Gao Xingjian, La ragion d'essere della letteratura

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Discorso pronunciato davanti all’Accademia Svedese il 7 dicembre 2000, in occasione del ricevimento del premio Nobel per la letteratura.

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Gao Xingjian

Premio Nobel 2000

La ragion d’essere della letteratura

Discorso pronunciato davanti all’Accademia

Svedese

il 7 dicembre 2000

Traduzione dal cinese di

MARIA CRISTINA PISCIOTTA

Rizzoli

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Proprietà letteraria riservata

©2000 The Nobel Foundation

© RCS Libri S.p.A., Milano

ISBN 88-17-86765-9

Titolo originale dell’opera:

WENXUE DE LIYOU

Prima edizione: maggio 2001

Copia omaggio, non in vendita. A esclusivo uso promozionale.

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PRESENTAZIONE DELL’EDITORE

Rizzoli è lieta di presentare al pubblico italiano le opere

complete dell’ultimo premio Nobel, Gao Xingjian, drammaturgo,

saggista, romanziere e pittore. Con il Nobel assegnato per la

prima volta a un autore cinese (esule in Francia e inviso al regime

di Pechino), l’Accademia Reale di Svezia ha voluto premiare

«un’opera di portata universale segnata da un’amara presa di

coscienza e da un’ingegnosità linguistica che ha aperto nuove vie

all’arte del romanzo e del teatro cinesi».

Gao Xingjian è nato nel 1940 a Ganzhou, nella Cina sud-

orientale. Studia letteratura francese all’università di Pechino,

traduce Ionesco e il suo teatro dell’assurdo e dedica vari saggi

alla cultura francese ed europea del Novecento.

Nel 1970, nel pieno della rivoluzione culturale, viene inviato

in campagna per essere «rieducato» ed è costretto a bruciare

una valigia di manoscritti che conteneva dieci drammi, un

romanzo, una raccolta di poesie. Tornato a Pechino nel 1975,

riprende a scrivere e pubblica nel 1981 il Primo saggio sulle

tecniche del romanzo moderno, che suscita violente discussioni

culturali e politiche. Comincia a mettere in scena, con grande

successo di critica e pubblico e crescente insofferenza del

regime, le sue opere teatrali, come Fermata d’autobus (1983) e

L’uomo selvaggio (1985). In un clima politico sempre più ostile e

soffocante (il partito sosteneva che i suoi scritti «inquinavano

l’aria spirituale che respirava il popolo cinese»), Gao decide nel

1987 di lasciare la Cina e nel 1988 approda a Parigi, dove vive

tuttora. A Parigi conclude il suo capolavoro, il romanzo La

montagna dell’anima, cominciato nel 1982, e dopo i fatti di

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Tiananmen scrive il dramma La fuga (1989), che segna la rottura

definitiva con Pechino. Dal 1998 è cittadino francese. Nei suoi

scritti dell’esilio c’è l’orgogliosa consapevolezza di un uomo che

abbandonando la sua patria si è imposto la missione di ricreare

dentro di sé – con il ricordo, la riflessione, l’immaginazione

artistica – l’idea della vera Cina, libera dall’oppressione. Nel

2000, prima di ricevere il Nobel, Gao ottiene in Italia il premio

Feronia.

Rizzoli comincia, dal settembre 2001, la pubblicazione delle

opere di questo maestro contemporaneo con una prima raccolta

di racconti e un volume illustrato che raccoglie, oltre a un

importante saggio autobiografico e critico, una scelta della sua

pittura, in concomitanza con la mostra che toccherà Avignone,

Berlino, Madrid e Houston. Nel 2002 uscirà La montagna

dell’anima (1990), il romanzo-monumento «che fonde – come ha

scritto marco Ceresa sul “Corriere della Sera” – le caratteristiche

dell’autobiografia con quelle del viaggio mistico-iniziatico, del

racconto picaresco e della raccolta di mirabilia». In seguito sarà

la volta del secondo romanzo autobiografico, Il libro di un uomo

solo (1998), e dei volumi dedicati al teatro e ai saggi.

Per celebrare questo grande evento culturale, Rizzoli offre,

per la prima volta in versione integrale in italiano, la lezione

magistrale tenuta da Gao a Stoccolma il 7 dicembre 2000, nel

corso delle cerimonie per la consegna del premio Nobel. Si

intitola La ragion d’essere della letteratura, ed è un’appassionata

professione di fede in una letteratura libera da qualunque

condizionamento sociale e politico, una letteratura che, a

dispetto della sua conclamata “inutilità”, è forse l’unica

consolazione che aiuta a sopravvivere in un mondo sempre più

folle.

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LA RAGION D’ESSERE DELLA LETTERATURA

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Non so se sia per destino che mi trovo su questo podio, non

potremmo del resto chiamare destino quella serie di felici

coincidenze che definiamo caso? Non parlerò dell’esistenza di

Dio, mistero di fronte al quale ho sempre provato il massimo

rispetto, nonostante il mio congenito ateismo.

L’individuo non può diventare Dio, né tanto meno

sostituirsi a Dio; se fosse il superuomo a governare il mondo, il

mondo precipiterebbe nel più grave disordine, nel marasma.

Durante questo secolo post-nietszchiano, le catastrofi provocate

dall’uomo hanno registrato le pagine più nere della storia

dell’umanità. Il dettato del filosofo, portato al narcisismo più

folle, è niente al confronto dei crimini prodotti dal ricorso

perpetuo alla violenza da parte di tutti quei sedicenti

superuomini che sono i vari capi di stato, condottieri del popolo,

duci supremi delle nazioni. Non intendo abusare di questa

tribuna letteraria dilungandomi troppo sulla politica e la storia:

ciò che mi preme con l’occasione è far udire la voce di uno

scrittore in quanto individuo.

Lo scrittore è un uomo comune, magari un poco più

sensibile, e, come chi è molto sensibile, spesso più fragile. Lo

scrittore non è né portavoce del popolo né incarnazione della

giustizia; quando parla la sua è una voce inevitabilmente debole,

ma per ciò stesso autentica.

Con ciò voglio dire che la letteratura non può che essere,

come è da sempre, la voce di un individuo. Quando la letteratura

diventa inno alla nazione, vessillo di razza, voce di partito, organo

di classe o di corporazione, si diffonda pure con ogni mezzo fino

a coprire cielo e terra, comunque perderà ineluttabilmente la sua

vera natura, cessando d’esser letteratura per diventare mero

strumento al servizio del potere e degli interessi.

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Nel corso del secolo che sta per finire, la letteratura è stata

sciaguratamente viziata da questo male: mai come in questo

secolo essa è stata così profondamente segnata dalla politica e

dal potere e gli scrittori hanno subito un’oppressione senza

precedenti.

Perché la letteratura salvi la propria ragion d’essere e non

diventi strumento della politica deve ritrovare la voce

dell’individuo, dato che la scrittura scaturisce innanzitutto dalle

sensazioni dell’individuo di cui è espressione. E non intendo che

la letteratura debba essere del tutto avulsa dalla politica o del

tutto coinvolta nella politica; i vari dibattiti sull’impegno della

letteratura e sull’impegno politico dello scrittore che in questo

secolo si sono succeduti hanno costituito un vero flagello.

L’ideologia è stata rovinosa: nel dibattito letterario tradizione e

innovazione sono diventate reazione e rivoluzione trasformando

ogni discussione in lotta tra progresso e conservatorismo. Ogni

qualvolta ideologia e potere si sono saldati insieme costituendo

la forza reale, la letteratura e l’individuo si sono trovati

sistematicamente annullati.

Ogni volta che nel XX secolo la politica ha dominato sulla

letteratura e la rivoluzione letteraria e la letteratura

rivoluzionaria hanno rispettivamente decretato la distruzione sia

della letteratura sia dell’individuo, la letteratura cinese si è

trovata del tutto prosciugata per non dire del tutto annullata.

L’attacco alla cultura tradizionale cinese ha portato, in nome

della rivoluzione, all’interdizione pubblica e al rogo dei libri. Nel

corso dei cento anni passati, il numero degli scrittori fucilati,

imprigionati, costretti all’esilio, oppure condannati ai lavori

forzati è incalcolabile, nonché incomparabile rispetto a ogni altro

periodo dinastico della storia imperiale cinese, al punto da

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mettere in grave difficoltà la scrittura cinese e ancor più la libertà

creativa.

Lo scrittore che aspirasse alla libertà di pensiero doveva o

fuggire o tacere. Ma poiché lo scrittore si affida alla lingua, se

tace per troppo tempo è come se si suicidasse. Se vuole evitare il

suicidio e l’esser ridotto al silenzio, e per di più, ha necessità di

parlare con la propria voce, non può scegliere che l’esilio. Così è

sempre stato, e basta pensare alla storia letteraria, in Oriente

come in Occidente, per trovarne conferma: da Qu Yuan a Dante,

da Joyce a Thomas Mann, a Solženicyn, così come al gran

numero di intellettuali cinesi che dal 1989, dopo il massacro di

Tiananmen, si sono auto esiliati, questo è sempre stato

l’ineluttabile destino di quei poeti e di quegli scrittori che

volevano salvare la loro voce.

Ma, durante tutta la dittatura di Mao Zedong, nemmeno la

fuga era praticabile. I monasteri sperduti nelle profondità delle

foreste montane, che avevano dato rifugio ai letterati dell’epoca

feudale, furono tutti rasi al suolo, tanto che persino lo scrivere in

segreto poteva significare mettere la propria vita in pericolo.

L’individuo che volesse mantenere la propria autonomia

intellettuale poteva solo parlare con se stesso e nel più profondo

segreto. Devo dire che fu proprio allora, quando fare letteratura

era praticamente impossibile, che io ne compresi a pieno la

necessità: essa è infatti ciò che permette all’essere umano di

acquisire la coscienza di uomo.

Si può dire che la letteratura nasca dal parlare con se stessi

e che solo dopo venga l’uso della lingua per comunicare con gli

altri. L’uomo traduce sentimenti e pensiero in lingua e, quando

questa si fa scrittura, allora nasce la letteratura. Quando poi non

c’è un fine utilitaristico o la velleità di essere pubblicati e tuttavia

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si sente la necessità di continuare a scrivere, è perché nel piacere

della scrittura stanno ricompensa e conforto. Se mi misi a

scrivere il mio romanzo La montagna dell’anima quando ancora

le mie opere, nonostante l’autocensura, erano messe al bando,

fu solo per colmare la mia solitudine interiore, per me stesso,

senza ambire a un’eventuale pubblicazione.

Per la mia esperienza posso dire che, essendo la scrittura

affermazione dell’uomo, la letteratura nasce nel momento in cui

egli è in grado di riconoscerle tale valore. Essa scaturisce dalla

necessità dello scrittore di soddisfare il proprio io e, solo quando

un’opera è terminata, acquisisce notorietà sociale, notorietà che

peraltro è indipendente dalla volontà dell’autore. Nella storia

della letteratura molti sono i capolavori immortali che non

furono pubblicati mentre gli autori erano in vita: perché infatti

avrebbero dovuto continuare a scrivere se nella scrittura non

trovavano la propria autoaffermazione? Come Shakespeare, è

tuttora arduo fare piena luce sulla biografia dei quattro geni che

scrissero i maggiori romanzi della storia della letteratura cinese:

Viaggio a Occidente, Storia della palude, Jing Ping Mei, Il sogno

della camera rossa. Tra gli autori di questi libri, del solo Shi Naian

ci è pervenuta l’autobiografia. E leggendola ci chiediamo: se non

avesse scritto solo per conforto personale, come egli stesso

confessa, perché avrebbe dovuto spendere ogni sua energia in

un’opera imponente che non ottenne il minimo riconoscimento

mentre lui era in vita? Per non parlare poi di quella pietra miliare

del romanzo moderno che è Kafka o di Fernando Pessoa, il poeta

più profondo del XX secolo. Per loro la lingua non serve a

rifondare il mondo, perfettamente coscienti come sono

dell’inadeguatezza dell’individuo: ed è qui il fascino della loro

lingua.

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La lingua è la cristallizzazione più alta della civiltà umana.

Raffinata, penetrante, inafferrabile, invadente, esplora il mondo

emotivo e cognitivo dell’uomo stabilendo un nesso tra il soggetto

sensibile e la sua conoscenza della realtà. La parola scritta è

straordinaria perché permette a individui isolati, appartenenti a

generazioni e paesi diversi, di comunicare tra loro. E

l’immediatezza di lettura e scrittura letteraria aggiunge eternità

al valore spirituale delle letteratura medesima.

Lo scrittore che oggi si concentri soprattutto sul carattere

nazionale della cultura mi lascia perplesso. Il paese dove sono

nato e la lingua che parlo mi rendono naturalmente portatore

delle tradizioni culturali cinesi; poiché lingua e cultura, come si

sa, sono strettamente legate, si formano dei modelli autoctoni

relativamente stabili di rappresentazione delle sensazioni, della

conoscenza e dell’espressione. Ma la creatività dello scrittore

parte proprio dalla lingua già esistente, a cui egli aggiunge la

propria capacità di espressione narrativa laddove la lingua non è

ancora giunta. Quindi, in quanto creatore dell’arte della lingua, lo

scrittore non deve assumere una vieta etichetta nazionale

immediatamente riconoscibile.

Trascendendo frontiere, lingue (attraverso le traduzioni),

costumi sociali, relazioni umane particolari di una storia e di

un’area gerografica, le opere letterarie rivelano così un’umanità

profondamente e universalmente comunicabile. Subendo inoltre

l’influsso di molte altre culture oltre alla propria, lo scrittore che

oggi si concentri sul carattere nazionale della cultura, a meno che

non voglia fare l’agente turistico, mi lascia decisamente

perplesso.

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Come la letteratura trascende l’ideologia, le frontiere, la

coscienza di razza, così l’esistenza dell’individuo trascende

fondamentalmente ogni e qualsiasi «ismo»: la vita dell’uomo sta

sempre al di sopra delle dottrine e delle speculazioni

sull’esistenza. La letteratura è un occhio attento alle generali

difficoltà dell’umano esistere, considerate senza alcun tabù. Le

restrizioni in letteratura provengono sempre dall’esterno; siano

politiche, sociali, etiche o di costume, tutte tendono a ridurla a

schemi, quasi fosse una cornice decorativa.

Ma la letteratura non è ornamento del potere, né un

raffinato articolo alla moda, giacché contiene in sé giudizi di

qualità, quelli che chiamiamo giudizi estetici. Il giudizio estetico,

che è sempre in relazione coi sentimenti umani, è l’unico giudizio

possibile di un’opera letteraria.

Variando come i sentimenti da individuo a individuo, tale

soggettività del giudizio estetico risponde pur sempre a dei

canoni comunemente condivisi. La capacità di apprezzamento

critico, affinata dalla formazione letteraria, fa sì che il lettore

acquisti una percezione migliore della poesia e della bellezza, del

sublime e del ridicolo, della malinconia e dell’assurdo,

dell’umorismo e dell’ironia, insomma di tutto ciò che lo scrittore

ha instillato nell’opera.

La poesia non si identifica solo con la lirica. Il narcisismo

illimitato dello scrittore è una sorta di malattia infantile, che è

difficile evitare quando si è agli inizi. Molteplici sono i livelli di

espressione dei sentimenti: se si vuole toccare il livello più alto,

meglio ricorrere a un’osservazione con occhi freddi. E’ in

quest’occhio distaccato che si dissimula la poesia. E quando

quest’occhio esamina lo scrittore stesso, allora esso si pone al di

sopra tanto dei personaggi del libro quanto dell’autore: diventa il

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terzo occhio dello scrittore, l’occhio più neutro possibile. Sicché

anche i disastri e i rifiuti del mondo degli uomini potranno dallo

scrittore essere esaminati, provocando sì sofferenza, repulsione

e nausea, ma risvegliando allo stesso tempo pietà, amore e

attaccamento per la vita.

Non credo che il giudizio estetico, così profondamente radicato

nell’uomo, possa mutare con la moda, anche se la letteratura,

come l’arte, risente della moda del tempo. Ma, diversamente dal

giudizio estetico in letteratura, la moda predilige unicamente il

nuovo, secondo le normali leggi del mercato a cui il mercato del

libro non sfugge. Se le tendenze del mercato dovessero incidere

sul giudizio estetico dello scrittore, la letteratura sarebbe votata

al suicidio. Ecco perché, in quella che oggi chiamiamo società dei

consumi, è alla «letteratura fredda» che io penso sia necessario

ricorrere.

Dieci anni fa, quando dopo sette anni terminai La

montagna dell’anima, questo fu il genere di letteratura che

preconizzai:

«Per sua stessa natura, la letteratura non ha niente a che

vedere con la politica: è una questione puramente individuale,

uno sguardo, un modo di rivivere un’esperienza, un pensiero, un

sentimento, l’espressione di un particolare stato interiore e, allo

stesso tempo, un’appagante pienezza riflessiva.

«Ciò che definiamo scrittore non è nient’altro che un

individuo il quale si esprime, scrive; gli altri possono ascoltarlo o

non ascoltarlo, leggerlo o non leggerlo; lo scrittore non è né un

eroe che parla in favore del popolo, né un idolo che si possa

adorare, ancor meno un criminale o un nemico del popolo; e se

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gli accade di avere problemi a causa della sua opera, questo

accade solo per ragioni che non dipendono da lui: quando il

potere deve costruirsi dei nemici sui quali dirottare l’attenzione

del popolo, lo scrittore ne diventa la vittima. Ed egli, per colmo di

sventura, da vittima di tali tormenti, rischia di credersi eroe.

«In realtà, la relazione tra lo scrittore e il lettore è come un

legame spirituale che, attraverso l’opera, intercorre tra due o più

individui i quali non hanno alcun bisogno né di vedersi, né di

incontrarsi. La letteratura, in quanto attività umana, è costituita

da due atti fondamentali: leggere e scrivere, due azioni di per sé

non soggette ad alcun permesso o ad alcun dovere nei confronti

delle masse.

«Come non chiamare fredda una letteratura che ha

ritrovato i propri valori costitutivi, che esiste solo perché il

genere umano è alla ricerca di un’attività squisitamente

spirituale che vada oltre le soddisfazioni materiali? Ovviamente

non nasce ora, ma se nel passato doveva resistere al potere

politico e alle pressioni del costume sociale, la letteratura di oggi

deve lottare anche contro l’invasione delle leggi di mercato della

società dei consumi e, per sopravvivere, deve prima di tutto

accettare la solitudine.

«Consacrandosi a questo lavoro di creazione, lo scrittore

avrà fatalmente difficoltà economiche e sarà costretto a cercarsi

un altro mezzo di sussistenza: ecco perché questo lavoro diventa

un lusso, una pura gratificazione spirituale. La letteratura

“fredda” non ha possibilità di essere pubblicata e diffusa se non

grazie agli sforzi degli scrittori e dei loro amici. E’ il caso di Cao

Xueqin e di Kafka. Le loro opere non furono pubblicate in vita

sicché essi non ebbero la possibilità di creare alcun movimento

letterario o di emergere nella società. E’ ai margini e negli

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interstizi della società che simili scrittori vivono. Consacrati

interamente a un’attività spirituale, senza alcuna speranza

retributiva, essi non vanno alla ricerca di un riconoscimento

sociale ma di un piacere personale.

«La letteratura fredda è una letteratura di fuga che mira a

salvaguardare la propria vita, una letteratura di sopravvivenza

spirituale che tende a liberarsi della stretta soffocante dei

condizionamenti sociali; un paese che rifiuta una letteratura non

utilitaristica non costituisce solo una disgrazia per lo scrittore, ma

denuncia in questo la propria miseria.»

Io invece ho la gioia di ricevere l’immenso onore di questo

riconoscimento da parte dell’Accademia Svedese mentre sono in

vita, riconoscimento che va anche agli amici sparsi nel mondo

intero che tanto si sono prodigati per tradurre, pubblicare,

mettere in scena e analizzare criticamente le mie opere. Tanto

lunga è la loro lista che ringraziarli qui uno per uno è impossibile.

Un grazie particolare anche alla Francia che mi ha accolto: in

questo paese glorioso per letteratura e arti ho trovato le

condizioni per esprimere liberamente la mia creatività, così come

ho trovato dei lettori e degli spettatori. Ho avuto la fortuna di

non rimanere isolato, nonostante questo mio lavoro creativo sia

di per sé solitario.

Proprio da questo podio vorrei dire che la vita non è

davvero una cerimonia e che il mondo non è tutto come questa

pacifica Svezia che non conosce guerre da centottant’anni: il

secolo scorso così carico di disastri non è servito a rendere noi

del nuovo secolo immuni. La memoria non si trasmette per

ereditarietà come i geni. Il genere umano, benché intelligente,

non lo è tanto da apprendere dal passato; l’umano intelletto può

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talvolta essere soggetto ad accessi di perfidia che mettono in

serio pericolo l’esistenza dell’uomo.

Non è certo detto che l’umanità progredisca

sistematicamente. La storia, e per storia intendo storia della

civiltà umana, non segue un progresso regolare. La stagnazione

del medioevo europeo, il declino e le turbolenze del continente

asiatico in epoca moderna, la tragedia delle due guerre mondiali

nel XX secolo, la sempre maggiore sofisticazione dei metodi per

uccidere, tutto ciò testimonia che civiltà e acquisizioni

scientifiche e tecnologiche non sono progredite parallelamente.

Né l’interpretazione della storia fondata su teorie

scientifiche, né le congetture basate su una qualsiasi pseudo-

dialettica storicistica servono a spiegare i comportamenti umani.

Il crollo attuale dei fanatismi utopici e delle rivoluzioni

permanenti che hanno dominato per più di un secolo non ha

forse lasciato una qualche amarezza in chi è sopravvissuto?

La negazione della negazione non porta inevitabilmente

all’affermazione, né le rivoluzioni sono sempre sfociate in

successo: l’utopia di un mondo nuovo ha costituito la premessa

per la distruzione del vecchio, la teoria della rivoluzione sociale è

stata applicata anche alla letteratura trasformando in campo di

battaglia il giardino della creatività, gli antichi sono stati

abbattuti, le tradizioni culturali calpestate, tutto è stato azzerato

eccetto il processo di riforma, la storia della letteratura è stata

reinterpretata come un susseguirsi di sovvertimenti.

Lo scrittore non può certo assumersi il ruolo del Creatore e

nemmeno può credersi Cristo per mero narcisismo: ciò infatti gli

provocherebbe una deviazione mentale alla follia e il mondo

reale diventerebbe illusione, dove tutto ciò che è esterno al

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corpo è purgatorio e dove ovviamente diventa impossibile

vivere. Gli altri sono il vero inferno, ma quando il sé è fuori

controllo, non è anche questo sempre un inferno? Quando si

diventa vittime del futuro, si esige che anche gli altri lo siano.

Non si può chiudere frettolosamente la storia del XX secolo:

se restiamo bloccati nelle rovine degli schermi ideologici la storia

non ci sarà servita a niente, mentre i posteri potranno

modificarla.

Lo scrittore non è un profeta, urge che viva l’istante,

eludendo le trappole, scrollandosi di dosso le speranze vane,

vedendo subito chiaro senza perdere la visione di sé. Il sé è caos,

ma mai dobbiamo rinunciare a riflettervi anche continuando a

interrogarci sul mondo e sugli altri. Le catastrofi e le oppressioni

provengono spesso dall’esterno e inoltre la fragilità e le

inquietudini dell’uomo rischiano di aggravare le sue sofferenze,

nuocendo così anche agli altri.

Il comportamento dell’uomo è così enigmatico che egli

fatica a comprendere se stesso; ma quando la letteratura, che è

in sostanza autoanalisi, porta l’uomo a riflettere su se stesso

ecco che un barlume di coscienza emerge a far luce sull’io.

La funzione della letteratura non è assolutamente quella di

sovvertire: il suo valore consiste nello scoprire e rivelare il vero

volto di un mondo che raramente si conosce o non si conosce

abbastanza, oppure si crede di conoscere ma in realtà si ignora.

La verità è dunque la qualità primaria della letteratura, e la meno

confutabile.

Un nuovo secolo comincia – nuovo o no, questo sarebbe un

altro discorso – mentre la rivoluzione letteraria e la letteratura

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rivoluzionaria sono destinate a crollare con la disgregazione delle

ideologie. Le illusioni utopistiche che hanno pervaso la società

per più di un secolo sono già svanite e, una volta che la

letteratura si sarà liberata di ogni «ismo», dovrà ritornare alle

difficoltà che peraltro non sono mai fondamentalmente

cambiate e che resteranno l’eterno tema della letteratura.

Questa è un’epoca senza profezie e senza promesse e io

penso che sia meglio così. Finito il tempo in cui lo scrittore

s’arrogava il ruolo di profeta e di giudice, le profezie del secolo

scorso si sono rivelate altrettanti inganni. Inutile inventarsi nuovi

pregiudizi sul futuro, meglio sarebbe aspettare a occhi aperti.

Meglio sarebbe se lo scrittore ritornasse a essere testimone e si

sforzasse di rappresentare il più possibile la realtà.

Con ciò non voglio dire che la letteratura sia mera

registrazione della realtà. E’ vero che sono assai rare le

testimonianze che abbracciano tutta intera la realtà, e spesso

esse mascherano le cause e i motivi che hanno generato gli

eventi. La letteratura, quella vera, quando entra in contatto con

la realtà, rivela tutto senza eccezione, dalla zona più oscura della

coscienza umana fino al procedere degli avvenimenti; e questa è

la sua forza, a patto però che lo scrittore mostri l’esistenza

umana nella sua realtà, senza inventare nulla.

E’ la sapienza dello scrittore nel selezionare la realtà che

veramente decide della qualità dell’opera, e questo processo non

può essere sostituito né da tecniche compositive né da giochi di

parole. Infatti si può non concordare sulla definizione della realtà

e il modo di affrontarla varia da persona a persona, ma ciò che si

percepisce immediatamente è se uno scrittore ha abbellito i fatti

della vita o se li ha resi senza orpelli. Trasformare gli interrogativi

sulla realtà in esercizi verbali è tipico della critica letteraria di una

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certa ideologia, ma simili principi e simili dogmi non hanno

niente a che vedere con la creazione letteraria.

Se lo scrittore affronta o meno la realtà non è solo una

questione di processo creativo, ma è qualcosa di intimamente

legato al suo atteggiamento verso la scrittura. Se ciò che scrive

risponda o no alla realtà dipende anche dalla sincerità con cui ha

esposto i fatti. Come dire che la realtà non è semplicemente un

parametro di valutazione letteraria, ma è anche una scelta etica.

La missione dello scrittore non è affatto quella di predicare la

morale: quando egli si impegna a rappresentare le persone più

diverse sparse nel mondo espone anche se stesso fino alla sua

più segreta intimità. Per lo scrittore, la realtà è prossima all’etica,

è l’etica suprema.

Anche la narrativa, per uno scrittore rigoroso, deve

prefiggersi di esprimere la realtà della vita umana: in questo

risiede la forza vitale delle opere che hanno attraversato i secoli.

Perciò la tragedia greca e Shakespeare non potranno mai passare

di moda. La letteratura non è semplicemente una copia della

realtà, ne attraversa la superficie penetrando fin negli strati più

profondi e svelando le false illusioni; osserva dall’alto i fatti

quotidiani con una prospettiva più ampia, fornendo una visione

d’insieme in cui ogni più piccolo particolare è svelato.

Naturalmente la letteratura ricorre anche

all’immaginazione. Ma questo viaggio dello spirito non consente

una libertà creativa assoluta; se l’immaginazione si separa dai

sentimenti reali, allontanandosi dalle fondamentali esperienze

della vita, diventa pura invenzione e finisce così per essere senza

colore e senza forza. Un’opera che non convince il suo stesso

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autore non potrà mai colpire il lettore. In realtà la letteratura

non si limita ad attingere all’esperienza della vita quotidiana e lo

scrittore non è rinchiuso nel suo vissuto; tutto ciò che ha visto e

sentito, tutto ciò che è stato già detto nelle opere letterarie del

passato diventa, grazie al veicolo della lingua, una percezione

personale dello scrittore: anche in questo sta la magia della

lingua letteraria.

Come gli incantesimi e le preghiere, la lingua ha il potere di

scuotere il corpo e la mente degli uomini; l’arte della lingua

consente al narratore di trasmettere agli altri ciò che egli

percepisce, e non è un semplice sistema di codici o una

combinazione di parole che si esaurisce nella sua stessa struttura

grammaticale. Se si dimentica l’uomo vivente che sta dietro alle

parole, i ragionamenti sulla lingua possono facilmente diventare

puro gioco intellettuale.

L’informatica e i codici non potranno mai sostituirsi alla

lingua degli esseri viventi proprio perché essa non è solo veicolo

di concetti e opinioni, ma traduce anche sensazioni e intuizioni.

Al di là dell’emissione delle parole è impossibile esprimere solo

con l’aiuto della semantica e della retorica la volontà e le

motivazioni, le intonazioni e lo stato emotivo di chi parla. Le

potenzialità della lingua letteraria si rivelano a pieno solo se ci si

serve della viva voce e dell’udito; che la lingua sia semplice

strumento di riflessione fine a se stesso non basta. Se l’uomo ha

bisogno della lingua, non è solo per trasmettere dei significati, è

pure per ascoltare e affermare la propria esistenza.

Parodiando Cartesio, si potrebbe dire dello scrittore: «Mi

esprimo dunque sono». L’«io» dello scrittore potrebbe essere lo

scrittore stesso oppure il narratore, o ancora un personaggio del

libro: il narratore-soggetto potrebbe essere «egli» ma anche

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«tu», dividersi da uno a tre. Determinare il soggetto parlante è la

chiave di partenza per esprimere le sue percezioni, da qui

prendono forma i diversi moduli narrativi. E’ in questo processo

di ricerca di un suo modulo narrativo originale che lo scrittore dà

forma concreta alle sue percezioni.

Nei miei romanzi, io uso i pronomi personali invece dei

personaggi usuali e descrivo oppure osservo il protagonista

utilizzando i pronomi «io», «tu», «egli». Quando uno stesso

personaggio utilizza pronomi personali diversi per esprimersi, la

distanza che si instaura conferisce alla recitazione dell’attore un

maggiore spazio interiore: per questo ho introdotto il

cambiamento dei pronomi personali anche nella mia

drammaturgia.

Non si finisce e non si finirà mai di scrivere opere narrative

e teatrali; decretare la morte di questo genere letterario e

artistico è davvero una cosa senza senso.

La lingua, nata con la civiltà umana, è prodigiosa come la

vita e la sua forza di espressione è inesauribile; il lavoro dello

scrittore consiste nello scoprirne e svilupparne le potenzialità

nascoste. Lo scrittore non è un demiurgo, non può distruggere

questo mondo per quanto antico e nemmeno costruirne uno

nuovo ideale, anche se quello attuale è del tutto assurdo e

incomprensibile all’uomo. Egli può eventualmente dedicarsi a

trovare nuove espressioni: laddove gli antichi hanno già detto,

c’e’ ancora da dire, laddove gli antichi si sono arrestati, da lì si

può anche ripartire.

«Sovvertire la letteratura» era il tipico vaneggiamento della

rivoluzione letteraria. La letteratura non è morta e lo scrittore

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non è stato distrutto. Ogni scrittore ha il suo posto sugli scaffali

e, finché ci saranno dei lettori a leggerlo, egli sopravviverà. Non

c’e’ maggior conforto per uno scrittore che quello di lasciare nel

magazzino della letteratura dell’umanità, già così ricco, un libro

per i posteri.

Tuttavia la letteratura si realizza e dà piacere solo

nell’immediato e questo è vero sia per l’autore quando scrive, sia

per il pubblico quando legge. A meno che non sia un pretesto,

scrivere per i posteri è un inganno per sé e per gli altri. La

letteratura è fatta per i vivi ed è inoltre l’affermazione stessa

dell’istante della vita. Questo istante eterno, quest’affermazione

della vita di un individuo è la ragion d’essere assoluta della

letteratura per la letteratura, se proprio vogliamo trovare una

ragion d’essere di questa immensa libertà.

Quando non si considera la scrittura un mezzo di

sostentamento e quando si scrive traendone piacere e

dimenticandosi perché e per chi si scrive, essa diventa una

necessità: è impossibile non scrivere e di qui inevitabilmente

nasce la letteratura. La letteratura è senza utilità e proprio

questa è la sua caratteristica principale. Che la scrittura letteraria

sia diventata un mestiere è lo sgradevole risultato della divisione

del lavoro nella società moderna e un’amara pillola da ingoiare

per lo scrittore.

Oggi, in particolare, che l’economia di mercato invade ogni

cosa, anche i libri sono diventati dei prodotti commerciali. In un

mercato cieco che domina ovunque, i movimenti letterari e le

associazioni delle varie correnti letterarie vanno scomparendo

totalmente, figurarsi lo scrittore isolato. Se lo scrittore non si

vuole piegare alle pressioni del mercato e crea rifiutandosi di

fabbricare dei prodotti culturali che soddisfino il gusto della

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moda, fatalmente dovrà cercarsi altri mezzi di sussistenza. La

letteratura non ha niente a che fare con i best-seller e le

classifiche di vendita e i media sono più interessati a

pubblicizzare il prodotto, disattendendo lo scrittore. La libertà

creativa non è un favore né una cosa che si può comprare, nasce

innanzitutto da un bisogno interiore dello scrittore.

Piuttosto che dire «il Buddha» è nel tuo cuore, sarebbe

meglio dire «la libertà è nel tuo cuore», ammesso e non

concesso che tu la usi. Se ci si serve della libertà in cambio di

qualcos’altro, essa volerà via come un uccello: questo è il prezzo

della libertà.

Quando lo scrittore scrive quello che ha voglia di scrivere

senza fini di lucro, vuol dire che afferma se stesso e

implicitamente lancia una sfida alla società. Purché la sfida non

sia un pretesto e lo scrittore non abbia velleità di fare l’eroe o il

combattente, battendosi per le nobili cause e le grandi imprese,

il che non rientra nei compiti dell’opera letteraria. Se lo scrittore

vuole sfidare la società, lo deve fare attraverso la lingua,

affidandosi ai personaggi e agli avvenimenti della sua opera,

altrimenti non potrà che nuocere alla letteratura. La quale, non è

esplosione di rabbia né può trasformare l’indignazione di un

individuo in denuncia. Solo quando lo scrittore riesce a

stemperare nell’opera i propri sentimenti di individuo, questi

allora sì che diventeranno letteratura e potranno superare la

prova del tempo perdurando nei secoli.

Ecco perché sarebbe più adeguato dire che è l’opera – non

tanto lo scrittore – a lanciare una sfida alla società. Le opere che

durano sono sempre risposte vigorose all’epoca e alla società in

cui lo scrittore ha vissuto.

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Quando quegli avvenimenti e quei personaggi sono lontani

nel tempo, la voce che si leva dall’opera continuerà a risuonare

finché esisteranno dei lettori.

In realtà questa sfida non cambierà mai la società, essa è

solo il gesto sommesso di un individuo che tenta di superare i

limiti consuetudinari del proprio organismo sociale; ma, poiché è

comunque fuori del comune, questo gesto di sfida rende

orgogliosi di essere uomini. Sarebbe davvero triste se la storia

dell’umanità dipendesse solo da leggi imperscrutabili, sospinta

dall’andare e venire di correnti cieche, che spengono anche la

più flebile voce di dissenso. In questo senso la letteratura

riempie i vuoti della storia. Anche quando la legge onnipotente

della storia schiaccia gli esseri umani senza offrir loro una scelta,

l’uomo deve lasciare una traccia della propria voce. L’uomo non

ha solo la storia, ha anche il beneficio della letteratura,

necessaria a dargli quel tanto di fiducia in se stesso che egli ha la

presunzione di possedere.

Onorevoli membri dell’Accademia, vi ringrazio di aver

riconosciuto la letteratura con questo premio Nobel; voi avete

ricompensato una letteratura che non si è mai tirata indietro di

fronte alle sofferenze del genere umano, che non ha mai evitato

di denunciare l’oppressione politica, una letteratura che si è

mantenuta irriducibilmente indipendente, non asservita. Io vi

ringrazio di aver dato il premio più prestigioso del mondo a

opere libere da meccanismi del grande circuito del mercato, che

non hanno attirato l’attenzione, ma che meritano di essere lette.

E ringrazio l’Accademia Svedese che mi ha consentito di salire su

questo podio verso il quale gli sguardi dl mondo sono rivolti, di

avermi ascoltato, di aver concesso che un individuo fragile

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facesse ascoltare la sua voce sommessa e discordante, di solito

trascurata dai media. Penso che l’obiettivo del premio Nobel per

la letteratura sia proprio questo. Grazie a voi di avermi dato

quest’occasione.

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Ringraziamento pronunciato alla cerimonia della

consegna del premio Nobel il 10 dicembre 2000

Vostre Maestà, Vostre Altezze Reali, Signore, Signori

L’uomo che è davanti a voi tuttora ricorda che, quando

aveva otto anni, la madre gli chiese di scrivere un diario. Da quel

momento egli si consacrò alla scrittura fino all’età adulta.

Ricorda ancora che, all’epoca del liceo, un vecchio

professore di composizione, dopo aver appeso alla lavagna un

dipinto senza titolo, disse ai suoi allievi di scrivere un tema. A

quel ragazzo il dipinto non piaceva e così ne scrisse una critica

negativa. Il vecchio maestro non si adirò ma addirittura diede un

buon voto seguito da: «Penna incisiva». Da allora quest’ora

uomo non ha più smesso di scrivere: dai racconti ai romanzi,

dalla poesia al teatro finché non arrivò la rivoluzione a travolgere

la cultura. Per paura bruciò tutto quello che aveva scritto.

In seguito partì per andare a lavorare nelle risaie, dove

rimase lunghi anni. Ma in segreto continuava a scrivere per poi

nascondere quei manoscritti in vasi di terracotta e seppellirli

sottoterra. Ciò che scrisse in seguito fu interdetto.

Quindi, arrivato in Occidente, riprese a scrivere, ma senza

curarsi di eventuali pubblicazioni. E anche quando le sue opere

furono pubblicate, non si interessò di conoscerne la risonanza.

Infine eccolo qui, in questa sala sfavillante, a ricevere l’alto

riconoscimento dalle mani di Vostra Maestà. E non può fare a

meno di chiedere: «E’ tutto vero, Vostra Maestà? O è una

favola?»