GALLERIA GIAMBLANCO - Dipinti...

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GALLERIA GIAMBLANCO DIPINTI ANTICHI

Quattro secoli di pittura

a cura di DEBORAH E SALVATORE GIAMBLANCO

con la collaborazione di

Pierluigi CarofanoAlberto CottinoSerena D’Italia

Simone MattielloSilvia Pirracchio

Maria Silvia ProniMassimo PuliniAnnalisa ScarpaNicola Spinosa

Donatella TavernaDenis Ton

Catalogo edito per la Galleria Giamblanco daUMBERTO ALLEMANDI

Catalogo edito in occasione della mostra«Quattro secoli di pittura»Galleria Giamblanco, Torino26 novembre - 22 dicembre 201610-28 gennaio 2017

Galleria Giamblancovia Giovanni Giolitti 39, Torinotel. +39 011 56 91 502 - fax +39 011 56 91 686cell. +39 338 57 22 525 - +39 347 56 42 884galleria@giamblanco.comwww.giamblanco.comwww.dipintiantichigiamblanco.it

Hanno collaborato con noiEnrica Asselle, Francesca Baldassarri, Donatella Biagi Maino, Alessandra Cabella, Pierluigi Carofano, Arabella Cifani, Giorgia Corso, Alberto Cottino, Odette D’Albo, Serena D’Italia, Filippo Maria Ferro, Giuseppe Fusari, Francesco Gatta, Delia Lacerenza, Riccardo Lattuada, Simone Mattiello, Andrea Merlotti, Franco Monetti, Vittorio Natale, Anna Orlando, Gianni Papi, Silvia Pirracchio, Giuseppe Porzio, Maria Silvia Proni, Massimo Pulini, Maria Teresa Reineri, Ugo Ruggeri, Annalisa Scarpa, Giancarlo Sestieri, Nicola Spinosa, Donatella Taverna, Andrea Tomezzoli, Denis Ton, Carlotta Venegoni.

Crediti fotograficiTutte le fotografie sono state realizzate da Franco Borrelli.© Christie’s Images Limited: p. 36 in basso.

La casa editrice è a disposizione degli aventi diritto per le fonti iconografiche non identificate e si scusa per eventuali, involontarie inesattezze e omissioni.

È con grande piacere che presentiamo al pubblico la quarta edizione della mostra annuale della nostra Gal-leria. Tra le numerose opere che abbiamo selezionato per questo appuntamento si segnalano in particolare,

per la loro primaria importanza, quattro grandi olii su rame inediti dell’artista fiorentino Antonio Tempesta, esponente di primo piano della cultura tardo manierista europea, raffiguranti «Storie della Passione di Cristo». Questi dipinti si distinguono, oltre che per il loro straordinario stato di conservazione, per l’eccellente qualità pittorica e per la ricchezza delle composizioni, accuratamente studiate dall’autore in disegni preparatori già noti alla critica.Un’attenzione speciale è come sempre dedicata all’arte piemontese del Settecento, con due nuove fondamentali proposte per il catalogo giovanile di Vittorio Amedeo Cignaroli, il paesaggista prediletto della Corte Sabau-da. Si tratta di due piccole tele ovali, rarissime nella produzione dell’autore per il loro tema sacro, «Paesaggio con riposo di Gesù, Maria e Giuseppe durante la fuga in Egitto» e «Maria con Gesù che salva san Pietro dalle acque», che facevano probabilmente parte di un ciclo più ampio, confrontabile con la serie dipinta dall’artista intorno al 1754 per l’Eremo dei Camaldolesi della collina torinese. A questi si aggiungono, per la sezione piemontese, altre tre tele di Cignaroli e due bei pendant allegorici di Vittorio Amedeo Rapous, documentati anche dalla Fototeca Zeri, con «Putti che suonano strumenti musicali» e «Putti che giocano allo specchio». La nostra scoperta più recente è però un’opera realizzata a Venezia, ma importante per la storia del collezioni-smo di casa Savoia: si tratta del bozzetto, inedito, per la grande tela di Sebastiano Ricci rappresentante «Susanna davanti a Daniele» oggi conservata alla Galleria Sabauda di Torino; il dipinto fu eseguito nel 1724 a Venezia per il re di Sardegna ed era destinato, assieme al suo pendant con «Mosè che fa scaturire l’acqua» (anch’esso ora in Sabauda), a ornare il Gabinetto Giallo del Castello di Rivoli. La mostra presenterà inoltre opere di Valerio Castello, Giovanni Battista Langetti, Alessandro Magnasco e Antonio Francesco Peruzzini, e anche una nutrita collezione di nature morte di autori del calibro di Giovanni Stanchi, Abraham Brueghel e Andrea Belvedere. Quest’anno poi chiudiamo la rassegna con una sorpresa: un interessante confronto fra diversi autoritratti di artisti di varie epoche, che ci ha offerto l’occasione per effettuare un’incursione nel Novecento, grazie ai lavori di Ottavio Mazzonis, Michelangelo Pistoletto, Gaetano Grillo e Omar Galliani.

deborah e Salvatore Giamblanco

Catalogo

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antonio tempeSta (Firenze, 1555 - Roma, 1630)

Entrata di Cristo a Gerusalemme, 1600-1610 circa

Salita al Calvario, 1600-1610 circa

Crocefissione, 1600-1610 circa

Incontro tra san Pietro e Paolo sulla via del martirio, 1600-1610 circaOlio su rame, rispettivamente 45,5 x 58,7; 45 x 58,5; 41,9 x 59,5; 41,9 x 59,7 cm.

Bibliografia: inediti.

Le quattro opere su rame sono concepite con un ritmo compositivo estremamente serrato, con va-

ste inquadrature di visione e densi movimenti di folla, che lasciano poco campo alle aperture di paesaggio, preferendo indagare l’articolato repertorio di gesti ed espressioni umane derivante dalle vicende narrate. Le preziose e controllatissime messe in scena, di tre episodi evangelici e di un momento cruciale del primo aposto-lato, non sembrano chiudere, da sole, un corpus icono-grafico unitario. Dimostrano invece, in modo eloquen-te, il rango elevato della committenza che dovette essere all’origine di tali imprese illustrative. Il gusto capzioso del racconto, la ricercatezza esecutiva e la ricchezza del-la tecnica indicano, senza meno, una provenienza dal collezionismo più elevato di fine secolo xvi. Dovettero di certo far parte di una raccolta aristocratica, in linea con quelle presenti nelle più colte corti europee dell’e-poca.Non può che essere costato all’autore un lungo e inten-so impegno creativo, per concepire e articolare i piani della visione, le pose e le relazioni tra le innumerevoli figure, le proporzioni e le prospettive fisiche, lo studio dei costumi e la scelta luminosa delle scene.Il compatto e coerente risultato finale ha comportato un attento studio preparatorio e una stesura pittorica dura-ta non meno di qualche mese per ognuna delle lastre, ma è soprattutto evidente il grado di esperienza messa in campo dall’artista, frutto di una assoluta maturità professionale.Quanto constatato, unito allo stile lineare e aneddotico, tipico dell’ultimo manierismo italiano, alla particolare sigla fisionomica e al disegno conchiuso delle figure, rende inequivocabile l’attribuzione delle opere ad An-tonio Tempesta.L’artista fiorentino fu protagonista incontrastato di un genere narrativo che trovò espressione e fortuna soprattutto nel campo dell’incisione. Il suo indefesso e minuzioso lavoro venne applicato a illustrare scene dall’Antico e dal Nuovo Testamento, dalla letteratura contemporanea dell’Ariosto e del Tasso, anche se toc-

cò il massimo successo nelle tematiche delle battaglie e delle cacce.Più rara risulta la produzione pittorica recuperata, solita-mente generata da precise richieste programmatiche che incisero sul gusto internazionale a cavallo tra i due secoli. La struttura compositiva delle quattro scene è orche-strata sugli stilemi ricorrenti del Tempesta, che preve-dono un proscenio aperto e una successione di piani prospettici sottolineati dall’alternanza di coni di luce e ombra che investono diversi gruppi di figure. Ne deri-va una disposizione teatrale molto efficace e di grande impatto narrativo. Attraverso questa formula il Tem-pesta, pur svolgendo il soggetto del racconto con un afflato corale, riesce a isolare singole figure per affidare loro un ruolo di «a solo» simile a quello che ha il primo violino in un’orchestra.Nell’«Entrata di Cristo a Gerusalemme» questa po-stazione, che definirei di scandaglio sentimentale, è occupata dall’apostolo Pietro che, ai piedi dell’asino, accompagna il Cristo in mezzo alla folla festante.Nella «Salita al Calvario» il proscenio, affollato di sol-dati, si apre con la Vergine che a mani giunte si rivolge a un centurione.La scena della «Crocefissione», che si svolge in lonta-nanza, trova nel primo piano un gruppo di dolenti in ombra che circondano una donna in preghiera, forse la Maddalena, investita da una luce che crea un mo-mento riflessivo, entro il mare di figure che assistono al supplizio.Per completare questo specifico rapporto tra il tema principale delle quattro immagini e il richiamo in-timista che l’autore offre ad apertura della scena, nel-l’«Incontro tra san Pietro e Paolo sulla via del martirio» vengono disposti a quinte sceniche due gruppi di sol-dati, ma è uno di loro che si inginocchia indicando il fulcro dell’episodio.Anche da questi livelli di sapienza compositiva si evin-ce il grado di eccellenza e la rarità di questi rami dipinti.Purtroppo non sono presenti, sul retro dei metalli, scrit-te o timbri che possano dare aiuto alla ricerca, solo su

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tre delle lastre si legge un semplice numero progressivo (2, 3, 4) che tuttavia non dovette costituire una traccia dell’inventario di collezione, ma, verosimilmente, una semplice identificazione entro il gruppo.Il vasto lavoro svolto da Antonio Tempesta per com-mittenze medicee induce a prendere in considerazione il casato fiorentino come possibile destinatario del gruppo di opere inedito e, in questa prima sede di studio, se-gnalo quanto sarebbe opportuno svolgere una indagine sugli antichi inventari dei Medici.Difficile ipotizzare una datazione stringente, data la coerenza stilistica che caratterizza l’intero arco di pro-duzione pittorica, ma è ipotizzabile una collocazione successiva al valico del secolo, considerata la miscela tra forza inventiva e maturità dimostrata dalle opere, che si attestano tra i più alti raggiungimenti dell’artista.Infine va ricordato che, per la scena raffigurante la «Sa-

lita al Calvario», si conoscono due disegni preparatori che documentano le prime idee compositive, delle qua-li, la traduzione pittorica, ha conservato alcune inven-zioni. Il primo foglio è transitato presso le aste Sotheby di New York il 13-14 gennaio 1989 (lotto n. 155), mi-sura 163 x 225 mm, ed è eseguito a penna e inchiostro bruno. Stessa tecnica per il secondo disegno (di taglio verticale e di 353 x 258 mm) passato a Londra presso Christie’s il 2 luglio 1991 (lotto n. 99) e ora ripresenta-to da Sotheby, sempre a Londra, l’8 luglio 2015 (lotto n. 82). Già in entrambe le idee grafiche è presente una analoga ripartizione dello spazio e dei piani prospettici scanditi da coni d’ombra e fasce di luce che isolano cer-ti gruppi di figure dal resto dell’affollato episodio della passione.

[maSSimo pulini]

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La storia del giovane pastore Davide che sconfigge il gigante Golia, campione dei Filistei, è narrata

nell’Antico Testamento, precisamente nel I Libro di Samuele. Nel testo biblico, Davide, dopo essersi offer-to di difendere il proprio popolo, affronta senza remore Golia, dapprima tramortendolo con un sasso lanciato dalla sua fionda, poi, gettatosi sul gigante ancora a ter-ra, recidendogli il capo con la spada dello stesso filisteo (I Libro di Samuele, 17, 50-5): «Prese la sua spada, la sguainò e lo uccise, [e] poi con quella gli tagliò la testa». Il testo biblico prosegue narrando l’ingresso trionfale in Gerusalemme del giovanissimo eroe che esibisce il ma-cabro trofeo. L’elegante cappello «frigio» potrebbe indicare proprio il momento relativo all’ingresso trionfale, allorquando il giovane eroe, rivestito con abiti degni del suo nuovo ruolo regale (la camicia di candido lino, la pelliccia) esibisce agli israeliti festanti il macabro trofeo e gli stru-menti del duello: la fionda e lo spadone. Passato il momento di esaltazione, in consentaneità con il gesto biblico, Davide qui prefigura il Cristo che trion-fa sul male e sul vizio. Si tratta, dunque, di un soggetto a carattere simbolico; non a caso, questo celebre episodio dell’Antico Testamento fu tra i più riprodotti in pittura tra fine Cinquecento e inizio Seicento, ovvero nel pieno dell’età della Controriforma cattolica in quanto il corag-gio e la determinazione di Davide furono eletti a simbolo della lotta nei confronti delle eresie protestanti. L’archetipo di questo «Davide assorto dopo avere reciso il capo del gigante Golia» è certamente da riconoscere in una delle ultime opere del Caravaggio, il «Davide con la testa di Golia» della Galleria Borghese. Anche in quel caso Davide è a mezzo busto, illuminato da una luce di-rezionata e definito da decisi contrasti di luce-ombra; ma la matrice di questo quadro andrà ricercata anche nelle molteplici declinazioni che si ebbero di questo soggetto in ambito caravaggesco come nel caso di Manfredi, di Simon Vouet e di Nicolas Tournier. Si direbbe quasi che questo Davide, spietato sul campo battaglia, stia qui a rappresentare, nel primo scorcio del Seicento, il «quie-tismo» di Torquato Accetto in campo politico. La figura di Davide occupa l’intera superficie della te-la; l’espressione fiera, la postura da state portrait, il fondo neutro, i decisi contrasti chiaroscurali mettono in secon-

do piano la bellissima testa di Golia (eseguita con un piglio rapido, «alla prima») ed esaltano i toni metallici dello spadone. Tuttavia, la figura del protagonista è im-postata secondo la dinamica del contrapposto di ma-trice manierista e risente, a mio parere, di modelli della ritrattistica toscana di marca bronzinesca-vasariana. Un ulteriore elemento che tradisce una confidenza con la cultura della tarda Maniera è la splendida definizione dell’elsa della spada cosi come lo è il cappello di gusto zuccaresco. Proprio questa dicotomia tra elementi decisamente in-novativi di derivazione caravaggesca e la presenza di re-taggi della cultura della Maniera ci aiuta nella colloca-zione temporale di questa tela che si pone, a mio parere, tra le primizie di un giovanissimo Orazio Riminaldi, nel momento di passaggio dalla bottega di Aurelio Lo-mi Gentileschi a quella del fratello Orazio. Siamo tra Pisa e Firenze intorno al 1611-1615: sono questi gli anni in cui Orazio Riminaldi, ancora ragazzo, sceglie di abbondare la città natale e di seguire Orazio Lomi Gentileschi alla volta di Roma per diventare arti-sta di grido. Il suo bagaglio figurativo è solido in quanto egli si è formato sui testi cardini della Maniera toscana; ma la frequentazione del grande Orazio Gentileschi gli apre gli occhi, gli fa vedere il mondo della figurazione secondo un’ottica in cui il crudo naturalismo caravag-gesco può essere temperato da una sorta di classicismo di matrice toscana, proprio come in questo «Davide esi-bisce il capo reciso del gigante Golia». Successivamente Riminaldi diventerà autonomo e si confronterà con i bolognesi capeggiati a Roma da Domenichino e con i francesi guidati da Simon Vouet. Ma in questa fase il giovane pittore pisano ha un oriz-zonte ben preciso e si muove entro confini altrettanto definiti; questo periodo coincide con gli esordi: come si diceva poc’anzi, siamo intorno al 1615 ed egli è ar-tista fatto nonostante la giovane età. Sono gli anni nei quali egli esegue progressivamente la «Salomè riceve dal carnefice la testa recisa del Battista» - confrontabile proprio con la tela qui in discussione - il «San Giovan-ni Battista» di Capodimonte (copia da un originale del Caravaggio), il «San Giovanni Evangelista» della pre-positura di Calci. Questo Davide ha una nettezza quasi rinascimentale e

orazio riminaldi(Pisa, 1593-1630)

Davide esibisce il capo reciso del gigante Golia, 1615 circaOlio su tela, 114 x 93 cm.

Bibligrafia di riferimento: P. Carofano e F. Paliaga, Orazio Riminaldi 1593-1630, Soncino 2013 (con bibl. prec.); P. Carofano, Il Gran Principe Ferdinando e il collezionismo di pittura caravaggesca. Spigolature e riflessioni, in «Valori Tattili», 3-4, 2014, pp. 23-38.

al contempo è essenziale nella composizione; la pittura è sottile, priva di velature e trasparenze e s’inserisce per-fettamente all’interno di un percorso figurativo in cui

la componente classica è per Riminaldi irrinunciabile.

[pierluiGi carofano]

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Giovanni Stanchi(Roma, 1608-1675)

Natura morta di frutta, 1630-1640 circaOlio su tela, 69 x 97 cm.

Bibliografia: inedito.

Affascinante tela, di grande qualità. Raffigura una natura morta di uve bianche e nere in una

cesta di vimini posta su un piano di marmo. Accanto a essa sono state poggiate a sinistra due mele. Un maz-zetto di fiorellini bianchi, verosimilmente gelsomini, spunta al centro, proprio sotto la cesta. La luce, nitida e analitica, con ombre dense sul piano del tavolo, mo-stra chiaramente un’ascendenza caravaggesca, lonta-namente legata alla canestra della «Cena in Emmaus» Mattei. Da essa, più che da quella celeberrima Bor-romeo, difficilmente visibile, probabilmente derivano tutte quelle individuabili nelle nature morte romane dei primi decenni del Seicento, in questo caso forse mediata dalle magnifiche ceste dell’ancora anonimo, ma grande pittore gravitante nell’area di Giovanni Battista Crescenzi, il cosiddetto Maestro della Natura Morta Acquavella. Lo stile e la notevole qualità pitto-rica indicano il nome di Giovanni Stanchi come auto-re dell’opera. Lo testimoniano anche convincenti con-fronti, come ad esempio quello con un quadro passato recentemente a un’asta francese (Hôtel Drouot, Pierre Bergé & Associés, 17 giugno 2008, lotto 47) con la corretta ascrizione a Stanchi, che presenta uno schema pressoché identico, con analoghe soluzioni formali e la stessa qualità analitica della luce, tanto da risultare palesemente della stessa mano di quello qui studiata. Andrebbe dunque approfondito il rapporto tra Stan-chi e il Maestro Acquavella, anche se ovviamente per ora ci mancano dati precisi, ma questo non è il pri-mo caso in cui si avverte un ascendente su Stanchi del grande maestro ancora anonimo (che talvolta ha por-tato anche a confusioni attributive).Dai documenti ritrovati sappiamo che Giovanni era figura di primo piano nel panorama della natura mor-ta romana, e che fu il capostipite di una delle più affer-mate officine artistiche familiari, che durò fino a fine

secolo se non addirittura all’inizio di quello successivo, con i fratelli Niccolò e Angelo. Sappiamo che spesso Giovanni e Niccolò lavoravano insieme (la figura di Angelo è un po’ più sfumata e, per quanto almeno ne sappiamo attualmente, forse poteva essere solo un collaboratore secondario), tuttavia mancano a tutt’og-gi quadri firmati per poter distinguere le varie perso-nalità. Fermo restando che i quadri più palesemente di derivazione caravaggesca come questo non posso-no che essere di Giovanni per ragioni anagrafiche, in quanto Niccolò nasce ben più tardi, nel 1623, oggi si ascrivono a Giovanni i quadri di maggiore qualità, anche se alcuni studiosi preferiscono non avventurarsi sul terreno della distinzione delle mani. È possibile, anche se non documentato, che egli - in-sieme a Michelangelo Cerquozzi, con cui presenta parecchie affinità - si formi nella bottega di Agostino Verrocchio, la più prolifica e forse la più importante di Roma nel terzo-quarto decennio del Seicento, non-ché l’ultima depositaria del naturalismo caravaggesco di inizio secolo, come ho ipotizzato per primo e come è stato accettato dalla critica più recente. In seguito Gio-vanni supera gradualmente il caravaggismo, virando in direzione barocca, guardando anche ad artisti «moder-ni» da poco giunti a Roma, come Abraham Brueghel. È altresi chiaro che lavorare a Roma in quegli anni significa confrontarsi produttivamente con il più gran-de fiorante italiano, Mario dei Fiori, di cui Giovanni Stanchi appare intelligente e personale divulgatore, come si evince dai numerosi quadri di fiori a lui ascritti. Il dipinto qui studiato, proprio per le sue evidenti pe-culiarità per cosi dire «caravaggesche», si può datare alla prima fase dell’attività di Giovanni, probabilmen-te intorno al quarto decennio del Seicento.

[alberto cottino]

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Figlio d’arte, Valerio Castello rimase orfano a soli cinque anni; nonostante la famiglia intendesse av-

viarlo agli studi letterari, il suo talento pittorico non tardò a manifestarsi. La sua prima formazione artistica avvenne attraverso lo studio dei disegni lasciati dal pa-dre Bernardo e degli affreschi manieristi che ornavano i più importanti palazzi genovesi, in particolare quelli di Perin del Vaga nella Villa del Principe, commis-sione di Andrea Doria. Valerio frequentò la bottega del Fiasella, la più celebre e animata nella Genova dell’epoca, e quella di Giovanni Andrea de Ferrari; tuttavia la svolta fondamentale alla sua educazione vi-siva venne da un viaggio a Milano e a Parma fatto in compagnia dell’amico e collaboratore Agostino Me-rano, che gli permise di approfondire la conoscenza dello stile di Giulio Cesare Procaccini (questi gli era già noto grazie alle sue opere genovesi, in particolare il monumentale «Cenacolo» della Santissima Annun-ziata del Vastato, del 1618) e di studiare il Correggio. Rientrato in patria nel 1646, il Castello si dedicò alla realizzazione di opere sia sacre sia profane, a tela e ad affresco. L’artista mori improvvisamente nel 1659, a soli trentaquattro anni, riuscendo comunque ad affer-marsi come una delle figure di maggiore importanza del Seicento italiano.Le fonti antiche menzionano più volte il tema del «Trionfo di Davide» con riferimento a Valerio Ca-stello. Nel 1846 lo studioso ligure Federico Alizeri re-gistra un dipinto con questo soggetto nella collezione del marchese Bernardo Sopranis, nel suo palazzo in via Sant’Agnese a Genova. Sempre lo stesso Alizeri molti anni dopo, nel 1875, cita un «Trionfo di Davide» in un’altra celebre quadreria nobiliare della città, quella del marchese Nicolò Brignole; non sappiamo però se

si trattasse dello stesso dipinto appartenuto ai Sopranis oppure di un’altra versione. Certamente anche per la grandiosa tela Giamblanco bisogna ipotizzare una commissione nobiliare, come suggerito dalle ampie dimensioni (secondo Camillo Manzitti non è da escludere che la scena sia stata rifilata) e dall’impegno profuso dal maestro nella sua realizza-zione. Il dipinto, capolavoro della maturità dell’artista, rappresenta l’episodio dell’Antico Testamento, tratto dal I Libro di Samuele, in cui il giovane pastore Davi-de, dopo aver ucciso il terribile Golia con una semplice fionda, entra trionfante in Gerusalemme recando la te-sta mozzata del gigante in cima a una spada. Castello, basandosi sul testo biblico («Al loro rientrare, mentre Davide tornava dall’uccisione del Filisteo, uscirono le donne da tutte le città d’Israele a cantare e a danzare incontro al re Saul, accompagnandosi con i tamburelli, con grida di gioia e con sistri. Le donne cantavano dan-zando e dicevano: “Ha ucciso Saul i suoi mille e Davide i suoi diecimila”»), allestisce qui una straordinaria scena teatrale barocca, tutta costruita sulle linee diagonali del grande carro e delle figure del corteo, che convergono al centro dirigendo lo sguardo dello spettatore sulla figura del giovane eroe. Accuratamente studiata è anche la ta-volozza cromatica, che riserva un bel rosso brillante al protagonista, giocando con il contrasto dei bruni e dei blu per metterlo maggiormente in evidenza.Il tema del «Trionfo di Davide» ebbe grande fortuna nella cultura genovese del Seicento, tanto da essere più volte ripreso dagli allievi del Castello (si ricordino alme-no la versione di Bartolomeo Biscaino e le due di Stefano Magnasco, tutte conservate in collezioni private liguri).

[Serena d’italia]

valerio caStello (Genova, 1624-1659)Trionfo di Davide, 1650 circaOlio su tela, 144 x 198 cm.

Bibliografia: La pittura in Liguria. Il secondo Seicento, a cura di E. Gavazza, F. Lamera e L. Magnani, Genova 1990, pp. 198-199; C. Manzitti, Valerio Castello, Torino 2004, cat. 233 alle pp. 204-205.

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abraham brueGhel(Anversa, 1631 - Napoli, 1697)

Natura morta di frutta, 1660-1670 circaOlio su tela, 94 x 69 cm.

Bibliografia: inedito.

Tela magnifica, di suadente qualità esecutiva e buono stato di conservazione. Raffigura un ricco

trionfo di frutta ammucchiata all’aperto, in un angolo del giardino monumentale di una villa nobiliare (s’in-travede infatti in alto a destra un vaso in pietra posto su un alto plinto) nel momento in cui il tramonto tra-scolora nella sera. Il pittore descrive la frutta (melone, zucca, melagrane chiuse e aperte, fichi, pesche, susine, uve bianche e nere e pizzutella) con accurato e profon-do naturalismo, supportato in questo senso da una luce nitidissima e analitica che inonda il primo piano ed esalta la qualità «ottica» di ogni singolo frutto, che di-viene palpabilmente concreto e naturale ai nostri occhi e definito in ogni singolo dettaglio: dalla spessa e irre-golare buccia del melone, alla morbida superficie delle pesche, alla soffice fragranza degli acini d’uva ricoperti di un sottile pulviscolo. Un simile trattamento della luce non può che denunciare l’origine nordica dell’au-tore, anche se la composizione è pienamente legata alle logiche costruttive del grande barocco romano. È evi-dente in questo contesto il peso delle invenzioni di Mi-chelangelo Pace detto «Campidoglio». In base a queste considerazioni stilistico-formali e per l’eccellenza ese-cutiva, dunque, questo quadro deve essere a mio parere assegnato a Abraham Brueghel nel suo pieno momen-to romano, intorno al settimo decennio del Seicento: dev’essere considerato altresi un risultato molto rappre-sentativo nell’ambito della sua produzione. I confronti con opere certe del pittore sono del tutto convincenti, ad esempio con la nota tela del museo Boijmans van Beuningen di Rotterdam, anch’essa databile al periodo romano, più volte pubblicata (se ne veda, ad esempio, un’illustrazione in L. Laureati e L. Trezzani, La na-tura morta postcaravaggesca a Roma, in La natura morta in Italia, a cura di F. Porzio e F. Zeri, Milano 1989, vol. II, p. 790, fig. 927). Nel dipinto qui studiato non solo si nota una simile qualità e un’analoga stesura mate-rica basata sulla funzione analitica della luce (si veda ad esempio il similissimo trattamento delle uve), ma compaiono anche elementi - quali la melagrana aperta in primo piano - che si ritrovano pressoché identici an-che nell’opera conservata nel museo olandese: si tratta

comunque di situazioni ricorrenti in diverse opere del pittore fiammingo, specialmente per quanto riguarda il periodo romano.Per quel che sappiamo Abraham Brueghel giunge a Roma poco prima del 1659, quando evidentemente era un pittore già affermato (anche se le sue vicende giova-nili sono tuttora poco chiare: per le notizie sul pittore cfr. L. Trezzani, Abraham Brueghel detto Rijngraaf, in Pittori di natura morta a Roma. Artisti stranieri 1630-1730, a cura di G. e U. Bocchi, Viadana 2004, pp. 117-147). Appare del tutto probabile che abbia avuto un primo apprendistato in famiglia, dato che è ben nota la sua ap-partenenza alla celebre dinastia di pittori che nel secolo precedente aveva visto come massimo esponente Pieter Brueghel il Vecchio. Tuttavia, per come la conosciamo oggi, la sua opera fin dall’inizio è prettamente «italiana» e «romana», anche se mantiene sempre un naturalismo «analitico» e una lucidità ottica nella definizione della frutta (caratteristiche, queste, che si notano agevolmente anche nel dipinto qui studiato) sostanzialmente estranei alla cultura barocca italiana, che prediligeva una stesura materica più fluida e pastosa e, per cosi dire, soluzioni formali più evocative. A questo punto appare del tutto verosimile che Brueghel, appena giunto a Roma, per conquistarsi il mercato locale abbia ritenuto di accosta-re il proprio stile di partenza a quello del pittore che andava allora per la maggiore in città, cioè Michelange-lo Pace detto «Campidoglio», stile che in fondo a ben guardare assimilerà cosi strettamente da farlo proprio. La creazione di ricchi trionfi di frutta all’aperto, a volte nei sottoboschi, a volte in giardini monumentali come in questo caso, rappresenterà infatti il vero leit-motiv del-la pittura bruegheliana sia a Roma che nel successivo soggiorno napoletano (che si sviluppa dal 1675 circa fino al 1697, anno della morte). Proprio in quadri come quello qui analizzato si può legittimamente scorgere la pregevole, inimitabile sintesi tra naturalismo fiammin-go e gusto barocco che lo porterà a essere uno dei grandi protagonisti europei del genere della natura morta nella seconda metà del Seicento.

[alberto cottino]

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antonio tibaldi(Roma, 1635 c. - post 1675)

Natura morta con argenterie, cuscino ricamato e pappagallo su un tavolo, 1660-1670 circaOlio su tela, 96,5 x 132 cm.

Bibliografia: inedito.

Dipinto di notevole impatto visivo, nelle classiche dimensioni da «tela d’imperatore», che secondo

la definizione barocca identificava le tele di circa 90 x 130 cm. È caratterizzato da una ricca mostra di ogget-ti preziosi poggiati su un tavolo in apparente disordine (vasi e brocche d’argento, alcuni dei quali rovesciati, oreficerie, un cuscino e un elegante tessuto ricamati a fili d’oro) su cui si è posato un pappagallo, probabilmente un ara rosso, che dà un ulteriore tocco di preziosità a un insieme teso a esaltare la ricchezza di un ambiente e, in definitiva, del compratore (si trattava di uccelli esotici e all’epoca rari). Introduce alla scena, sulla sinistra, un bellissimo tendone a broccato aperto sulla sinistra. Il pit-tore appare particolarmente attento alla resa dei preziosi riflessi della luce sulle superfici degli oggetti preziosi e sui ricami dorati, per cui la scena è tutto uno scintillio di bagliori luminosi, che rendono il quadro particolar-mente elegante.Il dipinto è un’opera tipica del pittore romano Antonio Tibaldi, di cui ancora poco si conosce, ma le cui piace-voli composizioni ebbero notevole successo nella Roma barocca nei decenni seguenti la metà del Seicento. Tibal-di è registrato negli Stati delle Anime della parrocchia di Santa Maria del Popolo a Roma nel 1675 come «pittore romano di anni 40», e dal punto di vista stilistico si pone a latere di un caposcuola come Carlo Manieri sulla scia dei principali pittori di tappeti e di oggetti su tavoli quali Benedetto Fioravanti e soprattutto Francesco Noletti det-to «il Maltese». Di costoro Tibaldi non possiede il rigore geometrico e prospettico nella disposizione degli elemen-ti, cui contrappone però un gioioso e vitale sovraccarico di oggetti (compresi talvolta pezzi di armature) e ani-mali. I documenti informano che fu anche specializzato nella pittura di frutta e animali (soprattutto uccelli), che tuttavia a oggi non si conoscono. I suoi quadri furono collezionati anche da nobili famiglie: sappiamo che la-vorò per i Barberini (lo testimonia lo stemma presente in una tela conservata nella collezione di Pier Luigi Pizzi attribuita al Maltese, ma tipica di Tibaldi, cfr. E. Frat-tarolo, in La collezione Pizzi. Una Quadreria del Seicento, Parma 1998, pp. 63-67), mentre ad esempio l’Alto Co-nestabile del Regno di Napoli, Lorenzo Onofrio Co-lonna (1637-1689), importante collezionista di dipinti del xvii secolo, possedeva nella sua collezione a Roma

nel 1679 due piccole tavole in rame di mano di Tibaldi raffiguranti uccelli e frutti (N. Gozzano, La quadreria di Lorenzo Onofrio Colonna. Prestigio nobiliare e collezionismo nella Roma barocca, Roma 2004, p. 222). È anche do-cumentata la collaborazione con il mercante Pellegrino Peri, uno dei più importanti commercianti romani tra la metà del Seicento e i decenni successivi, la cui bottega era in piazza Pasquino, nei pressi di piazza Navona (L. Lo-rizzo, Pellegrino Peri. Il mercato dell’arte nella Roma barocca, Roma 2010, pp. 55-57). I confronti tra il quadro qui studiato e le opere di Ti-baldi sono molteplici ed evidenti, sia con i pochissimi dipinti firmati (se ne vedano alcuni illustrati in, Pittori di natura morta a Roma. Artisti italiani 1630-1750, a cura di G. e U. Bocchi, Viadana 2005, pp. 473 sgg.), sia con alcu-ni conservati nei musei, già attribuiti a Francesco Mal-tese, ma ricondotti giustamente di recente alla mano del Tibaldi, anche dallo scrivente (Nantes, Musée des Be-aux-Arts, cfr. M. Litwinowicz, De nouvelles attributions de natures mortes du musée des Beaux-arts de Nantes. Lionelli et Tibaldi, in La Collection Cacault. Italie-Nantes, 1810-2010, a cura di B. Chavanne, C. Georgel e H. Rouste-au-Chambon, atti del convegno [Nantes, 2010], Parigi 2016, cons. in url: http://inha.revues.org/6989, ISSn: 2108-6419; Matelica, Museo Piersanti, cfr. A. Cottino, Natura silente, Torino 2007), che ripetono del tutto ana-loghi oggetti, tipologie e ductus pittorico.In tutti questi dipinti si nota la medesima costruzione accumulatoria degli oggetti: in rapporto alle scansioni spaziali del Maltese, da cui comunque sembra derivare la tipologia dei soggetti, in analogia anche con quan-to andava facendo in particolare Carlo Manieri, nelle opere di Tibaldi sembra di rivedere la stessa operazione che in quegli stessi anni, o forse appena seguenti, andava conducendo Bettera nei confronti di quelle di Basche-nis, come se i prosecutori perdessero il rigoroso senso della misura dei maestri in pro di un «senso di accumu-lo», di esuberante ricchezza, anche e soprattutto in senso decorativo. Non è possibile determinare con certezza la datazione di questo quadro, ma la tipicità degli elementi compositivi e del repertorio figurativo farebbe pensare a un’opera della piena maturità del pittore.

[alberto cottino]

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Giovanni battiSta lanGetti (Genova, 1635 - Venezia, 1676)

Filosofo, 1670 circa

Diogene, 1670 circaOlio su tela, 99 x 81 cm ciascuno.

Bibliografia: M. Stefani Mantovanelli, Giovanni Battista Langetti. Il Principe dei Tenebrosi, Soncino 2011, cat. 155-156 alle pp. 236-237, tavv. lxx e lxxi.

La ricostruzione del corpus delle opere di Giovan-ni Battista Langetti presenta per gli studiosi non

poche difficoltà, sia per la penuria di dati biografici certi relativi all’artista sia per la sua scarsa propensione a firmare e datare le opere. Il pittore figura tra i massimi esponenti della cosiddetta corrente dei «tenebrosi», ca-ratterizzata da una forte tensione drammatica e da netti contrasti chiaroscurali, animata a Venezia dal napole-tano Luca Giordano e sostenuta poi da Johann Carl Loth, da Antonio Zanchi e, appunto, dal Langetti.Per lungo tempo, probabilmente a causa della con-fusione della figura di Giovanni Battista con un suo omonimo fratello, morto in tenera età, si è fissata la data di nascita del pittore al 1625; spetta a Marina Stefani Mantovanelli la correzione in 1635, che ha quindi ri-stretto notevolmente l’ambito cronologico in cui scalare le opere note.

Padrini di battesimo del Langetti furono i Carlone, dato che ci spinge a ipotizzare un primo alunnato del giovane nella bottega di questi artisti. Intorno al 1650 Giovanni Battista effettuò inoltre un soggiorno di stu-dio a Roma, dove è ricordato dalle fonti antiche come allievo di Pietro da Cortona, punto di riferimento fon-damentale per gli artisti genovesi dell’epoca. L’influen-za cortonesca riaffiorerà talvolta nelle opere della ma-turità del Langetti, soprattutto nel disegno anatomico di alcuni nudi e nei dettagli più preziosi, quali armi e acconciature femminili.Alcune fonti parlano anche di un soggiorno dell’ar-tista a Napoli, evento non improbabile se si conside-ra lo stretto legame di alcune sue opere giovanili, ad esempio l’«Apollo e Marsia» di Dresda, con la ma-niera del Ribera; non bisogna però dimenticare che l’attività del Ribera era ben nota anche a Roma e a

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Genova, in parte grazie alla diffusione delle stampe.Per completare il suo apprendistato, Giovanni Battista Langetti attorno al 1660 si trasferi a Venezia, dove si insediò stabilmente. Stefani Mantovanelli fissa al 1663 l’apice della produzione pittorica dell’artista, fulcro cronologico attorno cui ruotano le sue opere più im-portanti, quali il «Cristo crocifisso e la Maddalena» della chiesa delle Terese di Venezia e il «Vulcano e la Gelosia» della Alte Pinakothek di Monaco, significa-tiva commissione di respiro internazionale promossa dall’ambasciatore imperiale bavarese Cernín.La rappresentazione di mezze figure virili, personaggi biblici, mitologici, o come in questo caso filosofi, è ti-pica della produzione langettiana concepita per il più raffinato collezionismo privato dell’epoca. Le tele qui proposte sono però due vertici assoluti dell’attività ma-tura dell’artista, per la resa straordinaria delle anatomie e dei dettagli quali stoffe, barbe e capelli. Marina Stefa-ni Mantovanelli, pubblicandole nella sua monografia

sull’artista, le colloca cronologicamente poco prima dei monumentali «San Pietro» e «San Paolo» di Padova, realizzati nel 1675 per la distrutta chiesa di Sant’Ago-stino e ora conservati in quella di San Daniele, sotto-lineandone in particolare i legami con il «San Paolo». Come evidenziato dalla studiosa, si tratta di un tema diffuso per il Seicento nella pittura nordica più che in quella italiana, anche se, soprattutto per il «Diogene», esistono importanti eccezioni tra cui le interpretazioni di Gioacchino Assereto, di Giovanni Battista Casti-glione detto «il Grechetto» e di Jusepe de Ribera, di origine spagnola, ma attivo principalmente a Napoli. Concepite a evidenza come due pendant in dialogo tra loro, le due tele Giamblanco sembrano rappresentare la nobile attività della ricerca filosofica una dal punto di vista più speculativo, e l’altra da quello dell’applicazio-ne pratica della morale umana.

[Serena d’italia]

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andrea belvedere(Napoli, 1652 circa - 1732)

Natura morta di fiori con brocca d’argento, 1680-1690 circaOlio su tela, 50 x 64 cm. Bibliografia: inedito.

Dipinto di altissima qualità esecutiva e in ottimo stato di conservazione. Raffigura un bacile me-

tallico colmo di fiori (in particolare rose di un bel colo-re rosa antico, anemoni e garofani rossi, con un rametto forse di giacinti blu), con accanto a destra una magnifi-ca brocca elegantemente cesellata che, per la particolare lucentezza, sembrerebbe essere stata realizzata in argen-to. Tre rose ormai appassite sono scivolate dal bacile sul tavolo, altre stanno iniziando ad appassire nel vaso: la caduca bellezza dei fiori è un topos ampiamente cantato dai poeti barocchi e ripreso sulla tela dai pittori. Nel fondo a sinistra s’intravede nella penombra una caraffa in vetro, che brilla nell’oscurità. Una luce nitida, pro-veniente da sinistra, rischiara il primo piano definendo le morbide forme dei fiori e impreziosendo di suggesti-vi riflessi le superfici metalliche dei recipienti. Si noti anche la particolare complessità dell’orchestrazione spaziale, giocata sulla diagonale dei contenitori, ma bi-lanciata dalle rose in primo piano.Lo stile e la morbida e vellutata qualità della stesura ma-terica suggeriscono il nome del grande fiorante Andrea Belvedere, forse cronologicamente l’ultimo vero prota-gonista del «Secolo d’oro» della natura morta napole-tana: anche la complessità della partitura luministica, che culmina nel «tattile» grumo di colore bianco lucente sulla caraffa d’argento mi pare possa essere un elemento fondamentale per l’ascrizione del quadro a questo gran-de maestro. A una simile qualità non giunge nessuno dei suoi numerosi seguaci, tra cui il pur interessante Tommaso Realfonso, che a volte cita quasi letteralmen-te dettagli dei suoi quadri, ma con un fare più piatto e secco. Si possono istituire numerosi probanti confronti tra la tela qui studiata e le opere certe di Belvedere. Per quanto riguarda il vaso d’argento (e i suoi materici ri-flessi di luce) appare assai interessante il confronto con una tela di collezione privata che presenta una brocca cesellata assai simile come foggia, ma soprattutto com-parabile per la spessa trama pittorica del riflesso lumino-

so. Un vaso d’argento molto simile, ma anche una pres-soché identica rosa caduta a terra e un’analoga stesura pittorica caratterizzano una magnifica tela di Belvedere passata qualche anno fa a Sotheby’s New York (Impor-tant Old Master Paintings and European Works of Art, New York, Venerdi, 26 gennaio 2007, lot. 313). Sono tutti confronti che mi pare qualifichino perfettamente l’ascri-zione a Belvedere del quadro qui studiato.Il biografo Bernardo De Dominici (Vite de’ pittori, scultori ed architetti Napoletani, Napoli 1749, p. 574) gli dedica una «vita», in cui ne magnifica le qualità pitto-riche, aggiungendo tra l’altro che «non vi sarà mai chi possa superarlo nel dipinger fiori, uccelli, vasi d’Ar-gento, erbe grandi». Giustamente Francesco Abbate (Storia dell’arte nell’Italia meridionale, Firenze 2002, vol. IV, p. 242) lo definisce «l’ultimo dei grandi fioranti seicenteschi napoletani», notando anche come la sua attività giovanile fosse orientata su Paolo Porpora e Giuseppe Recco, riferimenti che si colgono perfetta-mente anche in questa tela, sia per la costruzione della scena, sia per la qualità della pennellata. In ogni caso, come notano C. Guglielmi Faldi e A. Zapperi (voce Belvedere, Andrea, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 8, Roma 1966) egli rimane sostanzialmente libero dai modelli, accettandoli ovviamente, ma cercando di vivificarli attraverso una personale ricerca naturalisti-ca, che diviene elegante e raffinata: «Mai però, e qui appare subito l’autonomia del grande artista, il Belve-dere è scaduto a compromessi eclettici, ché anzi la sua pittura si caratterizza in una continua ricerca di verità, in un’adesione intima alla più profonda realtà dell’im-magine, in una sorta di ansia costante di rinnovamen-to, con un’espressione formale che si affida alla forza e alla gagliardia di una pennellata densa che fa palpitare viva e intensa la materia nella luce». Ciò appare evi-dente nella tela qui studiata.

[alberto cottino]

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SebaStiano ricci (Belluno, 1659 - Venezia, 1734 )

Susanna davanti a Daniele, 1726Olio su tela, 59 x 98 cm.Provenienza: Napoli, collezione privata.

Fonti e bibliografia di riferimento: Conti della Real Casa, Archivio di Stato di Torino, Sez. III; F. Bartoli, Notizie di Pitture, Sculture ed Architetture che or-nano le chiese ed altri luoghi pubblici di tutte le più rinomate città d’Italia, Venezia 1776, vol. I, p. 39; Baudi de Vesme, Schede Vesme, Ms. 1899-1909 c. [Ed. cons. Torino 1968]; Joachim von Derschau, Irrige Zuschreibungen an Sebastiano Ricci, in «Monatshefte für Kunstwissenschaft», vol. 9, n. 5 (1916), pp. 161-169; Joachim von Derschau, Sebastiano Ricci. Ein Beitrag zu den Anfangen der venezianischen Rokokomalerei, Heidelberg 1922, pp. 94-95, 97, 103-105, 169; R. Pallucchini, La pittura veneziana del Settecento, Venezia-Roma 1960, p. 15; N. Gabrielli, La Galleria Sabauda a Torino, Roma 1965, p. 29; N. Gabrielli, Galleria Sabauda. Maestri italiani, Torino 1971, p. 215; J. Daniels, L’opera completa di Sebastiano Ricci, Milano 1976, n. 435; J. Daniels, Sebastiano Ricci, Hove 1976, n. 442; R. Tardito, La Galleria Sabauda, Torino 1984, p. 86; A. Rizzi, Sebastiano Ricci, Milano 1989, p. 40; A. Scarpa Sonino, Marco Ricci, Milano 1991, pp. 34, 56, nt. 221-222; A. Scarpa Sonino, Sebastiano Ricci. Catalogue raisonné, Milano 2006, n. 478.

Durante il terzo decennio del Settecento Sebastia-no Ricci, ormai sessantenne, è al culmine della

fama. Osannato dall’Accademia Clementina di Bo-logna, che nel 1723 lo accoglie come membro effettivo con tutti gli onori, autore di punta di Joseph Smith, il potente residente inglese dalla straordinaria collezione e dall’incredibile fiuto mercantile, amatissimo dai viag-giatori del Grand Tour, era rientrato a Venezia da Lon-dra alla metà del decennio precedente con un guadagno tale, realizzato in pochi mesi, da consentirgli l’acquisto di una prestigiosa residenza in Calle del Selvadego, alle spalle di piazza San Marco. Le commissioni fioc-cano; da quelle del duca di Orléans, mai consegnate per intercorsa morte del committente e acquisite da Anton Maria Zanetti che a sua volta le vendette, nel 1743, a Francesco Algarotti per la costituenda galleria di Dresda di Augusto III di Sassonia, re di Polonia; a quelle di Owen McSwiny, l’imprenditore teatrale pro-testato in Inghilterra e rifugiatosi in Italia con bizzarre avventure artistiche culminate nella progettazione della serie di quadri raffiguranti i Tombeaux des Princes, che coinvolsero i maggiori pittori emiliani e veneziani del tempo, da Canaletto a Creti, ai due Ricci. Una delle committenze più prestigiose di questo de-cennio fu quella che pervenne a Sebastiano da parte di Vittorio Amedeo II, duca dal 1675, re di Sicilia dal 1713 al 1720 e, da quell’anno, re di Sardegna. L’at-tività del Ricci per la Real Casa savoiarda copre un arco di circa nove anni, a partire dall’agosto 1724 fino all’agosto 1733, otto mesi dopo la morte del re, che già precedentemente aveva abdicato a favore del figlio, e nove mesi prima della morte dell’artista bellunese. Tutti i dipinti, commissionati in varie fasi, dovevano essere di soggetto veterotestamentario e i loro pagamenti vennero rigorosamente documentati nel libro dei Conti della Real Casa, custodito ora presso l’Archivio di Sta-to di Torino. Sebastiano esegui tutte le tele a Venezia inviandole poi a Torino lungo la via bergamasca di

Canonica d’Adda, come è attestato anche dalle spese doganali e di trasporto, sempre annotate nel citato libro dei Conti. Egli infatti era stato bandito dal territorio piemontese a causa di un procedimento giudiziario datato trent’anni prima: il bando non venne mai revo-cato, ma ciò non impedi al re di servirsi di un artista che, come dimostrò negli anni, egli e la sua corte tanto amavano. Le prime opere eseguite da Sebastiano per i Savoia furono «Il ripudio di Agar» e «Salomone adora gli idoli» (Torino, Galleria Sabauda, inv. 454 e 470), due sovrapporte, destinate «al gabinetto grande dell’ap-partamento della Real Principessa», che vennero con-segnate e pagate il 17 agosto 1724. Un anno dopo circa l’artista ultimò «La Madonna in gloria, l’Arcangelo Gabriele e i Santi Eusebio, Sebastiano e Rocco» per la Cappella di Sant’Uberto nella Venaria Reale (ora Torino, Università degli Studi, Aula Magna). Tra la primavera e l’estate del 1727 il Ricci consegnò un ci-clo di sei dipinti, ora suddivisi in varie sale del Palazzo Reale, originariamente destinati al Gabinetto Giallo nell’appartamento reale del Castello di Rivoli. Ma le opere di maggior impegno di tutta la committenza sa-voiarda furono indubbiamente le due eseguite tra la fine del 1725 e il luglio del 1726: il «Mosè fa scaturire le ac-que» e la «Susanna davanti a Daniele», teleri imponen-ti, di quattro metri e mezzo di lunghezza (243 x 440; ora Torino, Galleria Sabauda), destinate anch’esse alla superba decorazione del Castello di Rivoli. Fu Filippo Juvarra, l’architetto prediletto dei Savoia, a richiedere a Sebastiano un tale impegno, come si evince da una lettera del ministro degli Affari Stranieri Del Borgo al Cavalier Marini, residente piemontese a Venezia (Scarpa 2006, p. 311), nella quale, prudenzialmente, viene anche invitato il residente a «vigilare di tempo in tempo civilmente e senz’affettazione all’avanzamento che prenderà il travaglio d’essi quadri». Il primo ac-conto data 24 dicembre 1725; il saldo 15 luglio 1726. Scrive il Marini al suo referente il 20 luglio di quell’an-

no: «I quadri ordinati nello scorso gennaio al Signor Sebastiano Ricci saranno in quest’ora giunti in Torino e sono veramente due opere rare [...] V.E. mi diede il primo commando d’invigilare sopra il lavoro onde mi corre d’obbligo informarla che sono riusciti di tutta perfezione». Ma l’entusiasmo del residente non fu nulla a confronto di quello del re che, quattro mesi dopo, accreditò a Sebastiano un dono suppletivo di un terzo in più di quanto pattuito: il Ricci, solo per questi due dipinti, guadagnò la bellezza di 7.000 Lire del tempo, una cifra assolutamente considerevole. L’impianto dei due teleri è seducente. La collaborazione con il nipote Marco, certamente autore della scenografia architetto-nica, si rivela ricca di eleganza e di forza empatica. Ma sicuramente Sebastiano, coinvolto dallo Juvarra - gran-de estimatore anche di Marco, al quale commissionò in quegli stessi anni una delicatissima tela che compete senza tema a geniali realizzazioni coeve del Pannini -, per teleri di tale impegno e dimensioni non poteva non presentare ai propri committenti un modello che esemplificasse i propri intenti e le proprie soluzioni al progetto. Fino a oggi non si aveva notizia di modelli o bozzetti connessi a un tale cosi impegnativo incari-co affidato al Ricci. La scoperta del modelletto ogget-to di questo studio è un ulteriore, importante tassello nell’analisi della genesi creativa riccesca. L’abbozzo, compiuto e finito, della «Susanna davanti a Daniele»

avvalora ulteriormente lo studio del suo percorso arti-stico: posto di fronte a un’opera da realizzare in cosi imponenti dimensioni, Sebastiano sottopone ai com-mittenti il proprio concepimento di base, sottolinean-done la struttura ma al tempo stesso concedendosene varianti di grande spontaneità e vigore: traccia un’idea compositiva dalla quale non vuole esulare, ma altret-tanto si sente libero di commutare varianti, di ricreare liberamente gesti e positure, ben conscio che, una volta sottoposto al committente l’impianto generale, nulla gli impedirà di inserire soluzioni diversificate che me-glio gli aggradano: ne sono esempio palese le numerose alternative stilistiche e compositive - dalla posa di alcu-ne figure alla palese sottolineatura di alcuni seducenti pentimenti - che si evidenziano dal modello alla rea-lizzazione finale su larga scala. Ne risulta, in questo bozzetto, un’immediatezza e una spontaneità inedita che ringiovanisce lo stile del sessantenne maestro confe-rendogli una limpida freschezza, fatta di tocchi cristal-lini, di una materia grassa e corposa che comunicano d’istinto la magistrale forza stilistica dei suoi anni più tardi, alla quale fa da supporto l’estrema abilità sceno-grafica del nipote Marco che magistralmente racchiude con perfette architetture di fondale il delicato racconto biblico narrato dal maestro.

[annaliSa Scarpa]

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antonio baleStra (Verona, 1666-1740)

Mosè salvato dalle acque del Nilo, 1730 circaOlio su tela, 63 x 98,5 cm.Inedito.

Bibliografia di riferimento: E. Battisti, Alcune vite inedite di L. Pascoli. Antonio Balestra, in «Commentari», 1, 1954, gennaio-marzo, pp. 26-39; M. Po-lazzo, Antonio Balestra pittore veronese 1666-1740, Verona 1978; L. Ghio ed E. Baccheschi, Antonio Balestra, Bergamo 1989; Important Old Masters Paintings & Sculpture, catalogo d’asta, n. 6994, Christie’s (vendita a New York, Park Avenue, 10 gennaio 1990), lot. 219, p. 257; B. W. Meijer, Disegni di Antonio Balestra, in «Arte veneta», 60, 2003, pp. 88-111; M. Favilla, Per Antonio Balestra, in «Arte veneta», 66, 2009, pp. 85-101.

Il dipinto descrive un celebre episodio biblico tratto dal libro dell’Esodo (2, 1-10), nel quale il piccolo Mosè

- abbandonato dalla madre nelle acque del Nilo, per elu-dere l’ordine del faraone di uccidere tutti i figli maschi del popolo ebraico in Egitto - viene ritrovato dalla figlia dello stesso sovrano, che lo accoglie tra le sue ancelle. Lo squisito accademismo che caratterizza l’intera composi-zione riconduce l’opera al catalogo di Antonio Balestra, autore che al suo tempo ha saputo conquistare un’ampia fama internazionale, che lo ha portato a lavorare per illu-stri committenti disseminati per l’Europa.Il pittore nasce a Verona il 12 agosto 1666 da genitori di origine bergamasca, come lui stesso ricorda in una lette-ra autobiografica inviata nel 1703 a Pellegrino Antonio Orlandi. La sua condizione agiata gli permette di dedi-carsi agli studi umanistici e di coltivare una precoce vo-cazione artistica presso Giovanni Ceffis, anche se «a solo oggetto di puro divertimento» e «senza però abbandonare la scuola delle lettere». Nel 1682 la morte del padre lo co-stringe a occuparsi con i fratelli del proseguimento dell’at-tività mercantile di famiglia; anche in questo frangente tuttavia il giovane non abbandona la pittura e nel 1687 giunge finalmente alla decisione di consacrarsi comple-tamente all’arte, trasferendosi a Venezia per entrare nella bottega di Antonio Bellucci e per affrontare in accademia gli studi di nudo, architettura e prospettiva. Non conten-to delle possibilità formative disponibili in laguna, nel

1691 parte alla volta di Roma, dove viene accolto alla scuola di Carlo Maratti. Nei quattro anni nella capita-le pontificia Balestra consolida la sua inclinazione clas-sicista anche con l’osservazione delle antichità romane e delle opere dei grandi maestri come Raffaello e Annibale Carracci. Antonio in questo periodo si dedica soprattut-to agli aspetti formativi, rimandando l’avvio di una vera produzione di opere al suo rientro in Veneto nel 1695, prima a Verona poi a Venezia. Il successo di critica e di pubblico riscosso dall’«Annunciazione con Dio Padre e gloria d’angeli» (1697), per l’altare maggiore della chiesa di Santa Teresa degli Scalzi di Verona, consolida infatti la sua fama e apre la strada a numerose commissioni. Balestra nel 1700 viaggia tra le città della Lombardia e dell’Emilia per riflettere sulle fonti del classicismo e «molto si compiacque dell’opere de’ Carracci ma sin-golarmente del Correggio»: nei lavori dell’Allegri riesce infatti a trovare la strada per alleggerire ulteriormente le proprie cromie e per adeguarsi al nuovo gusto rocaille. Il pittore non si allontana però dalla correttezza appresa in accademia e presso Maratti e si pone in aperta opposi-zione rispetto a coloro che «vanno dietro al loro genio e capriccio, col cercarsi di farsi taluno delle maniere am-manierate, fantastiche ed ideali, lontane dal vero».Anche nel «Mosè salvato» emerge la solida impostazione formale di Balestra, che si sofferma nella resa delle pose espressive dei protagonisti e nel bilanciamento della com-posizione. La tela è forse lo studio preparatorio per un quadro di analogo soggetto già passato in asta Christie’s nel 1990 (olio su tela, 159 x 206 cm): tra le due opere si possono riscontrare numerose varianti, come l’elimi-nazione nella redazione definitiva del piccolo servitore moro sulla destra, per consentire una migliore rotazione di tutte le figure femminili attorno alla luminosa imma-gine di Mosè. Si conoscono ulteriori versioni di questo soggetto, anche se di impianto alquanto diverso, come la tela dipinta per il soffitto della Marmorsaal del castello di Pommersfelden (1714-1716 circa) e la redazione ora conservata all’Accademia Tadini di Lovere (inv. 282).

[Galleria Giamblanco]

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aleSSandro maGnaSco detto il «liSSandrino» e antonio franceSco peruzzini(Genova, 1667-1749; Ancona, 1643/1646 - Milano, 1724)

Assalto di briganti, 1710 circaOlio su tela, 112 x 137 cm.

Bibliografia: Genova nell’età barocca, a cura di E. Gavazza e G. Rotondi Terminiello, catalogo della mostra (Genova, 2 maggio - 26 luglio 1992), Bologna 1992, cat. 115 a p. 214; Antonio Francesco Peruzzini, a cura di M. Gregori e P. Zampetti, catalogo della mostra (Ancona, 28 luglio - 9 novembre 1997), Milano 1997, p. 32.

Marina con monaci e pescatori, 1710 circaOlio su tela, 143 x 112 cm.

Bibliografia: Sotheby’s, Catalogue of Important Old Master Paintings, Londra, 12 dicembre 1979, cat. 66.

Alessandro Magnasco, figlio del pittore Stefano, allievo di Valerio Castello, nacque a Genova

nel 1667. Pochi anni dopo, in seguito alla prematura morte del padre, si trasferi a Milano, dove frequentò la bottega di Filippo Abbiati. Dopo una fase giovanile in cui si dedicò principalmente alla pittura di argo-mento sacro, caratteristica della produzione del suo maestro, e alla ritrattistica, a partire dall’ultimo decen-nio del Seicento il Magnasco approdò alla pittura di genere. Una delle prime opere datate note dell’artista, una «Processione di cappuccini» di collezione privata (1697) segna l’inizio della lunga e proficua collabora-zione con il paesaggista di origine anconetana Anto-nio Francesco Peruzzini, un sodalizio che li legherà i due fino alla morte di quest’ultimo, avvenuta nel 1724. Magnasco tuttavia nel corso della sua lunga carriera collaborò con molti altri pittori specializzati in paesag-gi, come Crescenzio Onofri, Marco Ricci, Nicola van Houbraken, Jean-Baptiste Feret e il rovinista prospet-tico Clemente Spera. I contatti del Magnasco con Genova non si interrup-pero mai e infatti nelle sue opere è sempre ravvisabile l’influenza dei grandi maestri della sua città natale, soprattutto di Valerio Castello e del Grechetto, che si intreccia con la formazione lombarda ricevuta sotto l’Abbiati. Per la ricostruzione del bagaglio figurati-vo dell’artista inoltre non vanno dimenticati il lungo soggiorno fiorentino, da collocare tra il 1703 e il 1709, e l’amicizia con Sebastiano Ricci, che lo portò certa-mente a compiere dei viaggi a Venezia.

Gli ovali qui presentanti costituiscono due felici esempi della collaborazione tra il Lissandrino e Antonio Fran-cesco Peruzzini: le vibranti ed energiche figure umane del Magnasco, realizzate con pennellate rapide e sinteti-che, animano i sognanti paesaggi a volo d’uccello alle-stiti dall’amico e collega, che risentono dell’influenza di Salvator Rosa, ma anche di artisti nordici attivi in Italia, come Mathieu van Plattenberg e soprattutto Pieter Mu-lier detto «il Tempesta». Lo stesso tema della carrozza assaltata dai briganti è di derivazione nordeuropea, mol-to frequentato nel Seicento in Olanda e nelle Fiandre e diffuso in Italia dalle incisioni di Jacques Callot. Ma-gnasco e Peruzzini lo affrontano in più occasioni, tal-volta abbinandolo a scene di banchetto e cortei nuziali, tanto da far supporre un rimando alla letteratura picare-sca dell’epoca, molto apprezzata anche nella Lombar-dia spagnola. Per questo dipinto parte della critica ha proposto l’attribuzione al solo Magnasco, che dopo la morte di Peruzzini avrebbe iniziato lui stesso a realizzare i paesaggi per i propri quadri. Anche il tema della marina e dei pescatori al lavoro è stato spesso riproposto dai due artisti; qui la dinamica composizione è arricchita dal raffinato brano di natu-ra morta degli attrezzi ammassati in primo piano sulla destra e dalla presenza dei due monaci, anch’essi sul margine inferiore della tela, che commentano la scena, richiamando un’altra tematica carissima al Lissandrino, quella dei conventi e della vita monastica.

[Galleria Giamblanco]

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pietro navarra(attivo a Roma tra il 1685 e il 1714 circa)

Natura morta di frutta all’aperto, 1710-1720 circaOlio su tela, 105 x 166 cm.

Bibliografia: inedito.

Questa affascinante tela, di notevoli dimensio-ni e di alta qualità, costituisce un importante

esempio di natura morta tardobarocca. Raffigura una ricca mostra di frutta di ogni genere (uve, susine, pe-sche, melagrane chiuse e aperte, anguria, castagne e anche un cavolfiore) nell’angolo del giardino monu-mentale di una villa della campagna romana, come si deduce dai resti di capitelli antichi e dai basamenti in pietra. Parte della frutta è contenuta, a sinistra, in caratteristici bigonci di legno, mentre a destra è si-stemata all’interno di una cesta in vimini. In primo piano, a sinistra, una piccola pozza d’acqua riflette con raffinatezza le forme dei frutti poggiati sul bordo. Si tratta non solo di un magnifico dipinto di grande decorazione, ma anche della sottile esaltazione delle ricchezze del committente, i cui terreni evidentemente producevano ogni ben di Dio.Lo stile e la qualità, come la tecnica particolare, con frutta e foglie caratterizzate da sottili vibrazioni luminose, suggeriscono a mio avviso la paternità di un importante pittore attivo a Roma sullo scorcio del xvii secolo e all’inizio di quello successivo, Pietro Navarra. Di lui non possediamo che scarne notizie, in particolare quelle fornite dal biografo Lione Pasco-li, che nel 1736 lo menziona come il miglior seguace di Franz Werner von Tamm. In realtà, stando alle attuali conoscenze sulla sua opera, che ruota intorno ai due capolavori siglati «P. N.» conservati alla Pina-coteca Vaticana, sembra piuttosto che questi si orienti sulla pittura di Christian Berentz, di cui potrebbe es-sere stato allievo, o comunque sodale per via della co-mune frequentazione di casa Pallavicini e Rospigliosi (confermo oggi in tal senso l’opinione espressa nel mio volume Natura silente. Nuovi studi sulla natura mor-ta italiana, Torino 2007, p. 60). Sappiamo, infatti, che i Pallavicini erano collezionisti appassionati di Pietro Navarra (gli inventari riportano circa una dozzina di tele), ma soprattutto lo era Clemente Rospigliosi, che

ne possedeva addirittura una ventina, tra cui almeno nove di piccola dimensione (tele «di testa» come veni-vano definite allora). Di certo c’è che Navarra si deve considerare come uno dei più raffinati esponenti della pittura di natura morta tardobarocca.Il tipo di composizione, che potremmo definire «pa-ratattica», cioè leggibile nel senso della scrittura, sen-za un particolare centro compositivo attorno a cui si possa snodare il resto della scena, è caratteristico di Navarra, come si nota in particolare dei due dipin-ti fondamentali nel suo percorso - perché tra i pochi documentati - conservati alla Galleria Pallavicini di Roma. Si deve notare tra l’altro che l’ambientazione del quadro del museo romano è quasi identica a quel-la della tela qui studiata: nella parte destra, infatti, si notano i medesimi due grandi basamenti in pietra, di cui quello più vicino in controluce. Anche nella tela del Museo Civico di Prato ricompaiono i due caratte-ristici basamenti, oltre a diversi dettagli quasi sovrap-ponibili quali l’anguria spezzata.Il bigoncio colmo di frutta compare molte volte nell’opera di Navarra anche in uno dei suoi dipinti più noti e complessi, la grande natura morta siglata «P. N.» del Museo Mayer van der Bergh di Anversa. La medesima organizzazione scenica e morfologica, pienamente comparabile, come detto, con opere della piena maturità, se non degli anni più tardi, intorno al 1714 ultima sua data conosciuta, si ritrova in una tela stilisticamente vicinissima a quella qui studiata, pas-sata a Dorotheum Vienna il 9 aprile 2014, lotto 563, che mostra anche la medesima morbidezza di stesura e analoghe vibrazioni luministiche. In base a quanto qui affermato, quest’ultima e la tela qui analizzata si possono considerare dunque importanti risultati pro-prio dell’ultima maniera di Navarra, ruotanti intorno al capolavoro della Galleria Pallavicini.

[alberto cottino]

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Giacomo franceSco cipper, detto « iltodeSchini»(Feldkirch 1664 - Milano, 1736)

Scena di genere, 1720 circaOlio su tela 106,5 x 160 cm.

Bibliografia: inedito.

Giacomo Francesco Cipper mette qui in scena atto-ri abituali del proprio repertorio, secondo conso-

lidati schemi spaziali. Il giovane protagonista della rap-presentazione sembra lo stesso primo attore che anima la tela del Museo di Belle Arti di Budapest, «Giovane coppia con musicanti», provvisto del medesimo cap-pello piumato calzato in identica foggia, cosi come il ragazzo in primo piano, strategicamente posizionato di profilo, offre un copricapo, ben calcato sulla testa, come altri personaggi todeschiniani.Cipper, austriaco di nascita, ma lombardo di adozione, è sicuramente uno dei massimi esponenti della «pittu-ra di genere» a cavallo tra il xvii e il xviii secolo, già presente a Milano nel 1696, quando è citato negli ar-chivi della parrocchia di San Vito al Pasquirolo. Nel capoluogo lombardo il pittore acquisterà tanto credito da permettergli di sposare la figlia di un notaio e gestire una bottega ben avviata che produrrà nel tempo una pletora di copisti e di imitatori che, senza ritegno e spesso malamente, riproporranno il suo originale «fare» pittori-co. Infatti, pur senza mai tradire le sue origini d’oltralpe né gli insegnamenti di Eberhard Keilhau (Helsingor, 1621 - Roma, 1687) le cui opere si potevano ammirare in numerose collezioni lombarde, Giacomo Francesco propone una pittura pauperistica personalissima e ben riconoscibile, attento cronista di una quotidianità nota, storia di gente comune, senza eroi né grandiose imprese, vecchi affaticati dagli anni, ragazzotti dall’aria scanzo-nata, anziane che filano, giovani donne dall’aria mali-ziosa, bambini irriverenti, calzolai, suonatori, vendito-ri ambulanti, tutti impegnati a tirar sera come meglio possibile e sempre in grado di sorridere al riguardante ridendo di se stessi.Come più volte sottolineato, dove Ceruti (Milano, 1698-1767) è drammaturgo, Cipper è commediografo (M. S. Proni, Giacomo Francesco Cipper detto il «Todeschi-ni», Soncino [cr] 1996, p. 21; Id., L’uomo, le cose, i luoghi, Arcugnano [vi] 2014, p. 212; Id., Giacomo Francesco Cipper detto Todeschini, scheda firmata in Arte e Vino, ca-talogo della mostra [Verona, Palazzo della Gran Guar-dia, 11 aprile - 16 agosto 2015], a cura di A. Scarpa e N. Spinosa, Milano 2015, p. 306, n. 113), capace di inventare un mondo dove la ferialità, del lavoro o dello svago, viene interpretata con un pennello controllatissi-

mo, che indaga l’evento proposto senza comunque mai allontanarsi dal dato di una realtà dove la miseria non è dramma, ma commedia a lieto fine.Cosi come nella scena in esame dove, come nelle opere migliori dell’autore, i personaggi sono disposti secondo un’intelaiatura geometrica consolidata, un’ellisse che ruota intorno al tavolo e il cui perno è la trappola che contiene il topo. In realtà qui le ellissi sono doppie e pa-rallele, la più esterna si muove dalla testa della ragazza, vira verso il cappello del protagonista, tocca la vecchia sullo sfondo, gira sul corpo steso del ragazzo in primo piano che, nella postura, ne accentua l’andamento; la seconda è segnata dalle quattro mani, ben evidenziate, dei personaggi intorno al tavolo, fino al candeliere, che paion far da cornice alla trappola.Il roditore catturato ritorna in altre scene note del To-deschini, come nella tela «Contadino con trappola per topi» (Proni, Giacomo Francesco, cit., 1996, p. 70, fig. 16), nelle due scene «Trappola per topi» (L. Togno-li, G. F. Cipper, il «Todeschini», Bergamo 1996, p. 75, figg. 86 e 87), nell’«Autoritratto» (ibid., p. 91, fig. 119) e in molte altre. È scontato il valore simbolico della rap-presentazione dell’animale intrappolato, che si offre a «multisignificanze», fino all’«implicazione simbolica dell’ingannatore imprigionato» (ibid., p. 151) o a eviden-ti rimandi sessuali nell’ago che giustizierà il malcapitato topo o nel gatto nero che osserva la scena, dichiarato simbolo del femminile. La tela permette però anche trasversali speculazioni me-taforiche. La presenza contemporanea di un ragazzino, di due adulti e di una vecchia potrebbe essere casuale ma, se consideriamo che l’anziana stringe un fuso e che in primo piano è presente una candela, il rimando al-legorico alla caducità del vivere è di scontata evidenza. Un candeliere simile, con un piccolo cero, posizionato all’angolo destro della composizione, ritorna nella tela «Vecchia che canta e giovane suonatore di clarinetto» (Proni, L’uomo, le cose, cit., p. 178, tav. xvia) quale me-mento mori, rappresentazione visiva di un concetto mo-ralizzante che regala, a una rappresentazione apparen-temente banale, uno spessore intellettuale che prevalica la mera descrizione di una quotidianità nota e troppo frequentata.La candela con il proprio candeliere poi è tratteggiata

con la perizia del grande naturamortista, quale Cipper si qualifica con costanza. E non solo nella resa degli og-getti che abitano le rustiche tavole da lui proposte, ma anche nella minuzia descrittiva che segnala uno strappo su un abito, una toppa su una giacca, un panno che mollemente si adagia oltre l’angolo di un tavolo. Come il drappo bianco che segna il candeliere evidenziandolo e rialzandolo cromaticamente rispetto al tavolo stesso e alla trappola, oggetti tutti giocati in una sinfonia di bruni che paiono intersecarsi e sostenersi a vicenda per mettere in risalto le scelte coloristiche del lato sinistro del-la composizione, accese e perfettamente modulate in un rincorrersi di tocchi rossi, giallo ocra, verdi intensi fino al candore della camicia del giovanetto. In effetti i per-sonaggi si offrono senza ritegno a un fiotto luminoso che cade deciso segnando, oltre la giubba gialla, l’incarnato dei tre giovani la cui epidermide pare assorbire la luce riverberandola. E la pelle stessa diventa altro, conduttore

luminoso che pur mantiene un’assoluta aderenza al dato naturalistico, otticamente tangibile, trattata con evidente compiacimento analitico, in virtù di una materia densa stesa senza risparmio.Fedele alla propria predisposizione alla commedia, Cipper non è interessato a una troppo insistita indagi-ne psicologica dei personaggi proposti ma a una «re-sa» d’espressione accattivante e che instaura un diretto dialogo con il riguardante, osservato sfacciatamente dal giovane protagonista della scena tanto che il limite tra chi guarda e chi è guardato, chi agisce nel quadro e chi lo contempla, si stempera in un dialogo apparentemente impossibile e pur perfettamente modulato. La resa atmosferica, la capacità di modulare il colore, la cromia rialzata, inseriscono la composizione nella piena maturità del Todeschini.

[maria Silvia proni]

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franceSco foSchi (Ancona, 1710 - Roma, 1780)

Paesaggio innevato con viandanti, 1775-1780 circaOlio su tela, 73 x 98 cm.Inedito.

Bibliografia di riferimento: M. Vinci-Corsini, Francesco Foschi, Milano 2003; A. Cifani, in Galleria Giamblanco. Dipinti Antichi. Pittura italiana dal Seicento al Settecento: venti anni di attività, Torino 2013, pp. 98-99; Galleria Giamblanco. Dipinti Antichi. Pittura italiana dal Seicento al Settecento, Torino 2014, pp. 80-83.

In un’atmosfera avvolta dai rigori invernali, quando la neve e il gelo gravano sull’uomo e sulla natura,

un gruppo di mendicanti cerca riparo dal freddo da-vanti a un piccolo falò acceso alle soglie di una grotta. Sullo sfondo uno sparuto numero di viandanti, protetti da pesanti mantelli, attraversa con passo rallentato un ponte in rovina. Quest’efficace composizione può esse-re agevolmente ricondotta al catalogo del pittore Fran-cesco Foschi, nato ad Ancona il 21 aprile 1710 da una famiglia della piccola nobiltà marchigiana. L’artista acquisisce le prime nozioni del mestiere nella città na-tale presso il paesaggista romano Francesco Antinozzi; successivamente viene segnalato a Fano, in un docu-mento del 1726, come allievo di Francesco Mancini, un maestro capace di contemperare il classicismo bolo-gnese di Cignani e Franceschini a quello capitolino di Carlo Maratti. Foschi nel 1729, all’età di diciannove anni, si trasferi-sce con tutta la famiglia a Roma e qui rimarrà almeno fino al 1746, ottenendo un’altra preziosa occasione per ampliare gli orizzonti della propria formazione, anche se non è attestata la sua adesione né all’Accademia di San Luca né all’Accademia di Francia, una circo-stanza piuttosto comune per gli artisti che scelgono di specializzarsi nella produzione di paesaggi. Nel 1746 sposta la sua residenza a Loreto - città sede del cele-bre santuario mariano e importante crocevia del Grand Tour - dove l’artista ottiene importanti commissioni per l’esecuzione di vedute della città, come il «Panorama di Loreto con i ritratti di tre papi», e dove svolge in pa-rallelo un’attività di mercante d’arte, attestata da alcune lettere a lui inviate dal conte Bonaccorsi.Francesco nel 1755 si trasferisce ancora a Pesaro e vi rimane per circa nove anni; nel 1764 torna a Roma e fissa per 16 anni la sua dimora in piazza di Spa-gna, senza trascurare i suoi rapporti con le Marche, attraverso viaggi di lavoro o l’invio di opere signifi-cative, come le «Vedute di Pesaro» e del suo «Porto». Oltre alle vedute di città e a un’interessante serie di

tele che illustrano, con i modi schietti della cronaca, momenti di vita settecentesca, ad esempio nel «Gioco del pallone nei giardini di Palazzo Barberini», il re-pertorio di Foschi è soprattutto caratterizzato da un filone dedicato a visioni paesaggistiche invernali, che gli garantisce un ampio successo. Attraverso quelle immagini innevate l’autore si pone come un precurso-re della visione romantica che si svilupperà nel secolo successivo. La fortuna di questa produzione peculiare è attestata anche dal necrologio dell’artista, pubblica-to l’11 marzo 1780 sul «Diario Ordinario» (n. 542, p. 3) edito a Roma dalla Stamperia Cracas presso San Marco al Corso: «Dopo lunga e penosa malattia il di 21 dello scorso Febraro [1780] cessò di vivere il Cavaliere Francesco Foschi celebre Pittore di Paesi a Neve. Questo valente Professore che nel suo genere non ha mai avuto il secondo non che l’uguale, negli ultimi anni della sua vita si affaticò a segno, che poté non solo supplire alle molte ordinazioni che lo affolla-vano, ma anche far per proprio studio molti Quadri, né quali trovano gl’Intendenti ch’Egli ha superato se stesso. Questi formano la parte più preziosa dell’ere-dità ch’egli ha lasciato alla sua Figlia». Un pendant delle ambite opere che Francesco aveva destinato alla famiglia viene venduto nel 1784 al principe Borghe-se, attraverso Antonio Asprucci, per la collezione di Villa Pinciana (oggi in collezione privata statuniten-se). Le due opere, firmate e datate «Roma 1776», te-stimoniano il perdurare della fama postuma di Foschi e forniscono un solido appiglio cronologico per scala-re la successione dei «Paesi a Neve». Grazie a queste coordinate stilistiche il dipinto presentato dalla Gal-leria Giamblanco può essere riferito alla produzione matura del paesaggista, caratterizzata da una pittura disinvolta e capace di calibrare composizioni e spazi, che trovano spesso i loro archetipi in opere di artisti fiamminghi come Jan Brueghel.

[Galleria Giamblanco]

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Girolamo Starace franchiS(Napoli, 1730 c. - 1794)

Il Giorno si allontana dall’Aurora accompagnato da Minerva e guidato da Ercole, 1770 circaOlio su tela, 102 x 76,5 cm.

Bibliografia: inedito

Il dipinto è il bozzetto per una composizione, a fresco o su tela, non identificata e che sicuramente decorava

la volta o il soffitto di una dimora patrizia di Napoli o dei dintorni napoletani. Il soggetto raffigurato, tratto da un mito antico di non facile rappresentazione, ritrae un giovane nudo (forse allusivo alla Giovinezza o al Gior-no, che si allontana, volando verso il cielo indicato da Ercole seduto su una nuvola, dal sontuoso triclinio su cui ancora giace una giovane donna, che, per la stella sul capo, potrebbe identificarsi con l’Aurora; in basso una baccante e un satiro con il capo cinto di edera allu-dono al potere del vino; sicché potrebbe anche trattarsi della rappresentazione del Giorno che si allontana da Aurora dopo una notte di amore trascorsa con libagio-ni di vino).Autore del dipinto è con certezza Girolamo Stara-ce Franchis, tra i più prolifici pittori napoletani della seconda metà del Settecento, che, grazie all’appoggio dell’architetto Luigi Vanvitelli, ottenne per la sua for-mazione un «pensionato» a Roma, presso Palazzo Far-nese, a spese della corte borbonica. Tornato a Napoli ottenne tra il 1759 e il 1760, sempre dal Vanvitelli, l’in-carico di decorare il modello ligneo dello scalone d’in-gresso e del vestibolo inferiore della Reggia di Caserta, in costruzione appena iniziata: il progetto fu poi realiz-zato ad affresco, tra il 1764 e il 1769, con la rappresenta-zione de «La Reggia di Apollo» nella volta dello Sca-lone e negli angoli le personificazioni delle «Quattro stagioni», mentre, rimasto irrealizzato l’intervento pre-visto nel Vestibolo inferiore, a Starace fu affidata la de-corazione a fresco della volta del Salone della Guardia, al «piano nobile» della Reggia, con l’«Allegoria della Gloria dei Farnese e delle dodici Provincie del Regno di Napoli», realizzata tra il 1775 e il 1782, insieme a varie sovrapporte e sovraspecchi su tela, con allegorie varie, per alcuni saloni sempre al «piano nobile» della Reggia. Contemporaneamente il pittore, oltre a essere impegnato nella realizzazione di tele con soggetti sacri per alcune chiese di Napoli e dei suoi immediati din-torni («Cristo e la Maddalena» del 1764 per la chiesa

dei Santi Marcellino e Festo; il «Battesimo di Cristo» e l’«Immacolata Concezione» del 1770 per la Real San-ta Casa dell’Annunziata; «Allegorie di Virtù» per la basilica di San Paolo Maggiore; Madonna del Rosario per la chiesa di San Sebastiano a Caserta; tele e affreschi del 1773 e 1772 per la chiesa dell’Ave Gratia Plena di Marcianise, in provincia di Caserta), collaborò con la Real Arazzeria napoletana, diretta da Pietro Duran-ti, dipingendo nel 1761 il bozzetto per l’arazzo con il Ratto di Proserpina, facente parte della serie con «Gli Elementi» progettata dall’architetto Ferdinando Fuga per la decorazione di uno dei saloni del Palazzo Reale di Napoli. Si conoscono in raccolte private di Napoli e di Cosenza bozzetti per tele destinate a chiese napoleta-ne e un superbo ritratto su tela di «Maria Vittoria Na-selli, principessa di Linguaglossa, nelle vesti di Diana cacciatrice» per questi dipinti e le relative riproduzioni fotografiche: N. Spinosa, Pittura napoletana del Settecen-to dal rococò al classicismo, Napoli 1987 (2a ed. Napoli 1993), pp. 61 e 132, nn. 190-195, figg. 241-249.Tutta la produzione, compreso l’inedito bozzetto qui in esame, si colloca nel tentativo, perseguito poi da altri pittori napoletani della generazione successiva a quella di Francesco De Mura e Giuseppe Bonito, di assecondare le crescenti preferenze anche dell’ambien-te napoletano per soluzioni di composto classicismo, preferite inoltre dallo stesso Luigi Vanvitelli in archi-tettura, in opposizione alla passata tradizione barocca. Solo che, mentre un altro pittore napoletano della sua stessa generazione, Fedele Fischietti, tentò di concilia-re le nuove istanze classiciste, diffuse in particolare da Roma, con alcuni aspetti del rococò locale, giungendo a soluzioni di elegante «barocchetto», Girolamo Stara-ce preferi, invece, esiti di più rigoroso purismo formale e compositivo, di studiata bellezza anche cromatica e d’inclinazione sostanzialmente accademica, che furo-no preferiti in pittura anche dal Vanvitelli.

[nicola SpinoSa]

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vittorio amedeo rapouS (Torino, 1729-1800)

Putti che suonano strumenti musicali, 1765 circaOlio su tela, 117 x 108,5 cm.

Putti che giocano allo specchio, 1765 circaOlio su tela, 116 x 108 cm. Al retro di entrambi etichetta tonda «Galleria-Quaglino-Antiquaria Torino P. S. Carlo 177» con numero manoscritto «DP138». Fotografie presenti nella Fototeca della Fondazione «Federico Zeri», Bologna, nn. 71723- 71724.

Bibliografia di riferimento: N. Gabrielli, Museo dell’Arredamento. Stupinigi. La Palazzina di caccia, Torino 1966; P. Astrusa e M. di Macco, Vittorio Amedeo Rapos, in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna 1773-1861, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale e Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980), a cura di E. Castelnuovo e M. Rosci, 3 voll., Torino 1980, vol. III, pp. 1478-1479; L. Mallé, Stupinigi. Un capolavoro del Settecento europeo tra barocchetto e classicismo, Torino 1981, pp. 290-297, 487-488; C. Barelli, Rapous, Vittorio Amedeo, in La pittura in Italia. Il Settecento, a cura di G. Briganti, 2 voll., Milano 1990, vol. II, pp. 847-848; Roma Torino Parigi 1770-1830, catalogo della mostra (Torino, Lingotto Fiere, 27 febbraio - 7 marzo 1993), a cura di G. Romano, Torino 1993, pp. 16-17; O. Graffione, Vittorio Amedeo Rapous, in Beaumont e la scuola del disegno. Pittori e scultori in Piemonte alla metà del Settecento, a cura di G. Dardanello, Torino 2011, pp. 114-115; V. Natale in Galleria Giamblanco. Dipinti antichi. Pittura italiana dal Seicento al Settecento, Torino 2015, pp. 92-95; V. Natale in Spiritelli, amorini, genietti e cherubini. Allegorie e decorazione di putti dal Barocco al Neoclassico, catalogo della mostra (Torino, Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto, 19 febbraio - 5 giugno 2016), a cura di V. Natale, Cinisello Balsamo 2016, catt. 5.7a-5.10d, pp. 100-109.

Questo allegro pendant descrive con toni divertiti due teatrini di putti. Nella prima tela una coppia

di fanciulli accompagna con il flauto e con il canto una bambina che suona il clavicembalo; il corista ha al collo uno spartito stracciato, forse indizio di una precedente accesa discussione intercorsa tra i giovani artisti. L’altra opera esibisce il virtuosismo accademi-co del pittore nella resa delle espressioni dei personag-gi ritratti e mostra un bimbo dispettoso che si diletta nel provare nuove smorfie e sberleffi allo specchio in compagnia di due amici. I quadri in origine facevano probabilmente parte di una serie di sovrapporte che sviluppavano, mediante l’allegoria, il tema dei cinque sensi: in quel contesto i «Putti che suonano strumen-ti musicali» potevano alludere all’udito e i «Putti che giocano allo specchio» alla vista. Questa tipologia di opere è caratteristica del repertorio del celebre artista della corte sabauda Vittorio Amedeo Rapous, come evidenzia già nel 1770 Ignazio Nepote nel suo «Pre-giudizio smascherato»: «Del maestro Bomon imita / Rapos il bel dipingere, / Grazioso nelli Bamboli / Fra lor qualora scherzano». Il pittore nasce a Torino nel 1729 da Anna Teresa e Giuseppe Antonio Raposo e si forma dal 1748 alla Scuola del Disegno di Claudio Francesco Beaumont. L’artista inizia presto uno stretto rapporto di collabo-razione con il maestro, che gli consente di partecipare a importanti imprese decorative, a partire dalla colo-ritura della gruppo processionale dell’«Addolorata» scolpito dai fratelli Clemente (1751). Rapous entra quindi alla Regia Manifattura degli Arazzi, diretta da

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Beaumont dal 1731 al 1766, dove si impegna nella trasposizione in formato maggiore di modelli elaborati dal caposcuola. La prima attività di Vittorio Amedeo è caratterizzata da un perfetto adeguamento ai modi di Beaumont, necessario per garantire la massima uni-formità stilistica delle opere licenziate dalla bottega; sono un esempio efficace di questa perfetta sintonia i lavori torinesi come la pala con «San Giovanni Ne-pomuceno in venerazione dell’immagine dell’Addo-lorata», terminata nel 1753 per la Confraternita della Misericordia, e la «Pietà» della chiesa di Santa Maria degli Angeli.Con il passare del tempo Rapous riesce tuttavia a svi-luppare uno stile personale e a consolidare un’attività autonoma, inizialmente rivolta soprattutto alla cliente-la ecclesiastica sparsa sul territorio piemontese. Com-pie inoltre lavori per eminenti personaggi della corte sabauda, come il marchese Giuseppe Maurizio Turi-netti di Pertengo, che gli commissiona due tele per la cappella di Villa la Moglia, con «Gesù tra i Dotto-ri» e la «Cacciata dei mercanti dal Tempio» (1760). Quest’ultima è ispirata al prototipo di Jean Jouvenet esposto al Salon di Parigi del 1699 e divulgato attra-verso la stampa di Gaspard Duchange. Il riferimento ai modelli d’oltralpe contribuisce verosimilmente an-

che alla nascita del filone dedicato alle storie di putti, che Rapous inaugura intorno alla seconda metà degli anni sessanta, quando viene coinvolto nei cantieri re-ali, ad esempio nell’Appartamento di Levante della Palazzina di Caccia di Stupinigi, dove si ritrovano i primi esempi di questa fortunata produzione (1765). Si può ipotizzare che l’artista abbia inizialmente guardato ai modelli elaborati da Charles-André van Loo, ben conosciuto a Torino grazie al suo secon-do soggiorno subalpino del 1732-1734, che nel 1753 realizza una serie di «Putti nell’allegoria delle Arti» per il castello di Bellevue di Madame de Pompadour, poi incisa da Étienne Fessard. Nei «Putti che suona-no strumenti musicali» Vittorio Amedeo sembra in effetti guardare al concertino di Van Loo, interpretan-dolo con un linguaggio ancora prossimo a Beaumont. Questi elementi fanno propendere per una datazione delle due tele Giamblanco ancora relativamente pre-coce, non troppo distante dagli interventi di Stupinigi. Solo più tardi, infatti, l’artista mostrerà caratteristiche più personali, che saranno connotate da interessanti aperture al neoclassicismo e da una tavolozza dalle tonalità cangianti.

[Galleria Giamblanco]

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I due ovali che qui si presentano sono opera del cele-bre pittore di paesaggi Vittorio Amedeo Cignaroli.

Discendente di una lunga dinastia di artisti di origine veronese, Vittorio Amedeo nasce a Torino il 15 aprile 1730 da Scipione Cignaroli e Marianna Cavet. Fin dal-

vittorio amedeo ciGnaroli(Torino, 1730-1800)

Paesaggio con riposo di Gesù, Maria e Giuseppe durante la fuga in Egitto, 1754 circaOlio su tela, 51,5 x 39 cm.Sul telaio: «4».

Maria con Gesù che salva san Pietro dalle acque, 1754 circaOlio su tela, 51,5 x 39 cm.Sul telaio: «10 chiaro».Inediti.

Bibliografia di riferimento: A. Verdoja Oberto, Vittorio Amedeo Cignaroli, Savona 1967; A. Cifani e F. Monetti, I piaceri e le grazie. Collezionismo, pittura di genere e di paesaggio fra Sei e Settecento in Piemonte, 2 voll., Torino 1993, vol. II, pp. 413-455 con bibliografia precedente; A. Cifani e F. Monetti, La Caccia al cervo di Vittorio Amedeo Cignaroli, in «Bullettin du Musée Hongrois des Beaux-Arts», nn. 90-91, 1999, pp. 127-130; Vittorio Amedeo Cignaroli. Un paesaggista alla corte dei Savoia e la sua epoca, catalogo della mostra (Torino, Fondazione Accorsi, 2001), a cura di A. Cottino, Torino 2001; A. Cifani e F. Monetti, Opere d’arte inedite della Sacrestia del Seminario Maggiore di Torino, in «Arte Cristiana», 91, 2003, novembre-dicembre, pp. 447-455; A. Cifani e F. Monetti, Inediti di Vittorio Amedeo Cignaroli (1730-1800) dalla celebre Sacrestia dell’Eremo Camaldolese di Torino, in «Arte Cristiana», 92, 2004, novembre-dicembre, pp. 432-441; Cignaroli. La seduzione del paesaggio, catalogo della mostra (Torre Canavese, Galleria Da-trino, 13 maggio-8 luglio 2007), a cura di A. Cottino, Torino 2007; E. Gentile Ortona, La Biblioteca, in L’ambasciata d’Italia a Parigi. Hôtel de La Rochefoucauld-Doudeauville, a cura di E. Gentile Ortona, M. T. Caracciolo e M. Tavella, Milano 2009, pp. 125-133; Angelo Cignaroli. Vedute del regno di Sardegna, catalogo della mostra (Torino, Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto, 13 settembre 2012-6 gennaio 2013), a cura di V. Natale, Milano 2012; Le cacce del re. Il restauro della Sala degli Scudieri a Stupinigi, a cura di A. Griseri, Savigliano 2012; scheda su V. A. Cignaroli di A. Cifani, in Galleria Giamblanco. Dipinti antichi. Pittura italiana dal Seicento al Settecento: venti anni di attività, Torino 2013, pp. 112-123; scheda su V. A. Cignaroli di A. Cifani, in Galleria Giamblanco. Dipinti antichi. Pittura italiana dal Seicento al Settecento, Torino 2014, pp. 76-79, ivi bibliografia ulteriore.

la sua prima età l’autore inizia ad apprendere il mestiere dal padre, che aveva portato nella capitale sabauda una personale concezione paesistica, che molto doveva alle reminiscenze familiari di tradizione veneta e ai preceden-ti soggiorni a Milano e a Roma, durante i quali l’artista era entrato a diretto contatto con le opere di maestri come Pieter Mulier, Gaspard Dughet e Salvator Rosa. Sci-pione non aveva tuttavia trascurato le atmosfere rischia-rate di ispirazione arcadica proposte dai contemporanei Andrea Locatelli e Paolo Anesi, le cui opere giungeva-no anche a Torino grazie ad attenti collezionisti come il marchese d’Ormea. Vittorio Amedeo parte da queste solide basi culturali e ha l’occasione di estenderle ulteriormente grazie all’ere-dità del padre, che morendo lascia al giovane, nel testa-mento del 21 novembre 1745, una chiara esortazione a «rendersi capace della sua virtù di Pittore, e perfetionarsi in essa» con il necessario «portarsi in qualche luogo e città fuori di questi stati» per ampliare i propri orizzonti. Nello studio di Scipione rimane inoltre una copiosa raccolta di dipinti, disegni e stampe, che sarà una pre-ziosissima fonte di ispirazione per future composizioni.Dopo aver portato a compimento la sua istruzione, Vittorio Amedeo riceve già nel 1749 le prime ambite commissioni per opere destinate alle residenze sabau-de, dando cosi avvio a un rapporto di lavoro stabile con la corte subalpina che durerà fino alla sua morte, il 18 febbraio 1800, e che proseguirà ancora con il figlio

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Angelo, l’ultimo discendente della stirpe di paesaggisti.I due ovali riscoperti della Galleria Giamblanco forni-scono un nuovo fondamentale contributo alla conoscen-za dell’avvio del cammino artistico di Cignaroli. La coppia di dipinti può essere infatti avvicinata a una serie di quindici piccole tele ovali compiute dall’artista nel 1754, all’età di 24 anni, per decorare la Sagrestia dell’E-remo dei Camaldolesi della collina torinese. Quell’in-sieme dedicato a episodi della vita di san Romualdo è stato disperso a seguito della soppressione napoleonica del 1801 ed è noto attraverso le descrizioni di autori co-me Apollinare Chiomba. A oggi si conoscono due tele delle serie - «San Romualdo nell’isola di Parenzo» e «L’Apparizione di sant’Apollinare a san Romualdo» (olio su tela, 54 x 39 cm) - già transitate dalla Galleria Giamblanco (A. Cifani e F. Monetti 2004, pp. 432-441; Galleria Giamblanco 2013, pp. 112, 122). Quelle opere evidenziano il primo assestamento stilistico di Vittorio Amedeo, che si impegna in un progressivo alleggerimento cromatico, che evolverà nelle atmosfere ariose e smaltate delle opere della sua maturità. I due inediti ovali in origine facevano probabilmente parte di un gruppo dedicato a episodi del Nuovo Testa-mento, del tutto simile, per il tema sacro e le dimensioni, a quello dell’Eremo. La prima tela descrive il «Riposo di Gesù, Maria e Giuseppe durante la fuga in Egitto»:

in una radura ombreggiata, aperta tra le rocce, un angelo premuroso offre al Bambino un piatto colmo di frutti, sotto lo sguardo attento dei genitori. L’artista accenna all’ambientazione esotica con la sola aggiunta di una grande palma mossa dal vento. Per la composizione del-la scena Vittorio Amedeo ha probabilmente utilizzato il repertorio di immagini raccolte da Scipione, forse ricor-rendo ad un’incisione come la «Fuga in Egitto» di Pier Francesco Mola tratta dall’Albani. La seconda opera illustra invece un brano del Vangelo di Matteo (14, 22-33), in cui Gesù raggiunge la barca dei discepoli sul lago di Tiberiade camminando sulle acque: quando Pietro vide Gesù «gli disse: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”. Ed egli disse: “Vieni!”. Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma per la violenza del vento, s’impauri e, cominciando ad affon-dare, gridò: “Signore, salvami!”. E subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”». La drammaticità dell’episodio è forte-mente stemperata dalla delicata armonia dell’insieme, che conferma l’attenzione di Cignaroli per le opere di Adrien Manglard, che a Torino vengono efficacemente studiate anche da artisti come Francesco Antoniani.

[Simone mattiello]

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vittorio amedeo ciGnaroli(Torino, 1730-1800)

Paesaggio con pastorella e lavandaia, 1760 circa

Paesaggio con un pescatore e la sua famiglia, 1760 circaOlio su tela, 46,5 x 34,5 cm ciascuno. Inediti.

Bibliografia di riferimento: vedi scheda precedente.

Questo delizioso pendant di vedute è un’opera della prima maturità artistica di Vittorio Amedeo Ci-

gnaroli, il celebre pittore di «paesaggi e boscherecce» del re di Sardegna Vittorio Amedeo III di Savoia. Le due tele introducono il riguardante in situazioni di assoluta serenità campestre, in cui alcuni personaggi trascorrono le loro esistenze in una natura d’arcadia, del tutto pri-va di insidie o minacce. Il primo quadro mostra una graziosa lavandaia intenta a sciacquare i suoi panni nel fiume, mentre una pastorella attorniata dagli armenti la osserva curiosa. Il secondo dipinto ritrae invece una gio-vane famiglia che si riposa sulle sponde di un torrente; sotto una grande pianta la madre e il figlioletto scherzano felici, aspettando che il padre porti a buon fine la sua battuta di pesca. I cieli che sovrastano le composizioni sono pervasi dalle tonalità calde e rosate di un crepuscolo estivo, mentre una tiepida brezza muove dolcemente le fronde degli alberi.La coppia di dipinti mostra un aspetto del tutto par-ticolare della produzione dell’artista, che può trovare confronti con un ristretto numero di altre opere del suo catalogo, come una piccola serie conservata in collezione privata, esposta alla mostra dedicata al pittore nel 2001 alla Fondazione Accorsi-Ometto di Torino (Vittorio Amedeo Cignaroli 2001, catt. 31-34, pp. 128-129), in cui Cignaroli ha illustrato bucolici momenti di vita conta-dina in un «Paesaggio con coppia di viandanti e mu-lo», un «Paesaggio con madre, figlio e cagnolino con un uomo sul mulo nello sfondo», un «Paesaggio con pescatore e donna con figlia e capra su un ponte» e un «Paesaggio con pastorella e armenti ai margini di un bosco» (olio su tela, 38 x 31 cm ciascuno). In quell’oc-casione Alberto Cottino ha giustamente sottolineato che quell’insieme «[...] è da giudicarsi tra i capolavori del pittore per la freschezza dei toni idillici delle scene, ambientate in una campagna serena, ricca di boschi e

limpide acque, in cui la quotidianità assume il valore di un sentimento nostalgico e di trascolorante memoria di luoghi e tempi passati, sottolineati dal piccolo formato che attenua l’impatto e la destinazione decorativi. [...] Qui il pittore mostra, come non mai, un accostamento alla pittura di Zais e Zuccarelli, sia in termini formali che qualitativi [...]». Anche nel caso dei quadri che qui si presentano, Vittorio Amedeo è riuscito a concentrare la propria attenzione sulla poetica esposizione del tema narrativo grazie alle dimensioni contenute dei dipinti, diversamente da quanto accade nella maggioranza dei suoi lavori, in cui il pittore tende a dedicarsi all’ampia trattazione dei paesaggi per il prevalere delle istanze de-corative delle tele, destinate già dal 1749 ai fastosi allesti-menti dei saloni dei palazzi del sovrano e della migliore nobiltà piemontese.Cignaroli ha l’opportunità di proseguire l’attività del padre Scipione, paesaggista già attivo alla corte subal-pina, in un momento particolarmente favorevole. Nel corso del Settecento, infatti, le famiglie patrizie torinesi si impegnano nella costruzione o nell’ammodernamen-to di numerose eleganti «vigne», le dimore suburbane disseminate sulla collina della capitale sabauda, che diventano la destinazione ideale per le creazioni del pa-esaggista. Anche la famiglia reale è impegnata in am-biziosi programmi di riallestimento delle sue residenze, in particolare su impulso della regina Maria Antonia Ferdinanda di Borbone, che dal 1756 ordina ad esempio di sostituire nei suoi appartamenti gli arazzi di tema mi-litare con rassicuranti soggetti agresti. L’artista diventa cosi il cantore prediletto di un mondo aristocratico che sta giungendo al proprio tramonto e che presto sarà in-vestito dagli sconvolgimenti della Rivoluzione Francese e delle guerre napoleoniche.

[Galleria Giamblanco]

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vittorio amedeo ciGnaroli(Torino, 1730-1800)

Paesaggio con rovine e cacciatori, 1765-1770 circaOlio su tela, 190 x 125 cm.Provenienza: Torino, Pietro Accorsi.Inedito.

Bibliografia di riferimento: vedi scheda precedente.

Il grande dipinto descrive la sosta di un gruppo di cac-ciatori sulle rive di un fiume. All’ombra di grandi

alberi e presso un vecchio muro di cinta, sormontato da un monumentale vaso in pietra di sapore classicheggian-te, numerosi personaggi sono impegnati nei compiti che seguono la fortunata conclusione dell’attività venatoria. Mentre alcuni protagonisti parlano dell’impresa, con i fucili ancora in mano e accanto alle prede di penna, un altro cavaliere si dedica a una languida conversazione con una dama. Anche il paggio, che sta conducendo i cani a dissetarsi, è distratto da una graziosa lavandaia intenta a sciacquare i suoi panni. Nel frattempo gli scu-dieri si occupano degli animali che hanno contribuito alla caccia, liberando il cavallo dalla sella e facendo ri-posare il falcone. Nonostante la cura profusa dall’artista nel descrivere e armonizzare l’insieme degli elementi aneddotici, il soggetto dominante della tela risulta es-sere l’ampia veduta di paesaggio. Il pittore ha saputo, infatti, utilizzare una ricca gamma di elementi naturali, che sono stati sapientemente declinati senza incorrere in stonature, soprattutto grazie a un uso di luci e colori in grado di infondere all’insieme una delicata armonia e una sorprendente profondità di campo.L’autore di questa squisita poesia d’arcadia è Vittorio Amedeo Cignaroli, il «peintre de paysages à l’huile fort estimés» e di «talent très-distingué» già citato nel Voya-ge en Italie di Joseph-Jérôme Le Français de Lalande nel 1787. Discendente di una lunga dinastia di artisti di origine veronese, il pittore riceve le prime commissio-ni ufficiali per opere destinate alle principali residenze della dinastia sabauda a partire dal 1749, all’età di soli diciannove anni. Da quel momento Cignaroli inizia una fortunatissima carriera, che lo porta ad assumere la

carica di priore dell’Accademia di San Luca subalpina nel 1762 e di professore della Reale Accademia di Pittu-ra e Scultura nel 1778. Nel 1782 ottiene infine una carica ufficiale, con la qualifica di pittore di corte di «paesaggi e boscherecce» di re Vittorio Amedeo III di Savoia e una pensione annua di 300 lire che garantisce la sicurezza economica alla sua famiglia. Nel 1766 Vittorio Ame-deo aveva infatti sposato Rosalia, figlia del celebre scul-tore Francesco Ladatte, che diventa presto un elemento determinante della sua bottega, come accenna Ignazio Nepote nel Pregiudizio smascherato: «Fra’ paesisti merita / Il Cignaroli la laurea / Che donna volle prendere / Qual le figure facciagli»; dalla coppia nel 1767 nasce Angelo, l’ultimo esponente della stirpe di paesaggisti. La grande tela presentata dalla Galleria Giamblanco si colloca tra le opere della maturità artistica di Cignaroli e deve essere posta a diretto confronto con la serie oggi allestita in una sala del Museo Accorsi-Ometto di To-rino, in precedenza proveniente dal salone del castello di Carpeneto, nei pressi di La Loggia, ma in origine forse destinata al castello di Pessione. Queste opere sono databili alla fine del sesto decennio del xviii secolo e possono essere lette come una ponderata rivisitazione delle celebri «Cacce» commissionate al pittore agli ini-zi degli anni sessanta per la Sala di Ricevimento della Palazzina di Stupinigi. A differenza del ciclo reale, nei dipinti Accorsi e Giamblanco il tema venatorio sembra tuttavia perdere ogni reale intento descrittivo, riducendosi a un raffinato complemento per aggraziate scenografie teatrali riservate alle dimore della migliore aristocrazia piemontese. [Galleria Giamblanco]

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Giovanni battiSta Quadrone(Mondovi, 1844 - Torino, 1898)

Sardo, 1884Olio su tavola, 19,5 x 14,5 cm.Dedica in basso a destra: «Al Colonnello / Vittorio Turletti / riconoscente delle / sue gentilissime / espressioni verso / suo marito / G. Quadrone Rogier»; al verso etichetta con il numero «215».Esposizioni: Torino, Società Promotrice delle Belle Arti, Esposizione Postuma, 1899 (sala III, n. 185).

Studio per Lo spaventapasseri, 1886Olio su tela applicata su cartone, 22 x 18 cm.Timbro rosso dell’Esposizione Postuma (1899) in basso a sinistra; al verso «Pastore sardo / studio regalato dalla vedova al Geom. Turletti».Esposizioni: Torino, Inventario-vendita Studio Quadrone, 1899 (n. A56).

Bibliografia: G. L. Marini, Quadrone. La vita, i documenti, le opere. Catalogo ragionato, 3 voll., Torino 1998, vol. 2, n. 912 («Sardo»), p. 668; n. 915 (studio per «Lo spaventapasseri»), p. 669.

I due dipinti sono studi preparatori del pittore monre-galese Giovanni Battista Quadrone. L’artista nasce a

Mondovi il 5 gennaio del 1844 da una famiglia agiata, dedita al commercio del marmo, e compie i suoi studi

all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, do-ve segue i corsi di Enrico Gamba e di Gaetano Ferri dal 1861 al 1868. In un passaggio della lettera auto-biografica inviata a Onorato Roux, Quadrone ricorda

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l’importanza del suo successivo soggiorno a Parigi: «Mi recai, quindi, a Parigi, dove frequentai la scuola serale del nudo, diretta dal vigoroso pittore Bonnat; di giorno, portava al Gêrome i miei schizzi ed i miei quadri. Ri-cordo ancora i consigli di questi due eminenti artisti». Rimpatriato nell’estate del 1869, il pittore si stabilisce definitivamente a Torino nel 1870, dove inizia a distac-carsi dai temi storico-letterari che avevano caratterizzato la sua prima produzione - come l’«Eudoro e Cimodo-cea nel Colosseo nel momento d’essere aggrediti dalla fiera», vincitore del concorso triennale del 1868 - per affrontare spiritose scene di vita quotidiana con perso-naggi in costumi del Sei o del Settecento, sull’esempio di Jean-Louis-Ernest Meissonier. Nel 1876 l’artista sottoscrive un contratto di esclusiva con il fiorentino Luigi Pisani, che lo aiuta a valorizza-re le sue opere sul mercato collezionistico; la crisi del 1880 spinge il pittore a cercare nuovi estimatori anche all’estero, dalla Prussia al Sud America. Si dedica cosi a soggetti incentrati sulla caccia, la sua grande passio-ne. In quelle opere Giovanni Battista perfeziona la sua abilità nell’esatta restituzione di ogni aspetto della realtà osservata, senza tuttavia cadere negli eccessi aneddotici che avevano caratterizzato i suoi lavori precedenti.L’amore per l’arte venatoria porta Quadrone dal 1876 alla scoperta dei territori selvaggi della Sardegna, che dal 1883 diventeranno oggetto delle sue rappresentazio-ni pittoriche, con scene quotidiane e toccanti paesaggi. Negli ultimi anni l’artista sviluppa due nuovi filoni, uno incentrato sulla vita del circo e l’altro sulla sua tran-quilla esistenza domestica, spesso trascorsa alla cascina de’ «Il Torrero» in compagnia dei figli e della moglie, la cagliaritana Giuseppina Rogier sposata nel 1885.

Gli studi presentati dalla Galleria Giamblanco si in-seriscono tra le opere che Quadrone dedica all’isola sarda e provengono entrambi dalla famiglia del pittore e incisore Celestino Turletti (Torino, 1845-1904), pro-motore con Marco Calderini e Giuseppe Ricci dell’E-sposizione Postuma del 1899 alla Società Promotrice del-le Belle Arti di Torino e della monografia dell’artista pubblicata nel 1902. La tavola con il «Sardo» è stata messa in vendita a 70 lire alla mostra del 1899 ed è stata successivamente donata dalla vedova di Quadrone al tenente colonnello Vittorio Turletti, l’autore del vo-lume Attraverso le Alpi. Storia aneddotica delle Guerre di Montagna combattutesi dal 1742 al 1748 in difesa dell’Italia (Torino 1897). Lo scrittore aveva cercato la colla-borazione di Quadrone per illustrare il suo testo, ma Giovanni Battista aveva declinato l’invito suggerendo il nome di Giuseppe Ricci. La figura del vecchio pa-store può essere individuata nel dipinto «Processione in Sardegna» del 1884.L’altro bozzetto inquadra il volto di un giovane sardo con il cappello calato sugli occhi; si tratta dello studio per un soggetto affrontato da Quadrone in due suc-cessive redazioni, che differiscono soltanto per alcuni particolari: la prima, incompiuta, intitolata «Lo spa-ventapasseri» (olio su tela applicata su tavola, 47 x 32,5 cm) e l’altra «Lo scaccia passeri. Costume di Sarde-gna» (olio su tela, 47,5 x 31,5 cm) ora nota soltanto attraverso un’antica fotografia. Il modello è stato posto in vendita a 50 lire all’esposizione del 1899, per essere poi donato da Giuseppina Quadrone Rogier a un altro componente della famiglia Turletti.

[Simone mattiello]

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L’impulso degli artisti a rappresentare se stessi è antico quanto il mondo. Plutarco, nella sua Vita di Pericle, biasima il grande scultore Fidia per aver avuto l’ardire di autorappresentarsi sullo scudo dell’Atena

Parthenos del Partenone, peccato di hybris che secondo la leggenda sarebbe valso all’artista la condanna a morte. Tuttavia è al Medioevo che bisogna guardare per individuare le origini dell’autoritratto inteso in senso moderno, che affonda le sue radici nelle immagini scultoree dei fabbricieri delle cattedrali romaniche e in quelle miniate degli scribi medievali, come il Fratello Rufilus del celebre Passionario di Weissenau della Fondazione Bodmer, che si raffigura al lavoro all’interno di una grande lettera capitale. Si tratta di una pratica artistica che si è evoluta di pari passo con l’affermazione del ruolo dell’artista nella società, dalle perdute autorappresentazioni del mitico Giotto citate dal Vasari al doppio autoritratto di Ghiberti, da giovane e da vecchio, sulle porte bronzee del Battistero di Firenze, ed è infatti un genere largamente frequentato dai grandi maestri del Rinascimento. È però a un esponente dell’Ars Nova fiamminga, il grande Jan van Eyck, che viene attribuito il primo autoritratto autonomo della storia dell’arte (ora conservato alla National Gallery di Londra).Con il Romanticismo e più tardi con la nascita della psicoanalisi l’autoritratto passa da rappresentazione dello status dell’artista verso l’esterno a mezzo di introspezione psicologica; ulteriori sviluppi sono favoriti dalla nascita della fotografia, che rende l’immagine potenzialmente istantanea e riproducibile all’infinito. «L’autoritratto è diventato il genere artistico che contraddistingue la nostra epoca incline alle confessioni» ha scritto James Hall nel suo recente saggio L’autoritratto. Una storia culturale (Torino 2014).Si tratta insomma di un genere artistico molto particolare, che ha sempre interessato i collezionisti colti e raf-finati, a partire dal cardinale Leopoldo de’ Medici, l’iniziatore della straordinaria serie di autoritratti d’artista oggi conservata alla Galleria degli Uffizi di Firenze. Svariati secoli e profonde mutazioni storiche e sociali separano le opere selezionate per questa occasione, che restano però accomunate da una realizzazione attenta e meditata, da una profondità di autoanalisi che trova i suoi interpreti ultimi nei grandi artisti contemporanei e che non potrà mai essere sostituita dalla contemporanea pratica del selfie.

autoritratti

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anGelo treviSani(Venezia ?, 1667/1669 - post 1753)

Autoritratto, 1739Olio su tela, 96 x 85 cm.

Bibliografia di riferimento: A. M. Zanetti, Della pittura veneziana e delle opere pubbliche de’ veneziani maestri libri V, Venezia 1771; S. Meloni Trkulja in Gli Uffizi. Catalogo generale, Firenze 1979, p. 1023, n. A959; D. Apolloni, Pietro Monaco e la Raccolta di cento dodici stampe di pitture della storia sacra, Monfalcone 2000; P. Delorenzi, La Galleria di Minerva. Il ritratto di rappresentanza nella Venezia del Settecento, Verona 2009; D. Ton, Angelo Trevi-sani, fra maniera «vaga» e «naturale», in «Arte Veneta», 67, 2010, pp. 55-71.

Pur essendo uno degli artisti meno studiati tra i ma-estri importanti della prima metà del Settecento

veneto, di Angelo Trevisani disponiamo di un nume-ro significativo di testimonianze relative al suo aspetto. Conosciamo, infatti, la sua fisionomia innanzitutto grazie all’«Autoritratto» conservato presso la Galleria degli Uffizi e ripreso successivamente in una incisione di Antonio Pazzi. L’opera, che è appartenuta al me-dico di Cosimo III, Tommaso Puccini, è datata 1725 (Meloni Trkulja 1979, p. 1023, n. A959). Anche Bar-tolomeo Nazari, uno dei più importanti ritrattisti vene-ziani del Settecento, che secondo Francesco Maria Tas-si sarebbe stato anche suo allievo a Venezia, si cimentò nel rappresentare il pittore in un esemplare purtroppo oggi non più rintracciato, ma documentato da una stampa di Pietro Monaco (cfr. Apolloni 2000, p. 24).Sappiamo che Trevisani a sua volta si dedicò con suc-cesso al genere del ritratto, come ad esempio nel caso del «Ritratto del procuratore Giovanni Emo», opera già conservata presso la collezione Beistegui a Venezia (cfr. Delorenzi 2009, pp. 322-323), e in altri dipinti at-testati da stampe. Tra le fonti antiche, questa sua abilità particolare era stata adeguatamente messa in evidenza da Anton Maria Zanetti, nel suo profilo sull’artista: «Ebbe meritatamente nome di buon Pittore il Trevi-sani fra’ nostri, come quello che facea molto studio dal naturale, ritraendolo con bella e forte maniera; sicchè rilievo e rotondità mostrano le figure sue, per la buona intelligenza del chiaroscuro. Grave fu il di lui stile e ricercato, molto pregio per i ritratti, cui fece con buona rassomiglianza e non volgare vivezza» (Zanetti 1771, pp. 452-453).Per queste ragioni è di grande interesse il recupero dell’opera in esame, sinora inedita, che si rivela assai più sviluppata compositivamente rispetto all’esem-plare fiorentino. Trevisani si presenta, infatti, nel suo studio, con uno sguardo direttamente rivolto allo spet-tatore e con una mano posata sopra un busto antico, mentre regge un gessetto, e con l’altra tiene un com-passo. Nella parte inferiore si notano egualmente gli strumenti del mestiere e un foglio di carta sul quale si può leggere la scritta «Pictor se pinxit» che qualifica

immediatamente l’opera quale autoritratto. Trevisani ha voluto sottolineare l’aspetto intellettuale e speculati-vo del suo mestiere, presentadosi elegantemente vestito, con il pizzo delle maniche affiorante dal bell’abito ver-de con cui costruisce il tono generale dell’immagine, insieme al giallo oro e al rosso del tessuto che ricopre il tavolino nel primo piano. L’impostazione diagonale data alla scena e il fondale scuro aiutano a conferire forza e volumetria all’opera, come se il pittore uscisse dalla tela e si proiettasse nel mondo dello spettatore at-traverso una finestra delimitata dalla cornice. Anche il pennello, leggermente aggettante rispetto al bordo del tavolo, sul quale proietta la traccia di un’ombra, se-gnala l’attenzione con cui il dipinto è costruito, vivifi-cato da una luce orientata con precisione e proveniente dall’esterno, di sicuro effetto scenografico. Un’opera di grande impegno e che viene a essere senz’altro uno dei più bei autoritratti che un pittore del Settecento ve-neto ci abbia lasciato: l’artista indulge sul suo ruolo istituzionale, pieno di dignità, ma senza una vanità ce-rimoniosa troppo ostentata. L’opera è egualmente ca-ratterizzata dalla maniera tipica del pittore, fatta di so-lide volumetrie, ma anche di sottigliezze luministiche, con delicati colpi di luce a rialzare gli incarnati e la punta del naso, a far brillare gli occhi intelligenti e tesi. Di grande interesse la presenza sul retro della tela di un foglio di carta incollato nel quale compare la scritta «Angiolo Trevisano fecit 1739 [?] - Angiolo Trevisa-no al suo caro amico Mattio Capitanio in Testamento 1749», lasciando dunque intendere che l’opera fosse appartenuta al pittore durante gli anni finali della sua esistenza, e dunque realizzata per lo stretto ambito fa-miliare, per poi essere donata all’amico attraverso un lascito testamentario. Verosimilmente l’opera giun-se poi in possesso del beneficiario dopo la morte del pittore avvenuta qualche momento dopo il 1753. La scritta pone dunque un ulteriore punto fermo cronolo-gico nel catalogo del pittore, quattordici anni dopo la realizzazione dell’«Autoritratto» conservato agli Uf-fizi: Trevisani era già da tempo uno degli artisti più ricercati a Venezia, tanto da avere preso parte a molte delle imprese collettive più significative dei primi de-

cenni del secolo, come ad esempio la decorazione del presbiterio di San Stae, o il ciclo di teleri per la chiesa dei Santi Cosma e Damiano ed essere stato richiesto da committenti prestigiosi come il maresciallo Johann

Matthias von der Schulenburg (per un profilo aggior-nato sul pittore, sia concesso rimandare a Ton 2010).

[deniS ton]

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Gaetano piattoli (Firenze, 1703 - Roma, 1774)

Autoritratto, 1774 circaOlio su tela, 72 x 57 cm.

Bibliografia: inedito.

La tela, di eccezionale qualità, raffigura l’artista fiorentino Gaetano Piattoli, come si può evincere

dal confronto con i suoi numerosi autoritratti conser-vati alla Galleria degli Uffizi di Firenze, che lo ritrag-gono sia da solo che in coppia con la moglie Anna Bacherini (Firenze, 1720-1788), anche lei pittrice. Come ricordato dalle fonti settecentesche, tra cui gli scritti di Francesco Maria Niccolò Gabburri e di Luigi Lanzi, Gaetano Piattoli si formò al fianco del maestro francese François Rivière, attivo a Livorno e meglio noto con lo pseudonimo di «Monsù Rivie-ra», per poi fare il suo ingresso nel 1734 nello studio di Francesco Conti. Qui l’artista, ormai trentenne, si cimentò sia nella pittura di storia che nel genere del ri-tratto e conobbe la futura consorte, cui fu legato anche da un intenso sodalizio artistico. La coppia, sposatasi nel 1741, diede alla luce numerosi figli, tra cui l’in-tellettuale Scipione Piattoli, che, trasferitosi alla corte di re Stanislao di Polonia, divenne figura di spicco dell’Illuminismo polacco, e Giuseppe, che seguendo le orme dei genitori intraprese la carriera di pittore.Gaetano ricopri la carica di ritrattista ufficiale della famiglia granducale dei Lorena, nel 1760 entrò a far parte dell’Accademia Clementina di Bologna e l’anno successivo fu nominato «maestro del disegno nella Real Galleria di Firenze»; grazie ai numerosi ritratti realiz-zati per i notabili stranieri in soggiorno a Firenze la sua fama oltrepassò i confini italiani. Anche Anna Bache-rini Piattoli - che fu allieva, oltre che del Conti, della pittrice Violante Beatrice Siries (Firenze, 1709-1783) - si specializzò nel genere del ritratto, su tela, ma soprat-tutto a pastello su carta, e fu accademica clementina. Oltre al doppio autoritratto a pastello che la ritrae con il marito, nelle collezioni degli Uffizi si conservano due autoritratti su tela della pittrice, uno più giovanile da-tato 1744 (inv. 5345) e un altro realizzato a un’età più avanzata (inv. 2032); a questi va aggiunto un bell’au-toritratto in abito blu recentemente emerso dal mercato antiquario, appartenuto allo storico dell’arte Italo Faldi

(è stato pubblicato in Artisti a Roma. Ritratti di pittori, scultori e architetti dal Rinascimento al Neoclassicismo, a cura di A. Donati e F. Petrucci, catalogo della mostra [Roma, Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, 19 novembre 2008 - 22 febbraio 2009], Roma 2008, sche-da di S. Marra, n. 35 a p. 110).Confrontando la tela Giamblanco con il più noto degli autoritratti del Piattoli (Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 2029), diviene subito evidente la differen-za di impostazione data dal pittore a queste due opere: nel quadro degli Uffizi l’artista si raffigura con abiti più quotidiani e dimessi, giacca grigia e cappello in feltro nero, probabilmente nell’atto di uscire di casa e dedicarsi all’attività del disegno dal vero, come sug-gerito anche dalla cartelletta per disegni sorretta tra le braccia. La tela qui presentata invece, sebbene condi-vida con la prima la raffinata gamma cromatica sui toni del bruno e del grigio, appena interrotti da tocchi di bianco, ci mostra il pittore con pennelli e tavoloz-za, nella sua veste più ufficiale di ritrattista dell’alta nobiltà: la parrucca con i boccoli, la preziosa giacca foderata di pelliccia e arricchita da bottoni e nappi-ne dorate e l’immacolata camicia di seta certificano l’elevato status sociale raggiunto dal personaggio. Le due opere sembrano però rappresentare il Piattoli nel-lo stesso momento della vita e sono strettamente legate sia dalla resa stilistica che dalla perfetta coincidenza delle misure. Considerando che anche l’autoritratto di Anna Bacherini degli Uffizi (inv. 5345) e quello già in collezione Faldi presentano esattamente le stesse dimensioni, possiamo ipotizzare che queste opere co-stituissero in origine due coppie di pendant, concepite assieme per mostrare i coniugi sia nella loro veste di disegnatori che in quella di pittori ritrattisti; la data 1744 costituirebbe quindi uno stringente riferimen-to anche per le tre opere non datate, compresa la tela Giamblanco.

[Serena d’italia]

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pierre bonnaud (Lione, 1865-1930)

Autoritratto, 1900 circaOlio su tela, 46 x 38 cm.

Bibliografia di riferimento: Benezit Dictionary of Artists, Oxford Art Online, Oxford University Press, Web., 17 ottobre 2016.

Nel 1883 Pierre Bonnaud iniziò a frequentare l’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts

di Lione, dove partecipò alle lezioni di Jean-Bapti-ste Poncet (Saint-Laurent-de-Mure, 1827 - Lione, 1901). Prosegui quindi gli studi a Parigi, esercitan-dosi sotto la guida di Jean-Paul Laurens, Gustave Moreau, Bonnat e Gérôme. L’artista fu influenzato soprattutto dal grande Moreau, da cui mutuò una straordinaria attenzione all’uso del colore e la predi-lezione per alcuni soggetti femminili conturbanti, so-prattutto quello della «Salomè» (si veda ad esempio la bella versione del Musée Hébert di La Tronche). A partire dal 1888 Bonnaud partecipò al Salon di Lione, dove gli fu assegnata una medaglia d’onore nel 1899, e a partire dal 1891 le sue opere furono esposte al Salon di Parigi. Attivo anche come illustratore per riviste e pubblici-

tà, dall’inizio del Novecento l’artista collaborò con la Limoges fornendo i disegni per la decorazione di vasi e altri oggetti di arredo, come le placche in ceramica dipinte con delicati ritratti femminili di sapore preraf-faellita e simbolista. In questo autoritratto urlante Bonnaud spinge all’e-stremo la conoscenza di se stesso e della propria mimi-ca facciale, recuperando una tradizione che nasce con i grandi pittori del Seicento (si veda la celebre «Scena magica con autoritratto» di Pieter van Laer del 1638-1639, in collezione privata americana) e prosegui-rà poi con le avanguardie artistiche del Novecento, come nel caso del celebre autoritratto di Egon Schiele del Leopold Museum di Vienna (1910).

[Galleria Giamblanco]

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benito belli (attivo a Barcellona nella seconda metà del xix secolo)

Autoritratto in veste di diavoloOlio su tela, 62 x 48 cm.

Doppio autoritrattoOlio su tavolozza, 43,5 x 64 cm.

Autoritratto in costumeOlio su tela, 29 x 17 cm.

Inediti.

Nulla è noto della biografia di questo intrigante pittore spagnolo che risente delle influenze di

Eugenio Lucas Velázquez, autore di numerosi ritratti e scene di genere, spagnoleggianti o talvolta di gusto

orientalista, ma che soprattutto ebbe una vera e propria ossessione per l’autoritratto.

[Galleria Giamblanco]

Autoritratto in costumeOlio su tela, 29 x 17 cm.

Autoritratto in maschera con due figureOlio su tavolozza, 43,5 x 64 cm.

Autoritratto in mascheraOlio su tela, 58 x 45 cm.

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ottavio mazzoniS (Torino, 1921-2010)

Autoritratto, 1953Olio su tela, 91 x 67 cm, firmato in basso a destra.Proprietà F.O.M. Fondazione Ottavio Mazzonis-Torino.

Bibliografia: Ecce homo: viaggio intorno alla Sindone, catalogo della mostra (Sant’Ambrogio di Torino, Sacra di San Michele, 26 aprile - 30 giugno 2015) a cura di C. Leto e S. Pirracchio, Borgone Susa (To) 2015; La «Maddalena» - tra peccato e penitenza, catalogo della mostra (Loreto [an], Museo AnticoTesoro della Santa Casa, 3 settembre 2016-8 gennaio 2017), a cura di V. Sgarbi, Milano 2016.Mostre: 1953, Rassegna annuale della Promotrice delle Belle Arti di Torino al Valentino (la 110º Esposizione Nazionale d’Arti Figurative 8, 3 maggio - 29 giugno 1953); 1953, Circolo degli Artisti-Torino (Esposizione annuale nel mese di dicembre 1953); 2014-2015, Antologica «Ottavio Mazzonis - La Ricerca, regina della rappresentazione», 25 ottobre 2014-11 gennaio 2015, l’Antico Palazzo di Città-Mondovi Piazza.

La formazione artistica di Ottavio Mazzonis muo-ve da fonti complesse, culturalmente ricchissime:

a parte gli studi umanistici e in legge, e la lezione pit-torica di Nicola Arduino, egli vanta una profonda cultura musicale, un’ampia conoscenza della civiltà inglese, soprattutto dal Settecento all’età vittoriana, una esperienza vastissima delle opere dei maestri - nel campo del ritratto da Dürer a Sargent e da Sartorio a Tito - e di tutta l’arte d’Europa, dagli Etruschi a Tintoretto, che egli considera insuperato. Questa ric-chezza di competenze informa profondamente di sé il suo modo di accostarsi alla pittura e segnatamente al ritratto. Perché un ritratto abbia una valenza artistica e non artigianale, infatti, esso deve rispondere al pensiero del soggetto, non solo ai suoi tratti fisionomici. E solo quella vasta cultura, unita a una viva sensibilità, ha consentito a Mazzonis di ritrarre personalità diversis-sime fra loro, dal La Salle a Pininfarina, da Caterina Boratto a Lavazza o a Chiusano, sempre restituendo

di loro una significante immagine esteriore e interiore.Di sé, molto racconta negli autoritratti, quanto forse non confesserebbe a parole, ritraendosi con panni qua-si teatrali come quando si pone nella posa del Dürer (noto artista, ma noto anche esploratore dei misteri al-chemici...) o quando riflette se stesso in qualche santo, da san Sebastiano trafitto (trafitto da quanti tradiscono l’arte e non la capiscono) a san Paolo ai piedi di una croce da cui Cristo se ne è andato, a Cristo che con la sferza caccia i mercanti dal tempio (e soprattutto caccia dal tempio dell’arte coloro che lo profanano...).Anche quando non veste panni curiali tuttavia si po-ne, nell’arte come nella vita, solenne, composto, pen-soso. Del resto era cosi in realtà, se riteneva dovero-so dipingere indossando, sotto il camice, sempre un elegante abito da società, una camicia immacolata e l’immancabile papillon...

[donatella taverna]

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ottavio mazzoniS (Torino, 1921-2010)I 40anni di Silvia/Autoritratto, 2002Olio su tela, 68 x 155 cm.Collezione Silvia Pirracchio, presidente Fondazione Ottavio Mazzonis-Torino.Inedito.

Non mi stanco mai di dire e ripetermelo che amo infinitamente la Storia dell’Arte e in particolare

il «ritratto».Il Maestro Mazzonis, quando mi ritraeva nei suoi qua-dri, mi ricordava il vecchio adagio: «Essere migliori degli altri è un pregio, ma volerlo essere a tutti i costi è un difetto».Lui s’ispirava, dal punto di vista artistico, ai grandi Ma-estri del passato: Tiziano, Veronese, i Tiepolo, Tito, Sartorio e tanti altri da Rubens a Rembrandt, fin da quando era un bambino. Il Maestro si definiva un classi-co, poiché in questo modo intendeva il disegno, la forma e la scienza del colore, che affinati dalla sua tecnica e dal-la sua sensibilità gli permettevano di cogliere il mondo contemporaneo, mantenendo la dovuta continuità del bello e del ben fatto.Oggi, è un evento di rilievo che la prestigiosa Galleria Giamblanco di Torino mi chieda di scrivere su quest’o-pera del Maestro, assolutamente inedita per il pubblico. L’opera «I 40 anni di Silvia/Autoritratto» del 2002 (di-pinto incompiuto in pochi particolari) era stata ispirata dall’idea di cristallizzare un momento magico, anche se complesso della mia vita, sulla tela.Il Maestro Mazzonis dipinse dapprima solamente la mia immagine sulla tela, ma in seguito, dopo aver fissato il mio ritratto, secondo la sua volontà misteriosa, decise di cambiare la composizione e il rapporto di colore e vi aggiunse la sua presenza. In quest’opera, egli è rap-presentato con la sua magica tavolozza Diaz in mano, colto nell’atto di osservare e meditare una possibile realtà metafisica. Il Maestro, anche se il tempo scorreva, conservava gelo-samente questa opera con grande discrezione senza far-la vedere a nessuno, fin tanto che non l’avesse ritenuta compiuta, quale simbiosi di composizione ritrattistica e momento di ricerca e di stile, sintetizzata nella dignità e nell’eleganza del nudo femminile.Analizzando questo ritratto, il Maestro mi diceva: «Sil-via, può essere un’opera a due presenze che dà sfogo a tutta una gamma di sfumature interiori e spirituali,

dando consistenza alla composizione, che magicamente matura e si traduce sulla tela». Mazzonis si confrontava con il suo credo tormentato che si traduceva nella ricerca di una gamma infinita di colori freddi estrapolando il suo «Nuovo».Mazzonis mi ricordava che quando dipingeva qualco-sa di «Nuovo», sapeva di dover creare qualcosa che al tempo stesso dovesse rendere gioiosa la persona ritratta. Nel frattempo percepiva fisicamente una sospensione emotiva capace di collocarlo tra cielo e terra, stato d’ani-mo misterioso e difficile da spiegare con delle semplici parole, una sublime sensazione d’essere. Il Maestro sosteneva che avrebbe rinunciato a essere pittore e scultore per essere musicista e comporre Musi-ca, poiché era profondamente colpito dalla bellezza di quest’arte. «Possedere il genio della pittura ed entrare in sintonia con l’animo umano è un gran dono della vita», cosi mi diceva il Maestro. La sua inquietudine era costante, pro-vocata dal desiderio di lasciare ai posteri opere di valore. Davano un senso alla sua vita il confronto con i grandi del passato e il ricordo delle persone a lui care, dai suoi genitori ai suoi Maestri Calderini e Arduino e il ricordo di coloro che amò, fino alla fine della sua vita che si con-cluse con il progetto per le Pale della Cattedrale di Noto, commissionate dal professore Vittorio Sgarbi.Se un giorno qualcuno mi chiedesse il motivo per cui persisto nel sogno di conservare e far conoscere le sue opere, nonostante le scuole di pensiero attuali abbiano talora una visione diversa dalla mia, io risponderei che per me ciò è una missione.Purtroppo oggi in Italia c’è un solo messaggero del ma-gico spirito artistico del Maestro e molti, a causa della sua notorietà, ne conoscono sicuramente il nome e il cognome.Infine, ringrazio particolarmente, per la condivisione degli intenti artistici, Deborah e Salvatore Giamblanco e rivolgo loro tutta la mia ammirazione.

[Silvia pirracchio]

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michelanGelo piStoletto (Biella, 1933)

Autoritratto con occhiali gialli o Autoritratto col colbacco, 1971Serigrafia su acciaio inox lucidato a specchio, es. 65/200, 100 x 70 cm.Firma e tiratura al verso: Pistoletto 65/200.

Michelangelo Pistoletto è tra i principali protago-nisti dell’arte povera, movimento il cui avvio è

tradizionalmente identificato con la fondamentale mo-stra curata da Germano Celant nel 1967 per la Galleria La Bertesca di Genova e la successiva esposizione bolo-gnese del 1968 e che ha coinvolto altri pittori e scultori del calibro di Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Pino Pascali, Alighiero Boetti, Mario Merz, Gilberto Zorio e molti altri. Nato a Biella nel 1933, Pistoletto ha iniziato giovanissi-mo a lavorare nello studio del padre, pittore e restauratore, per frequentare poi la scuola di grafica pubblicitaria sotto la guida del grande Armando Testa. L’autoritratto è sta-to uno dei mezzi principali della sua ricerca artistica già a partire dai primi anni cinquanta, ed è proprio un auto-ritratto la sua prima opera esposta al pubblico nel 1955, presso il Circolo degli Artisti di Torino, frequentato dal padre. Dall’inizio degli anni sessanta egli inizia a lavo-rare sull’abbinamento di superfici riflettenti e immagini fotografiche, fino ad approdare, nel 1962, alla tecnica che lo consegnerà al successo internazionale, e che consiste nel ricalco in punta di pennello su carta velina di una foto - a grandezza naturale - poi applicato su un supporto di acciaio inox lucidato a specchio. A partire dal 1971 la velina viene sostituita da una riproduzione serigrafica dell’immagine, come nell’opera qui presentata. Con l’invenzione dell’autoritratto specchiante Pistoletto oltrepassa i limiti della rappresentazione bidimensiona-le del dipinto, mettendo in contatto diretto l’osservato-re e il soggetto e creando cosi un rapporto dinamico in continua trasformazione, in cui ogni spettatore si può autoritrarre accanto all’artista (il quale ha dichiarato a questo proposito: «Dopo che nel 1961 ho trasformato la pittura, cioè lo specchio metaforico, in una vera e pro-pria superficie specchiante, le immagini dell’arte sono

diventate “oggettive” e sono entrate nella vita»). Centra-le è anche il tema dello scorrere del tempo, che non viene soltanto rappresentato ma in qualche modo restituito in presa diretta. Dopo una prima mostra alla Galleria Galatea di To-rino (aprile 1963), in cui espone i suoi primi lavori su specchio, Michelangelo Pistoletto fa un viaggio a Parigi e viene in contatto con Ileana Sonnabend, la quale ac-quista in blocco le sue opere proiettando l’artista sulla scena internazionale. Inizia cosi la grande stagione delle mostre personali dell’artista, che si svolgono regolarmen-te lungo tutto l’arco degli anni sessanta: a Parigi (1964), a Minneapolis (1966), a Bruxelles (1967), a New York e a Rotterdam (1969). Pistoletto non abbandona però la scena italiana, partecipando alla Biennale di Venezia (1968) e frequentando il vivace ambiente delle gallerie torinesi, come la Stein e la Persano; oggi continua a lavorare presso la sua fondazione Cittadellarte - Fon-dazione Pistoletto di Biella, insegnando e sostenendo i giovani artisti. L’«Autoritratto con occhiali gialli» o «Autoritratto col colbacco», qui presentato nella tiratura 65/200 e in ottimo stato di conservazione, è uno degli specchi più noti di Pistoletto, in cui l’artista biellese si ritrae con autoironia con un abbigliamento piuttosto eccentrico. Secondo la lettura di Paolo Fossati, l’opera richiame-rebbe anche il noto autoritratto di Umberto Boccioni della Pinacoteca di Brera (1908); si tratta di un rapporto significativo, poiché Pistoletto ha dichiarato che i suoi ritratti specchianti costituiscono in qualche modo il termine ultimo della ricerca futurista sull’immagine in movimento e sul coinvolgimento dello spettatore nella scena rappresentata.

[Galleria Giamblanco]

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Gaetano Grillo(Molfetta, 1952)

Autoritratto, 1969Tecnica mista su tela, 75 x 53 cm.

È nato a Molfetta (ba) nel 1952, a diciotto anni si è trasferito a Milano per studiare Scultura con Alik

Cavaliere all’Accademia di Brera.La sua prima mostra personale, a soli vent’anni, è nel 1972 alla Galleria La Bussola di Bari, la mostra porta come titolo «Lectio Historiae»; Grillo ridipinge fram-menti di capolavori del passato affiancati a immagini del presente in una sorta di gioco di contaminazioni d’identità. Seguono le personali alla Galleria Solferino di Milano (1974, 1976, 1978) e la mostra del 1976 porta come titolo «Sono felice quando dipingo» in antitesi al concettualismo dilagante di quegli anni. S’interessa molto al suo lavoro il critico Luigi Carluccio che pro-muove l’opera del giovane Grillo alla Quadriennale di Roma, alla Biennale di Medelline... e lo invita alla Biennale di Venezia del 1982. Negli anni ottanta Gril-lo espone con varie personali a Bonn, Zurigo, Spala-to, Roma e particolarmente a Milano dove fa parte del gruppo Stazione Centrale che si coagula intorno alla Galleria Cannaviello. Negli anni novanta iniziano i primi lavori con l’utilizzo del suo alfabeto (il «grillico») che formula una sorta di scrittura di tutte le scritture, un’identità contaminata. Seguono due personali a Zu-rigo, due ad Amburgo, a Stoccolma, a Barcellona, ma

anche in città alternative del Mediterraneo come Spala-to, Tirana, Scutari, Podgorizza, Scutari.Gli anni duemila sono segnati fortemente dalla sua scrittura plastica con un’inclinazione cromatica squil-lante fra pittura e scultura. A questi anni appartengo-no le due personali alla storica Galleria Il Milione a Milano, al Carrousel du Louvre a Parigi, alla Rolf Welti Modern Art di Zurigo, all’Accademia di Egit-to a Roma, nelle sale storiche di Palazzo Bricherasio a Torino, al Museo Nazionale d’Arte di Podgorizza, nella Sala Murat di Bari, al Boat Show di Antibes, alla Fortezza di Corfù, alla Galleria Civica di Mol-fetta, alla Galleria Pananti di Firenze, al Museo Ci-vico di Sanremo, alla Galleria Marianne Wild Arte Contemporanea di Chieti e al Castello di Desenzano, alla Galleria Battaglia di Milano. È stato invitato alla penultima Biennale di Venezia.Gaetano Grillo ha fondato e dirige la rivista trimestrale Academy of Fine Arts e la rivista onlinewww.academy-of.eu ed è direttore della Scuola di Pit-tura dell’Accademia di Brera a Milano, dove vive e lavora. Sito web: www.gaetanogrillo.com.

[Galleria Giamblanco]

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omar Galliani (Montecchio Emilia, 1954)

Autoritratto, 1985Carboncino su carta, 71 x 51 cm.

Omar Galliani si diploma all’Accademia di Bella Arti di Bologna e già dagli anni settanta ottiene

importanti riconoscimenti di pubblico e critica, espo-nendo in importanti rassegne di respiro internazionale come la I Triennale del disegno di Norimberga e la XVI Triennale di Milano. Negli anni ottanta partecipa a ben tre edizioni della Biennale di Venezia, nel 1982 in «Aperto ’82» a cura di Tommaso Trini, nel 1984 con una sala personale nella sezione «Arte allo specchio» curata da Maurizio Calvesi e nel 1986 in «Arte e alchi-mia» a cura di Arturo Schwarz. Nel 1982 viene invitato nel Padiglione Italia alle Biennali di San Paolo del Bra-sile e di Parigi, curate da Bruno Mantura, e alla Bienna-le di Tokio per la mostra «Cento anni d’Arte Italiana 1880/1980», curata da Giorgio de Marchis. Cosi Flavio Caroli, nel catalogo della mostra Omar Galliani - Ales-sandro Busci. Un passaggio di generazione (centro di gravità permanente) del 2012, descrive la prima fase dell’attivi-tà dell’artista: «Galliani ventenne era perso principal-mente in due ambizioni. In una ricerca di magia, di seduzione, di fascino che è l’ossessione primaria di ogni grande artista, in qualsiasi tempo, sia egli tragico (Ca-ravaggio), classico (Ingres) o fondamentalmente realista (Degas). Tutto cambia e tutto corre, ma non c’è grande artista quando non ci sia ricerca di Bellezza; di qualche forma di Bellezza. La seconda ossessione di Galliani era infatti la qualità esecutiva, proprio tecnica nel senso antichissimo del termine, della pittura e dei suoi misteri: cosa non facile in un tempo in cui i balbettii e la catti-va pittura parvero la chiave della modernità. Galliani otteneva risultati straordinari grazie ai miracoli realiz-zativi di una matita forse veramente fra le più dotate del secondo dopoguerra». A partire dagli anni novanta Galliani inizia a esporre negli Stati Uniti e le sue opere vengono acquisite da mu-sei e istituzioni internazionali. Nel 2003 vince - ex aequo

con George Baselitz - la I Biennale di Pechino. Attual-mente insegna all’Accademia di Belle Arti di Brera. Il maestro, attivo come pittore, è forse però più noto per la sua straordinaria abilità di disegnatore; la raffinatezza della sua tecnica esecutiva porta nel 2008 la Galleria de-gli Uffizi ad acquisire il suo grande trittico «Notturno», realizzato a matita su tavola. Sui disegni di Omar Gal-liani riproponiamo uno stralcio del testo scritto da Dani-lo Eccher in occasione della recente mostra L’opera al nero tenutasi alla Gam di Torino: «Nel disegno, che Omar Galliani ha eletto a linguaggio primario, convivono ele-menti contrastanti, dati contrapposti che si fronteggiano e si combattono dando vita a un’opera complessa, non di rado fraintesa, in alcuni casi anche rifiutata. Non vi è dubbio che il dato che emerge con più forza nei disegni di Galliani sia un sorprendente e maniacale virtuosismo tecnico, un’abilità che non si può imparare ma si può solo riconoscere e accogliere come dono. Normalmente un pregio, per secoli un destino, oggi solo il rischio di un buon artigianato. Ma in Galliani questa fortuna è stata educata, protetta, sviluppata, viziata fino a diventare un istinto, un’immediatezza naturale, una sorta di norma-lità che ha permesso all’artista la sicurezza e la compo-stezza di un linguaggio sempre in bilico sul baratro di un facile formalismo. Tale virtuosistica abilità si deve misurare con la grammatica della classicità, con quello zaino pesante di memorie, esperienze, esempi da cui non si può fuggire; in questo contesto il disegno rappresenta la stessa lingua, lo stesso codice, lo stesso alfabeto che se-gna la storia e ispira il racconto. Con il disegno Galliani dialoga con le emozioni della storia dell’arte, ritrova im-magini familiari, incontra maestri ampiamente studiati, sprofonda in simboli e miti a lungo inseguiti, rilegge racconti che conosce a memoria».

[Galleria Giamblanco]

94

Salvatore Giamblanco (Modica, 1964)

Autoritratto, 2002Olio su tela, 63 x 53,5 cm.Quest’opera è stata realizzata come studio per un dipinto più imponente, che per soggetto avrebbe avuto una Giuditta con la testa di Oloferne.

Salvatore Giamblanco nasce a Modica il 23 febbraio del 1964 e trascorre l’infanzia a Ispica, in provincia

di Ragusa.Gli affreschi di Olivio Sozzi (Catania, 14 ottobre 1690 - Ispica, 31 ottobre 1765) nella basilica di Santa Maria Maggiore, stesi sulle volte e sulla cupola in cui Sozzi ave-va dispiegato la lezione del classicismo romano, assorbi-to alla scuola di Sebastiano Conca (Gaeta, 1676/1680 - Napoli, 1764) e Corrado Giaquinto (Molfetta, 1703 - Napoli, 1765), influenzano le future scelte di Salva-tore. A tredici anni conosce la pittura di Raffaello e di Michelangelo e realizza le sue prime opere ispirandosi a questi grandi maestri.Salvo Monica (Ispica, 1917 - Siracusa, 2008), raffina-to e potente disegnatore, scultore e poeta di Ispica, è il suo primo maestro; sotto la sua guida Salvatore inizia a disegnare dal vero, prendendo a modello dapprima i genitori, poi approfondisce lo studio di figura attraverso le opere scultoree del maestro e quelle di altri grandi ar-tisti contemporanei. Nei primi anni ottanta si iscrive all’Istituto Statale d’Ar-te di Siracusa e partecipa a mostre organizzate da Deme-trio Paparoni e Michelangelo Castello, presso il Centro d’Arte Contemporanea di Siracusa.Durante una visita scolastica a Palazzo Bellomo (Si-racusa) viene affascinato dal mirabile «Seppellimento di santa Lucia» di Caravaggio (Michelangelo Merisi, Milano, 1571 - Porto Ercole, 1610) e, per questo pittore, è amore a prima vista. A metà degli anni ottanta è, invece, la pittura di Fran-cis Bacon (Dublino, 1909 - Madrid, 1992) a sedurlo; ne trae le stesse emozioni già provate davanti alle opere possenti di Caravaggio. Terminati gli studi all’Istituto Statale d’Arte di Siracusa, Salvatore tenta di iscriversi

all’Accademia di Belle Arti di Brera, ma non riesce a entrare nel ristretto numero degli allievi che vi vengono accettati annualmente. Si iscrive quindi a Venezia, dove incontra un artista di levatura internazionale, Emilio Vedova (Venezia, 1919-2006), la cui dote di affabulatore accentua la ma-gia delle lezioni di pittura; in questo periodo realizza diverse opere seguendo il linguaggio del maestro. Nel 1987 si laurea presentando una tesi sull’artista, gre-co di nascita ma romano d’adozione, Jannis Kounellis (Pireo, 1936), il cui linguaggio creativo, in sintonia con l’arte povera, lo interessa particolarmente.Nel 1989, a Torino, frequenta delle botteghe di artigiani e restauratori di dipinti antichi, e ritorna ad avvicinarsi a quel modo di studi e di scoperte che lo aveva accom-pagnato da sempre, quindi decide di mettere a frutto quanto ha imparato durante il corso biennale di restauro di dipinti su tela e su tavola, scelto tra gli insegnamen-ti complementari del corso di laurea all’Accademia di Venezia, e allestisce un piccolo laboratorio di restauro. Nel 1991 fa domanda per insegnare pittura presso il liceo artistico di Asti dove, nel pomeriggio, tiene anche un corso di restauro di dipinti; alla fine dello stesso anno Salvatore apprende, casualmente, che a Firenze si tiene un concorso per docenti di prima e seconda fascia per le Accademie di Belle Arti. Decide di parteciparvi e supera l’esame.Nel 1992 conosce Deborah Lentini, sua futura moglie, e l’anno successivo con la sua collaborazione apre la Gal-leria Giamblanco. Dal 2011 insegna Pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera a fianco all’artista Gaetano Grillo.

[Galleria Giamblanco]

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cataloGhi della Galleria Giamblanco

Pittura italiana dal Seicento al Settecento: venti anni di attività, Torino 2013 [0]Pittura italiana dal Seicento al Novecento, Torino 2013 [I]Pittura italiana dal Seicento al Settecento, Torino 2014 [II]Pittura italiana dal Seicento al Settecento, Torino 2015 [III]Quattro secoli di pittura, Torino 2016 [IV]

elenco deGli artiSti

Amigoni, Jacopo - III, pp. 48-49Amorosi, Antonio Mercurio - II, pp. 44-45Antoniani, Francesco - 0, pp. 96-97Baburen, Dirck van - II, pp. 16-17Bacigalupo, Giuseppe - II, pp. 96-99Balestra, Antonio - 0, pp. 62-63; III, pp. 42-45; IV, pp. 36-37Beaumont, Claudio Francesco - 0, pp. 82-87; I, pp. 46-49; II, pp. 60-61Belli, Benito - IV, pp. 80-83Bellucci, Antonio - I, pp. 36-37Belvedere, Andrea - IV, pp. 30-31Bloemen, Jan Frans van - I, pp. 38-39; II, pp. 46-49Bloemen, Pieter detto «lo Stendardo» - 0, pp. 48-49Boni, Giacomo Antonio - 0, pp. 88-89Bonnaud, Pierre - IV, pp. 78-79Brueghel, Abraham - IV, pp. 22-23Burrini, Antonio - 0, pp. 54-55Buzana Clemente, Giovanna Battista detta «la Clementina» - 0, pp. 80-81; III, pp. 58-63Cairo, Francesco - I, pp. 16-17Calza, Antonio - II, pp. 40-43Caravaggesco - I, pp. 10-11Caravaggesco emiliano - I, pp. 12-13Carlieri, Alberto - 0, pp. 50-51Carlone, Giovanni Andrea - 0, pp. 36-37Carlone, Giovanni Battista - 0, pp. 24-25; III, pp. 14-15Castelli, Giovanni Paolo detto «lo Spadino» - 0, pp. 56-57; II, pp. 44-45Castello, Valerio - III, pp. 22-23; IV, pp. 20-21Cavarozzi, Bartolomeo - II, pp. 12-15Cerquozzi, Michelangelo - II, pp. 22-25Cignaroli, Angelo - 0, pp. 120-123; III, pp. 86-87, 88-91Cignaroli, Giambettino - III, pp. 64-65Cignaroli, Vittorio Amedeo - 0, pp. 112-119, 121-123; I, pp. 54-57; II, pp. 72-79; III, pp. 81, 82-83, 84-85, 86-87, 88-91; IV, pp. 56-59, 60-63, 64-67Cipper, Giacomo Francesco, detto «il Todeschini» - IV, pp. 44-47Coninck, David de - II, pp. 36-37Costanzi, Placido - II, pp. 46-49Cousin, Louis detto «Luigi Gentile» - I, pp. 24-25Crosato, Giambattista - I, pp. 40-41; II, pp. 54-55Cucchi, Giovanni Antonio - I, pp. 50-51Dandini, Pietro - 0, pp. 26-27Dauphin, Charles - 0, pp. 18-21; II, pp. 26-29De Ferrari, Gregorio - II, pp. 38-39Diziani, Gaspare - III, pp. 52-55Duprà, Giuseppe - 0, pp. 100-101Ferri, Ciro - I, pp. 22-23Fischetti, Fedele - I, pp. 52-53Foschi, Francesco - 0, pp. 98-99; II, pp. 80-83; IV, pp. 48-49Furini, Francesco - 0, pp. 12-13Galliani, Omar - IV, pp. 92-93Gandolfi, Gaetano - 0, pp. 106-107Garola, Pier Francesco - III, pp. 36-37Gennari, Benedetto il Giovane - II, pp. 32-33Gennari, Cesare - 0, pp. 28-31Giamblanco, Salvatore - IV, pp. 94-95Giaquinto, Corrado - 0, pp. 90-91Giordano, Luca - 0, pp. 42-43Graneri, Giovanni Michele - II, pp. 68-75; III, pp. 66-69, 70-73Grillo, Gaetano - IV, pp. 90-91Grosso, Giacomo - I, pp. 66-69Helmbreker, Dirk (o Theodor) - III, pp. 32-33

Lagorio, Antonio - I, pp. 26-27Langetti, Giovanni Battista - III, pp. 34-35; IV, pp. 26-29Lauri, Filippo - 0, pp. 32-33; I, pp. 24-25Lazzarini, Gregorio - 0, pp. 58-59Lint, Hendrik van detto «Monsù Studio» - I, pp. 44-45Litterini, Bartolomeo - I, pp. 30-31Lorenzi, Francesco - II, pp. 86-87Loth, Johann Carl - III, pp. 26-27, 28-29Lozet de Simon, Niccolò - 0, pp. 14-15«Maestro dei Fiori Guardeschi» - 0, pp. 94-95Magnasco, Alessandro detto «il Lissandrino» - IV, pp. 38-41Marini, Antonio Maria - III, pp. 40-41Marmi, Giovanni Battista - 0, pp. 26-27Mazzonis, Ottavio - IV, pp. 84-85, 86-87Merano, Giovanni Battista - III, pp. 30-31Mercanti, Ilario detto «lo Spolverini» - 0, pp. 60-61; III, pp. 38-39Morgari, Pietro - I, pp. 62-63Morgari, Rodolfo - I, pp. 64-65Mulier, Pieter detto «il Tempesta» - II, pp. 34-35Narici, Francesco - II, pp. 84-85Navarra, Pietro - IV, pp. 42-43Ollivero, Pietro Domenico - 0, pp. 74-75; II, pp. 52-53Ottani, Gaetano - 0, pp. 102-105Pace, Michelangelo detto «Michelangelo del Campidoglio» - 0, pp. 16-17Parodi, Domenico - 0, pp. 66-67Pecchio, Domenico - 0, pp. 76-79; III, pp. 50-51Pellegrini, Giovanni Antonio - II, pp. 50-51Peruzzini, Antonio Francesco - IV, pp. 38-41Petrini, Giuseppe Antonio - III, pp. 46-47Pianca, Giuseppe Antonio - I, pp. 42-43; II, pp. 62-67Piattoli, Gaetano - IV, pp. 76-77Piola, Domenico - 0, pp. 38-41Piola, Paolo Gerolamo - I, pp. 34-35Pistoletto, Michelangelo - IV, pp. 88-89Pittoni, Giovanni Battista - 0, pp. 92-93Porpora, Paolo - III, pp. 20-21Preti, Mattia - III, pp. 16-19Procaccini, Ercole il Giovane - 0, pp. 22-23Quadrone, Giovanni Battista - IV, pp. 68-71Raggi, Pietro Paolo - 0, pp. 44-47; I, pp. 32-33Rapous, Michele Antonio - 0, pp. 108-111; II, pp. 92-95; III,pp. 96-97, 98-99Rapous, Vittorio Amedeo - I, pp. 58-61; III, pp. 92-95; IV, pp. 52-55Reschi, Pandolfo - 0, pp. 34-35Ricci, Sebastiano - IV, pp. 32-35Ricciolini, Niccolò - II, pp. 56-59Riminaldi, Orazio - IV, pp. 16-17Salinas, Pablo - I, pp. 70-71Salini, Tommaso detto «Mao» - 0, pp. 10-11Scilla, Agostino - II, pp. 30-31Sclopis, Ignazio - II, pp. 88-91Scuola bolognese - 0, pp. 28-29Scuola bolognese della seconda metà del xviii secolo - 0, pp. 106-107Seiter, Daniel - I, pp. 28-29Signorini, Bartolomeo - 0, pp. 64-65Simonini, Francesco - 0, pp. 72-73; III, pp. 56-57Solimena, Francesco - 0, pp. 70-71Stanchi, Giovanni - IV, pp. 18-19Starace, Girolamo - IV, pp. 50-51Strozzi, Bernardo - II, pp. 10-11; III, pp. 10-13Tempesta, Antonio - IV, pp. 12-15Tibaldi, Antonio - IV, pp. 24-25Trevisani, Angelo - IV, pp. 74-75Trevisani, Francesco - 0, pp. 68-69Turchi, Alessandro detto «l’Orbetto» - I, pp. 14-15Vaccaro, Andrea - I, pp. 18-21Valeriani, Giuseppe - III, pp. 74-77Vecchia, Pietro della - II, pp. 18-21Zais, Giuseppe - III, pp. 78-79Zanchi, Antonio - 0, pp. 52-53; III, pp. 24-25

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