che avevano preso parte alle giornate milanesi. Passarono volontari polacchi e un-

gheresi: questi ultimi adottarono qui il loro tricolore a bande orizzontali. A Milano per il

tramite di Genova, era presente in quella fase – come ricorda Raimondo Luraghi nella sua

monumentale Storia della guerra civile americana – il leggendario capitano antischiavista

John Brown, affascinato dal radicalismo delle due città “italiane” e anche dagli scritti po-

lemiologici, sulla guerra per bande, del conte rivoluzionario Carlo Bianco di Saint-Jorioz,

cospiratore nel 1821 con Santorre di Santarosa.

Le prime vittorie dell’esercito sabaudo e dei volontari – Goito, Curtatone e Montanara – e

i plebisciti filopiemontesi in Emilia (maggio 1848) galvanizzarono Carlo Alberto, renden-

do più sospettosi i suoi alleati – il papa “liberale” Pio IX, il granduca di Toscana e il sovra-

no duosiciliano – che si defilarono in fretta. La controffensiva austriaca colse il 25 luglio a

Custoza una vittoria decisiva, causata in buona misura dalla mediocrità di manovra dei

Piemontesi e dalla scarsa organizzazione delle linee di rifornimento e di infermeria. Si ri-

velò tra l’altro errore gravissimo non aver accettato in aprile le proposte di pace di Vienna,

disposta, allora, a sgombrare fino al Mincio. Perfino il moderatissimo Casati assunse una

posizione critica nei confronti della campagna di Carlo Alberto.

Mentre ancora le sorti della guerra sembravano volgere a favore di Torino, il conte di Ca-

vour, appena un mese prima di diventare deputato al Parlamento pedemontano, pubbli-

cava sul proprio giornale, Il Risorgimento (4 maggio 1848), un significativo articolo di

“filosofia” ferroviaria, che riproponeva il tema dei rapporti Genova-Milano. Il “pezzo” di

Cavour risentiva di un clima particolare ed esprimeva auspici che non si realizzeranno in

breve. Ma coglieva con esattezza la priorità dell’asse fra Genova e Milano, e il carattere

strumentale di quella linea da Genova a Novara al Lago Maggiore, che rivelerà peraltro la

Barricate contro gli Austriaci a Milano,Porta Tosa, 1848.(Milano, Museo del Risorgimento).

propria utilità strategica nella seconda guerra d’Indipendenza e che, intanto, veniva a co-

stituire una spina nel fianco per le dogane austriache. «Considerando gl’interessi genera-

li della gran valle del Po, di cui Genova è il porto principale, fatta astrazione alla strada di

Torino, le cui condizioni non sono alterate, la strada più importante è quella da Genova

a Milano. Queste due città debbono essere riunite nel modo più breve e più celere. La li-

nea del Lago non può servire a tale scopo; non è possibile il costringere i viaggiatori e le

merci, che dal mare sono avviate alla capitale della Lombardia, a passare da Alessandria,

Valenza, Mortara e Vigevano. Con tale giro vizioso si aumenterebbe di molti chilometri

lo spazio a percorrersi per giungere da Genova a Milano mediante una strada, che, dira-

mandosi dalla strada di Torino fra Serravalle e Novi, corresse direttamente verso Milano

passando per Tortona, Voghera e Pavia. Né si opponga, che trattandosi di strade ferrate

sulle quali così rapido è il moto, l’aumento di 30 a 40 chilometri (che a tanto calcoliamo

la differenza fra le due linee), cioè un’ora di più in viaggio, sia poca cosa. Quest’obbiezio-

ne avrebbe qualche peso se si dovessero paragonare fra di loro le attuali comunicazioni;

cade a terra, se si considera ciò che dovrà risultare dalla non dubbia estensione delle stra-

de ferrate a tutti i principali punti delle nazioni civili. Fintantoché s’impiegano dalle vet-

ture pubbliche venti ore per andare da Genova a Milano, l’economia di un’ora è cosa di

poco momento; è un risparmio del ventesimo del tempo consumato in viaggio; ma quan-

do questo richiederà solo quattro o cinque ore, la perdita di un’ora si farà gravemente sen-

tire, e sarà un aumento di tempo del quarto o del quinto, ciò che verrà considerato come

un insopportabile inconveniente».

Le basi della grande strategia “infrastrutturali” del Cavour già si avvertono in questo scrit-

to del 1848; Genova e Milano ne sono i cardini indispensabili. Nel giro di poche settima-

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Giuseppe Dellepiane(Genova 1832-1884).Combattimento di duelancieri (olio su tela).Genova, Museodell’Accademia Ligusticadi Belle Arti).

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DIA ne, le sorti del conflitto mutarono, e con esse tramontò la possibilità di una linea Genova-

Milano; ma il fatto stesso che perfino l’uomo più acuto – e di lì a non molto più potente –

del Piemonte se ne occupasse proprio nei giorni in cui la nazione sabauda era presa da ben

altre emergenze attesta il carattere prioritario di una intuizione che permeerà di sé per un

decennio la volontà risorgimentale.

Quasi in conclusione della sua Storia di Genova, Teofilo Ossian De Negri, dopo aver rileva-

to che alla base del Risorgimento c’è l’opposizione a quell’Austria «che tende a separare ciò

che è inseparabile, Milano e Genova, pianura lombarda e mar ligure», dedica al tema della

ferrovia una pagina significativa. «La politica ferroviaria piemontese si è resa pieno conto

delle necessità dell’emporio ligure e le favorisce, non solo aprendo nel 1854 la linea princi-

pe Torino-Genova, che, a pochi anni dalla rivolta del 1849 soffocata dal La Marmora, è an-

che un simbolo di un clima nuovo d’incontro e di cordialità tra le due capitali, di terra e di

mare; ma pure sviluppando una rete da Genova a Novara e verso i valichi alpini che proce-

de parallela al confine lombardo. Il che, come è risaputo, avrà importanza decisiva anche dal

punto di vista strategico nelle operazioni del ’59. Ma sul piano economico tale orientamento

è in parte falso, e farà sentire più vivo il bisogno di forzare la barriera del Po e del Ticino e

di far proseguire verso i più facili valichi delle Alpi lombarde, attraverso Milano, le linee ra-

dianti da Genova e da Alessandria. È stato già messo in rilievo come nella politica ferrovia-

ria si siano espressi in modo stridente i contrastanti interessi del Piemonte e dell’Austria, e

si sia determinato quasi il dissidio. Certo è che la politica sabauda e il commercialismo ge-

novese, in questo campo perfettamente all’unisono, quasi vengono a trovarsi tra mano uno

strumento, le ferrovie mozze, o flesse fuori dal loro naturale allineamento, che è come un ri-

chiamo, o un trampolino di lancio, per correr l’avventura del varco del Ticino».

Nell’estate 1848, i Piemontesi furono intanto costretti ad abbandonare la Lombardia e a

chiedere l’armistizio: rientravano nei loro confini e veniva concesso ai patrioti lombardi

di prendere la via dell’esilio. E questa via portava inevitabilmente i più compromessi –

quindi soprattutto i più rivoluzionari – verso Genova, tanto nell’eventualità di prendere

il mare quanto in quella di preparare nuove azioni in un ambiente che si era dimostrato

fervidamente partecipe.

A quell’incerta, febbrile estate, seguì un autunno che sembrò rimettere in moto le sorti del-

la rivoluzione italiana, a Roma, a Firenze, a Venezia. Nel febbraio 1849, il re sardo si trovò

così al bivio: o la pace con l’Austria, a condizioni dure se non vergognose, o riprendere un

conflitto dalle sorti incertissime. La guerra, probabilmente, era a quel punto il danno mi-

nore, almeno per la dinastia; ma Carlo Alberto era isolato, e se si muoveva era soltanto per

il timore di un’offensiva repubblicana. Il 20 marzo 1849 i Piemontesi varcarono ancora il

Ticino. I vertici militari erano stati frettolosamente riorganizzati e sicuramente erano

peggiori rispetto al 1848. La Legione lombarda (i volontari repubblicani, socialisti, anar-

chici) era guidata dal genovese Gerolamo Ramorino, sorta di “rivoluzionario di professio-

ne”, che Mazzini aveva ingaggiato con scarso successo e con ingente spesa nei primi anni

Trenta, per la fallita insurrezione repubblicana in Savoia. Remorino che tenne di riserva la

Legione, preservandola dal massacro – che era forse nei disegni del re, che mal avrebbe sop-

portato di dover fare i conti con un esercito di repubblicani, specie in caso di sconfitta – fu

l’unico a pagare, con la fucilazione, per una catastrofe annunciata: sia Luigi Napoleone sia

l’inglese Palmerston avevano sconsigliato il Savoia-Carignano dal riprendere le ostilità.

La rotta di Mortara e la disfatta di Novara confermarono le loro previsioni negative: alle

18 del 23 marzo 1849 la prima guerra d’Indipendenza era finita. Radetzky dettò condizio-

ni pesantissime: occupazione della Valsesia, consegna del forte di Alessandria, congedo dei

volontari, Vittorio Emanuele, primogenito del re, ostaggio degli austriaci. Quando que-

st’ultimo raggiunse Novara, Carlo Alberto abdicava in suo favore e s’incamminava verso

l’esilio: sarebbe morto a Porto, nel luglio 1849, appena cinquantenne.

In una cascina di Vignale,Vittorio Emanuele II, il ventottenne nuovo re, incontrò Radetzky,

già suo testimone di nozze. Il vecchio generale avrebbe poi comunicato a Vienna che il so-

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vrano «dichiarò fermamente di avere la più solida intenzione di mettere a terra il partito

repubblicano al quale suo padre, negli ultimi tempi, aveva dato tanta mano libera da far-

ne un pericolo per sé e per il trono».

La rivoluzione genovese dell’aprile 1849 si collocava subito dopo l’armistizio austro-pie-

montese ed era stata alimentata da dicerie che, fin dal 27 marzo, volevano le truppe impe-

riali in marcia su Pontedecimo. Il clima di sospetto che seguì i giorni della fatal Novara –

mentre la strategica cittadella di Alessandria veniva effettivamente lasciata agli Austriaci –

fu la ragione scatenante di quella che lo storico francese Charles de Mazada definì una pic-

cola Comune. La componente antipiemontese, municipalistica e indipendentistica, vi eb-

be certo un ruolo inferiore rispetto alla volontà democratica di difendere lo Statuto, anzi

di superarlo in senso repubblicano, e a quella patriottica e antiaustriaca, che presuppone-

va la difesa di Milano. E a queste motivazioni si aggiunsero ragioni sociali. Inoltre, il nuo-

vo governo di Vittorio Emanuele II – che in quei giorni non perdeva occasione per tuona-

re contro i demagoghi e i politicanti – aveva tutte le caratteristiche per mettere in allerta gli

spiriti democratici. La convinzione che gli spazi di libertà che Genova si era guadagnata in

quegli anni fossero in gioco (e che addirittura potessero aver fatto parte di un mercato se-

greto fra il re e Radetzky) era piuttosto fondata. Il barone Antonio Profumo, primo sin-

daco della città, lanciava appelli al Parlamento di Torino e al re perché la lotta antiaustria-

ca continuasse e si concentrasse a Genova; ma le suppliche non sortirono effetti.

Il 31 marzo, si insediava un Comitato di pubblica sicurezza e difesa, che ricalcava un poco

i triumvirati veneziano, toscano e romano. Il 1° aprile Genova insorgeva.

Il responsabile sabaudo della piazza, Giacomo De Asarta si arrendeva il 2 aprile, impe-

gnandosi a lasciare subito la città con tutte le sue truppe e ritirarsi oltre Appennino. E co-

sì fece, promettendo anche di intercedere per evitare un attacco piemontese alla città. Do-

Trionfale ritorno della Brigata Salerno in piazza De Ferrari a Genova. Opera di Giuseppe Mazzeiconservata presso il Museo delRisorgimento.

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po l’allontanamento delle truppe piemontesi, primo atto del governo provvisorio – inse-

diatosi in vece del precedente comitato, ma con la stessa guida – fu quello di coinvolgere

nel moto la Legione lombarda, i cui volontari, dopo Novara, stavano vagando per la Val

Trebbia, per sfuggire all’avanzata austriaca su Alessandria e riorganizzarsi o cercare scam-

po e un eventuale imbarco a Chiavari: Genova e Milano si trovavano ancora solidali.

A raggiungere Genova, Lamarmora, con l’incarico di commissario straordinario, fu tutta-

via più rapido della Legione lombarda, che arrivò stremata a Chiavari soltanto a partire dal

7 aprile. Genova venne bombardata – senza risparmiare l’ospedale di Pammatone – e croa-

tata dai bersaglieri di Lamarmora: il rapporto dei funzionari genovesi di polizia registrava

in modo molto preciso stupri e saccheggi degni del peggiore esercito di occupazione. La

tragedia genovese si consumava negli stessi giorni in cui il nuovo sovrano concludeva a Mi-

lano, il 6 aprile, la pace con l’Austria. Sul trono degli Asburgo sedeva ora il diciannovenne

Francesco Giuseppe; a Vienna, travolto Metternich, la controrivoluzione aveva imposto il

dinamico Felix von Schwarzenberg, che tingeva di venature liberali un governo sempre au-

tocratico, ma più preoccupato dagli sviluppi delle politiche intertedesche che di un Lom-

bardo-Veneto riconquistato e tenuto sotto il tallone della dittatura militare.

Il quadro politico sarebbe tuttavia cambiato in tempi relativamente rapidi. Nel novembre

1852, il conte di Cavour diveniva primo ministro piemontese e avrebbe confermato il suo

interesse prioritario nella creazione di una robusta linea ferroviaria interna. Anche se la co-

scienza di un rapporto privilegiato, e indispensabile, tra Genova e i paesi di oltre Alpi era

già chiara: la via per Milano avrebbe rappresentato piuttosto un risparmio di tempo in un

tracciato ideale verso la Svizzera e la Germania, costituendo insieme un importante inve-

stimento per i commerci interni al regno.

All’inizio del 1853, intanto, si chiudeva con il fallimento uno degli ultimi moti mazzinia-

ni: il cospiratore genovese – preoccupato per la definitiva restaurazione di Napoleone III e

per il risveglio della politica piemontese, che faceva oscillare molti suoi vecchi compagni

verso la monarchia – diede la propria approvazione a un tentativo insurrezionale a Mila-

no. Come la rivoluzione genovese del 1849, della quale riprendeva in parte i motivi, anche

la rivolta dei barabba (operai, artigiani e popolo minuto) è episodio risorgimentale taciu-

Il treno di prova nella grande galleria di Ronco. Da un disegnodal vero di A. Amato.(Collezione dellaGalleria San Lorenzo al Ducale).

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to dall’oleografia ufficiale. I barabba non avevano seguìto la svolta filosabauda dell’aristo-

crazia e della borghesia milanese e la loro rivolta, che fallì sul nascere, ebbe tuttavia mani-

festazioni cruente, come il linciaggio di alcune guardie, e provocò una durissima reazione

austriaca, con numerose condanne a morte ed esecuzioni. Negli ambienti repubblicani si

disse che ad avvertire gli austriaci della cospirazione fosse stato lo stesso Cavour, alla cui

politica avrebbe molto nuociuto una rivoluzione dal basso a Milano. Il Risorgimento si sa-

rebbe compiuto per vie più istituzionali. Fu probabilmente l’ultimo tentativo di imprime-

re una svolta non monarchica al Risorgimento.

A Genova, dopo i tragici eventi del 1849, l’apertura della ferrovia Torino-Genova nel no-

vembre 1853 fu invece il primo passaggio di un relativo ravvicinamento fra la città repub-

blicana e Vittorio Emanuele II, che sarebbe venuto a inaugurare la linea nel febbraio 1854,

con dovizia di celebrazioni. Nel 1856 venne poi inaugurata la Genova-Voltri. Le istanze di

integrazione di Genova nel sistema sabaudo vennero rafforzate e incoraggiate dalla ferro-

via, non meno di quelle, ormai organiche al disegno cavouriano, di un ampliamento del

regno piemontese anzitutto verso la Lombardia. Attorno a Cavour si era venuta a creare a

Genova una sorta di solida rete economico-politica, formata da imprenditori e finanzieri

liberali – i Bombrini, i Rubattino, i Balduino, gli Ansaldo – già consapevoli della comples-

sità di un processo unitario che doveva passare per lo sviluppo economico. La riconquista

dell’asse Genova-Milano, che era stato uno dei motivi forti del pensiero risorgimentale dal-

la Restaurazione al biennio 1848-1849 e anzi ne aveva in qualche modo fissato la radicali-

tà, divenne uno degli elementi portanti del decennio di preparazione che avrebbe portato

nel 1859 alla Seconda guerra d’Indipendenza, e il rapporto privilegiato di Cavour con gli

industriali genovesi rappresentò un importante elemento di raccordo per il compimento

di quella impresa. Si ponevano intanto le prime basi di quel triangolo industriale che avreb-

be caratterizzato per oltre un secolo la storia d’Italia.

I rapporti tra Genova e Milano – nel sistema del regno d’Italia dopo il 1859 – poterono cre-

scere a tutti i livelli. Le due città si trovarono ancora in prima linea, accomunate sul ver-

sante della radicalità, e ora del socialismo, nel secolo morente; ma esiti ben diversi ebbero la

rivolta milanese del 1898, sanguinosamente stroncata dal feroce, monarchico, Bava (il ge-

Sotto e alla paginaseguenteImmagini d’epoca della città di Milano.

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nerale Fiorenzo Bava Beccaris), e lo sciopero generale del porto di Genova del dicembre

1900, pietra miliare delle lotte sindacali in Italia. Tra l’altro, all’istituzione del Consorzio

autonomo del porto di Genova (febbraio 1903), che anche di quella lotta democratica fu

un risultato, la Camera di Commercio milanese ebbe un proprio rappresentante (come

quelle di Torino e Alessandria) nel nuovo organismo.

Drammaticamente allineate tanto nel poderoso sforzo di produzione bellica per la Grande

Guerra, e considerate zone di guerra dall’ottobre 1917, insieme con Torino, Genova e Mila-

no furono poi due dei centri nei quali più forte fu l’opposizione operaia al fascismo squa-

dristico. L’antico spirito libertario e democratico del Risorgimento rifiorì in quella fase.

Pure, fu il regime mussoliniano – nella sua aspirazione di crescita industriale – a riavvicinarle

ancor più. La considerevole crescita del traffico commerciale su gomma rispetto a quello su

rotaia stimolò la realizzazione di un’autostrada che rendesse più veloci gli spostamenti con

mezzi pesanti fra la Superba e il suo entroterra. Nacque dunque, in appena tre anni di lavo-

ri (venne ultimata nel settembre 1935), la Strada camionale Genova-Serravalle, poi prolun-

gata fino al capoluogo lombardo. una struttura che ancor oggi “regge” con fatica, come cor-

sia sud della A7 Genova-Milano, all’impatto di una motorizzazione ben diversa da quella

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degli anni Trenta. I cantieri della Camionale si aprirono del resto nell’anno in cui per le stra-

de cominciava a circolare la Fiat Balilla, un’auto dal piccolo chassis, antenata delle utilitarie

e rivolta a un pubblico non esclusivo.

Con la guerra adolfa – come la chiamò il grande scrittore milanese Carlo Emilio Gadda –

e con i bombardamenti, il triangolo industriale venne duramente colpito. E fu con l’insur-

rezione modello di Genova che, come avrebbe ricordato Paolo Emilio Taviani (che di quel-

le giornate fu uno dei principali attori), «due corpi d’armata germanici (che già avevano

ricevuto l’ordine da von Vietinghoff, che era succeduto a Kesserling, di ritirarsi ordinata-

mente e organizzare una linea di difesa sul Po), quello di stanza nel Genovesato e quello

schierato sul lembo occidentale della linea gotica (Sarzana-La Spezia), furono completa-

mente dissolti. Un altro corpo d’armata dislocato in Piemonte, che avrebbe dovuto copri-

re il fianco occidentale della linea Kesserling sul Po, rimase isolato. Le forze partigiane pie-

montesi poterono valorosamente sconfiggerlo […]. I nazisti furono dunque costretti a ri-

nunciare a quella ormai famosa ultima linea di resistenza sul Po per la quale Kesserling

aveva predisposto da oltre un anno piani meticolosi e nella quale fino all’ultimo aveva

sperato. Dovettero evacuare Milano e la guerra terminò in

Italia con due settimane d’anticipo».

Il dopoguerra portò a un consolidamento del triangolo in-

dustriale, ma anche a un suo allargamento a est, verso Por-

to Marghera e Ravenna, che rendeva meno decisivo il peso

di Genova, dove la crisi occupazionale cominciava in parte

ad avvertirsi; gli anni del boom economico (1958-1963) se-

gnarono anche l’avvio di una piccola ma interessante “mi-

grazione pendolare” dal capoluogo ligure a quello lombar-

do, nel quale maggiori erano le occasioni, specie per il la-

voro intellettuale e le sue specializzazioni. Il fenomeno si sa-

rebbe fatto ancor più consistente con gli anni Settanta e

Ottanta, in un periodo critico per Genova, al quale corri-

spondeva per contro il clima di prosperità, talvolta un po-

co “dopata” di quella che sarebbe stata definita, con eccessi-

vo sarcasmo, la Milano da bere. La riformista Milano e la “ri-

belle” Genova erano state anche le prime due città a darsi

una giunta di centrosinistra, nel 1961, facendo da apripista

a una svolta assai importante per la politica italiana. Gli

anni di piombo le videro ancora in trincea, colpite dai ter-

rorismi, ma ugualmente capaci di reagire democraticamente.

Il legame Milano-Genova non è fatto però soltanto di storia

comune e di esigenze economiche condivise, a delineare un plurisecolare sistema d’interdi-

pendenza; altre liaisons, “di costume”, avvicinano queste due “capitali” del Nord: la loro vici-

nanza non risulterebbe così stretta se non si rievocasse il dato, non trascurabile, che il Geno-

vesato (e più diffusamente la Liguria) è la villeggiatura, oggi più o meno stanziale (o di “se-

conda casa”) di molti milanesi. Tra gli antecedenti illustri di questo altro tipo di flusso, si

può annoverare Alessandro Manzoni, che scendeva sul Mar Ligure nell’estate genovese, con

la numerosissima famiglia, ospite della bella villetta del marchese Gian Carlo di Negro, dove

avrebbe in parte atteso alla stesura della versione quarantana del suo capolavoro. Un altro

Gran Lombardo, Carlo Emilio Gadda, fu invece spesso animatore della villa di Arenzano dei

Rodocanachi, divenuta cenacolo letterario entre deux guerres. Un altro milanese, stavolta

d’adozione, il cigno di Busseto Giuseppe Verdi era stato per oltre quarant’anni villeggiante esti-

vo a Genova, ma non concesse mai al teatro Carlo Felice l’onore della “prima assoluta” di

una sua opera. L’altra faccia della medaglia è peraltro il premio Nobel Eugenio Montale, ge-

novese tanto sensibile alle radici della propria terra, ma trapiantato a Milano, in via Bigli, e

per decenni “grande firma” del prestigioso e milanesissimo Corriere della Sera.

Il marchese Gian CarloDi Negro in un ritrattodi Bianca Milesi Mojon,inizi XIX sec. (Milano,Collezione privata).

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