G. Ponte - Povertà e Ricchezza

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RIVISTA DI STUDI TRADIZIONALI Nello stesso brano, egli parlava di un « còmpito arduo e non privo di contrarietà», ma affermava anche netta- mente quale sia la potenza insita nella verità, e di certo le sue affermazioni al riguardo valgono per ciascu- no esattamente nella misura in cui aderisca effettiva- mente ad essa e mantenga tale adesione: « Quando si ha dalla propria parte la potenza della verità, quand'an- che non si possieda nient'altro di fronte agli ostacoli piu tem ibili, non si può cedere allo scoraggiamento per- ché questa pot enza è tale che nulla riuscirà infine a prevalere su di essa: soli possono dubitarne coloro che non sanno che tutti gli squilibrz parziali e transitori devono necessariamente concorrere al grande equili- brio totale dell'Universo». GIOvANNI PoNTE POVERTÀ E RICCHEZZA È una constatazione corrente che il numero di colo- ro che ai giorni nostri sono attratti dalle dottrine tradi- zionali, e quindi in grado di comprenderle in qualche misura, non è molto elevato; l'essere compresi in que- sto numero è perciò già l'indizio di una condizione favorevole abbastanza eccezionale, della quale è norma- le che ciascuno approfitti concentrando tutte le sue for- ze per portare le proprie conoscenze fino al termine consentito dal suo « orizzonte intellettuale ». Non bisogna però credere che, per il solo fatto di essersi accostati alle dottrine tradizionali e di aver ma- gari ottenuto un ricollegamento iniziatico valido e rego- lare, si sia assiomaticamente al riparo dal pericolo di interpretazioni dottrinali ancora molto superficiali e, in quanto tali, soggette all'influsso della mentalità del- l'ambiente in cui ci si trova in conseguenza della pro- pria nascita, mentalità che, nel nostro caso di Occiden- tali moderni è, come si sa, il prodotto di tendenze esattamente opposte a quelle che concorrono a forma- re la mentalità tradizionale. Sarà anzi proprio in questa fase iniziale della pro- pria « carriera » iniziatica che si correranno i maggiori rischi di trovarsi impreparati di fronte ad attacchi del- le forze « avverse», suscitati dallo stesso tentativo di sfuggire alla presa delle potenze di illusione che perva- dono il nostro ambiente e sono capaci di assumere gli 59

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«Rivista di Studi Tradizionali» nn. 62-63, Torino, Edizioni Studi Tradizionali, Gennaio-Dicembre 1985

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Nello stesso brano, egli parlava di un « còmpito arduo e non privo di contrarietà», ma affermava anche netta­mente quale sia la potenza insita nella verità, e di certo le sue affermazioni al riguardo valgono per ciascu­no esattamente nella misura in cui aderisca effettiva­mente ad essa e mantenga tale adesione: « Quando si ha dalla propria parte la potenza della verità, quand'an­che non si possieda nient'altro di fronte agli ostacoli piu temibili, non si può cedere allo scoraggiamento per­ché questa potenza è tale che nulla riuscirà infine a prevalere su di essa: soli possono dubitarne coloro che non sanno che tutti gli squilibrz parziali e transitori devono necessariamente concorrere al grande equili­brio totale dell'Universo».

GIOvANNI PoNTE

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È una constatazione corrente che il numero di colo­ro che ai giorni nostri sono attratti dalle dottrine tradi­zionali, e quindi in grado di comprenderle in qualche misura, non è molto elevato; l'essere compresi in que­sto numero è perciò già l'indizio di una condizione favorevole abbastanza eccezionale, della quale è norma­le che ciascuno approfitti concentrando tutte le sue for­ze per portare le proprie conoscenze fino al termine consentito dal suo « orizzonte intellettuale ».

Non bisogna però credere che, per il solo fatto di essersi accostati alle dottrine tradizionali e di aver ma­gari ottenuto un ricollegamento iniziatico valido e rego­lare, si sia assiomaticamente al riparo dal pericolo di interpretazioni dottrinali ancora molto superficiali e, in quanto tali, soggette all'influsso della mentalità del­l'ambiente in cui ci si trova in conseguenza della pro­pria nascita, mentalità che, nel nostro caso di Occiden­tali moderni è, come si sa, il prodotto di tendenze esattamente opposte a quelle che concorrono a forma­re la mentalità tradizionale.

Sarà anzi proprio in questa fase iniziale della pro­pria « carriera » iniziatica che si correranno i maggiori rischi di trovarsi impreparati di fronte ad attacchi del­le forze « avverse», suscitati dallo stesso tentativo di sfuggire alla presa delle potenze di illusione che perva­dono il nostro ambiente e sono capaci di assumere gli

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aspetti piu propri a impedirci di raggiungere la meta intravista nel primo contatto con le realtà tradizionali.

Una delle componenti della mentalità moderna piu contrarie allo spirito tradizionale è sicuramente quella che R. Guénon defìnisce come la tendenza all'individua­lismo; in particolare, nel capitolo della Crisi del Mon­do moderno che porta tale titolo, egli descrive questa tendenza come una predisposizione alla negazione di ogni principio superiore all'individualità e « per conse­guenza, la riduzione della civiltà, in tutti i suoi aspetti, ai soli elementi puramente umani »; è questa tendenza che caratterizza propriamente il punto di vista « profa­no » e una delle sue manifestazioni piu negative consi­ste nel rifìutare, fìno a negarlo, qualsiasi principio di autorità.

Ci sarà perciò da aspettarsi che uno degli ostacoli piu difficili da superare per chi si sia accinto ad opera­re nel senso indicato da R. Guénon nei suoi libri , sia proprio questa predisposizione innata ad attribuire a se stesso in quanto individuo i risultati - quando ci siano - di tali operazioni, e in particolare anche le acquisizioni di cat~attere intellettuale che sono normal­mente il frutto dell'assimilazione della dottrina tradizio­nale.

Si tratta, come è abbastanza facile rendersene con­to, del prototipo stesso degli errori di fondo capaci di infìrmare qualsiasi sforzo fatto in direzione di una rea­lizzazione spirituale, errori che possono manifestarsi in qualsiasi momento del cammino iniziatico, per lo meno fìnché non si sia arrivati a superare, per l'appun­to, l'istinto di separatività, ovvero il desiderio dell'esi­stenza individuata. È quasi inutile dire qui che per manifestarsi nel corso dell'iter iniziatico di un essere, questo genere di errore deve corrispondere a un punto di vista non corretto, o a un carente approfondimento nella fase preliminare o « teorica » della preparazione

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di quest'essere alla via iniziatica, cosicché è tanto piu interessante parlarne in questa sede in quanto, essen­do speculativa o « teorica » essa stessa, è la piu appro­priata perché vi si rilevino chiaramente le interpretazio­ni distorte della dottrina per rettifìcarle ed eventual­mente combatterne le manifestazioni esteriori.

Per affrontar.:: il pregiudizio da cui traggono origi­ne la tendenza all'individualismo e le sue manifestazio­ni in tutti i campi, ci sembra opportuno fare riferimen­to a un concetto di fondo di cui R. Guénon tratta specificamente nel suo studio intitolato « El-Faqru » \ contenuto ora nella raccolta postuma che porta il titolo di Aperçus sur l'Esotérisme islamique et le T aozsme. All'inizio di questo articolo R. Guénon afferma: « L'es­sere contingente può essere defìnito come l'essere che non ha in se stesso la sua ragione sufficiente; di conse­guenza un tale essere - egli aggiunge - non è nulla di per se stesso, e nulla di ciò che esso è gli appartiene in proprio. È questo il caso dell'essere umano, in quan­to individuo, cosi come è il caso di tutti gli esseri mani­festati, in qualsiasi stato, giacché, quale che sia la diffe­renza tra i gradi dell'Esistenza universale, essa è sem­pre nulla nei confronti del Principio. Questi esseri, umani o di altro tipo, sono perciò, in tutto quello che sono, in una dipendenza completa nei riguardi del Prin­cipio, "al di fuori del quale non c'è nulla, assolutamen­te nulla che esista"; è nella coscienza di questa dipen­denza che consiste propriamente quella che molte tra­dizioni descrivono come la "povertà spirituale" ».

In questo passo, è vero, non si fa accenno alla cono­scenza, quindi il lettore di Guénon potrà istintivamen­te obiettare che è invece proprio perché spinto dal desiderio di conoscenza stimolato in lui da quest'opera che egli ha intrapreso una « ricerca » di carattere spiri-

1 Tradotto nel n. 50 di questa rivista.

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tuale e ha affrontato la «Via ». Se si riflette un po' profondamente su alcuni dati di quest'opera, si potrà però osservare che R. Guénon, pur attribuendo ai risul­tati conoscitivi di quelle che egli chiama « scienze tradi­zionali » un certo valore relativo, riserva soltanto alla conoscenza « disinteressata » le caratteristiche della de­finitività e dell'assolutezza, e questo disinteresse non è che un altro modo per qualificare, nei limiti del linguag­gio umano, qualcosa che comporta uno svincolamento dai condizionamenti individuali, riassunti in questo ca­so sinteticamente nell'« interesse », che è un modo di manifestarsi della tendenza di questi condizionamenti a perdurare.

Del resto, sempre nell'articolo « El-Faqru », si tro­va la seguente citazione da Lie-Tseu: «A colui che risiede nel non-manifestato, tutti gli esseri si manifesta­no ... Unito al Principio, egli è in armonia, attraverso di lui, con tutti gli esseri. Unito al Principio, egli cono­sce tutto, in virtu delle ragioni generali superiori, e non si serve piu, di conseguenza, dei suoi diversi sensi per conoscere in particolare e in dettaglio. La vera ra­gion d'essere delle cose (che è l'oggetto dell'unica cono­scenza reale) è invisibile, inafferrabile, indefinibile, in­determinabile. Soltanto lo spirito ristabilito nello stato di semplicità perfetta può raggiungerla nella contempla­zione profonda ».

Alla citazione di Lie-Tseu, Guénon fa seguire que­sta spiegazione: « La "semplicità", espressione dell'uni­ficazione di tutte le potenze dell'essere, caratterizza il ritorno allo "stato primordiale"; ... Questa "semplici­tà" è anche quel che viene chiamato da altre parti lo stato di "infanzia" (in sanscrito, bttlya), inteso natural­mente in senso spirituale, e che, nella dottrina indu, è considerato un prerequisito per l'acquisizione della co­noscenza per eccellenza ».

La conoscenza a cui invita Guénon, e di cui egli

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presenta agli esseri umani il riflesso sotto forma logica nella sua opera scritta, è perciò non tanto il frutto di una acquisizione da parte dell'individuo (al massimo l'assimilazione di quest'opera attraverso l'utilizzazione delle facoltà individuali può avere questo aspetto) quanto il risultato di uno sforzo teso a liberare l'essere dai condizionamenti che costituiscono questa individua­lità. Dall'influsso di questi condizionamenti deriva al­l'essere individuale il senso della propria autonomia, o « ricchezza», nei confronti del Principio, sicché è pro­prio attivando il senso della nostra « povertà » di fon­do che si favorisce la conoscenza, perché la prima è un'illusione e la seconda è una realtà.

Questo vale per qualsiasi modalità o facoltà specifi­ca a cui sia transitoriamente legata la nostra coscienza individuale, e vale quindi anche per le facoltà superio­ri a cui è riferito l'apprendimento teorico della dottri­na; l'identificarsi individualmente a dati dottrinali, sia­no pure ortodossi, se può avere un valore di conserva­zione, per sé e per gli altri, della lettera della dottrina, nella sua espressione formale, può non significare realiz­zazione compiuta dei loro significati profondi. Guénon del resto parla, a questo proposito, di « rinuncia al mentale » perché sia possibile « una conoscenza diret­ta e reale (o piu esattamente "realizzata") » delle veri­tà di ordine iniziatico; « fintantoché la conoscenza è soltanto mentale, essa non è che una semplice conoscen­za "di riflesso", come quella delle ombre che vedono i prigionieri della caverna simbolica di Platone, dunque una conoscenza indiretta ed esclusivamente esteriore; passare dall'ombra alla realtà, afferrata direttamente in se stessa, è passare in modo proprio dall'"esterno" al­l'"interno", e anche, dal punto di vista dal quale ci poniamo qui piu particolarmente, dall'iniziazione vir­tuale all'iniziazione effettiva. Questo passaggio implica la rinuncia al mentale, vale a dire ad ogni facoltà discor-

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siva che è ormai diventata impotente, perché non può oltrepassare i limiti impostile dalla sua stessa natu­ra » 2

• Nello stesso spirito, un Sufz afferma: « La ragio­ne fa il giro del mondo creato; se per caso essa porta verso il Creatore, si liquefa » 3 •

In questo campo la « grande guerra santa » da con­durre per ovviare il rischio di « gonfìare » il proprio mentale invece di rinunciarvi, di « arricchirlo » invece di concorrere attivamente a fargli prendere coscienza della sua intrinseca impotenza o «povertà », consiste nel costante riferimento ai contenuti metafìsici della dottrina, che devono costituire come la « pietra di para­gone » a cui deve sottoporre ogni impulso e, nel limite del possibile, ogni «pensiero », chi si sia avventurato sul sentiero iniziatico. In altre parole, è l'obiettivo fìna­le, che si deve sempre avere presente, a costituire la salvaguardia contro le forze che nel nostro interno, sollecitate o no talvolta dall'esterno, tenderebbero a far deviare dal « sentiero diritto »: se tale obiettivo è a misura della nostra individualità, la « via » si arresta per noi ad esso, ed i risultati ottenuti ne porteranno i caratteri parimenti individuali; solo quando esso è real­mente di là dalle contingenze gli sforzi messi in opera per raggiungerlo saranno in qualche modo « omoge­nei » con esso, e si potrà parlare di avanzamento nella via iniziatica.

Ma non è che l'iniziato, in particolare se al princi­pio della sua via, possa illudersi di essere in grado di condurre a buon fìne da solo questa propedeutica ridu­zione della propria individualità, soprattutto quando si tratti, come accade molto spesso, non di esercitazio-

2 Cfr. « Les limites du menta!» in Aperçus sur l'Initiation (tradotto nel n. 47 di questa rivista).

3 In: G. C. Anawati-Gardet, Mistica islamica; «Conclusione», p. 273 (SEI, Torino 1960).

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ni teoriche (la cui portata, del resto, va ben piu lonta­no di quanto il piu delle volte si sospetti), ma di appli­cazioni della dottrina a situazioni « vitali ».

La « pietra di paragone » di cui parlavamo piu so­pra è in realtà incorporata, se cosi si può dire, nella gerarchia iniziatica, la cui ragion d'essere è esattamen­te quella di fornire in modo sensibile agli esseri da cui è riconosciuta l'occasione per esercitare su se stessi le operazioni che li potranno portare a realizzare la co­scienza della loro dipendenza dal Principio.

Ci sembra che le osservazioni da noi fatte fìnora siano sufficienti per poter concludere in questo modo: la tendenza ad « arricchirsi », e a conservare e difende­re la propria « ricchezza », in qualunque campo possa presentarsi, è un impulso naturale e istintivo degli esse­ri umani; essa è collegata con l'aspetto illusorio della manifestazione concepita come non riferita al suo prin­cipio. Questa tendenza, assecondata, conduce in modo ugualmente « naturale » alla ripetizione dei cicli di esi­stenza; si tratta della via degli esseri periferici, travolti dalla « ruota della necessità » a causa della loro igno­ranza. È quest'ultima, infatti, che è alla radice del desi­derio di « ricchezza », inestricabilmente legato a un'illu­soria autonomia nei riguardi del Principio. Poiché la realtà ultima è che « all'infuori del Principio non c'è nulla, assolutamente nulla che esista », è soltanto sman­tellando questo senso di autonomia che gli esseri posso­no acquisire la visione corretta delle cose, riconducen­dole interiormente alla loro origine.

Questa demolizione, la quale può assumere secon­do i casi le apparenze e la denominazione di un « distac­co », di una « rinuncia », di una « spogliazione », è però il solo mezzo che possa condurre alla realizzazio­ne della propria « povertà » nei riguardi del Principio, ma questo è, per converso, l'unico stato che corrispon­da a una vera « normalità ».

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La spogliazione in questo senso profondo non è pe­rò la rinuncia alle qualità o facoltà che costituiscono la propria individualità, cosa che sarebbe del resto impos­sibile perché contraddittoria, bensf la rinuncia ad attri­buirle a se stessi in quanto individui, vale a dire una negazione attiva delle limitazioni che fanno di un esse­re « qualcuno», situandolo in un tempo e in uno spa­zio determinati, e lo escludono per conseguenza dal «Tutto» in cui risiede la sua ragion d'essere e la sua identità profonda. Sicché si potrà dire, con R. Gué­non, « che sono i "ricchi" dal punto di vista della mani­festazione che sono veramente i "poveri" nei riguardi del Principio, e inversamente »; e ci sembra cosf an­che sufficientemente chiarito il valore metodologico fon­damentale della «povertà» in una via di conoscenza.

PIETRo NuTRIZIO

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Matrimonio tra Oriente e Occidente

Matrimonio tra Oriente e Occidente (Edizioni Dehoniane, Bologna, 1983} è stato scritto da Bede Griffìths, un monaco benedettino inglese che si è stabilito in India da una trentina d'anni. L'operato di Padre Griffìths si inserisce nel contesto di una nuova corrente cattolica che intenderebbe assimilare dal­l'interno i valori della tradizione indu e piu in generale i valori dell'Oriente, ritrovando di pari passo i valori piu pro­fondi dello stesso Cristianesimo. Questo movimento fu iniziato da due monaci francesi, Jules Monchanin e Henri Le Saux, che si trasferirono in India alla fìne degli anni 40, assumendo nomi indu, indossando il mantello dei sétdhu e dedicandosi a una vita di « meditazione » in cui riunivano dottrine e pratiche rituali indu e cristiane. Questi due monaci francesi fondarono un cen­tro (da loro chiamato « ashram »)che poi lasciarono alle cure di Padre Griffìths e di altri due monaci. Di questo « ashram » parla lo stesso Padre Griffìths in Matrimonio fra Oriente e Occidente in questi termini: « In Shantivanam ( = foresta della pace) ciascuno di noi ha una piccola capanna dal tetto di paglia, in mezzo agli alberi, tra i quali viviamo e preghiamo, ci radunia­mo tre volte al giorno per la preghiera. Non la preghiera for­male ... ma una preghiera piu informale, dove ci sono letture della Bibbia, dei Salmi e dei libri sacri di altre religioni. Al mattino leggiamo dai Veda, a mezzogiorno dal Corano e dal Grant Sahib (il libro sacro dei Sikh) e alla sera leggiamo dei canti tradizionali dei poeti, specialmente quelli del grande mi­stico del Tamil Nadu, Manikkar Vasagar. Cosi ogni giorno ci confrontiamo nella nostra preghiera col problema della relazione tra le diverse religioni ». Egli non precisa in quale lingua ven­gano fatte queste letture, ma si può presumere che si tratti dell'inglese.

È normale che « il fallimento del lavoro missionario » in Oriente, di cui parla lo stesso autore del libro, abbia condotto