Galep - I tesori artistici tra sacro e profano

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Un opuscolo dedicato ad Aurelio Galleppini e le sue opere religiose scoperte in Sardegna.

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GalepI tesori artistici tra sacro e profano

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Ideazione e realizzazione:GIA Comunicazione di Giorgio AriuVia Sardegna 132 09124 Cagliari (Italy)Tel. 070 728356 - [email protected]/giacomunicazioneSettembre 2011

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Vincenzo de’ Paoli, fondatore dell’omonimo Istituto cagliaritano, e Kit Carson, l’amico fidato di Tex: stessa forma del viso, stessa barbetta bianca. L’intimo pudore di Aurelio Galleppini, in arte Galep, dise-gnatore di uno dei più celebri fumetti al mondo, avrebbe sconsigliato un simile accostamento di sacro e profano. La realtà, però, è che le due rappresentazioni sono di un’unica magica mano: la sua. La curiosa somiglianza è chiarissima, quasi inevitabile. Galep ideò Tex durante gli anni passati in Sardegna.Pittore e disegnatore d’animazione, talentuoso e introverso, pudico e rispettoso, intimamente e pro-fondamente sardo. Galep, nato per caso in Toscana da genitori isolani, trascorse infanzia e adolescenza tra Iglesias e Cagliari. Dopo aver avviato la sua carriera da disegnatore a Milano e in Toscana, tornò in Sardegna e vi soggiorno per più di un lustro, traendo ispirazione dalle colline dell’Iglesiente e dai con-trafforti basaltici del Supramonte di Oliena. In una Cagliari devastata dalla guerra dipingeva per vivere: locandine pubblicitarie, manifesti cinematografici, cartoline e souvenir per i soldati americani. Vedute campestri e scorci cittadini raccontati sulle mattonelle recuperate dalle abitazioni bombardate. Un grande e tangibile segno del suo soggiorno isolano è lo straordinario tesoro della cappella dell’Isti-tuto San Vincenzo de’ Paoli di fronte al carcere di Buoncammino: quattro dipinti, una Via Crucis, gli affreschi e le decorazioni con le scritte, composti per le suore vincenziane in cambio di un alloggio, di qualche piatto di minestra e di vestiti nuovi. Le opere esprimono pudore e carità, gli stessi sentimenti che lo spinsero a non apporvi la firma se non poco prima della morte, dopo aver rivelato il segreto sol-tanto a pochi fidati amici, tra i quali il nostro Giorgio Ariu. Sognava che i dipinti potessero essere un giorno restaurati.Il connubio fra Aurelio Galleppini e la Sardegna è forte al pari di quello tra l’artista e Tex Willer. Nel manifesto ufficiale del suo ritorno a Cagliari (1984) Galep ha rappresentato l’impavido ranger a cavallo in cima al bastione mentre saluta, col cappello in mano, rivolto verso i lettori. Nell’inconfondibile tratto della sua matita la veduta si amplia sino alla Torre dell’Elefante e giù sino al porto. Un omaggio alla città e a tutta la sua amata Isola.

Luigi Crisponi

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Il ciclo pittorico della chiesa vincenziana di Cagliari si situa in un momento fondamenta-le del percorso artistico di Aurelio Galleppini e rappresenta – al momento – l’unico valido testimone per poter leggere la sua attività di pittore concentrata negli anni cagliaritani dal 1943 al 1948. Nato a Casal di Pari (Grosseto) il 28 agosto

1917, rivelò ben presto le sue capacità artistiche disertando spesso la scuola per dedicarsi al dise-gno “dal vero”; un’inclinazione poco condivisa dai

genitori che invece vedeva-no in Aurelio un altro futuro, basato sullo studio che si ar-restò alla scuola media com-merciale e a un paio d’anni d’istituto industriale.Discendente – forse – di Giu-seppe Maria Galleppini, un pittore del XVII secolo nativo di Forlì e che il Malvasia – nel-la sua Felsina Pittrice – dice allievo di Guercino, come lui stesso amava ricordare, ebbe

una formazione artistica da autodidatta, anche se non dovette essergli indifferente l’inclinazione pa-terna, addetto alle miniere come disegnatore.

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Esordì come pittore partecipando ad alcune collet-tive e si dedicò anche alla fotografia, alla cartelloni-stica pubblicitaria e cinematografica, al modellismo, alla costruzione di plastici, alla scenografia e alla sceneggiatura per alcuni piccoli teatri, alla direzione artistica di un periodico, all’insegnamento, anche se al grande pubblico è noto soprattutto quale autore e disegnatore di Tex. “I lettori – sosteneva in una sua ultima intervista – tendono a riconoscermi solo come autore di Tex; la cosa, intendiamoci, non mi dispiace affatto, anzi, ma sarei più contento se mi ricordassero (almeno i lettori più anziani) anche per i miei lavori precedenti”; ammettendo che la figura di Tex lo aveva “come dire «cristallizzato» non nel senso di maturazione grafica, tutt’altro, ma proprio come uniformità di genere”. I suoi primi disegni dal vero, composizioni di figure umane nelle situazioni più varie, risalgono al 1928, quando aveva poco più di dieci anni. Tuttavia furono i cartoni animati già dal 1925, a Iglesias nella casa di famiglia dove li vide per la prima volta, a catalizzare l’interesse di Galleppini; una passione che purtroppo non poté mai coltivare appieno, anche se nel 1942-43 ci andò molto vicino, quando il direttore della IMA Film, Anton G. Domeneghini, lo chiamò a far parte del nascente gruppo che avrebbe dovuto dar vita al primo cartone animato italiano, La rosa di Bagdad.

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Iglesias nell’infanzia di Aurelio Galleppini

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La passione fu tale che giunse perfino a costruirsi un rudimentale proiettore per dare “movimento” ai suoi disegni e più tardi brevettando un particolare occhia-lino con lenti colorate che, alternandosi davanti agli occhi grazie ad una manovella e un elastico, dava ai disegni l’illusione di movimento.Il suo esordio nel mondo del fumetto lo ebbe nel 1936, quando iniziò a operare per il settimanale Mondo Fanciullo e poi nel 1937 con Le straordinarie avventure di pulcino che realizzò per Modellina, un quindicinale dedicato alle bambine allega-to alla rivista femminile Modello, edito a Napoli da “Il Mattino”. I primi veri fumetti Galleppini li realizzò nel 1939, quando iniziò a collaborare con l’editore Cesare Civita in Argentina, rea-lizzando la storia Pino nel Pozzo. Fu il pe-riodo nel quale conobbe lo sceneggiatore Pino Pedrocchi, che risulterà fondamenta-le per la sua crescita artistica, dato che gli insegnò i segreti della tecnica fumettisti-ca. Poco più tardi venne chiamato a svol-

gere il servizio militare presso l’aeropor-to di Bresso vicino Milano, dove ebbe la possibilità di copiare dettagli di camion e aerei, che gli furono di grande utilità per Le perle del Mar d’Oman, su sceneggia-tura dello stesso Pedrocchi. Nel 1941 – a causa della morte del fratello avvenuta durante la battaglia di Matapan – Galleppini venne congedato e iniziò a collaborare con la casa editrice Nerbini, una delle più attive nel settore fumettistico in Italia, per la quale realizzò Per la patria (due episodi), La conquista dell’Atlantico, I conquistatori d’oceani, Cuori e macchine d’acciaio, La leggenda dei Rugi, La sirena dell’Artide, La fiam-ma che non si spegne e Lo sparviero fantasma per le riviste Pisellino e Avven-turoso. Dal 1942 operò per il giornale satirico-politico 420, adattando al dise-gno i testi del suo amico poeta Marcello Serra, e allacciò rapporti di collabora-zione con la casa editrice Universo per la quale realizzò disegni per L’Intrepido e per gli Albi dell’Intrepido. Tutto questo

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lavoro – a cui Galleppini si dedicò con grande en-tusiasmo – non fu tuttavia controbilanciato da al-trettanto guadagno, visto che gli avvenimenti bellici misero in forte crisi il settore. “Io stesso – ricorda l’autore – mi meravigliavo di quanto lavoro riuscivo a realizzare, ma probabilmente per il fatto che le vendite in quel periodo erano bassissime a causa del conflitto, i guadagni erano modestissimi. C’era una fame spaventosa, si viveva con quello che si poteva avere con le tessere e la carne, quando si trovava, si mangiava ogni 15-20 giorni”.Se le cose non andavano bene nei primi due anni della guerra, la questione si complicò ulteriormen-te nel gennaio 1943 quando fu richiamato sotto le armi nell’aviazione e dovette far ritorno a Ca-gliari, città che nei mesi successivi fu sottoposta a incessanti bombardamenti dalle truppe alleate. Nel capoluogo sardo si dedicò alla ritrattistica dei suoi commilitoni, dei superiori e alla realizzazione di affreschi raffiguranti battaglie nella caserma dove risiedeva. In una Cagliari praticamente distrutta e senza nemmeno il pane Galleppini trovò ristoro presso l’Ospizio di San Vincenzo dove all’inizio del

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Nella Cagliari bombardata, le piastrelle artistiche di Galep

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Alcuni lavori cagliaritani di Galep

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1945 realizzò il ciclo di affreschi per la cappella neogotica, in cambio d’un piatto di minestra e di qualche vestito usato, come già detto. Terminato il conflitto, per guadagnare qualche lira, raccoglieva dalle macerie della Cagliari distrutta piastrelle di maiolica che de-corava con scene folkloristiche che vendeva ai soldati americani come souvenir. Contemporaneamente si dedicò alla pittura di paesaggi e ritratti, alla pubblicità e alla cartellonistica pubblici-taria. Lavori che ben presto gli diedero notorietà, tanto che, pur autodidatta, fu chiamato a insegnare disegno in due scuole ca-gliaritane.Tuttavia la passione per il fumetto era tale che non appena la Nerbini lo chiamò, Galleppini lasciò insegnamento e pittura per dedicarsi nuovamente all’illustrazione. Riadattò la storia di Pinoc-chio, realizzò la storia marinara La voce del mare, disegnò alcune copertine per il giornale Chiaro di Luna e una serie d’illustrazioni interne e copertine per libri come Il segreto della Bastiglia, La ma-schera di ferro, I tre moschettieri, Le mille e una notte, Gli orchi, I maghi e le fate, Il Barone di Manchhausen e Il Cavalier Mistero. Gli unici fumetti a cui si dedicò in quel periodo sono alcune storie di Mandrake e altre commissionategli l’editore Del Duca per gli Albi dell’Intrepido (Il mistero del castello Fuentes, Il vendicatore, Il clan dei vendicatori, La perla azzurra, Naja, La vendetta di Naja, Il figlio del sole, I dominatori dell’infinito, I misteri del pianeta Marte, Alla conquista del Nuovo Mondo, Montezuma figlio del sole, La

conquista di Spagna, Capitan Lander, Il tradito-re, Il premio del perdono, Il piccolo sergente e La perla della Malesia).Galleppini è ormai un nome noto nel settore fu-mettistico e viene notato dalla signora Tea Bonel-li, direttrice della casa editrice Audace. Lasciata la Nerbini – ormai in crisi – e interrotto il rappor-to con la Universo – perché sottopagato – accet-ta l’invito della Bonelli realizzando per la sua casa editrice gli albi L’agguato nella foresta e Il segre-to della valle nascosta, su testi di Franco Baglioni nel 1948. Dopo circa un anno di collaborazione con l’Audace la Bonelli lancia sul mercato la nuo-va Serie d’Oro Audace, che avrebbe avuto come principale personaggio Occhio Cupo, della quale diviene direttore artistico Galleppini. Nonostante l’artista riversi tutto il suo impegno per realizza-re un prodotto di qualità, Occhio Cupo si rivelò un insuccesso e chiuse i battenti dopo solo 12 numeri nello stesso 1948, soppiantato proprio da Tex (uscito per la prima volta il 30 settembre 1948), personaggio al quale il nostro non diede all’inizio molto credito. Si trattò della consacrazio-ne definitiva del grande disegnatore e artista che per il resto della vita non smise mai di dedicarsi

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al nuovo personaggio, divenuto ormai un classico del fumetto mondiale.Raggiunta ormai la stabilità economica grazie al successo di Tex, Galleppini si trasferì prima a Milano poi a Rapallo nel 1949 dove conobbe la donna che sposò l’anno successivo. Nonostante la quasi cristallizzazione della sua attività sul per-sonaggio di Tex Willer, Galleppini si dedicò anche ad altre atti-vità illustrative come i racconti – sempre per la Nerbini – Gli schiavi della mezzaluna (testi di F. Baglioni), La beffa di San Domingo (testi dello stesso Galleppini) e il Libro della Jungla, uno dei suoi capolavori rimasto incompiuto, su adattamento dell’amico Marcello Serra. Del 1950 è il Pinocchio dove si al-ternano vignette a sola china a illustrazioni colorate; del 1951 le due storie Jean Libertà e Tempesta sull’Irlanda pubblicati dall’Intrepido. Più tardi – ma sempre entro gli anni Cinquanta – realizzò le copertine della serie Le Avventure del West per le Edizioni Audace. Nel 1977 uscì, sulla collana Un Uomo, Un’Av-ventura ancora per la Bonelli (che allora si chiamava Edizioni Cepim), uno dei rari lavori di Galep non legati al ranger, ossia L’Uomo del Texas la cui sceneggiatura fu firmata da Guido No-litta.Aurelio Galleppini si spense a Chiavari il 10 marzo del 1994, quando aveva da poco iniziato a disegnare le prime tavole (ri-maste inedite) per una nuova storia di Tex.

*Luigi AgusDocente di Storia ed Esegesi dell’Arte Cristiana

(ISSR EuroMediterraneo-Tempio Pausania)

Bibliografia di riferimento: A. Galleppini (Galep); L’arte dell’avventura. Autobiografia professio-nale di un maestro del fumetto, Milano 1989; L. Marcianò, Galep, Galep, Hurrà. Incontro con uno degli ultimi romantici del fumetto italiano, in Fumetti d’Italia, 5 (Dicembre 1992); G. Bru-noro, Intervista a Tea Bonelli, in “Daim Press”, 11 (Ottobre 1995); P. Iozzino, L’uomo del Tex, Salerno 1997; L. Tamagnini (ed.), Galep prima di Tex, Torino 2000; A. Lavezzolo, Il mio amico Aurelio Galleppini e altri scritti, Salerno 2001; S. Bonelli-F. Busatta, Come Tex non c’è nessu-no, Milano 2008.

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I Tacchi di Oliena furono per Galep una continua fonte di ispirazione riguardo i paesaggi e le am-bientazioni presenti nei suoi lavori.

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Aurelio Galleppini e il ciclo di San Vincenzo de’ Paoli a Cagliari

di Luigi Agus*

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Lungo il viale San Vincenzo nei pressi di piazza d’Armi, si tro-va l’Ospizio di San Vincenzo de’ Paoli, affidato fin dalla sua costruzione alle Vincenziane. L’edificio, con semplice faccia-ta a due livelli, fu completato nel 1844 su progetto dell’ar-

chitetto Gaetano Cima. Dal portale centrale, attraverso un vestibolo, si accede alla cap-pella. Prevista originariamente divisa in due campate delle quali una cupolata, fu invece edificata nelle forme attuali per volontà dell’ar-civescovo Marongiu Nurra. L’aula si presenta mononavata divisa in due campate, della quali la prima sovrastata da un’ampia tribuna e la seconda voltata a botte con lunette finestrate sulle unghie. In fondo chiude l’abside emiciclica dove trova posto un altare in marmi policromi. In alto è posta tra le nubi la Vergine della Me-daglia Miracolosa in rilievo, mentre il catino è ornato da due affreschi raffiguranti le Appari-zioni della Vergine a Santa Caterina Labouré, opera, come gli altri dipinti della chiesa datati 1945, del pittore Aurelio Galleppini (in arte Ga-lep), che qualche anno più tardi sarebbe diven-

tato famoso come uno dei creatori di Tex Willer, uno dei più popolari personaggi dei fumetti italiani. Lungo le pareti, deco-rate con cornici e fregi neogotici, sono si-stemati a destra tre dipinti raffiguranti le Martiri di Arras, Santa Caterina Labouré che distribuisce la Medaglia Miracolosa e l’Apparizione di Cristo a Santa Cateri-na Labouré, mentre a sinistra in un uni-co pannello è raffigurato San Vincenzo de Paoli che porta i pargoli a Santa Luisa de Marillac. Alla destra dell’altare è col-locato un grande trittico neogotico pro-veniente dall’Istituto dell’Infanzia Abban-donata di viale Fra Ignazio raffigurante al centro Cristo tra i pargoli, S. Giuseppe a sinistra e Maria a destra. Dello stesso Galleppini sono pure due inedite tele cu-stodite presso la chiesa di Santa Lucia di Castello, sempre a Cagliari, raffiguranti Santa Caterina Labouré che distribuisce la Medaglia Miracolosa e le Martiri di Arras, dotate di cornici originali e coeve, databili a un periodo precedente rispetto agli affreschi di San Vincenzo.Dipinti murali, tele e disegni acquarellati

Aurelio Galleppini e il ciclo di San Vincenzo de’ Paoli a Cagliari

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del ciclo di San Vincenzo e di Santa Lucia, sono espressi con colori liquidi, pennellate appena accennate e una linea per nulla incisa sui contorni, al contrario di quanto – per esempio – Bruschi aveva fatto nella decorazione del Regio Palazzo o Figari nella cattedrale, sempre a Cagliari. L’atmosfera rare-fatta, il contrasto graduato tra colori caldi – normalmente sullo sfondo – e freddi sui contorni conferiscono alle figure di Galep quella certa serenità della vita, quella liberatrice bel-lezza che possiamo gustare come un benessere generale e un accrescimento della nostra forza vitale, che Wölffin – già nel 1888 – aveva riscontrato nelle opere del rinascimento italiano e che i Nazareni a Roma si erano sforzati di riprodur-re, con esiti tuttavia differenti rispetto al nostro, visto che il loro intento era tutt’altro che formale, quanto piuttosto esi-stenziale. Se dunque per Nazareni e Preraffaelliti era fondamenta-le ritrovare quella certa atmosfera “romantica” medieva-le di tipo contemplativo o ascetico, per Galep conta più la realtà quotidiana che si astrae attraverso forme liberatrici della linea per ritrovare nel rapporto forma-colore la sua ragione espressiva. Un dato questo che pare contrastare nettamente con la sua carriera successiva d’illustratore di fumetti, ambito nel quale ciò che conta è la forma incisa e netta, mentre al colore spetta un ruolo marginale – se non assente – di “riempimento”. Galleppini insomma sa adattare la tecnica al supporto e all’ambito di riferimento, fatto che

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AURELIO GALLEPPINI E IL CICLO DI SAN VINCENZO DE PAOLI A CAGLIARI

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porta a ritenere che le sue opere oltre ad avere a priori un intento espressivo, sono portatrici pure di un messaggio concettuale preciso. Il liberare infatti le forme da ogni aspetto “pittoresco” e ridondante, dall’impres-sione di movimento, dalla gravità delle figure – come invece osserviamo nell’Al-legoria della Fede di Figari realizzata nel 1955-57 per la cattedrale di Cagliari – porta ad associare l’opera di Galep a quella da Art Nouveau di Mucha, non a caso anch’egli illustratore come Gallep-pini. Mi riferisco in particolare a quelle forme fluttuanti che perdono ogni conno-tato di solidità del Giudizio di Paride, rea-lizzato dall’artista ceco per un calendario nel 1895, oppure alla pala del San Cirillo e San Metodio della chiesa di Pisek nel Nord Dakota (USA). Mucha come Galep aveva ben presente la differenza tra linea e colore, basta ve-dere i toni quasi espressionisti di Abisso: nel Profondo, un Corpo senza Vita (pa-stello su carta) datato al 1898-99 rea-lizzato – non a caso – dall’artista ceco a

Monaco, in Germania, dove si assiste a un dissolvi-mento completo della forma in chiave espressiva, esattamente come avviene nella scena dov’è rap-presentato San Vincenzo de’ Paoli e Santa Luisa de Marillac con alcuni pargoli che sembrano usciti da un romanzo di de’ Amicis o dal mercato caglia-ritano. Tuttavia questi “picciocus de crobi” ripuliti e ben ordinati sono disegnati con forme evanescenti e quasi dissolte nell’arioso paesaggio dove s’intra-vede una chiesa con guglie e pinnaccoli dalla foggia quasi orientale, come per sottolineare le parole evangeliche del Discorso della Montagna (Mt 5,3-12; Lc 6,20-23) o quelle della Charitas della prima lettera ai Corinti di Paolo (1 Cor 13,1-13).Proprio l’elemento psicologico sembra preponde-rante in questi dipinti di Galleppini più che quello scenografico o strettamente emotivo. L’artista pre-dilige perciò il dialogo muto, il gioco di sguardi, gli atteggiamenti che sottolineano l’aspetto antropolo-gico interiore, tanto che il paesaggio o il contorno quasi vanno a scomparire in un unico e indistinto fondale pressoché monocromo. Connotati che ri-sultano ben evidenti sia nella scena col San Vincen-zo de’ Paoli, che conduce i bimbi dal freddo d’un paesaggio innevato verso il sicuro rifugio di Santa Luisa de Marillac, sia nella visione di Santa Cateri-

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na Labouré che sembra dialogare con la Vergine Immacolata, che fissando il cielo intercede pres-so Dio, sia nell’altro – sempre del catino absidale – dove la santa si rapporta con la Madonna se-duta sull’altare. Dialoghi che sembrano sempre sottintendere lo scopo principale dell’Ordine fon-dato dallo stesso San Vincenzo, ben chiaro nelle regole comuni fin da principio: “il fine principale per il quale Dio ha chiamato e riunito le Figlie della Carità è per onorare Nostro Signore Gesù Cri-sto come la sorgente e il modello di ogni Carità, servendolo corporalmente e spiritualmente nella persona dei poveri” (Regole Comuni, cap. I, 1).Cristo – sorgente di vita – diviene dunque ele-mento centrale della scena della parete destra mentre consegna lo scapolare a Santa Caterina Labouré in un’apparizione che secondo la tradi-zione è datata al 1830, quando la santa svolgeva il suo noviziato a Parigi, nella casa di rue du Bac. Un dialogo intimo, personalissimo nel quale Cri-sto misericordioso esce dal tabernacolo dell’alta-re della cappella, mentre la santa è inginocchiata su un gradino in pietra e più che contemplare estaticamente sembra raggiante e felice di poter conoscere il suo sposo, unico elemento croma-tico della scena, a parte lei. L’anonima cappella

monocroma si colora però sullo sfondo con una tavola appena accennata raffigurante la Pietà, come a sottolineare il ruolo centra-le della passione, morte e resurrezione di Cristo nella vita della santa francese. Una costruzione che il pittore compie attraver-so una tecnica raffinatissima nella quale mescola sapientemente un Cristo derivato dalla lezione accademica di Reni, una ta-vola cinquecentesca e una santa Caterina raggiante e sorridente che sembra uscita dal pennello illustrativo di Mucha (Biscuits Lefèvre-Utile, 1896). Il tutto unito da un fondale quasi anonimo, da quinta teatrale, palesemente costruito secondo la lezione caravaggesca, ma con tonalità evanescenti e chiare secondo l’idea ormai consolidata dell’Art Nouveau.Aspetti questi che divengono ancora più evidenti nella rappresentazione delle Mar-tiri di Arras, dove alle tonalità calde riscon-trabili negli altri pannelli, si sostituisce un arioso cielo azzurro – purtroppo molto de-teriorato a causa dell’umidità – nel quale si staglia una cattedrale neogotica in lon-tananza dotata di un’alta torre che fende

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Le opere religiose di Galep e il suo sogno: iil restauro dopo i primi segni dell’umidità

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l’aere. Uno sfondo che ben si attaglia alle tre suore che con gesto fraterno si abbracciano quasi a rassicurarsi per il martirio che le attende. Martirio ben evidente in primo piano dove la suora è priva di copricapo e sta per essere assassinata dal suo aguzzino abbigliato con una camicia rossa su uno sfondo – che occupa la parte destra del dipinto – dalle tonalità calde. Tutto è comun-que contraddistinto – nonostante la drammaticità della scena – da una latente serenità espressiva e da una pacatezza nei modi, che rinviano al concetto di martirio non già quale atto crudo e mortale, ma quale atto eroi-co supremo, nella consapevolezza di entrare in piena comunione col Signore attraverso tale gesto estremo; quel “muero porque no muero” di Teresa d’Avila tradot-to in imago-exempla delle virtù teologali a cui le Figlie della Carità sono chiamate.Ed è tale aspetto intimo e caritatevole che si percepi-sce attraverso l’intero ciclo, privo di quei fronzoli ba-roccheggianti e ridondanti, privo di quella pesantezza volumetrica, di quella eroica saga che invece ritroviamo in altri cicli sardi come quello del Sacro Cuore di Sas-sari di Spada (1960-68) o quelli precedenti di Sciuti e Bilancioni, tutti a Sassari. Un aspetto forse connesso alla vicenda biografica dello stesso Galleppini che in for-te crisi economica per le vicende belliche e per i suoi insuccessi in ambito cagliaritano fu accolto dalle stesse

suore nel convento, alle quali rese omaggio con questo straordinario ciclo in cambio di un piat-to di minestra, alloggio e qualche vestito nuovo, come ancora ricordano alcuni testimoni viventi e un’anziana consorella da me interpellata presso l’asilo della Marina. Luogo – quest’ultimo – dove visse non tanti anni prima che Galep realizzasse i suoi dipinti – la beata suor Giuseppina Nicoli, che si contraddistinse proprio per l’accoglienza ai poveri e diseredati “picciocus de crobi” cagliari-tani, scalzi e affamati che Galleppini trasforma in piccoli “angeli” che San Vincenzo porta a Santa Luisa, raffigurata di scorcio seduta all’ingresso di quella che sembra essere una chiesa.Proprio l’architettura d’una chiesa gotica – in-combente sulla scena, tanto da riempirne lo sfondo anche oltre i limiti imposti dalla cornice – caratterizza la scena di Santa Caterina La-bouré che distribuisce la Medaglia Miracolosa. Un edificio in pietra viva dalle tonalità accese e cromaticamente contrastanti che sembra usci-to dal pennello di Corot a cui si contrappongono le figure, ancora una volta, di poveri diseredati scalzi, ma anche di agiati notabili, tutti in cammi-no verso la santa, alle cui spalle stanno due con-sorelle che parlano tra loro e una processione

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di novizie che esce dalla chiesa con lo stendardo dell’ordine. Citazioni precise di abiti, atteggiamenti e movimenti certamente ancorati alla lezione italiana di Hayez, Fattori o Pellizza da Volpedo, dove tuttavia non si avverte l’inclinazione da illustratore di fumetti, che caratterizzerà la carriera di Galleppini. Tendenza che risulta difficilmente percepibile perfino nella straordina-ria Via Crucis che l’artista realizzò su carta colorando dei fogli dai con-torni stampati applicati su un supporto di terracotta bianca modellato a foggia di cartiglio. Si tratta di acquerelli dove – proprio per il tipo di tecnica – le tonalità risultano ancora più evanescenti, anche se il dise-gno sui contorni diviene più nitido rispetto ai pannelli sulle pareti. Scene queste ultime affollate di personaggi, come sono per esempio quelle della Veronica, delle Pie Donne, della Terza Caduta o della Crocifissione, dove alla lezione veneta del colore (Caffi, Bezzi, Fragiacomo), l’artista associa una visione divisionista alla Segantini.Una serie di opere – quelle cagliaritane – dall’alto valore artistico e storico senza le quali non è possibile, a mio avviso, leggere l’opera suc-cessiva di Galleppini, tutta concentrata nell’illustrazione fumettistica, ma che trae origine da una forte consapevolezza accademica d’avan-guardia, che trova la più alta espressione proprio nel ciclo cagliaritano che seguendo – per certi versi – la lezione di Edward Hopper, anticipa l’Iperrealismo americano degli anni Sessanta.

*Luigi AgusDocente di Storia ed Esegesi dell’Arte Cristiana

(ISSR EuroMediterraneo-Tempio Pausania)

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E solo in questi giorni la scoperta di altri due dipinti di Galep presso la chiesa di Santa Lu-cia in Castello, nel centro storico di Cagliari

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Il manifesto ufficiale del ritorno di Galleppini a Cagliari nel 1984: “Tex passò prima in Sardegna”

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Cosa avrà mai a che fare Tex Willer con le pie suore di San Vincenzo? La risposta è appesa alle pareti della piccola cappella neogotica che si scopre den-tro l’istituto retto dalle religiose e sito nella strada intitolata al sopracitato Santo. È lì che ancora oggi si possono ammirare i dipinti che Aurelio Galleppini realizzò nell’immediato secondo dopoguerra per le sorelle licenziane. Quattro grandi tavole, in prossi-mità dell’altare, raffigurano alcuni episodi della vita del Santo, con la bella schiettezza di quel realismo che caratterizzava il linguaggio principale dei grandi illustratori dell’epoca, da Beltrame a Molino. Il segno è accurato e disteso, corretto e onesto nel suo ruo-lo di rappresentazione piana, senza fronzoli e senza sperimenti. Altra cosa i piccoli cartoni con le Stazioni della Via Crucis: qui il pennello del futuro padre di Tex si fa nervoso, guizzante, rapido. Il segno diventa com-pendiario e insieme drammatico, fulminante.Nell’intelligenza della sintesi dinamica della pennel-lata si riconosce già quel gestire veloce, che sarà la cifra inconfondibile del grande narratore a fumetti di qualche anno più tardi. Un capitolo curioso e inte-ressante insomma, questo nascosto nella cappella vinceziana di Cagliari, di quel grande libro figurato che è la carriera e l’opera di uno dei massimi illu-stratori italiani.

Giorgio Pellegrini

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C’è un piccolo straordi-nario tesoro nella Cap-pella dell’Istituto San Vincenzo Dè Paoli che guarda il carcere ca-gliaritano di Buoncam-

mino lungo il trafficatis-simo viale che porta a piazza d’Armi. Quattro dipinti, una via Crucis, gli affreschi e le decora-zioni con le scritte sono di un incredibile autore che solo pochi mesi pri-ma di morire ha voluto firmare. In precedenza, siamo nel 1984, durante la visita rivela-zione al suo rientro dopo tantissimi anni in Sardegna mi aveva vincolato al segreto. Poi Aurelio Galleppini aveva posto la sua famo-

sissima firma Galep durante una visita lampo, l’ultima in Caglia-ri, proprio per mostrare alla moglie e ai due figli le sue opere religiose realizzate in gioventù tra un cartellone pubblicitario cinematografico, il logo per De Riso piuttosto che una striscia di quello che doveva essere l’embrione della sua mitica creatura, il leggendario Tex. Solo pochi intimi sapevano delle opere religiose

realizzate per le suore vincenziane, figura-tevi la gioia delle Figlie della Carità quando se lo videro tornare per firmarle. Le opere potrebbero risalire al ’45: nella cupola son raffigurate le apparizioni della Madonna a Santa Caterina Labourè, in un quadro ci sono i fondatori Vincenzo De Paoli e Luisa De Marillà che raccoglie i bimbi poveri nella congregazione nata a Parigi; poi l’apparizio-ne del Sacro Cuore a una figlia della carità; ancora una suora vincenziana con l’antico abito con la cornetta, mentre distribuisce

le medaglie al popolo francese (1830); poi durante la rivoluzio-ne francese quattro vincenziane vengono condannate alla ghi-gliottina. Il sogno del mitico artista che tanto ha dato alla Sarde-gna era che le opere potessero essere restaurate.

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Aurelio Galleppini, figlio di genitori sar-di e iglesienti, da sempre per parte di madre e da due generazioni per par-te di padre che dopo aver lavorato per

parecchi anni nella miniera di Buggerru, come perito minerario, fu trasferito in To-scana e precisamente a Casale di Pari, in provincia di Grossetto, dove nacque Aurelio il 28 agosto 1917. A 8 anni, Au-relio fu portato a Iglesias dove la famiglia Galleppini dovette ritornare per ragioni di salute del padre. Qui Aurelio frequentò le scuole elementari, dalla terza alla quinta, sotto l’insegnamento dell’allora maestro Cristiani. Durante quel periodo, la madre di Aurelio ottenne l’insegnamento a Do-musnovas nell’asilo infantile, fondato e donato dai signori Scarsella, ricchi pro-prietari milanesi e mecenati del luogo. In

casa di quei signori, Aurelio fu ospitato spesso ed ebbe occasione di vedere per la prima volta dei filmetti proiettati per il trattenimento dei ragazzi, il cui argomento erano i primi cartoni animati di “Felix la gatta”. Questi cortometraggi suscitarono in Aurelio, che già manifestava da tempo la passione per il disegno, il desiderio di ripeterne le fattezze sui bordi dei quaderni che fatti scorrere velocemente con il pollice davano l’impressione del movimento. A queste prime esperienze si aggiun-sero le impressioni provate sfogliando i libri di fiabe di cui era dotato l’asilo della madre. Fu così che dalla matita di Aurelio scaturirono i primi personaggi ispirati ai cartoni animati e a quelli delle fiabe più classiche del tempo. Erano disegni semplici e stilizzati eseguiti con pochi tratti, ma che piacquero ai Signori Scar-sella e che da questi furono fatti riprodurre, in grande, sui muri dell’asilo, da un noto pittore del tempo: Pietro Antonio Manca. Alle prime esperienze disegnative scaturite nell’asilo della madre se ne aggiunsero altre dovute ai primi film muti che Aurelio ebbe il modo di vedere proiettati a Iglesias nell’unico cinema allora esistente, diretto dallo zio Luigi Leoni e nel cui locale Aurelio aveva libero accesso. Quelli che maggiormente rimasero impressi nella mente di Aurelio furono i film western di allora quali: Tom Mix, Aquila Bianca, ecc.. e dei quali fece tesoro molto più tardi quando dovette partecipare, quale autore grafico, alla creazione del Tex. La famiglia Galleppini abitò a Iglesias in via Collegio, angolo la piazzetta omonima, in un appartamento al terzo piano, proprio sopra quello occupato dalla famiglia dell’onorevole Angelo Corsi, di cui i Galleppini erano amici. Nel 1927 Aurelio la-sciò Iglesias dopo aver terminato le scuole elementari e si trasferì con la famiglia a Cagliari per ragioni di lavoro del padre.

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Aurelio Galleppini durante la mostra degli originali di Tex, Cagliari 1984, alla Cittadella dei Musei

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“Entrate, entrate nel mio regno, per metà magi-co e per metà reale. Io sono Tex, l’Eroe. Non abbiate timore,

lasciatevi guidare dalla mia mano e dal-le mie avventure. Scoprirete mondi mai visti, vedrete gente mai sognata: del re-sto, la mia stessa vita è un unico grande sogno”.“Con Tex facevo le cinque del mattino, che tirate di lavoro! Lo avevo realizzato senza conoscere nulla del West, anche le pistole erano inventate. Tex era un ibrido, faceva il verso a Gary Cooper e Randolph Cott. Ma lo scenario era più vicino alla Maremma…”. Tex l’eroe, au-dace capo popolo nasce nel ’48 dall’in-contro a Milano tra Aurelio Galoppini e

Gianluigi Monelli. Galep da allora non ha fatto null’altro che Tex Willer con ma-estria ineguagliabile e rigorosa scientificità. Proprio l’ex pittore umorista pub-blicitario disegnatore d’animazione sardo, introverso, emotivo quasi sempre perdente con gli editori lupi ai quali dall’età di dieci anni, da Iglesias, ha affidato estro e passione. A Lucca 15, mostra internazionale dei comics, del film d’ani-mazione e dell’illustrazione, immenso palcoscenico per Pino Zac, Mulazzano, Serpieri, spagnoli cinesi e americani, il disegnatore creatore dell’eroe che ha fatto impazzire intere generazioni, ha stretto interminabili mani sudate di gio-vani e anziani, gli ex ragazzi capaci di tutto pur di non perdere l’appuntamento col giornalino tascabile, stretto stretto giusto per far risparmiare le spese di stampa e per poter essere nascosto nelle braghe. E Galep-Tex, classe 917, a furia di disegnare per fare sognare ha perso molto alla vista e alle mani: il suo regno è una normalissima casa a Chiavari, il suo mondo magico sono i treni elettrici dai grandi plastici che lui stesso ha spesso disegnato e le pareti santua-rio, tutte modelli d’armi e aeroplani e le collezioni dei fumetti di una vita. Una vita incredibile la sua, intensa, ricca di amore per l’illustrazione, dove certo i conti non tornano. Si emoziona parlando e ricordando della Sardegna: “i miei genitori erano sardi, sono nato per caso in Toscana e condotto in Sardegna a Iglesias dove mio padre lavorava per le miniere. A Cagliari era noto come pittore (stile ‘800, ero incoraggiato da Fantini) ma un giorno mi accorsi che con la pittura non avrei mai sfondato. Ero un illustratore di fumetti, così appena potei scappai.

TEX PASSÒ PRIMA IN SARDEGNA

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Insegnavo disegno alla scuola industriale e ai Salesiani e facevo in segreto i fumetti; all’epoca c’era da vergognarsi a fare i fumetti. Io sono figlio di Flash Gordon, Raymond è stato il mio vero maestro. Prima di Gordon non avevo visto altro. Inizio con racconti illustrati, con Modellina. Poi mi lego ingenuamente a Mondatori, in elusiva senza guadagnare una lira e senza vedere nulla pubblicato. Con Pedrocchi e Civita la svolta: siamo nel 1939 i leader sono Molino e Ca-nale. Da militare all’autoreparto imparo a copiare camions e cruscotti d’aerei, poi torno a Cagliari (abitavo in piazza Garibaldi) e muore mio fratello in guerra, così mi conge-dano e sono uno dei pochi disegnatori liberi. Mi chiamano a Firenze e lavoro tra Nerbini e l’Intrepido. Dopo la guerra in una Cagliari distrutta realizzo per campare i souvenirs per gli americani recuperando le mattonelle dalle case di-strutte e disegnando delle scene folcloristiche, ho decora-to pure una cappella e gli spacci. Ma mi fregarono perché divenni ricco di “am lire” che poi divennero cartaccia. Mi buttai nella cartellonistica, nella pubblicità e divenni diret-tore artistico di un quotidiano. Ma tenevo buoni rapporti coi Benelli così tornai a Milano e dai ritagli di giornaletti

nacque il primo menabò di Tex. Il formato a striscia lo co-piammo dal Piccolo sceriffo, un grande successo. Lavoravo giorno e notte, pian piano mi diedero degli aiuto disegnatori; non ho mai tradito Tex; fino a fossilizzarmi con questo per-sonaggio; pensare che sono nato umorista…Qualche anno fa la retinite all’occhio sinistro, poi la nevrosi che mi fa tremare le mani: sarà l’età, certo sono stanco di Tex Willer. Per lui ho mollato Pinocchio, il cinema e le invenzioni: pensa, ho brevettato un occhialino per vedere i giornali in movimento. Ma anche allora mi fregarono”.Aurelio Galoppini il suo Tex oggi non lo ama né lo odia, conti-nua a fare il travet dei disegni con le storie vincenti dell’Eroe e con l’umiltà e il perfezionismo di sempre riprende sulle Dolomiti gli scenari più autentici del western all’italiana.

(Da un incontro con Aurelio Galleppini nel 1984)

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Il carteggio con Giorgio Ariu

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