G. Israel E infine arrivò lo zero

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1 IL CONCETTO DI ZERO AGLI ALBORI DELLA SCIENZA MODERNA GIORGIO ISRAEL Per lungo tempo la nascita del pensiero rinascimentale e la nascita del pensiero scientifico moderno sono state presentate esclusivamente come un fenomeno interno alla civiltà europea occidentale. Dopo il buio e lungo periodo del Medioevo, la disintegrazione dell'Impero Romano d'Oriente aveva prodotto una disseminazione delle testimonianze della cultura filosofica e scientifica greca ivi conservate in silenzio da secoli: la scoperta e la lettura di antichi manoscritti dimenticati aveva determinato un fiorire di nuove riflessioni e di nuovi studi che erano stati all'origine di una nuova primavera dell'umanità e dell'affermarsi dell'Europa come centro della civiltà mondiale. Questa immagine stereotipata e deformata ha contribuito a creare l'immagine del sorgere del pensiero razionale e scientifico moderno come di un fatto tutto interno alla cultura europea occidentale o, se si vuole, come alla ripresa di un dialogo di questa cultura con se stessa, dopo una lunga e silenziosa interruzione. Si è in tal modo contribuito fortemente a nascondere come in secoli per tanti versi oscuri, mentre l'Occidente cristiano era costretto entro forme di oscurantismo, se non di vera e propria barbarie, l'area mediterranea era il centro di un intreccio di culture e di attività di straordinaria vitalità e vivacità. Questo intreccio era contrassegnato dall'interazione fra la componente cristiana, quella musulmana e quella ebraica. La Spagna, la Sicilia e il meridione dell'Italia — dove la dominazione musulmana contendeva palmo a palmo i territori con la cristianità — mondo cristiano, mondo ebraico e mondo musulmano vivevano a stretto contatto, entro forme di interazione e collaborazione che superavano gli ostacoli posti dai conflitti bellici e ponevano le basi di quella che sarebbe stata la grande cultura europea moderna. Fin dall'undicesimo secolo, le scuole di traduzione che si erano create in città della Spagna come Toledo, ed entro le quali collaboravano studiosi delle tre culture, avevano iniziato a produrre la traduzione in latino di decine e decine di opere della filosofia e della scienza greca che avrebbero rappresentato gli strumenti fondamentali per lo sviluppo della cultura scientifica moderna, come gli Elementi di Euclide, le opere di Archimede, di Apollonio, di Tolomeo, di Ippocrate, di Galieno, di Aristotele. Presso la Scuola Salernitana di Medicina, che ben rappresenta uno dei primi nuclei di sviluppo della medicina moderna, le lezioni erano tenute in

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GIORGIO ISRAEL

Per lungo tempo la nascita del pensiero rinascimentale e la nascita del pensiero

scientifico moderno sono state presentate esclusivamente come un fenomeno interno

alla civiltà europea occidentale. Dopo il buio e lungo periodo del Medioevo, la

disintegrazione dell'Impero Romano d'Oriente aveva prodotto una disseminazione delle

testimonianze della cultura filosofica e scientifica greca ivi conservate in silenzio da

secoli: la scoperta e la lettura di antichi manoscritti dimenticati aveva determinato un

fiorire di nuove riflessioni e di nuovi studi che erano stati all'origine di una nuova

primavera dell'umanità e dell'affermarsi dell'Europa come centro della civiltà mondiale.

Questa immagine stereotipata e deformata ha contribuito a creare l'immagine del

sorgere del pensiero razionale e scientifico moderno come di un fatto tutto interno alla

cultura europea occidentale o, se si vuole, come alla ripresa di un dialogo di questa

cultura con se stessa, dopo una lunga e silenziosa interruzione. Si è in tal modo

contribuito fortemente a nascondere come in secoli per tanti versi oscuri, mentre

l'Occidente cristiano era costretto entro forme di oscurantismo, se non di vera e propria

barbarie, l'area mediterranea era il centro di un intreccio di culture e di attività di

straordinaria vitalità e vivacità. Questo intreccio era contrassegnato dall'interazione fra

la componente cristiana, quella musulmana e quella ebraica. La Spagna, la Sicilia e il

meridione dell'Italia — dove la dominazione musulmana contendeva palmo a palmo i

territori con la cristianità — mondo cristiano, mondo ebraico e mondo musulmano

vivevano a stretto contatto, entro forme di interazione e collaborazione che superavano

gli ostacoli posti dai conflitti bellici e ponevano le basi di quella che sarebbe stata la

grande cultura europea moderna. Fin dall'undicesimo secolo, le scuole di traduzione che

si erano create in città della Spagna come Toledo, ed entro le quali collaboravano

studiosi delle tre culture, avevano iniziato a produrre la traduzione in latino di decine e

decine di opere della filosofia e della scienza greca che avrebbero rappresentato gli

strumenti fondamentali per lo sviluppo della cultura scientifica moderna, come gli

Elementi di Euclide, le opere di Archimede, di Apollonio, di Tolomeo, di Ippocrate, di

Galieno, di Aristotele. Presso la Scuola Salernitana di Medicina, che ben rappresenta

uno dei primi nuclei di sviluppo della medicina moderna, le lezioni erano tenute in

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arabo, in ebraico, in greco e in latino. E nella Sicilia di Federico II, i primi "tornei

matematici" della storia della disciplina avevano visto l'affermazione di un giovane

prodigio, Leonardo Pisano. Questi si era formato però alle scuole matematiche arabe:

seguendo le orme del padre mercante, si era recato nell'Africa mediterranea (l'attuale

Algeria) imparando l'algebra araba e nel suo Liber Abaci aveva raccolto una sorta di

enciclopedia dell'aritmetica greca e araba e dell'algebra. Questo libro, che si ispirava

agli studi di Savasorda, di Al-Khwarizmi e di Al-Karagi non fu tuttavia capito e

assimilato in Occidente, perché troppo elevato per le conoscenze ivi prevalenti in

quell'epoca.

L'anno 1492 segna non soltanto la scoperta delle Americhe, ma sopratutto — con

la drammatica espulsione degli Ebrei dalla Spagna e con la cancellazione della residua

presenza musulmana dalla Spagna — la fine di quella coesistenza fra cultura araba,

ebraica e cristiana che era stato il fenomeno più importante del Medioevo europeo e che

aveva prodotto il manifestarsi di uno dei più grandi sviluppi intellettuali della storia.

Come sarebbe ipocrita tacere gli aspetti drammaticamente conflittuali che

facevano da sfondo a questa grande cultura mediterranea, altrettanto lo sarebbe il

tacere o lo sminuire il ruolo che essa ebbe nella formazione della cultura scientifica

moderna. Come dimenticare il ruolo avuto non soltanto dall'algebra araba ma anche

dell'alchimia, cui anche la cultura ebraica diede un poderoso contributo, soltanto di

recente riscoperto? E come dimenticare il ruolo che ebbe la speculazione della

Kabbalah nella formazione di quella imponente corrente di pensiero che va sotto il

nome di "Cabala cristiana" e che è al cuore stesso del pensiero rinascimentale? Eppure

questa "censura" è stata fatta per lungo tempo e ancor oggi è lungi dall'essere rimossa.

Quando apprendiamo che le opere teologiche e alchimistiche di Newton — così

impregnate di latenze mistiche e esoteriche — rappresentano assai più della metà della

produzione complessiva del grande scienziato, non possiamo non stupirci. Eppure, la

storiografia di stampo positivistico ha tentato di vincere questa sorpresa accreditando

l'immagine falsa di un campione del razionalismo scientifico moderno che, per un

debolezza privata, si concedeva queste distrazioni altrimenti deprecabili. Chi

rimprovererebbe un grande scienziato di fare le parole crociate nei momenti di ozio?

Ma le riflessioni teologiche e alchimistiche di Newton non erano una sorta di gioco

delle parole crociate: esse avevano un posto centrale nel processo di formazione delle

sua concezioni dello spazio, del tempo e della materia fisica. Così come sarebbe vano

comprendere appieno le idee filosofico-scientifiche di Leibniz dimenticando che l'idea

di un calcolo filosofico universale — di cui il calcolo differenziale gli sembrava la più

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brillante espressione — gli era stata ispirata, per sua stessa ammissione, dalla cabala dei

vocaboli mistici e dall'aritmetica dei numeri pitagorici.

La recisione dei legami fra la cultura scientifica dell'Europa occidentale e gli

sviluppi cui abbiamo sopra accennato non costituisce soltanto l'espressione di una

visione storiografica positivistica, ma oscura il ricordo del fatto che il Mediterraneo è

stato per lungo tempo un luogo di fertile incontro fra culture e non soltanto un luogo di

conflitti insanabili.

Quello che segue è un modesto contributo al tentativo di ricordare in che modo il

pensiero kabbalistico medioevale (in ciò assai vicino alle concezioni prevalenti nel

pensiero arabo dell'epoca) abbia contribuito a formare alcune visioni del concetto di

“zero” e di “vuoto” che hanno giocato un ruolo fondamentale nel pensiero scientifico

moderno.

* * *

«Non sai far alcun uso del niente, zietto?» chiede il Matto a Re Lear,

nell'omonima tragedia di Shakespeare. E Re Lear risponde:

«No di certo, ragazzo, niente si può fare del niente.»

Il dileggio del Matto cresce di tono: «Ti sei pareggiato il cervello da ambo i lati e

non hai lasciato niente nel mezzo.»

E infine: « Ora sei uno 0 senza cifra. Io sono meglio di te: io sono un buffone e tu

sei niente.»

Non è questo l'unico luogo in cui Shakespeare si cimenta col tema del nulla,

dell'abisso del non essere, dell'impossibilità di creare dal nulla. E vi si cimenta nei modi

più disparati, dall'Amleto, al Macbeth, ogni volta mostrando quanto lo affascinino le

ambiguità e le difficoltà del concetto di nulla. Il tema del Re Lear è l'idea del “nihil ex

nihilo fit” riaffermata dal vecchio re, peraltro contraddetta e smentita (in questa come in

altre opere) dalla presenza della forza creativa della vita e dell'amore, che si esprime

sopratutto e proprio nell'amore negato, annichilito e escluso dall'esistenza e che viene

perciò dal niente.

Ma in questa opera di Shakespeare, più che altrove, la metafora rispecchia con

estrema precisione la difficoltà di accettare lo “zero” e l'evoluzione di questa nozione da

strumento aritmetico operativo a immagine del nulla che bene si esprime nella formula:

«sei uno 0 senza cifra»; e in quanto immagine del nulla solleva mille difficoltà.

«Lo zero da sé solo — osserva il Dizionario della lingua italiana del Petrocchi —

non val nulla: ma alla dritta delle altre cifre le moltiplica per dieci.» E nel Dizionario

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della lingua spagnola di Moliner, si menziona la locuzione “zero a sinistra” (ancor oggi

in uso in Spagna) per indicare qualcosa che non vale nulla e non merita alcuna

considerazione. Anche il Dizionario della lingua francese del Littré definisce lo zero

come una «chiffre qui de lui-même ne marque aucun nombre, mais qui, étant mis à la

droite des autres, indique qu'ils prennent une valeur dix fois plus forte». E aggiunge

che, in senso figurato, «un zéro, un vrai zéro, un zéro en chiffre, se dit d'un homme qui

n'est d'aucune considération».

Per il vezzo di voler attribuire a civiltà sempre più lontane nel tempo le grandi

scoperte, taluno attribuisce anche agli antichi Cinesi la scoperta dello zero, ma per

vedere le cose nella giusta prospettiva — come osserva G. Guitel (Guitel, 1975) —

bisogna tener conto della differenza concettuale fra zero-operatore e zero mediale. Lo

zero operatore è quello di cui parlano Littré e Petrocchi: aggiunto tante volte a una cifra

serve a indicare che essa assume un valore tante volte più grande, secondo la base scelta

(10 nel nostro sistema numerico). Così, uno zero aggiunto a destra al numero 23 indica

che 230 è un numero dieci volte più grande di 23. In tale accezione operativa, lo zero

non contiene in modo visibile la nozione di nulla. Ma, se si considera il numero 203,

ovvero si interpola lo zero, l'approccio operativo diviene più complicato: in tal caso

bisogna pensare che una parte del numero (il 20) è stata moltiplicata per 10, mentre la

parte delle unità (3) è stata lasciata inalterata. Qui lo zero indica l'assenza delle decine,

o l'assenza della moltiplicazione delle unità per la base 10. La radice dell'identificazione

dello zero con il nulla non sta quindi nell'uso dello zero operatore (lo zero a destra) ma

nel concetto di zero mediale: è lo “zero a sinistra” degli spagnoli, che è di fatto la stessa

cosa dello zero “da solo” di Petrocchi, del “vero zero” di Littré, dello “zero senza cifra”

di Shakespeare; come uno zero mediale è Re Lear, di cui il Matto dice che si è

«pareggiato il cervello da ambo i lati» e nel mezzo ha lasciato niente. Ancora nel

Seicento, il Cardinale di Retz osservava, a proposito del principe di Conti che «ce chef

de parti était un zéro [uno zero mediale], qui ne multipliait [ovvero diveniva un “zero-

operatore”] que parce qu'il était prince de sang».

L'opposizione fra zero-operatore e zero mediale è quindi la chiave per

comprendere l'evoluzione della nozione di zero verso l'identificazione con il concetto di

“niente”. Questa storia lunga e faticosa prese le mosse dall'uso che si faceva dello zero

nella matematica indiana e che divenne sistematico nella matematica araba, la quale

può essere considerata il vero “vettore” del concetto di zero nella scienza e nella cultura

occidentale. Fu Leonardo Pisano, nel Duecento, a dare il nome latino di Zephirum (da

cui deriva l'attuale zero) al termine arabo Sifr (“vuoto”), che è però origine anche della

parola “cifra”. Ne discese un'ambiguità di significato che perdurò a lungo, se si pensa

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che, per molto tempo, in inglese si usò la locuzione “cipher” per denotare lo zero. Tale

ambiguità è rilevata con sorpresa da Littré che osserva che «zéro et chiffre sont le même

mot; il est curieux de constater ainsi deux formes se différenciant pour signifier des

choses très différentes.» Poiché l'aritmetica araba era definita come una procedura

“algoristica” — in opposizione a quella “abacista” (ovvero fondata sull'uso delle cifre

romano e dell'abaco a gettoni), prevalente in Occidente, e che non conteneva il concetto

di “vero zero” — nella Francia del Duecento si usava offendere una persona

chiamandolo “cifra in algorismo”, intendendo dire così che si trattava di un uomo da

nulla. La diffidenza nei confronti del concetto di “vero zero” non si riflette soltanto

nell'ambiguo significato attribuito al termine “cifra”, ma anche nell'idea di

procedimento segreto e oscuro che era associato al calcolo in cifre e che si riflette nel

significato che ha questa parola ancora oggi, quando si parla di linguaggio “cifrato” per

intendere una forma di espressione criptica. In realtà, l'opposizione nei confronti del

calcolo in cifre o “algoristico” fu grande e fu dovuta a una diffusa resistenza da parte

delle autorità ecclesiastiche di fronte a ciò che appariva come un prodotto della cultura

degli “infedeli”: proprio la facilità e l'efficacia dei procedimenti algoristici sembrava

costituire la prova di un carattere magico, se non addirittura demoniaco, dei

procedimenti provenienti dal mondo musulmano.

Si è detto del ruolo avuto da Leonardo Pisano nel diffondere nell'Occidente

medioevale cristiano i procedimenti della nuova matematica algoristica araba. Più in

generale, la Spagna e la Sicilia — e cioé le regioni in cui coesistettero e si

confrontarono per secoli, anche se in forme talora conflittuali, le culture araba, ebraica e

cristiana — furono i luoghi in cui lo studio e la traduzione dei testi della scienza e della

filosofia greca si accompagnarono a una loro reinterpretazione nelle forme di un nuovo

sapere scientifico. In queste nuove forme il concetto di numero aveva un ruolo centrale,

non soltanto nella matematica araba ma anche nella mistica kabbalistica ebraica che

ricercava la struttura segreta del Cosmo entro segrete strutture numeriche, riprendendo

così antiche tematiche pitagoriche. L'influsso delle tecniche algoristiche e della

numerologia mistica nella formazione dell'“arte combinatoria” (di cui è uno dei primi

esponenti il filosofo e mistico catalano Raimondo Lullo) e sul neoplatonismo

rinascimentale di Pico della Mirandola e Marsilio Ficino, è ormai riconosciuto e

considerato come un passaggio cruciale verso quella visione della conoscenza della

natura attraverso i numeri prima e la matematica poi, che costituisce il fondamento

concettuale della scienza moderna. Ma tutto ciò, come si è detto, avvenne attraverso

grandissime resistenze e difficoltà. Per quanto riguarda, l'uso delle “cifre”, e in

particolare dello zero, l'opposizione delle autorità ecclesiastiche ortodosse fu tenace e

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insistente. A tal punto, che la secolare contrapposizione fra “abacisti” e “algoristi” si

concluse in modo definitivo soltanto quando un provvedimento preso durante la

Rivoluzione francese vietò l'uso dell'abaco nelle scuole e nell'amministrazione (voir

Ifrah, 1985).

La diffidenza nei confronti dello zero (e sopratutto, evidentemente, contro lo zero

mediale o zero “senza cifra”) ha radici filosofiche e teologiche profonde ed è legata alla

difficoltà di accettare la nozione di “nulla”. Per questo, quel che vogliamo qui sostenere

è che la difficoltà di accettare lo zero non è tanto una questione tecnica (un'opposizione

fra diverse correnti del calcolo numerico — “abacismo” e “algorismo”), quanto

un'opposizione metafisico-teologica, con evidenti conseguenze sullo sviluppo del

pensiero scientifico, fra la visione semitica (arabo-ebraica) del nulla, dell'infinito e della

creazione dal nulla e quella della tradizione scolastica-cattolica, ostile all'idea di nulla e

assai ambigua sull'idea di creazione dal nulla.

Non è allora casuale il fatto che abbiamo iniziato citando Shakespeare come un

pensatore che aveva una visione complessa e tormentata del nulla (dello zero) e della

creazione ex nihilo. Soltanto di recente Shakespeare è stato riletto alla luce di una

visione meno appiattita su taluni stereotipi un pò schematici del passato. D. Barnes

(Barnes, 1975) ha sviluppato una penetrante analisi del Mercante di Venezia, che ha

ribaltato il luogo comune secondo cui questa sarebbe un'opera antisemita, per mostrare

al contrario come essa sia un'opera allegorica che riprende tematiche kabbalistiche,

riprese dalla filosofia “giudaizzante” del frate cabbalista di Venezia Francesco Giorgi, e

di cui Shakespeare era certamente un lettore. In uno scritto successivo, Frances Yates

(Yates, 1982), pur trovando troppo schematico il parallelismo stabilito da Barnes fra i

personaggi di Shakespeare e il diagramma kabbalistico dell'albero delle Sefiroth, ha

sviluppato l'analisi di Barnes, per mostrare come proprio in Giorgi si ritrovi la chiave

allegorica dell'opera di Shakespeare. Ricordiamo che la scelta giusta tra i tre scrigni (di

oro, argento e piombo) fra cui doveva scegliere il corteggiatore di Porzia per

conquistarne la mano era quella dello scrigno di piombo, che nella simbolologia di

Giorgi rappresenta proprio la sapienza e la religione ebraica. E che si basa sul passaggio

dei Proverbi (8.10.11) che costituisce evidentemente la chiave dell'allegoria di

Shakespeare: «Scegli la mia disciplina e non l'argento/scegli l'intelligenza all'oro fino/

perché la sapienza è meglio dei preziosi».

Comunque, senza sviluppare oltre questo discorso che ci porterebbe fuori strada,

quel che mette conto di sottolineare è che da non molti anni è iniziato un ampio lavoro

di ricerca teso a ricostruire i nessi fra pensiero kabbalistico ebraico e quella vastissima

area che va sotto il nome di “cabala cristiana” e che ha costituito uno dei fondamenti

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tematici del pensiero rinascimentale e quindi pre-scientifico nonché il canale di

trasmissione di una parte importante del pensiero ebraico medioevale. Fa parte di queste

ricerche la scoperta degli influssi kabbalistici sul pensiero di Shakespeare, ma più in

generale sul pensiero dell'era elisabettiana. Così, la Yates ha individuato in modo

penetrante alcuni temi giudaizzanti e kabbalistici del pensiero di Francesco Bacone,

presenti in particolare nella Nuova Atlantide (Yates, 1982). I legami sempre più evidenti

fra il movimento riformatore baconiano e il rosacrocianesimo tedesco aprono così

nuove prospettive e impongono, ad esempio, di riesaminare le peraltro evidenti

venature kabbalistiche del pensiero di Leibniz. Un discorso speciale meriterebbe

Newton, i cui interessi per il pensiero mistico sono se non altro testimoniati dalla sua

passione per l'alchimia e di cui tuttavia sono state ricordate ma non approfondite le

influenze subite dal pensiero kabbalistico nella concezione dello spazio. Proprio

menzionando Newton viene a mente l'accusa più ricorrente che gli venne rivolta —

quella di reintrodurre nella scienza influssi di tipo magico, attraverso il concetto di

azione a distanza (attrazione gravitazionale) fra due corpi nel spazio vuoto. E, se

pensiamo al punto di vista dell'altro grande punto di riferimento del pensiero scientifico

seicentesco, Descartes, ritorniamo in pieno nell'antinomia da cui siamo partiti. Come

per Newton lo spazio è un contenitore vuoto degli eventi fisici, così per Descartes il

vuoto è impensabile e inaccettabile sia nel ragionamento come nello spazio fisico. Lo

spazio è, per Descartes, pieno e continuo, e i processi fisici non si spiegano mediante

azioni a distanza bensì mediante azioni di contatto: il moto dei pianeti avviene

all'interno dei vortici determinati da queste azioni di contatto, e non a causa della forza

di attrazione gravitazionale.

Non ci si inganni. Naturalmente, sia Descartes che Newton accettano lo zero, il

quale è entrato ormai a far parte del bagaglio tecnico della matematica da lungo tempo

(anche se, come si è detto, al livello del calcolo numerico pratico l'approccio algoristico

avrà definitivamente partita vinta più tardi). L'impatto matematico dello “zero” nella

cultura occidentale è avvenuto già nel tredicesimo secolo, con la diffusione della

scienza araba e in particolare dell'algebra. Ma quel che è “appeso” al concetto di zero, e

cioé una sua interpretazione (che è una delle molte possibili, nella grande ambiguità e

flessibilità di questo concetto) in termini di simbolo del “niente”, è passato attraverso il

filtro di una cultura ostile al concetto di “niente” che, laddove le maglie del filtro erano

più strette — come nel caso della cultura cattolica di Descartes — non ha lasciato

passare nulla della valenza metafisica di questo concetto, mentre laddove erano più

larghe, se non larghissime — come nel caso di un Newton — ha lasciato passare molto

di questa valenza.

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Veniamo ora rapidamente alla radici della antinomia fra le concezioni del nulla e

della creazione ex nihilo e le concezioni ostili all'idea del niente.

Non c'è dubbio che una delle difficoltà costitutive della teologia cristiana

ortodossa, da Sant'Agostino alla scolastica di San Tommaso d'Aquino, risiede nella

difficile conciliazione che in essa si tentava di realizzare fra la visione della creazione

caratteristica del pensiero filosofico greco e quella del monoteismo ebraico. In effetti,

nella filosofia greca — con l'importante eccezione di Democrito e delle sue dottrine

atomistiche — è presente una grande riluttanza e persino un vero e proprio orrore nei

confronti del concetto di “vuoto”. Lo spazio è sempre pensato come qualcosa di pieno,

che non ammette interruzioni, lacerazioni, vuoti e assenze di correlazioni. E' un punto

di vista che non divide platonismo e aristotelismo. La teologia cristiana ha ripreso in

pieno da Parmenide e da Platone l'idea di una separazione fra il mondo eterogeneo,

frammentato, imperfetto e interrotto della realtà concreta e il mondo della pura forma,

dell'essere divino immutabile, pieno, omogeneo, indivisibile, senza tempo. Non mi

soffermo sul valore enorme che ebbero, in questa direzione, le confutazioni di Zenone

(attraverso i suoi celebri paradossi) del moto, del vuoto e dell'infinito. Ne discende che

il concetto di creazione, nella filosofia greca e in particolare nei teologi cristiani che da

essa erano influenzati, ha un significato peculiare: Dio non è il creatore dal nulla del

cosmo ma piuttosto il supremo architetto che ha ordinato secondo principi di suprema

razionalità il “caos” in cui il cosmo stesso si trovava. E' possibile dare innumerevoli

esempi degli influssi posteriori di questa interpretazione di Dio come supremo

architetto: ci limiteremo a ricordare, in tempi meno lontani, la visione di Descartes che

concepiva il mondo come una immensa macchina, un gigantesco orologio

perfettamente organizzato nella correlazione dei suoi ingranaggi e Dio come il

“supremo orologiaio”, colui che aveva fabbricato dalla materia prima caotica questa

macchina i cui principi razionali di funzionamento spettava all'uomo-scienziato

indagare, capire e descrivere. Anche in Galileo, l'attenzione è posta più sulla forma

organizzativa del mondo (i principi matematici con cui è stato scritto da Dio) che non

sul processo della creazione del mondo dal nulla. Per Descartes, come per tanti altri

filosofi-scienziati della sua epoca, il mondo-macchina è un “continuo” privo di

interruzioni e di vuoti. E insisto sul fatto che la ripresa da parte di Newton dei temi

dell'atomismo democriteo e quindi dell'idea del vuoto, fu assai criticata all'epoca e la

sua concezione della trasmissione a distanza dell'interazione gravitazionale nello spazio

vuoto come la manifestazione della ripresa di temi magici.

Eppure il tema della creazione ex nihilo, l'idea che il mondo è stato creato da Dio

completamente dal nulla, era fondamentale nella concezione ebraica e quindi

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rappresentava l'altro dei due elementi costitutivi della teologia cristiana. E' nella

difficoltà di conciliare questi due aspetti, è in questa tensione inerente alla teologia

cristiana che va ricercata la causa principale delle difficoltà di accettare il concetto di

“nulla”. Sant'Agostino, certamente influenzato dalla negazione del vuoto parmenideo-

platonica (trasmessagli dagli scritti di Plotino) tentò di conciliare questa negazione con

l'idea della creazione dal nulla, assegnando al nulla uno status escatologico, e cioé

identificando il nulla con il male, con il diavolo, ovvero con l'assenza o privazione del

divino, ciò che era stato sottratto dall'originale pienezza di Dio. Una soluzione

pericolosa e quasi blasfema, perché rischiava di introdurre l'idea di un'omissione, di

qualcosa di mancante prima dell'atto creativo, una mancanza di cui quell'atto doveva

riparare. E difatti Sant'Agostino tentò di riparare a tale critica introducendo l'idea

secondo cui Dio creò il tempo, ed essendo così fuori del tempo non avrebbe mai potuto

mancare di ciò che sempre ebbe. San Tommaso vide comunque a tal punto questo

rischio, da decretare che di Dio poteva parlarsi soltanto in modo negativo, ovvero per

dire ciò che Dio non è (mortale, temporale, finito, etc.). Il processo creativo era da lui

visto più come una distruzione del nulla da parte di Dio che non come l'estrazione da

esso del mondo. Il nulla conserva quindi un ruolo e l'idea della creazione in senso

stretto rimane, ma in termini negativi e cioé come il processo di eliminazione della

negazione di Dio.

Si tratta sostanzialmente di un tentativo di negare il problema del “niente”,

trasferendo il rifiuto di esso nel suo superamento da parte di Dio. Ma il problema resta

così soltanto esorcizzato, la grande questione di conciliare o confrontare apertamente

l'idea della creazione dal nulla con il principio del nihil ex nihilo fit, resta soltanto

messa fra parentesi ma non elusa. Come molto più tardi mostreranno i tormenti di

Shakespeare attorno a questo tema.

Ora, l'impatto sulla cultura europea del concetto di niente (e di quello connesso di

infinito) si manifesta attraverso due canali: l'introduzione araba dello zero nella

matematica, l'idea del niente come si manifesta nella mistica ebraica medioevale (e

anche, più tardi, nel pensiero di un grande filosofo ebreo del secolo successivo, Hasdaï

Crescas). E' importante rilevare la sinergia di questi due processi. Perché, se l'influsso

della mistica ebraica sul Rinascimento, per quanto importante, sarebbe stato

insufficiente da solo a influenzare in modo significativo le forme costitutive del

nascente pensiero scientifico, anche la rivoluzione della matematica introdotta dalla

scienza araba non avrebbe avuto l'impatto concettuale che ebbe, se non fosse

progressivamente germogliata sul terreno della nuova concezione dello spazio, del

tempo, del cosmo caratteristica del pensiero rinascimentale. Quindi si deve davvero

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parlare di una radice arabo-ebraica (semitica) della scienza moderna che si intreccia in

modo complesso e talora contraddittorio con una componente greco-cristiana.

Sottolineando però che sarebbe più corretto parlare di componente greco-arabo-ebraica

e di componente greco-cristiana… visto che la cultura filosofica e scientifica greca

viene tirata da ciascuno dalla sua parte.

La tradizione ebraica fino al Duecento riafferma una visione della creazione del

nulla strettamente basata sul racconto biblico della creazione (Ma'sé Bereshit). Nella

prospettiva che ci interessa, il contributo di quello che può essere considerato come il

massimo pensatore ebreo medievale, Maimonide, non costituisce un fattore davvero

innovativo. Difatti, Maimonide, tende a consolidare il punto di vista dell'ebraismo

rabbinico, contro una deviazione mistica e allo scopo, compie un originale e

straordinariamente interessante recupero dell'aristotelismo. In tal modo, egli però si

appiattisce sul pensiero aristotelico, almeno per ciò che concerne la concezione del

mondo sublunare.

La situazione si modifica quando si sviluppa il pensiero mistico kabbalistico,

sopratutto nella Spagna medioevale. In questo ambito, l'idea della creazione dal nulla si

precisa e si modifica allo stesso tempo.

Le recenti ricerche di Moshé Idel (Idel, 1988) hanno messo in luce l'esistenza di

due filoni all'interno della tradizione kabbalistica, quella della Kabbalah cosidetta

“teosofico-teurgica” e quella della Kabbalah cosidetta “estatica”. E' la prima che ci

interessa per l'idea dell'organizzazione del cosmo che essa propone, è vista come un

grande albero di canali che trasmettono a ogni lato del cosmo stesso l'influsso divino:

l'abero delle dieci Sefiròth. Anche se l'opera del kabbalista “estatico” Abraham

Abulafià ha avuto un grande ruolo nella introduzione dell'idea secondo cui il il libro

divino è la chiave per comprendere il libro della natura (Deus sive Natura) che

influenzò Spinoza e che «finit par s'introduire dans la pensée de la Renaissance par

l'intermédiaire de Pic de la Mirandole» (Idel, 1991).

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Nello schema delle dieci Sefiróth, la sorgente iniziale (l'infinito divino, En Sof)

propaga la sua luce attraverso una serie di canali che si diramano in tutto il mondo. I

“nodi” di questo sistema di canali (l'albero delle dieci Sefiróth) sono denotati da nomi

che hanno un significato mitico-ontologico e morale al contempo: La corona, che è il

luogo d'ingresso dell'influsso divino il punto d'ingresso del lampo divino, En Sof, che

con la sua luce infinita “attiva” l'albero. Poi l'intelletto, la sapienza, la severità di

giudizio, la tenerezza amorosa, la bellezza o clemenza, la gloria, la vittoria, il

fondamento, il regno. La “corona” è quindi per i kabbalisti il punto dove l'influsso

divino si manifesta e sorge dal “niente”. Dietro il kether sta difatti l'En Sof (o illimitato,

infinito), dietro cui ancora vi è l'ain, il niente, il nulla, il vuoto, la pura presenza

dichiarativa di Dio, l'“Io Sono”. I precursori di teosofi cristiani ispirati dal kabbalismo

come Henry More parlavano dell'inizio della catena del cosmo, come dell''ayin , “ayin

gamur” (nulla originale). E, come ricorda Scholem, «Henry Vaughan (Eugène

Philalethès) ne se refère pas à des mystiques chrétiens mais à des kabbalistes juifs

lorsqu'il parle du commencement primordial de la chaîne du cosmos comme du ‘ayin

“du néant des juifs” qui serait “la divinité simple et sans couvert”» (Scholem, 1990).

In realtà, i kabbalisti si cimentano con gli stessi temi della teologia cristiana e le

stesse difficoltà, per proporre soluzioni molto audaci, fra cui quella

dell'“autocontrazione di Dio” o tsimtsum (dovuta alla Kabbalah palestinese di Safed)

influenzò il pensiero filosofico di Schelling.

Di particolare interesse, al riguardo, è il contributo dato dalla scuola kabbalistica

spagnola del tredicesimo secolo di cui fu il principale esponente Azriel di Gerona.

Secondo Azriel, la prima Sefirà è volontà originale di Dio ma anche “nulla”. La volontà

deve essere allora intesa come il “nulla” di tutta la creazione. La messa in moto della

creazione è eternamente data nella prima Sefirà ed è un movimento che trasforma

continuamente l'infinito nel vuoto, un abisso infinito entro Dio stesso (tehom, la

profondità abissale della Genesi).

Altri kabbalisti però non volevano sentir parlare della coesistenza fra infinito e

nulla e concepivano la prima Sefirà e quindi il nulla, come un'entità creata. Tale non era

il parere dell'autore del più famoso testo kabbalistico, lo Zohar, il quale aderiva alla

prima visione. Tuttavia, tutti concordavano con l'idea che fosse inconcepibile l'idea che

un Essere perfetto abbia in sé il nulla senza che quest'ultimo si fondi su questo Essere. Il

rifiuto dell'accezione tradizionale della formula “creazione dal nulla” conduce all'idea

che la superessenza divina sia il nulla o che essa gli dia origine. Quindi un tema

fondamentale kabbalistico è che la creazione dal nulla può significare soltanto due cose:

che l'universo non è eterno e che non è stato creato da una materia primordiale esterna a

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Dio. Quindi tutto l'essere deriva dalla luce di En Sof, che deve essere pensata come il

nulla stesso. «Nel palazzo del nulla risiede il tutto», scrive un kabbalista spagnolo del

Cinquecento.

E ancora Azriel di Gerona osserva: « Comment a-t-Il produit l'être à partir du

néant alors que l'être est très différent du néant? Reponds: Celui qui produit l'être à

partir du néant n'a rien de défectueux, car l'être est dans le néant suivant la modalité du

néant tandis que le néant est dans l'être suivant la modalité de l'être.» E aggiunge: «Il a

fait de son néant son être» (Cité par Scholem, 1990).

Nel suo Commento sulle Aggadot, Azriel di Gerona, dopo aver menzionato

Platone e Aristotele, osserva: «Sache que l'existence concrète ne retranche ni n'ajoute

rien à l'existence de la forme. En effet, la racine de la forme est dépourvue de toute

existence concrète et (pourtant) elle entoure et environne de tous côtés. C'est que la

forme de tout vase est seulement ce qui lui manque en existence concrète, car c'est ce

qui lui manque de toute existence qui le constitue et le fait subsister sans (lui-même)

subir de changement. Le changement n'affecte, on le sait, que l'être qui vient à

l'existence consécutivement à son non-existence, car ce qui enveloppe l'existant (est

présent) dans toutes ses parties avec le mode d'être subtil qui lui est propre, sans exister

pour autant concrètement selon un mode changeant mais (subsistant) selon un mode

invariable. Ainsi la forme se reconnaît mieux par la vacuité de l'existence concrète dans

ce sens qu'elle n'est pas venue à l'existence, qu'elle ne se reconnaît pas par son existence

concrète. Tu peux vérifier cette assertion par l'espace vide (qui est constitutif) de tout

corps. […] le vide est le fondement de toute structure et il n'y a complétude de la forme

que grâce à lui» (Cité par Lévy, 1987).

In effetti, il rapporto che Azriel istituisce fra materia, forma e vuoto si ricollega

alla terna aristotelica materia-forma-privazione (o steresis). Il punto fondamentale è che

qui la steresis aristotelica è divenuta nulla (‘ayin) o vuoto (requt). Questa

interpretazione emanazionistica della creazione dal nulla, identificato con il tutto o

l'infinito, si distacca sia dalla tradizione teologica cristiana che da quella dell'ebraismo

ortodosso e, come vediamo, permette persino un recupero di un tema centrale del

pensiero aristotelico. Tre sono difatti, per Aristotele, le caratteristiche costitutive di un

essere: la forma, la materia e la privazione (steresis). La steresis designa ciò che l'essere

specifico non può essere: in ogni cosa è presente non soltanto la sua materia e la sua

forma ma anche ciò che le è precluso. Ora, per i kabbalisti, la steresis è un non essere

che si identifica con il “nulla” presente in ogni cosa. La creazione — ovvero il sorgere

di una forma a partire dalla materia e quindi il continuo processo creativo del cosmo —

è sempre accompagnata da un emergere del nulla, dal continuo contatto con il nulla.

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L'emergere del nulla accompagna ogni processo vivente, cioé l'atto in cui la forma

investe la materia. E' dal contatto continuo con il nulla che nasce la creazione continua,

l'eterno miracolo dell'inizio. “Le dernier miracle est encore plus grand que le premier”

(Cité par Scholem 1990).

Queste connessioni fra pensiero kabbalistico e pensiero aristotelico attraverso il

concetto di “nulla” e di steresis potrebbero aprire una lunga diramazioni di

considerazioni interessanti. Fra l'altro, si potrebbe osservare che la riscoperta e

l'utilizzazione da parte di René Thom del concetto aristotelico di forma all'interno della

sua visione della morfogenesi (Thom, 1988) ne fanno quasi un kabbalista “in

incognito”… Ma su questo interessante aspetto ci ripromettiamo di tornare in un altro

scritto.

Fino a non molto tempo fa non si riteneva che queste speculazioni mistiche

potessero aver avuto un influsso rilevante sull'introduzione del concetto di nulla nel

pensiero occidentale moderno. Ma oggi, la conoscenza sempre più approfondita dei loro

modi di trasmissione nel pensiero rinascimentale, mostra in modo sempre più evidente

il loro grande ruolo (si veda, in particolare, (Idel, 1991) e (Wirszubski, 1989)). La

formula di Pico della Mirandola secondo cui la creazione dal nulla (“ens ex non ente”)

equivale alla nascita della “sapienza dalla corona”, è ripresa in pieno dalla formula

kabbalistica, secondo cui “ain” ovvero il non-ente (in ebraico) indica la “corona”; e la

“sapienza” (la seconda delle “Sefiróth”) proviene dalla “corona”, ovvero dal nulla. «La

sapienza viene dal nulla», aggiunge Pico, riprendendo testualmente i testi kabbalistici

diffusi nella Sicilia medioevale: in tal modo egli immette nella cultura rinascimentale

l'idea di “creazione dal nulla” e legittima il concetto di “niente”.

I nodi della trasmissione del pensiero kabbalistico nel pensiero rinascimentale e a

partire di qui, nella formazione di quella vastissima corrente detta della “cabala

cristiana”, sono stati di recente ampiamente studiati e non possiamo qui che rinviare ai

testi citati. Ricordiamo però sopratutto che ciò avvenne attraverso un episodio specifico:

il viaggio del kabbalista spagnolo Abraham Abulafià in Italia, nell'intento di convertire

il Papa alle “verità” kabbalistiche. Abulafià, nonostante il Papa l'avesse diffidato

minacciosamente dal farlo, si recò nel palazzo papale del paese di Soriano del Cimino

(vicino a Roma). Qui, per una singolare circostanza, non appena Abulafià penetrò nella

sala delle udienze, il Papa morì di colpo… Egli fu immediatamente arrestato dai monaci

di guardia al palazzo, ma nel trambusto seguito all'improvviso decesso del Papa, riuscì a

dileguarsi. Cominciò di qui una lunga peregrinazione di Abulafià per l'Italia, che lo

condusse a stabilirsi in Sicilia. I numerosi manoscritti kabbalistici lasciati da Abulafià

furono studiati in modo profondo da uno studioso ebreo siciliano, Nissim Abul-Farag e

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da suo figlio, che poi si convertì al cristianesimo, assumendo il nome latino di Flavius

Mithridates. E' a Mithridates che si debbono le traduzioni in latino delle opere di

Abulafià, e in particolare del suoDe Secretis Legibus che ebbero un'influenza cruciale

su Pico della Mirandola e sul circolo degli umanisti fiorentini. E' quindi possibile

localizzare in modo quasi puntuale lo snodo di passaggio fra pensiero kabbalistico e

pensiero rinascimentale.

Ora, il punto più interessante è che questo passaggio deve molto alla traduzione

di Flavius Mithridates, la quale non è né neutrale né fedele. Di certo non perché

Mithridates non fosse un buon traduttore dall'ebraico, ma perché era un traduttore

tendenzioso che utilizzava questo suo ruolo per fare delle vere e proprie “operazioni

culturali”. In particolare, come ha ricostruito C. Wirszubski con una accurata e sottile

analisi dei testi (Wirszubski, 1989), nella traduzione del suoDe Secretis Legibus di

Abulafià, Mithridates interpola una formula assai significativa che propugna, molto al

di là del testo di Abulafià, l'idea della coincidenza degli opposti in Dio: «Verum est

haberi pro primo principio apud nos et omnes cabalistas quod Quodlibet est in quolibet

et nihil est extra se». L'analisi Wirszubski mostra che questa asserzione è una sintesi di

una formula tratta dal De Docta Ignorantia di Nicola Cusano e dall'altro lato dalle

dottrine di Azriel di Gerona, di cui Mithridates traduce nello stesso manoscritto (e, con

evidenza, prima del testo di Abulafià) le Quaestiones super Decem Numerationibus.

In tal modo, «trent'anni prima del De Arte Cabalistica di Johannes Reuchlin,

Flavius Mithridates aveva realizzato che le dottrine di Nicola Cusano e di Azriel di

Gerona erano simili, o almeno reciprocamente rilevanti, per quanto riguarda il tema

della coincidenza degli opposti in Dio» (Wirszubski, 1989). Questa influenza della

Kabbalah geronese che Mithridates interpola in Abulafià si fa sentire nella discussione

del problema della creazione ex nihilo. Qui la traduzione interpola un altro passaggio

che interpreta il “segreto” di un passaggio biblico come contenente l'idea di «ens ex non

ente vel sapientia a corona», dove si identifica il concetto di creazione del nulla nel

termini del ruolo della prima Sefirà (la corona, per l'appunto). Ancora una volta

un'interpolazione ripresa in pieno dalle dottrine della scuola kabbalistica di Gerona.

Questa interpolazione, osserva Wirszubski conduce direttamente alle modalità

dell'incontro fra Pico e la Kabbalah, alla quale egli si iniziò attraverso le traduzioni di

Mithridates. Difatti, uno dei principi fondamentali della dottrina di Pico è proprio la

interpretazione emanazionistica della creazione ex nihilo basata sulla formula «ens ex

non ente vel sapientia a corona». Pico, che identifica comunemente ‘ ayin (non ens) con

keter (corona) scrive, ad esempio, che «ain id est non ens indicat coronam de qua

scribitur et sapientia ex ain invenitur et sapientia ex ain veniet».

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A partire da questo nodo di passaggio, innumerevoli sono la testimonianze

dell'influsso e della diffusione dell'idea kabbalistica di “nulla” in tutta la “cabala

cristiana” e nel pensiero rinascimentale.

Abbiamo sottolineato che le speculazioni kabbalistiche si svilupparono in un

contesto di profonda collaborazione culturale arabo-ebraica, e di diffusione in

Occidente delle opere matematiche arabe — nella cui traduzione gli ebrei spagnoli

ebbero un ruolo fondamentale — per cui l'idea di “nulla” e di “zero” derivante dal

contatto con la matematica araba non poteva non aver influito sul loro sviluppo. In

definitiva, la formazione e la diffusione di un concetto dello zero come “niente” ha una

origine nella cultura semitica (arabo-ebraica) e, attraverso il suo recupero da parte della

cultura rinascimentale si diffonde, sia pure con molte resistenze nella cultura filosofica

e scientifica occidentale. Ma di certo questa idea dello zero-niente — di «questo nulla

che è tutto» come diceva con accenti kabbalisti il matematico del novecento Charles

Laisant — si è alla fine radicata in modo assai profondo, anche se, come abbiamo

osservato, alquanto tardo.

Le tematiche di cui abbiamo parlato appaiono assai lontane, e per una ragione ben

precisa. Da quando, nel Novecento, la filosofia della scienza (e, in particolare, della

matematica) ha proposto un approccio formalista tendente a svuotare di contenuto i

concetti della scienza e a proporsi quindi come una logica formale, o un sistema di

regole del gioco, del procedere scientifico, correlazioni come quella fra la nozione

operativa di zero e il concetto di “nulla” sono state fatte semplicemente sparire. Si tratta

tuttavia di sparizioni effimere, poiché al di là di ogni considerazione filosofica o

metafisica, quelle correlazioni affondano le loro radici negli strati più profondi della

psicologia.

Riferimenti bibliografici:

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15 ("Le religioni di Abramo e la scienza"), 1993, pp. 7- 40.T. LÉVY, Figures de l'infini. Les mathématiques au miroir des cultures, Paris, Editions

du Seuil, 1987.B. ROTMAN, Signifying Nothing. The Semiotics of Zero, London, MacMillan, 1987.G. SCHOLEM, De la création du monde jusqu'à Varsovie, Paris, Editions du Cerf, 1990.

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Catastrophes, Paris, InterEditions, 1988.F.A. YATES, The Occult Philosophy in the Elizabethan Age, London, Routledge &

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Mass., Harvard University Press, 1989.

Giorgio Israel è professore di storia della matematica presso l'Università di Roma "La

Sapienza". E' Direttore responsabile della Rivista di Storia della Scienza, membro delloExecutive Committee della International Commission on the History of Mathematics emembro corrispondente della Académie Internationale d'Histoire des Sciences. E'autore di numerosi articoli e volumi fra cui The Invisible Hand, Economic Equilibrium

in the History of Science (MIT Press, Cambridge, Mass., 1990, in collaborazione con B.Ingrao), Il mondo come gioco matematico, John von Neumann scienziato del Novecento

(La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1995, in collaborazione con A. Millán Gasca).