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Diretta da LUCIANO M. QUATTROCCHIO

3 - 2017

G. Giappichelli Editore – Torino

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ISSN 2499-3158

Pubblicato nel mese di luglio 2017

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Collaboratori di RedazioneAlessandro Avataneo, Fabrizio Bava, Valentina Bellando, Francesco Cappel-lo, Cecilia Casalegno, Giovanni Castellani, Maurizio Cavanna, Margherita Corrado, Chiara Crovini, Anna Cugno, Monica Cugno, Alain Devalle, Paolo Fabris, Elena Gentile, Francesco Gerino, Guido Giovando, Mario Grandinet-ti, Melchior E. Gromis Di Trana, Maria Maccarrone, Carlo Majorino, Cinzia Manassero, Valeria Miraglia, Roberta Monchiero, Luisa Nadile, Bianca Ma-ria Omegna, Alessandro Pastore, Elena Piccatti, Anna Maria Porporato, G. Quaranta, Michele Ricciardo Calderaro, Maurizio Riverditi, Fabrizia Santini, Alessandro Terzuolo, B. Tessa, Andrea Trucano, Gabriele Varrasi, Barbara Veronese, Alessandro Vicini Tronchetti.

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Indice

Interventi

L’attività d’impresa e la tutela del patrimonio familiare: strumenti e rimedi

V. NOSENGO, Introduzione 669

B. VERONESE, Il fondo patrimoniale 671

M. CAVANNA, Il trust e il vincolo di destinazione 681

M. TAMAGNONE, La tutela del patrimonio di famiglia in presenza di minori e incapaci 689

L.M. QUATTROCCHIO-B.M. OMEGNA, Gli strumenti di tutela del patrimonio in ambito societario 694

F. PIPICELLI, Gli strumenti di tutela del patrimonio e le procedure concor-suali 714

A. TERZUOLO, Gli aspetti fiscali degli strumenti di tutela del patrimonio 724

A. CARENA, Gli strumenti di tutela del patrimonio e la loro rilevanza penale nell’ambito delle procedure concorsuali 737

V. LONGI, Gli strumenti di tutela del patrimonio e la loro rilevanza penale-tributaria 745

Approfondimenti

L.M. QUATTROCCHIO-F. GRILLO, Le imposte anticipate e differite: una overview sulla disciplina nazionale e internazionale 756

G.F. SORBARA, La soggettività passiva dell’ATC del Piemonte Centrale ai fini del tributo IMU: problemi ed evoluzione della giurisprudenza 786

Saggi

G. PIROSO-M. CAVANNA, La rettifica unilaterale notarile ex art. 59-bis della legge notarile (con Breve chiosa finale, in tema di rettifica di atti di so-cietà di capitali destinati all’iscrizione nel registro delle imprese) 803

M. QUARANTA, L’accordo del debitore: presupposti, finalità, modalità, pri-me criticità operative, prospettive di riforma 819

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Interventi L’attività d’impresa e la tutela

del patrimonio familiare: strumenti e rimedi

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Introduzione Vittoria Nosengo*

Buon pomeriggio a tutti, desidero innanzitutto ringraziare gli organizzatori dell’invito a presiedere

un convegno che tratta questioni tanto rilevanti che nella loro complessità per così dire ad ampio spettro vedono potenzialmente coinvolte la generalità delle persone. Gli argomenti che saranno trattati spaziano infatti dal trust al vincolo di destinazione previsto dall’art. 2645-ter c.c. sulle cui differenze e analogie tanto si è discusso e si discute al fondo patrimoniale che come sape-te un tempo era fortemente utilizzato, negli ultimi anni è stato oggetto di for-te ridimensionamento per effetto del cosiddetto decreto Renzi del 2016 con l’introduzione dell’art. 2929-bis c.c. e poi di recentissime pronunce della Cassazione in punto impignorabilità, tanto che si è parlato di abolizione di fatto dell’Istituto. Verranno poi trattate le questioni attinenti alla tutela del patrimonio di famiglia nelle ipotesi di presenza di minori e di soggetti inca-paci, ipotesi che determinano molteplici complicazioni, in particolare sotto il profilo del patrimonio immobiliare richiedendo l’intervento del giudice tute-lare e le conseguenti autorizzazioni ai sensi dell’art. 372 c.c. e poi ancora sa-ranno trattati gli strumenti di tutela del patrimonio in ambito societario senza trascurare i profili che concernono le procedure concorsuali e i profili tribu-tari e penalistici. Il Convegno affronterà quindi tanti profili ordinari quanto i profili patologici della tutela del patrimonio familiare entrambi assetti che nella società di oggi stante la crisi economica e la conseguente difficoltà a implementare le possibili ricchezze delle famiglie si rilevano di fondamenta-le importanza perché ciascuno di noi sente il peso dell’incognita sul futuro dei figli e comunque sul futuro delle nuove generazioni e qui l’esigenza di preservare quei beni che la storia della famiglia ha acquisito. Il legislatore, come noto, d’altro canto ha ormai un andamento quasi schizofrenico e dun-que, se da un lato nel 2006 ha introdotto il patto di famiglia, nella sostanza e nella forma una deroga al divieto dei patti successori per consentire agli im-prenditori una successione certa, d’altro lato come vi dicevo in principio l’introduzione di quell’art. 2929-bis c.c. ha scardinato un istituto introdotto

* Presidente della Sezione Fallimenti del Tribunale diTorino

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nel 1975 come il fondo patrimoniale. Ogni occasione di discussione come il presente convegno costituisce non può quindi che giovare tanto per l’aggior-namento quanto per l’approfondimento di queste tematiche che sono sempre attuali e sempre in divenire.

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Il fondo patrimoniale Barbara Veronese

In apertura della mia relazione, vorrei sottolineare che essendomi, negli ul-timi anni, dovuta occupare ripetutamente, a livello professionale, di questioni significative e contenziosi rilevanti attinenti all’istituto del fondo patrimoniale mi sono resa conto, in primis, della mole sterminata di pubblicazioni, sentenze e di provvedimenti giudiziari che hanno rivolto la loro attenzione, anche re-centemente, alla materia, ma, al contempo, ho dovuto anche prendere atto del-l’assoluta incertezza che continua a regnare su tale argomento. In effetti, non si può non rilevare il difetto di chiarezza ed univocità inerente l’effettiva – e potrei dire rinnovata – utilità del fondo patrimoniale, istituto che – come noto – è stato introdotto nel nostro ordinamento giuridico nell’anno 1975, con la riforma del diritto di famiglia, la legge 19 maggio 1975, n. 151 in luogo del patrimonio familiare al fine di consentire alla famiglia di poter contare su un substrato patrimoniale in grado di garantire i bisogni del nucleo familiare.

Il difetto di chiarezza lamentato non è stato supplito neppure dalla giuri-sprudenza, nozione da intendersi in senso ampio ricomprendente sia le pro-nunce rese nel merito che in sede di legittimità, senza dimenticare i numero-sissimi provvedimenti statuiti dalle commissioni tributarie (provinciali e re-gionali) che, successivamente, impegnano – in sede di legittimità – la Supre-ma Corte (nella sua composizione tributaria) che denotano orientamenti ondi-vaghi in quanto sovente, nel merito, si presentano di diverso contenuto a se-conda del differente ambito territoriale di appartenenza del Giudicante, oltre che al diverso momento storico in cui sono state pronunciate.

Come detto, dall’attenta disamina delle pronunce che si sono susseguite ri-petutamente sul tema, non è dato acquisire un orientamento od indirizzo inter-pretativo chiaro, che ci fornisca le linee guida da seguire in sede applicativa pratica, tanto da far seriamente dubitare della persistente utilità concreta del fondo patrimoniale. Ogni professionista attento all’argomento non può non domandarsi se l’istituto presenti tuttora utilità in sede pratica, tale da renderlo ancora consigliabile ai clienti al fine di proteggere il patrimonio familiare, op-pure debba ormai essere considerato un contenitore privo di sostanza, carente di contenuto e, pertanto, destinato ad essere sostituito (o, forse, eliso del tutto) dallo stesso testo del nostro codice civile.

Nel prosieguo del mio intervento tenterò di fornire una risposta a tale que-sito, concentrandomi, in particolar modo, su un orientamento giurisprudenzia-

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le recentissimo emerso da una serie di pronunce statuite dalla Corte di Cassa-zione nell’arco temporale ricompreso tra l’ottobre 2016 sino al maggio 2017, dal quale sono scaturiti alcuni punti fermi che, forse, forniscono una qualche salvezza all’istituto in esame.

Prima di soffermarmi sull’aspetto patologico e sull’uso potenzialmente di-storto della fattispecie da cui sorgono i dubbi suesposti, vorrei dapprima pas-sare al vaglio e rimarcare, dal punto di vista sostanziale, quali siano i caratteri salienti fondanti i punti essenziali e la ratio dell’istituto che astrattamente ne giustificano il largo utilizzo pratico ormai da decenni.

Con specifica attinenza alla sua definizione, il fondo patrimoniale – disci-plinato negli artt. 167 ss. c.c. – è un istituto che venne introdotto nel nostro si-stema giuridico con il nobile fine di proteggere e garantire i bisogni della fa-miglia (sostituendolo al patrimonio familiare, peraltro ancora in vigore ai sensi dell’art. 227 della legge n. 151/1975 per tutte le fattispecie costituite in data anteriore all’entrata in vigore della riforma), seppur – sin da subito – fu ogget-to di numerosissime ed aspre critiche avanzate dalla dottrina, tra cui quella per cui – a differenza dell’istituto precedente – non tutelava sufficientemente il patrimonio del nucleo “famiglia”, in quanto in esso difettavano i caratteri del-l’inalienabilità ed inespropriabilità dei beni che ne formavano l’oggetto.

La disciplina del fondo patrimoniale è alquanto ridotta, essendo contenuta in un numero piuttosto scarno di norme del nostro codice civile, con più preci-sione dall’art. 167 al 171.

Quale sia il potenziale oggetto del fondo patrimoniale ce lo dice chiara-mente l’articolo 167 c.c., in base al quale vi possono rientrare: i beni immobi-li; sul punto, vorrei subito precisare che il vincolo non è posto tanto sul bene in sé, ma insiste, invece, sul diritto inerente il bene, ragion per cui consideran-do che nell’atto costituivo e così pure nelle regole di funzionamento del fondo patrimoniale ampia è l’autonomia privata riconosciuta ai soggetti interessati che consente loro di modellare l’istituto alle concrete esigenze pratiche, la spe-cifica previsione contenuta all’art. 168 c.c. riserva la possibilità di conferire nel fondo anche il solo godimento del bene, conservandone la proprietà; ra-gion per cui oltre che sul diritto di proprietà il vincolo potrebbe essere costitui-to su diritti reali diversi, quali, a titolo di esempio: usufrutto, superficie, enfi-teusi, nuda proprietà e così via, casi nei quali occorre verificare l’idoneità del-la destinazione, tenuto conto del profilo della temporaneità dei detti diritti a differenza della proprietà.

Altri potenziali oggetti sono annoverabili nei beni mobili registrati e nei ti-toli di credito.

La tripartizione indicata costituisce un numero chiuso, poiché l’art. 167 c.c.

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rappresenta un’elencazione tassativa non suscettibile di interpretazione esten-siva.

Ne consegue che, dall’ambito dell’oggetto del fondo patrimoniale, debbano essere esclusi i beni mobili non registrati in quanto – causa l’assenza di un re-gime pubblicitario – risulta essere impossibile opporre la destinazione di tali beni al soddisfacimento dei bisogni della famiglia.

Aggiungasi che per orientamento ormai unanime della giurisprudenza si ri-tengono introducibili nell’oggetto del fondo patrimoniale anche i brevetti ed i marchi in quanto diritti soggetti a registrazione (e, quanto al marchio, si preci-sa che ai sensi dell’art. 2573 c.c. la privativa può essere trasferita a prescindere dalla contestuale cessione dell’azienda o di un suo ramo); ed ancora, i singoli beni aziendali purché presentino i caratteri richiesti dall’art. 167 c.c., così co-me (per parte della dottrina) i beni futuri, i quali, a norma dell’art. 167 c.c., dovranno essere necessariamente determinati.

Non possono, invece, essere oggetto di fondo le aziende intese nella loro globalità, in quanto trattasi di universalità potenzialmente comprendenti anche rapporti di credito e beni mobili non registrati.

Passando, ora, all’individuazione di quali siano i soggetti legittimati attivi alla costituzione del fondo patrimoniale, il conferimento può essere effettuato da ciascuno dei coniugi, oppure da ambedue i coniugi od anche da un terzo.

Nel caso sia posto in essere da entrambi i coniugi, risulta essere necessaria la formalità della convenzione per atto pubblico ricevuto dal notaio in presenza di due testimoni, mentre non è possibile, come si evince dall’art. 171 c.c., costi-tuire il fondo patrimoniale mediante testamento da parte di un solo coniuge.

Qualora il conferimento nel fondo provenga da un terzo, ci si può avvalere di un atto tra vivi in cui risulterà necessaria l’espressa dichiarazione di accet-tazione dell’atto dispositivo da parte di entrambi i coniugi; il terzo potrebbe ricorrere al testamento, anche se buona parte della dottrina considera quest’ul-tima ipotesi un mero caso di scuola.

Sul punto vorrei soffermarmi su una curiosità: ci si è chiesti se “terzo” pos-sa essere considerato anche un figlio dei coniugi, il quale, ovviamente, non può essere ritenuto un vero e proprio estraneo rispetto alla famiglia. A questo proposito, risposta affermativa è stata fornita da uno studio del Consiglio na-zionale del notariato (nel quesito n. 119 dell’11 aprile 2008), il quale ha am-messo che anche un figlio dei coniugi possa essere considerato terzo, con le conseguenze applicative già esposte.

Per la costituzione del fondo è condizione necessaria ed imprescindibile che i coniugi siano sposati, anche se l’istituto potrebbe essere formato in vista di un matrimonio futuro, pur se, in tal caso, l’atto costitutivo sarà condizionato e subordinato all’evento dell’effettiva celebrazione del matrimonio.

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Soffermandoci, ora, sulla natura giuridica del fondo patrimoniale in sé con-siderato (quindi non badando al contenuto dell’atto costitutivo), occorre tenere presente, innanzitutto, che il fondo non costituisce un regime coniugale gene-rale, perché non riguarda mai tutti, ma solo alcuni beni, e, quindi, si innesta necessariamente su un regime di comunione – legale o convenzionale – oppu-re di separazione dei beni.

Ecco perché l’istituto del fondo patrimoniale non può che essere considera-to un patrimonio separato, un patrimonio di destinazione, ove la specifica de-stinazione è proprio quella di far fronte ai bisogni della famiglia; quindi, la ca-ratteristica saliente del fondo è proprio quella di consentire che sugli specifici beni conferiti nel fondo sia impresso il c.d. vincolo di destinazione, consisten-te, come detto, nella destinazione al soddisfacimento dei bisogni della fami-glia.

L’ovvia conseguenza è che solo taluni creditori potranno accampare prete-se di natura creditoria su tali beni; con più precisione solo quelli che siano di-venuti tali a seguito di un’obbligazione contratta nell’interesse della famiglia.

Il menzionato principio è stato ribadito in numerose sentenze, tra cui men-ziono – tra le tante – la Cass. civ., sez. V, 6 giugno 2002, n. 8162.

Il carattere separato del patrimonio costituito in fondo patrimoniale si e-strinseca e manifesta in due differenti vincoli, con più precisione quelli del-l’inalienabilità e dell’indisponibilità, consacrati l’uno e l’altro, rispettivamen-te, negli artt. 169 e 170 c.c.

Giunti a questo punto, possiamo domandarci quali siano le conseguenze del vincolo di destinazione apposto su determinati beni (ossia, quelli rientranti nel fondo patrimoniale).

In primo luogo, l’obbligo gravante sui coniugi di utilizzare i beni – e così pure i relativi frutti – solo ed esclusivamente per i bisogni della famiglia con il divieto di distrarli dallo scopo al quale sono stati destinati con l’apposizione del vincolo; in secondo luogo, la limitazione al soddisfacimento dei creditori che si possono rivalere sui beni facenti parte del fondo patrimoniale e sui loro frutti solo se non conoscevano che il credito era stato contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia.

Per comprendere appieno il carattere sostanziale del fondo patrimoniale, possiamo porci ancora un’altra domanda, ossia quale sia – o dovrebbe essere – la funzione di questo istituto.

Una funzione sempre presente è la funzione c.d. destinatoria, da cui conse-gue che la sola esistenza del fondo patrimoniale comporti un mutamento della condizione giuridica dei beni sui quali è stato impresso il vincolo di destina-zione.

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A fianco di questa prima funzione, se ne può ravvisare un’altra, seppur e-ventuale, costituita dal c.d. effetto traslativo, individuabile sulla base dell’art. 168 c.c. per cui la proprietà dei beni del fondo spetta ad entrambi i coniugi, salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di costituzione. Pertanto, la legge configura l’effetto traslativo in capo ad entrambi i coniugi quale effetto natu-rale del fondo, qualora nulla di differente sia indicato nell’atto costitutivo.

Essendo noto che l’atto con cui si costituisce il fondo patrimoniale lasci ampio spazio all’autonomia negoziale delle parti, nella realtà questi aspetti (compreso questo di cui stiamo parlando) potrebbero essere variamente mo-dellati e variegati alle esigenze della singola fattispecie concreta e se non di-versamente disposto l’effetto naturale sarà quello traslativo interessante en-trambi i coniugi costituenti il fondo patrimoniale.

Quindi, nella realtà, vista l’ampia autonomia privata di cui godono le parti, sarebbe opportuno regolare espressamente e con particolare dovizia ed atten-zione anche quest’aspetto assieme a molti altri per configurare un fondo pa-trimoniale idoneo e modellato sulle particolarità di ogni singolo caso concreto.

Esaminando, ora, quale sia la natura giuridica dell’atto costitutivo del fon-do patrimoniale, occorre precisare che trattasi di un atto avente carattere nego-ziale, definibile quale atto di liberalità o a titolo gratuito anche qualora sia po-sto in essere dagli stessi coniugi, così come ben statuito in una serie di senten-ze tra le quali, a solo titolo paradigmatico, menziono: Cass. civ., sez. III, sent. del 17 gennaio 2007, n. 966; Cass. civ., sent. 18 ottobre 2011, n. 21492; Cass. civ., sent. 7 ottobre 2008, n. 24757; Cass. civ., sez. VI, 3, ord. 12 dicembre 2012, n. 22878.

L’atto è di liberalità o a titolo gratuito anche qualora provenga da entrambi i coniugi mancando, pertanto, la corrispondente attribuzione in favore dei di-sponenti; anche quando non integra l’adempimento di un dovere giuridico, at-teso che non è obbligatorio per legge. Ne consegue che ai fini dell’esperimen-to dell’azione revocatoria, il fondo può essere dichiarato inefficace nei con-fronti del creditore, risultando essere necessarie e sufficienti le condizioni molto più blande previste dall’art. 2901, n. 1, c.c.

Continuando nell’analisi del profilo sostanziale del fondo patrimoniale, vorrei evidenziare che il detto istituto necessita di uno specifico regime pub-blicitario del vincolo di destinazione o dell’effetto destinatorio, anzi, a dire il vero, nella realtà, sussistono due differenti forme di pubblicità, le quali vengo-no definite – da autorevole dottrina – come del “doppio binario” o del “siste-ma binario”.

La prima formalità pubblicitaria consiste nell’annotazione da porre a mar-gine dell’atto di matrimonio, onere imposto dall’art. 162, comma 4, c.c. L’ef-fetto è quello di rendere il vincolo opponibile ai terzi e, quindi, l’efficacia di

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questo tipo di regime pubblicitario è di tipo dichiarativo. Non è così, invece, per il secondo regime di pubblicità previsto per gli im-

mobili; in questo caso, infatti, occorre la trascrizione del vincolo sui pubblici registri immobiliari, onere a carico dei coniugi, così come richiesto dall’art. 2647 c.c.

L’efficacia, in questo caso, è degradata rispetto alla precedente ipotesi, in quanto opera solamente ai fini di mera pubblicità notizia, risultando, di conse-guenza, del tutto inidonea ad assicurare l’opponibilità ai terzi.

La seconda formalità pubblicitaria menzionata, pertanto, non può mai sosti-tuire, né sopperire al difetto di annotazione nei registri dello stato civile. Que-sto importante principio è stato consacrato in numerosissime sentenze, tra cui pare interessante menzionare l’interessamento anche delle SS.UU. della Su-prema Corte – con la sent. 13 ottobre 2009, n. 21658 – la quale pur in assenza di un contrasto giurisprudenziale sul punto ha, comunque, inteso voler dare chiarezza e certezza sul tema.

La conseguenza è che in mancanza di annotazione del fondo patrimoniale a margine dell’atto di matrimonio, l’istituto non è opponibile ai creditori che ab-biano iscritto ipoteca sui beni del fondo patrimoniale essendo del tutto irrile-vante la trascrizione nei registri della conservatoria dei beni immobili.

Illustrati i più salienti profili sostanziali dell’istituto, che ne rivelano la po-tenziale utilità in sede pratica, vorrei ora proseguire tentando di fornire rispo-sta al quesito posto all’inizio della relazione, ossia se ad oltre quarantadue an-ni dalla sua introduzione nell’ordinamento nazionale, esso debba essere visto come un contenitore vuoto, privo in gran parte della sua utilità quale effettivo schermo protettivo del patrimonio della famiglia o mantenga, invece, attualità e profittabilità concrete?

Per dare compiuta risposta al quesito posto, risulta necessario esaminare al-cuni aspetti patologici della fattispecie.

Come detto, il fondo patrimoniale presenta moltissimi caratteri positivi sia nella fase di costituzione che in quella della sua gestione: è uno strumento snello, flessibile, facile da costituire, duttile e tendenzialmente modellabile al-le specifiche esigenze del caso concreto, economico, apparentemente idoneo a proteggere quel substrato patrimoniale minimo di patrimoni, anche non impo-nenti, tra i quali quelli di talune categorie professionali particolarmente espo-ste ai rischi derivanti dall’attività lavorativa, quali: imprenditori, amministra-tori, dirigenti e professionisti, agevolando la diligente amministrazione, oltre che la tutela, del patrimonio domestico dalle eventuali azioni del creditori an-che ai fini della sua trasmissione alle generazioni future.

Sul punto, però, la magistratura si sta rivelando sempre più prudente e so-spettosa in quanto si è vista costretta a dover constatare ripetutamente come

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l’istituto risulti essere oggetto di un uso distorto, scorretto e strumentale, con l’intendimento di sottrarlo alla sua funzione tipica di natura solidaristica in quanto non rivolto all’effettivo perseguimento del benessere familiare, in for-ma positiva e propositiva, bensì adottato solo per tentare di limitare ed eludere la responsabilità patrimoniale.

Del resto un’analisi – anche soltanto sommaria – delle numerose pronunce sul tema ha fatto rilevare come nei casi giunti al vaglio della magistratura (ove gran parte dei fondi patrimoniali erano stati costituiti in epoca ben successiva al sorgere del credito) sia emerso – sia per il passato che per la data attuale – un prevalente utilizzo dell’’istituto in frode ai creditori, con la finalità stru-mentale di voler sottrarre determinati cespiti chiaramente “individuati” alla generica garanzia del ceto creditorio, e, talvolta ed in occasioni specifiche, an-che all’apprensione da parte della curatela fallimentare, tanto che la preoccu-pazione dei giudici è proprio rivolta a stroncare il tentativo dei coniugi di sot-trarre il proprio patrimonio alla garanzia patrimoniale generica dei creditori, prevista all’art. 2740 c.c.

Per tali motivazioni, si stanno consolidando – seppur in modo ancora ondi-vago e variamente modulato nei diversi ambiti territoriali e temporali – sem-pre più numerosi orientamenti restrittivi, volti a tentare di fronteggiare la vera e propria degenerazione dell’istituto e per arginare il suo uso fraudolento e di-storto, tentando di ripristinare la giusta dignità giuridica del diritto di credito e, conseguentemente, a maggior tutela delle ragioni creditorie.

Per le esposte criticità, mi sono posta e vorrei, in questa sede, condividere con Voi la domanda se oggi il fondo patrimoniale possa essere definito stru-mento evergreen o risulti ormai essere degradato ad un contenitore privo di so-stanza e contenuto nella pianificazione e protezione del patrimonio familiare.

L’incertezza segnalata è, per così dire, oscillante perché, soprattutto di re-cente, a distanza di pochi mesi, mi trovo a dover leggere sentenze riportanti un fermo indirizzo interpretativo che, in taluni casi mi convincono a pensare che trattasi di un istituto ancora valido, consigliabile ed utilizzabile ed altre volte, invece, no.

Sul punto, mi pare interessante oltre che attuale, far riferimento all’ultimo orientamento emerso – a quanto consta in modo univoco – da una serie di pro-nunce della Corte di cassazione, con più precisione: Cass. civ., sez. VI-5, ord. 5 maggio 2017, n. 10975; Cass. civ., sez. V trib., sent. 22 febbraio 2017, n. 4593; Cass. civ., sez. V, sent. 14 ottobre 2016, n. 20799 , che – a mio giudizio – hanno fornito una risposta perlomeno parzialmente affermativa al quesito che mi sono posta.

I provvedimenti che vi ho segnalato si fondano essenzialmente sui seguenti principi: in primo luogo, ai sensi dell’art. 170 c.c., occorre guardare al concet-

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to cardine e fondamentale fondato sui bisogni della famiglia; nel menzionato art. 170, i detti sono espressi con una formula in negativo, secondo la quale l’esecuzione sui beni e sui frutti del fondo non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia.

È chiaro che la disposizione non indica quando il creditore possa agire sui beni del fondo patrimoniale, ma precisa, invece, quando non possa; ragion per cui fuori dei casi espressamente indicati, egli può – e può sempre – agire e soddisfarsi.

In sostanza, per capire il limitato vincolo di inespropriabilità che viene ga-rantito dal fondo patrimoniale, si può guardare a due diversi fattori, non alter-nativi, ma che devono convivere e, quindi, che coesistono contemporaneamen-te; uno è di tipo oggettivo: trattasi dell’estraneità dell’obbligazione ai bisogni della famiglia, indipendentemente dal fatto che il vincolo sia stato contratto da entrambi i coniugi oppure soltanto da uno solo di essi.

In questo caso, voglio far osservare che l’onere di comprovare la sussisten-za della preclusione grava sempre su chi intenda avvalersene, così come chia-ramente statuito nelle sentenze della corte di cassazione summenzionate.

Ne consegue che nei casi dubbi e non provati l’azione esecutiva non è asso-lutamente preclusa al creditore.

Il secondo punto a cui occorre guardare è, invece, di tipo soggettivo e con-siste nella conoscenza e consapevolezza in capo al creditore della situazione di estraneità.

L’onus probandi in ordine alla dimostrazione che il creditore conosceva che l’obbligazione era stata contratta per finalità estranee alle esigenze della famiglia incombe sempre sui coniugi e le prove sono fornibili anche con l’uti-lizzo di presunzioni semplici o con il ricorso a criteri logici e di comune espe-rienza.

Dopo aver analizzato l’argomento “bisogni della famiglia”, vorrei passare all’esame della finalità del debito contratto (ossia di mezzo per soddisfare i bi-sogni della famiglia sulla base della nozione che è fornita dall’art. 167 c.c., o, al contrario, per una funzione differente) per capire quando sia possibile ga-rantire l’inespropriabilità, la non apposizione di ipoteca e le azioni esecutive di varia natura.

Per dare compiuta risposta al quesito risulta essere fondamentale individua-re con esattezza il significato della nozione di famiglia, ove la dottrina tende a ricomprendervi: i coniugi, i figli legittimi, legittimati ed adottivi, mentre ne sarebbero esclusi i figli naturali, ad eccezione di quelli conviventi con la fami-glia legittima del genitore.

Per quanto riguarda la famiglia di fatto, mi pare opportuno sottolineare che

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la dottrina afferma, in via generale, l’inestensibilità in via analogica dell’isti-tuto, mentre parte autorevole della dottrina ritiene che la costituzione di fondo patrimoniale sia senz’altro ammissibile anche in sede di separazione personale dei coniugi, anche se ci possono essere evidenti ragioni di opportunità che tenderebbero a sconsigliarla in quanto l’amministrazione spetterebbe, comun-que, ad entrambi e quindi, a volte, potrebbe mal conciliarsi con una situazione di conflitto coniugale.

Passiamo, adesso, ad esaminare l’altro concetto fondamentale rappresenta-to dai bisogni della famiglia. Quali sono i criteri di identificazione di tale con-cetto?

Anche qui ci fornisce ausilio, in primo luogo, la dottrina, la quale – pur con una lettura dal significato piuttosto restrittivo, confinandola solo alle esigenze connesse con il manage domestico familiare – vi annovera: le esigenze comu-ni a tutti i membri della famiglia, ad esempio l’abitazione, ma anche per quelli che sono volti a soddisfare solo esigenze di un suo componente, pensiamo all’istruzione o al mantenimento dei figli, purché siano sorte dopo la celebra-zione del matrimonio.

Quindi, in via generale, si ritiene che il fondo patrimoniale risponda anche delle spese e delle obbligazioni sorte per rendere produttivi, per incrementare, e/o per migliorare, i beni appartenenti al fondo patrimoniale, in quanto tali spese – anche se in via indiretta – sono funzionalizzate al soddisfacimento di bisogni familiari in quanto volte ad accrescere il reddito destinato a tale scopo.

Ne resterebbero, invece, sempre escluse le esigenze ritenute socialmente immeritevoli di tutela, quelle sorte prima della celebrazione del matrimonio e quelle che consistono nella gestione e nell’incremento del patrimonio persona-le di ciascun membro del gruppo.

Per poter stabilire la natura del debito – estraneo o meno ai bisogni della famiglia – occorre far riferimento ad un concetto fondamentale che ci offre la giurisprudenza il quale è ben evidenziato nelle più recenti sentenze della cas-sazione intervenute in materia, come più sopra segnalate, ove è sottolineato a chiare lettere che per sapere quale sia la natura del debito, non bisogna guarda-re solo alla natura delle obbligazioni, ma occorre spingersi oltre esaminando quale sia la relazione esistente tra gli scopi per cui i debiti sono stati contratti ed i bisogni della famiglia.

La conseguenza è che l’esecuzione potrà aver luogo qualora la fonte e la ra-gione del rapporto obbligatorio abbiano inerenza diretta ed immediata con i bi-sogni della famiglia, per cui vi rientra: ogni debito diretto a soddisfare esigenze volte al pieno mantenimento e all’armonico sviluppo della famiglia; nonché al potenziamento della sua capacità lavorativa, restando escluse solo le esigenze di natura voluttuaria e caratterizzate da intenti meramente speculativi.

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La lettura delle più recenti e rilevanti pronunce della Corte di Cassazione conduce ad evidenziare che, in sostanza, non si possono avere delle regole ge-nerali sempre e comunque adottabili ed applicabili in modo acritico per ogni caso specifico della realtà. Risulta, invece, essere necessario (e questo è sicu-ramente un grandissimo sforzo ed impegno che è richiesto alle corti di merito) dover valutare, caso per caso, ogni singola ipotesi specifica, non tralasciando l’impatto di vari elementi quali: la genesi dell’istituto, la funzionalità del fon-do patrimoniale nel momento in cui lo stesso viene attaccato e su cui si eserci-tano le azioni di espropriazione e di esecuzione; la preesistenza o meno della/e posizioni debitorie al momento della sua costituzione, ecc., così come pare enucleabile dagli ultimi orientamenti espressi dalla Suprema Corte, che io per-sonalmente condivido pienamente, di mettere sempre e comunque sui due piatti della bilancia le contrapposte esigenze che vengono coinvolte nei con-tenziosi aventi ad oggetto l’aggredibilità del fondo patrimoniale: da un lato la tutela di un ceto creditorio che non deve essere visto come il solo ed unico in-teresse a cui occorre guardare quando si prendono in considerazione i singoli casi specifici, nel merito; sarebbe, infatti, opportuno tentare di controbilancia-re e, quindi, porre sull’altro piatto della bilancia la contrapposta esigenza, quella della garanzia e tutela del patrimonio della famiglia, ricordando che il fondo patrimoniale è un istituto che il nostro legislatore ha voluto apposita-mente creare, istituire, porre in essere, con snellezza e semplicità proprio per poter tutelare anche le generazioni future.

In chiusura, non posso non sottolineare che buona parte dei casi pratici og-getto di analisi da parte della cassazione nelle recenti sentenze di fine 2016 ed inizio 2017 già menzionate sono giunte all’attenzione della giurisprudenza di legittimità a seguito dell’impugnazione dell’interessato/i all’iscrizione di ipo-teca legale effettuata dal concessionario della riscossione, Equitalia. La Su-prema Corte ha, perlopiù, rinviato la disamina della questione alle corti di me-rito al fine di rendere possibile l’applicazione dei principi di legittimità statuiti – che ritengo condivisibili – in quanto cercano proprio di controbilanciare i contrapposti interessi coinvolgenti le diverse questioni inerenti il fondo patri-moniale che non devono mai essere persi di vista, perché a fianco della prima-ria e fondamentale finalità di tutela dei creditori potrebbe, nel singolo caso concreto, essere presente la necessità di dover tutelare il patrimonio familiare che, certamente, nelle ipotesi di regolarità e legittimità, merita, comunque, ogni forma di attenzione e tutela.

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Il trust e il vincolo di destinazione Maurizio Cavanna

1. – Quando si parla del trust, ci si riferisce a un istituto nato non nel nostro ordinamento, ma nel nostro ordinamento importato da una legge (la n. 346/1989), attuativa della convenzione internazionale dell’Aja del giorno 1° luglio 1985, che forse nell’intenzione del legislatore doveva essere una vera e propria legge di diritto internazionale privato, una legge cioè che aveva lo scopo di far riconoscere all’ordinamento che lo ignorasse l’istituto del trust, allorché emergessero elementi di collegamento con un ordinamento estraneo che invece prevedesse questo stesso istituto: ad esempio, allorché ad essere vincolato in trust, in ipotesi con apposita disposizione testamentaria predispo-sta in un Paese che conosce il trust, fosse un bene immobile sito in Italia, Pae-se che invece non conosce tale istituto.

A livello dottrinale, prima, e poi anche nelle sentenze dei giudici e nella at-tuazione pratica degli atti notarli, si è sviluppato inizialmente un doppio filone interpretativo. Un primo orientamento era del tutto sfavorevole a riconoscere l’ammissibilità del trust cosiddetto “interno”, italiano a trecentosessanta gradi e quindi privo di elementi riferibili a ordinamenti stranieri nei quali invece il trust era previsto e regolato. Si riteneva che la legge n. 346/1989, legge di di-ritto internazionale, come tale avrebbe dovuto essere interpretata: pertanto si ritenevano riconoscibili dal nostro ordinamento i soli trusts nei quali fosse emerso qualche elemento di estraneità (così ad esempio la nazionalità del di-sponente o dei beneficiari, piuttosto che la collocazione dei beni vincolati).

Parallelamente si è fatta strada e si può ritenere oggi prevalente l’orienta-mento opposto, che prendendo sì lo spunto dalla legge del 1989, ha in realtà riconsiderato l’intera materia sul presupposto che, se il nostro ordinamento ri-conosce il trust disposto da un soggetto straniero, o comunque caratterizzato da un elemento di estraneità, non si vede perché lo stesso non possa fare un soggetto italiano che dispone di un bene posto in territorio italiano. Gli argo-menti a sostegno di questa tesi estensiva sono complessi, ma principalmente riconducibili alla valutazione della non assoluta estraneità del nostro sistema giuridico rispetto a meccanismi riconducibili al vincolo di destinazione espres-so dal trust.

Il riferimento va in primo luogo individuato nel fondo patrimoniale che in materia di diritto di famiglia si ritiene rappresenti una forma “autoctona” di adattamento dell’istituto in discorso. Ma anche l’autonomia patrimoniale pie-

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na che caratterizza le società di capitali, attenuata (imperfetta) nel caso di so-cietà di persone, avrebbe rappresentato un riferimento italiano cui appoggiare l’estensione al trust c.d. “interno”. Per restare all’ambito del diritto commer-ciale, lo stesso concetto di azienda esprimerebbe un vincolo di destinazione, quello imposto appunto sui beni aziendali dall’imprenditore e per questo ver-rebbe a rappresentare un ulteriore referente “interno” per l’istituto straniero. E ancora, con riguardo alla disciplina dei fondi comuni di investimento, alcuni sostengono che il meccanismo del deposito degli strumenti finanziari costituiti in fondo presso la banca depositaria altro non rappresenterebbe che una ver-sione riveduta e corretta, e soprattutto adattata al nostro ordinamento, dell’isti-tuto di origine anglosassone: qui in particolare più che individuarsi una auto-noma imputazione di rapporti, si creavano i presupposti per mantenere mate-rialmente distinte, da una parte la titolarità dei beni della società di gestione, dall’altra i valori mobiliari gestiti.

Come dicevo questo secondo orientamento appare oggi prevalente, con conseguente legittimazione ad istituire figure di trust interno.

2. – La struttura essenziale del trust è nota: si individua in primo luogo un

soggetto che dispone la costituzione di questo vincolo su determinati beni, attra-verso il trasferimento di questi ultimi al soggetto destinato ad assumerne la ge-stione, il cosiddetto trustee, poi deve indicare il soggetto beneficiario di tale ge-stione; il costituente e il trustee possono coincidere nella stessa persona nel caso del c.d. trust auto-dichiarato (e qui il discorso si sposta su temi di diritto tributa-rio, anche alla luce della posizione piuttosto restrittiva assunta dalla nostra giuri-sprudenza); la figura del beneficiario di regola è imprescindibile, ma può manca-re nel caso particolare del trust “di scopo”, nel quale ci si propone, più che di av-vantaggiare un dato soggetto, di perseguire un determinato obiettivo.

Tornando al modello di riferimento di questo istituto, come esiste un sog-getto destinatario dei vantaggi dell’attività di gestione del trustee, così esiste anche la figura del garante deputato a vigilare sull’attività del trustee.

Un modello che non pare poi così lontano – per chi ragiona in chiave tradi-zionale – da quello cha caratterizza l’organizzazione e la governance delle so-cietà di capitali (soggetti che amministrano, soggetti che controllano e soggetti che in qualche misura beneficiano dell’attività dei primi). Proprio da questa comunanza di modelli ha tratto principale argomento la tesi che, come si dice-va, ha inteso estendere al diritto italiano la possibilità di applicare la disciplina del trust.

3. – Il punto nodale, che ci consente di ragionare poi anche sul vincolo di

destinazione dell’art. 2645-ter c.c. è come poi questo vincolo, che si può im-

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porre a beni allo scopo di determinare un limite alla loro circolazione (e se-gnatamente alla aggressione dei creditori), sia armonizzabile con gli altri prin-cipi del nostro ordinamento, questo è veramente il punto centrale della rifles-sione, da cui muovere per valutare se lo stesso istituto del trust sia o meno strumento idoneo di tutela del patrimonio familiare – che è il tema di questo incontro di studi.

Il discorso è estremamente articolato perché bisogna tener conto di un aspetto fondamentale. Se è vero, infatti, che si ritiene ammissibile la istituzio-ne di un trust interno, è altrettanto vero che non disponiamo di una legge in-terna, italiana, che lo regolamenti: e cioè proprio partendo dalla formulazione della legge n. 346/1989, che come detto ha riconosciuto la figura del trust nel nostro ordinamento, va detto che almeno un elemento di estraneità nel trust interno sussiste in ogni caso, e consiste proprio nella legge straniera destinata a reggere il trust che deve essere scelta nel relativo atto istitutivo.

Le diverse legislazioni straniere disciplinano l’istituto in modo anche estremamente differenziato (un esempio su tutti, la durata del trust: alcuni or-dinamenti ne stabiliscono una, senza indicare una comune scadenza ma diffe-renziando il numero massimo degli anni di durata e sancendo la nullità del trust a tempo indeterminato; altri invece ammettono proprio una durata inde-terminata).

4. – Un aspetto su cui riflettere è che quando ragioniamo della introduzione

del trust nel nostro ordinamento dobbiamo partire dal presupposto che non esiste un unico trust, ma diverse figure, e il loro adattamento al nostro sistema muove proprio dalla legislazione che andremo a scegliere: scelta che quindi appare tutt’altro che neutra. In questa sede si possono svolgere considerazioni generali su alcuni profili che appaiono comuni ai diversi modelli di trust, tenu-to conto di queste specificità.

Un primo fondamentale aspetto è l’opponibilità ai terzi del vincolo, e ci si è chiesti se sia possibile realizzare tale obiettivo attraverso lo strumento della pubblicità giuridica. Si tratta di un tema estremamente dibattuto a livello dot-trinale e giurisprudenziale, nel cui ambito in tempi più recenti si è data una so-luzione favorevole al quesito proposto. Invero, seguendo l’impostazione tradi-zionale, si sarebbe forse dovuto dare una risposta di segno opposto, quindi ne-gativa, partendo dalla considerazione che soltanto strumenti negoziali tipici e puntualmente previsti dal legislatore avrebbero potuto essere oggetto di tra-scrizione immobiliare o iscrizione al registro delle imprese. Ragionando sulla trascrizione immobiliare per esempio, l’obiezione al menzionato argomento tradizionale è stata che tipici sono gli effetti della trascrizione, non gli stru-menti negoziali che producono tali effetti. Ecco allora che, in questa prospetti-

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va, si è ritenuta ammissibile la pubblicità nei registri immobiliari dell’istitu-zione del trust, segnalando nel pubblico registro il passaggio di titolarità dell’immobile da costituente al gestore fiduciario. Si tratta di un meccanismo attuativo che è diverso da quello prefigurato dagli ordinamenti di riferimento, per i quali tipicamente non si realizza un vero e proprio passaggio del diritto di proprietà, dal momento che solo alcune facoltà, compendianti il diritto domi-nicale sono trasferite al trustee. Il nostro sistema, che non conosce analoga frazionabilità dei diritti proprietari se non nei casi tipicamente previsti da leg-ge (usufrutto, abitazione, uso, superfice), richiede pertanto un adattamento, che si realizza proprio configurando il passaggio di proprietà dal disponente al soggetto destinato poi a gestire il bene. In tale contesto è poi possibile segnala-re con effetto di mera pubblicità notizia tutte le varie parti dell’atto, cioè tutti gli altri elementi rilevanti del trust, non ultimo l’esistenza di un controllore e l’individuazione dei soggetti beneficiari (i quali quindi non divengono, alme-no immediatamente, titolari di beni o diritti vincolati). Questa è una possibile chiave di lettura: altri invece in ultima istanza avevano ritenuto che la proprie-tà passasse ai beneficiari o piuttosto allo stesso trust (che pure non ha persona-lità giuridica) e non al trustee; è probabilmente più lineare la prima soluzione, se vogliamo di ricondurre la fattispecie all’affidamento fiduciario conosciuto dal nostro ordinamento.

Altro aspetto discusso attiene la possibilità di surrogare il vincolo del trust quando il bene venga alienato – ad esempio, costituisco in trust un dato bene immobile, poi lo vendo: si pone il problema se il vincolo rimane impresso sul-la somma incassata a titolo di prezzo. La chiave di lettura va tratta dalla legge straniera adottata: la regola è che si verifichi la c.d. surrogazione reale, che consiste nell’immediata e automatica sostituzione del bene alienato con il suo corrispettivo (a dispetto della sua eventuale natura di bene fungibile) e di quest’ultimo con il bene che venga grazie ad esso successivamente acquistato, senza che venga mai a cessare l’effetto della separazione patrimoniale connes-so all’esistenza del trust. Il punto merita di essere affrontato e risolto al mo-mento della concreta regolamentazione pattizia del trust, sempre tenendo in considerazione delle specificità della legge straniera richiamata.

Estremamente delicato è lo studio delle possibili “reazioni” al trust di de-terminate norme imperative tradizionalmente inserite nel nostro ordinamento. Si pensi ad esempio alla disciplina della riserva ai legittimari nel diritto delle successioni, o al principio di responsabilità patrimoniale. Quale che sia la ma-trice estera dell’istituto e il suo grado di flessibilità nel contemperare gli inte-ressi contrapposti, il trust certo non può divenire neutro strumento di elusione di quei principi e di quelle regole inderogabili interne.

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5. – In questo contesto, il nostro legislatore introduce (con il d.l. 30 dicem-bre 2005, n. 273 c.d. decreto milleproroghe, che è stato definito una sorta di “blitz”) l’art. 2645-ter nel tessuto del codice civile. La norma consente la tra-scrivibilità di atti pubblici con cui beni immobili o beni mobili registrati sono "destinati" alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche. Prevede inoltre: a) limiti massimi di durata della destinazione; b) l’indicazione dei soggetti che possono agire per la realizzazione degli interessi; c) limiti e condizioni di espropriabilità dei beni destinati e dei relativi frutti.

Si tratta di un istituto che, secondo parte della dottrina, ha le fattezze di un trust autodichiarato perché è un vincolo di destinazione posto dal titolare su uno o più propri beni, che saranno poi da lui gestiti al fine di perseguire lo scopo ivi prefigurato. La nuova figura avrebbe quindi definitivamente segnato l’accoglimento del trust nel nostro ordinamento, sancendone la sicura compa-tibilità.

Altri invece, pur non negando che nella figura introdotta dall’art. 2645-ter c.c. possono rinvenirsi taluni caratteri propri del trust, sottolineano piuttosto le differenze, segnatamente in riferimento alle regole che governano la “dinami-ca” del trust e, tra queste, quelle relative all’attività del trustee. La norma in-terna, si è detto, disciplina “l’inizio” e la “fine” della destinazione dei beni ma non ciò che accade (o dovrebbe accadere) “durante” la gestione. Va poi detto che un raffronto con il negozio di destinazione andrebbe poi condotto non con un modello astratto di trust, bensì analiticamente con i diversi modelli concre-tamente previsti dagli ordinamenti che hanno legiferato in tema di trust.

6. – Merita anzitutto sottolineare che se il nostro legislatore ha previsto

come struttura normale del vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. la for-ma della autodichiarazione (come del resto può avvenire nel fondo patrimo-niale), la giurisprudenza tributaria della Suprema Corte di Cassazione ha inve-ce recentemente sconfessato il modello del trust autodichiarato: evidentemente il legislatore e l’elaborazione giurisprudenziale sul punto non viaggiano di pari passo.

Ci si pone il problema di quali rapporti vengano a delinearsi tra la figura in-trodotta dall’art. 2645-ter c.c. e l’istituto del trust, e correttamente si ritiene che la risposta a tale interrogativo dipenda dalla lettura che si intende dare alla posi-zione che si ritiene di assumere nei confronti della Convenzione de L’Aja, come ratificata dalla legge n. 346. Se si segue la tesi, da ritenere oggi minoritaria, si dovrebbe sostenere che la Convenzione continui a legittimare solo i trust c.d. stranieri. Ci si chiede allora se, ove caratterizzata da elementi di estraneità, il vincolo dell’art. 2645-ter c.c. debba ricondursi all’ampia nozione di trust previ-

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sta dall’art. 2 della Convenzione stessa (modellata non sulla nozione tradiziona-le di trust ma più ampia, perché volta al consentire il riconoscimento di figure proprie di ordinamenti di civil law non esattamente corrispondenti al trust tradi-zionalmente inteso) Pertanto l’utilizzazione dell’art. 2645-ter potrebbe costituire un’alternativa al trust vero e proprio, onde un soggetto che intendesse istituire un trust potrebbe indirizzare la propria scelta, secondo quanto previsto dalla Convenzione, sull’art. 2645-ter c.c. italiano quale legge regolatrice. Si obietta che l’utilizzo dell’articolo ora citato quale legge regolatrice del trust solleva di-verse perplessità, perché esso tralascia di disciplinare una serie di aspetti richie-sti dalla Convenzione ratificata (i poteri e i doveri del gestore, le regole che pre-siedono all’accantonamento degli introiti della stessa gestione, i rapporti tra ge-store e beneficiari e la responsabilità del primo verso i secondi, la cessazione del vincolo). In presenza di elementi di estraneità, si può dunque sostenere che il disponente, che opti per l’art. 2645-ter c.c. non sta istituendo un trust ai sensi della Convenzione dell’Aja. Sempre seguendo la tesi restrittiva (e minoritaria) in difetto di elementi di collegamento con un ordinamento straniero, l’unico vincolo di destinazione ammesso sarebbe quello dell’art. 2645-ter c.c., nell’im-possibilità di istituire un vero e proprio trust.

Se si predilige invece l’opposta soluzione, secondo cui si dice ammissibile anche il trust interno, in assenza di elementi di estraneità si apre una duplice alternativa: dar vita ad un negozio di destinazione regolato dal diritto straniero (il trust) ovvero dal diritto italiano (il negozio di destinazione ex art. 2645-ter c.c.), fermi restando gli elementi di differenza tra le due figure.

7. – In questa prospettiva l’introduzione dell’art. 2645-ter c.c. fa sorgere al-

tri dubbi. Ad esempio se i requisiti formali che pone la disposizione del codice civile, vale a dire la forma pubblica dell’atto istitutivo e la durata massima (novant’anni anni o la vita della persona fisica beneficiaria) debbano necessa-riamente assistere un trust che abbia ad oggetto i beni indicati dalla stessa norma. Ci si potrebbe chiedere ad esempio se si tratta di requisiti necessari so-lo ai fini della trascrizione, ovvero della validità dell’atto. Se si seguisse la tesi più rigorosa, ciò segnerebbe un notevole allontanamento dalla disciplina della Convenzione, che ritiene sufficiente la forma scritta. Quanto alla durata, meri-ta ricordare che ci sono leggi regolatrici di trust che prevedono durate massi-me compatibili con quella prevista dall’art. 2645-ter c.c., altre leggi ne preve-dono di maggiori o addirittura ammettono un trust senza limite di durata: solo le prime risulterebbero compatibili con la nostra norma interna.

Il punto è se l’art. 2645-ter debba considerarsi norma interna imperativa ai sensi dell’art. 15 della citata Convenzione e quindi come non derogabile da un trust.

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Anche più rilevante parrebbe il limite, contenutistico e non formale, rap-presentato dalla meritevolezza dell’interesse ex art. 1322 c.c., espressamente richiamato dall’art. 2645-ter c.c. Ora, la valorizzazione dell’autonomia priva-ta, preferita dal nostro legislatore, fa sì che manchi una indicazione specifica degli interessi meritevoli legittimanti la costituzione di un patrimonio separa-to. Restando al nostro ordinamento, il generico rinvio all’art. 1322 c.c. lascia aperto il problema di individuare quando l’interesse contemplato dal dispo-nente possa dirsi meritevole, e quindi ad esempio prevalente rispetto all’art. 2740 c.c.

In base a un primo orientamento, solo lo scopo di pubblica utilità caratte-rizzante la destinazione sarebbe idoneo a giustificare la prevalenza sulle istan-ze dei creditori. Un secondo orientamento, pur non equiparando meritevolezza e pubblica utilità ed emancipando quindi l’istituto dall’ambito del c.d. terzo settore, risolve il controllo in una verifica concreta delle finalità della destina-zione: il che sposta il problema su chi possa svolgere tale controllo, e come possa svolgerlo. Un terzo orientamento, più liberale, evita ogni riferimento al-la pubblica utilità: il sacrificio degli interessi dei creditori sarebbe giustificato “a monte” dalla stessa previsione del “vincolo atipico” sancito dalla norma in esame, evocativa del concetto di meritevolezza inteso in senso generico: la meritevolezza dovrebbe dunque essere ricondotta alla liceità, così come si in-terpreta anche l’art. 1322 c.c., nell’ottica della generale osservanza dei principi dell’ordinamento e delle norme imperative inderogabili.

8. – Ora delle due l’una. O si sostiene che la regola di meritevolezza degli

interessi assurga al ruolo di norma inderogabile, estensibile a tutti i vincoli di destinazione previsti dal nostro ordinamento: opzione che forse consentirebbe un’applicazione più sicura del vincolo medesimo, ma che al contempo ne limi-terebbe maggiormente l’ambito di rilevanza. Senza dire che tale generalizza-zione non è propria della Convenzione dell’Aja, che limita a postulare l’in-derogabilità da parte del trust (e della legge per esso richiamata) delle disposi-zioni imperative dello stato in cui l’istituto è “importato”, ma che ben si guar-da dal qualificare in chiave altruistica gli interessi che lo stesso trust può sal-vaguardare. Del resto la necessità di valorizzare la meritevolezza degli interes-si tutelati sembra disattesa ad esempio dalla stessa disciplina interna del fondo patrimoniale, come pure dalle disposizioni del Testo Unico della Finanza in tema di fondo comuni di investimento.

Ovvero, ed è questo il secondo scenario ipotizzabile, si deve circoscrivere il carattere della meritevolezza al più ristretto ambito della norma che lo pre-vede, escludendo che essa assurga a ruolo di norma interna inderogabile. Con la conseguente necessità di vagliare con grande attenzione, e con maggiori dif-

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ficoltà, la compatibilità del trust “d’importazione” con le altre norme indero-gabili e i principi generali del nostro ordinamento. Vaglio che potrebbe anche apparire superfluo, o almeno più semplice da superare, ove risultasse la meri-tevolezza dell’interesse (un caso tratto dalla prassi: quello del fondo patrimo-niale, che cede quando la famiglia si sfalda; il Tribunale di Milano ha omolo-gato un accordo fra coniugi dove la tutela legata al fondo patrimoniale conti-nuava con l’evoluzione del fondo medesimo in trust dopo il divorzio dei co-niugi, valorizzando nella specie l’interesse alla tutela patrimoniale dei figli minori).

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La tutela del patrimonio di famiglia in presenza di minori e incapaci Michela Tamagnone

La materia che, nel settore oggetto del presente intervento, fa capo al giu-dice tutelare, concerne le problematiche di preservare o anche di compiere atti di gestione ordinaria del patrimonio in presenza di soggetti minori o incapaci.

È una materia che forma oggetto di innumerevoli istanze che il Giudice Tu-telare si trova ad esaminare.

Fortunato, in una parola, è chi ha figli e non ha mai a che fare con il giudi-ce tutelare, o chi non ha mai avuto un anziano parente che si è trovato in gravi condizioni di intendere e di volere, perché prima o poi, in numerosissime ipo-tesi, è verosimile che ci si debba approcciare.

Anche nell’ipotesi in cui entrambi i genitori siano viventi, ed a maggior ra-gione se uno solo è vivente, ci sono un diversi atti, elencati nell’art. 320 c.c., per il cui compimento si deve richiedere l’autorizzazione del giudice tutelare. L’art. 320 afferma che i genitori non possono alienare, ipotecare o dare in pe-gno i beni pervenuti al figlio a qualsiasi titolo, anche a causa di morte, né ac-cettare legati o donazioni, o sciogliere comunioni, o effettuare locazioni ultra-novennali, o transigere o promuovere giudizi, ed altro ancora: in buona so-stanza, i genitori non possono compiere alcun atto che ecceda l’ordinaria am-ministrazione, in riferimento ai figli, senza autorizzazione del Giudice Tutela-re. Quindi anche se ad esempio muore una nonna e lascia un’eredità ai nipoti, non si può accettare – sempre peraltro con beneficio di inventario – se non si passa da un giudice tutelare, quindi potrà procedersi solo previa richiesta di entrambi i genitori ed autorizzazione agli stessi. Per accettare generalmente non c’è istruttoria, invece nel caso di rinuncia si richiedono con esattezza quali siano le passività reali poiché delle volte i genitori (dipende anche dallo strato sociale) non approfondiscono troppo. Un’altra ipotesi banale e tuttavia fre-quente di intervento del giudice tutelare si ha nel caso in cui il bambino si fac-cia male a scuola e si faccia causa domandando il risarcimento del danno: an-che qui, sia per la eventuale causa, sia per una eventuale transazione sia per incassare il danaro, occorrerà l’autorizzazione del GT. Le ipotesi di intervento del giudice tutelare, quindi, come ho detto sono frequentissime. Se, poi, si trat-terà di alienare beni ereditari, addirittura non basterà l’autorizzazione del GT, ma occorrerà quella del Tribunale previo parere del Giudice Tutelare.

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Nell’ipotesi, poi, in cui tutti e due i genitori siano deceduti e se il bambino sia sotto tutela, o nel caso in cui un soggetto sia interdetto onde sotto tutela (e con il prolungamento della vita media, l’ipotesi di avere in famiglia un anzia-no che non è più capace di intendere e di volere sta diventando purtroppo sempre più assidua), l’intervento del giudice tutelare è molto più pregnante perché c’è una norma (art. 374) che mette ancor più, per così dire, i bastoni tra le ruote. Molte delle attività che nel caso di genitori viventi debbono essere autorizzate dal giudice tutelare, finiscono con necessitare dell’autorizzazione del Tribunale, previo parere del Giudice Tutelare. Alienare beni, costituire pe-gni, procedere a divisioni, fare compromessi e transazioni, attività che nel caso della presenza dei due genitori prevedono una normativa più “morbida” in cui è sufficiente l’autorizzazione del GT, diversamnte, nel momento in cui c’è il caso del minore sotto tutela o, analogamente, del soggetto interdetto, impon-gono la necessità del previo parere del giudice tutelare e della successiva auto-rizzazione del tribunale. È tutto un impianto normativo che quando si modifi-ca, anche nel senso di incrementare il patrimonio, richiede la vigilanza e l’au-torizzazione del giudice tutelare.

Tutto è più complicato nell’ipotesi di Amministrazione di sostegno, perché mentre per la tutela (dei mionri e degli interdetti) la normativa è rigida e pre-definita, e sono chiaramente elencati gli atti che il tutore può compiere previa autorizzazione del GT o del Tribunale su parere del GT, nell’amministrazione di sostegno si ritaglia il provvedimento sulla base delle necessità del soggetto debole, ed è quindi il Giudice Tutelare che valuta non solo quali atti deve compiere l’Amministratore previa autorizzazione del GT, e quali da solo, ma è lo stesso GT che prevede anche quali atti il Beneficiario dell’Amministrazione può compiere solo “con l’assistenza” dell’Amministratore. Dunque alcuni atti potrebbero essere consentiti allo stesso soggetto amministrato, altri invece vanno compiuti con l’assistenza dell’amministratore di sostegno, ma senza au-torizzazione del giudice, altri ancora con l’amministratore di sostegno che de-ve chiedere l’autorizzazione al giudice tutelare. Le problematiche in questo caso sono numerosissime.

L’aspetto più interessante e difficoltoso è quello che riguarda gli investi-menti dei minori, dei tutelati e dei soggetti in Amministrazione di Sostegno sotto due diversi profili. Per quanto riguarda i minori con i genitori (o almeno uno) viventi si dice che per gli investimenti di beni mobili e dei denari che fanno capo al minori (per eredità o i risarcimenti di danni nel caso di incidenti o altro ancora), occorre fare una istanza al Giudice tutelare su come investire questi denari. La norma non è così specifica in quanto dice che gli investimen-ti vanno fatti “in modo conservativo”.

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Nel caso invece di interdetto o di minore sotto tutela c’è una norma, l’art. 372 c.c., che è durissima e afferma che i capitali del minore sotto tutela o di soggetto interdetto e dunque parimenti sotto tutela devono essere investiti, previa autorizzazione del giudice tutelare, in titoli di Stato o garantiti dallo Stato, acquisti di beni immobili posti dalla Stato, o mutui garantiti da ipoteca su immobili dello Stato. Poi la norma conclude dicendo che il giudice può au-torizzare “per motivi particolari” un investimento diverso da quelli elencati.

Nell’amministrazione di sostegno tra le varie norme questa non c’è proprio, né è richiamata la normativa di cui sopra, diversamente da molte altre norme relative alla tutela che vengono espressamente richiamate. E quindi è capitato di trovare investimenti relativi a Beneficiario di Amministratore di sostegno eccessivamente rischiosi, e tuttavia autorizzati da alcuni GT. Per inciso, at-tualmente c’è molto interesse verso la materia del giudice tutelare: a causa an-che della crisi nei vari settori, moltissimi avvocati e commercialisti si propon-gono per diventare tutori o amministratori di sostegno – per le cui funzioni viene erogato dal GT un “equo compenso” correlato di norma al patrimonio del Beneficiario – poiché ci si è resi conto, facendo una sorta di screening, che i Giudici Tutelari stanno gestendo delle quantità di denaro incredibili. A Tori-no ci sono 12.500 procedure circa e non è difficile pensare che gli anziani con patrimonio che superano il milione di euro sono molti. Pochi giorni fa si è chiuso un mandato di un anziano che possedeva da solo 12 milioni di euro, si possono quindi facilmente immaginare le dimensioni del fenomeno. Natural-mente a fronte di patrimoni significativi viene spesso chiesto di attuare moda-lità di investimento diverse dai Titoli di Stato: in fondo, come ho detto, la nor-ma lo consente, per motivi particolari. A questo punto si aprono due strade.

Nel caso di genitori che domandino investimenti a rischio, non va a mio avviso dimenticato l’obbligo dei genitori di mantenere la prole: non sempre però i genitori sono così disinteressati nei confronti del denaro dei figli. Ci so-no stati dei casi in cui se arriva al nipote un lascito del nonno (che magari ha proprio evitato di lasciare denaro al proprio figlio perché tendeva a dissipare) di un milione di euro in titoli, il genitore richiede di poterli investire in borsa, con modalità aggressive, assumendo di necessitare di forte redditività. Ora: il genitore ha l’obbligo di mantenere il figlio, e il giudice tutelare deve fare in modo che i denari che fanno capo al minore vengano conservati sino alla maggiore età del figlio, poiché il genitore non può mettere rischio il patrimo-nio del minore. Dunque si applicherà il disposto dell’art. 372 c.c. in modo ri-goroso, disponendo l’investimento in Titoli di Stato, o, al più, con modalità comunque prudenti. In caso, per contro, di assoluta necessità della famiglia – documentata ed accertate – potrà al più essere autorizzato lo svincolo di una parte della somma, per investirla appunto a scopo di un rendimento maggiore.

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Nel caso dell’anziano interdetto e quindi sotto tutela, invece, occorrerà ve-rificare qual è il complessivo patrimonio del soggetto incapace: magari ha dei redditi da locazione immobiliare e in questo caso non c’è bisogno di investire i soldi in un modo molto redditizio, ma pericoloso. Occorre fare un bilancia-mento fra le rendite complessive del soggetto interdetto e la sua età, nel senso che un ragazzo interdetto che è giovane, affetto da una patologia ma con una aspettativa di vita di 60/70 anni, è diverso dall’anziano che diventa incapace e ha esigenze diverse, magari più onerose, e per contro una aspettativa di vita inferiore.

Il compito del Giudice Tutelare nel valutare ed autorizzare gli investimenti è quindi di procedere a questa serie di bilanciamenti tra elementi diversi, senza perdere di vista che, sempre e comunque, modalità pur redditizie e tuttavia a rischio debbono essere evitate.

Per quanto riguarda gli investimenti in concreto, i giudici tutelari tendono ad essere non particolarmente rigidi nell’obbligare a investire Bot e Ctt, ma neanche tendono ad ad acconsentire ad investimenti di tipo aggressivo. A fronte di questa rigidità, molte banche hanno offerto investimenti che, hanno sostenuto, sarebbero predisposti “ appositamente” per i soggetti deboli. In par-ticolare un istituto bancario li ha chiamati “investimenti per i tutelati”. Questi investimenti per i tutelati, in realtà, di “tutelato” hanno ben poco, perché an-dando a vedere il regolamento della gestione patrimoniale, si riscontra la pre-visione di investimento anche in strumenti derivati. Qui si apre il fronte della profilatura del rischio, che pone un problema serio. Si supponga che, ad esem-pio, ad una persona anziana arrivi in eredità un patrimonio e l’anziano non avesse soldi investiti in precedenza: quindi si decide di investire questa som-ma. Nel momento in cui occorre profilare, si dovrebbe profilare l’anziano in quanto il patrimonio fa capo a lui, e la normativa del Testo Unico Bancario di-ce che si deve profilare il titolare del patrimonio. L’anziano, però, non può es-sere profilato in quanto non riesce più ad interloquire. In questo caso non ha ovviamente senso profilare il tutore, perché non è il titolare del patrimonio. Qualcuno – mi auguro con un fondo di ironia – ha proposto di “profilare il giudice” ma si pensi all’ipotesi in cui si verifichi poi un default: in giudizio, la banca potrà opporre che la correttezza dell’investimento è stata valutata da un giudice, sicché l’ipotesi di domandare un risarcimento si concreterebbe in una assolta chimera.

A fronte di questa obiezione concernente la profilatura, è stato ipotizzato che qualora il soggetto debole fosse già profilato in precedenza si potrebbe mantenere quella profilatura.

Soluzione improponibile: Il soggetto che il giorno primo era capace di in-tendere e di volere può farsi profilare in maniera aggressiva e investire in

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azioni, derivati o quanti’altro, ma è di tutta evidenza che a se il giorno dopo viene interdetto non possiamo mantenere quel profilo che a mio avviso, per definizione, deve quantomeno degradare a cliente retail.

Occorre anche tenere conto che se si investe in Bot e Ctt non c’è bisogno di profilatura e la tentazione è quindi di superare il problema disponendo, in con-formità all’art. 374 c.c., unicamente questo tipo di investimento.

I giudici tutelari, quindi, cercano di essere abbastanza elastici e sono dispo-nibili ad accettare le proposte delle banche e dunque ad utilizzare l’ultima par-te della norma che consente un investimento diverso: si può quindi pensare, al più, che minori e interdetti vengano profilati comunque con un profilo conser-vativo al fine di un investimento moderato per bilanciare le esigenze di rendi-mento del patrimonio con i limiti imposti dalla normativa bancaria e dal codi-ce civile.

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Gli strumenti di tutela del patrimonio in ambito societario Luciano M. Quattrocchio-Bianca M. Omegna

SOMMARIO

1. Premessa. – 2. L’utilizzo del trust nel diritto societario. – 2.1. Il trust intestatario di parteci-pazioni. – 2.1.1. I patti di sindacato. – 2.1.2. La fusione e la scissione di società. – 2.1.3. Le stock option. – 2.1.4. La gestione unitaria della holding di famiglia: il family trust. – 2.2. Il trust a garanzia dei debiti. – 2.2.1. Il trust per l’acquisto di un immobile. – 2.2.2. Il trust a ga-ranzia di un prestito obbligazionario. – 2.2.3. Il trust per la liquidazione. – 2.3. La trasforma-zione di società in trust.

1. Premessa

Il trust – che nella sua traduzione letterale significa “fiducia” – è un istituto del sistema giuridico anglosassone di common law, sorto nell’ambito della giurisdizione di equity, il cui scopo è regolare una molteplicità di rapporti giu-ridici di natura patrimoniale 1.

In particolare, il trust è un rapporto giuridico che nasce da un atto disposi-tivo inter vivos o mortis causa, con cui il soggetto disponente (settlor) – che può essere una persona fisica o un ente (con o senza personalità giuridica) – trasferisce tutti o parte dei suoi beni (asset) ad un trustee, il quale ha il compi-to di amministrarli e gestirli secondo quanto previsto nell’atto istitutivo del trust, nell’interesse di un beneficiario (beneficiary) o al fine del raggiungimen-to di un determinato scopo (purpose). In tale ambito, talvolta figura anche un altro soggetto – il guardiano (protector o enforcer) –, nominato dal disponente quale supervisore dell’operato del trustee, con il potere di revocare e sostituire il trustee medesimo.

Sintetizzando, i soggetti del trust o – più correttamente – le “posizioni giu-ridiche”, sono le seguenti:

• il disponente (o settlor o grantor), cioè colui che istituisce il trust; • l’amministratore (trustee), il quale ha il potere-dovere di gestire i beni se-

1 Wikipedia, voce “Trust”.

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condo le “regole” del trust, fissate dal disponente; • il beneficiario (beneficiary); • il guardiano (protector).

“Posizioni” e “soggetti” possono non coincidere. Infatti, lo stesso soggetto può assumere più di una posizione giuridica – come, ad esempio, nel “trust autodichiarato”, in cui un soggetto è nel contempo disponente e trustee –; così come più soggetti possono rivestire una medesima posizione – come nel caso del trust con una pluralità di disponenti –.

L’effetto principale e connaturato al trust è il c.d. “effetto segregativo”, che determina la separazione dei beni conferiti dal patrimonio sia del disponente sia del trustee; da ciò discende che i beni conferiti non possono formare ogget-to di azioni esecutive e/o cautelari, da parte né dei creditori particolari del di-sponente né dei creditori del trustee; fermi restando i limiti di cui agli artt. 2901 ss. e (ora) dell’art. 2929-bis c.c.

Nel caso di trust autodichiarato, la sua costituzione non determina – per contro – alcun trasferimento, ma si concretizza nella sola apposizione di un vincolo di destinazione su taluni beni del patrimonio del disponente. Per tale motivo, la giurisprudenza ne pone in dubbio la legittimità, affermando che «Il trust autodichiarato (o sham trust), il cui tratto distintivo è integrato dalla riu-nione del settlor, del trustee e del beneficiario nella medesima persona, trava-lica i limiti di ammissibilità configurati dall’art. 2 della legge n. 364/1989. Presupposto coessenziale alla natura dell’istituto del trust è che il disponente perda la disponibilità di quanto conferitovi, al di là di determinati poteri che possano competergli in base alle norme costitutive. Tale condizione è ineludi-bile al punto che, ove risulti che la perdita del controllo dei beni da parte del disponente sia solo apparente, il trust è nullo e non produce l’effetto segrega-tivo che gli è proprio» 2.

É opportuno ancora rammentare che – con la Convenzione dell’Aja del 1985, ratificata senza riserve dall’Italia con la legge 16 ottobre 1989, n. 364, resa esecutiva ed in vigore dal 1º gennaio 1992 – l’Italia si è impegnata a rico-noscere nel proprio ordinamento gli effetti dei trust aventi determinate caratte-ristiche, senza peraltro alcun obbligo di introdurre una disciplina interna del trust.

In assenza di una disciplina di riferimento, le “regole” di funzionamento del trust sono scelte dal disponente, seppure nel quadro normativo di riferi-mento (Convenzione dell’Aja, leggi straniere sul trust, leggi nazionali).

In tale contesto, si è – peraltro – posto il problema della legittimità del cd.

2 Si veda, ancora di recente, Trib. Massa, 12 aprile 2016, in www.ilcaso.it.

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trust “interno”, ovvero del trust in cui tutti gli elementi soggettivi ed obietti-vi sono legati ad un ordinamento che non qualifica lo specifico rapporto co-me trust (nel senso accolto dalla Convenzione), mentre esso è regolato da una legge straniera che gli attribuisce quella qualificazione. La Corte di Cas-sazione ha avuto occasione di pronunciarsi sul punto, riconoscendo cittadi-nanza al trust i cui elementi principali (parti, oggetto e luogo di stipulazione) siano collegati al territorio italiano, pur in assenza di una normativa naziona-le 3. In particolare, sono fatti salvi gli effetti del trust, con particolare riguar-do a quello cosiddetto interno, intendendosi per tale il trust che presenta quale unico elemento di estraneità rispetto all’ordinamento italiano la legge regolatrice, che deve essere necessariamente straniera (generalmente ingle-se), stante la mancanza nell’ordinamento italiano di norme specifiche in ma-teria.

Il quadro di riferimento è, peraltro, significativamente cambiato con l’ap-provazione della legge 22 giugno 2016, n. 112 (“Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno fa-miliare”), cd. “Legge sul Dopo di noi”, la quale richiama come primo istituto da incentivare il trust, a conferma dei sempre maggiori consensi che riceve nell’ordinamento giuridico italiano e della possibilità che sia la soluzione più idonea per soddisfare le esigenze delle persone e delle loro famiglie per scopi meritevoli quali la tutela e l’assistenza dei disabili.

Assume particolare rilievo in quest’ambito il trust autodichiarato, il quale – come anticipato – è stato sinora ritenuto nullo dalla giurisprudenza non realiz-zandosi in questo caso l’effetto segregativo del patrimonio. La legge n. 112/ 2016, per contro, ne dà implicito riconoscimento, nel caso del trust di famiglia con il quale i genitori potranno occuparsi direttamente dei figli, amministran-do il patrimonio ed indicando per il futuro un’altra persona in grado di svolge-re questo ruolo dopo la loro morte.

A conferma del positivo orientamento nei confronti dell’istituto, assume inoltre particolare rilevanza una recente sentenza della Suprema Corte (Cass. 26 ottobre 2016, n. 21614), la quale – in netto contrasto con orientamenti pre-cedenti della stessa Corte – ha ribadito la legittimità del trust autodichiarato con conferimento di beni e l’esenzione dalle imposte di successioni e dona-zioni, che invece si applicano quando vi è un effettivo trasferimento in capo ai beneficiari.

Come si è anticipato, dal trust conseguono necessariamente effetti peculia-ri, che possono coincidere con lo scopo per cui lo stesso è stato istituito:

3 Si veda, recentemente, Cass. 9 maggio 2014, n. 10105, in www.ilcaso.it.

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• separazione del patrimonio; • intestazione all’amministratore; • gestione fiduciaria, vincolata e responsabilizzata dei beni.

Sul piano operativo, il disponente – persona fisica o ente – conferisce i beni che costituiscono il fondo del trust; il conferimento è irrevocabile, cosicché i beni confluiscono nel fondo in via definitiva, uscendo dalla sua disponibilità materiale e giuridica (fatto salvo il caso del c.d. trust “autodichiarato”, sui cui v. supra, e a meno che siano previste riserve di usufrutto, possesso, ecc.). E il controllo sull’operato del trustee è esercitato da soggetti diversi dal disponente (es. protector), così da scongiurare il rischio che il trust possa essere conside-rato simulato.

Il trasferimento dei beni nel fondo del trust è vincolato da un legame che intercorre tra il settlor e il trustee: il c.d. “patto di fiducia”. In virtù di tale pat-to, il settlor (disponente) trasferisce l’intestazione – ma non la proprietà, così come è intesa nel diritto italiano – dei beni, perché vengano amministrati dal trustee nell’interesse dei beneficiari e nei limiti di quanto stabilito nell’atto istitutivo (deed of trust).

Le differenze del trust rispetto al mandato fiduciario di diritto continentale sono, tuttavia, molto profonde: nel mandato fiduciario, infatti, la proprietà dei beni appartiene solo formalmente al fiduciario, che si obbliga ad obbedire a dare corso a tutte le disposizioni del fiduciante, ivi compreso l’eventuale ordi-ne di restituzione dei beni. Nel trust, invece, il trustee è pieno proprietario del bene in trust, sebbene sia vincolato nell’esercizio del proprio diritto dalle di-sposizioni contenute nell’atto istitutivo, da esercitare nell’interesse del benefi-ciary: in particolare, il trustee può alienare, permutare, concedere in locazione, dare a garanzia i beni in trust – alle condizioni del disponente e se ciò è fun-zionale alle volontà espresse nell’atto di trust dallo stesso disponente –; tutta-via, rispetto ad un pieno proprietario, egli non può distruggere la cosa (salva substantia rerum).

Come si è detto, il trustee può essere una persona fisica – un professionista di fiducia del settlor – o un ente (con o senza personalità giuridica), come ad esempio un fondo pensione; l’atto istitutivo del trust disciplina gli obblighi e i diritti del trustee e, in caso di pluralità di trustee, i modi di soluzione delle controversie.

Anche il beneficiary può essere una persona fisica o un ente (dotato o meno di personalità giuridica), ovvero ancora un insieme di soggetti determinati an-che genericamente e/o non ancora esistenti al momento della costituzione del trust, come spesso avviene nei trust costituiti a scopo benefico.

Il protector – invece – è necessariamente una persona fisica (normalmente

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un professionista di fiducia del settlor), che garantisce la correttezza delle atti-vità svolte dal trustee ed, eventualmente, svolge attività di supplenza del trustee.

I vantaggi dell’utilizzo del trust sono evidenti soprattutto con riferimento alla flessibilità dell’istituto rispetto agli strumenti tradizionali del diritto italia-no, nonché ai possibili vantaggi economici. Tra l’altro, il trust è idoneo a rea-lizzare una vasta molteplicità di scopi (anche nell’ambito del diritto societario: v. infra), che – tuttavia – devono essere considerati meritevoli, secondo i prin-cipi dell’ordinamento giuridico. Inoltre, le disposizioni contenute nel trust possono essere riservate, e questo può essere un ottimo motivo per la sua crea-zione; la riservatezza è riferita prevalentemente ai trust cd. “opachi”.

Da ultimo, è opportuno segnalare che l’utilizzo del trust ha subito una bat-tuta d’arresto a seguito dell’introduzione dell’art. 2929-bis c.c., ad opera del d.l. 27 giugno 2015, n. 83, recante “Misure urgenti in materia fallimentare, civile e procedura civile e di organizzazione e funzionamento dell’ammini-strazione giudiziaria”, convertito dalla legge 6 agosto 2015, n. 132. In partico-lare, l’art. 2929-bis c.c. ha introdotto la cd. “revocatoria semplificata”, che può essere attivata dal creditore a fronte di un atto di alienazione gratuito compiuto dal debitore oppure a fronte di un atto costitutivo di un vincolo di indisponibi-lità. In entrambi i casi l’atto dovrà avere a oggetto un bene immobile oppure un bene mobile registrato. La relazione accompagnatoria al Disegno di legge di conversione indica quali esempi di atti costitutivi di vincoli di indisponibili-tà il fondo patrimoniale e il trust autodichiarato.

2. L’utilizzo del trust nel diritto societario

2.1. Il trust intestatario di partecipazioni 2.1.1. I patti di sindacato

Il trust può essere – anzitutto – utilizzato come strumento per consolidare patti di sindacato (voting trust), altrimenti esposti al rischio di defezione di al-cuni aderenti.

Più in particolare, con il termine voting trust si intendono gli accordi con i quali alcuni soci di una società costituiscono un trust con lo scopo di discipli-nare l’esercizio del diritto di voto nelle assemblee e – a tale fine – trasferisco-no al trust le loro partecipazioni: all’atto istitutivo del trust, contenente le norme alle quali il trustee dovrà adeguarsi nell’esercizio della propria funzio-ne, segue l’atto di conferimento delle partecipazioni societarie in trust.

Si attua in tal modo un vero e proprio spossessamento da parte dei soci del-

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le loro partecipazioni che vengono trasferite al trustee, il quale dovrà esercita-re i diritti relativi secondo le indicazioni contenute nell’atto istitutivo del trust e concordate dai disponenti. L’atto istitutivo potrà anche prevedere che le par-tecipazioni ad esso trasferite, alla cessazione del trust, vengano attribuite, in-vece che ai disponenti, a beneficiari predeterminati o, addirittura, individuati dal trustee in base a criteri predefiniti dal disponente 4.

Gli elementi principali del voting trust sono:

• l’emissione da parte del trust e a favore dei disponenti di “trust certifica-te” relativi alle partecipazioni societarie conferite;

• la previsione che il trustee nelle deliberazioni assembleari debba compor-tarsi secondo le prescrizioni dell’atto istitutivo del trust. Si potrebbe anche prevedere che il trustee debba, prima del compimento di determinate opera-zioni, chiedere il consenso di soggetti terzi, quali il guardiano;

• il diritto del trustee di ricevere i dividendi spettanti alle partecipazioni conferite nel trust;

• il diritto del trustee di esercitare la prelazione nel caso in cui uno dei soci disponenti intenda cedere il proprio “trust certificate”;

• la previsione di un termine di durata del trust (obbligatorio per la maggior parte delle legislazioni statunitensi) e comunque il diritto dei disponenti di porre fine al trust medesimo, con il loro consenso unanime.

Rispetto ai patti parasociali si ha dunque un evidente vantaggio, giacché nelle assemblee è presente il solo trustee e non i singoli soci, e dunque non è possibile l’esercizio del diritto di voto in modo difforme da quanto previsto nell’atto istitutivo del trust.

Sotto il profilo della tutela, l’operato del trustee può essere in ogni caso con-trollato attraverso gli strumenti propri del trust, in primo luogo la figura del guardiano (che può essere anche lo stesso disponente), al quale il trustee può es-sere tenuto a rivolgersi in determinate ipotesi previste dall’atto istitutivo. Il pote-re del guardiano può essere esteso anche alla sostituzione del trustee, che si sia reso inadempiente agli obblighi imposti dal trust e contro il quale è sempre pos-sibile agire in via risarcitoria.

Il trust consente, inoltre, di andare oltre il possibile assetto di interessi rea-lizzabile per mezzo dei patti di sindacato, attribuendo efficacia reale alle ob-bligazioni assumibili da ciascun sottoscrittore. Ed infatti, ponendo in capo al trustee le partecipazioni, ciascun disponente perde la qualifica di socio in fa-

4 Sul punto, si veda A. FUSI, I patti parasociali alla luce della nuova disciplina societaria e le possibili applicazioni dei voting trust, in Società, 6/2007.

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vore del trustee medesimo, il quale diviene l’unico soggetto titolato ad inter-venire e votare nelle assemblee, con conseguente eliminazione di ogni possibi-le difformità di voto rispetto all’orientamento, di volta in volta, espresso dai sottoscrittori dei patti di sindacato. Inoltre, inserendo nell’atto istitutivo un’ap-posita clausola recante l’indisponibilità per il trustee delle azioni conferite nel fondo, si può ottenere la garanzia che le azioni non possano essere alienate a terzi estranei al patto, assicurando quindi – anche per tale ipotesi – piena coer-cibilità al patto stesso 5.

Naturalmente il trust non è esente dalle norme societarie sia in termini di durata (art. 2341 c.c. o 123 T.U.F.), sia in tema di pubblicità e trasparenza di partecipazioni rilevanti (art. 2341-ter c.c.; artt. 120 e 122 T.U.F.; comunica-zione CONSOB n. 0066209/2013).

2.1.2. La fusione e la scissione di società

Sempre attraverso l’intestazione delle partecipazioni, il trust può essere uti-lizzato per rendere più agevole la fusione fra società (o enti).

In particolare, al fine di evitare che – nel corso della fusione – i soci (so-prattutto quelli di minoranza) frappongano ostacoli, possono conferire le lo-ro azioni in un trust, il cui il trustee – solitamente un professionista esperto in operazioni straordinarie – ha l’incarico di portare a termine la fusione e, al termine, di riassegnare le azioni ai soci originari, nelle proporzioni previ-ste.

In tale contesto, si potrebbe prevedere anche la presenza di uno o più protec-tor, con il compito di vigilare sulla corretta esecuzione – da parte del trustee – delle disposizioni impartite.

Il trust può essere utilizzato nella scissione di società (o enti), al fine di soddisfare le stesse esigenze.

2.1.3. Le stock option

Con una finalità leggermente diversa, il trust può essere utilizzato nell’ambito di piani di stock option.

In particolare, lo schema operativo potrebbe essere il seguente:

• una società istituisce un trust al fine di conferirvi, al termine di ciascun esercizio, una somma a titolo di premio per gli obiettivi economici raggiunti dagli amministratori e dai dipendenti;

5 Cfr. A. DE DOMINICIS, L’impiego dei trust nelle operazioni commerciali, in Trusts e atti-vità fiduciarie, 6/2010.

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• con tali somme ed eventualmente con capitale preso a prestito, il trustee sottoscrive (o acquista) le azioni della società stessa;

• per tutta la durata del mandato degli amministratori o del rapporto di la-voro con i dipendenti, il reddito prodotto dalle azioni di titolarità del trust vie-ne utilizzato per il graduale rimborso dell’eventuale prestito;

• le azioni vengono detenute e amministrate in nome e per conto dei desti-natari, che ne acquisiscono la proprietà solo al momento della cessazione del mandato (per gli amministratori) ovvero dell’interruzione del rapporto di lavo-ro o del raggiungimento dell’età pensionabile (per i dipendenti);

• il trustee trattiene una quota predeterminata delle azioni fino a quando non sia decorso il termine previsto nel patto di non concorrenza o in altra clau-sola contrattuale;

• la società rimane beneficiaria delle eventuali somme che non dovessero essere (definitivamente) attribuite ai destinatari.

Il trust risponde – quindi – ad una duplice esigenza:

• per i destinatari, vedere segregati in un “patrimonio separato” i premi maturati ed acquisire le azioni quando se ne verificheranno i presupposti;

• per la società, controllare il rispetto degli obblighi contrattuali.

In particolare, i vantaggi (definitivi) per i destinatari si concretizzano al termine del mandato o al momento dell’interruzione del rapporto di lavoro, in quanto entrano nella loro disponibilità le azioni accumulate durante gli anni di servizio prestato. Da questo momento, se la società è quotata, i destinatari so-no liberi di vendere le loro azioni sul mercato come qualsiasi altro azionista; mentre, se la società non è quotata e se è previsto, possono rivendere le loro azioni alla società stessa.

Per la società emittente, l’emissione delle nuove azioni garantisce un flusso di denaro che può essere utilizzato per il miglioramento della gestione azien-dale, per la ristrutturazione interna o per la realizzazione di strategie di straor-dinaria amministrazione quali fusioni, privatizzazioni o quotazioni 6.

Inoltre, i benefici di tale operazione non sono solo di natura economica, ma si estrinsecano anche in maggiori motivazioni degli amministratori e dei di-pendenti, che risultano incentivati a migliorare le loro prestazioni.

6 Evidentemente, se le azioni sono acquistate dal trustee sul mercato, tale possibilità è pre-clusa.

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2.1.4. La gestione unitaria della holding di famiglia: il family trust

Il venir meno dell’imprenditore, con il subingresso di coeredi che non han-no necessariamente le stesse capacità imprenditoriali del fondatore e – spesso – neppure uniformità di vedute, è un momento di forte criticità per le sorti dell’impresa. Ne consegue che la gestione efficiente del trapasso generaziona-le è un’esigenza fortemente avvertita nel mondo imprenditoriale, tenuto anche conto del fatto che la maggior parte delle imprese italiane assume dimensioni medio-piccole e normalmente appartiene ad un unico nucleo familiare.

L’impiego del trust nella programmazione dei passaggi generazionali si ri-leva, quindi, particolarmente efficace nel perseguire congiuntamente le se-guenti esigenze 7:

• tutela dell’integrità del patrimonio aziendale: tale esigenza è avvertita so-prattutto in presenza di una molteplicità di coeredi con differenze sul piano delle capacità imprenditoriali, della propensione al rischio e degli interessi;

• tutela del patrimonio aziendale nei confronti di soggetti terzi o di compo-nenti indesiderati della famiglia: l’imprenditore teme che soggetti terzi si av-vicinino alla famiglia per appropriarsi di parte del patrimonio o che gli eredi cedano l’azienda ai concorrenti;

• scelta di chi tra i coeredi sarà il vero continuatore dell’impresa di fami-glia: è particolarmente avvertita l’esigenza di affidare l’impresa ai successori che dimostrino di avere particolari capacità imprenditoriali;

• eventuale mantenimento del controllo da parte dell’imprenditore fino alla sua morte.

In particolare, il trust può essere proficuamente utilizzato soprattutto nel passaggio generazionale di quote societarie di imprese (collettive) di matrice familiare: attraverso il trust il disponente (settlor) può disporre il trasferimento delle partecipazioni ai propri eredi, affidandone la gestione ad un soggetto di fiducia (trustee), il quale le amministra nell’interesse dei beneficiari.

È, dunque, un utile strumento per assicurare un controllo unitario su una holding di famiglia e per tutelare in modo imparziale gli interessi sia dei fami-liari “attivi” (coloro che si occupano della gestione della società) sia di quelli “passivi” (coloro che partecipano alla società solo a titolo di investimento di capitale), in conformità alle esigenze ed alle aspirazioni di ciascuno di essi.

È vero che le esigenze sopra elencate potrebbero essere soddisfatte con la donazione. Tuttavia, alcuni istituti successori – e, in particolare, l’azione di ri-

7 Si veda, per ulteriori approfondimenti, A. DE DOMINICIS, L’impiego dei trust nelle opera-zioni commerciali, in Trusts e attività fiduciarie, 6/2010.

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duzione e l’istituto della collazione – potrebbero impedirne di fatto la pratica-bilità. I legittimari lesi dalla donazione possono – infatti – agire in riduzione contro il donatario delle partecipazioni; inoltre, ciascun coerede familiare – salvo espressa dispensa dalla collazione – può pretendere che, del valore che le partecipazioni avranno al tempo dell’apertura della successione, si tenga conto nelle operazioni e nei conteggi della divisione ereditaria.

La legge 14 febbraio 2006, n. 55, nell’introdurre il cd. “patto di famiglia”, ha inteso ovviare a queste difficoltà prevedendo che i beni oggetto del patto di famiglia (aziende o partecipazioni sociali) non possano essere assoggettati né ad azione di riduzione né a collazione. Le regole proprie della tutela della le-gittima vengono – quindi – sterilizzate relativamente al mondo dell’impresa, continuando ad operare per il restante patrimonio dell’imprenditore: in pratica, è come se si avessero due successioni di due persone diverse con masse com-pletamente autonome tra di loro, assicurando la tutela della stabilità del bene produttivo e – contemporaneamente – eliminando il rischio di disgregazione dello stesso a seguito dell’apertura della successione.

Tuttavia, sono stati individuati alcuni limiti endemici all’impiego dei patti di famiglia nella programmazione dei passaggi generazionali 8:

• la limitazione relativa ai soggetti in favore dei quali può essere effettuato il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni, potendo essere questi solo i discendenti dell’imprenditore;

• la limitazione dell’oggetto del trasferimento, che non può essere costituito da partecipazioni di minoranza;

• la necessità del consenso unanime dei legittimari; • la circostanza che i legittimari sopravvenuti possono, a determinate con-

dizioni, condurre all’annullamento del patto.

Inoltre, può accadere che i discendenti dell’imprenditore siano troppo gio-vani e non è possibile sapere chi tra loro avrà la stoffa dell’imprenditore e po-trà essere quindi meritevole di continuare l’attività imprenditoriale.

Un’utile alternativa al patto di famiglia è costituita dal trust, che offre una serie di vantaggi:

• titolarità unitaria delle partecipazioni; • regolamentazione, tramite l’atto istitutivo del trust, delle modalità di ge-

stione e dell’esercizio dei diritti inerenti le partecipazioni sociali; • segregazione delle partecipazioni conferite nel trust, con conseguente in-

8 Si veda ancora A. DE DOMINICIS, L’impiego dei trust nelle operazioni commerciali, in Trusts e attività fiduciarie, 6/2010.

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differenza rispetto alle vicende dei singoli soggetti (quali il divorzio, il falli-mento, il decesso).

In particolare, con il trust viene affidato al trustee il “controllo proprieta-rio” dell’impresa, con il risultato di mantenere l’unità degli assetti proprietari e – nel caso frequente in cui oggetto del trust non sia l’azienda ma le parteci-pazioni che la rappresentano – di continuare ad affidare la gestione agli ammi-nistratori in carica, senza discontinuità di politiche aziendali.

In tale prospettiva, può essere opportuno istituire un trust in cui conflui-scano tutte le partecipazioni sociali, che vengono intestate al trustee, oltre agli altri beni di famiglia necessari per soddisfare gli altri legittimari; in tale modo, la politica gestionale del trust viene realizzata in modo unitario da un unico soggetto (il trustee) e non – invece – da diversi soggetti, spesso in conflitto tra di loro. è inoltre possibile designare un protector del trust, con la funzione di sorvegliare l’operato del trustee ed eventualmente di sostituir-lo qualora non dia corso alle indicazioni contenute nell’atto istitutivo (deed of trust); oltreché, eventualmente, di esercitare un controllo sulla gestione societaria.

Inoltre, compito del trustee non è solo quello di garante della continuità sul piano della conduzione dell’impresa (in conformità alle indicazioni provenien-ti dal fondatore dell’impresa), ma anche e soprattutto quello di individuare – all’interno del gruppo dei beneficiari – i discendenti più idonei ad assumere il controllo aziendale. Tale valutazione non potrà prescindere da criteri il più possibile oggettivi, da indicarsi nell’atto di trust, quali – ad esempio – il senso degli affari, il senso di responsabilità, l’attitudine imprenditoriale, la propen-sione al rischio d’impresa.

Inoltre, è possibile garantire – al capofamiglia – la conservazione della ca-rica di amministratore unico, anche attraverso il rinnovo da parte del trustee incaricato, fino al momento (prestabilito o da valutare secondo determinati cri-teri prescelti) in cui questi sarà in grado di amministrare la società.

Al suo decesso (o al verificarsi di altre cause), poi, è possibile prevedere la nomina di uno dei figli (quello interessato a gestire la società), evitando così che – in seno alla stessa – possano insorgere contrasti tra gli eredi. Nel con-tempo, è possibile disporre – a favore degli altri figli – la provvista necessaria per assicurare gli obiettivi da questi perseguiti.

Infine, sotto il profilo della tutela patrimoniale, poiché la titolarità dei beni viene conferita nel fondo, i beni stessi risultano separati dalla massa patrimo-niale sia del disponente sia del trustee; con la conseguenza che non sono ag-gredibili da parte dei suoi creditori.

In sintesi, il disponente – attraverso il trust – può:

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• creare i presupposti per la trasmissione patrimoniale; • conservare – fino al tempo della propria permanenza in vita (o della capa-

cità di gestire l’impresa collettiva) – la carica di amministratore unico; • fare in modo che il suo patrimonio non sia aggredibile da alcun creditore

personale.

2.2. Il trust a garanzia dei debiti 2.2.1. Il trust per l’acquisto di un immobile

Anzitutto, potrebbe prospettarsi il caso in cui imprenditore intenda acqui-stare un immobile strumentale all’esercizio della propria attività, facendo ri-corso ad un mutuo garantito da ipoteca sull’immobile medesimo. Se si ricor-resse al modello classico (mutuo ipotecario erogato all’imprenditore), la banca – anche se titolare della prelazione ipotecaria – rientrerebbe nel novero dei creditori dell’imprenditore, con la conseguenza che le eventuali somme di cui disporrà quest’ultimo saranno destinate non solo al pagamento del mutuo, ma anche al soddisfacimento degli altri debiti, e ciò secondo l’ordine di priorità che – di volta in volta – l’imprenditore medesimo riterrà più opportuno.

É vero che, in caso di inadempimento, la banca potrà attivare il procedi-mento di esecuzione immobiliare, ma con risultati incerti in termini di risulta-to, tenuto anche conto dei tempi del procedimento e degli oneri ad esso corre-lati 9.

In tale ipotesi, potrebbe invece – più opportunamente – essere istituito un trust di scopo, che provveda all’acquisto dell’immobile e all’assunzione del mutuo ipotecario; l’immobile verrebbe, quindi, concesso in locazione all’im-prenditore e i canoni destinati ad onorare le rate del mutuo.

Con tale operazione, la banca godrebbe di una serie di vantaggi:

• l’immobile non entrerebbe a far parte del patrimonio dell’imprenditore (almeno fino al completo pagamento del mutuo);

• il trust non assumerebbe debiti ulteriori rispetto a quello contratto con la banca stessa e, pertanto, tutti i flussi finanziari potrebbero essere destinati al rimborso del mutuo;

• in caso di mancato pagamento del numero di rate preventivamente stabili-to tra la banca e l’imprenditore, l’immobile potrebbe essere venduto diretta-mente dal trustee, in tempi rapidi, senza costi legali e con il procedimento

9 Si veda, al proposito, A. DE DOMINICIS, L’impiego dei trust nelle operazioni commerciali, in Trusts e attività fiduciarie, 6/2010.

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concordato tra le parti in sede di istituzione del trust, evitando così la procedu-ra esecutiva.

Pare opportuno rammentare che lo scenario normativo di riferimento ha subìto recentemente una profonda modifica, soprattutto in forza di due prov-vedimenti legislativi:

• il d.lgs. 21 aprile 2016, n. 72, recante “Attuazione della direttiva 2014/17/UE, in merito ai contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili resi-denziali nonché modifiche e integrazioni del titolo VI-bis del decreto legislati-vo 1° settembre 1993, n. 385, sulla disciplina degli agenti in attività finanzia-ria e dei mediatori creditizi e del decreto legislativo 13 agosto 2010, n. 141”, che ha introdotto – nel T.U.B. – il nuovo art. 120-quinquiesdecies (“Inadem-pimento del consumatore”), prevedendo che: ◦ «1. Fermo quanto previsto dall’articolo 2744 del codice civile, le parti pos-

sono convenire, con clausola espressa, al momento della conclusione del contratto di credito, che in caso di inadempimento del consumatore la resti-tuzione o il trasferimento del bene immobile oggetto di garanzia reale o dei proventi della vendita del medesimo bene comporta l’estinzione dell’intero debito a carico del consumatore derivante dal contratto di credito anche se il valore del bene immobile restituito o trasferito ovvero l’ammontare dei proventi della vendita è inferiore al debito residuo. Se il valore dell’im-mobile come stimato dal perito ovvero l’ammontare dei proventi della ven-dita è superiore al debito residuo, il consumatore ha diritto all’eccedenza. In ogni caso, il finanziatore si adopera con ogni diligenza per conseguire dalla vendita il miglior prezzo di realizzo. La clausola non può essere pat-tuita in caso di surrogazione nel contratto di credito ai sensi dell’articolo 120-quater.

◦ (…) ◦ 4. Agli effetti del comma 3 ▪ (…) ▪ c. costituisce inadempimento il mancato pagamento di un ammontare

equivalente a diciotto rate mensili»; • d.l. 3 maggio 2016, n. 59, recante “Disposizioni urgenti in materia di proce-

dure esecutive e concorsuali, nonché a favore degli investitori in banche in liquidazione”, convertito dalla legge 30 giugno 2016, n. 119, che ha introdot-to – nel T.U.B. – il nuovo art. 48-bis (“Finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile sospensivamente condizionato”), preve-dendo che: ◦ «1. Il contratto di finanziamento concluso tra un imprenditore e una banca

o altro soggetto autorizzato a concedere finanziamenti nei confronti del

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pubblico può essere garantito dal trasferimento, in favore del creditore o di una società dallo stesso controllata o al medesimo collegata ai sensi delle vigenti disposizioni di legge e autorizzata ad acquistare, detenere, gestire e trasferire diritti reali immobiliari, della proprietà di un immobile o di un al-tro diritto immobiliare dell’imprenditore o di un terzo, sospensivamente condizionato all’inadempimento del debitore a norma del comma 5. La no-ta di trascrizione del trasferimento sospensivamente condizionato di cui al presente comma deve indicare gli elementi di cui all’art. 2839, secondo comma, numeri 4), 5) e 6), del codice civile.

◦ 2. In caso di inadempimento, il creditore ha diritto di avvalersi degli effetti del patto di cui al comma 1, purché al proprietario sia corrisposta l’even-tuale differenza tra il valore di stima del diritto e l’ammontare del debito inadempiuto e delle spese di trasferimento.

◦ (…) ◦ 4. Il patto di cui al comma 1 può essere stipulato al momento della conclu-

sione del contratto di finanziamento o, anche per i contratti in corso alla da-ta di entrata in vigore della presente disposizione, per atto notarile, in sede di successiva modificazione delle condizioni contrattuali. Qualora il finan-ziamento sia già garantito da ipoteca, il trasferimento sospensivamente condizionato all’inadempimento, una volta trascritto, prevale sulle trascri-zioni e iscrizioni eseguite successivamente all’iscrizione ipotecaria. Fatti salvi gli effetti dell’aggiudicazione, anche provvisoria, e dell’assegnazione, la disposizione di cui al periodo precedente si applica anche quando l’im-mobile è stato sottoposto ad espropriazione forzata in forza di pignoramen-to trascritto prima della trascrizione del patto di cui al comma 1 ma succes-sivamente all’iscrizione dell’ipoteca; in tal caso, si applica il comma 10.

◦ 5. Per gli effetti del presente articolo, si ha inadempimento quando il man-cato pagamento si protrae per oltre nove mesi dalla scadenza di almeno tre rate, anche non consecutive, nel caso di obbligo di rimborso a rate mensili; o per oltre nove mesi dalla scadenza anche di una sola rata, quando il debi-tore è tenuto al rimborso rateale secondo termini di scadenza superiori al periodo mensile; ovvero, per oltre nove mesi, quando non è prevista la re-stituzione mediante pagamenti da effettuarsi in via rateale, dalla scadenza del rimborso previsto nel contratto di finanziamento. Qualora alla data di scadenza della prima delle rate, anche non mensili, non pagate di cui al primo periodo il debitore abbia già rimborsato il finanziamento ricevuto in misura almeno pari all’85 per cento della quota capitale, il periodo di ina-dempimento di cui al medesimo primo periodo è elevato da nove a dodici mesi. Al verificarsi dell’inadempimento di cui al presente comma, il credi-tore è tenuto a notificare al debitore e, se diverso, al titolare del diritto reale

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immobiliare, nonché a coloro che hanno diritti derivanti da titolo iscritto o trascritto sull’immobile una dichiarazione di volersi avvalere degli effetti del patto di cui al medesimo comma, secondo quanto previsto dal presente articolo, precisando l’ammontare del credito per cui procede».

2.2.2. Il trust a garanzia di un prestito obbligazionario Il trust può, inoltre, essere opportunamente utilizzato come strumento di

garanzia a fronte dell’emissione di un prestito obbligazionario. In particolare, una società che dispone di un immobile e intende emettere

un prestito obbligazionario potrebbe concedere l’immobile medesimo a garan-zia, ma con una serie di inconvenienti, tra cui – da una parte – l’impossibilità di accantonare i frutti dell’immobile ad esclusivo vantaggio degli obbligazio-nisti e – dall’altra – la necessità (per questi ultimi) di ricorrere ad una procedu-ra esecutiva immobiliare in caso di inadempimento.

In alternativa, la società emittente potrebbe ricorrere ad un trust, nell’am-bito del quale gli obbligazionisti – per accrescere il loro grado di tutela – po-trebbero designare un tutore (enforcer), con funzione di controllo e supervi-sione dell’operato del trustee. In particolare, potrebbero essere seguiti due di-versi “percorsi”: il primo “diretto” e il secondo “indiretto” 10.

Con il primo, la società potrebbe conferire l’immobile in un trust, a garan-zia del pagamento delle cedole e del rimborso del capitale. Alla scadenza del prestito, se la società adempirà regolarmente le proprie obbligazioni, il trustee retrocederà l’immobile; in difetto, procederà alla sua vendita e con il ricavato soddisferà gli obbligazionisti dei loro crediti, retrocedendo l’eventuale ecce-denza alla società. Si potrebbe anche prevedere una variante nell’atto istitutivo del trust, ossia che il trustee utilizzi i canoni di locazione incassati, per pagare le cedole del prestito obbligazionario; anche in tale ipotesi, il trustee – in caso di inadempimento – utilizzerà i canoni di locazione incassati e il ricavato della vendita dell’immobile per pagare gli obbligazionisti.

Con il secondo, invece, la società potrebbe procedere preliminarmente al conferimento degli immobili in una società immobiliare di nuova costituzione, trasferendo poi al trustee le relative quote di partecipazione. In caso di adem-pimento, il trustee retrocederà alla società disponente le quote di partecipazio-ne; in difetto, avrà due opzioni per procedere al soddisfacimento degli obbli-gazionisti: vendere l’immobile e liquidare la società oppure cedere la parteci-

10 Per approfondimenti, si veda S. MARCHESE, Trust immobiliare a scopo di garanzia di un prestito obbligazionario: i riflessi nel bilancio della società emittente, in Trusts e attività fidu-ciarie, 3/2003.

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pazione. Anche in tale ipotesi, il trustee potrebbe utilizzare i dividendi incas-sati per pagare le cedole del prestito obbligazionario.

Quale che sia la configurazione prescelta, il trust consente di ottenere i se-guenti risultati:

• l’immobile e i relativi frutti vengono segregati dalle pretese dei creditori della società disponente;

• i frutti dell’immobile (o della partecipazione nella newco), se previsto, possono essere destinati al pagamento delle cedole;

• in ipotesi di mancato pagamento delle cedole o di mancato rimborso del capitale, il trustee potrà adottare – d’intesa con il tutore (enforcer) e quindi con piena trasparenza nei confronti degli obbligazionisti – la soluzione liqui-datoria preferibile.

2.2.3. Il trust per la liquidazione

I trust liquidatori possono distinguersi in diverse categorie 11:

• i trust “puramente liquidatori”: realizzano una modalità alternativa alla liquidazione disciplinata dagli art. 2487 ss. c.c., consentendo al trustee di ese-guire le operazioni di liquidazione e alla società posta in liquidazione di pro-cedere immediatamente alla cancellazione dal Registro delle Imprese;

• i trust “protettivi”: sono istituiti da un imprenditore in bonis per prevenire azioni esecutive da parte di creditori “pericolosi”, conferendo in un trust alcu-ni beni destinati alla loro soddisfazione 12;

• i trust “di salvataggio”: sono utilizzati da un imprenditore in stato di crisi reversibile per supportare soluzioni negoziali della crisi 13;

• i trust “falsamente liquidatori”: sono istituiti da imprenditori in stato di crisi irreversibile e hanno lo scopo di ostacolare le pretese creditorie e di pro-crastinarne il fallimento, “aspirando” al decorso del termine annuale previsto dall’art. 10 l.f., che decorre dalla cancellazione dal Registro delle Imprese.

La giurisprudenza di merito 14 aveva precedentemente affermato che –

11 Così M. PALAZZO, Il trust liquidatorio e il trust a supporto di procedure concorsuali, Studio n. 305-2015/I. Per ulteriori approfondimenti, si veda D. MURITANO, I trust liquidatori: opportunità e criticità, in La gestione straordinaria delle imprese, 2-2017, 6 s.

12 Essi attribuiscono ai creditori che ne beneficiano una “prelazione atipica”. 13 Nel trust fund possono essere conferiti anche beni personali dell’imprenditore o di terzi. 14 Si vedano: Trib. Milano, 12 settembre 2013, in Trusts e att. fid., 2014, 307; ID. 22

novembre 2013, in www.ilcaso.it.

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nell’ambito di fattispecie in cui la società posta in liquidazione trasferisca l’intero patrimonio sociale (attivo e passivo) a un trust, presenti il bilancio fi-nale di liquidazione e ottenga la cancellazione dal registro delle imprese – la cessione senza corrispettivo, dunque senza realizzo, al trust non coincide con l’attività di liquidazione, che – quindi – non può considerarsi effettuata (anzi, neppure iniziata). In particolare, aveva ritenuto che la cancellazione costitui-sce l’esito di una fattispecie a formazione progressiva, articolata nell’accer-tamento ad opera degli amministratori della causa di scioglimento (art. 2484 c.c.), nella nomina assembleare del liquidatore (art. 2487 c.c.), nell’attività di liquidazione in senso proprio, culminante nella redazione del bilancio finale di liquidazione (art. 2492 c.c.); con la conseguenza che soltanto dopo l’approva-zione del bilancio finale di liquidazione si può far seguito alla richiesta di can-cellazione della società dal Registro delle Imprese. In definitiva, la cancella-zione è lecita soltanto se è stata svolta l’attività di liquidazione e il fatto che si riservi la liquidazione a un terzo e non la si realizzi secondo il procedimento classico non conduce in alcun modo a ritenere conclusa l’attività liquidatoria.

La Corte di Cassazione invece, in una recente sentenza 15, pare – seppure solo implicitamente – aver confermato l’ammissibilità dell’impiego del trust per svolgere la liquidazione da parte di una società in bonis, a condizione che non vengano danneggiati gli interessi dei creditori.

Se si tiene conto dell’”apertura” della giurisprudenza di legittimità, si può – quindi – ritenere che l’imprenditore (individuale o collettivo) possa conferire in un trust i beni necessari a soddisfare i propri creditori, nel rispetto dei gradi di preferenza.

A tale fine, l’imprenditore potrebbe procedere come segue: i) istituisce un trust conferendogli i beni necessari alla liquidazione; ii) il trustee procede alla vendita dei beni conferiti, alle migliori condizioni possibili, e distribuisce il ricavato della vendita ai creditori (secondo quanto spettante a ciascuno di es-si); iii) il trustee restituisce l’eventuale eccedenza al disponente.

In tal modo:

• i beni conferiti nel trust vengono segregati dal patrimonio del disponente e si elimina così il rischio che i beni conferiti siano sottoposti a procedure ese-cutive in capo al debitore;

• il compito di alienare i beni viene affidato ad un soggetto in possesso di adeguata competenza professionale;

• si ripartiscono tra i creditori sociali le somme ottenute per effetto dell’alie-nazione dei beni conferiti nel trust, rispettando le cause legittime di prelazione;

15 Cass. 9 maggio 2014, n. 10105, in www.ilcaso.it.

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• si tiene adeguatamente conto delle posizioni creditorie incerte nell’esi-stenza e/o nell’ammontare;

• si restituisce al disponente l’eccedenza del ricavato.

2.3. La trasformazione di società in trust Recentemente è stata anche avanzata l’ipotesi di istituzione di un trust at-

traverso lo strumento giuridico della trasformazione eterogenea di società di capitali 16.

La giurisprudenza si è occupata del tema una sola volta, negando l’iscrivibilità nel Registro delle Imprese di una deliberazione di trasformazio-ne di una società di capitali in trust 17.

L’ipotesi prospettata è quella della trasformazione eterogenea regressiva, disciplinata dall’art. 2500-septies c.c., cioè della trasformazione di una società di capitali in consorzio, società consortile, società cooperativa, comunione di azienda, associazione non riconosciuta o fondazione.

Se si tiene conto del tenore letterale della norma, la trasformazione di una società di capitali in trust dovrebbe essere radicalmente esclusa, soprattutto in ragione del principio di tipicità delle ipotesi di trasformazione eterogenea. Tuttavia la pretesa tassatività delle ipotesi di trasformazione eterogenea indi-cate nell’art. 2500-octies c.c. è stata posta in dubbio dalla dottrina, che – in senso contrario alla giurisprudenza di merito – ritiene che il “catalogo” conte-nuto nel Codice Civile non sia chiuso ma, sia pure entro certi limiti, aperto.

Con particolare riguardo alla trasformazione in trust, si individua un punto di forza nella previsione espressa – nell’ambito della trasformazione eteroge-nea – della trasformazione in comunione di azienda, sul riflesso che quest’ulti-ma non dà luogo a soggettività giuridica, al pari del trust.

Operativamente, vi sono alcuni casi in cui la trasformazione di una società in trust può essere utile: ad esempio, al fine di ottimizzare la liquidazione della società (in alternativa alle possibilità più sopra illustrate) ovvero di eliminare dal mondo giuridico una società di comodo. Nella prima ipotesi, la trasforma-zione verrebbe utilizzata per la «soppressione dell’ente senza liquidazione, senza preventivo appuramento ed estinzione delle passività» 18; in altri termini

16 Per gli opportuni approfondimenti, si veda D. MURITANO, La trasformazione di società in trust, Studio n. 17-2013/I.

17 Così Trib. Sassari (decr.), 13 luglio 2010, in Giur. comm., 2012, 1040, con nota di Carraro. 18 Così P. SPADA, Dalla trasformazione delle società alle trasformazioni degli altri enti e

oltre, in Scritti in onore di Vincenzo Buonocore, III, Milano, 2005, 3893.

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la trasformazione di società in trust avrebbe la stessa funzione della trasfor-mazione in comunione di azienda, costituendo un’alternativa alla liquidazione estintiva della società.

Come già si è detto, la trasformazione della società in trust con tale finalità era stata posta – almeno sino a poco tempo fa – in dubbio, sul riflesso che il procedimento di liquidazione sarebbe necessario e inderogabile; la situazione pare, peraltro, essersi più di recente modificata, alla luce della posizione as-sunta dalla giurisprudenza di legittimità.

Nel caso di utilizzo del trust, può essere individuato un ulteriore elemento di criticità, dovendosi escludere che i trustee e i beneficiari possano essere esclusivamente gli stessi soci, perché ciò implicherebbe coincidenza tra la po-sizione di trustee e quella di beneficiari del trust, che – almeno secondo un certo orientamento – sarebbe inammissibile (v. supra il cd. “trust autodichia-rato”). Sarebbe, quindi, necessario che l’atto istitutivo del trust prevedesse beneficiari ulteriori rispetto agli originari soci: in tal caso, infatti, la coinci-denza tra beneficiari del trust e trustee non sarebbe assoluta.

Potrebbero, quindi, prospettarsi le seguenti fattispecie:

• trasformazione di società in trust che preveda quale trustee un terzo e be-neficiari i soci medesimi: in tale ipotesi si verifica un effetto di continuità rife-ribile al patrimonio, che rimane il medesimo, mentre c’è totale discontinuità con riferimento al soggetto titolare di esso; il trust fund, infatti, all’esito della trasformazione passerebbe nella disponibilità del trustee e non dei soci;

• trasformazione di società in trust che preveda quale trustee un terzo e be-neficiari estranei rispetto ai soci (da soli o in aggiunta ai soci medesimi): in questo caso i destinatari finali del patrimonio già sociale non sarebbero (sol-tanto) i soci ma anche (o esclusivamente) terzi (ad esempio i figli dei soci op-pure i creditori sociali);

• trasformazione di società in trust che preveda quali trustee i soci e benefi-ciari gli stessi soci e ulteriori soggetti: il trust che sorgerebbe per effetto di tale trasformazione di società in trust potrebbe, peraltro, configurarsi come trust autodichiarato (con tutte le conseguenze, di cui si è detto, in ordine alla sua eventuale illegittimità).

Un’ulteriore ipotesi che potrebbe essere prospettata è quella della trasfor-mazione di società in trust di scopo: il trust di scopo si caratterizza per l’as-senza di beneficiari individuati (o anche solo individuabili). L’operazione di trasformazione di una società in trust di scopo può condurre, alternativamente, al sorgere di un trust charitable (benefico) ovvero non charitable, nel quale ultimo caso esso è considerato valido soltanto se regolato da una legge diversa da quella inglese, che ne preveda espressamente la validità. La necessità di

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imputare i risultati della gestione del patrimonio e il patrimonio stesso ai soci per effetto della trasformazione eterogenea sembra porsi in contrasto con la natura propria del trust di scopo; quest’ultimo – infatti – non prevedendo be-neficiari, avrebbe l’effetto di determinare la permanenza dei risultati della ge-stione del patrimonio in capo al trust medesimo e non in capo agli ex soci.

In ogni caso, ove si dovesse giungere alla conclusione della illegittimità della trasformazione della società in trust, si potrebbero individuare altre solu-zioni percorribili per giungere al medesimo risultato, senza violare le norme imperative in materia di liquidazione della società 19:

• una prima soluzione consiste nell’istituzione di più trust, i cui trustee (an-che terzi rispetto ai soci) procederebbero all’acquisto delle partecipazioni di-ventando soci della società, che poi si trasformerebbe in comunione di azien-da;

• altra soluzione consiste nel trasformare previamente la società in comu-nione di azienda: gli ex soci, a questo punto, potrebbero conferire in un trust la comunione d’azienda, affidandone la gestione a un trustee terzo, a vantaggio di beneficiari che potrebbero a loro volta essere terzi rispetto agli ex soci;

• un’ultima soluzione consiste nel conferimento delle quote di partecipa-zione della società in un trust e nella “trasformazione” della società in impresa individuale: l’ammissibilità di tale fattispecie presuppone, peraltro, la soluzio-ne positiva (che non è affatto scontata) della trasformazione di società in im-presa individuale.

19 Per ulteriori approfondimenti, si veda D. MURITANO, La trasformazione di società in trust, Studio n. 17-2013/I.

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Gli strumenti di tutela del patrimonio e le procedure concorsuali Francesco Pipicelli

SOMMARIO

1. Trust puramente liquidatorio e società di capitali. – 2. Trust e concordato preventivo alla lu-ce della giurisprudenza di merito. – 3. Trust e fallimento. – 3.1. Trust in ambito fallimentare e giurisdizione nazionale.

1. Trust puramente liquidatorio e società di capitali

Occorre partire da una premessa e far riferimento al trust liquidatorio nelle società in bonis in liquidazione, dovendosi aver cura che non si tratti di una fittizia devoluzione del bene in trust, per provvedere poi alla mera cancella-zione dal registro delle imprese, lasciando impagati i debiti, configurando tale condotta un’ipotesi di scuola di responsabilità dei liquidatori ex art. 2395 c.c. A tale riguardo occorre tener conto di alcuni orientamenti, senz’altro più rigo-rosi, espressi sia dai giudici del registro sia dai tribunali in sede di impugna-zione di tali provvedimenti, guidati da un consolidato orientamento del giudi-ce del registro di Milano. Dinanzi a fattispecie nelle quali una società posta in liquidazione trasferisca l’intero patrimonio sociale (attivo e passivo) a un trust, presenti il bilancio finale di liquidazione e ottenga la cancellazione dal registro delle imprese, la posizione dei giudici ambrosiani è netta: la cessione senza corrispettivo, dunque senza realizzo, al trust non coincide con l’attività di liquidazione che quindi non è stata effettuata anzi non è stata neanche ini-ziata. In altri termini, si cancella perché si è liquidato; il fatto che si riservi la liquidazione a un terzo e non la si realizzi secondo il procedimento classico non conduce in alcun modo a ritenere conclusa l’attività liquidatoria. Essa, per vero, non è neppure iniziata, ma meramente programmata attraverso la costi-tuzione del trust e la relativa dotazione. Dunque, l’affrettata liquidazione e cancellazione della società, tale da lasciare insoddisfatti creditori sociali di cui gli organi conoscevano l’esistenza rappresenta l’ipotesi più classica di respon-sabilità ex art. 2395 c.c.

Si esamineranno adesso quelle che sono le due tipologie di trust in ambito

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liquidatorio, seppur parzialmente diverso, non nella società in bonis, ma nel-l’ambito delle procedure concorsuali (fallimento e concordato preventivo), so-prattutto in periodi di insolvenza o in periodi sospetti in cui il trust viene defi-nito “falsamente liquidatorio” o comunque costituito in pregiudizio alle ragio-ni dei creditori concorsuali.

2. Trust e concordato preventivo alla luce della giurisprudenza di merito

La prima ipotesi è quella del trust c.d. “di salvataggio”. È il caso dell’im-presa in crisi, non ancora necessariamente in caso di insolvenza, ma che si av-via ad una soluzione regolata della crisi secondo il concordato preventivo. Il trust di salvataggio può essere un modo di messa a disposizione dei beni per-sonali dell’imprenditore o di terzi soggetti. Il caso classico è una società ga-rante fideiubente rispetto ad una società debitrice che va in concordato, e che consente la messa a disposizione dei beni integrativa in un concordato liquida-torio, in cui questo surplus di ricchezza concorsuale consente il pagamento ri-spetto al 20%, attualmente previsto dall’art. 160, ult. comma, l.f. In questo ca-so il trust aiuta ad adempiere finalità tipiche del concordato. C’è la possibilità di utilizzare gli organi della liquidazione concordataria intersecandoli con quelli del trust. Tale soluzione sarà in grado di garantire elasticità e flessibilità nell’ambito concordatario, perché consentirà la messa a disposizione di beni, sottoposta alla condizione risolutiva del fallimento ovvero a quella sospensiva dell’omologa del concordato, senza che ci sia un passaggio di proprietà defini-tivo, ma una semplice devoluzione dei beni in trust.

Il problema giuridico che qui si pone, e che è di assoluto rilievo, riguarda il fatto che il c.d. “ombrello protettivo” opera in relazione ai soli creditori della società in concordato, mentre si pone un conflitto tra i creditori della società in concordato e i creditori personali della società disponente, ovvero la società garante che mette a disposizione i beni per il concordato. Rispetto a questi creditori non si applica l’ombrello protettivo e sarà ben possibile che i credito-ri personali della società inizino azioni esecutive ed iscrivano ipoteche giudi-ziali sulla base di decreti ingiuntivi o di sentenze a loro favorevoli. In tal caso bisogna comprendere come la giurisprudenza di merito ha tentato di risolvere il conflitto tra queste due tipologie di creditori. La risoluzione del conflitto a favore dei creditori della società garantita fa sì che la finalità di regolazione della crisi concorsuale mediante concordato sia recessiva.

Trib. Forlì, 4 febbraio 2015 ha ritenuto meritevole di tutela un trust liquida-torio auto-dichiarato con il quale il fideiussore di una società, in procinto di presentare una domanda di concordato preventivo, ha apposto sui propri beni

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un vincolo di destinazione a favore dei creditori del concordato. La vicenda oggetto del contenzioso trae origine dalla concessione di una fideiussione a garanzia dell’adempimento di più crediti contratti da una società e rimasti non soddisfatti. Il fideiussore ha costituito un trust, vincolando più beni immobili al fine di assicurare ai creditori della società garantita la non dispersione del patrimonio e la successiva liquidazione in previsione della domanda di am-missione alla procedura di concordato preventivo che la società era in procinto di presentare.

Con ricorso in accertamento negativo ex 702-bis c.p.c. il trustee ha chiesto al giudice di merito di accertare l’insussistenza del diritto di due istituti banca-ri creditori di iscrivere ipoteca su alcuni beni immobili vincolati in trust. I convenuti in via riconvenzionale hanno domandato a loro volta al tribunale di accertare la nullità dell’atto istitutivo o in subordine di revocare ai sensi del-l’art. 2901 c.c. l’atto dispositivo relativo agli immobili destinati in trust.

Il tribunale con ampia motivazione ha rigettato la domanda della ricorrente; ha altresì rigettato la domanda riconvenzionale di nullità dell’atto istitutivo del trust ed accolto la domanda riconvenzionale subordinata rivolta ad ottenere la dichiarazione di inefficacia dell’atto di disposizione di tutti i beni in trust, cioè l’azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c. È stato dunque reputato ricono-scibile e valido il trust liquidatorio che realizza un programma di segregazione funzionale alla liquidazione del patrimonio del disponente al fine di facilitare la procedura di concordato della società garantita, rassicurando i creditori del-la stessa sulla non dispersione dei beni. Il Tribunale ha tuttavia accolto l’azio-ne revocatoria ordinaria, risolvendo il conflitto tra l’interesse del disponente a favorire la soluzione della crisi e l’interesse dei suoi creditori a mantenere i-nalterata la situazione patrimoniale del loro debitore, a favore di questi ultimi.

Il ragionamento svolto da tribunale per affermare la ricorrenza dei presup-posti oggettivi e soggettivi dell’azione pauliana è articolato. L’eventus damni è stato ravvisato nella modifica della situazione patrimoniale del debitore. An-corché non vi sia trasferimento di beni ma mera funzionalizzazione ad uno scopo connessa alla segregazione patrimoniale, ciò è sufficiente a rendere più difficoltosa la realizzazione coattiva del credito e ciò integra pregiudizio per il creditore, secondo un consolidato orientamento della Cassazione, a partire da Cass. n. 19131/2004.

Il consilium fraudis del disponente è stato ravvisato dal tribunale nella con-sapevolezza del pregiudizio che sarebbe derivato ai propri creditori, trattando-si di atto di segregazione successivo alla nascita del credito.

Il Tribunale, inoltre, ha equiparato l’atto di dotazione dei beni al trust ad un atto a titolo gratuito (poiché non vi è uno spostamento patrimoniale e non trat-tandosi di atto di natura solutoria), in rapporto all’interesse dei terzi beneficiari

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cioè i creditori della società garantita, escludendo conseguentemente la neces-sità della partecipatio fraudis.

In tema di atti di destinazione patrimoniale anche diversi dal trust nell’am-bito del concordato preventivo, pare interessante soffermarsi sulla sentenza del Trib. Prato, 12 agosto 2015, n. 942.

Nel caso concreto, una banca titolare di un credito per circa un milione e mezzo di euro nei confronti di due società (una debitrice principale e l’altra quale fideiubente), aveva convenuto in giudizio quest’ultima al fine di far ac-certare e dichiarare la nullità e/o inefficacia e/o inopponibilità nei suoi con-fronti dell’atto di destinazione ex art. 2645 ter avente ad oggetto beni immobi-li, compiuto dalla convenuta per supportare la domanda di concordato preven-tivo svolta dalla società debitrice principale; di tale circostanza l’attrice si era avveduta, sulla base della nota di trascrizione, nel momento in cui era andata ad iscrivere ipoteca giudiziale sulla base del decreto ingiuntivo ottenuto.

La banca sosteneva che l’avvenuta omologazione del concordato preventi-vo avrebbe causato un pregiudizio al creditore prelatizio in via ipotecaria e so-prattutto che l’atto di destinazione ex art. 2645-ter c.c. fosse del tutto inidoneo al raggiungimento dello scopo indicato dalla norma quale specificamente me-ritevole di tutela, essendo stati tali interessi testualmente limitati dal legislato-re a quelli riferibili a persone con disabilità o alla PA o ad altri enti e persone fisiche.

La questione giuridica a cui dare risposta – sulla quale la dottrina e la giuri-sprudenza di merito sono divise e non vi sono state pronunce di legittimità – è se la norma in questione sia strumento idoneo a realizzare soltanto interessi giuridicamente rilevanti collegati alla tutela della disabilità e della PA o anche in funzione di un rapporto causale sottostante per scopi ulteriori e diversi di natura patrimoniale rilevanti ex art. 1322 c.c.

In proposito, il Tribunale di Prato ha ritenuto che l’atto di destinazione ex art. 2645 ter c.c. sia efficace e meritevole di tutela ex art. 1322 c.c., con riferi-mento al patrimonio posto a garanzia e nell’interesse del soddisfacimento dei creditori di società in crisi, ove vi sia l’intenzione di instaurare procedure di concordato preventivo: è infatti degna di riconoscimento e tutela da parte dell’ordinamento giuridico italiano la finalità di assicurare una soddisfazione proporzionale ai creditori non muniti di causa di prelazione.

La lettura restrittiva della norma che ritenga utilizzabile l’atto di destina-zione solo per finalità di pubblica utilità sarebbe illegittima e non costituzio-nalmente orientata, oltre che in contrasto con le altre esperienze internazionali (“fiducie” in Francia e “trust” nei paesi anglosassoni, stante il fatto che la nor-ma in questione è stata definita come il trust italiano), in cui gli atti di destina-

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zione sono utilizzati per le più svariate finalità, anche di tipo commerciale o finanziario.

Il concetto di meritevolezza ed il rinvio all’art. 1322 c.c. assumono il signi-ficato di richiedere la presenza, quale base dell’atto di destinazione, di una causa diversa ed ulteriore rispetto alla mera intenzione del disponente di limi-tare la propria responsabilità.

In conclusione, la giurisprudenza del Tribunale di Prato ha ritenuto merite-vole di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c. la finalità concorsuale e di regolazione della crisi di impresa che consenta il pagamento in moneta concordataria dei creditori anche chirografari del concordato, sancendone la prevalenza rispetto al creditore ipotecario prelatizio che in quel caso veniva danneggiato dall’ope-razione complessiva.

3. Trust e fallimento

Passando all’applicazione del trust nell’ambito della disciplina fallimenta-re, abbiamo l’ipotesi del trust c.d. “falsamente liquidatorio, illecito o anticon-corsuale”. È il caso dell’imprenditore che si trovi in un conclamato stato di in-solvenza, in cui la devoluzione del bene in trust abbia la mera finalità di im-pedire alla curatela, a seguito dello spossessamento fallimentare, di apprende-re il bene al fallimento e di liquidarlo concorsualmente. In tal caso la finalità, se la società è insolvente, è assolutamente illegittima e spesso alcune società hanno fatto ricorso a questo espediente per poi approfittare del termine annua-le di cancellazione dal registro delle imprese, provvedendo a cancellare la so-cietà immediatamente dopo il conferimento in trust di tutta l’azienda.

Il leading case in materia è la pronuncia della Cass. civ., sez. I, n. 10105/ 2014: in tal caso si trattava di decidere su un ricorso per cassazione verso re-clamo contro una sentenza dichiarativa di fallimento del tribunale di Roma, rispetto alla società posta in liquidazione che con un atto istitutivo complessi-vo aveva ceduto tutta l’azienda (beni, debiti e crediti), provvedendo alla suc-cessiva cancellazione presso il registro delle imprese.

In tal caso il trust era stato ritenuto da parte della S.C. elusivo delle norme concorsuali in base a una serie di accertamenti di fatto: la quantità di debiti tributari anche verso Equitalia, gli infruttuosi tentativi di pignoramento ed in-fine, trattandosi di una società in liquidazione, l’insufficienza dell’attivo resi-duo liquido o prontamente liquidabile per pagare i debiti. Un altro elemento importante che era stato valorizzato, era la presenza di un trust non propria-mente auto dichiarato, ma in cui il settlor era la società di capitali in liquida-zione, invece il trustee era il legale rappresentante della società medesima.

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Inoltre era stato valorizzato un vero e proprio mancato compimento delle atti-vità liquidatorie con successiva cancellazione al registro delle imprese, che è quello che è spesso sintomo della finalità elusiva e anticoncorsuale del confe-rimento in trust.

Rispetto alla precedente giurisprudenza di merito sul punto, la ricostruzio-ne che la Cassazione ha fornito quanto alla sanzione giuridica di tali compor-tamenti, è stata parzialmente diversa. Mentre la giurisprudenza di merito ave-va sempre parlato di nullità ai sensi degli art. 1418 e seguenti per violazione di norme imperative, la Corte ha preso una posizione ancor più radicale: ha par-lato di inesistenza giuridica di un atto dispositivo e di conferimento in trust, che è tamquam non esset.

Tale affermazione è stata resa possibile a partire dal testo dell’art. 15 della convenzione dell’Aja del 1984. Il giudice nazionale può denegare il ricono-scimento del trust, che è un istituto non di diritto interno, qualora ci siano fi-nalità elusive ed anti-concorsuali, applicando in questo modo la legge falli-mentare italiana e potendo dichiarare fallimento a seguito di questa disappli-cazione incidenter tantum. In tal caso, per esigenze di tutela dell’ordine pub-blico concorsuale e facendo un giudizio di delibazione sull’ordine pubblico processuale di carattere internazionale, il giudice italiano potrà disapplicare, non riconoscere il trust e consentire la liquidazione concorsuale a seguito della dichiarazione di fallimento. Tale norma, invero, espressamente prevede che la Convenzione non possa costituire “ostacolo all’applicazione delle disposizioni della legge designata dalle norme del foro sul conflitto di leggi” in tema di “protezione dei creditori in caso di insolvenza” (ed applicandosi a società ita-liana disponente le disposizioni della legge fallimentare interna), e l’ultimo comma aggiunge che “qualora le disposizioni del precedente paragrafo siano di ostacolo al riconoscimento del trust, il giudice cercherà di attuare gli scopi del trust in altro modo”, così dunque palesando che proprio al giudice compe-te, e proprio per i motivi elencati nel primo comma, denegare il disconosci-mento: dunque, dar corso alla procedura fallimentare costituisce appunto l’u-nico modo compatibile con l’ordinamento di realizzare il fine liquidatorio.

Occorre domandarsi poi quale sia la sorte e la validità giuridica dell’atto a valle, ossia il trasferimento dei beni o dell’azienda al trustee. Trattandosi di un atto che ha un antecedente causale e logico – giuridico inesistente si tratterà di una nullità per difetto di causa, con invalidità derivata ai sensi dell’art. 1418, comma 2, c.c.

A questo punto il curatore potrà procedere, a seguito di questa inesistenza e conseguente invalidità dell’atto a valle, ad apprendere i beni trasferiti in modo inefficace e liquidarli in sede concorsuale, così realizzando le finalità tipiche della legge fallimentare e quindi del fallimento secondo la legge italiana.

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In tal caso, l’impossibilità di riconoscimento del trust non è esclusa, né dal fine dichiarato di procedere alla liquidazione nell’interesse dei creditori, né dal fatto che vi siano delle clausole di salvaguardia generali quale la prevista riso-luzione in caso di sopravvenuto fallimento: è chiaro che per la teoria per cui un atto nullo o inesistente non può produrre alcun effetto giuridico, tale condi-zione sospensiva o risolutiva si riterrà non apposta sin dall’origine.

In realtà però il piano della tutela dei creditori, più che nell’ambito del trust e delle procedure concorsuali e sul piano teorico generale dell’inesistenza o dell’invalidità, si pone sul piano dell’inefficacia giuridica. Questo perché il rimedio che ha a disposizione il curatore per far valere l’inefficacia del confe-rimento in trust è l’azione revocatoria ordinaria ai sensi degli artt. 66 l.f. e 2901 c.c.

3.1. Trust in ambito fallimentare e giurisdizione nazionale A tal proposito, si è posta all’attenzione una recentissima ordinanza emessa

dalle Sezioni Unite della Cassazione, in sede di regolamento di giurisdizione, nell’ambito di un caso originato da un fallimento del tribunale di Torre An-nunziata.

Si fa riferimento a Cass., sez un., 26 aprile 2017, n. 10233 (Rv. 643786 – 02), la quale ha ritenuto che “L’azione revocatoria ordinaria promossa da una curatela fallimentare nei confronti di un convenuto non residente in Italia ap-partiene alla giurisdizione del giudice italiano, trattandosi di azione diretta-mente derivante dalla procedura e ad essa strettamente connessa. Invero, sebbene l’azione ex art. 66 l. fall. sia pur sempre la medesima prevista dal-l’art. 2901 c.c., la stessa presenta talune peculiarità che la differenziano da quest’ultima – giova a tutti i creditori, e non solo a colui che agisce, con effet-to sostanzialmente recuperatorio; va proposta innanzi al tribunale fallimenta-re nel termine di decadenza triennale di cui all’art. 69-bis l. fall., oltre che a quello di prescrizione quinquennale; il suo esercizio impedisce analoghe ini-ziative degli altri creditori – e si fonda, pertanto, su di una disposizione che, in quanto costituente deroga alle comuni regole del diritto civile e commer-ciale, rileva ai fini dell’applicazione delle disposizioni sulla competenza in-ternazionale previste dagli artt. 3 e 25 del reg. CE n. 1346 del 2000 (con con-seguente esclusione dell’applicazione del reg. CE n. 44 del 2001)”.

Il problema di giurisdizione che si è posto è il seguente: il fallimento ha agito per regolamento di giurisdizione ritenendo debba affermarsi la giurisdi-zione del giudice italiano nell’ambito dell’azione revocatoria (ex art. 66 l.f.) richiamando l’applicazione del regolamento comunitario n. 1346/2000, il cui art. 25 stabilisce che il Tribunale Fallimentare è competente a conoscere di

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tutte le azioni strettamente connesse e derivanti da una procedura di insolven-za, che è stata dichiarata dal tribunale medesimo. Quindi, il giudice di uno sta-to membro del territorio in cui è stata avviata una procedura di insolvenza, ha giurisdizione sui convenuti che in ipotesi avevano sede o domicilio in un altro stato membro (in tal caso il trustee era la Bank of Valletta, quindi un istituto di credito avente sede in Malta), in caso di azione proposta dalla curatela fal-limentare nei confronti di persone che hanno istituito il trust. Il Fallimento ha dunque cercato di affermare la giurisdizione del giudice italiano con richiamo del regolamento CE n. 1346 del 2000.

Al contrario, la banca maltese ha ritenuto debba applicarsi e affermarsi la giurisdizione del giudice maltese, richiamando l’art. 5 del regolamento CE n. 44/2001. Questo art. afferma che in materia contrattuale la persona domiciliata nel territorio di uno stato membro può essere convenuta in un altro stato membro davanti al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita (sede di domicilio del trust in Malta).

La giurisprudenza di legittimità, in particolare Cass., sez. un., sent. 7 mag-gio 2003, n. 6899, Rv. 562697 – 01 (in massima “Il criterio di collegamento stabilito dall’art. 5, n. 1, della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 (concernente la competenza giurisdizionale in materia civile e commer-ciale), criterio richiamato dall’art. 3, comma secondo, della legge 31 maggio 1995, n. 218, e secondo il quale, in materia contrattuale, il convenuto può es-sere citato davanti al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudi-zio è stata o deve essere eseguita, è applicabile non solo nelle ipotesi in cui si controverte tra le parti contraenti, ma anche quando sia un terzo, estraneo al rapporto contrattuale, a proporre, nei confronti delle parti del contratto, un’azione di simulazione, ai sensi degli art. 1414 e 1416, primo comma, del codice civile, o un’azione revocatoria, ex art. 2901 del codice medesimo. An-che in tal caso, infatti, non diversamente da quello in cui l’azione di simula-zione è proposta da una delle parti verso l’altra, sono gli obblighi che dal contratto sono derivati tra le parti a presentarsi come obbligazione dedotta in giudizio, rispetto alla quale, quindi, continua a fungere da criterio di colle-gamento il luogo in cui l’obbligazione stessa è stata o avrebbe dovuto essere eseguita”), ha sostenuto che il foro di esecuzione del contratto operi anche quando sia stato un terzo estraneo al rapporto contrattuale a proporre nei con-fronti delle parti contrattuali un’azione revocatoria tesa a farne venire meno l’efficacia; anche se il principio è stato affermato similmente rispetto alla si-mulazione contrattuale, il criterio di collegamento è sempre lo stesso: l’obbli-gazione viene dedotta in giudizio perché si tende con l’azione a far venire me-no l’efficacia rispetto ad un obbligo derivante dal contratto, che ha forza di legge tra quelle parti. La Corte di cassazione, nella pronuncia in commento, ha

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tuttavia sostenuto che questo precedente non sarebbe risolutivo nel caso di specie.

La tesi che ha cercato di affermare l’istituto di credito maltese è che anche se sia stata proposta al curatore fallimentare, si tratterebbe pur sempre della normale revocatoria ordinaria ai sensi dell’art. 2901 c.c.: sarebbe una sorta di elemento accidentale quello per cui la società si trovi in una situazione di in-solvenza o in crisi finanziaria e quindi l’azione sia praticata nell’ambito di un fallimento.

La S.C. ai fini della risoluzione del caso è partita dalla giurisprudenza della CGUE ed ha affermato che al fine di ritenere applicabile il regolamento del 2001 e quindi di rinvenire la stretta connessione con la procedura di insolven-za, non deve esservi soltanto l’esercizio dell’azione in ambito di una procedu-ra di insolvenza (in ipotesi azione ordinaria nell’ambito di un fallimento), ma deve rinvenirsi una corposa deroga alle disposizioni generali del diritto comu-ne, per concludere che da tale deroga rifluirà l’applicazione della disciplina concorsuale.

In tal caso l’azione non è esercitata dal curatore solo perché il titolare dell’azione è fallito, non si tratta di un’azione della massa in cui il curatore ha la legittimazione processuale in luogo del fallito, ma è un’azione che, pur pro-ponibile in assenza di insolvenza nell’ipotesi semplice dell’art. 2901, trae da essa titolo e si fonda sulla deroga e sulle comuni deroghe del diritto civile e commerciale. Il curatore ha dunque l’obbligo di attivarsi perché fa l’interesse della massa, mentre l’art. 2901 giova soltanto al creditore che agisce.

Ad avviso della S.C., forti deroghe al diritto comune dell’azione ex art. 66 l.f. rispetto all’art. 2901 c.c., idonee a fondare l’applicazione della stretta con-nessione con la procedura di insolvenza sono le seguenti:

1) l’effetto giuridico diverso, in quanto l’art. 2901 c.c. dà luogo ad ineffi-cacia relativa, con conseguente possibilità per il creditore singolo di procedere ad esecuzione su quel bene a seguito della dichiarazione di inefficacia, mentre l’effetto giuridico dell’accoglimento dell’azione ex art. 66 è un effetto recupe-ratorio pieno del bene rispetto alla massa;

2) l’art. 66 l.f. a differenza dell’art. 2901 c.c. determina la vis attractiva dell’azione al Tribunale Fallimentare;

3) mentre l’azione dell’art. 2901 c.c. è soggetta solo al termine prescrizio-nale di 5 anni, l’art. 69-bis l.f. prevede un espresso termine decadenziale di 3 anni dalla dichiarazione di fallimento;

4) infine, mentre l’art. 2901 consente un possibile intervento che proces-sualmente è ad adiuvandum da parte degli altri creditori, che comunque sono nella stessa posizione sostanziale e processuale e che possono proporre anche

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analoghe azioni separate, l’art. 66 l.f. prevede la legittimazione del solo cura-tore fallimentare, escludendo l’intervento di altri creditori che abbiamo la le-gittimazione autonoma. Deve farsi riferimento all’orientamento della giuri-sprudenza di legittimità, la quale aveva affermato che se dopo il fallimento il curatore subentra all’originario creditore ed attore, viene meno l’originaria le-gittimazione del creditore e il suo interesse ad agire, quindi quest’ultimo non avrà altro titolo a partecipare al giudizio (Cass., sez. un., sent. 17 dicembre 2008, n. 29420 (Rv. 605966 – 01) “Qualora sia stata proposta un’azione re-vocatoria ordinaria per fare dichiarare inopponibile ad un singolo creditore un atto di disposizione patrimoniale compiuto dal debitore e, in pendenza del relativo giudizio, a seguito del sopravvenuto fallimento del debitore, il curato-re subentri nell’azione in forza della legittimazione accordatagli dall’art. 66 legge fallimentare, accettando la causa nello stato in cui si trova, la legittima-zione e l’interesse ad agire dell’attore originario vengono meno, onde la do-manda da lui individualmente proposta diviene improcedibile ed egli non ha altro titolo per partecipare ulteriormente al giudizio.”). In conclusione, sol-tanto il curatore sarà legittimato all’azione e non i singoli creditori, né in que-sta sede né in altre.

La conclusione della corte di cassazione è che pur se trattasi della stessa azione prevista dal codice civile vi sono particolarità sufficientemente signifi-cative e differenze che consentono di applicare il regolamento n. 1346/2000 e non il regolamento n. 44/2001, con conseguente affermazione della giurisdi-zione italiana e dunque del tribunale di Torre Annunziata.

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Gli aspetti fiscali degli strumenti di tutela del patrimonio Alessandro Terzuolo

SOMMARIO

1. Introduzione. – 2. Il fondo patrimoniale. – 3. I vincoli di destinazione (di cui all’art. 2645-ter c.c.). – 4. I trusts: aspetti di fiscalità diretta e indiretta. – 5. Un caso particolare: la trasformazione eterogenea del trust. – 6. Le polizze vita.

1. Introduzione

I profili tributari riguardanti i differenti strumenti concessi dal legislatore per la tutela del patrimonio rappresentano un argomento estremamente etero-geneo e ancora caratterizzato da diversi aspetti critici. La varietà del tema è la diretta conseguenza dell’ampio panorama che contraddistingue i modi in cui è possibile ottenere la tutela del patrimonio, attraverso strumenti molto differen-ti tra di loro e che sono forieri di diverse implicazioni sia dal punto di vista dell’imposizione diretta sia dal punto di vista dell’imposizione indiretta. Inol-tre, soprattutto in riferimento al trust o ai trusts, come più precisamente identi-ficati dalla dottrina più attenta, il dibattito giurisprudenziale e dottrinale risulta tutt’altro che pacifico e consolidato. Sarà, infatti, proprio l’analisi dei profili tributari connessi alle varie tipologie di trust ad avere più spazio nel presente contributo.

L’ampiezza del tema imporrà quindi un’analisi necessariamente riassuntiva e distinta strumento per strumento. Oltre agli aspetti riguardanti l’IRPEF e l’IRES, ci si soffermerà sull’imposta sulle successioni e donazioni e in parte sull’imposta di registro. Il presente contributo non tratterà invece la legittimità dal punto di vista civilistico e penale dei singoli strumenti, così come la loro efficacia non verrà valutata in modo critico. Saranno perciò oggetto di appro-fondimento unicamente i profili tributari specifici di ciascuno strumento non-ché alcune fasi della “vita” degli stessi.

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2. Il fondo patrimoniale

Il fondo patrimoniale, disciplinato dagli artt. 167 ss. c.c., sotto il profilo tri-butario deve essere affrontato prioritariamente dal punto di vista dell’im-posizione diretta e, in seconda battuta, dal punto di vista dell’imposizione in-diretta. Pur non mancando alcuni casi complessi che possono generare una qualche incertezza, lo strumento in analisi rappresenta quello maggiormente consolidato dal punto di vista dell’imposizione fiscale.

Il Testo Unico delle imposte sui redditi ha infatti espressamente previsto al-l’art. 4, comma 1, lett. b) che i redditi dei beni appartenenti al fondo siano im-putati per metà del loro ammontare netto a ciascuno dei due coniugi, titolari del diritto di fruirne e di disporne. I redditi rilevanti ai fini IRPEF, si possono generare, ad esempio, nel caso di locazioni attive derivanti da immobili, dal-l’affitto attivo di beni mobili registrati o ancora da dividendi o da plusvalenze scaturiti da partecipazioni in società di capitali 1.

Tuttavia, qualche perplessità rispetto al dettato letterale della norma vi può essere nel caso in cui, conformemente al dettato dell’art. 168, comma 1, c.c., i coniugi decidano di non attribuire a entrambi la proprietà dei beni costituenti il fondo attraverso diversa pattuizione nell’atto di costituzione del fondo stesso. A parere di chi scrive, come peraltro osservato da autorevole dottrina 2, una lettura orientata al principio costituzionale di capacità contributiva dovrebbe privilegiare le differenze in termini di riserva di proprietà o meno che i coniu-gi o il terzo hanno deciso di imprimere al fondo ed ai suoi beni. Non deve però essere tralasciato il dettato del secondo periodo dell’art. 4, comma 1, lett. b) il quale, invece, prevede espressamente che, qualora si verifichi la cessazione del fondo patrimoniale, ex art. 171 c.c., in presenza di figli minori, i redditi dei beni che rimangono destinati al fondo siano da imputarsi per intero al coniuge superstite o al coniuge cui sia stata esclusivamente attribuita l’amministra-zione del fondo medesimo 3.

Dal punto di vista dell’imposizione indiretta, invece, le problematiche risul-tano più facilmente distinguibili a seconda dei casi e riguardano l’imposta di re-gistro, l’imposta di donazione o successione, l’imposta ipotecaria e catastale.

1 Non si entra nel merito rispetto alla possibilità di includere all’interno del fondo le quote di S.r.l e in tal caso si rimanda a due Studi del Notariato, rispettivamente il n. 265/2012 e il 375-2012/C.

2 Si veda su tutti S. BARDI, “Il regime fiscale del fondo patrimoniale”, in Dir. prat. trib., 19977, II, 1201.

3 Si veda in merito, fra gli altri, il documento n. 83 “Profili fiscali del fondo patrimoniale” della fondazione Aristeia (Istituto di ricerca dei Dottori Commercialisti) del dicembre 2007.

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È innanzitutto opportuno chiarire che in merito al rapporto tra imposta di registro e imposta sulle successioni e donazioni vige un generale principio di alternatività ai sensi dell’art. 25 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, pertanto, ove si applichi una non è dovuta l’altra. Soprattutto in merito all’imposta di regi-stro, al di là del suddetto principio di alternatività, è opportuno comprendere se l’imposta si applichi in misura fissa o in misura proporzionale. Tale differenza risulterà estremamente rilevante in termini di costo dello strumento di prote-zione del patrimonio per il contribuente. Analizzando più nel dettaglio il tema dell’imposta sulle successioni e donazioni, si deve fare riferimento alla legge n. 286/2006 che, reintroducendo l’imposta, vi ha incluso la locuzione “costituzio-ne di vincoli di destinazione” e, pertanto, può interessare, in via generale, an-che la costituzione di un fondo patrimoniale. Tuttavia, sempre attraverso una lettura orientata al principio costituzionale di capacità contributiva, la legittimi-tà dell’imposta è imperniata sulla manifestazione di una capacità contributiva che rappresenti una certa potenzialità economica concreta ed attuale. Nel no-stro caso, quindi, deve riguardare un incremento patrimoniale in capo al bene-ficiario dell’atto a titolo gratuito, anche in considerazione del suo rapporto di parentela con il donante o de cuius. In virtù di questa breve premessa è ora op-portuno distinguere le diverse situazioni che possono riguardare la:

• costituzione di un fondo da parte di entrambi i coniugi con beni in comu-nione dei beni: non vi è alcun presupposto per l’imposta sulle successioni e donazioni e quindi si applicherà soltanto l’imposta di registro in misura fissa;

• costituzione di un fondo con beni di proprietà esclusiva di uno dei coniu-gi, il quale se ne riserva la titolarità: non vi è nuovamente alcun presupposto per l’imposta sulle successioni e donazioni e quindi si applicherà soltanto l’imposta di registro in misura fissa;

• costituzione di un fondo con beni di proprietà esclusiva di uno dei coniu-gi, senza che lo stesso se ne riservi la titolarità: si realizza il presupposto del-l’imposta sulle successioni e donazioni sulla metà del valore del bene o dei be-ni destinati al fondo, più precisamente sul valore catastale in caso di beni im-mobili, con un’aliquota del 4% sul valore eccedente la franchigia di un milio-ne di Euro, trattandosi appunto di rapporto di coniugio;

• costituzione di un fondo con beni di proprietà di un soggetto terzo: si rea-lizza il presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni sul totale del bene o dei beni destinati al fondo, più precisamente sul valore catastale in caso di beni immobili, con un’aliquota e una franchigia variabili in virtù del rappor-to intercorrente tra il terzo e ciascuno dei coniugi. Se, come nell’ipotesi più frequente, il terzo è il genitore di uno dei coniugi, sul 50% del valore del bene o dei beni destinati al fondo si applicherà l’aliquota del 4% sul valore ecce-

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dente la franchigia di un milione di Euro, mentre sul restante 50% del valore del bene o dei beni destinati al fondo, trattandosi di affine in linea collaterale fino al terzo grado, si applicherà l’aliquota del 6% senza franchigie.

Per quanto riguarda, invece, il tema delle imposte ipotecaria e catastale, che quindi riguarda solamente i beni immobili, dove vi sia di fatto un trasfe-rimento della proprietà, le stesse saranno dovute in misura proporzionale ri-spettivamente con aliquota del 2% e dell’1 %. Qualora invece non sia ipotiz-zabile alcun trasferimento di proprietà dei beni immobili oggetto del fondo le imposte si applicheranno in misura fissa di 200 euro per ciascuna imposta.

3. I vincoli di destinazione (di cui all’art. 2645-ter c.c.)

L’art. 2645-ter non brilla certo per chiarezza e coerenza in virtù dell’inse-rimento nella parte codicistica dedicata alla trascrizione immobiliare. Tale ati-pica posizione normativa ha persino sollevato dubbi in merito alla propria na-tura di disciplina sostanziale o meno. La collocazione nelle norme in materia di trascrizione avrebbe anche potuto riguardare gli effetti di alcuni atti ma non gli atti stessi. Tuttavia, la prevalente dottrina ritiene che l’articolo in questione abbia natura sostanziale e anzi che la liceità del vincolo di destinazione non sia soltanto da ritenersi soddisfatta secondo le previsioni dell’art. 1322 c.c., bensì attraverso un interesse meritevole di tutela più forte rispetto al generale interesse di tutela dei creditori. Si fa quindi riferimento a un interesse “ultra meritevole” 4 quale ad esempio il mantenimento della prole, la tutela dei sog-getti disabili, la tutela di esigenze familiari in senso proprio e improprio, fina-lità liberali verso soggetti deboli, pubbliche amministrazioni o ancora forme di previdenza e assistenza.

Questa breve introduzione è finalizzata a sottolineare il fatto che con l’e-spressione “vincolo di destinazione” in realtà si intende un insieme di previ-sioni giuridiche molto eterogeneo e diversamente configurabile. Tali previsio-ni possono essere più o meno articolate e includere una ben chiara realizzazio-ne di un fine attraverso un programma di destinazione, oppure possono non comportare alcun effetto di alienazione, ma semplicemente una limitazione al-l’utilizzo dei beni. Né tantomeno la destinazione, o meglio l’apposizione del vincolo, devono per forza essere a titolo gratuito. Pertanto, per non trattare in

4 Si veda a tal proposito G. DORIA, “Il patrimonio finalizzato”, in Riv. dir. civ., 2007, 485 ss.

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modo meramente casistico l’argomento è opportuno rifarsi a considerazioni generali e a principi che torneranno utili, di volta in volta, all’interprete che dovrà decidere quale tassazione diretta applicare e, non ultimo, quale imposi-zione indiretta considerare corretta.

Sul fronte dell’imposizione diretta, a differenza di quanto è accaduto per il fondo patrimoniale, il legislatore non ha inserito uno specifico articolo per di-sciplinare la tassazione dei vincoli di destinazione. La diretta conseguenza di tale fatto è che ci si dovrà rifare alle norme generali quali l’art. 1 del TUIR per l’IRPEF ed eventualmente l’art. 72 del TUIR per l’IRES. Entrambi gli articoli in modo speculare individuano il presupposto dell’imposta nel possesso dei redditi, in denaro o in natura, rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6 TUIR 5. Ai fini delle imposte dirette quindi, sarà rilevante comprendere se gli atti costitutivi di vincoli di destinazione generino o meno in capo agli eventua-li beneficiari il possesso di redditi in denaro o in natura, oppure se il possesso di tali redditi rimanga in capo al soggetto originariamente conferente.

Dal punto di vista dell’imposizione indiretta invece tornano utili le consi-derazioni svolte precedentemente in ambito di fondo patrimoniale, soprattutto in merito al principio di alternatività tra imposta di registro e imposta sulle successioni e donazioni nonché in merito al concetto di capacità contributiva intesa come arricchimento concreto ed attuale.

Partendo dal tema dell’imposta sulle successioni e donazioni, si ricorda che la legge n. 286/2006 ha inserito l’espressione “costituzione di vincoli di desti-nazione” nel presupposto di imposta. Una lettura estremamente letterale del dettato normativo condurrebbe alla logica conclusione secondo cui la semplice costituzione di un qualsiasi vincolo di destinazione, ancorché privo di alcun effetto traslativo o di arricchimento nei confronti dell’eventuale beneficiario, realizzerebbe il presupposto di applicazione dell’imposta e quindi la derivante tassazione. Tale opinione è stata a lungo seguita dall’Amministrazione finan-ziaria, anche in virtù del gettito che ne deriverebbe, dimenticando la vera fina-lità dell’imposta che appunto è quella di gravare eventuali atti, principalmente a titolo liberale, che generino un qualche arricchimento concreto nei confronti del soggetto beneficiario della costituzione del vincolo. Il parere dello scriven-te è che, anche in tale situazione, il dettato normativo debba essere interpretato avendo riguardo ad un eventuale incremento di capacità economica in capo al beneficiario dell’atto generatore del vincolo, sempre in considerazione del rapporto di parentela, coniugio o affinità esistente tra le parti in causa.

5 Ossia redditi fondiari, di capitale, di lavoro dipendente, di lavoro autonomo, di impresa, o diversi.

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Nell’ambito dell’imposta di registro, ipotecaria e catastale si ritengono nuovamente applicabili le considerazioni espresse anteriormente in ambito di costituzione del fondo patrimoniale in merito alla presenza o meno di un con-tenuto patrimoniale nella costituzione del vincolo di destinazione.

4. I trusts: aspetti di fiscalità diretta e indiretta

Nel nostro ordinamento, sul fronte dell’imposizione diretta, il trust, o me-glio i trusts 6, godono di una disciplina tributaria organica da circa una decina d’anni. Fu la legge 27 dicembre 2006, n. 297, attraverso una modifica dell’art. 73 del TUIR, a citare per la prima volta il trust in una norma fiscale italiana. L’intervento sistematico del legislatore fu certo una novità da accogliere con favore, a differenza di quanto avvenuto invece in ambito di imposizione indi-retta, pur tuttavia richiedendo un certo periodo di interpretazione, non sempre semplice, delle norme introdotte.

Il nostro Legislatore tributario, con una scelta non scontata, identificò il trust quale soggetto passivo d’imposta, considerandolo dotato di una capaci-tà tributaria autonoma. Pur tuttavia, l’impianto normativo non rinunciò a operare alcune importanti distinzioni connaturate alle diverse tipologie logi-che che l’istituto può assumere. Rientrando in prima istanza tra i soggetti passivi IRES all’interno dell’art. 73 del TUIR, il trust è stato inserito sia al comma b), sia al comma c) che al comma d) dell’articolo in questione. Per-tanto, il trust può essere soggetto passivo IRES sia nel caso in cui abbia per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale, sia nel ca-so in cui non abbia per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale. Da questa identificazione positiva deriva che un trust di scopo, liberale, di garanzia, discrezionale, con beneficiari di reddito e/o di capitale individuati o meno realizzi comunque il presupposto impositivo anche se, a seconda della tipologia di trust o dello svolgimento di attività commerciale o non commerciale, i risvolti tributari conseguenti saranno assolutamente rile-vanti. La qualificazione circa la commercialità o meno di un trust sarà poi ancora rilevante per applicare i criteri positivi propri della disciplina del red-dito d’impresa oppure tipici delle diverse categorie reddituali previste per gli enti non commerciali residenti.

6 Sulle ragioni dell’uso del plurale, connesso alla poliedricità dell’istituto ed alle forti diffe-renze che lo stesso può assumere nelle varie leggi regolatrici si veda su tutti M. LUPOI, “Trusts”, Giuffrè Editore, 2001.

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Entrando più nel dettaglio dei meccanismi impositivi, la circostanza più rilevante per la qualificazione del trust è rappresentata dall’individuazione o meno dei beneficiari di reddito. Il comma 2 dell’art. 73 TUIR, infatti, preve-de che: «nei casi in cui i beneficiari del trust siano individuati, i redditi con-seguiti dal trust sono imputati in ogni caso ai beneficiari in proporzione alla quota di partecipazione individuata nell’atto di costituzione del trust o in al-tri documenti successivi ovvero, in mancanza, in parti uguali». Pertanto, la base imponibile sarà imputata per trasparenza ai beneficiari i quali sconte-ranno l’imposta a cui sono soggetti che, nel caso molto frequente delle per-sone fisiche, ad esempio, sarà l’IRPEF. Per ulteriore espressa previsione normativa dettata dall’art. 44, comma 1, lett. g-sexies), TUIR il reddito sarà qualificato quale reddito di capitale pur provenendo, ad esempio nel caso dei trust commerciali, da un soggetto che realizza reddito d’impresa. Qualora invece non siano individuati i beneficiari si applicherà la “generale” sogget-tività passiva IRES la quale verrà applicata direttamente ai redditi prodotti dal trust. L’inserimento del comma 1, lett. g-sexies) all’art. 44 del TUIR crea perciò una nuova ipotesi di reddito di capitale a dire il vero abbastanza ano-mala in quanto determinata secondo regole del tutto estranee rispetto a quel-le che disciplinano la categoria di riferimento. L’anomalia risiede nel possi-bile conflitto che si può generare tra regole di imputazione tipiche, nei casi di trust commerciali, del reddito d’impresa oppure di altre categorie reddi-tuali, quali i redditi fondiari ad esempio, per i trust non commerciali, consi-derando poi però che il reddito così determinato in capo al trust dovrà segui-re regole proprie della categoria del reddito di capitale cui in ultima istanza afferisce.

Oltre alle considerazioni già effettuate, è necessario approfondire il con-cetto di beneficiario: lo si dovrà infatti interpretare secondo il senso di bene-ficiario di reddito e non beneficiario di capitale del trust. Queste due sottoca-tegorie, nell’ambito dei beneficiari, possono coincidere ma non sempre sono sovrapponibili. La rigida distinzione tra beneficiario di reddito o di capitale può, nella prassi, risultare molto sfumata e articolata a seconda della reda-zione dell’atto istitutivo e degli eventuali poteri discrezionali lasciati al trustee dal disponente. Non è infatti infrequente l’ipotesi dei cosiddetti trust “misti” dal punto di vista della distribuzione del reddito, ossia quei trust in cui siano sì identificati i beneficiari, ma per espressa previsione dell’atto isti-tutivo parte del reddito realizzato dal trust sia da consolidarsi in campo al patrimonio del trust stesso, potendone il trustee distribuire solo una parte. Al di là dell’evidente finalità economica di mantenimento del valore del patri-monio del trust con il passare del tempo, si è quindi di fronte ad un’ipotesi in cui, per una parte del reddito, il trust è certamente trasparente, mentre per

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l’altra parte il trust, pur essendo identificati i beneficiari, risulta opaco 7. Infine, è opportuno ricordare che per poter essere considerato beneficiario

di reddito, vedendosi quindi imputata la rispettiva quota di reddito, il benefi-ciario deve possedere una capacità contributiva concreta ed attuale in virtù del-le previsioni inserite nell’atto istitutivo del trust. È necessaria l’effettività in capo allo stesso dei proventi o dei frutti realizzati dal patrimonio del trust, mentre non è sufficiente una semplice indicazione o un’individuazione gene-rale che potrebbe realizzare una semplice aspettativa economica. In sostanza il beneficiario deve avere il pieno diritto a percepire un determinato reddito, an-che in considerazione del fatto che l’attribuzione del reddito ai beneficiari in-dividuati rappresenta una deroga al principio generale di imputazione al trust del reddito da esso realizzato, circostanza che impone perciò l’individuazione dei beneficiari con un particolare grado di rigore e precisione, dovendosi in-terpretare la locuzione «in ogni caso» contenuta nell’art. 44 TUIR, come uni-camente volta ad identificare l’indifferenza tra l’effettiva erogazione finanzia-ria o meno del reddito ai beneficiari.

Ambito sicuramente più complesso, anche in virtù dell’incertezza giuri-sprudenziali tuttora presente, è quello dell’imposizione indiretta riguardante il trust.

È innanzitutto opportuno rilevare come, a differenza dell’ambito dell’im-posizione diretta, il trust non è espressamente citato né nell’imposta sulle suc-cessioni e donazioni né nell’imposta di registro e ipotecaria e catastale. L’uni-co caso in cui il trust è effettivamente nominato in una norma tributaria sul-l’imposizione indiretta, a testimonianza del suo crescente utilizzo e dell’at-tenzione che lo stesso legislatore ha voluto riporvi, è rappresentato dalla legge 22 giugno 2016, n. 112 denominata “sul dopo di noi”. Ad ogni modo, salvo l’eccezione sopracitata, tale carenza legislativa è alla base dell’incertezza in-terpretativa che si protrae ormai da un decennio tra giurisprudenza di merito, giurisprudenza di Cassazione e dottrina sull’argomento in questione.

Come per il fondo patrimoniale o i vincoli di destinazione, anche per il trust la questione più rilevante è rappresentata dall’applicabilità o meno del-l’imposta sulle successioni e donazioni, con particolare riguardo alla modu-lazione di aliquote e franchigie. Di particolare interesse inoltre per la genera-le categoria dei trust liberali è stabilire il c.d. momento impositivo; ossia se l’imposta sulle successioni e donazioni si applichi al momento della prima devoluzione dei beni dal disponente al trustee, oppure si debba applicare al

7 tale distinzione è stata ufficializzata, in via interpretativa, dalla stessa Agenzia delle entra-te con la Circolare 48/E del 6 agosto 2007.

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momento della definitiva devoluzione dei beni dal trust, attraverso l’opera del trustee, ai beneficiari secondo le norme vigenti in quello specifico mo-mento. Da un lato vi è l’interpretazione di parte della giurisprudenza 8 e del-l’Amministrazione finanziaria che hanno teso, anche a tutela del gettito, ad anticipare il momento impositivo a quello della devoluzione dei beni all’in-terno del trust, verificando eventuali requisiti di parentela o affinità tra il di-sponente ed i beneficiari, ove esistenti o determinati, proprio in questa prima fase di vita del trust. Altro filone interpretativo è invece rappresentato da parte maggioritaria della dottrina e da un recente filone giurisprudenziale 9. Questo secondo filone interpretativo, pur risultando meno immediato e certo sul fronte della tutela del gettito tributario, risulta maggiormente in grado di evidenziare, e gravare a livello impositivo, la reale situazione di arricchi-mento e di emersione di capacità contributiva in capo ai beneficiari, in quan-to terrà conto dell’oggettiva e reale situazione, appunto, al momento dell’ef-fettiva devoluzione dei beni agli stessi.

A ben vedere però, la scelta del momento impositivo risulta una conse-guenza logica dell’interpretazione più o meno letterale del concetto di “costi-tuzione di vincoli di destinazione”. Se, infatti, si ritiene che la semplice e for-male costituzione di un vincolo di destinazione, circostanza che pacificamente si realizza nella maggior parte dei trusts, ingeneri l’applicarsi dell’imposta sul-le successioni e donazioni, allora si propenderà per la tesi che anticipa il mo-mento impositivo. Se, invece, tenendo in maggiore considerazione la ratio della norma, nonché l’imponibilità, nel rispetto del principio di capacità con-tributiva, derivante solo da un effettivo arricchimento concreto ed attuale della sfera economica-patrimoniale del beneficiario, si propenderà a distinguere ca-so per caso e bisognerà valutare nel concreto l’atto dispositivo del singolo trust. Qualora vi siano condizioni sospensive o di incertezza in merito a questo concreto arricchimento, il momento impositivo sarà spostato all’effettiva de-voluzione dei beni, anche in considerazione dell’eventuale maggior valore che gli stessi beni avranno al termine, appunto, della segregazione in trust. Il rap-porto di parentela o affinità da valutare ai fini di aliquote e franchigie sarà inoltre quello esistente al momento della devoluzione dei beni ai beneficiari e non quello esistente, ad esempio nel caso di discretionary trust, tra disponente e trustee. Conformemente alla dottrina maggioritaria, è parere di chi scrive che l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni debba avvenire

8 Ex multiis una serie di recenti Ordinanze della Corte di Cassazione quali la n. 3735 e la n. 3737 entrambe del 24 febbraio 2015, la n. 3886 del 25 febbraio 2015, la n. 5322 del 18 marzo 2015.

9 Si veda in merito la sentenza della Corte di Cassazione n. 21614 del 26 ottobre 2016.

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nel rispetto delle reali condizioni di arricchimento dei beneficiari, non spie-gandosi altrimenti il perché dell’inserimento della locuzione costituzione di vincoli di destinazione all’interno delle norme che introducono appunto l’im-posta in questione. A meno che non si voglia sostenere che la mera costituzio-ne di un vincolo sia il presupposto d’imposta evidenziandone però fin da subi-to evidenti profili di incostituzionalità.

5. Un caso particolare: la trasformazione eterogenea del trust

La possibilità per una società di capitali, nella fattispecie una S.r.l., di tra-sformarsi in un trust è cosa tutt’altro che consolidata, pacifica e lineare 10. Pur nella specificità del tema, l’analisi di questa particolare fattispecie può presen-tare profili di interessante riflessione dal punto di vista tributario, anche perché potrebbe acquisire una certa rilevanza pratica in tutte quelle situazioni in cui una società di capitali abbia terminato la propria iniziale attività d’impresa e sia di fatto intestataria di beni immobili o mobili, anche sotto forma di stru-menti finanziari. In tal caso il patrimonio sociale è finalizzato a mantenere il proprio valore nel tempo o ad ottenere un rendimento ragionevole, pur nel principale obiettivo di conservazione del patrimonio.

Di grande interesse sotto il profilo tributario, è la recente sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Roma 26 gennaio 2017, n. 1836, che si occupa proprio di una trasformazione di una Srl in un trust. La Sentenza si esprime sul tema dell’imposta di donazione in contrapposizione alla teoria dell’Amministrazione finanziaria, secondo cui l’imposta sarebbe applicabile subito in quanto connessa al vincolo di destinazione che si origina con la co-stituzione di, o meglio la trasformazione in, un trust. Secondo la CTP in que-stione la trasformazione in trust: “integra una trasformazione eterogenea, in cui la modifica soggettiva della titolarità dei beni e dei rapporti giuridici non determina l’arricchimento patrimoniale a titolo di liberalità che costituisce il fondamento dell’imposta di successione e donazione, ma solo una regressione del soggetto giuridico proprietario dei beni senza che vi sia un trasferimento a terzi”. In tal caso la Commissione di merito si rifà alla già citata Sentenza del-la Cassazione n. 21614/2016 in cui appunto si è ritenuto che l’incremento pa-trimoniale, a fondamento della realizzazione del presupposto dell’imposta, si verifichi nel momento in cui il trustee devolva il patrimonio del trust ai bene-

10 Si veda in merito l’unica Sentenza ad oggi pronunciatasi, in termini negativi peraltro, sul tema, ossia quella del Tribunale di Sassari del 13 luglio 2010.

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ficiari e non invece al momento in cui i beni vengano vincolati in trust. In tal caso, pertanto, si applicherebbe l’imposta di registro in misura fissa ed even-tualmente le imposte ipotecarie e catastali sempre in misura fissa, in caso di beni immobili, senza l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale.

Oltre a dare per scontata la possibilità di trasformare una società commercia-le in un trust, la sentenza in questione ritiene di fatto la trasformazione societa-ria un’operazione da considerarsi normalmente neutrale dal punto di vista fisca-le, in conformità all’art. 170, comma 1, TUIR, salvo che la trasformazione com-porti il mutamento del regime di commercialità e quindi sposti l’operazione nell’ambito delle trasformazioni eterogenee realizzando di fatto il presupposto di applicazione dell’art. 171 TUIR. In tale ultimo caso, si avrà una devoluzione del patrimonio della società trasformata ad un soggetto non commerciale con conseguente tassazione al valore normale. Se, come larga parte della dottrina ritiene corretto, dovesse trovare successo il recente filone giurisprudenziale del-la Corte di Cassazione 11, vi potrebbe essere un fiorire del fenomeno delle tra-sformazioni di società di capitali in trust. Tuttavia, qualora si voglia evitare di scontare l’imposizione sul valore normale dei beni della società trasformanda rispetto al loro valore di carico fiscale, sarà opportuno mantenere i requisiti di commercialità anche nel neo-trust, anch’esso potenzialmente soggetto passivo IRES.

6. Le polizze vita

Lo strumento delle polizze vita, seppur in modo indiretto e in alcuni casi anche in modo improprio, rientra nella generale categoria degli strumenti di protezione del patrimonio, presentando peraltro anche alcuni trattamenti fisca-li di favore che il legislatore ha voluto attribuirvi. Senza voler entrare nel det-taglio degli aspetti di legittimità dal punto di vista civilistico, che esulerebbero dalle finalità del presente contributo, si ripercorrono brevemente alcune pecu-liarità dello strumento. Innanzitutto il contratto di assicurazione sulla vita è di-sciplinato dagli artt. 1919 ss. c.c. e dal Codice delle Assicurazioni private co-me negli anni modificato ed aggiornato (d.lgs. n. 209/2005, c.d. TUA). Le as-sicurazioni vita che rientrano nella generale categoria degli strumenti di prote-zione del patrimonio, a cui si fa riferimento in questa sede, sono le polizze ap-

11 Secondo cui l’applicazione delle imposte di successione e donazione in misura proporzio-nale sia da applicarsi al momento della successiva devoluzione dei beni ai beneficiari.

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partenenti al cosiddetto ramo III di cui all’art. 2, comma 1, TUA, ossia quelle polizze che, pur facendo riferimento ad assicurazioni sulla durata della vita umana, caso morte o vita, hanno le prestazioni principali collegate al valore di quote di organismi di investimento collettivo del risparmio o di fondi interni, o ancora collegati agli indici o ad altri valori di riferimento. Non si considerano in questa sede i cosiddetti contratti di capitalizzazione appartenenti al ramo V. Senza entrare nel dettaglio di un ampio e complesso dibattito in merito ai pro-fili protettivi delle polizze vita, il principale riferimento è comunque quello stabilito dall’art. 1923 Cod. civ. sul tema dell’impignorabilità e insequestrabi-lità 12, anche se in sede penale l’efficacia di tale strumento è stata fortemente messa in dubbio dalla giurisprudenza 13.

Su temi di rilevanza più strettamente fiscale, invece, gli articoli di riferi-mento sono gli artt. 44, comma 1, lett. g-quater e 45, comma 4 TUIR e l’art. 26-ter del d. P.R. n. 600/1973.

Innanzitutto è opportuno segnalare che i redditi compresi nei capitali corri-sposti in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita sono considerati redditi di capitale. Inoltre, i capitali corrisposti in dipendenza di tali contratti costituiscono reddito per la parte corrispondente alla differenza tra l’ammon-tare percepito e quello dei premi pagati, ossia solamente per il maggior valore che l’assicurato o i beneficiari percepiranno in più rispetto appunto all’am-montare dei premi pagati, che rappresenta, in ultima analisi, la vera rendita fi-nanziaria di questi strumenti.

È inoltre estremamente rilevante il momento in cui la tassazione avverrà sul differenziale poc’anzi delineato; infatti, in virtù dell’art. 26-ter del d.P.R. n. 600/1973, la tassazione delle prestazioni ricorrenti è sospesa fino all’eroga-zione del capitale assicurato a seguito di riscatto o alla scadenza del contratto. Pertanto, la posizione finanziaria potrà accumulare rendimenti senza scontare subito imposizione tributaria mettendo a frutto, attraverso il meccanismo della capitalizzazione, gli interessi attivi o le plusvalenze degli strumenti finanziari, computando poi la tassazione unicamente alla fine del contratto o al momento del riscatto.

Con la Legge di Stabilità 2015 14 i capitali percepiti in caso di morte in di-pendenza di contratti di assicurazione sulla vita a copertura del rischio demo-grafico sono esenti dall’imposta sul reddito delle persone fisiche. La modifica

12 In ambito civile ex multiis Cass., sentt. nn. 6548/2008, 8271 del 31 marzo 2008 e 8676/2008, 8 aprile 2014.

13 Ex multiis Cass. pen., sentt. nn. 16658/2007, 12838/2012, 8 aprile 2014. 14 Legge n. 190/2014

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normativa sopra citata, soprattutto se letta in comparazione rispetto alla prece-dente versione che non evidenziava la locuzione “a copertura del rischio de-mografico”, ha reso obbligatoria la tassazione dei rendimenti finanziari. La tassazione di questa componente reddituale è identificata in questa sede come differenza tra il valore di ipotetico riscatto e l’ammontare dei premi pagati al netto di quelli corrisposti per la copertura delle rischio morte. Tale formula-zione presuppone che sia possibile distinguere i premi riferibili alla copertura del rischio morte rispetto a quelli riferibili alla prestazione di tipo finanziario prevista dalla polizza vita. In caso di impossibilità della distinzione delle due tipologie di premio si dovrà, invece, applicare un criterio proporzionale. Per concludere quindi la breve analisi della fiscalità diretta dello strumento in que-stione è opportuno segnalare che non vi è un vero e proprio risparmio di im-posta, inteso almeno in termini di aliquote o base imponibile, bensì vi è un dif-ferimento del momento impositivo al termine del contratto o al momento del riscatto. Tale circostanza non è però da sottovalutare, considerando che le “imposte sospese” sono di fatto reinvestite all’interno dello strumento finan-ziario e quindi nel lungo periodo possono generare un differenziale di rendi-mento positivo assolutamente rilevante.

Venendo invece al tema delle imposte indirette, o meglio dell’imposta sulle successioni e donazioni, si segnala che, ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 346/1990, “non concorrono a formare l’attivo ereditario […] le indennità spettanti per dirit-to proprio agli eredi in forza di assicurazioni previdenziali obbligatorie o stipula-te dal defunto”. Tale previsione, pertanto, può consentire, salvo un eventuale futu-ra revisione, una forte ottimizzazione della componente mobiliare del patrimonio che si trovi a passare in successione.

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Gli strumenti di tutela del patrimonio e la loro rilevanza penale nell’ambito delle procedure concorsuali Andrea Carena

Nelle relazioni precedenti sono stati individuati ed esaminati i principali strumenti di tutela del patrimonio familiare.

Alcuni di tali strumenti fanno riferimento ad istituti di diritto positivo, quali il fondo patrimoniale o gli atti di destinazione del patrimonio per la realizza-zione di interessi meritevoli di tutela (ex art. 2645-ter c.c.); altri, invece, fanno riferimento ad istituti non espressamente disciplinati dal nostro Legislatore, ma comunque “tollerati” dall’ordinamento, ancorché appartenenti a traduzioni giuridiche diverse dalla nostra. Mi riferisco, in particolare, al trust, che sap-piamo essere “riconosciuto” in forza della legge n. 364/1989, con la quale l’I-talia ha ratificato la Convenzione dell’Aja del 1° agosto 1985.

Il trust ancora oggi è una specie di oggetto misterioso, che certamente pre-senta notevoli potenzialità applicative, ma che – sul punto occorre essere onesti – in Italia non sempre gode di buona fama, anche a causa dell’impiego distorto che sovente ne è stato fatto da parte di una ampia platea di soggetti, che hanno creduto di poter individuare nel trust una sorta di mantello magico dell’in-visibilità, sotto il quale far sparire al fisco e ai creditori le proprie ricchezze.

Gli atti di tutela del patrimonio, al quale è dedicato il presente incontro si studio, sono certamente ammessi, purché, nei presupposti, nelle modalità di applicazione e negli effetti, rispettino i limiti fissati dall’ordinamento. Abbia-mo visto, nelle relazione precedenti, quali possono essere le conseguenze, sot-to il profilo civilistico e di diritto fallimentare, del mancato rispetto di tali li-miti. Si tratta di conseguenze che colpiscono il patrimonio del soggetto dispo-nente, e che mirano pertanto ad offrire un rimedio ai soggetti che dall’atto di segregazione hanno subito un nocumento. Ma l’ordinamento non si limita ad offrire rimedi di natura civilistica, perché gli atti di segregazione del patrimo-nio possono anche assumere rilevanza penale, qualora siano posti in essere con determinate modalità. Così, per esempio, un fondo patrimoniale o un trust possono integrare la condotta materiale del delitto di bancarotta, o assumere rilevanza penale sotto il profilo della violazione della normativa fiscale-tri-butaria, o ancora, integrare gli estremi della truffa, dell’inadempimento doloso

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a un ordine del giudice, e così via.Taluni di questi aspetti verranno affrontati negli interventi che seguiranno.

Con la presente relazione, in particolare, si cercherà di comprendere, in sin-tesi, se e quando gli strumenti di protezione patrimoniale possano assumere rilevanza penale nel caso in cui chi li ha adottati fallisca e quindi, in buona so-stanza, se e quando possano configurare il delitto di bancarotta.

Nel condurre tale indagine appare opportuno delineare, preliminarmente, e nei tratti essenziali, la natura dei reati fallimentari.

Partiamo allora da un inquadramento generale. I reati fallimentari sono disciplinati dal r.d. 16 marzo 1942, n. 267, agli artt.

216 ss. I beni protetti da tali norme sono molteplici. Non è questa la sede in cui af-

frontare il complesso tema della natura giuridica dei reati di bancarotta, ma vale certamente la pena di osservare come la dottrina e la giurisprudenza mag-gioritarie individuino nella bancarotta un reato plurioffensivo. Da un lato, in-fatti, i delitti fallimentari mirano senz’altro a tutelare l’ordinato esercizio del commercio e dell’attività d’impresa, e, dall’altro, mirano a tutelare l’integrità del patrimonio del fallito, nella sua peculiare funzione di garanzia dei creditori (in quest’ultimo senso si sono pronunciate anche le Sezioni Unite della Cassa-zione nella sent. 12 giugno 2009, n. 24468).

Questa premessa è utile perché fissa le coordinate in base alle quali stabili-re se, in concreto, l’adozione di un determinato strumento di protezione patri-moniale debba considerarsi lecita, sotto il profilo penal-fallimentare, o se in-vece possa integrare una fattispecie di bancarotta.

La bancarotta, lo ricordo in estrema sintesi, può essere di diversi tipi. Anzitutto, si distingue tra bancarotta propria, se commessa dall’impren-

ditore dichiarato fallito o dal socio illimitatamente responsabile ex art. 222 l.f., e bancarotta impropria, o societaria, se commessa dagli amministratori, dai di-rettori generali, dai sindaci o dai liquidatori di società dichiarate fallite, che abbiano commesso, nell’esercizio della loro particolare qualifica societaria, at-ti di bancarotta.

La bancarotta, in entrambi i casi, è comunque un reato proprio, nel senso che può essere commessa solamente da soggetti qualificati, i quali abbiano un rapporto diretto con l’impresa commerciale fallita.

Ciò non esclude che possano commettere il delitto di bancarotta anche sog-getto “estranei”, purché, però, il reato sia stato commesso in concorso (ai sensi dell’art. 110 c.p.) con almeno un soggetto “qualificato”, perché altrimenti il reato non si può ritenere configurato.

Questo è importante ai fini dell’argomento che stiamo trattando in quanto, a titolo di concorso in bancarotta, possono concorrere, per esempio, i familiari

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o i prestanomi che hanno beneficiato, consapevolmente, di un atto di segrega-zione del patrimonio in frode ai creditori, così come può concorrere il profes-sionista che abbia ideato, suggerito, o anche solo agevolato la condotta distrat-tiva del fallito. Ciò che conta, al riguardo, è che l’extraneus abbia fornito un contributo causale rilevante alla commissione del delitto da parte del fallito, e che lo abbia fatto con il richiesto elemento soggettivo (che è, per quasi tutte le fattispecie di bancarotta, il dolo generico).

La bancarotta, inoltre, può essere pre-fallimentare, se i fatti sono commessi prima della dichiarazione di fallimento, oppure post-fallimentare, se le condot-te sono poste in essere dopo tale dichiarazione, ai danni quindi della procedura fallimentare. La dichiarazione di fallimento, in ogni caso, costituisce un pre-supposto essenziale per la configurabilità del delitto, in quanto non c’è banca-rotta senza dichiarazione di fallimento.

La bancarotta, infine, può essere semplice o fraudolenta. Si ha bancarotta semplice quando l’imprenditore o l’amministratore abbia-

no commesso taluno dai fatti previsti dagli artt. 217 e 224 l.f. Si ha, invece, bancarotta fraudolenta, quando venga posta in essere taluna

delle condotte contemplate negli artt. 216 e 223 della stessa legge. Al riguardo, in un ottica di semplificazione, è possibile affermare che la

bancarotta fraudolenta si divide in tre grandi categorie di condotte: 1) quelle volte ad intaccare il patrimonio dell’imprenditore, con pregiudizio o pericolo di pregiudizio per la garanzia dei creditori, e che danno luogo all’ipotesi della bancarotta patrimoniale; 2) quelle relative alla inosservanza degli obblighi di regolare tenuta delle scritture contabili, che hanno l’effetto di impedire la rico-struzione del patrimonio e del movimento degli affari del fallito, che danno luogo all’ipotesi della bancarotta documentale; 3) quelli volti a favorire taluni creditori a danno di altri, che hanno l’effetto di pregiudicare la par condicio creditorum, e che danno luogo all’ipotesi della bancarotta preferenziale.

Tutto ciò premesso, e così inquadrati, senza alcuna pretesa di completezza, i reati di bancarotta, si può adesso cercare di comprendere se il ricorso a stru-menti di protezione del patrimonio aventi quale scopo concreto quello di de-terminare una segregazione “fraudolenta” di beni rispetto alla massa dei credi-tori, integri un reato fallimentare e, in caso positivo, a quale tipo di bancarotta occorra fare riferimento.

Posto che ogni caso va affrontato in concreto, in questa sede occorre neces-sariamente generalizzare, e, in generale, è possibile affermare che un simile comportamento appare, anzitutto, ascrivibile alla fattispecie della bancarotta fraudolenta patrimoniale, poiché l’effetto “tipico” dell’atto di segregazione del patrimonio in frode è proprio quello di sottrarre il bene alla garanzia spettante, per legge (art. 2740 c.c.), alla massa dei creditori.

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La bancarotta fraudolenta patrimoniale (art. 216, comma 1, n. 1) punisce, in particolare, la condotta di chi: “ha distratto, dissimulato, distrutto o dissipa-to in tutto o in parte i suoi beni”.

La condotta che più si addice a quella che stiamo esaminando è, a ben ve-dere, quella della distrazione. Secondo la giurisprudenza, infatti, per distrazio-ne deve intendersi ogni forma di diversa ed ingiusta destinazione volontaria-mente data al patrimonio rispetto ai fini che questo deve avere nell’impresa, sia quale elemento necessario per la sua funzionalità e sia quale garanzia verso i creditori.

In alternativa, la condotta in esame potrebbe anche assumere i connotati della “dissimulazione”, se per tale si intende il “nascondimento” giuridico, ef-fettuato mediante atti simulati, diretti a creare un’apparenza di trasferimento a terzi di beni che, in realtà, sono o debbono ritenersi appartenenti ancora al pa-trimonio del debitore.

In entrambi i casi, comunque, si tratta di fatti di bancarotta fraudolenta pa-trimoniale, in relazione alla quale è richiesto, quanto all’elemento soggettivo, il dolo, che per costante insegnamento giurisprudenziale può essere anche solo quello generico. È quindi sufficiente, per il perfezionamento del reato, la co-scienza e volontà, in capo all’agente, di porre in essere la condotta, accettando il rischio della lesione all’interesse protetto dalla norma.

In materia di atti di protezione del patrimonio e reati fallimentari non sono molti i precedenti giurisprudenziali.

La Corte di Cassazione, anche recentemente, ha comunque avuto modo di pronunciarsi sull’argomento, soprattutto in materia cautelare (in particolare in materia di sequestri).

Dall’esame della giurisprudenza, si possono trarre alcuni preziosi insegna-menti.

Anche in questo caso conviene partire dagli aspetti generali, per poi calarsi nei dettagli.

In termini generali, occorre osservare come la Corte Suprema Corte di Cas-sazione, con orientamento ormai consolidato, affermi che “Il delitto di banca-rotta per distrazione è qualificato dalla violazione del vincolo legale che limi-ta, ex art. 2740 cod. civ., la libertà di disposizione dei beni dell’imprenditore che li destina a fini diversi da quelli propri dell’azienda, sottraendoli ai credi-tori. L’elemento oggettivo è realizzato, quindi, tutte le volte in cui vi sia un in-giustificato distacco di beni o di attività, con il conseguente depauperamento patrimoniale che si risolve in un danno per la massa dei creditori. L’abla-zione è attività astrattamente legittima e lecita se mira alla realizzazione delle finalità dell’impresa. La liceità, però, è un valore che va accertato in concre-to” (cfr., Cass. n. 9430/1996).

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Questo è il principio generale. Queste sono le coordinate dell’istituto. Ma vediamo adesso come tale principio possa trovare applicazione con ri-

ferimento ai più comuni strumenti di protezione del patrimonio. In particolare, vediamo quali caratteristiche devono possedere, per evitare nella incorrere nel-la violazione di tale principio, il fondo patrimoniale e il trust.

In materia di fondo patrimoniale, per esigenze di sintesi, possiamo limitarci a richiamare l’insegnamento giurisprudenziale espresso dalla Suprema Corte di Cassazione con la sent. n. 138/1998, nella quale è stata affermata la respon-sabilità, per il delitto di bancarotta fraudolenta, di un imprenditore, ritenuto colpevole di avere, un anno prima della dichiarazione di fallimento, costituito in fondo patrimoniale la quota di sua proprietà di un immobile nel quale già abitava la propria famiglia, e ciò al solo comprovato fine di sottrarre tale bene alla garanzia dei creditori.

Il fondo patrimoniale in frode, pertanto, avendo un effetto segregativo, e quindi distrattivo, del bene, può integrare il delitto di bancarotta. E la natura fraudolenta dell’operazione va accertata in concreto.

Al riguardo, considerata la stretta interrelazione esistente tra la disciplina penalistica e le regole del diritto civile, appare utile richiamare un orientamen-to giurisprudenziale delle sezioni civili della Corte di Cassazione, in cui si da conto della ragione per cui la costituzione di un fondo patrimoniale, pur previ-sta dalla legge fallimentare come atto lecito, possa integrare la condotta delit-tuosa in esame. In particolare, Cass. n. 19029/2013 (che richiama, a sua volta, un orientamento già espresso in numerosi precedenti) afferma che “il negozio costitutivo del fondo patrimoniale, anche quando proviene da entrambi i co-niugi, è atto a titolo gratuito, senza che rilevino in contrario i doveri di soli-darietà familiare che nascono dal matrimonio, posto che l’obbligo dei coniugi di contribuire ai bisogni della famiglia non comporta affatto per essi l’obbligo di costituire i propri beni in fondo patrimoniale, che ha essenza e finalità di-verse ed ulteriori, consistenti non nel soddisfare i bisogni della famiglia, ma nel vincolare alcuni beni al soddisfacimento anche solo eventuale di tali biso-gni, sottraendoli alla garanzia generica di tutti i creditori; pertanto, in caso di fallimento di uno dei coniugi, il negozio costitutivo di fondo patrimoniale è suscettibile di revocatoria fallimentare a norma della L. Fall., art. 64, doven-dosi del pari escludere che tale costituzione possa considerarsi di per sé, così ricadendo in una delle esenzioni previste dalla seconda parte del citato L. Fall., art. 64, come atto compiuto in adempimento di un dovere morale nei confronti dei componenti della famiglia, a meno che non si dimostri in concre-to l’esistenza di una situazione tale da integrare, nella sua oggettività, gli estremi del dovere morale ed il proposito del solvens di adempiere unicamen-te a quel dovere mediante l’atto in questione”.

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Non vi è quindi spazio per le presunzioni. La costituzione di un fondo pa-trimoniale avente ad oggetto un bene del soggetto poi dichiarato fallito potrà infatti sempre assumere i connotati di un atto distrattivo penalmente rilevante, e l’accertamento della natura fraudolenta dell’operazione andrà fatto in con-creto, avuto riguardo alle particolarità del caso di specie.

A considerazioni del tutto analoghe perviene la Corte di Cassazione con ri-ferimento all’istituto del Trust.

Sul punto, dovendo sintetizzare, ci si può limitare a richiamare l’insegna-mento espresso dai giudici di legittimità con la recente sentenza n. 46137/2014, che, richiamando altri precedenti, “fa il punto” della situazione.

La Corte di Cassazione, nel case in esame, era chiamata a pronunciarsi sul-la legittimità di un provvedimento di sequestro conservativo penale avente ad oggetto beni immobili conferiti in trust. Il reato ipotizzato, in particolare, era quello di bancarotta fraudolenta patrimoniale.

Il Supremo Collegio, al riguardo, ha riconosciuto che “La piena legittimità del provvedimento cautelare, diretto su beni su cui era stato creato un fittizio diaframma, emerge in maniera incontestabile alla luce del consolidato orien-tamento interpretativo (sez. 5, n. 13276 del 24.10.2011, rv 249838) secondo cui che il trust, tipico istituto di diritto inglese, si sostanzia nell’affidamento ad un terzo di determinati beni perché questi li amministri e gestisca quale “proprietario” (nel senso di titolare dei diritti ceduti) per poi restituirli, alla fine del periodo di durata del trust, ai soggetti indicati dal disponente. Pre-supposto coessenziale alla stessa natura dell’istituto è che il detto disponente perda la disponibilità di quanto abbia conferito in trust, al di là di determinati poteri che possano competergli in base alle norme costitutive. Tale condizione è ineludibile al punto che, ove risulti che la perdita del controllo dei beni da parte del disponente sia solo apparente, il trust è nullo (sham trust) e non produce l’effetto segregativo che gli è proprio” Cass 46137/2014 …

La permanenza del bene nella sfera di controllo del disponente rappresenta quindi, secondo la giurisprudenza, un chiaro indice di “fraudolenza” del trust. Ciò vale, certamente, per i trust “autodichiarati” nei quali, magari in assenza di un valido ed effettivo guardiano, il disponente continui ad essere, nei fatti, il vero dominus del bene. Ma vale anche nel caso in cui l’affidamento al trustee sia simulato, e determini solamente una situazione di apparenza.

Ma le ipotesi possono essere molteplici. Un trust, infatti, potrebbe anche essere posto in essere al fine di beneficiare

un parente, o un amico, di un bene, a spese della massa dei creditori. In tal ca-so, anche qualora la perdita di controllo da parte del disponente fosse effettiva, l’atto di disposizione potrebbe avere comunque un effetto distrattivo. Oppure il Trust potrebbe essere posto in essere al solo fine di favorire alcuni creditori

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in danno altri, in tal modo configurando un ipotesi di bancarotta preferenziale. L’accertamento della natura “illecita” dell’atto di disposizione, quindi, an-

cora una volta andrà effettuato caso per caso, in concreto. Non è possibile in questa sede effettuare una elencazione esaustiva di tutte le ipotesi prospettabi-li. La fantasia non ha limiti al riguardo, in quanto è la stessa realtà a non avere confini.

Alla luce di quanto sinora osservato, tuttavia, è possibile affermare, in ter-mini generali, che la giurisprudenza della Suprema Corte riconosce l’idoneità degli strumenti di tutela del patrimonio, effettuati in frode, a configurare il de-litto di bancarotta.

Detto questo, avviandoci alla conclusione, è ancora possibile osservare come la natura propria dei reati fallimentari, alla quale abbiamo fatto cenno in precedenza, comporti che anche i beni sui quali possono essere commessi fatti di bancarotta debbano considerarsi, per così dire, “propri”, nel senso che deve trattarsi di beni dell’imprenditore fallito.

Qualora l’attività di impresa venga posta in essere sotto forma societaria, tuttavia, possono assumere rilevanza penale anche operazioni giuridiche effet-tuate sul patrimonio personale dei soci illimitatamente responsabili.

La Corte di Cassazione, sul punto, è infatti costante nell’affermare che “In caso di fallimento di una società con soci a responsabilità illimitata, ciascun socio risponde dei fatti di bancarotta fraudolenta commessi sia sui beni della società che su beni propri” (Cass. 9575/1987). Precisando che “Ai fini della configurabilità, in capo al socio illimitatamente responsabile di una società dichiarata fallita, del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione dei beni del suo patrimonio personale è necessario che il fallimento sia stato esteso nei suoi confronti ai sensi dell’art. 147 l. fall.” (Cass. 13091/2016).

La presente relazione non ha alcuna pretesa di completezza. Spero tuttavia di essere riuscito ad offrire un inquadramento generale del

problema e, magari, a fornire qualche strumento utile per una riflessione che, certamente, va approfondita.

Ciò che conta, e mi pare che lo spirito dell’incontro di studio andasse pro-prio in questa direzione, è infatti guardare al tema degli strumenti di protezio-ne del patrimonio, da un lato, senza pregiudizi ideologici, ma, dall’altro, anche con la dovuta attenzione critica. Il trust, il fondo patrimoniale, e gli altri stru-menti di tutela del patrimonio sono “arnesi giuridici” da maneggiare con estre-ma cautela, perché, come abbiamo visto, qualora impiegati al fine di persegui-re interessi non meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, espon-gono i soggetti che li pongono in essere al rischio di subire gravi conseguenze, anche di natura penale. E ciò, nel caso della bancarotta, riguarda non solo l’imprenditore, ma anche, eventualmente, le persone che partecipino alle con-

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dotte distrattive esaminate in precedenza, nonché il professionista, che in molti casi, effettivamente, fornisce, con la propria prestazione, un contributo causale rilevante per la commissione del reato.

Per stipulare un trust, o un fondo patrimoniale, la figura del professionista è infatti certamente necessaria.

La formazione, non solo tecnica, ma anche deontologica dell’avvocato, del notaio, del commercialista, assume quindi, come sempre, ma più che in altri casi, un’importanza fondamentale nella scelta e nella predisposizione degli strumenti di tutela del patrimonio familiare.

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Gli strumenti di tutela del patrimonio e la loro rilevanza penale-tributaria Valerio Longi

Quando il prof. Quattrocchio mi ha proposto di intervenire su questo tema ha incontrato immediatamente la mia adesione perché è un tema che trovo di estremo interesse, per un verso, e che ha una ricca casistica, per altro verso.

Con particolare riferimento al reato di sottrazione fraudolenta al pagamento dell’imposta, previsto dall’art. 11 del d.lgs. n. 74/2000, recante la disciplina penale tributaria, è uno di quei reati, generalmente, di agevole istruttoria per i pubblici ministeri, giungendo la segnalazione di reato dell’Agenzia delle En-trate, piuttosto che della Guardia di Finanza, con un ricco corredo documenta-le, che costituisce generalmente la prova regina per tali reati. E ritengo, pro-prio in ragione del carattere essenzialmente documentale della prova, che sia uno di quei reati dai quali è difficile difendersi, perché laddove c’è la prova del compimento di un determinato atto dispositivo, la preesistenza di una si-tuazione debitoria nei confronti dell’amministrazione finanziaria e un evidente pregiudizio, derivante dalla commissione dell’atto dispositivo, per la stessa amministrazione finanziaria, diventa difficile riuscire a convincere il giudice del fatto che in realtà altre fossero le finalità perseguite.

Procedendo per sommi capi la trattazione del tema assegnatomi, direi che i reati astrattamente prospettabili nell’atto di compiere atti di conservazione del patrimonio sono sostanzialmente due, talvolta addirittura concorrenti, ovvero la fattispecie di bancarotta fraudolenta patrimoniale prevista dall’art. 216 l.f. e, appunto, il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.

La questione del rapporto tra le due fattispecie, in realtà, non è definitiva-mente risolta, perché la Corte di Cassazione si è pronunciata più volte sul pun-to: se quell’atto che, per un verso, ha sottratto al proprio patrimonio, e quindi alla garanzia generica nei confronti dei propri creditori, una parte dello stesso patrimonio, e, per altro verso, ha sottratto lo stesso patrimonio alla possibilità per l’amministrazione finanziaria di procedere a riscuotere coattivamente i propri crediti, possa, in caso di fallimento dell’imprenditore che l’atto abbia compiuto, integrare l’uno e l’altro dei reati in questione.

Sul punto si è creato un contrasto di giurisprudenza, non ancora sopito e forse destinato a costituire oggetto di una pronuncia delle Sezioni Unite: nel 2011 vi sono state due pronunce di segno antitetico, per un verso si è detto che

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i reati sono in rapporto di specialità per cui doveva trovare applicazione sol-tanto la norma più grave, cioè quella contemplante il reato di bancarotta frau-dolenta, per altro verso, altra sentenza dello stesso anno della Suprema Corte ha sostenuto escluso trattarsi di di un concorso apparente di norme, essendo fattispecie in rapporto di specialità bilaterale, trovando, quindi, entrambe ap-plicazione perché differente è l’ambito di applicazione e, soprattutto, differen-te è il bene giuridico, l’interesse protetto.

Ha abbracciato questa seconda interpretazione, anche la più recente senten-za che vi segnalo, Cass. 20 novembre 2015, n. 3539, che si è pronunciata an-ch’essa sostenendo l’esistenza di un rapporto di specialità bilaterale tra le due fattispecie, che devono quindi trovare entrambe applicazione.

Nella mia personale esperienza, posso dire che tutte le volte che mi è capi-tata l’occasione, ho contestato entrambe le fattispecie e non ho mai trovato né un Gip né un collegio che si sia discostato da questa interpretazione, perché sono obiettivamente norme che hanno dei tratti speciali uno rispetto all’altro che credo giustifichino questa lettura data dalla Suprema Corte e, soprattutto, hanno effettivamente interessi giuridici protetti differenti, da una parte la tute-la generale del ceto creditorio, sottesa alla disciplina penale fallimentare, dall’altra parte gli interessi alla possibile esecuzione coattiva dei crediti tribu-tari, interesse protetto dall’art. 11 del d.lgs. n. 74/2000.

Intendendo il mio intervento con taglio di carattere decisamente pratico-casistico, perché questo credo sia il contributo che io possa dare, certo non un contributo di carattere accademico, quali sono i casi in cui atti conservativi del patrimonio da parte dell’imprenditore possono astrattamente integrare ipotesi di bancarotta fraudolenta per distrazione quando non per operazioni dolose? Sempre che, ovviamente, il soggetto agente sia un imprenditore e successiva-mente sia fallito.

Un caso ricorrente, sicuramente, è quello della cessione surrettizia dell’a-zienda: è molto frequente che gli amministratori di una società o di un’im-presa, che navighi in cattive acque e la cui sorte sia ormai segnata, cerchino di protrarre l’attività mettendola al riparo dal probabile epilogo fallimentare, ef-fettuando una cessione d’azienda, più o meno formalizzata. Si incontrano casi in cui si verifica la cessione d’azienda in prossimità del fallimento, e allora se questa cessione sia avvenuta a condizioni eque, rispettose del valore della stessa, può non assumere penale rilevanza.

Più spesso accade, nella patologia delle condotte che costituisce oggetto dei procedimenti penali, che questa cessione in realtà non sia formalizzata, nel senso che si crea la classica newco alla quale, senza alcun tipo di formalizza-zione, senza la stipula di un contratto, di affitto piuttosto che di cessione, di ramo d’azienda, viene trasferita surrettiziamente l’azienda, con la nuova socie-

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tà che, da un mese all’altro, assume dipendenti della vecchia società e ne ac-quisisce le commesse, l’attività, la clientela, quindi il know how, tutto l’avvia-mento della precedente impresa, senza che nulla venga riconosciuto a quella che, spogliata di ogni cespite e attività, diviene una vera e propria bad compa-ny.

Ovviamente si tratta di imprese, vecchia e nuova, riferibili agli stessi sog-getti, che in questa maniera cercano di conservare l’attività aziendale, al riparo dalle legittime iniziative dei creditori. Il curatore fallimentare, in questi casi, si trova di fronte al “guscio vuoto”, cerca di capire che cosa ne è stato dell’atti-vità aziendale, e rilevando situazioni di questo genere ne inoltra una debita se-gnalazione al pubblico ministero.

Di fronte a situazioni di questo genere, lo strumento cui ricorre il pubblico ministero, in maniera ricorrente e direi efficace, è la richiesta del sequestro preventivo dell’azienda, unico strumento per evitare che la stessa azienda pos-sa essere ulteriormente ceduta ad un terzo acquirente di buona fede, e così de-finitivamente sottratta alle ragioni del ceto creditorio. Perché, ovviamente, fin-ché la cessione sia avvenuta tra parti correlate, cioè tra società che fanno rife-rimento allo stesso soggetto, e sia avvenuta in maniera surrettizia e evidente-mente fraudolenta, tale cessione non è d’ostacolo al sequestro preventivo del-l’azienda. Quando, invece, alla cessione surrettizia ne segua eventualmente un’altra in favore di un soggetto terzo, rispetto al quale non vi siano elementi per affermarne la collusione, trattandosi di cessione a condizioni di mercato, voi capite che diventa molto più difficile, anche per l’organo inquirente, riu-scire a dimostrare il carattere fraudolento anche di questa ulteriore cessione, e quindi il concorso nell’illecito da parte del successivo avente causa.

Una volta sequestrata l’azienda, reso palese il disegno criminoso, normal-mente chi ha posto in essere questa attività si riconduce a più miti consigli e, al fine di recuperare la piena disponibilità dell’azienda, intavola delle trattative con la curatela in vista di un accordo transattivo che, elidendo la possibilità di ulteriori attività recuperatorie del curatore, rende obiettivamente non più sussi-stenti le ragioni cautelare originariamente sottese al sequestro.

Anche qualora la cessione dell’azienda sia stata formalizzata, spesso è dalle condizioni dell’accordo che emerge l’evidente pregiudizio per la tutela del ce-to creditorio: cessioni a prezzi simbolici o vili o con dilazioni di pagamento tali da riuscire assolutamente pregiudizievoli. In tal senso, in un caso era acca-duto che un capannone in leasing, per il quale erano stati pagati tutti i canoni, restava da versare il prezzo del riscatto di entità più che modica, pressoché simbolica, nell’ordine di neppure € 2.000, rispetto al valore di un capannone che valeva circa € 2.000.000. L’amministratore della società locataria, che avrebbe avuto tutto l’interesse a riscattare questo bene non appena fosse staton

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possibile, pagata l’ultima rata, ha inspiegabilmente tergiversato, facendo tra-scorrere quasi un anno tra il pagamento dell’ultima rata e l’acquisto con atto notarile. Questo era il primo elemento di sospetto.

Il secondo elemento, più che di sospetto, emerse quando, lo stesso giorno in cui la società locataria e la proprietaria del bene si trovano davanti al notaio e si stipula l’atto di cessione, immediatamente dopo, dinanzi allo stesso no-taio, la locataria, divenuta proprietaria, vende lo stesso bene ad un prezzo, tra l’altro inferiore al valore successivamente stimato dell’immobile, ad una so-cietà riferibile agli stessi soggetti, con dilazione del pagamento spropositati (in sette anni, prevedendo un ultima rata pari a circa il 50% del prezzo, senza al-cuna garanzia e con rinuncia all’ipoteca legale).

Risultava evidente che la contestualità del duplica trasferimento di proprie-tà era tesa ad impedire ad alcuno dei, numerosi, creditori della società di poter far conto sull’esistenza di quel bene. Tanto è vero che leggendo il bilancio di quell’esercizio, ed in particolari i valori delle immobilizzazioni materiali al termine dell’esercizio precedente e al termin di quello in corso, non si perce-piva neppure l’esistenza del duplice trasferimento immobiliare.

Altre ipotesi di atti di tutela del patrimonio, che assumono rilevanza penale, sono, ad esempio, gli acquisti di beni intestati a terzi, ma con l’impiego del provento di vendite di imprenditori individuali o di soci illimitatamente re-sponsabili, soggetti che rischiano il proprio patrimonio e che, evidentemente, vedendo le sorti avverse della propria attività d’impresa, pensano bene di ren-dersi incapienti, di non rischiare il proprio patrimonio personale di fronte un possibile fallimento, cedendo i propri beni ed impiegando il denaro ricavato per l’acquisto di beni che vengono intestati a terzi, segnatamente familiari.

Mi è capitato un caso, recentemente, una società di nuova costituzione che sostanzialmente era chiamata a proseguire l’attività di una precedente società. In quel caso c’era stata una regolare formalizzazione della cessione del ramo d’azienda, tra società riferibili agli stessi soci, e la società cessionaria aveva, inspiegabilmente, cominciato a pagare i debiti gravanti sulla cedente, al di fuori di ogni di ogni obbligo in tal senso. La spiegazione si è presto appalesa-ta: la prima era una società di persone, la seconda era una società di capitali, quindi c’era l’evidente interesse, dei soci, ad evitare ad ogni costo il fallimento della prima società, di persone, e quindi il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, ciò anche a costo di determinare il fallimento della seconda so-cietà che, essendo una società di capitali, non non avrebbe generato per i soci alcun tipo di responsabilità personale dal punto di vista patrimoniale.

Per quanto concerne la fattispecie di sottrazione fraudolenta al pagamento imposte, due notazioni brevissime sulle caratteristiche questo reato: è un reato a dolo specifico, il fatto è commesso al fine di sottrarsi al pagamento dell’im-

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posta; di pericolo concreto, quindi non è necessario che quell’atto renda defi-nitivamente impossibile per l’Amministrazione finanziaria agire coattivamente sui beni del debitore, è sufficiente che gli atti posti in essere creino il pericolo che ciò accada. Ai fini della consumazione del reato non è richiesto che sia in corso una procedura di riscossione coattiva, anche se, ovviamente, il credito della amministrazione finanziaria deve esistere pur senza che sia necessario che sia stato portato già ad esecuzione.

A titolo di esempio: se un imprenditore per alcuni anni non presenta alcuna dichiarazione, non versa l’IVA dovuta, non è necessario che l’amministrazio-ne finanziaria, anni dopo, gli notifichi la cartella esattoriale perché lui sappia di essere in debito nei confronti della stessa amministrazione, atteso che il fat-to che ha generato la sua responsabilità evidentemente gli è ben noto, essendo stato commesso anni prima, e quindi è evidente la correlazione tra la consape-volezza del contribuente inadempiente, della possibile imminente attivazione di una procedura di riscossione, e l’atto che mira a cautelare i propri beni.

Quello previsto dall’art. 11 del d.lgs. n. 74/2000, è un reato che, come tutti i reati in materia penale tributaria, ha come previsione accessoria anche la confisca per equivalente rispetto all’ammontare dell’imposta evasa. Da questo punto di vista, è un reato un po’ particolare, perché non essendo un reato di-chiarativo né consistendo in un omesso versamento di imposte, non c’è un im-posta evasa che costituisca il profitto del reato: se l’imprenditore non versa l’IVA e incorre, superando la soglia di punibilità, nel reato di omesso versa-mento di cui all’art. 10-ter del d.lgs. n. 74/2000, il profitto è l’IVA non versa-ta; se l’imprenditore presenta una dichiarazione infedele, con o senza l’utilizzo di mezzi fraudolenti o di fatture per prestazioni inesistenti, l’ammontare del-l’imposta che così riesce ad evadere, è il profitto del reato e rappresenta il quantum possibile per la confisca anche per equivalente.

In ordine al profitto nel reato di sottrazione fraudolenta alla riscossione coattiva, la giurisprudenza della Suprema Corte come lo individua, non essen-do un reato con un profitto immediatamente percepito, essendo un reato mez-zo che mira ad ostacolare la riscossione coattiva? Ciò cui occorre avere ri-guardo, per individuare il profitto di questo reato, e dunque l’ammontare al quale si deve attenere poi la confisca disposta per equivalente, è la misura del patrimonio che sia stata sottratta con l’atto simulato o fraudolento. Se viene sottratto un immobile che vale € 1.000.000, quello sarà il profitto conseguito con la commissione di quel reato, e quello quindi sarà il quantum confiscabile, con un limite superiore, però, rappresentato dall’ammontare del debito tributa-rio: se io ho un debito tributario di € 500.000, per evitare la cui esazione coat-tiva mi libero del mio cespite che vale € 1.000.000, sarebbe una locupletazio-ne inammissibile se il giudice potesse disporre la confisca fino a € 1.000.000,

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importo ben superiore all’ammontare dell’imposta evasa. Quindi il limite su-periore è quello dell’ammontare dell’imposta evasa, e comunque il quantum confiscabile non deve eccedere il valore di quella parte di patrimonio sottratta in maniera simulata o fraudolenta.

È doveroso segnalare che il legislatore, nel 2013, a seguito di casi nei quali si erano verificate esecuzioni immobiliari da parte dell’amministrazione finan-ziaria, per debiti di modesta entità, intervenne modificando l’art. 76 del d.P.R. n. 602/1973, sostituito dal d.l. n. 69/2013, disposizione vigente dal 21 agosto 2013, con il quale si prevede che l’agente della riscossione non dia corso all’espropriazione se l’unico immobile di proprietà del contribuente debitore, sempre che non sia un immobile di lusso, sia adibito ad uso abitativo e il debi-tore vi risieda anagraficamente.

Viene introdotta una speciale causa di improcedibilità dell’espropriazione immobiliare, peraltro valevole solo per l’amministrazione finanziaria. È una norma che ha immediate ricadute pratiche, proprio ai fini dell’applicazione dell’art. 11 del d.lgs. n. 74/2000, come chiarito dalla Suprema Corte con la sent. n. 3011/2016 che peraltro riguardava un fatto commesso anteriormente al 21 agosto 2013, dunque anteriormente all’entrata in vigore di questa norma. La Corte di Cassazione chiarisce che benché la fattispecie di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 74/2000 sia un reato di pericolo concreto, qualora il bene che costitui-sca oggetto di alienazione simulata o fraudolenta abbia le caratteristiche suin-dicate (l’unico immobile di proprietà del debitore, adibito ad uso abitativo nonché sede della residenza anagrafica del debitore), non potendo costituire oggetto della procedura di riscossione coattiva ad opera dell’agente della ri-scossione, la sua alienazione, quand’anche simulata o fraudolenta, non verreb-be a vanificare la possibilità di riscossione coattiva per il semplice fatto che la riscossione coattiva su quel bene non si può azionare.

Esiste poi un problema di diritto transitorio: nel caso oggetto della pronun-cia della Suprema Corte, trattandosi di fatto commesso anteriormente all’en-trata in vigore della norma richiamata, quando quel bene ben avrebbe potuto costituire oggetto di riscossione coattiva, ovviamente il reato permane perché il pericolo è stato integrato, però la Suprema Corte, nel caso di specie, afferma che pur permanendo il reato, l’incidenza dello ius superveniens è comunque immediata ai fini del sequestro, in quanto ove la procedura espopriativa, pre-cedentemente azionata, fosse stata ancora in corso, sarebbe divenuta improce-dibile, e dunque anche il sequestro nell’ambito del procedimento penale non avrebbe più ragion d’essere, tanto da essere revocato in uno con la confisca disposta dal giudice di merito.

Sul punto occorre chiarire che permane la possibilità per il giudice penale di disporre la confisca per equivalente anche rispetto ad immobili che abbiano

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le caratteristiche suindicate (unico immobile, adibito ad uso abitativo, sede della residenza anagrafica), qualora si proceda non per il reato di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 74/2000 bensì per altri reati fiscali (es. artt. 10-bis, 10-ter, 2, 3, 4 del d.lgs. n. 74/2000) che prevedano la confisca anche per equivalente: la Cor-te di Cassazione si è pronunciata sul punto (sent. n. 7359/2014) chiarendo che le limitazioni introdotte dalla novella del 2013 riguardano esclusivamente l’agente della riscossione e non il procedimento penale né le misure cautelari. Occorre avere ben chiara la differenza: ragionando sul diritto vigente, fatti commessi dopo il 21 agosto 2013, se l’agente della riscossione si trovi di fron-te ad alienazione avente ad oggetto l’unico bene immobile del debitore, adibi-to ad uso abitativo e sede della sua residenza anagrafica, non potendo detto bene essere oggetto di riscossione coattiva, la sua alienazione, quand’anche simulata o fraudolenta, non potrà più integrare il reato di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 74/2000. Di quello stesso bene potrà invece continuare ad essere la confisca per equivalente in relazione alla commissione di altri reati tributari che la prevedono.

Tengo a sottolineare che non ogni tipo di atto di disposizione del proprio patrimonio, anche da parte del debitore nei confronti dell’amministrazione fi-nanziaria, vale ad integrare il reato che ci occupa, ma soltanto quegli atti che abbiano caratteristiche simulate o fraudolente: il legislatore, con l’art. del 11 d.lgs. n. 74/2000, non ha inteso introdurre un generale vincolo di indisponibi-lità gravante sui beni del debitore.

Dunque, la mera constatazione, da parte dell’agente della riscossione, che il debitore abbia disposto di uno o più ben cedendoli e rendendosi totalmente o parzialmente incapiente, non è evidentemente sufficiente ai fini dell’integra-zione del reato. Occorrerà verificare se il cespite sia stato venduto al prezzo di mercato, se sia stato venduto a un soggetto apparentemente terzo, e dunque non a una parte correlata, se vi sia stato effettivamente un trasferimento di de-naro. Se da tali accertamenti non emerga alcuna anomalia, né siano altrimenti acquisiti elementi per ipotizzare il carattere fraudolento e/o simulato dell’atto, il reato non sussiste, o quanto meno non vi sono elementi per dimostrarne la sussistenza.

Senza trascurare, peraltro, che il carattere fraudolento degli atti può emer-gere anche dalla concatenazione di più atti in un ristretto lasso di tempo, che abbiano un evidente scopo, quello di rendere il disponente nullatenente, maga-ri in tempi ravvicinati rispetto alla notifica di atti quali avvisi di accertamento o cartelle esattoriali.

Di seguito vi segnalo una serie di atti di carattere dispositivo, tratti dalla mia personale casistica esperienza giudiziaria, tutti a mio giudizio integranti il reato in questione.

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Così casi di alienazione simulata, generalmente consistenti in una vendita che dissimula in realtà il trasferimento a titolo gratuito ovvero nessun trasfe-rimento (simulazione assoluta), senza alcun passaggio di denaro, situazione oggi più agevolmente accertabile dovendo le parti indicare nell’atto notarile i mezzi di pagamento, indicati spesso in assegni bancari o circolari la cui effet-tiva negoziazione risulta prontamente verificabile presso l’istituto di credito.

Altri casi originavano dalla costituzione di un fondo patrimoniale, sulla cui rilevanza ai fini dell’integrazione della fattispecie in questione ha già avuto modo di pronunciarsi la Suprema Corte, definendolo, al pari del trust, un mez-zo di segregazione di una parte del patrimonio, idoneo, ove realizzato in ma-niera simulata o comunque fraudolenta, a integrare il reato di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 74/2000, valorizzandosi il fatto che, trattandosi comunque di reato di pericolo concreto, non occorre che con l’atto si pregiudichi definitivamente la riscossione coattiva, essendo sufficiente che si crei il pericolo che la procedura di riscossione coattiva sia inefficace in tutto o in parte (Cass. n. 5824/2016, richiamando una sentenza della Cass. civ., 17 gennaio 2007, n. 166, che reputa il fondo patrimoniale atto a titolo gratuito che può essere dichiarato inefficace nei confronti dei creditori a mezzo di azione revocatoria ordinaria, il che im-plica che l’amministrazione finanziaria, preso atto dell’esistenza sui beni del debitore di un fondo patrimoniale, avrebbe comunque l’onere di impugnare l’atto costitutivo con un’azione revocatoria, evidente aggravio nella procedura.

Analoghe considerazioni valgono per il trust, relativamente al quale si è già pronunciata la Suprema Corte affermandone la rilevanza ai fini dell’integra-zione del reato, ferma restando la necessità, ovviamente, di valorizzare e inda-gare il contesto nel quale il conferimento di beni avvenga, che deponga per la finalità elusiva tributaria.

Altre operazioni riscontrate nella casistica giudiziaria, dimostrano come talvolta la realtà superi la fantasia: in un caso un imprenditore, vistosi notifica-re una serie di avvisi di accertamento per plurimi anni di imposta, aveva creato un trust, nel quale conferiva determinati beni, dichiaratamente finalizzati a ga-rantire il futuro e la formazione della figlia che aveva all’epoca due anni di età! In una recente sentenza della Suprema Corte, addirittura, era stato costi-tuito un trust finalizzato ad assicurare le spese di formazione e mantenimento di figli e nipoti, peccato che il conferente non fosse coniugato e non avesse di-scendenti ...

In un altro caso il contribuente evasore, destintario di una verifica fiscale con contestazioni di rilevante importo, trasferisce definitivamente alcuni im-mobili alla ex coniuge, destinataria di assegno di divorzio, a titolo di datio in solutum in unica soluzione.

Più comuni i trasferimenti immobiliari a titolo di donazione, ovvero le

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alienazioni a familiari con termini di pagamento pluriennali, senza alcuna ga-ranzia per il disponente.

L’ultimo tema di questa mia riflessione attiene al contributo recato, nella realizzazione delle condotte di cui sinora abbiamo parlato, da professionisti che coadiuvano, quando non ispirano, nel compimento di atti che spesso ri-chiedono non comuni nozioni giuridiche.

Il coinvolgimento nella realizzazione del reato, e nel conseguente procedi-mento penale, del professionista, è sviluppo che deriva anche dalla linea di-fensiva prescelta dal contribuente indagato, che ascriva a sé la paternità della scelta del tipo di atto realizzato, piuttosto che attribuirla al consiglio del con-sulente di fiducia. La cui posizione, in tale ultima ipotesi, rischia di divenire delicata anche per i rischi di carattere patrimoniale conseguenti alla previsione della confisca anche per equivalente del profitto del reato, ovviamente, in ipo-tesi di reato commesso da più persone in concorso tra loro, eseguibile nei con-fronti di ciascuno dei concorrenti nel reato, dunque anche nei confronti del professionista ove sia coimputato dello stesso reato in concorso con il contri-buente proprio cliente.

Ulteriore fattore di dissuasione dal compimento di atti di disposizione fina-lizzati ad eludere la possibile riscossione coattiva, attiene alla natura, sanzio-natoria, della confisca disposta anche per equivalente all’esito del processo. Essendo la confisca una sanzione, essa opera in maniera del tutto autonoma rispetto all’ammontare dell’imposta evasa, che resta intonso anche all’esito dell’esecuzione della confisca. In altre parole, chi si spogli in maniera simula-ta o fraudolenta di un bene e se lo veda prima sequestrare e poi confiscare, re-sterà debitore in misura inalterata nei confronti dell’amministrazione finanzia-ria, pur avendo subito la confisca di un immobile, magari di valore prossimo o eguale alla misura dell’imposta evasa, che sarà comunque dovuta.

La Suprema Corte si è pronunciata sulla possibile responsabilità del profes-sionista per concorso nei reati tributari dei propri assisititi, con particolare rife-rimento al reato di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 74/2000. Con la pur risalente sent. 22 ottobre 1986, n. 1341, la Cassazione ha affermato che costituisce ille-cito penalmente rilevante il fatto del legale che, essendo consapevole dei loro propositi, dia ad altri consigli o suggerimenti sui mezzi giuridici idonei a sot-trarre i beni ai creditori o li assista nella conclusione dei relativi contratti ov-vero svolga un’attività diretta a garantire l’impunità, o comunque con il pro-prio aiuto o con il proprio preventivo parere favorisca o rafforzi l’altrui pro-getto delittuoso, massima in tema di bancarotta ma recante principi certamente validi anche in materia di sottrazione fraudolenta alla riscossione coattiva-

In un’altra pronuncia del 1988, la n. 6681, la Suprema Corte ha affermato che il legale che indica al cliente il mezzo per sottrarre i beni alla garanzia dei

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creditori viola la norma penale che punisce i fatti di distrazione commessi dalll’imprenditore commerciale.

In tempi più recenti, con la sent. n. 569/2003, in tema di reati fallimentari, si è chiarito che consulenti, commercialisti, esercenti la professione legale, concorrono in fatti di bancarotta quando, consapevoli dei propositi distrattivi dell’imprenditore e degli amministratori della società, forniscono consiglio e suggerimenti sui mezzi giuridici idonei a sottrarre i beni ai creditori o li assi-stono nella conclusione dei relativi negozi, ovvero ancora svolgono attività di-rette a garantire l’impunità o a favorire e rafforzare con il proprio ausilio l’altrui proposito criminoso.

L’ultimo caso che vi segnalo era quello in cui era stato ceduto un fiorente ramo di azienda da una società ad un’altra società neocostituita che era almeno in parte riferibile agli stessi soci della società dante causa. L’elemento forte dal punto di vista probatorio era rappresentato dal fatto che vi era stato un ac-cesso per l’inizio di una verifica fiscale al quale era seguita, nell’arco di po-chissimi giorni, la richiesta, da parte della futura avente causa, all’Agenzia delle Entrate di rilascio del certificato dei carichi pendenti tributari in capo alla cedente, certificato che, ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. n. 472/1997, ha sostan-zialmente la funzione di cristallizzare la responsabilità del cessionario, che non risponderà che dei debiti tributari della cedente che risultino dal certifica-to rilasciato. Ovviamente, nel caso di specie, nel quale la verifica era alle pri-missime fasi, nulla poteva risultare su quel certificato delle contestazioni di carattere fiscale formulabili all’esito della verifica, con la conseguenza che la cessionaria non avrebbe risposto dei debiti di carattere fiscale che fossero emersi all’esito di quella verifica, pur in corso al momento della cessione dell’azienda. Di fatto, con il sequestro preventivo dell’azienda e la nomina di un amministratore giudiziario, la cedente e la cessionaria finirono per accedere ad un accordo con l’amministrazione finanziaria pur di ottenere la revoca del sequestro e riacquisire la piena disponibilità dell’attività aziendale.

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Approfondimenti

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Le imposte anticipate e differite: una overview sulla disciplina nazionale e internazionale Luciano M. Quattrocchio-Francesca Grillo

SOMMARIO

1. Premessa. L’iter storico. – 2. I criteri generali di redazione del bilancio d’esercizio (postula-ti) e la rilevazione della fiscalità differita attiva. – 3. L’iscrizione della fiscalità differita attiva sulle differenze temporanee deducibili. – 3.1. Le definizioni. – 3.2. La rilevazione in bilancio e la successiva valutazione delle attività per imposte anticipate. – 4. L’iscrizione della fiscalità differita attiva sulle perdite fiscali. – 5. Il requisito della “ragionevole certezza” e l’importanza della formale approvazione di Piani industriali attendibili. – 6. La rilevazione e la rappresenta-zione della fiscalità differita attiva nel bilancio IAS-based: cenni. – 7. Il Documento del Consi-glio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili. “Linee guida alla redazio-ne del Business Plan” (Maggio 2011): la best practice. – 7.1. Premessa. – 7.2. I principi gene-rali di redazione del Business Plan. – 7.3. I contenuti essenziali del Business Plan.

1. Premessa. L’iter storico

La fiscalità differita – attiva e passiva – è divenuta oggetto di studio in Ita-lia a partire dall’attuazione della IV 1 e della VII 2 direttiva CEE. Infatti, nono-stante il d.lgs. 9 aprile 1991, n. 127 – recante l’“Attuazione delle direttive n. 78/660/CEE e n. 83/349/CEE in materia societaria, relative ai conti annuali e consolidati, ai sensi dell’art. 1, comma 1, della legge 26 marzo 1990, n. 69” – non ne facesse esplicita menzione, la statuizione legislativa di principi prepo-sti alla redazione del bilancio d’esercizio, come quello della competenza e del-la continuità aziendale, ha destato l’attenzione sulle problematiche connesse al tema della fiscalità differita.

Più in particolare, la normativa in vigore sino al 31 dicembre 2003 non considerava espressamente il fenomeno delle differenze temporanee (tempo-rary differences in ambito internazionale), che – per contro – venivano prese

1 Direttiva 25 luglio 1978, n. 78/660/CEE. 2 Direttiva 13 giugno 1983, n. 83/349/CEE.

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espressamente in considerazione dal Principio Contabile n. 25, emanato, nel marzo del 1999, dalla Commissione per la Statuizione dei Principi Contabili dei Consigli Nazionali dei Dottori Commercialisti e dei Ragionieri e recante “Il trattamento contabile delle Imposte sul reddito”.

È solo con l’entrata in vigore del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 recante la “Riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperati-ve, in attuazione della legge delega 3 ottobre 2001, 366” – che la fiscalità dif-ferita viene esplicitamente menzionata nella normativa civilistica. L’inten-zione di colmare una lacuna della disciplina sino ad allora in vigore, che non prevedeva esplicitamente la rappresentazione contabile delle imposte differite, è – d’altronde – rinvenibile nella relazione accompagnatoria a tale legge, ove si metteva in evidenza il problema dell’adattamento e dell’integrazione dei previgenti schemi di bilancio.

Da qui l’introduzione – operata dal decreto legislativo in parola – nell’attivo dello schema di stato patrimoniale, nella voce CII, di due apposite voci, ossia “crediti tributari” (voce 4-bis) e “imposte anticipate” (voce 4-ter) 3. Inoltre, nel passivo dello schema di stato patrimoniale, fra i fondi rischi ed oneri, veniva in-tegrata la dizione della voce B2 (“fondi per imposte”) con l’aggiunta di «anche differite». Infine, nello schema di conto economico, la voce 22 (“imposte sul reddito dell’esercizio”) è stata integrata con la precisazione “correnti, differite e anticipate”, il cui relativo dettaglio deve essere fornito nella nota integrativa 4.

La nuova disciplina è stata poi integrata dal Principio Contabile n. 25, emanato dall’Organismo Italiano di Contabilità in data 30 maggio 2005 in so-stituzione del Principio Contabile n. 25 del marzo 1999. Il Principio Contabile n. 25, nella sua versione del 30 maggio 2005, è stato poi oggetto di successive rielaborazioni ad opera dell’Organismo Italiano di Contabilità: nello specifico, il lavoro di revisione si è tradotto nell’emanazione di un nuovo testo – con pubblicazione nell’agosto 2014 e con nuova rubricazione “Imposte sul reddi-

3 Ora, voce, rispettivamente 5-bis e 5-ter, in virtù dell’entrata in vigore del d.lgs. 18 agosto 2015, n. 139, che ha introdotto nello schema di stato patrimoniale attivo, nella voce CII, la vo-ce 5) “verso imprese sottoposte al controllo delle controllanti”.

4 A tal proposito, si evidenzia che il d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 ha modificato anche il contenuto del punto 14 dall’art. 2427 c.c., prevedendo che in nota integrativa debba essere in-serito un apposito prospetto contenente: «a) la descrizione delle differenze temporanee che hanno comportato la rilevazione di imposte differite e anticipate, specificando l’aliquota appli-cata e le variazioni rispetto all’esercizio precedente, gli importi accreditati o addebitati a conto economico oppure a patrimonio netto, le voci escluse dal computo e le relative motivazioni; b) l’ammontare delle imposte anticipate contabilizzato in bilancio attinenti a perdite dell’esercizio o di esercizi precedenti e le motivazioni dell’iscrizione, l’ammontare non ancora contabilizzato e le motivazioni della mancata iscrizione».

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to” – e, da ultimo, del recentissimo testo pubblicato nel dicembre 2016. A livello internazionale, la regolamentazione della fiscalità differita, inte-

ramente demandata ai Principi Contabili Internazionali (International Accoun-ting Standard Board), è contenuta nel Documento IAS n. 12 del 1979 – rubri-cato, nella sua versione previgente, “Accounting for taxes on income” –, rivi-sto nella forma nell’ottobre 1996 (con nuova rubricazione “Income taxes”) e successivamente nell’ottobre 2000. Lo IAS n. 12 è stato, infine, oggetto di li-mitati emendamenti nel dicembre 2010 e, da ultimo, nel dicembre 2016.

2. I criteri generali di redazione del bilancio d’esercizio (postulati) e la rilevazione della fiscalità differita attiva

La redazione del bilancio d’esercizio, per le società che non sono tenute all’applicazione dei Principi Contabili Internazionali, è disciplinata dagli artt. 2423 ss. c.c., opportunamente interpretati ed integrati dai Principi Contabili nazionali. In tale contesto, l’obbligo dell’iscrizione in bilancio delle imposte differite (attive e passive) costituisce la naturale applicazione dei principi ge-nerali di redazione del bilancio d’esercizio, la chiarezza e la veritiera e corretta rappresentazione della situazione patrimoniale e finanziaria e del risultato d’e-sercizio (art. 2423, comma 2, c.c.), nonché dei principi di redazione, la pru-denza e la competenza (art. 2423-bis, commi 1 e 3, c.c.). A tali principi gene-rali, si affiancano poi i criteri di valutazione, e in particolare quello relativo agli accantonamenti ai fondi per rischi ed oneri (art. 2424-bis, comma 3, c.c.), nonché quello riguardante la distribuzione di utili (art. 2433, comma 2, c.c.).

In particolare, le imposte anticipate riguardano l’ipotesi di fiscalità differita attiva e derivano dalle differenze temporanee deducibili negli esercizi succes-sivi, ovvero dal disallineamento tra la valutazione civilistica e quella fiscale di un’attività o di una passività, nonché dal riporto a nuovo delle perdite fiscali ai sensi dell’art. 84 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo Unico delle Im-poste sui Redditi).

In particolare, il differimento della fiscalità si realizza qualora, a partire dal risultato reddituale ante imposte civilisticamente determinato, apportando a quest’ultimo – in applicazione della relativa disciplina fiscale – le variazioni in aumento e/o in diminuzione, si pervenga a un valore fiscalmente ricono-sciuto dei componenti positivi e negativi di reddito differente rispetto a quello civilistico, sicché le imposte anticipate rappresentano le imposte monetizzate nell’esercizio in cui si contabilizza l’operazione ad esse correlata, pur essendo considerate di competenza degli esercizi futuri. E invero, il Principio Contabi-le OIC n. 25 (par. 14) specifica che «Le differenze temporanee deducibili ge-

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nerano imposte anticipate, ossia imposte dovute nell’esercizio in corso supe-riori alle imposte di competenza rilevate in bilancio. La società iscrive, per-tanto, un’attività per imposte anticipate per le minori imposte che saranno pagate negli esercizi successivi».

Tuttavia, nel rispetto del principio della prudenza, solo qualora si preveda il realizzarsi di condizioni tali da riassorbire i benefici correlati alla fiscalità dif-ferita attiva, la contabilizzazione in bilancio delle imposte anticipate si rende obbligatoria per effetto del principio della competenza economica, sancito dall’art. 2423-bis c.c., al fine di garantire, in questo modo, una corretta e veri-tiera rappresentazione della situazione patrimoniale e finanziaria, nonché del risultato economico.

In tal senso, il legislatore del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, con la regola-mentazione degli schemi obbligatori di bilancio e delle informazioni da ripor-tare nella nota integrativa e la conseguente obbligatorietà dell’iscrizione in bi-lancio, tra le altre, della voce “imposte anticipate”, sembra abbia voluto raf-forzare l’adeguamento delle poste riconducibili alla fiscalità differita ai prin-cipi generale e ai principi di redazione. Infatti, si è voluto ottemperare, innan-zitutto, al principio della chiarezza, rendendo omogenei i format di bilancio; in secondo luogo, al principio della correttezza e della prudenza, garantendo l’attendibilità dei valori esposti in bilancio e richiedendo l’evidenza nello stes-so di componenti di reddito negative future – le imposte – e, infine, al princi-pio della competenza, essendo le imposte anticipate recuperate per competen-za negli esercizi futuri.

Più in particolare, in ordine all’iscrizione in bilancio delle imposte anticipa-te, lo stesso Principio Contabile OIC n. 25 (par. 41) chiarisce, che «Le attività per imposte anticipate sono rilevate, nel rispetto del principio della prudenza, solo quando vi è la ragionevole certezza del loro futuro impiego», ossia della capacità dell’impresa di produrre, negli esercizi futuri, redditi imponibili tali da consentire il riassorbimento delle imposte anticipate stanziate. Lo stesso Principio Contabile prosegue specificando le ipotesi in cui la “ragionevole certezza” si ritiene comprovata (v. infra).

Naturalmente, ai fini del rispetto del principio di prudenza nei termini sopra esposti e, quindi, di una preventiva valutazione circa la recuperabilità delle dif-ferenze temporanee deducibili emerse nella redazione del bilancio d’esercizio, si rende necessario prendere in considerazione, in una concezione sistemica del-l’impresa, l’andamento economico prospettico dell’impresa: la valutazione pre-ventiva dell’andamento della vita aziendale deve rappresentare il fondamento razionale per l’iscrizione delle imposte anticipate ed è il c.d. principio della pru-denza “valutativa e gestionale” che deve essere assunto quale assioma impre-scindibile per la determinazione di un reddito prospettico realistico.

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Occorre sottolineare, al proposito, che – nell’ambito dei Principi Contabili Internazionali – la ricerca di ipotesi reddituali prospettiche si ispira al concetto di “probabilità”. Nello specifico, lo IAS n. 12, in tema di differenze tempora-nee deducibili, afferma che «Un’attività fiscale differita deve essere rilevata per tutte le differenze temporanee deducibili se è probabile che sarà realizzato un reddito imponibile a fronte del quale potrà essere utilizzata la differenza temporanea deducibile [...]»; e ancora, in tema di riportabilità a nuovo delle perdite fiscali, «Un’attività fiscale differita per perdite fiscali […] non utiliz-zat[e] riporatat[e] a nuovo deve essere rilevata nella misura in cui è probabi-le che sia disponibile un reddito imponibile futuro a fronte del quale possano essere utilizzat[e] le perdite fiscali […] non utilizzat[e]».

Il concetto di “probabilità” ha – evidentemente – una portata diversa ri-spetto a quello della “ragionevole certezza”: secondo la prassi internazionale, un evento è probabile se è più plausibile che si verifichi rispetto al fenomeno contrario. Dalla lettura del Documento, è evidente che solo se vi sia una pro-babilità almeno pari al 50%+1 che gli eventi si realizzino e che gli stessi ga-rantiscano il riassorbimento delle imposte differite attive, l’iscrizione delle correlate imposte anticipate si renderebbe obbligatoria. È quindi evidente co-me il recupero delle imposte anticipate deve fondarsi – nel contesto applicati-vo dei Principi Contabili Internazionali – su parametri matematico-statistici, piuttosto che fare riferimento a criteri economico-aziendali richiesti dall’appli-cazione del principio di prudenza, così come previsto dalla normativa e della prassi nazionale. In tale ambito, quindi, il concetto di “ragionevole certezza”, sottendendo un processo di pianificazione e programmazione che non può es-sere avulso dal contesto aziendale di riferimento, differisce in maniera sostan-ziale dal mero calcolo delle probabilità circa il verificarsi di un evento.

Infine, i principi generali e i principi di redazione del bilancio d’esercizio trovano esplicitazione anche nella redazione della nota integrativa. In partico-lare, in assenza della “ragionevole certezza”, al fine di fornire un’informazio-ne veritiera e corretta circa la situazione economico-patrimoniale dell’azienda, si rende comunque necessario evidenziare nella nota integrativa la presenza di operazioni che danno luogo a imposte anticipate e, conseguentemente, i po-tenziali benefici in termini fiscali, nonché le motivazioni della mancata iscri-zione delle stesse imposte anticipate.

Laddove, invece, l’esistenza della “ragionevole certezza” sia verificata e si dia corso, per obbligo di legge, all’iscrizione delle imposte anticipate, la nota integrativa, nella forma ordinaria 5, dovrà riportare, tra l’altro, un’adeguata de-

5 Per le società che, ai sensi dell’art. 2435-bis c.c. e del nuovo art. 2435-ter c.c. (rubricato “Bilancio delle micro-imprese”), hanno la facoltà di redigere il bilancio in forma abbreviata,

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scrizione delle differenze temporanee che hanno comportato la rilevazione delle imposte anticipate, delle modalità di calcolo utilizzate e delle ipotesi as-sunte per la stima dell’attività per imposte anticipate contabilizzata. Ciò deve avvenire mediante la redazione di uno specifico prospetto, così come indicato nell’art. 2427, comma 1, n. 14, lett. a) e b), c.c.

3. L’iscrizione della fiscalità differita attiva sulle differenze tempora-nee deducibili

3.1. Le definizioni Le imposte differite – attive e passive – sono originate da componenti di

costo e/o di ricavo che, rilevate per competenza civilistica nell’esercizio in chiusura, esplicano fiscalmente i loro effetti negli esercizi successivi, in forza del disallineamento – con riferimento alla medesima voce di bilancio – tra va-lore contabile e valore fiscalmente riconosciuto. Il Principio Contabile OIC n. 25 (par. 6) afferma, infatti, che «Le imposte correnti rappresentano le imposte sul reddito dovute riferibili al reddito imponibile di un esercizio. L’ammon-tare delle imposte correnti (o dovute) non coincide generalmente con l’am-montare delle imposte di competenza dell’esercizio, in quanto, per effetto del-le diversità tra le norme civilistiche e fiscali, i valori attribuiti ad un’attività o passività secondo criteri civilistici possono differire dai valori riconosciuti a tali elementi ai fini fiscali».

Lo stesso Principio Contabile OIC n. 25 definisce “differenza temporanea” la differenza – ad una certa data – tra il valore civilistico di un’attività o di una passività ed il corrispondente valore riconosciuto ai fini fiscali, se la stessa è destinata ad annullarsi negli esercizi successivi, oggetto di iscrizione in bilan-cio. Qualora, invece, la differenza non fosse destinata ad annullarsi negli eser-cizi futuri, essa configura l’ipotesi di “differenza permanente” e, per sua natu-ra, non richiede la rilevazione in bilancio della fiscalità differita.

Le differenze temporanee si distinguono in:

• differenze temporanee imponibili negli esercizi successivi, ossia differen-ze che, nella determinazione del reddito imponibile (perdita fiscale) di esercizi successivi, si tradurranno in importi imponibili quando il valore contabile dell’attività o della passività sarà estinto o realizzato, in tutto o in parte; esse generano imposte differite, ossia imposte che, pur essendo di competenza del-

non sussiste l’obbligo di fornire nella nota integrativa la descrizione delle differenze tempora-nee che hanno comportato la rilevazione delle imposte differite, attive e passive.

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l’esercizio, sono dovute in esercizi futuri e per le quali la società iscrive, di conseguenza, una passività per imposte differite;

• differenze temporanee deducibili negli esercizi successivi, ossia differen-ze che, nella determinazione del reddito imponibile (perdita fiscale) di esercizi successivi, si tradurranno in importi deducibili quando il valore contabile del-l’attività o della passività sarà estinto o realizzato, in tutto o in parte; esse ge-nerano imposte anticipate, ossia imposte dovute nell’esercizio in corso supe-riori alle imposte di competenza rilevate in bilancio e per le quali la società iscrive, pertanto, un’attività per imposte anticipate per le minori imposte che saranno pagate negli esercizi successivi.

3.2. La rilevazione in bilancio e la successiva valutazione delle attività per imposte anticipate L’iscrizione in bilancio della fiscalità differita, come in precedenza detto, è

diretta conseguenza dell’applicazione del principio di competenza economica e la rilevazione delle attività per imposte anticipate e delle imposte differite consente di riallineare l’utile di conto economico al reddito tassabile ai fini fi-scali, mediante una “correzione” delle imposte liquidate nella dichiarazione dei redditi. Particolare attenzione deve essere, quindi, posta – nell’ambito di una più estesa attività di tax governance – alla gestione contabile della fiscali-tà differita.

In riferimento alla rilevazione in bilancio delle attività per imposte antici-pate derivanti da differenze temporanee deducibili, il Principio Contabile OIC n. 25 (parr. 38-46 e 88-91) ne prevede i criteri e i requisiti.

Innanzitutto, si prevede che l’iscrizione delle stesse debba avvenire nell’e-sercizio in cui emergono le correlate differenze temporanee.

Le attività per imposte anticipate devono poi essere rilevate, nel rispetto del principio di prudenza, solo quando sia verificata la “ragionevole certezza” del loro futuro recupero: è lo stesso Principio Contabile OIC n. 25 ad individuare le circostanze in cui il requisito della “ragionevole certezza” è comprovato (v. infra).

In particolare, la determinazione delle attività per imposte anticipate deve articolarsi nelle seguenti fasi:

• individuazione delle differenze temporanee alla fine dell’esercizio; • determinazione delle perdite fiscali riportabili a nuovo (v. infra); • analisi dei tempi di annullamento delle differenze temporanee originanti

le attività per imposte anticipate; • calcolo della fiscalità differita alla data di bilancio;

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• analisi e valutazione delle attività per imposte anticipate iscritte in bi-lancio.

In riferimento all’individuazione delle differenze temporanee deducibili, nonché al calcolo della relativa fiscalità differita alla data di bilancio, il Prin-cipio Contabile OIC n. 25 afferma che le attività per imposte anticipate devo-no essere calcolate sull’«ammontare cumulativo di tutte le differenze tempo-ranee dell’esercizio, applicando le aliquote fiscali in vigore nell’esercizio nel quale le differenze temporanee si riverseranno, previste dalla normativa fisca-le vigente alla data di riferimento del bilancio». Tuttavia, lo stesso Documen-to specifica che, qualora la normativa fiscale non stabilisca le aliquote fiscali che saranno in vigore nell’esercizio nel quale le differenze temporanee si ri-verseranno, le attività per imposte anticipate dovranno essere calcolate pren-dendo in considerazione le aliquote in vigore alla data di riferimento del bilan-cio.

Inoltre, relativamente all’analisi e alla valutazione delle attività per im-poste anticipate iscritte in bilancio, il Principio Contabile OIC n. 25 afferma l’obbligo di valutare le stesse ad ogni data di riferimento del bilancio, al fi-ne di operare eventuali rettifiche in caso di variazione dell’aliquota fiscale rispetto agli esercizi precedenti, a condizione, tuttavia, che la norma di leg-ge che varia l’aliquota sia già stata effettivamente emanata alla data di rife-rimento del bilancio. Qualora, inoltre, fossero previste differenti aliquote fiscali da applicarsi in base al livello del reddito imponibile, la valutazione delle attività per imposte anticipate deve essere effettuata utilizzando le ali-quote medie in vigore nel periodo in cui si riverseranno le differenze tem-poranee, salvo la possibilità di utilizzare l’aliquota media dell’ultimo eser-cizio in caso di particolare difficoltà nella determinazione dell’aliquota me-dia degli esercizi futuri.

Infine, il valore contabile delle attività per imposte anticipate dovrà essere obbligatoriamente rivisto a ciascuna data di riferimento del bilancio, al fine – da un lato – di iscrivere le attività per imposte anticipate precedentemente non rilevate, nella misura in cui sia divenuto ragionevolmente certo il loro recupe-ro, e – dall’altro – di stornare le attività per imposte anticipate precedentemen-te iscritte, nella misura in cui non sia più ragionevolmente certo la loro recupe-rabilità.

Di seguito, si riporta un prospetto di raccordo tra le diverse edizioni del Principio Contabile n. 25 che, nel tempo, si sono susseguite:

Page 103: G. Giappichelli Editore – Torino - dirittoeconomiaimpresa.it · G. PIROSO-M. CAVANNA, La rettifica unilaterale notarile ex art. 59-bis della legge notarile (con Breve chiosa finale,

764

Dir

itto

ed

eco

no

mia

del

l’im

pre

sa

Fas

cico

lo 3

| 201

7

Prin

cipi

o co

ntab

ile n

. 25

del m

arzo

19

99

Prin

cipi

o co

ntab

ile O

IC n

. 25

del

mag

gio

2005

Ap

plic

abile

ai b

ilanc

i chi

usi a

par

tire

dal 1

° gen

naio

200

4

Prin

cipi

o co

ntab

ile O

IC n

. 25

dell’

agos

to 2

014

Appl

icab

ile a

i bila

nci c

hius

i a p

artir

e da

l 31

dice

mbr

e 20

14

Prin

cipi

o co

ntab

ile O

IC n

. 25

del

dice

mbr

e 20

16

Appl

icab

ile a

i bila

nci c

on e

serc

izio

av

ente

inizi

o a

part

ire d

al 1

° G

enna

io 2

016

H. R

ILE

VA

ZIO

NE

Si

de

vono

ri

leva

re

nello

st

ato

patr

i-m

onia

le e

nel

con

to e

cono

mic

o gl

i eff

etti

deri

vant

i dal

le d

iffe

renz

e te

mpo

rane

e de

-te

rmin

ates

i com

e so

pra

desc

ritto

. L

e im

post

e di

ffer

ite

devo

no

esse

re

calc

olat

e su

ll’a

mm

onta

re

cum

ulat

ivo

di t

utte

le

diff

eren

ze t

empo

rane

e tr

a il

valo

re d

i un

a at

tività

o d

i un

a pa

ssi-

vità

, in

clus

e le

vo

ci

del

patr

imon

io

netto

, se

cond

o cr

iteri

ci

vilis

tici

e il

va

lore

at

trib

uito

a

quel

l’at

tività

o

a qu

ella

pa

ssiv

ità

a fi

ni

fisc

ali,

appl

i-ca

ndo

l’al

iquo

ta i

n vi

gore

al

mom

ento

in

cu

i le

di

ffer

enze

te

mpo

rane

e si

ri

vers

eran

no.

Ai

fini

IR

AP

le

diff

eren

ze t

empo

rane

e su

cu

i ca

lcol

are

le

impo

ste

diff

erite

so

no d

iver

se d

a qu

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IR

PE

G, a

cau

sa

dell

a sp

ecif

icit

à de

lle

norm

e IR

AP

in

mat

eria

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nibi

lità

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ded

uci-

bilit

à;

cons

egue

ntem

ente

oc

corr

e ef

-fe

ttuar

e ca

lcol

i se

para

ti de

lle i

mpo

ste

diff

erit

e ai

fin

i IR

PE

G e

ai f

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RA

P.

L’o

nere

fis

cale

del

l’es

erci

zio

deve

es-

sere

rap

pres

enta

to q

uind

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gli

acca

nton

amen

ti p

er l

e im

post

e liq

uida

te e

da

liqui

dare

per

l’e

serc

izio

; –

l’am

mon

tare

de

lle

impo

ste

che

si

ritie

ne

risu

ltera

nno

dovu

te

o ch

e si

ri

tiene

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ano

stat

e pa

gate

an

ticip

ata-

men

te i

n re

lazi

one

a di

ffer

enze

tem

-po

rane

e so

rte

o an

null

ate

nell

’ese

r-ci

zio

in c

orso

, e

H. R

ILE

VA

ZIO

NE

S

ono

rile

vati

nello

sta

to p

atri

mon

iale

e

nel

cont

o ec

onom

ico

gli

effe

tti d

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vant

i da

lle d

iffe

renz

e te

mpo

rane

e de

-te

rmin

ates

i com

e so

pra

desc

ritto

.

Le

impo

ste

diff

erit

e so

no

calc

olat

e su

ll’am

mon

tare

cum

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ivo

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utte

le

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eren

ze t

empo

rane

e tr

a il

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re d

i un

a at

tività

o d

i un

a pa

ssiv

ità,

incl

use

le v

oci

del

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imon

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etto

, se

cond

o cr

iteri

civ

ilist

ici

e il

valo

re r

icon

osci

u-to

a q

uell’

attiv

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a q

uella

pas

sivi

tà a

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ni

fisc

ali,

appl

ican

do

l’al

iquo

ta

in

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re a

l m

omen

to i

n cu

i le

dif

fere

nze

tem

pora

nee

si r

iver

sera

nno.

Ai

fini

IR

AP

le d

iffe

renz

e te

mpo

rane

e su

cu

i ca

lcol

are

le

impo

ste

diff

erite

so

no d

iver

se d

a qu

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IR

ES

, a

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a de

lla

spec

ific

ità

dell

e no

rme

IRA

P i

n m

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ia d

i im

poni

bilit

à e

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educ

i-bi

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co

nseg

uent

emen

te

occo

rre

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fettu

are

calc

oli

sepa

rati

delle

im

post

e di

ffer

ite

ai f

ini I

RE

S e

ai f

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RA

P.

L’o

nere

fis

cale

del

l’es

erci

zio

è ra

ppre

-se

ntat

o qu

indi

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gli

acca

nton

amen

ti p

er l

e im

post

e liq

uida

te e

da

liqui

dare

per

l’e

serc

izio

;–

l’am

mon

tare

de

lle

impo

ste

che

si

ritie

ne

risu

ltera

nno

dovu

te

o ch

e si

ri

tiene

si

ano

stat

e pa

gate

an

ticip

a-ta

men

te i

n re

lazi

one

a di

ffer

enze

tem

-po

rane

e so

rte

o an

nulla

te

nell’

eser

-ci

zio

in c

orso

, e

– le

ret

tific

he n

ello

sta

to p

atri

mon

iale

RIL

EV

AZ

ION

E D

EL

LA

FIS

CA

LIT

À

DIF

FE

RIT

A S

U O

PER

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I C

HE

H

AN

NO

E

FFE

TT

O

SUL

C

ON

TO

E

CO

NO

MIC

O

40. L

e im

post

e an

tici

pate

e d

iffe

rite

(e

le c

orre

late

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vità

e p

assi

vità

) so

no

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vate

nel

con

to e

cono

mic

o (e

nel

lo

stat

o pa

trim

onia

le)

nell

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rciz

io

in

cui

emer

gono

le

diff

eren

ze t

empo

ra-

nee.

Il

calc

olo

delle

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vità

e p

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vità

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ffer

ite

tien

e co

nto

dell

e sp

ecif

icit

à de

lle

dive

rse

norm

ativ

e fi

scal

i in

m

ater

ia d

i im

poni

bili

tà e

ded

ucib

ilit

à. 41

. Le

attiv

ità p

er i

mpo

ste

antic

ipat

e e

la p

assi

vità

per

im

post

e di

ffer

ite n

on

sono

ril

evat

e in

bil

anci

o in

pre

senz

a di

un

a di

ffer

enza

per

man

ente

42

. L

a de

term

inaz

ione

del

le i

mpo

ste

diff

erite

si

artic

ola

nelle

seg

uent

i fa

si:

– l’

indi

vidu

azio

ne

delle

di

ffer

enze

te

mpo

rane

e al

la f

ine

dell

’ese

rciz

io;

– la

de

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inaz

ione

de

lle

perd

ite

fisc

ali r

ipor

tabi

li a

nuov

o;

– l’

anal

isi

dei

tem

pi

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rien

tro

(o

annu

llam

ento

) de

lle d

iffe

renz

e te

mpo

-ra

nee

da c

ui t

ragg

ono

orig

ine

le a

tti-

vità

per

im

post

e an

tici

pate

e l

e pa

ssi-

vità

per

impo

ste

diff

erit

e;

– il

calc

olo

della

fis

calit

à di

ffer

ita a

lla

data

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bila

ncio

; –

l’an

alis

i e

valu

tazi

one

delle

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pe

r im

post

e an

ticip

ate

e pa

ssiv

ità p

er

impo

ste

diff

erite

is

critt

e in

bi

lanc

io.

43.

Le

atti

vità

per

im

post

e an

tici

pate

RIL

EV

AZ

ION

E D

EL

LA

FIS

CA

-L

ITÀ

D

IFF

ER

ITA

SU

O

PE

RA

-Z

ION

I C

HE

HA

NN

O E

FFE

TT

O

SU

L C

ON

TO

EC

ON

OM

ICO

38.

Le

impo

ste

antic

ipat

e e

diff

erite

(e

le c

orre

late

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vità

e

pass

ività

) so

no r

ileva

te n

el c

onto

ec

onom

ico

(e n

ello

sta

to p

atri

mo-

nial

e) n

ell’

eser

cizi

o in

cui

em

er-

gono

le

diff

eren

ze t

empo

rane

e. I

l ca

lcol

o de

lle

attiv

ità

e pa

ssiv

ità

diff

erite

tie

ne c

onto

del

le s

peci

fi-

cità

del

le d

iver

se n

orm

ativ

e fi

scal

i in

mat

eria

di

impo

nibi

lità

e d

edu-

cibi

lità

.

39.

Le

attiv

ità

per

impo

ste

anti-

cipa

te e

la

pass

ività

per

im

post

e di

ffer

ite

non

sono

ri

leva

te

in

bila

ncio

in

pr

esen

za

di

una

dif-

fere

nza

perm

anen

te.

40.

La

dete

rmin

azio

ne d

elle

im

po-

ste

diff

erit

e si

ar

tico

la

nelle

se

-gu

enti

fasi

: –

l’in

divi

duaz

ione

del

le d

iffe

renz

e te

mpo

rane

e al

la f

ine

dell

’ese

rciz

io;

– la

det

erm

inaz

ione

del

le p

erdi

te

fisc

ali r

ipor

tabi

li a

nuov

o;

– l’

anal

isi

dei

tem

pi d

i ri

entr

o (o

an

nulla

men

to)

delle

dif

fere

nze

tem

-po

rane

e da

cui

tra

ggon

o or

igin

e le

at

tività

per

im

post

e an

ticip

ate

e le

pa

ssiv

ità p

er im

post

e di

ffer

ite;

– il

calc

olo

della

fis

calit

à di

ffer

ita

alla

dat

a de

l bila

ncio

; –

l’an

alis

i e

valu

tazi

one

delle

at-

Page 104: G. Giappichelli Editore – Torino - dirittoeconomiaimpresa.it · G. PIROSO-M. CAVANNA, La rettifica unilaterale notarile ex art. 59-bis della legge notarile (con Breve chiosa finale,

765

Dir

itto

ed

eco

no

mia

del

l’im

pre

sa

Fas

cico

lo 3

| 201

7

le r

ettif

iche

nel

lo s

tato

pat

rim

onia

le

ai s

aldi

di

impo

ste

diff

erite

per

ten

er

cont

o si

a de

lle v

aria

zion

i de

lle a

liquo

-te

che

del

l’is

tituz

ione

di

nuov

e im

po-

ste.

N

on è

con

sent

ito

util

izza

re a

ltri

me-

todi

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onta

bili

zzaz

ione

. H

.I.

Cal

colo

del

la t

assa

zion

e di

ffer

ita

Le

impo

ste

diff

erite

e

le

impo

ste

anti

cipa

te

devo

no

esse

re

cont

eggi

ate

ogni

ann

o su

lla b

ase

delle

aliq

uote

in

vigo

re a

l m

omen

to i

n cu

i le

dif

fere

nze

tem

pora

nee

si

rive

rser

anno

, ap

por-

tand

o ad

egua

ti ag

gius

tam

enti

in

caso

di

var

iazi

one

di a

liquo

ta r

ispe

tto a

gli

eser

cizi

pre

cede

nti,

purc

hé la

nor

ma

di

legg

e ch

e va

ria

l’al

iquo

ta s

ia g

ià s

tata

em

anat

a al

la

data

di

re

dazi

one

del

bila

ncio

. Q

ualo

ra

foss

ero

prev

iste

di

ffer

enti

al

iquo

te f

isca

li da

app

licar

si a

dif

fe-

rent

i liv

elli

di

redd

ito,

le

impo

ste

diff

erit

e e

antic

ipat

e va

nno

calc

olat

e ut

iliz

zand

o le

ali

quot

e m

edie

att

ese

nei

peri

odi i

n cu

i le

diff

eren

ze te

mpo

rane

e si

ri

vers

eran

no.

Nel

ca

so

in

cui

ri-

sult

asse

pa

rtic

olar

men

te

diff

icol

toso

de

term

inar

e l’

aliq

uota

m

edia

pe

r gl

i es

erci

zi f

utur

i, è

acce

ttab

ile

util

izza

re

l’al

iquo

ta e

ffet

tiva

dell’

ulti

mo

eser

ci-

zio.

L

e at

tività

de

riva

nti

da

impo

ste

antic

ipat

e no

n po

sson

o es

sere

rile

vate

, in

ris

petto

al

prin

cipi

o de

lla p

rude

nza,

se

no

n vi

è

la

ragi

onev

ole

cert

ezza

de

ll’es

iste

nza

negl

i es

erci

zi i

n cu

i si

ri

vers

eran

no l

e di

ffer

enze

tem

pora

nee

ai s

aldi

di

impo

ste

diff

erite

per

ten

er

cont

o si

a de

lle

vari

azio

ni

delle

al

i-qu

ote

che

dell’

istit

uzio

ne

di

nuov

e im

post

e.

Non

è c

onse

ntit

o ut

iliz

zare

alt

ri m

e-to

di d

i con

tabi

lizz

azio

ne.

H.I

. C

alco

lo d

ella

tas

sazi

one

diff

erit

a L

e im

post

e di

ffer

ite

e le

im

post

e an

ticip

ate

sono

con

tegg

iate

ogn

i an

no

sulla

bas

e de

lle a

liquo

te i

n vi

gore

al

mom

ento

in

cu

i le

di

ffer

enze

te

m-

pora

nee

si

rive

rser

anno

, ap

port

ando

ad

egua

ti ag

gius

tam

enti

in

caso

di

va

riaz

ione

di

al

iquo

ta

risp

etto

ag

li es

erci

zi p

rece

dent

i, pu

rché

la n

orm

a di

le

gge

che

vari

a l’

aliq

uota

sia

già

sta

ta

eman

ata

alla

da

ta

di

reda

zion

e de

l bi

lanc

io.

Qua

lora

fo

sser

o pr

evis

te

diff

eren

ti

aliq

uote

fis

cali

da a

pplic

arsi

a d

iffe

-re

nti

livel

li di

re

ddito

, le

im

post

e di

ffer

ite

e an

ticip

ate

sono

ca

lcol

ate

util

izza

ndo

le a

liqu

ote

med

ie a

ttes

e ne

i pe

riod

i in

cui l

e di

ffer

enze

tem

pora

nee

si

rive

rser

anno

. N

el

caso

in

cu

i ri

-su

ltass

e pa

rtic

olar

men

te

diff

icol

toso

de

term

inar

e l’

aliq

uota

m

edia

pe

r gl

i es

erci

zi f

utur

i, è

acce

ttab

ile

util

izza

re

l’al

iquo

ta

effe

ttiva

de

ll’ul

timo

eser

-ci

zio.

L

e at

tività

de

riva

nti

da

impo

ste

antic

ipat

e no

n po

sson

o es

sere

rile

vate

, in

ris

petto

al

prin

cipi

o de

lla p

rude

nza,

se

no

n vi

è

la

ragi

onev

ole

cert

ezza

de

ll’es

iste

nza

negl

i es

erci

zi i

n cu

i si

ri

vers

eran

no l

e di

ffer

enze

tem

pora

nee

sono

rile

vate

nel

ris

petto

del

pri

ncip

io

della

pru

denz

a, s

olo

quan

do v

i è

la

ragi

onev

ole

cert

ezza

de

l lo

ro

futu

ro

recu

pero

. L

a ra

gion

evol

e ce

rtez

za è

com

prov

ata

quan

do:

– es

iste

un

a pr

oiez

ione

de

i ri

sulta

ti fi

scal

i de

lla

soci

età

(pia

nifi

cazi

one

fisc

ale)

pe

r un

pe

riod

o di

te

mpo

ra

gion

evol

e,

da

cui

si

evin

ce

l’es

i-st

enza

, ne

gli

eser

cizi

in

cui

si a

nnul

le-

rann

o le

dif

fere

nze

tem

pora

nee

dedu

-ci

bili

, di

red

diti

im

poni

bili

non

inf

e-ri

ori

all’

amm

onta

re

delle

di

ffer

enze

ch

e si

ann

ulle

rann

o; e

/o

– ne

gli

eser

cizi

in

cu

i si

pr

eved

e l’

annu

llam

ento

de

lla

diff

eren

za

tem

-po

rane

a de

duci

bile

, vi

son

o su

ffic

ient

i di

ffer

enze

te

mpo

rane

e im

poni

bili

di

cui s

i pre

vede

l’an

nulla

men

to.

44. [

…].

45

. L

e im

post

e an

ticip

ate/

diff

erite

so

no c

alco

late

sul

l’am

mon

tare

cum

u-la

tivo

di tu

tte le

dif

fere

nze

tem

pora

nee

dell

’ese

rciz

io,

appl

ican

do l

e al

iquo

te

fisc

ali

in

vigo

re

nell’

eser

cizi

o ne

l qu

ale

le d

iffe

renz

e te

mpo

rane

e si

ri-

vers

eran

no,

prev

iste

da

lla

norm

ativ

a fi

scal

e vi

gent

e al

la d

ata

di r

ifer

imen

to

del

bila

ncio

. Q

ualo

ra

la

norm

ativ

a fi

scal

e no

n st

abil

isca

le a

liqu

ote

fisc

ali

in v

igor

e ne

ll’es

erci

zio

nel

qual

e le

di

ffer

enze

tem

pora

nee

si r

iver

sera

nno,

la

soc

ietà

cal

cola

le

impo

ste/

diff

erite

su

lla b

ase

delle

aliq

uote

in

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re a

lla

data

di

rife

rim

ento

del

bila

ncio

(cf

r.

esem

pio

n. 2

App

endi

ce C

).

46.

Gli

adeg

uam

enti

(var

iazi

oni

in

tivi

tà p

er i

mpo

ste

anti

cipa

te e

pas

-si

vità

per

im

post

e di

ffer

ite i

scri

tte

in b

ilanc

io.

41.

Le

attiv

ità

per

impo

ste

antic

ipat

e so

no r

ileva

te n

el r

ispe

tto

del

prin

cipi

o de

lla p

rude

nza,

sol

o qu

ando

vi è

la r

agio

nevo

le c

erte

zza

del l

oro

futu

ro r

ecup

ero.

L

a ra

gion

evol

e ce

rtez

za è

com

pro-

vata

qua

ndo:

esis

te u

na p

roie

zion

e de

i ris

ulta

ti fi

scal

i de

lla

soci

età

(pia

nifi

cazi

one

fisc

ale)

pe

r un

pe

riod

o di

te

mpo

ra

gion

evol

e, d

a cu

i si

evi

nce

l’es

i-st

enza

, ne

gli

eser

cizi

in

cui

si a

n-nu

llera

nno

le d

iffe

renz

e te

mpo

rane

e de

duci

bili,

di

redd

iti i

mpo

nibi

li no

n in

feri

ori

all’

amm

onta

re

delle

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ffe-

renz

e ch

e si

ann

ulle

rann

o; e

/o

– ne

gli

eser

cizi

in

cui

si p

reve

de

l’an

nulla

men

to

della

di

ffer

enza

te

mpo

rane

a de

duci

bile

, vi

so

no

suff

icie

nti

diff

eren

ze

tem

pora

nee

impo

nibi

li d

i cu

i si

pre

vede

l’a

n-nu

llam

ento

. 42

. […

] 43

. L

e im

post

e an

tici

pate

/dif

feri

te

sono

cal

cola

te s

ull’

amm

onta

re c

u-m

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ivo

di t

utte

le

diff

eren

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em-

pora

nee

dell

’ese

rciz

io,

appl

ican

do

le

aliq

uote

fi

scal

i in

vi

gore

ne

l-l’

eser

cizi

o ne

l qu

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le d

iffe

renz

e te

mpo

rane

e si

ri

vers

eran

no,

pre-

vist

e da

lla

norm

ativ

a fi

scal

e vi

-ge

nte

alla

dat

a di

rif

erim

ento

del

bi

lanc

io.

Qua

lora

la

no

rmat

iva

fisc

ale

non

stab

ilis

ca

le

aliq

uote

fi

scal

i in

vig

ore

nell

’ese

rciz

io n

el

Page 105: G. Giappichelli Editore – Torino - dirittoeconomiaimpresa.it · G. PIROSO-M. CAVANNA, La rettifica unilaterale notarile ex art. 59-bis della legge notarile (con Breve chiosa finale,

766

Dir

itto

ed

eco

no

mia

del

l’im

pre

sa

Fas

cico

lo 3

| 201

7

6 «L

a ra

gion

evol

e ce

rtez

za è

com

prov

ata

da e

lem

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ogg

etti

vi d

i su

ppor

to,

qual

i pi

ani

prev

isio

nali

plu

rien

nali

att

endi

bili

» (P

rinc

ipio

Con

tabi

le O

IC n

. 25

, ed

izio

ne d

el 3

0 m

aggi

o 20

05, 1

9, n

ota

24).

dedu

cibi

li, c

he h

anno

por

tato

all’

iscr

i-zi

one

delle

im

post

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ticip

ate,

di

un

redd

ito

impo

nibi

le

non

infe

rior

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-l’

amm

onta

re

dell

e di

ffer

enze

ch

e si

an

dran

no a

d an

null

are.

In

pres

enza

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tali

cond

izio

ni,

la r

ileva

zion

e è

obbl

i-ga

tori

a.

L’a

mm

onta

re d

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im

post

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ticip

ate

iscr

itto

in b

ilanc

io d

eve

esse

re r

ivis

to

ogni

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o in

qua

nto

occo

rre

veri

fica

re

se c

ontin

ua a

sus

sist

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la r

agio

nevo

le

cert

ezza

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guir

e in

fut

uro

redd

iti

impo

nibi

li f

isca

li e

qui

ndi

la p

ossi

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lità

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ecup

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e l’

inte

ro im

port

o de

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ste

anti

cipa

te.

Non

è a

mm

essa

, in

alcu

n ca

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’att

ua-

lizz

azio

ne

delle

at

tivi

per

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ste

antic

ipat

e e

delle

pas

sivi

tà p

er i

mpo

ste

diff

erit

e.

L’i

scri

zion

e ne

llo s

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pat

rim

onia

le

dell’

attiv

ità p

er im

post

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ate

deve

ess

ere

effe

ttuat

a so

lo s

e es

isto

no

i pre

supp

osti

per

il su

o ri

cono

scim

en-

to, c

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guen

tem

ente

un’

impo

sta

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tici

pata

non

con

tabi

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ata

in p

assa

to

in q

uant

o no

n su

ssis

teva

no i

requ

isiti

pe

r il

suo

rico

nosc

imen

to, d

eve

esse

re

iscr

itta

nel

l’es

erci

zio

in c

ui ta

li re

qui-

siti

emer

gono

.

dedu

cibi

li, c

he h

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por

tato

all

’isc

ri-

zion

e de

lle i

mpo

ste

antic

ipat

e, d

i un

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ddito

im

poni

bile

no

n in

feri

ore

al-

l’am

mon

tare

de

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diff

eren

ze

che

si

andr

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ad

annu

llare

. In

pre

senz

a di

ta

li co

ndiz

ioni

, la

rile

vazi

one

è ob

bli-

gato

ria.

L

’am

mon

tare

del

le i

mpo

ste

antic

ipat

e is

critt

o in

bila

ncio

è r

ivis

to o

gni

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in

qua

nto

occo

rre

veri

fica

re s

e co

n-ti

nua

a su

ssis

tere

la

ragi

onev

ole

cer-

tezz

a 6 d

i co

nseg

uire

in

futu

ro r

eddi

ti im

poni

bili

fi

scal

i e

quin

di

la

poss

i-bi

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recu

pera

re

l’in

tero

im

port

o de

lle im

post

e an

ticip

ate.

Non

è

amm

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, in

al

cun

caso

, l’

attu

aliz

zazi

one

dell

e at

tivi

per

impo

ste

antic

ipat

e e

delle

pas

sivi

tà p

er

impo

ste

diff

erite

.

L’i

scri

zion

e ne

llo s

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pat

rim

onia

le

dell’

attiv

ità p

er im

post

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ate

è ef

fettu

ata

solo

se

esis

tono

i pr

esup

-po

sti p

er il

suo

ric

onos

cim

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, con

se-

guen

tem

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un’

impo

sta

antic

ipat

a no

n co

ntab

iliz

zata

in p

assa

to in

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nto

non

suss

iste

vano

i re

quis

iti p

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ri

cono

scim

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, vie

ne is

critt

a ne

ll’e-

serc

izio

in c

ui ta

li re

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iti e

mer

gono

.

aum

ento

o i

n di

min

uzio

ne)

del

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o im

post

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ite (

voce

B.I

I de

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s-si

vo)

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tività

per

im

post

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tici-

pate

(vo

ce C

II4-

ter

dell’

attiv

o) s

ono

rile

vati

al c

onto

eco

nom

ico

nella

voc

e 22

“im

poste

sul

red

dito

del

l’ese

rcizi

o,

corr

enti,

diff

erite

e a

ntic

ipat

e”.

47.

Un’

attiv

ità p

er i

mpo

ste

antic

ipat

e de

riva

nte

da

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eren

ze

tem

pora

nee

dedu

cibi

li n

on c

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bili

zzat

a in

ese

r-ci

zi p

rece

dent

i, in

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nto

non

suss

i-st

evan

o i

requ

isiti

per

il

suo

rico

no-

scim

ento

, è

iscr

itta

nell’

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cizi

o in

cu

i so

no s

oddi

sfat

ti ta

li re

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iti a

lla

voce

C

II4-

ter

“im

post

e an

ticip

ate”

de

ll’at

tivo,

in

cont

ropa

rtita

alla

voc

e 22

del

con

to e

cono

mic

o.

48. A

i fin

i IR

AP

le d

iffe

renz

e te

mpo

rane

e su

cui

cal

cola

re le

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ste

diff

erit

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no d

iver

se d

a qu

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IR

ES,

a

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a de

lla

spec

ific

ità

dell

e no

rme

IRA

P in

mat

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nibi

lità

e

dedu

cibi

lità;

con

segu

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men

te e

f-fe

ttuan

o ca

lcol

i sep

arat

i del

le im

post

e di

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ite

ai f

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RE

S e

ai f

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RA

P.

qual

e le

dif

fere

nze

tem

pora

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si

rive

rser

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, la

soc

ietà

cal

cola

le

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ste/

diff

erite

su

lla

base

de

lle

aliq

uote

in

vi

gore

al

la

data

di

ri

feri

men

to d

el b

ilanc

io.

44.

Gli

adeg

uam

enti

(var

iazi

oni

in

aum

ento

o

in

dim

inuz

ione

) de

l fo

ndo

impo

ste

diff

erite

(vo

ce B

2 de

l pa

ssiv

o)

e de

ll’a

ttiv

ità

per

impo

ste

antic

ipat

e (v

oce

CII

5-te

r de

ll’at

tivo)

son

o ri

leva

ti al

con

to

econ

omic

o ne

lla v

oce

20 “

impo

ste

sul r

eddi

to d

ell’e

serc

izio,

cor

rent

i, di

fferit

e e

antic

ipat

e”.

45.

Un’

attiv

ità p

er i

mpo

ste

antic

i-pa

te d

eriv

ante

da

diff

eren

ze t

em-

pora

nee

dedu

cibi

li no

n co

ntab

iliz-

zata

in e

serc

izi p

rece

dent

i, in

qua

n-to

non

sus

sist

evan

o i r

equi

siti

per

il su

o ri

cono

scim

ento

, è

iscr

itta

nel-

l’es

erci

zio

in c

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sodd

isfa

tti

tali

requ

isiti

al

la

voce

C

II5-

ter

“im

post

e an

ticip

ate”

del

l’at

tivo,

in

cont

ropa

rtit

a al

la v

oce

20 d

el c

onto

ec

onom

ico.

46

. Ai f

ini I

RA

P le

dif

fere

nze

tem

pora

nee

su c

ui c

alco

lare

le

impo

ste

diff

erite

son

o di

vers

e da

qu

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IR

ES

, a c

ausa

del

la s

peci

-fi

cità

del

le n

orm

e IR

AP

in m

ater

ia

di im

poni

bili

tà e

ded

ucib

ilit

à; c

on-

segu

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te e

ffet

tuan

o ca

lcol

i se

para

ti d

elle

impo

ste

diff

erit

e ai

fi

ni I

RE

S e

ai f

ini I

RA

P.

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767 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 3| 2017

4. L’iscrizione della fiscalità differita attiva sulle perdite fiscali

L’attività di valutazione richiesta all’organo amministrativo, circa la pre-senza o meno delle condizioni necessarie per l’iscrizione in bilancio della fi-scalità differita attiva (imposte anticipate), risulta essere particolarmente deli-cata nei casi in cui le attività per imposte anticipate derivino, oltre che dalle differenze temporanee deducibili (v. supra), dal riporto a nuovo delle perdite fiscali, così come consentito dalla normativa fiscale di riferimento.

Come è noto, l’art. 84, comma 1, TUIR (rubricato “Riporto delle perdite”) prevede che «La perdita di un periodo d’imposta, determinata con le stesse norme valevoli per la determinazione del reddito, può essere computata in diminuzione del reddito dei periodi d’imposta successivi in misura non supe-riore all’ottanta per cento del reddito imponibile di ciascuno di essi e per l’intero importo che trova capienza in tale ammontare [...]». Tale previsione non trova applicazione per le perdite realizzate nei primi tre periodi d’imposta: queste ultime, ai sensi del comma 2 dell’articolo in parola, possono infatti es-sere integralmente recuperate solo a condizione che le stesse si riferiscano ad una nuova attività produttiva.

Il meccanismo di riporto delle perdite ex art. 84 TUIR, in presenza di de-terminati requisiti, in seguito esplicitati, conduce all’iscrizione in bilancio del-le imposte anticipate, classificandosi lo stesso come una delle ipotesi di de-terminazione della fiscalità differita attiva. Infatti, la possibilità di riportare le perdite – in diminuzione di futuri imponibili fiscali – genera, per il principio della competenza economica, una differenza temporanea di imposta deducibi-le, poiché il correlato beneficio futuro, consistente in una riduzione del carico fiscale degli esercizi futuri, è di competenza dell’esercizio in cui le perdite fi-scali si sono manifestate.

Di conseguenza, si rende necessario, per il redattore del bilancio d’eser-cizio, operare un’attenta valutazione della possibilità di iscrizione delle impo-ste anticipate sulle perdite conseguite. Sul piano operativo ed in via generale, affinché ciò sia possibile, è necessario che negli esercizi futuri la società pro-duca redditi fiscali positivi e tali da generare imposte in grado di riassorbire il beneficio impositivo connesso al riporto delle perdite fiscali. Tale situazione di incertezza fa sì che le imposte anticipate, derivanti dal riporto delle perdite, e – quindi – il connesso beneficio fiscale non abbiano natura di un vero e pro-prio credito verso l’Erario, quanto piuttosto di un potenziale beneficio futuro di incerta realizzazione, essendo il suo utilizzo condizionato all’esistenza, nei successivi esercizi, di redditi imponibili “capienti” (cfr. Principio Contabile OIC n. 25, par. 49).

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768 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 3| 2017

In tale ottica, il Principio Contabile OIC n. 25 afferma che la società, in sede di redazione del bilancio d’esercizio, è tenuta a valutare l’esistenza o meno della “ragionevole certezza” che una perdita fiscale conseguita possa essere utilizzata negli esercizi futuri e, solo in caso di esito positivo della va-lutazione, dovrà obbligatoriamente iscrivere il correlato beneficio tra le atti-vità di Stato Patrimoniale alla voce C.II.5-ter “imposte anticipate”. Del re-sto, il fatto che non ci sia più alcun limite alla riportabilità delle perdite fi-scali 7 non può essere in alcuno modo inteso come un esimente per la so-cietà all’obbligo di procedere alla valutazione della “ragionevole certezza” della loro recuperabilità.

In riferimento alla valutazione delle imposte anticipate relative al riporto a nuovo di perdite fiscali e, in particolare, relativamente al loro “monitoraggio” alla data di riferimento di ciascun bilancio, valgono le medesime considera-zioni svolte con riguardo alle attività per imposte anticipate relative alle diffe-renze temporanee deducibili (v. supra).

Di seguito, si riporta un prospetto di raccordo tra le diverse edizioni del Principio Contabile n. 25 che, nel tempo, si sono susseguite:

7 Il d.l. n. 98/2011, allo scopo di sostenere le imprese colpite dalla crisi economico-fi-nanziaria ha, infatti, modificato l’art. 84, comma 1, TUIR, attraverso l’eliminazione del limite temporale quinquennale alla riportabilità delle perdite e l’introduzione del limite quantitativo all’utilizzo delle stesse in un esercizio, pari all’80% del reddito imponibile realizzato.

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769

Dir

itto

ed

eco

no

mia

del

l’im

pre

sa

Fas

cico

lo 3

| 201

7

Prin

cipi

o co

ntab

ile n

. 25

del m

arzo

19

99

Prin

cipi

o co

ntab

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IC n

. 25

del

mag

gio

2005

Ap

plic

abile

ai b

ilanc

i chi

usi a

par

tire

dal 1

° gen

naio

200

4

Prin

cipi

o co

ntab

ile O

IC n

. 25

dell’

agos

to 2

014

Appl

icab

ile a

i bila

nci c

hius

i a p

artir

e da

l 31

dice

mbr

e 20

14

Prin

cipi

o co

ntab

ile O

IC n

. 25

del

dice

mbr

e 20

16

Appl

icab

ile a

i bila

nci c

on e

serc

izio

av

ente

inizi

o a

part

ire d

al 1

° G

enna

io 2

016

H.I

I Pe

rdite

fis

cali

L

a pe

rdita

fis

cale

per

un

peri

odo

d’im

-po

sta

può

esse

re n

orm

alm

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por

tata

a

dim

inuz

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de

l re

ddito

im

poni

bile

di

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erci

zi

futu

ri.

Il

bene

fici

o fi

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e po

-te

nzia

le c

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sso

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rdite

rip

orta

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non

ha n

atur

a di

cre

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ver

so l

’era

rio,

qua

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piut

tost

o di

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nefi

cio

futu

ro

di

ince

rta

real

izza

zion

e, d

ato

che

per

util

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re t

ale

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fici

o è

nece

ssar

ia l

’esi

sten

za d

i fu

turi

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ddit

i im

poni

bili

, en

tro

il p

erio

do i

n cu

i le

per

dite

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o ri

port

abili

. C

onse

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te-

men

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l be

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cio

fisc

ale

pote

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le c

on-

ness

o a

perd

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ipor

tabi

li no

n de

ve e

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e is

critt

o a

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ncio

fi

no

all’

eser

cizi

o di

re

aliz

zazi

one

dell

o st

esso

, sa

lvo

che

sus-

sist

ano

cont

empo

rane

amen

te l

e se

guen

ti co

ndiz

ioni

: –

esis

te

una

ragi

onev

ole

cert

ezza

di

ot

tene

re i

n fu

turo

im

poni

bili

fis

cali

che

po

tran

no a

ssor

bire

le

perd

ite r

ipor

tabi

li,

entr

o il

peri

odo

nel

qual

e le

ste

sse

sono

de

duci

bili

seco

ndo

la n

orm

ativ

a tr

ibut

aria

; –

le

perd

ite

in

ogge

tto

deri

vano

da

ci

rcos

tanz

e be

n id

enti

fica

te,

ed è

rag

ione

-vo

lmen

te c

erto

che

tal

i ci

rcos

tanz

e no

n si

ri

pete

rann

o;

Se

suss

isto

no l

e co

ndiz

ioni

ind

icat

e ne

l pa

ragr

afo

prec

eden

te,

il ri

spar

mio

fis

cale

H.I

I. P

erdi

te f

isca

li

La

perd

ita

fisc

ale

per

un

peri

odo

d’im

post

a pu

ò es

sere

nor

mal

men

te p

or-

tata

a

dim

inuz

ione

de

l re

ddito

im

po-

nibi

le d

i es

erci

zi f

utur

i. Il

ben

efic

io f

i-sc

ale

pote

nzia

le

conn

esso

a

perd

ite

ripo

rtab

ili n

on h

a na

tura

di c

redi

to v

erso

l’

erar

io,

quan

to

piut

tost

o di

be

nefi

cio

futu

ro d

i in

cert

a re

aliz

zazi

one,

dat

o ch

e pe

r ut

iliz

zare

tal

e be

nefi

cio

è ne

cess

aria

l’

esis

tenz

a di

fut

uri

redd

iti

impo

nibi

li,

entr

o il

peri

odo

in c

ui l

e pe

rdite

son

o ri

port

abili

. C

onse

guen

tem

ente

il

bene

-fi

cio

fisc

ale

pote

nzia

le c

onne

sso

a pe

r-di

te r

ipor

tabi

li no

n de

ve e

sser

e is

critt

o a

bila

ncio

fi

no

all’

eser

cizi

o di

re

aliz

za-

zion

e de

llo

stes

so,

salv

o ch

e su

ssis

tano

co

ntem

pora

neam

ente

le

segu

enti

cond

i-zi

oni:

– es

iste

una

rag

ione

vole

cer

tezz

a 8 d

i ot

tene

re i

n fu

turo

im

poni

bili

fisc

ali

che

potr

anno

ass

orbi

re l

e pe

rdite

rip

orta

bili,

en

tro

il pe

riod

o ne

l qu

ale

le s

tess

e so

no

dedu

cibi

li se

cond

o la

nor

mat

iva

trib

u-ta

ria;

le

perd

ite

in

ogge

tto

deri

vano

da

ci

rcos

tanz

e be

n id

enti

fica

te,

ed

è ra

gion

evol

men

te

cert

o ch

e ta

li ci

rco-

stan

ze n

on s

i rip

eter

anno

.

Per

dite

fis

cali

49. L

e at

tività

per

im

post

e an

ticip

ate

de-

riva

no,

oltr

e ch

e da

lle d

iffe

renz

e te

mpo

-ra

nee

dedu

cibi

li,

anch

e da

l ri

port

o a

nuov

o di

per

dite

fis

cali.

50

. U

na p

erdi

ta f

isca

le p

er u

n pe

riod

o d’

impo

sta

può

esse

re

port

ata

in

dim

i-nu

zion

e de

l re

ddito

im

poni

bile

di

eser

-ci

zi f

utur

i in

base

a q

uant

o pr

evis

to d

alle

no

rme

trib

utar

ie.

51.

Il b

enef

icio

con

ness

o a

una

perd

ita

fisc

ale

non

ha n

atur

a di

cre

dito

ver

so

l’E

rari

o,

quan

to

piut

tost

o di

be

nefi

cio

futu

ro d

i in

cert

a re

aliz

zazi

one,

dat

o ch

e pe

r ut

iliz

zare

tal

e be

nefi

cio

è ne

cess

aria

l’

esis

tenz

a di

fut

uri

redd

iti

impo

nibi

li.

La

soci

età

valu

ta,

dunq

ue,

se e

sist

e la

ra

gion

evol

e ce

rtez

za c

he u

na p

erdi

ta f

i-sc

ale

poss

a es

sere

uti

lizz

ata

negl

i es

er-

cizi

suc

cess

ivi.

52.

Il b

enef

icio

con

ness

o a

una

perd

ita

fisc

ale

è ri

leva

to tr

a le

atti

vità

del

lo s

tato

pa

trim

onia

le a

lla

voce

CII

4-te

r “i

mpo

ste

antic

ipat

e”

solo

se

su

ssis

te

la

ragi

o-ne

vole

cer

tezz

a de

l lor

o fu

turo

R

ecup

ero.

L

a ra

gion

evol

e ce

rtez

za

è co

mpr

ovat

a qu

ando

:

Per

dite

fis

cali

47.

Le

attiv

ità p

er i

mpo

ste

antic

ipat

e de

riva

no,

oltr

e ch

e da

lle d

iffe

renz

e te

mpo

rane

e de

duci

bili,

anc

he d

al r

i-po

rto

a nu

ovo

di p

erdi

te fi

scal

i. 48

. Una

per

dita

fis

cale

per

un

peri

odo

d’im

post

a pu

ò es

sere

po

rtat

a in

di

min

uzio

ne d

el r

eddi

to im

poni

bile

di

eser

cizi

fu

turi

in

ba

se

a qu

anto

pr

evis

to d

alle

nor

me

trib

utar

ie.

49.

Il

bene

fici

o co

nnes

so

a un

a pe

rdita

fi

scal

e no

n ha

na

tura

di

cr

edito

ver

so l

’Era

rio,

qua

nto

piut

-to

sto

di b

enef

icio

fut

uro

di i

ncer

ta

real

izza

zion

e, d

ato

che

per

util

iz-

zare

ta

le

bene

fici

o è

nece

ssar

ia

l’es

iste

nza

di f

utur

i re

ddit

i im

pon-

ibili

. L

a so

ciet

à va

luta

, du

nque

, se

es

iste

la

ragi

onev

ole

cert

ezza

che

un

a pe

rdita

fis

cale

pos

sa e

sser

e ut

i-li

zzat

a ne

gli e

serc

izi s

ucce

ssiv

i. 50

. Il

be

nefi

cio

conn

esso

a

una

perd

ita f

isca

le è

rile

vato

tra

le

atti-

vità

de

llo

stat

o pa

trim

onia

le

alla

vo

ce C

II5-

ter

“im

poste

ant

icip

ate”

so

lo s

e su

ssis

te l

a ra

gion

evol

e ce

r-te

zza

del l

oro

futu

ro r

ecup

ero.

L

’esi

sten

za

di

perd

ite

fisc

ali

non

utili

zzat

e è

un in

dica

tore

sig

nifi

cativ

o

8 «L

a ra

gion

evol

e ce

rtez

za è

com

prov

ata

da e

lem

enti

ogg

etti

vi d

i su

ppor

to,

qual

i pi

ani

prev

isio

nali

plu

rien

nali

att

endi

bili

» (P

rinc

ipio

Con

tabi

le O

IC n

. 25

, ed

izio

ne d

el 3

0 m

aggi

o 20

05, 1

9, n

ota

24).

Page 109: G. Giappichelli Editore – Torino - dirittoeconomiaimpresa.it · G. PIROSO-M. CAVANNA, La rettifica unilaterale notarile ex art. 59-bis della legge notarile (con Breve chiosa finale,

770

Dir

itto

ed

eco

no

mia

del

l’im

pre

sa

Fas

cico

lo 3

| 201

7

co

nnes

so a

per

dite

rip

orta

bili

sarà

qui

ndi

iscr

itto

nello

sta

to p

atri

mon

iale

tra

i c

re-

diti

per

impo

ste

antic

ipat

e, a

vend

o co

me

cont

ropa

rtit

a a

cont

o ec

onom

ico

un a

ccre

-di

to d

ella

voc

e 22

– I

mpo

ste

sul

redd

ito

dell

’ese

rciz

io.

Un’

impo

sta

antic

ipat

a de

riva

nte

da p

er-

dite

rip

orta

bili

ai f

ini

fisc

ali,

non

cont

a-bi

lizz

ata

in p

assa

to i

n qu

anto

non

sus

-si

stev

ano

i re

quis

iti p

er i

l su

o ri

cono

sci-

men

to,

deve

ess

ere

iscr

itta

nell’

eser

cizi

o in

cui

tali

requ

isiti

em

ergo

no.

Qua

lora

nel

pas

sivo

di

stat

o pa

trim

onia

le

sian

o pr

esen

ti i

mpo

ste

diff

erite

, re

lati

ve a

di

ffer

enze

tem

pora

nee

tass

abili

in

eser

cizi

su

cces

sivi

, che

si r

iser

vera

nno

nel p

erio

do

in c

ui l

e pe

rdite

rip

orta

bili

sara

nno

utili

z-za

bili

ai

fini

fis

cali

, il

ben

efic

io f

utur

o co

nnes

so a

tal

i pr

edit

e do

vrà

esse

re p

or-

tato

a d

eduz

ione

dal

la p

assi

vità

per

im

po-

ste

diff

erite

fin

o a

conc

orre

nza

di t

ali

dif-

fere

nze

tem

pora

nee.

Il

conf

ront

o va

fat

to

tra

perd

ita f

isca

le e

dif

fere

nze

tass

abili

in

futu

ro.

Se

suss

isto

no l

e co

ndiz

ioni

ind

icat

e ne

l pa

ragr

afo

prec

eden

te,

il ri

spar

mio

fi

-sc

ale

conn

esso

a p

erdi

te r

ipor

tabi

li sa

quin

di i

scri

tto n

ello

sta

to p

atri

mon

iale

tr

a le

at

tività

pe

r im

post

e an

ticip

ate

(Voc

e C

.II.

4-te

r),

aven

do c

ome

con-

trop

artit

a a

cont

o ec

onom

ico

un a

ccre

-di

to d

ella

voc

e 22

– I

mpo

ste

sul

redd

ito

dell

’ese

rciz

io,

corr

enti,

dif

feri

te e

ant

i-ci

pate

. U

n’im

post

a an

ticip

ata

deri

vant

e da

pe

rdite

ri

port

abili

ai

fi

ni

fisc

ali,

non

cont

abil

izza

ta i

n pa

ssat

o in

qua

nto

non

suss

iste

vano

i

requ

isiti

pe

r il

suo

ri-

cono

scim

ento

, è is

crit

ta n

ell’

eser

cizi

o in

cu

i tal

i req

uisi

ti em

ergo

no.

Qua

lora

ne

l pa

ssiv

o di

st

ato

pa-

trim

onia

le s

iano

pre

sent

i im

post

e di

ffe-

rite

, re

lati

ve

a di

ffer

enze

te

mpo

rane

e ta

ssab

ili

in e

serc

izi

succ

essi

vi, c

he s

i ri

-ve

rser

anno

nel

per

iodo

in

cui

le p

erdi

te

ripo

rtab

ili

sara

nno

util

izza

bili

ai

fi

ni

fisc

ali,

il b

enef

icio

fut

uro

conn

esso

a

tali

pred

ite

sarà

po

rtat

o a

dedu

zion

e da

lla p

assi

vità

per

im

post

e di

ffer

ite f

ino

a co

ncor

renz

a di

ta

li di

ffer

enze

te

m-

pora

nee.

Il

conf

ront

o è

fatt

o tr

a pe

rdit

a fi

scal

e e

diff

eren

ze ta

ssab

ili in

fut

uro.

– es

iste

una

pro

iezi

one

dei

risu

ltati

fi-

scal

i de

lla

soci

età

(pia

nifi

cazi

one

fisc

a-le

) pe

r un

rag

ione

vole

per

iodo

di

tem

po

in b

ase

alla

qua

le s

i pr

eved

e di

ave

re

redd

iti

impo

nibi

li s

uffi

cien

ti p

er u

tili

z-za

re le

per

dite

fis

cali;

e/o

vi

sono

im

post

e di

ffer

ite

rela

tive

a di

ffer

enze

tem

pora

nee

impo

nibi

li, s

uffi

-ci

enti

per

copr

ire

le p

erdi

te f

isca

li, d

i cui

si

pr

eved

e l’

annu

llam

ento

in

es

erci

zi

succ

essi

vi. I

l con

fron

to è

fat

to tr

a pe

rdita

fi

scal

e e

diff

eren

ze i

mpo

nibi

li i

n fu

turo

. 53

. U

n’at

tività

pe

r im

post

e an

ticip

ate

deri

vant

e da

l ri

port

o a

nuov

o di

per

dite

fi

scal

i, no

n co

ntab

iliz

zata

in

es

erci

zi

prec

eden

ti in

qua

nto

non

suss

iste

vano

i

requ

isiti

per

il

suo

rico

nosc

imen

to,

è i-

scri

tta

nell’

eser

cizi

o in

cu

i so

no

sod-

disf

atti

tal

i re

quis

iti

alla

voc

e C

II4-

ter

“im

post

e an

ticip

ate”

de

ll’at

tivo,

in

co

ntro

part

ita

alla

vo

ce

22

del

cont

o ec

onom

ico.

54

. L

e in

dica

zion

i co

nten

ute

nei

pa-

ragr

afi

49-5

3 so

no a

pplic

abili

anc

he c

on

rife

rim

ento

all

e pe

rdit

e fi

scal

i ch

e em

er-

gono

nel

l’am

bito

del

reg

ime

di c

onso

-li

dato

fis

cale

(cf

r. A

ppen

dice

E).

La

ra-

gion

evol

e ce

rtez

za c

irca

la r

ecup

erab

ilit

à de

lle p

erdi

te f

isca

li è

valu

tata

con

rif

eri-

men

to a

lle p

roie

zion

i de

i ri

sulta

ti fi

scal

i (p

iani

fica

zion

e fi

scal

e) d

i ci

ascu

na s

o-ci

età

ader

ente

al c

onso

lida

to f

isca

le.

de

l fa

tto c

he p

otre

bbe

non

esse

re d

i-sp

onib

ile u

n re

ddito

im

poni

bile

fut

u-ro

, ciò

sop

rattu

tto s

e la

soc

ietà

ha

una

stor

ia d

i pe

rdite

rec

enti.

La

ragi

one-

vole

cer

tezz

a pu

ò su

ssis

tere

qua

ndo:

– es

iste

una

pro

iezi

one

dei

risu

ltati

fisc

ali

della

so

ciet

à (p

iani

fica

zion

e fi

scal

e) p

er u

n ra

gion

evol

e pe

riod

o di

te

mpo

in b

ase

alla

qua

le s

i pre

vede

di

aver

e re

dditi

impo

nibi

li su

ffic

ient

i per

ut

ilizz

are

le p

erdi

te fi

scal

i; e/

o –

vi s

ono

impo

ste

diff

erite

rel

ativ

e a

diff

eren

ze

tem

pora

nee

impo

nibi

li,

suff

icie

nti

per

copr

ire

le

perd

ite

fisc

ali,

di c

ui s

i pr

eved

e l’

annu

lla-

men

to i

n es

erci

zi s

ucce

ssiv

i. Il

con

-fr

onto

è f

atto

tra

per

dita

fis

cale

e

diff

eren

ze im

poni

bili

in f

utur

o.

51. U

n’at

tività

per

im

post

e an

ticip

ate

deri

vant

e da

l ri

port

o a

nuov

o di

per

-di

te f

isca

li, n

on c

onta

biliz

zata

in e

ser-

cizi

pre

cede

nti i

n qu

anto

non

sus

sist

e-va

no i

req

uisi

ti pe

r il

suo

rico

nosc

i-m

ento

, è

iscr

itta

nell’

eser

cizi

o in

cui

so

no s

oddi

sfat

ti ta

li re

quis

iti a

lla v

oce

CII

5-te

r “i

mpo

ste a

ntic

ipat

e” d

ell’

at-

tivo,

in

cont

ropa

rtita

alla

voc

e 20

del

co

nto

econ

omic

o.

52. L

e in

dica

zion

i co

nten

ute

nei

pa-

ragr

afi 4

7-51

son

o ap

plic

abili

anc

he

con

rife

rim

ento

all

e pe

rdit

e fi

scal

i ch

e em

ergo

no n

ell’

ambi

to d

el r

e-gi

me

di c

onso

lidat

o fi

scal

e. L

a ra

-gi

onev

ole

cert

ezza

ci

rca

la

recu

-pe

rabi

lità

del

le p

erdi

te f

isca

li è

va-

luta

ta

con

rife

rim

ento

al

le

proi

e-zi

oni

dei

risu

ltati

fisc

ali

(pia

nifi

-ca

zion

e fi

scal

e) d

i ci

ascu

na s

ocie

ader

ente

al c

onso

lida

to f

isca

le.

Page 110: G. Giappichelli Editore – Torino - dirittoeconomiaimpresa.it · G. PIROSO-M. CAVANNA, La rettifica unilaterale notarile ex art. 59-bis della legge notarile (con Breve chiosa finale,

771 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 3| 2017

5. Il requisito della “ragionevole certezza” e l’importanza della for-male approvazione di Piani industriali attendibili

Il Principio Contabile OIC n. 25, ritiene comprovata la sussistenza dalla “ragionevole certezza” qualora sia verificata almeno una delle circostanze sotto esposte.

In particolare, con riferimento alla rilevazione delle attività per imposte anticipate sulle differenze temporanee deducibili (par. 41), la sussistenza della “ragionevole certezza” è comprovata quando, alternativamente:

• esiste una proiezione dei risultati fiscali della società (pianificazione fi-scale) per un periodo di tempo ragionevole, da cui si evince l’esistenza, ne-gli esercizi in cui si annulleranno le differenze temporanee deducibili, di redditi imponibili non inferiori all’ammontare delle differenze che si annul-leranno;

• negli esercizi in cui si prevede l’annullamento della differenza tempora-nea deducibile, vi sono sufficienti differenze temporanee imponibili di cui si prevede l’annullamento.

Relativamente alla rilevazione delle attività per imposte anticipate sulle perdite fiscali (patr. 50), il requisito della “ragionevole certezza” sussiste quando, alternativamente:

• esiste una proiezione dei risultati fiscali della società (pianificazione fi-scale) per un ragionevole periodo di tempo, in base alla quale si prevede di avere redditi imponibili sufficienti per utilizzare le perdite fiscali;

• vi sono imposte differite relative a differenze temporanee imponibili, sufficienti per coprire le perdite fiscali, di cui si prevede l’annullamento in esercizi successivi. A tal proposito, il Documento precisa che il confronto deve essere fatto tra perdita fiscale e differenze imponibili in futuro.

Il nuovo Principio Contabile OIC n. 25, applicabile ai bilanci con eser-cizi avente inizio a partire dal 1° gennaio 2016 o da data successiva, indi-vidua, quale indicatore significativo della circostanza che in futuro la so-cietà non sia in grado di conseguire un reddito imponibile, l’esistenza – soprattutto in presenza di una storia di perdite recenti – di perdite fiscali non utilizzate.

Vale la pena prendere in considerazione esclusivamente la prima delle due situazioni sopra esposte, tralasciando la seconda, la quale semplicemen-te prevede – ai fini dell’iscrizione in bilancio delle imposte anticipate – la presenza, nel passivo dello stato patrimoniale, di imposte differite relative a differenze temporanee tassabili in esercizi futuri, che si riverseranno nel pe-

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riodo in cui le differenze temporanee deducibili si annulleranno o le perdite riportabili saranno utilizzate.

Come in precedenza esposto, la contabilizzazione delle imposte anticipate è subordinata alla preventiva verifica della sussistenza di un loro futuro recu-pero, quindi della possibilità che le stesse siano riassorbite dal reddito imponi-bile degli esercizi successivi, onde evitare il rischio di iscrivere in bilancio at-tività che non abbiano concreto fondamento. Qualora detta condizione risulti verificata, la rilevazione in bilancio delle imposte anticipate, in forza del prin-cipio della competenza economica ex art. 2423-bis c.c., è obbligatoria.

Il Principio Contabile OIC n. 25, nelle sue susseguenti edizioni, ha sem-pre subordinato, nel rispetto del principio della prudenza, l’iscrizione delle imposte anticipate connesse tanto alle differenze temporanee deducibili quanto al riporto a nuovo delle perdite fiscali conseguite, alla “ragionevole certezza” del loro recupero tramite sufficienti redditi futuri attesi. È in tale contesto, come meglio si evince dai prospetti di raccordo sopra riportati, che sempre più evidente è divenuta la necessità di predisporre piani industriali attendibili, volti ad essere utilizzati, qualora redatti in osservanza del princi-pio della prudenza “valutativa e gestionale” (v. supra), come strumento di valutazione preventiva dell’andamento della vita aziendale. In altri termini, la predisposizione e la formale approvazione di piani industriali – pur non derivando da specifici obblighi di legge – diviene strumentale ai fini di una corretta applicazione dei criteri di valutazione delle attività di bilancio – nel caso in esame, di una corretta rilevazione delle imposte anticipate – e, in ul-tima istanza, di una corretta redazione del bilancio d’esercizio.

In linea generale, affinché un piano industriale, che tra i dati previsionali deve necessariamente indicare anche gli imponibili fiscali, possa essere rite-nuto attendibile, deve riferirsi ad un arco temporale ragionevole che, nella prassi aziendalistica, non può essere superiore ai 3/5 esercizi. In tale ottica, deve ritenersi corretta, soprattutto in presenza di perdite fiscali ricorrenti e significative – in linea con il principio di diligenza e di corretta amministra-zione, nonché di prudenza e corretta e veritiera rappresentazione –, una rile-vazione solo parziale delle attività per imposte anticipate, rappresentativa dell’importo che si ritiene, con ragionevole certezza, verrà riassorbito, in un arco temporale ragionevole, da futuri imponibili fiscali.

In sede di “monitoraggio” della ragionevole certezza, ossia alla data di chiusura di ciascun esercizio successivo, l’organo amministrativo dovrà ve-rificare se l’andamento prospettico della società consenta di confermare la decisione dell’iscrizione e iscrivere, qualora il riassorbimento – sulla base dei piani industriali progressivamente approvati dall’organo amministrativo

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– risulti ragionevolmente certo, le ulteriori attività per imposte anticipate, così come consentito dal Principio Contabile OIC n. 25 (par. 51). Qualora, invece, nel corso degli esercizi successivi, le condizioni, esplicitate nel piano industriale e che hanno consentito l’iscrizione delle attività per imposte anti-cipate, dovessero non verificarsi o venir meno, è obbligo che fa capo all’organo amministrativo procedere allo storno delle stesse precedentemen-te iscritte.

6. La rilevazione e la rappresentazione della fiscalità differita attiva nel bilancio IAS-based: cenni

Lo IAS n. 12 – rubricato “Income taxes” – definisce il trattamento conta-bile delle imposte sul reddito (imposte correnti e imposte differite).

Come in precedenza detto, la prassi italiana in tema di rilevazione della fiscalità differita attiva, rispetto allo IAS n. 12, risulta essere improntata ad un maggior rigore: mentre, infatti, il Principio Contabile OIC n. 25 richiede l’esistenza della “ragionevole certezza” di ottenere in futuro imponibili fi-scali sufficienti ad assorbire le imposte anticipate emergenti, lo IAS n. 12 ne richiede solo la “probabilità”. Come meglio si esporrà, lo IAS n. 12, preve-dendo l’iscrizione in bilancio delle imposte anticipate (“attività fiscali diffe-rite” nel gergo internazionale) nei termini di cui sopra, consente comunque di tenere conto anche dei possibili effetti derivanti da eventuali strategie di tax planning.

Il Documento in parola definisce le “attività fiscali differite” come gli importi delle imposte sul reddito recuperabili negli esercizi futuri riferibili a:

• differenze temporanee (temporary differences) deducibili; • riporto a nuovo di perdite fiscali non utilizzate (tax loss carry forward); • riporto a nuovo di crediti d’imposta non utilizzati.

Le differenze temporanee deducibili sorgono dalla differenza tra il valore contabile di un’attività o di una passività nello stato patrimoniale e il suo va-lore riconosciuto ai fini fiscali (tax base). In particolare, esse rappresentano le differenze temporanee che, nella determinazione del reddito imponibile (perdita fiscale) di esercizi futuri, si tradurranno in importi deducibili quan-do il valore contabile dell’attività o della passività sarà realizzato o estinto.

Relativamente ai requisiti per l’iscrizione della fiscalità differita attiva de-rivante da differenze temporanee deducibili, lo IAS n. 12 (parr. 27-31) affer-ma che, traducendosi l’annullamento delle differenze temporanee deducibili

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in deduzioni dai redditi imponibili degli esercizi futuri, tale beneficio econo-mico affluirà alla legal entity solo se essa realizzerà in futuro redditi imponi-bili sufficienti affinché le deduzioni siano compensate. Di conseguenza, un’attività fiscale differita potrà essere rilevata solo quando sia probabile che saranno realizzati, negli esercizi futuri, redditi imponibili a fronte dei quali è possibile utilizzare le differenze temporanee deducibili originatesi.

Nello specifico, lo IAS n. 12 ritiene comprovata la sussistenza dalla “pro-babilità” della disponibilità di un reddito imponibile futuro a fronte del qua-le possa essere utilizzata la differenza temporanea deducibile quando:

• vi siano differenze temporanee imponibili sufficienti, di cui si prevede l’annullamento nello stesso esercizio in cui si prevede il riassorbimento della differenza temporanea deducibile;

• in assenza di differenze temporanee imponibili, via sia la probabilità che la legal entity abbia redditi imponibili sufficienti nel medesimo esercizio in cui si annullerà la differenza temporanea deducibile; o

• realizzare un reddito imponibile negli esercizi nei quali si annullerà la differenza temporanea deducibile.

In presenza di una storia recente di perdite, lo IAS n. 12, rimandando al successivo par. 35, prescrive alcune condizioni ai fini della rilevazione delle attività fiscali differite (v. infra).

Relativamente ai requisiti per l’iscrizione della fiscalità differita attiva derivante dal riporto delle perdite fiscali (o di crediti d’imposta) non utiliz-zate, lo IAS n. 12 (parr. 34-36) prevede che le correlate attività fiscali diffe-rite possano essere rilevate solo nella misura in cui sia probabile che sia di-sponibile un reddito imponibile futuro a fronte del quale le stesse possano essere utilizzate.

I requisiti per la loro rilevazione sono i medesimi applicabili alla rileva-zione di attività fiscali derivanti da differenze temporanee deducibili (v. su-pra). In particolare, al pari di quanto previsto dal nuovo Principio Contabile OIC n. 25, lo IAS n. 12 interpreta l’esistenza di perdite fiscali non utilizzate quale indicatore della gestione dell’impresa (Paragrafo 35), in quanto signi-ficativo del fatto che potrebbe non essere disponibile, negli esercizi futuri, un reddito imponibile tale da permettere di recuperare il beneficio fiscale de-rivante dal riporto delle perdite fiscali. Ne consegue che l’impresa con una storia di perdite recenti, sul piano probabilistico – così come richiesto dal Documento – avrà maggiori difficoltà a iscrivere in bilancio le attività fiscali differite, salvo che:

• esistano differenze temporanee imponibili sufficienti, che in futuro si

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tradurranno in importi imponibili tali da consentire l’utilizzo delle perdite fiscali; o

• esistano evidenze convincenti che sarà disponibile un reddito imponibi-le sufficiente, a fronte del quale potranno essere utilizzate le perdite fiscali e in tal caso sarà necessario indicare l’importo dell’attività fiscale differita e la natura delle ragioni che ne giustificano la rilevazione.

Analogamente a quanto previsto dal Principio Contabile OIC n. 25, anche lo IAS n. 12 prescrive l’obbligo in capo alla legal entity di procedere ad una costante valutazione tanto delle attività fiscali differite non rilevante quanto delle attività fiscali differite rilevate nei precedenti esercizi (Paragrafo 37). In particolare, in ogni esercizio, sarà necessario procedere ad una nuova va-lutazione, al fine di:

• iscrivere le attività fiscali differite precedentemente non rilevate, nella misura in cui sia divenuto probabile l’ottenimento di un reddito imponibile negli esercizi futuri tale da consentire il loro riassorbimento;

• ridurre le attività fiscali differite, nella misura in cui non sia più proba-bile l’ottenimento di un reddito imponibile sufficiente a consentirne il rias-sorbimento.

Con riferimento alla valutazione delle attività fiscali differite, lo IAS n. 12 (parr. 46-49) prescrive che le stesse debbano essere rilevate applicando le aliquote fiscali che si prevede saranno applicate nell’esercizio nel quale sarà realizzata l’attività fiscale o sarà estinta la passività fiscale correlata, sulla base delle aliquote fiscali vigenti o sostanzialmente in vigore alla data di ri-ferimento del bilancio. Il Documento precisa, infatti, che le attività fiscali differite sono in generale calcolate utilizzando le aliquote fiscali già emana-te, salvo l’eventuale annuncio – seguito solo dopo parecchi mesi dell’effet-tiva emanazione – di nuove aliquote fiscali: in quest’ultimo caso, l’aliquota di riferimento è quella annunciata. Inoltre, il Documento precisa che, in pre-senza di differenti aliquote fiscali in base al livello di reddito imponibile, la valutazione dovrà essere effettuata utilizzando le aliquote medie che si pre-vede saranno applicabili negli esercizi nei quali si prevede si annulleranno le differenze temporanee deducibili.

Infine, relativamente alla rappresentazione delle imposte differite negli schemi di bilancio (parr. 57-60), lo IAS n. 12 prevede che la contabilizza-zione degli effetti fiscali differiti di un’operazione deve essere coerente con la contabilizzazione dell’operazione stessa. Nello specifico, quando la fisca-lità differita riguarda oneri e proventi inclusi nell’utile (perdita) contabile dell’esercizio (ossia imputati a conto economico), gli effetti fiscali differiti

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dovranno essere rilevati nel conto economico. Viceversa, qualora la fiscalità differita si riferisca ad attività e passività aventi natura esclusivamente pa-trimoniale (nello specifico, accreditate o addebitate direttamente a patrimo-nio netto), gli effetti fiscali dovranno essere rilevati in stato patrimoniale di-rettamente a patrimonio netto.

7. Il Documento del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili. “Linee guida alla redazione del Busi-ness Plan” (Maggio 2011) 9: la best practice

7.1. Premessa Il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Conta-

bili ha pubblicato – in data 5 maggio 2011 – un Documento di best practice, finalizzato alla definizione di linee guida alla elaborazione del Business Plan. Nello specifico, il citato Documento, oltre a fornire una definizione di Business Plan, richiama e aggiorna i “Principi generali di redazione del Bu-siness Plan” – approvati dal CNDCEC in data 9 dicembre 2003 – e definisce il contenuto minimo che lo stesso deve avere.

7.2. I principi generali di redazione del Business Plan

Il Business Plan si configura come un moderno strumento di simulazione della dinamica aziendale a medio-lungo termine, costituito da una serie di documenti nei quali è rappresentata, in termini qualitativi e quantitativi l’i-dea imprenditoriale. Esso rappresenta un valido supporto sia nelle “fasi stra-ordinarie” della vita dell’impresa (la nascita, la crescita, l’aggregazione), sia nella “fase ordinaria” della gestione corrente, nonché nelle situazioni di cri-si. Naturalmente, in virtù del fine a cui è preposto, il Business Plan non co-stituisce uno strumento statico di previsione, ma rappresenta un elaborato di-namico che deve evolversi unitamente al progetto sottostante, con l’obiettivo di fornire ai singoli utilizzatori le direttive strategiche, economiche, finanzia-rie e patrimoniali.

I principi generali di redazione a cui ci si dovrebbe ispirare in sede di im-postazione e realizzazione del Business Plan sono i seguenti:

9 Il documento è consultabile all’indirizzo: https://www.cndcec.it.

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chiarezza; completezza; affidabilità; attendibilità; neutralità; trasparenza; prudenza.

Il principio della “chiarezza” deve essere inteso come semplicità di lettu-ra e comprensibilità. Il suo rispetto consente al destinatario del Business Plan di comprendere immediatamente l’idea imprenditoriale, gli obiettivi conseguenti, gli strumenti e soluzioni con i quali si intende realizzarla e le risorse con le quali si intende sostenerla. Il principio in parola comporta, quale condizione necessaria – ma non sufficiente – la presenza del requisito dell’univocità terminologica, al fine di evitare equivoci e confusioni e di consentire al lettore di concentrare la propria attenzione sui contenuti (ipote-si e stime): si ha univocità terminologica quando ciascun termine o vocabolo impiegato nel Business Plan viene usato con una ed una sola determinazione semantica, ossia con un unico significato.

Il principio della “completezza” implica l’inclusione di ogni informazione ritenuta rilevante per un’effettiva e consapevole comprensione del progetto cui il Business Plan si riferisce. Tali principio deve trovare applicazione se-condo due accezioni distinte e complementari:

• la completezza sostanziale, che richiede un’analisi dell’iniziativa eco-nomica ipotizzata – intesa in senso ampio –, incentrata, non solo sugli ele-menti propri dell’iniziativa stessa, ma anche sull’identificazione e sullo stu-dio delle interferenze significative – in termini di causa-effetto – con la complessiva organizzazione aziendale, valutandone la compatibilità;

• la completezza formale, intesa come “completezza dei contenuti docu-mentali” (v. infra).

In riferimento al principio di “affidabilità” e al principio di “attendibili-tà”, la differenza tra i due ha natura sostanziale e tecnica. Nello specifico, mentre l’affidabilità del Business Plan va perseguita e riscontrata in relazio-ne al processo di formazione dello stesso, l’attendibilità del documento pre-visionale va perseguita e riscontrata con riguardo ai risultati del processo di simulazione dinamica insito nel Business Plan. L’affidabilità delle assunzio-ni e dei procedimenti attraverso cui avviene la formulazione delle proiezioni e la derivazione delle conclusioni fa sì che il Business Plan possa essere ri-tenuto corretto ed adeguato. A tal fine, è necessario che il metodo utilizzato

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per la raccolta dei dati e per la loro successiva elaborazione sia affidabile: la prima deve essere documentata, la seconda sistemica e controllabile. In ulti-ma istanza, il Business Plan sarà caratterizzato dal requisito dell’affidabilità solo se sono soddisfatte le seguenti necessarie condizioni:

• l’indicazione di tutte le variabili di input e di output alla base del suo sviluppo;

• l’esplicitazione delle modalità di costruzione dei modelli per la formu-lazione delle proiezioni;

• la dichiarazione delle assunzioni e delle ipotesi sottostanti allo sviluppo delle proiezioni;

• la rappresentazione delle fonti dai dati alla base delle proiezioni.

Relativamente al principio di “attendibilità”, il Business Plan può essere ritenuto attendibile, solo quando il suo contenuto complessivo ed i suoi sin-goli elementi costitutivi risultino compatibili, coerenti e ragionevoli. In par-ticolare, il principio dell’attendibilità deve essere verificato avuto riguardo:

• alla congruità delle singole risorse allocate e combinate per il processo produttivo, inteso in senso ampio, con necessaria verifica della loro disponi-bilità e della fattibilità della loro combinazione produttiva;

• agli scenari complessivi (di mercato, tecnologici, economici, finanziari, ecc.) previsti e rappresentati in relazione alle possibili aree di rischio, con necessaria verifica dell’attendibilità del piano nei suoi obiettivi complessivi e nei diversi aspetti che lo caratterizzano (tecnologico, commerciale, eco-nomico, finanziario, ecc.).

Il principio di “neutralità” implica che il Business Plan debba essere re-datto con criteri il più possibile obiettivi e ponderati, non potendo la sua re-dazione essere influenzata da fini non dichiarati che il redattore o il commit-tente intendono perseguire.

Il principio della “trasparenza” implica che:

• deve essere possibile percorrere a ritroso ogni elaborazione del piano, dal risultato di sintesi al singolo elemento di analisi;

• devono essere, a tal fine, enunciati i principi contabili e le metodologie di calcolo sui quali si fondano le previsioni elaborate;

• deve essere identificabile la fonte di ciascun dato elementare; • deve essere presente, per le informazioni fornite al lettore del Business

Plan, un equilibrato grado di dettaglio.

Infine, il principio di “prudenza”, implicando valutazioni ragionevoli e spiegazioni adeguate sui criteri adottati, richiede che le ipotesi sottostanti al-

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la redazione del documento rappresentino gli scenari più probabili alla data di redazione del piano. Conseguentemente, nell’ipotesi di due o più scenari alternativi, di pari probabilità di realizzazione, si rende necessario adottare quello che fornisce – in termini economici – minori ricavi e/o maggiori costi ovvero – in termini finanziari – una maggiore esposizione debitoria.

7.3. I contenuti essenziali del Business Plan

Il Business Plan, ai fini di una sua corretta elaborazione, redazione e in-terpretazione, deve necessariamente presentare un determinato contenuto minimale. Tale contenuto essenziale dovrebbe rispettare la seguente artico-lazione:

presentazione del progetto d’impresa; descrizione dell’impresa e della sua storia; analisi dei mercati di riferimento dell’iniziativa, formulazione del

relativo piano di marketing e di vendita e posizionamento compe-titivo;

formulazione del piano degli investimenti previsti e dei relativi co-sti;

predisposizione del “bilancio di previsione”; valutazione complessiva del progetto d’impresa.

La presentazione del progetto d’impresa si colloca in un momento preli-minare rispetto al processo operativo di business planning, precedendo le fa-si di analisi dell’iniziativa ipotizzata e di successiva redazione del documen-to previsionale. La presentazione del progetto è un documento, estremamen-te sintetico, teso ad illustrare sommariamente la natura, gli obiettivi e le ca-ratteristiche essenziali del progetto d’impresa cui il Business Plan si riferi-sce, nonché la tipologia e la destinazione del documento previsionale e i soggetti coinvolti a vario titolo nell’iniziativa ipotizzata e nel conseguente documento di pianificazione e valutazione.

La descrizione dell’impresa e della sua storia si pone nella fase iniziale del complessivo procedimento di concezione e redazione del piano di fattibi-lità aziendale, consentendo l’acquisizione di una visione globale e comples-siva del progetto cui il Business Plan si riferisce e agevolando l’elaborazione di considerazioni di natura più analitica, specifica e circostanziata. Tale se-zione del documento previsionale deve, in linea generale e in estrema sinte-si, fornire una descrizione dettagliata e analiticamente completa dei seguenti aspetti:

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• stato giuridico dell’impresa, attraverso l’individuazione, tra l’altro, della sua forma giuridica, della composizione delle sua compagine societaria e dei suoi organi di amministrazione e di controllo, della sua struttura organizzati-va e del suo management, della sottoposizione dell’impresa ad eventuali in-terventi esterni (come l’amministrazione giudiziale) o a procedure concor-suali, l’oggetto sociale, la presenza di un eventuale marchio utilizzato dall’a-zienda per il suo prodotto/servizio o di eventuali diritti sulle opere dell’inge-gno e delle invenzioni industriali ai sensi degli artt. 2254, 2343 e 2464 c.c.;

• origini e cronistoria degli avvenimenti aziendali più significativi degli ultimi tre/cinque anni (es. cambio assetto societario, operazioni straordina-rie, introduzione di nuovi prodotti, avvenimenti esterni che hanno profon-damente influenzato la vita aziendale, ecc.);

• rapporti interaziendali rilevanti, quali l’esistenza di rapporti di controllo e/o di collegamento con altre società nazionali e/o straniere, la partecipazio-ne a gruppi di società (con indicazione del grado di integrazione ed intera-zione con le altre aziende partecipanti e/o consorelle) e l’esistenza di rappor-ti contrattuali di particolare rilevanza;

• attività e prodotti attuali, con esplicitazione tra l’altro, dei tipi di prodot-to/servizio che l’impresa attualmente produce e/o commercializza, con indi-cazione del prezzo medio e dell’andamento dello stesso nell’ultimo triennio, del grado di assoggettabilità dei prodotti/servizi all’evoluzione tecnologica, del tipo di processo produttivo impiegato e della struttura generale del mer-cato di riferimento (target della clientela e principali concorrenti e posizio-namento rispetto agli stessi);

• organizzazione attuale, con individuazione dei processi organizzativi dell’attività svolta, dei ruoli e delle responsabilità di chi opera all’interno dell’impresa e delle risorse umane e tecniche impiegate;

• analisi del mercato e della concorrenza, con compiuta descrizione degli attuali mercati di riferimento dell’impesa, definendone la consistenza di-mensionale, l’evoluzione recente e i limiti territoriali, e del posizionamento competitivo dell’azienda rispetto alla concorrenza diretta;

• caratteristiche dei promotori e/o fondatori, individuando la loro capacità di apporto finanziario e patrimoniale e le loro competenze manageriale, tec-niche e tecnologiche.

L’analisi dei mercati di riferimento dell’iniziativa economica e la conse-guente formulazione del piano di marketing e di vendita, nonché del posi-zionamento competitivo dell’azienda, sono funzionali ad una corretta elabo-razione del piano di fattibilità. La redazione del piano di marketing prevede le seguenti fasi:

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• analisi del mercato, volta alla raccolta, all’analisi e all’elaborazione del-le informazioni attuali, storiche ed eventualmente prospettiche, formulate da parti terze, riguardanti l’andamento complessivo di uno o più mercati in cui l’impresa intende rafforzare la sua posizione o insediarsi. Dal punto di vista formale, la struttura del piano di marketing prevede l’analisi di mercato dal lato della domanda – finalizzata all’individuazione del mercato obiettivo, del mercato potenziale e del mercato effettivo – e dal lato dell’offerta – finaliz-zata alla comprensione dell’intensità della concorrenza attuale e prospettica rispetto alla domanda osservata;

• definizione della strategia di marketing e delle azioni operative per il presidio del o dei mercati individuati. È in queste fase che vengono elaborate le previsioni – sulla base dei dati attuali e di previsione – tanto sui ricavi di vendita sviluppati dall’iniziativa economica cui si riferisce il Business Plan, quanto sui costi derivanti dalle attività di concezione/sviluppo, di distribu-zione commerciale, promozione e pubblicità del prodotto.

Infine, l’analisi del posizionamento competitivo dell’impresa nel suo am-biente di riferimento. Essa richiede l’osservazione dell’ambiente esterno (mercato, concorrenza, clienti) e dell’ambiente interno (struttura organizza-tiva dell’impresa), al fine di cogliere quella combinazione tra opportunità e minacce presenti sul mercato (risultato dell’analisi esterna) e i punti di forza e di debolezza dell’azienda (risultato dell’analisi interna), combinazione che identifica il posizionamento competitivo dell’impresa e facilita l’individua-zione dei vantaggi competitivi della stessa.

La formulazione del piano degli investimenti previsti e dei relativi costi rappresenta una componente fondamentale del Business Plan, in quanto, per il suo tramite, si effettua la quantificazione del fabbisogno finanziario del progetto e degli investimenti in immobilizzazioni che vincolano – spesso in maniera durevole – la capacità produttiva ed il profilo strategico – competi-tivo dell’impresa, contribuendo, in maniera determinante, al successo dell’i-niziativa economica. In altri termini, esso si pone quale strumento che de-scrive, analizza e quantifica la programmazione aziendale per l’acquisizione di fattori ad utilità ripetuta. Sul piano formale, il piano degli investimenti si articola in una o più tabelle, dalle quali deve emergere un contenuto minimo necessario e sufficiente di informazioni, quali:

• descrizione tecnica e tempistica di realizzo degli investimenti previsti, con illustrazione delle motivazioni tecniche ed economico-finanziarie degli stessi, dei punti qualificanti gli stessi e delle eventuali criticità nella realiz-zazione del progetto di investimento;

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• quantificazione monetaria degli investimenti previsti (costi di acquisi-zione delle immobilizzazioni materiali, con specifica indicazione di tutti gli altri oneri necessari per giungere al risultato di capacità produttiva installata e funzionante, costi di acquisizione delle immobilizzazioni immateriali e fabbisogni derivanti da incrementi del capitale circolante operativo), con ne-cessaria individuazione della vita utile e dei relativi riflessi sul conto eco-nomico, dell’articolazione temporale degli esborsi derivanti dalle condizioni di pagamento dei fornitori di immobilizzazioni e dell’eventuale realizzo de-rivante dalla dismissione di cespiti preesistenti e dalla dismissione dell’inve-stimento al termine della sua vita utile o degli eventuali costi di dismissione.

La predisposizione del “bilancio di previsione” è elemento essenziale nella redazione del Business Plan. Il “bilancio di previsione”, riferito ai di-versi esercizi previsti dal piano temporale oggetto di previsione, si articola in tre prospetti sinottico-contabili: il conto economico, il piano finanziario e la situazione patrimoniale.

Il conto economico previsionale rappresenta e valorizza i componenti po-sitivi e negativi che concorrono alla formazione del reddito in ciascuno dei periodi componenti l’arco temporale di previsione del Business Plan. La sua formulazione risulta essere essenziale, in quanto consente, da un lato, di pervenire alla determinazione e alla misurazione del risultato economico netto, e, dall’altro – attraverso l’individuazione periodica dei risultatati eco-nomici attesi –, di stimare la capacità di autofinanziamento dell’impresa, contribuendo alla successiva pianificazione finanziaria.

Ai fini della redazione del conto economico, si rende opportuno:

• adottare prospetti in forma scalare, in quanto particolarmente adatti all’analisi gestionale – con evidenza dei contributi e della rilevanza delle di-verse aree gestionali – e all’identificazione dei più significativi risultati eco-nomici intermedi;

• indicare i risultati e le componenti delle singole aree di gestione, sia in valore assoluto (margini) sia in valore percentuale rispetto al giro d’affari o di fatturato o ad altra grandezza ritenuta più significativa (incidenze percen-tuali);

• descrivere e collocare nello schema di conto economico i diversi acca-dimenti di gestione, facendo riferimento ai criteri e ai principi previsti dalla normativa vigente in materia di bilancio e ai principi contabili, italiani o in-ternazionali.

In riferimento alla formulazione delle previsioni, è naturalmente opportu-no effettuare una netta distinzione tra imprese già esistenti e imprese di nuo-va costituzione o intenzionate ad entrare in un nuovo settore. Nel primo ca-

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so, qualora sussistano motivi di continuità, costanza o analogia di vario ge-nere (tecnologico, ambientale, organizzativo, produttivo) che consentano – ragionevolmente – di ritenere che la dinamica pregressa di fondo possa esse-re mantenuta nel corso degli anni oggetto di previsione, le stime devono ne-cessariamente essere compiute attraverso il ricorso ad un’analisi storica del pregresso. Diversamente, si rende necessario far ricorso a proiezioni confor-tate da benchmarking con realtà economiche analoghe e similari specifica-mente determinate, depositarie di best practice specificamente individuate, e da dati medi di settore o comunque relativi ad aggregati di aziende.

Infine, il conto economico previsionale, oltre all’adozione di tutte le cau-tele legate al conseguimento dei ricavi attesi nonché alla puntuale stima dei costi (fissi e variabili) previsti, deve considerare il c.d. break-even point, os-sia il momento in cui i ricavi attesi sono pari ai costi attesi. L’obbligo di in-dividuare il punto di pareggio, che è strettamente legato al margine azienda-le stimato, si pone, in particolare, nei periodi di crisi latente del mercato, con consumi tendenzialmente stazionari o in flessione. La considerazione del punto di pareggio si rende necessaria al fine di determinare fino a quale pun-to l’impresa può essere disposta a sacrificare parte del suo margine stimato ed evitare – quindi – di inserirsi in una fase di domanda debole, che tenden-zialmente conduce alla creazione di uno stato di difficoltà finanziaria. In ul-tima istanza, si rende necessario procedere al calcolo, alternativamente, di quanto il fatturato aziendale può flettersi, ovvero di quanto può ridursi il margine per evitare di trovarsi in una situazione di perdita.

Il piano finanziario di previsione fornisce – in maniera analitico-siste-matica – informazioni sui flussi finanziari complessivi previsti per la realiz-zazione del progetto e, conseguentemente, conduce all’identificazione e alla quantificazione dei fabbisogni finanziari ed esplicita le conseguenti copertu-re finanziarie ipotizzate e i loro elementi fondamentali, quali ammontare, forme tecniche, tempi e costi. La costruzione del piano finanziario di previ-sione deve avvenire in stretta relazione con le risultanze del piano degli in-vestimenti e con quello del conto economico di previsione, che contribuisce a completare relativamente all’area della gestione finanziaria. Esso, inoltre, deve riportare un contenuto minimo necessario e sufficiente di informazioni, quali:

• indicazione del fabbisogno da finanziare; • quantificazione del flusso finanziario di gestione corrente, che esprime

la capacità di autofinanziamento (qualora positivo) – ossia la capacità pro-spettica del progetto di generare risorse finanziarie per effetto del suo stesso svolgimento – ovvero il fabbisogno finanziario (qualora negativo). Per cia-

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scuno dei periodi di previsione, il flusso di gestione corrente viene determi-nato attraverso la rielaborazione, in ottica finanziaria, delle risultanze del conto economico di previsione;

• descrizione e quantificazione del flusso finanziario da apporto Mezzi Propri, con indicazione delle modalità di versamento dei nuovi Mezzi Propri e della relativa tempistica in relazione alle esigenze derivanti dalla realizza-zione del programma di investimenti;

• quantificazione dei finanziamenti da acquisire; • quantificazione degli oneri finanziari iscritti nel conto economico di

previsione, con indicazione delle informazioni e delle notizie idonee a moti-vare il valore di tali componenti negativi di reddito. La previsione degli one-ri finanziari dovrà essere formulata in modo chiaro e può essere espressa in termini di tasso medio applicabile a ciascuna tipologia di fonte di finanzia-mento.

Infine, lo stato patrimoniale di previsione deve descrivere, rappresentare e valorizzare, con un grado sufficiente di dettaglio, le attività (impieghi), le pas-sività (fonti di finanziamento esterne) e il patrimonio netto (capitali propri) dell’impresa nell’arco temporale di previsione del Business Plan. Esso con-sente di prevedere l’ammontare e la composizione del patrimonio netto e la sua evoluzione nel tempo, nonché di verificare i rapporti che si prevedono sussisteranno fra gli elementi attivi e passivi che lo compongono e in che mo-do gli stessi verranno a modificarsi per effetto della gestione economica e del-la gestione finanziaria. I valori accolti nello stato patrimoniale di previsione derivano quasi integralmente dalle ipotesi considerate e quantificate negli altri prospetti, mediante i quali sono stati previsti e quantificati gli investimenti (il piano degli investimenti fornisce i dati per lo sviluppo della sezione dell’attivo immobilizzato), è stato programmato l’andamento economico (il conto eco-nomico di previsione fornisce informazioni utili per la determinazione del ca-pitale circolante, quindi delle rimanenze, dei crediti e dei debiti di regolamen-to, degli ammortamenti e dei fondi rischi e oneri) e illustrata la dinamica fi-nanziaria che ne consegue (il piano finanziario di previsione fornisce i dati re-lativi alle disponibilità liquide e ai debiti di natura creditizia).

Così come per la redazione del conto economico di previsione, anche la redazione dello stato patrimoniale di previsione implica, qualora possibile, l’applicazione dei criteri e dei principi previsti dalla disciplina sul bilancio d’esercizio.

Infine la valutazione complessiva del progetto d’impresa. Essa è volta ad una valutazione economico-finanziaria del piano previsionale e si sostanzia in una serie di elementi, così sintetizzabili:

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• indicatori sintetici annuali di misurazione delle prestazioni aziendali, i quali devono presentare un’adeguata ripartizione tra indicatori economici, finanziari e patrimoniali. Nella loro redazione, si rende obbligatorio segnala-re gli esercizi o i periodi in cui un dato indicatore assume valori negativi, va-lore massimo e minimo e informare se la formula di calcolo di qualche indi-catore sia stata modificata per tenere conto di alcune peculiarità del progetto ipotizzato;

• tasso interno di rendimento atteso (T.I.R.) per il progetto d’impresa, os-sia il rendimento complessivo dello stesso, che rappresenta il tasso di attua-lizzazione che rende pari a zero i flussi di cassa, positivi e negativi, eviden-ziati nel piano finanziario di previsione;

• descrizione analitica delle principali variabili “base” (scenari) – utiliz-zate nella redazione del documento previsionale – da un punto di vista stra-tegico, operativo, strutturale, finanziario, economico e fiscale;

• analisi di sensitività, tesa ad esplicitare i principali scenari alternativi ri-spetto alle ipotesi base e ai relativi rendimenti, attraverso la verifica e l’indi-viduazione delle condizioni che maggiormente influenzano i risultati prospet-tici indicati nel documento previsionale. L’analisi di sensitività costituisce un elemento obbligatorio nella redazione del Business Plan, in quanto consente di verificare la sensibilità del progetto al mutare di alcune variabili indipen-denti e ritenute “significative” (ossia quelle il cui scostamento dal valore della stima più probabile utilizzata per la redazione del Business Plan influisce maggiormente sugli indicatori sintetici di risultato) e, quindi – indirettamente – l’attendibilità (o rischiosità) dei risultati economico-finanziari esposti. Ad ogni scenario alternativo, così individuato rispetto allo scenario base, deve es-sere abbinato un rendimento “potenziale”, al fine di informare circa le possibi-li variazioni del rendimento base in seguito al verificarsi degli scenari alterna-tivi, nonché le probabilità di realizzazione di detti scenari alternativi;

• rischio di fattibilità, ossia il rischio complessivo del progetto d’impresa, che riflette l’aleatorietà degli scenari strategici, operativi e finanziari utiliz-zati in sede di redazione del Business Plan. Esso rappresenta la probabilità che il rendimento atteso sia conseguito e risente della probabilità di realizza-zione degli scenari alternativi ponderata per i rispettivi rendimenti;

• SWOT analysis, tesa a valutare i punti di forza (Strenghts) e di debolez-za (Weaknesses) interna del progetto e a stimare le opportunità (Opportuni-ties) e le minacce (Threats) esterne del progetto stesso. In altri termini, la SWOT analysis consente di evidenziare i principali fattori, interni ed esterni al contesto di analisi, in grado di influenzare il successo del progetto cui il Business Plan si riferisce.

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La soggettività passiva dell’ATC del Piemonte Centrale ai fini del tributo IMU: problemi ed evoluzione della giurisprudenza Giorgio Francesco Sorbara *

SOMMARIO

1. Introduzione – 2. L’Agenzia Territoriale per la Casa (ATC) del Piemonte Centrale. La natu-ra giuridica e le finalità. – 3. Profili di contenzioso fiscale.

1. Introduzione

Nel 2012 l’introduzione anticipata dell’IMU da parte del Governo Monti è stata oggetto di un ampio dibattito sia in sede nazionale che in sede europea per i risvolti sul bilancio interno.

Le famiglie italiane (poco meno dell’80% degli alloggi è di proprietà 1) hanno dovuto far fronte a una nuova spesa nel proprio bilancio, ma non solo le famiglie.

Tra i soggetti passivi del nuovo tributo sono stati inclusi anche gli enti ge-stori di edilizia sociale, cioè gli enti che gestiscono gli “alloggi popolari” (i c.d. alloggi sociali) destinati al ceto meno abbiente. Precisamente, la Manovra Finanziaria “Decreto Salva Italia” del governo Monti (d.l. 6 dicembre 2011, n. 201 coordinato con la Legge di conversione 22 dicembre 2011, n. 214), anti-cipando l’introduzione (originariamente in via sperimentale) dell’imposta mu-nicipale propria al 2012, ha previsto l’applicazione dell’IMU anche per “gli alloggi regolarmente assegnati dagli Istituti autonomi per le case popolari”, i quali, analogamente alle abitazioni di tipo principale, potevano godere di una detrazione fino a 200 Euro. Non senza sollevare qualche perplessità di oppor-tunità politica e di natura tecnica.

* Funzionario ATC del Piemonte Centrale. 1 Cfr. rapporto dell’Agenzia delle Entrate, Gli immobili in Italia 2015, Lo stock immobilia-

re in Italia: analisi degli utilizzi: “Ipotizzando che ad ogni abitazione principale corrisponda una famiglia, risulterebbe che il 76,6% delle famiglie (nostra elaborazione sul numero fami-glie 2012 fornito dall’ISTAT – Tabella 1.10) risiede in abitazioni di sua proprietà”.

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Sotto il primo profilo è stato ed è se, al di là delle necessità di bilancio sta-tale, sia coerente sottoporre a imposizione gli immobili di enti che svolgono attività con finalità di salvaguardia della coesione sociale e della riduzione del disagio abitativo per persone e nuclei familiari non in grado di accedere al li-bero mercato. Quanto dire che al di là della natura dell’attività di gestione di immobili qualificabile come economica, essa si pone come strumentale al per-seguimento di obiettivi di valori sociali come gli indigenti e le famiglie meno agiate, valori che sono coperti da tutela costituzionale. Sempre da un profilo di razionalità politica finanziaria è lecito chiedersi se abbia senso sottrarre risorse economico-finanziarie che sono finalizzate ad investimenti nella manutenzio-ne e nella riqualificazione energetica del patrimonio immobiliare pubblico a fronte del concorrente obiettivo di far quadrare e risanare 2 i conti pubblici per seguire le raccomandazioni della tecnocrazia europea.

Si tratta infatti, in gran parte, di alloggi acquistati, realizzati o recuperati da enti pubblici a totale carico o con il concorso finanziario dello Stato o della Regione. Il rischio quindi è che si tratti di una partita di giro. Per dare un’idea di quanto abbia inciso l’IMU sugli enti di edilizia sociale (già ampiamente privi di significativi finanziamenti), è indicativo il caso dell’Agenzia Territo-riale per la Casa del Piemonte Centrale (ex IACP, d’ora in poi nel testo ATC Torino), che nel 2012 ha dovuto pagare quasi 8 milioni di euro di imposta 3.

La tassazione del patrimonio, in particolare quello immobiliare, è stata og-getto di un ampio dibattito a livello europeo e si è inserita, di diritto e di fatto, nella discussione sulle riforme strutturali in grado di rilanciare l’economia e introdurre misure contro la disoccupazione e le ricadute sociali della crisi, non ultima la querelle sulla proposta di riforma del Catasto. Il rapporto tra tassa-zione e crescita economica ha suscitato un interesse tale da proporre una clas-

2 Audizione Ance 7 ottobre 2015, Commissione VI Finanze della Camera dei Deputati, Indagine conoscitiva sulla tassazione immobiliare: “Dal punto di vista dei conti pubblici, si sottolinea che le entrate derivanti dall’IMU hanno prodotto un notevole aumento del-l’incidenza percentuale dell’imposta sul totale delle entrate della Pubblica Amministra-zione. Ancora una volta, infatti, la fiscalità immobiliare è stata utilizzata, come strumento di risanamento dei conti pubblici. Basti considerare che nel 2011 le entrate derivanti dall’ICI erano circa 9,8 miliardi di euro e rappresentavano l’1,3% delle entrate della Pubblica Amministrazione. Con l’introduzione dell’IMU nel 2012, l’incidenza ha rag-giunto il 3%, nel 2013 si attesta al 2,6% (l’abitazione principale nel 2013 è stata quasi totalmente esentata dall’IMU) e per il 2014 si stima un’incidenza del 3% (IMU+TASI). A fronte di queste maggiori entrate, si è assistito contemporaneamente alla drastica ridu-zione delle spese per investimenti pubblici”.

3 Cfr. deliberazione Cda di ATC n. 135 del 28 dicembre 2012, mecc. 2012_229 – DG – SC “Approvazione Bilancio di Previsione 2013 e Piano degli investimenti 2013”.

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sificazione delle imposte, a seconda che siano più o meno orientate alla cresci-ta economica (tax and growth ranking).

I risultati di questa classificazione, basati sulle analisi econometriche e sui modelli di simulazione elaborati dalla Commissione Europea, hanno provato che la tassazione meno distorsiva e meno recessiva risulta quella relativa alle imposte ricorrenti sulla proprietà immobiliare; in sintesi, la tesi europea è che le riforme che prevedono incrementi delle imposte sulla proprietà immobiliare non generano effetti negativi sull’output 4.

Pertanto, la Commissione Europea ha elaborato e sintetizzato il dibattito sulle strutture impositive growth-friendly in una serie di raccomandazioni ri-guardanti la tassazione immobiliare, raccomandazioni che hanno coinvolto anche l’Italia; in estrema sintesi, da una parte l’aumento della tassazione ricor-rente sulla proprietà immobiliare e dall’altra la revisione della base imponibile delle imposte sugli immobili, in modo da allineare il valore catastale ai valori di mercato. Sulla questione dell’incidenza e dell’impatto della tassazione im-mobiliare – che nel 2012 ha portato il Governo italiano ad anticipare l’intro-duzione dell’IMU anche per le abitazioni di tipo principale e con un aumento della base imponibile – il dibattito, anche politico, è stato molto acceso. Dal “lancio” dello sciopero fiscale proclamato da alcune forze politiche 5 alla di-chiarazione dell’incostituzionalità dell’imposta in quanto l’IMU sarebbe in contrasto con l’art. 53 Cost. a cui tenore: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributa-rio è informato a criteri di progressività” 6.

Pareri contrastanti sono stati espressi anche sul livello di tassazione sulla proprietà immobiliare che avrebbero giustificato l’aumento dell’imposizione fiscale in tale ambito.

Il documento di analisi sui versamenti IMU 2012 da parte del Ministero delle Finanze ha avvalorato la tesi della Commissione Europea: nel 2011 l’Ita-lia era il Paese con la più bassa tassazione sulla proprietà immobiliare tra i principali Paesi OCSE. Nel 2009 il peso del prelievo sugli immobili 7 era di circa lo 0,6% del PIL, a fronte di una media OCSE di circa l’1,1%; valori su-

4 Cfr. rapporto dell’Agenzia delle Entrate, Gli immobili in Italia 2015, “La tassazione im-mobiliare: un confronto internazionale”.

5 Cfr. Il Sole 24 ore, La Lega e le misure contro l’IMU, Maroni: “Reagire contro l’imposta o rischiamo il ritorno del podestà”, 30 aprile 2012.

6 Cfr. Il Fatto Quotidiano, L’ultima provocazione di Grillo: “L’IMU è incostituziona-le”, 2 giugno 2012.

7 Escludendo le imposte sui trasferimenti immobiliari e altre imposte straordinarie.

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periori si rilevavano soltanto in Francia (2,4%), nel Regno Unito (3,5%), in Canada e Stati Uniti (circa 3%), in Giappone (2,1%).

Tesi contraddetta dallo studio di EU.RE.S 8 “L’inganno dell’IMU: l’Italia in cima alla classifica europea della tassazione sugli immobili” del dicembre 2012 (con il coordinamento unitario dei proprietari immobiliari: Arpe Feder-proprietà, Confappi, Uppi) a cui avviso la tassazione immobiliare, prima del 2012, era già in linea con la media europea e pertanto l’introduzione dell’IMU ha portato la tassazione italiana a superare la quasi totalità degli altri Paesi eu-ropei.

Al di là di questa dialettica tra numeri, dati e indicatori, degna di nota è la vicenda di ATC Torino, azienda pubblica costituita da 240 dipendenti. Per questo ente l’introduzione anticipata al 2012 del pagamento dell’IMU ha comportato un esborso di quasi 8 milioni di euro.

2. L’Agenzia Territoriale per la Casa (ATC) del Piemonte Centrale. La natura giuridica e le finalità

Ai fini di una corretta comprensione della tesi come sostenuta in questo scritto, può essere utile stabilire la natura dell’ATC come soggetto passivo del tributo IMU anche alla luce della sua origine storica ed evoluzione della legi-slazione che ne ha nel tempo regolato l’attività.

La nascita di ATC Torino risale ai primi anni del novecento, in un’epoca storica caratterizzata dalla carenza di alloggi e dal rincaro degli affitti legati al nuovo fenomeno dell’urbanesimo e al sovraffollamento delle città. In quegli anni lo Stato italiano emanò i primi provvedimenti legislativi per cercare un rimedio al problema delle abitazioni gettando così le basi dell’edilizia econo-mico-popolare. Nacquero, nelle principali città italiane, gli Istituti per le Case Popolari.

A Torino, l’Istituto Case Popolari sorse per iniziativa del Comune e con l’ausilio della Cassa di Risparmio di Torino e dell’Istituto Opere Pie del San Paolo e fu riconosciuto come Ente Morale con Regio Decreto 8 dicembre 1907 cioè un ente “filantropico nei fini ed economico nei mezzi, attrezzato e specializzato nell’organismo tecnico amministrativo e finanziario per la co-struzione di un vasto demanio di stabili di carattere economico da concedersi in locazione senza scopo speculativo”.

8 L’EURES Ricerche Economiche e Sociali è un istituto di ricerca impegnato dal 1998 nel-la promozione e realizzazione di attività di studio, di formazione e di analisi applicata in cam-po economico, sociale e culturale.

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Tra il 1907 al 1912 sorsero i primi otto complessi edilizi per un totale di 2.398 alloggi con 4.449 camere affittabili. Dopo questo periodo iniziale di in-tensa attività costruttiva, iniziarono a manifestarsi i primi sintomi di un rilas-samento nella domanda di alloggi, determinando una crisi che causò sensibili perdite di bilancio dovute ai mancati introiti per gli affitti

Il secondo ciclo di attività edilizia economico-popolare riprese nella prima-vera del 1919 con un programma concordato con il Comune di Torino, il quale concesse gratuitamente le aree occorrenti alla realizzazione di altre 3.500 ca-mere e con la concessione di una serie di mutui agevolati.

Il terzo ciclo di attività è direttamente e conseguentemente collegato agli avvenimenti del secondo conflitto mondiale. Nei primi anni del dopoguerra, l’Istituto fu impegnato ad affrontare il pesante lavoro di ricostruzione e di ri-parazione dei danni bellici: vennero costruite quasi esclusivamente sopraele-vazioni, venne completato il progetto del Quartiere di Mirafiori, vennero co-struiti alloggi da assegnare in riscatto e in locazione in virtù di alcuni provve-dimenti legislativi dell’epoca (Legge INA-Casa, Legge per i profughi e per i baraccati).

La vera e propria ripresa edilizia si ebbe a partire dal 1953 e all’inizio degli anni sessanta, il patrimonio ammontava a poco più di 22 mila alloggi.

Gli anni sessanta, con lo sviluppo della industrializzazione (in particolare nel settore automobilistico) furono caratterizzati da un notevole sforzo nel ten-tativo di attenuare e soddisfare la richiesta di alloggi destinati ad un nuovo flusso di immigrati provenienti prevalentemente dalle regioni meridionali ma anche da zone sottosviluppate del centro-nord e da aree marginali dello stesso Piemonte. L’obiettivo era quello di fornire un’abitazione dignitosa a canoni di locazione contenuti a migliaia di nuovi cittadini, spesso con notevoli carichi familiari, a nuclei di anziani emarginati dal tumultuoso sviluppo di quegli anni e con redditi molto vicini al limite della sussistenza. In quegli anni, tramite i finanziamenti e i mutui concessi dallo Stato, vennero realizzati oltre 9.000 al-loggi.

Negli anni ’70, si verificarono i primi episodi di occupazioni abusiva degli alloggi dovuti al continuo flusso migratorio e ad una insoddisfacente e ade-guata offerta di alloggi.

Con la legge di riforma 22 ottobre 1971, n. 865 l’Istituto divenne unico en-te di esecuzione dei programmi di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata dallo Stato; pertanto l’attività dell’Istituto non si limitò esclusivamente alle nuove costruzioni, ma in virtù dei finanziamenti concessi con la legge 8 ago-sto 1977, n. 513 e la legge 5 agosto 1978, n. 457, fu predisposto un vasto pia-no di intervento di risanamento per i complessi edilizi costruiti prima del 1925 per un totale di 1.644 alloggi.

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Con la legge 22 ottobre 1971, n. 865 venne, inoltre, trasferito il patrimonio di Edilizia Residenziale Pubblica (ERP) agli Istituti Autonomi Case Popolari (IACP), sancendo, di fatto, un nuovo concetto di edilizia residenziale pubblica intesa come servizio sociale rivolto a soddisfare un’esigenza fondamentale di tutti i cittadini.

Successivamente con il d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 e il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 venne dato un assetto regionalista nella distribuzione delle fun-zioni amministrative dell’edilizia residenziale pubblica; in particolare l’art. 93 del d.P.R. n. 616/1977 inserisce, tra le competenze regionali “la programma-zione regionale, la localizzazione, le attività di costruzione e la gestione di in-terventi di edilizia residenziale e abitativa pubblica, di edilizia convenzionata, di edilizia agevolata, di edilizia sociale nonché le funzioni connesse alle rela-tive procedure di finanziamento”, trasferendo alle Regioni “le funzioni statali relative agli IACP fermo restando il potere ... di stabilire soluzioni organizza-tive diverse da esercitarsi in conformità ai principi stabiliti dalla legge di ri-forma delle autonomie locali”.

Tuttavia, data l’assenza di un quadro chiaro sull’esercizio di questi poteri, le Regioni sono rimaste per lungo tempo assenti. Questa situazione di impasse si è protratta fino agli anni ’90; con l’introduzione della legge 8 giugno 1990, n. 142 (una disciplina più organica per gli enti locali) e con la riforma del Ti-tolo V Cost., legge 18 ottobre 2001, n. 3 è stata attribuita la materia dell’edili-zia pubblica alla competenza regionale.

A seguito della definizione più chiara dei poteri regionali, gli IACP sono stati oggetto di un processo di riorganizzazione secondo un iter legislativo, differenziato regione per regione; questo ha portato alla costituzione di una realtà composita che va dal permanere della natura di ente pubblico non eco-nomico ausiliario della Regione stessa (Piemonte) alla totale privatizzazione dell’ex IACP (Toscana).

In Piemonte, la prima Legge di riforma regionale è stata la Legge 26 aprile 1993, n. 11 “Nuovo ordinamento degli Enti operanti nel settore dell’edilizia residenziale pubblica sovvenzionata” con la quale gli Istituti Autonomi per le Case Popolari (I.A.C.P.) assumono la denominazione di Agenzie Territoriali per la Casa (A.T.C.) ed esercitano le funzioni attribuite agli Istituti Autonomi per le Case Popolari.

La legge regionale 28 febbraio 2010 n. 3 “Norme in materia di edilizia so-ciale” interviene modificando le precedenti normative (l.r. n. 11/1993 e l.r. 46/1995) con l’obiettivo di disciplinare organicamente le norme in materia di edilizia sociale.

Con la legge regionale 29 settembre 2014, n. 11 “Riordino delle Agenzie territoriali per la casa. Modifiche alla legge regionale 17 febbraio 2010, n. 3

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(Norme in materia di edilizia sociale)”, l’Agenzia Territoriale per Casa del Piemonte Centrale, per l’ambito territoriale della Provincia di Torino subentra all’Agenzia Territoriale per la Casa della Provincia di Torino.

In Piemonte, le ATC sono definite come “... enti pubblici di servizio, non economici, ausiliari della regione, con competenza estesa al territorio delle ri-spettive province ...” dotate di autonomia organizzativa, patrimoniale, ammi-nistrativa e contabile.

Nel caso in esame, ATC Torino è un soggetto pubblico che persegue il pubblico interesse identificato con l’obbligo sociale di fornire appartamenti economici da porre a disposizione delle categorie di cittadini meno abbienti e di provvedere all’amministrazione e alla gestione del proprio patrimonio e di quello che le viene affidato da altri enti pubblici.

Inoltre, l’Agenzia provvede ad attuare interventi finalizzati al recupero e al-la conservazione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica e dei relativi servizi, anche attraverso processi di riqualificazione, tramite risorse dello Sta-to, delle Regioni, di altre istituzioni, tramite l’impiego di proprie risorse e tra-mite la partecipazione a consorzi o società miste, per la formazione, attuazione e gestione dei programmi edilizi ed urbanistici integrati e all’attuazione, al pa-ri delle cooperative edilizie e delle imprese private, di interventi di edilizia convenzionata e agevolata.

In conclusione parrebbe dimostrato da questa volutamente analitica evolu-zione e ancora sulla base delle legislazione in vigore, che la finalità dell’Agen-zia, prevista della statuto tipo delle Agenzie Territoriali per la Casa, approvato con la deliberazione del Consiglio Regionale 29 dicembre 2014, n. 3, è con-correre al soddisfacimento del fabbisogno abitativo, in particolare dei cittadini che si trovano in condizione di debolezza sociale; per tale motivo, l’attività istituzionale non può configurarsi di tipo commerciale, esaurendosi nell’eser-cizio di funzioni dirette alla salvaguardia della coesione sociale e alla riduzio-ne del disagio abitativo di individui e nuclei familiari che non sono in grado di accedere alla locazione nel libero mercato.

Se si guarda anche alla esperienza e realtà di altri paesi in particolare nel contesto europeo, seppur nell’eterogeneità della situazione abitativa nazionale e delle politiche dei diversi Paesi, l’attività svolta da ATC Torino può ragio-nevolmente inserirsi nell’ambito della c.d. social housing 9. Secondo il Cecod-

9 In Italia, la prima definizione ufficiale di social housing è stata data nel 2008. L’edilizia sociale è costituita prevalentemente da abitazioni affittate su base permanente; sono da consi-derarsi incluse nell’edilizia sociale anche le abitazioni costruite o riabilitate tramite contributo pubblico e privato o l’uso di fondi pubblici, in affitto per almeno otto anni e venduti a prezzi

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has 10 (Comitato europeo per la promozione del diritto alla casa) definisce il social housing come “le soluzioni abitative per quei nuclei familiari i cui biso-gni non possono essere soddisfatti alle condizioni di mercato e per le quali esi-stono regole di assegnazione” 11.

Ed è la stessa Unione Europea che considera l’edilizia abitativa sociale come un servizio di interesse economico generale; anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea stabilisce che “al fine di lottare contro l’e-sclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assi-stenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali” 12.

Inoltre, come affermato dalla Commissione Europea, uno dei cinque obiet-tivi che l’Unione Europea è chiamata a raggiungere nel 2020 13 è la lotta alla povertà e all’emarginazione con almeno 20 milioni di persone a rischio o in situazione di povertà ed emarginazione in meno; pertanto, l’importanza di avere accesso all’abitare a prezzi calmierati non può non essere considerato come uno dei fattori fondamentali per prevenire e combattere l’esclusione so-ciale.

Tuttavia nonostante a livello europeo il social housing venga considerato un’attività di interesse generale con finalità assistenziali, ATC Torino ed enti

accessibili, con l’obiettivo di realizzazione di mix sociale (http://www.housingeurope.eu, 27 marzo 2010).

In Italia, l’edilizia sociale in affitto rappresenta circa il 4% del patrimonio edilizio naziona-le. I tipi principali di abitazioni a sostegno pubblico sono tre: edilizia sovvenzionata, edilizia agevolata ed edilizia convenzionata.

10 Cecodhas: fondato nel 1988, è costituito da una rete di 43 federazioni nazionali e regio-nali, che insieme raccoglie circa 43.000 fornitori/gestori di edilizia residenziale pubblica, so-ciale e cooperativa in 23 paesi. Complessivamente vengono gestisti oltre 26 milioni di case, circa l’11% delle abitazioni esistenti nell’Unione Europea.

I gestori dell’edilizia residenziale pubblica hanno una visione di un’Europa che fornisce l’accesso ad un alloggio decente e alla portata di tutti in comunità socialmente, economicamen-te e dal punto di vista ambientale sostenibile. Pertanto, essi non si limitano a fornire case a prezzi accessibili, ma una serie di altri servizi, quali servizi di assistenza e di supporto domici-liare per i residenti con esigenze specifiche, servizi aggiuntivi per gli inquilini (asili, centri co-munitari, servizi per l’impiego e la formazione, la consulenza finanziaria), servizi di vicinato, sviluppo urbano e rigenerazione urbana, ecc. (http://www.housingeurope.eu).

11 Cfr. CAPP (Centro di analisi delle politiche pubbliche), Il social housing in Europa, Massimo Baldini e Marta Federici, novembre 2008.

12 Art. 34, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. 13 http://ec.europa.eu/europe2020/europe-2020-in-a-nutshell/targets/index_it.htm.

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analoghi in altre Regioni sono stati inclusi come soggetti passivi tra gli enti commerciali ai fini dell’applicazione dell’IMU 14 e quindi con una incidenza che nel 2012 ha raggiunto un ammontare, comprensiva delle altre imposte (es. IRES), che si aggira intorno 10 milioni di Euro 15.

Questa situazione ha comportato per l’effetto per l’ente un complesso di azioni straordinarie e particolarmente gravose in sede di redazione del bilan-cio, con una drastica riduzione delle spese per manutenzione e gestione del pa-trimonio fino alle spese sulla sicurezza degli edifici e degli alloggi.

Per meglio valutare l’impatto e l’incidenza che l’introduzione dell’imposta ha avuto sulla gestione economico-finanziaria di ATC Torino nel 2012, basti por mente che:

• le entrate per canone di locazione si aggiravano intorno ai 24 milioni di euro al lordo della morosità (quest’ultima attestata al 18%);

• il canone medio di locazione di un alloggio era di circa 90 euro/mensili: • circa il 92% delle nuove assegnazioni era a favore di fasce A, cioè di mi-

nor reddito/reddito zero • l’esborso di ATC Torino in materia di ICI negli anni precedenti si aggira-

va intorno a 800 mila euro annui.

Il quadro si completa tenendo presente che dal rapporto di Eurostat sulla spesa sociale in Europa nel 2011, l’Italia si colloca agli ultimi posti per le poli-tiche di sostegno al social housing, riservando a esse soltanto lo 0,3% contro una media europea del 3,6% (6,6% del Regno Unito, al 5% della Francia, al 2,8% della Germania) 16.

L’assenza di una approfondita conoscenza del fenomeno è rivelata altresì dalla circostanza estrinseca in sede politica. In modo contraddittorio, nel 2013 17 il legislatore ha deciso di abolire l’IMU per gli alloggi popolari, salvo poi prevedere la re-introduzione dell’imposta a partire dall’anno 2014 18 fino

14 Art.13, comma 10, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201: “Dall’imposta dovuta per l’unità immobi-liare adibita ad abitazione principale del soggetto passivo e per le relative pertinenze, si detrag-gono, fino a concorrenza del suo ammontare, euro 200 rapportate al periodo dell’anno durante il quale si protrae tale destinazione; omissis… La suddetta detrazione si applica alle unità immo-biliari di cui all’art. 8, comma 4, del Decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504”.

15 Cfr. deliberazione Cda di ATC n. 135 del 28 dicembre 2012. mecc. 2012_229 – DG – SC “Approvazione Bilancio di Previsione 2013 e Piano degli investimenti 2013”.

16 http://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=18352, 25 no-vembre 2013.

17 Art. 1, d.l. 31 agosto 2013, n. 102. 18 Art. 2, comma 4, lett. b), d.l. 31 agosto 213, n. 102.

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alla risoluzione del MEF 19, che ha previsto l’esonero dall’IMU per i fabbricati di civile abitazione destinati ad alloggi sociali (Decreto del Ministro delle In-frastrutture del 22 aprile 2008).

Un’azienda pubblica come ATC, alla luce della drastica riduzione di finan-ziamenti regionali 20, dovrebbe amministrarsi, fare manutenzione ordinaria de-gli immobili e affrontare la fiscalità contando su entrate economiche determi-nate da un canone medio di 90 euro mensili.

Si tratta di un aspetto di natura finanziaria ma non si può nascondere che la ricaduta gravi anche sulla collettività: mancate manutenzioni, mancate riquali-ficazioni e degrado inevitabile dell’intero patrimonio immobiliare pubblico, azzeramento in termini di investimento in nuovi alloggi 21.

Difficile non pensare che, come sopra detto, la fiscalità immobiliare sia sta-ta utilizzata come strumento di risanamento dei conti pubblici senza alcuna at-tenuazione sotto forma di agevolazioni; a tal fine è sufficiente confrontare i dati: nel 2011 le entrate derivanti dall’ICI erano circa 9,8 miliardi di euro e rappresentavano l’1,3% delle entrate della PA; con l’introduzione dell’IMU nel 2012 l’incidenza ha raggiunto il 3% 22.

Se è pur vero che anche negli altri Paesi europei esiste una tassazione simi-le all’IMU, è altresì vero che in alcuni casi la tassa sulla proprietà include altre imposte (in Francia è inclusa la tassa sui rifiuti) e che, sempre, nella vicina Francia l’imposta sul patrimonio “Taxe Foncière” prevede, ad esempio, l’eso-nero per i primi due anni delle nuove costruzioni e da dieci a venti anni per le abitazioni di edilizia popolare utilizzate ad abitazione principale (fatta sempre eccezione delle decisioni comunali) 23.

19 http://www.finanze.it/export/sites/finanze/it/.content/Documenti/Fiscalita-locale/FAQimutasiter.pdf. 20 Dall’osservatorio regionale della condizione abitativa, istituito ai sensi dell’art. 59 del

d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, emerge che nel quinquennio 2009-2014, i finanziamenti concessi in materia di social housing a livello regionale sono diminuiti del 34% e a livello della provin-cia di Torino sono diminuiti del 45%.

21 Cfr. comunicato stampa Federcasa, IMU sulle case popolari: ancora meno fondi per la manutenzione, 16 dicembre 2011.

22 Cfr. indagine conoscitiva sulla tassazione immobiliare, audizione ANCE, Commis-sione VI Finanze della Camera dei Deputati, 7 ottobre 2015.

23 Cfr. studio condotto da Arpe-Federproprietà e Confappi in collaborazione con Il Sole 24 ore, Imposizione immobiliare residenziale in 15 Paesi Europei.

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3. Profili di contenzioso fiscale

Tornando al caso che ci occupa ATC Torino nel novembre 2013, ha ritenuto di richiedere rimborso dell’IMU versata ai Comuni nell’anno 2012, e successi-vamente ha presentato ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale per il rimborso dell’IMU versata ai Comuni nell’anno 2012 24, sul presupposto, come evidenziato nel precedenti paragrafi, che ATC Torino avrebbe dovuto godere dell’esenzione dall’imposta sulla base di due assorbenti argomentazioni:

1. ATC Torino si qualifica come un ente non commerciale e come tale usu-fruisce dell’esenzione dall’imposta così come previsto dall’art. 9, comma 8, d.lgs. n. 23/2011 successivamente modificato dall’art. 91-bis, comma 1, del d.l.. n. 1/2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 27/2012. Il succitato articolo, che riprende quanto già in vigore con l’abrogata ICI art. 7, comma 1, lett. i), d.lgs.. n. 504/1992, stabilisce l’esenzione per gli immobili destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di at-tività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ri-creative e sportive, nonché di attività di religione o di culto, ovvero quelle di-rette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana. ATC Torino parrebbe dunque rispettare appieno le caratteristiche di cui sopra in quanto: a) è un ente pubblico di servizio, non economico, ausiliario della Regione

svolgente attività non commerciale 25; b) le finalità sono quelle “di concorrere al soddisfacimento del fabbisogno abi-

tativo proprio dell’ambito territoriale di competenza, in particolare dei cit-tadini che si trovano in condizione di debolezza sociale. Per gli alloggi rea-lizzati e gestiti, in relazione alla finalità di cui al comma 1, l’attività istitu-zionale dell’ATC non può configurarsi di tipo commerciale, esaurendosi nell’esercizio di funzioni dirette alla salvaguardia della coesione sociale e alla riduzione del disagio abitativo di individui e nuclei familiari svantag-giati che non sono in grado di accedere alla locazione nel libero mercato” 26;

24 Cfr. delibere Cda di ATC n. 113 e n. 115 del 13 novembre 2013, Delibera Cda di ATC n. 138 del 23 dicembre 2013.

25 Art. 28, comma 2, l.r. Piemonte, n. 3/2010. 26 Art. 3, Statuto di ATC Torino, redatto in conformità allo Statuto tipo approvato con deli-

berazione del Consiglio Regionale del Piemonte n. 34-43707 del 29 dicembre 2014 ed allegato alla delibera n. 1/1167 mecc. 2015_6 del 30 gennaio 2015.

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c) l’attività di assegnazione degli alloggi rientrano fra le fattispecie della categoria di attività ricettiva/assistenziale 27;

d) con riferimento alle attività ricettive per la ricettività sociale (il c.d. hou-sing sociale), è necessario che le attività ricettive siano dirette a sostene-re i bisogni abitativi di categorie sociali meritevoli anche per periodi protratti nel tempo; si tratta, in sostanza, di attività caratterizzate dal-l’attenzione a situazioni critiche. È indispensabile sottolineare che è de-terminante anche l’entità delle cosiddette “rette”, che devono essere di importo significativamente ridotto rispetto ai “prezzi di mercato” 28. Ad escludere che via sia una logica economica in capo all’ente ATC il canone di locazione degli alloggi di edilizia sociale risulta (di molto) in-feriore rispetto al canone medio di mercato in quanto il canone abitativo oggettivo (c.d. canone base) viene influenzato dalle condizioni economi-che e sociali del singolo nucleo assegnatario, potendo variare con il mo-dificarsi delle stesse; pertanto, di fatto, il canone di locazione viene de-terminato unicamente in funzione delle condizioni economiche del nu-cleo familiare assegnatario;

e) nell’ipotesi di alienazione degli alloggi di edilizia sociale non vi è alcun riscontro con i valori di mercato 29;

f) un vincolo molto importante, i proventi della locazione degli alloggi di edilizia sociale non hanno una libera destinazione commerciale ma sono contabilizzati nella Gestione Speciale e destinati, in via principale, al netto dei costi generali, di amministrazione, di manutenzione ordinaria e fiscali, al reinvestimento in edifici ed aree edificabili, alla riqualificazio-ne ed incremento del patrimonio abitativo pubblico 30;

g) i proventi dell’alienazione degli alloggi di edilizia sociale sono contabi-lizzati nella Gestione Speciale e sono vincolati alla realizzazione di pro-grammi di manutenzione ed incremento del patrimonio abitativo di edi-lizia sociale 31;

h) gli alloggi di edilizia sociale, ex art. 830 e art. 828 del Codice Civile, in quanto destinati ad un pubblico servizio, fanno parte del patrimonio in-disponibile degli enti proprietari e, pertanto, non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi previsti dalla legge;

27 Art. 6, lett. E), Circolare MEF 26 gennaio 2009 n. 2/DF. 28 Art. 6, lett. E), Circolare MEF 26 gennaio 2009 n. 2/DF. 29 Art. 48, l.r. Piemonte 17 febbraio 2010, n. 3. 30 Art. 19, l.r. Piemonte 17 febbraio 2010, n. 3. 31 Art. 51, l.r.. Piemonte 17 febbraio 2010, n. 3.

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i) l’attività costruttiva è di natura strumentale al raggiungimento delle fina-lità proprie del servizio pubblico.

2. ATC Torino, quale ente non commerciale, ha proceduto ad adeguare il pro-prio statuto 32 sulla scorta dell’emanazione del Regolamento approvato dal MEF con Decreto 19 novembre 2012, n. 200 33; tale adempimento è condi-zione sine qua non per ottenere l’esenzione dall’imposta.

Il nuovo regolamento ha individuato, in primis, i requisiti generali che ogni statuto o atto costitutivo deve contenere affinché le attività degli enti non com-merciali possano essere qualificate come tali 34 oltre a ulteriori requisiti delle attività in ragione della diversa natura delle stesse 35.

32 Cfr. deliberazione n. 136 del 20 dicembre 2012. 33 Art. 7, comma 1, Regolamento MEF approvato con Decreto 19 novembre 2012: “1. Entro il 31 dicembre 2012, gli enti non commerciale predispongono o adeguano il

proprio statuto a quanto previsto dall’art. 3, comma 1 del presente regolamento”. Il termine è stato poi dichiarato non perentorio con la risoluzione n. 3/DF del 4 marzo 2013 del Ministero delle Economie e Finanze.

34 Art. 3, Regolamento MEF approvato con Decreto 19 novembre 2012: Le attività istituzionali sono svolte con modalità non commerciali quando l’atto costitutivo

o lo statuto dell’ente non commerciale prevedono: il divieto di distribuire, anche in modo indiretto, a soci, amministratori, collaboratori, utili

e avanzi di gestione, nonché fondi o capitale durante la vita dell’ente nei confronti di ammini-stratori, soci, partecipanti, lavoratori o collaboratori, a meno che la destinazione non sia im-posta dalla legge, ovvero non sia effettuata a favore di enti che fanno parte della medesima struttura e svolgono la stessa attività o altre attività istituzionali;

l’obbligo di reinvestire gli eventuali utili esclusivamente per lo sviluppo delle attività fun-zionali allo scopo istituzionale della solidarietà sociale;

l’obbligo di devolvere, in caso di scioglimento per qualunque causa, il patrimonio dell’en-te non commerciale ad altro ente non profit che svolga analoga attività, salvo diversa destina-zione imposta dalla legge.

35 Art. 4, Regolamento MEF approvato con Decreto 19 novembre 2012, n. 200: omissis. Lo svolgimento di attività assistenziali e attività sanitarie si ritiene effettuato con modalità

non commerciali quando le stesse: – sono accreditate e contrattualizzate o convenzionate con lo Stato, regioni ed enti locali,

svolte in maniera complementare o integrativa rispetto al servizio pubblico a titolo gratuito, salvo eventuali importi di partecipazione alla spesa previsti dall’ordinamento per la copertura del servizio universale;

– se non accreditate e contrattualizzate o convenzionate con lo Stato, regioni ed enti locali è necessario che siano svolte a titolo gratuito o dietro il pagamento di corrispettivi di importo simbolico comunque, non superiore alla metà dei corrispettivi medi previsti per analoghe atti-

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Nel 2015, con la sentenza n. 344 registro generale 2710/13, pronunciata in data 24 febbraio 2015 la Commissione Tributaria Provinciale ha respinto il ri-corso di ATC Torino.

Il motivo di respingimento del ricorso risiede –in via principale– nella mancanza dell’utilizzo diretto dell’immobile da parte dell’ente e, a supporto di questa tesi, viene richiamata la Sentenza della Cassazione a Sezioni unite n. 28160 del 26 novembre 2008 a cui tenore: “ ... agli immobili degli IACP (ora A.T.C.) non spetta l ‘esenzione prevista dal d.lgs. n. 504/1992, art. 7, comma I, lett. I) – la quale esige la duplice condizione, insussistente per questa specia-le categoria di immobili dell’utilizzazione diretta degli immobili da parte dell’ente possessore e dell’esclusiva loro destinazione ad attività peculiari che non siano produttive di reddito ... E questa duplice condizione– nel caso in specie – non risulta rispettata”.

Pertanto, seppur gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all’art. 87, com-ma 1, lett. c) – tra i quali ATC Torino – purché destinati esclusivamente allo svolgimento, tra l’altro, di attività assistenziali e ricettive possano essere con-siderati esenti dal pagamento dell’imposta, la sentenza citata esclude categori-camente e definitivamente il beneficio da parte degli enti di edilizia residen-ziale dall’esenzione dall’imposta ribadendo che la norma di favore non è ap-plicabile in situazioni diverse da quelle dell’utilizzo diretto.

Secondo la Commissione, anche l’introduzione della norma di interpreta-zione autentica (d.l. n. 203/2005) non avrebbe modificato o eliminato il requi-sito dell’utilizzo diretto e anche il consolidato orientamento della Cassazione –basato essenzialmente sul principio di stretta interpretazione secondo cui la norma di favore non possa essere applicata al di fuori delle ipotesi tipiche e tassative indicate dal legislatore– ha sempre escluso e continua ad escludere dall’esenzione l’ente possessore che non utilizza direttamente l’immobile, an-corché assolva una finalità di pubblico interesse 36. Una tesi quest’ultima che

vità svolte con modalità concorrenziali nello stesso ambito territoriale, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con il costo effettivo del servizio.

omissis. 4. Lo svolgimento di attività ricettive si ritiene effettuato con modalità non commerciali se

le stesse sono svolte a titolo gratuito ovvero dietro versamento di corrispettivi di importo sim-bolico e, comunque, non superiore alla metà dei corrispettivi medi previsti per analoghe attivi-tà svolte con modalità concorrenziali nello stesso ambito territoriale, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con il costo effettivo del servizio.

36 Cass., sez. trib. ord., 27 febbraio2013, n. 4487; Cass., sez. trib. ord., 14 gennaio 2013, n. 3843, Cass., sez. trib. ord. 24 febbraio 2012, n. 2821; Cass., sez. trib. sent., 24 febbraio 2012. n. 4502; Cass., sez. trib. sent., 3 settembre 2008, nn. 22201-22202-22203.

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non pare accettabile nella sua categoricità come dimostra altra giurisprudenza e dottrina di diverso avviso.

La Commissione ha ritenuto, altresì, che le successive modifiche legislati-ve 37 non abbiano modificato il testo della norma previgente: l’intendimento del legislatore è sempre stato quello di favorire fiscalmente solo le situazioni in cui l’ente utilizza direttamente l’immobile mentre tutte le situazioni di uti-lizzo indiretto sono da escludere dall’ambito di applicazione dell’esenzione dall’imposta. Ancora si fa notare che privilegiare questo profilo formale fini-sce per sottovalutare aspetti più rilevanti come quelli della finalità della norma sulle ATC come sopra dimostrato.

A fronte di queste argomentazioni, si può opporre che, ad avviso di chi scrive, la giurisprudenza di merito debba dar conto compiutamente su quello che si ritiene il punto fondamentale ai fini della applicazione della agevolazio-ne fiscale in quanto ATC Torino è un ente non commerciale che applica un canone di locazione di gran lunga inferiore al canone medio di mercato. A ta-cere che, quanto in merito al presunto e ritenuto assorbente motivo del manca-to utilizzo diretto del bene da parte dell’ente, la norma non presuppone la coincidenza del possesso e dell’utilizzo dell’immobile allo stesso soggetto e che il requisito dell’utilizzo diretto sia soddisfatto ugualmente in quanto ATC Torino, assegnando gli alloggi ai ceti meno abbienti senza terzi intermediari, fa un uso diretto del bene.

Una conferma si può avere dalla Circolare MEF del 18 maggio 2012 n. 3/DF punto 8 nella quale viene fatto uso del termine utilizzazione per distin-guere l’attività commerciale da quella non commerciale e non più per qualifi-carne la diretta o indiretta utilizzazione e la Risoluzione MEF del 4 marzo 2013 n. 4/DF con la quale non viene richiesta la diretta utilizzazione del bene come presupposto per l’applicazione dell’esenzione in caso di immobili con-cessi in comodato ad altro ente non commerciale 38.

D’altronde la sfera di applicazione dell’art. 7, comma 1, lett. i), d.lgs. 30 di-cembre 1992, n. 504 è stata meglio definita, nel tempo, da numerose pronunce giurisprudenziali che hanno chiarito l’esenzione dall’imposta subordinandola alla compresenza di un requisito oggettivo (svolgimento esclusivo nell’immo-bile di attività di assistenza o di altre attività equiparate) e di un requisito sog-gettivo (svolgimento di tali attività da parte di un ente pubblico o privato che

37 Art. 91-bis, d.l. 24 gennaio 2012, n. 1; art. 9, d.l. 10 ottobre, n. 174; Decreto Ministero Economia e Finanza 19 novembre 2012, n. 200.

38 Commissione provinciale tributaria di Verbania, 16 aprile 2014, n. 38/01/201, Massima-rio tributario del Piemonte anno 2014.

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non abbia come oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commercia-li) e ATC Torino pare soddisfare proprio entrambi i requisiti proprio in ragione della sua specificità non condivisa da nessun altro ex IACP in Italia.

In questa direzione si conforma la recente sent. n. 212/2017 del 27 gennaio 2017 39 della Commissione Tributaria Regionale del Piemonte che accoglie il ricorso presentato dall’ATC Torino evidenziando come il giudice di primo grado non abbia dato risposta alle plurime argomentazioni poste dalla ricor-rente ma, ignorando completamente l’evoluzione legislativa in materia di tas-sazione immobiliare, si è limitato ad argomentare le proprie motivazioni in ra-gione del mancato utilizzo diretto dell’immobile da parte dell’ente.

La Commissione Tributaria Regionale, al contrario, evidenzia come lo sce-nario legislativo di riferimento sia stato profondamente modificato dopo l’in-troduzione dell’IMU anche in relazione alle fattispecie di esenzione dell’im-posta per gli enti non commerciali che svolgono attività riconducibili all’art. 7, comma 1, lett. i), d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 tra i quali rientra la ricorren-te Agenzia.

In sintesi, le argomentazioni della sentenza succitata sono:

a) la Risoluzione MEF del 4 marzo 2013 n. 4/DF dà importanti indicazioni e chiarimenti in relazione all’esenzione dall’imposta per gli immobili utilizzati da enti non commerciali per lo svolgimento delle attività di cui all’art. 7, comma 1, lett. i), del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 i cui requisiti, di caratte-re generale e di settore, sono stati individuati con il Regolamento MEF appro-vato con Decreto 19 novembre 2012, n. 200 (in attuazione delle disposizioni di cui all’art. 91-bis, comma 3, d.l. n. 1/2012);

b) l’art. 91-bis del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 abroga di fatto la precedente interpretazione autentica dell’art. 7, comma 1, lett. i), d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 conseguente, per l’appunto, dalla ridefinizione dei requisiti e generali di cui al regolamento sopra citato che, all’art. 4 del medesimo, stabilisce che per ottenere l’esenzione dall’imposta in caso di percezione di canone questo debba essere inferiore al 50% del canone medio di mercato (dato non contestato dalla controparte della ricorrente);

c) l’art. 91-bis del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 fa riferimento alla distinzione tra l’attività commerciale da quella non commerciale e non all’utilizzazione diretta o indiretta dell’immobile.

Le argomentazioni sembrano allinearsi con le motivazioni avanzate dall’A-genzia in sede di primo grado e riproposte successivamente in sede di appello.

39 Massimario tributario del Piemonte anno 2017.

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In primo luogo viene sottolineato come il giudice di primo grado non abbia dato risposta alle plurime argomentazioni poste dalla ricorrente Agenzia.

In secondo luogo si evidenzia come il richiamo alla giurisprudenza della Corte di Cassazione che costituisce il principale fondamento delle motivazioni espresse dal giudice tributario di primo grado, seppur consolidata e autorevole, faccia riferimento ad un contesto normativo (2008) che non appare congruente con la normativa vigente in materia di imposizione immobiliare a seguito del-l’introduzione dell’IMU.

In questa ottica è da considerarsi il regolamento approvato Decreto Mini-steriale 19 novembre 2012, n. 200 che disciplina le modalità con cui ricono-scere l’esenzione dall’IMU per gli enti che svolgono attività non commerciali di cui all’art. 7, com,ma 1, lett. i), d.l. n. 504/1992, abrogandone, di fatto, la precedente interpretazione e senza far riferimento alcuno al requisito dell’uti-lizzo diretto dell’immobile quale condizione sine qua non per poter beneficia-re dell’esenzione dall’imposta secondo la citata sentenza della Corte di Cassa-zione del 2008.

La condizione di mancato utilizzo da parte di ATC Torino parrebbe supera-ta, ad ogni modo, anche dalla lettura congiunta della risoluzione MEF 4 marzo 2013 n. 4/DF che, seppur escludendo l’applicazione dell’esenzione dall’impo-sta per gli immobili concessi in locazione presupposto sul fatto che l’ente pro-prietario ne tragga un reddito (come nel caso di ATC Torino), ha chiarito la distinzione tra soggetto possessore e soggetto utilizzatore e dall’art. 4 del cita-to regolamento MEF n. 200/2012 secondo il quale l’attività istituzionale della ricettività sociale svolta è da intendersi svolta con modalità non commerciali se effettuata dietro un corrispettivo di importo simbolico e, comunque, non superiore alla metà dei corrispettivi medi previsti (come nel caso di ATC To-rino) per analoghe attività svolte con modalità concorrenziali nello stesso am-bito territoriale, tenuto conto dell’assenza di relazione con il costo effettivo del servizio.

Nella sostanza, al di là del requisito dell’utilizzo diretto dell’immobile (che parrebbe soddisfatto alla luce della recenti modifiche ed interpretazioni nor-mative) i requisiti generali e specifici di un ente che svolge attività non com-merciali per beneficiare dall’esenzione IMU sono da valutarsi alla luce delle nuove disposizioni previste dal regolamento MEF n. 200/2012.

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Saggi

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La rettifica unilaterale notarile ex art. 59-bis della legge notarile Giulio Piroso

SOMMARIO

1. Definizione – Cenni introduttivi. – 2. Elementi della rettifica unilaterale. – 3. Ambito di appli-cazione. – 4. I dati non rattificabili. – 5. Conseguenze sanzionatorie. – 6. Effetti della rettifica.

1. Definizione – Cenni introduttivi

La rettifica unilaterale per atto notarile è disciplinata dall’articolo 59/bis della legge notarile, secondo il quale “il notaio ha facoltà di rettificare, fatti salvi i diritti dei terzi, un atto pubblico o una scrittura privata autenticata, con-tenente errori od omissioni materiali relativi a dati preesistenti alla sua reda-zione, provvedendovi, anche ai fini del l’esecuzione della pubblicità, mediante propria certificazione contenuta in un atto pubblico da lui formato”. La norma è stata introdotta dal d.lgs. 2 luglio 2010, n. 110, a sua volta emanato in attua-zione della delega contenuta nell’art. 65 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile).

L’elencazione puntuale delle fonti è necessaria perché ci fornisce le coordina-te con cui procedere all’interpretazione dell’istituto. Da un lato, appare evidente che la rettifica si pone nell’alveo di un processo di semplificazione che il legisla-tore ha voluto estendere al procedimento di correzione degli atti notarili. Di qui il favor con cui va guardata la possibilità di applicare la norma. D’altro canto, dalla semplice lettura dell’articolo, si evince che l’atto in questione viene formato in assenza delle parti private; con tutte le ovvie cautele che questo comporta per evitare che il notaio, da solo, possa determinarne il contenuto essenziale.

2. Elementi della rettifica unilaterale

L’esigenza di correggere atti notarili non nasce certo con l’art. 59-bis l.n. Già in precedenza i notai utilizzavano il negozio di rettifica nel quale inter-

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venivano tutte le parti dell’atto originario, o alcune di esse, per rinnovare, sta-volta in forma corretta, la propria volontà 1. Il negozio di rettifica continua ad essere applicabile; ma la prassi ha dimostrato che non è privo di inconvenienti. Si pensi alla difficoltà, quando non all’impossibilità di reperire le parti in caso di errore scoperto dopo molto tempo; si pensi ancora all’ipotesi che tra le parti sia insorta litigiosità, e così via.

Opportunamente dunque, il legislatore ha affiancato al rimedio tradizionale un nuovo istituto caratterizzato da maggiore scioltezza ed agilità, visto che non prevede l’intervento delle parti private in atto. Questo però dà luogo a problemi interpretativi in ordine alla natura della rettifica nonché alla sua sfera di applicabilità. Come detto, il presupposto è duplice, e risiede nel fatto che l’errore sia “materiale” e relativo a dati preesistenti all’atto da correggere.

Esaminiamo questi due elementi. La dottrina è concorde nel ritenere che l’errore materiale, e quindi rettificabile, sia un vizio di scarso rilievo, tale cioè da escludere ogni interferenza con il processo di formazione della volontà del-le parti e riguardante invece la sua sola estrinsecazione 2.

L’impossibilità di utilizzare la rettifica per correggere vizi della volontà è diretta conseguenza della peculiare caratteristica dell’istituto: di essere un atto senza parti 3. Non essendovi parti private, è conseguentemente esclusa ogni indagine sulla volontà, che è prescritta dall’art. 47 l.n. per gli atti in cui inter-vengono soggetti privati. In altri termini: ogni qual volta per correggere un at-

1 Prassi del resto nota alla giurisprudenza: si veda ad esempio, Trib. Arezzo, Decr. 15, 20 settembre 1986, in Rivista del Notariato 1986, 201 secondo cui “gli effetti (della rettifica) do-vrebbero comunque ricondursi all’atto originario di compravendita rettificato: è poiché trattasi di un contratto, non può farsi a meno, anche per la rettifica, della partecipazione di tutti quanti hanno partecipato all’atto originario. In Trib. Roma, 24 maggio 2000 si sostiene che nella retti-fica possa intervenire la sola parte acquirente, se il venditore risulti irreperibile, è sempre a condizione che vi sia “prova certa che non sussistevano incertezze in ordine all’effettiva consi-stenza dell’oggetto della prestazione”. In entrambi i casi la rettifica riguardava errori nella de-scrizione degli estremi identificativi catastali dei beni compravenduti.

2 La dottrina soprattutto in sede di primo esame dell’istituto ha operato un raffronto tra la rettifica notarile e gli istituti omonimi in campo giudiziario ed amministrativo. Si vedano MAURO LEO, Osservazioni sulla rettifica degli atti “certificata” dal notaio, studio, 618-2010, 3-5, secondo il quale “si tratta di un vizio non riconoscibile né dal notaio né dalle parti che non inficia la sostanza dell’atto sul quale la volontà si è correttamente formata, ma solo la sua rap-presentazione documentale.”; per PETRELLI, Rettifica di errori materiali negli atti notarili, 5/6 si tratta di una “svista”; opinioni simili in BOERO-IEVA, La legge notarile commentata, Milano 2014, 451/452 e in CARLINO, Rettifica degli errori materiali negli atti notarili, in Gazzetta no-tarile, anno XXXVI, 34.

3 PETRELLI, op. cit., 7.

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to precedente, il notaio deve far ricorso alla funzione di adeguamento, gli è preclusa la strada della rettifica ex art. 59-bis l.n.. Oltre che materiale, il dato da correggere deve essere preesistente alla redazione dell’atto errato.

Questo carattere sottolinea ulteriormente l’assenza di ogni aspetto discre-zionale nel rogito di rettifica. Si tratta semplicemente di accertare l’esistenza di elementi oggettivi, ad esempio perché risultanti da pubblici registri, compi-lati prima della redazione dell’atto, che sono stati trasfusi in maniera errata nell’atto. Al riguardo è stato acutamente notato 4 che mentre sarebbe possibile rettificare un atto in cui è stato inserito un estremo identificativo catastale erra-to, non altrettanto sarebbe possibile fare se lo stesso dato venisse modificato successivamente alla redazione del rogito: mancherebbe in quest’ultimo caso, l’anteriorità del dato necessariamente richiesta dalla legge.

3. Ambito di applicazione

Abbiamo visto che le caratteristiche dell’errore limitano l’ambito di appli-cazione dell’art. 59-bis l.n. ad aspetti secondari del rogito. Ciò non vuol dire necessariamente che gli atti di rettifica saranno poco numerosi nella pratica; ma soltanto che prescindono da ogni tipo di accertamento e valutazione della volontà delle parti. L’attività meramente oggettivo-ricognitiva cui il notaio deve limitarsi, giustifica, tra l’altro, la liceità di una rettifica di un atto prove-nente da un altro notaio. Per lo stesso motivo, come vedremo, è lecita la retti-fica notarile di atti pubblici amministrativi redatti da pubblici ufficiali 5.

Quanto ai dati concretamente rettificabili, la dottrina presenta un sostanzia-le accordo di vedute. Ciò è dovuto da un lato ai rigidi paletti normativi che po-co spazio lasciano alla discrezionalità; e dall’altro, all’applicazione in certo qual senso analogica delle regole stabilite per la correzione di atti giudiziari ed amministrativi 6.

Non bisogna però confondere un procedimento interpretativo con cui si ricostruisce l’istituto in discorso, con il suo ambito di applicazione. La retti-fica notarile non si applica, infatti, agli atti giudiziari (stante l’esplicita riser-va posta dagli artt. 287 ss. c.p.c.), né ai provvedimenti amministrativi, che possono essere rettificati soltanto dell’autorità che li ha emanati.

4 CASU, La rettifica degli atti mediante certificazione notarile, 7, in Atti del convegno di studio del Comitato Notarile Interregionale Abruzzo e Molise.

5 LEO, Osservazioni, cit., 7. 6 Si veda Cassazione 24 marzo 1992, citata da Casu, secondo la quale la correzione di una

sentenza non costituisce un nuovo giudizio.

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Ciò posto, esaminiamo i singoli aspetti di un atto notarile che sono rettifi-cabili.

Dati catastali

Statisticamente si tratta di uno degli errori più corretti; e, in effetti, il dato catastale presenta le caratteristiche tipiche di un elemento accessorio e preesi-stente che possono renderlo oggetto di un atto di rettifica.

Si tratta infatti di un elemento già inscritto in pubblici registri nel momento in cui viene confezionato l’atto destinato a contenerlo: rispetta dunque il re-quisito dell’anteriorità richiesto dall’art. 59-bis. Inoltre, l’indicazione del dato catastale è estraneo al processo formativo della volontà, risolvendosi in un ri-mando ad un elemento esterno e, si ripete, già formato al momento della stipu-la. È quindi un dato materiale nel senso già chiarito 7.

Ed infatti, le parti ricorrono ai dati catastali in funzione accessoria e confer-mativa rispetto all’indicazione dei confini e delle coerenze del bene trasferito (mappali confinanti, altre unità immobiliari, parti condominiali e così via). Quindi l’identificazione del bene è affidata in primo luogo, e soprattutto, al-l’indicazione dei suoi limiti fisici, è solo in via subordinata, alla trascrizione de-gli estremi catastali. Ecco allora che questi ultimi “non incidono sulla sostanza del trasferimento, e ciò consente quindi di escludere che l’errore su quei dati produca ambiguità ed oscurità sull’oggetto del negozio” 8. Al riguardo occorre però precisare che la dottrina opera una sottile distinzione tra l’ipotesi anzidetta in cui l’indicazione catastale ha mero valore rafforzativo di una descrizione del-l’oggetto già completa, ed il caso in cui le parti si affidino per identificare il be-ne, ai soli dati catastali, omettendo qualsiasi altra indicazione.

In quest’ultimo caso, il dato catastale assurge ad unico criterio di determi-nazione dell’oggetto e pertanto non può essere rettificato. È vero che si tratta sempre dello stesso elemento, ma è diverso il rilievo che assume nel processo formativo della volontà. Quando le parti identificano il bene negoziato con la sua descrizione e con l’indicazione delle coerenze, il dato catastale rappresen-ta soltanto un elemento sussidiario 9. Tanto è vero che in caso di divergenza tra

7 È significativo che la dottrina, anteriormente all’introduzione della norma in esame, am-metteva già la liceità di un atto unilaterale di rettifica, appunto in virtù dell’attività meramente certificativa compiuta dal notaio. Cfr. IACCARINO, Rettifica unilaterale di dati catastali, in No-tariato, 2004, 624.

8 Leo, Osservazioni, cit., 11. 9 Orientamento giurisprudenziale consolidato. Si vedano ad esempio, Cass. 10 gennaio

1976, n. 45 o la più recente Cass., sez. II, 7 maggio 1980, n. 3018 in Vita Notarile, 1981, 724.

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l’indicazione dei confini fornita dalle parti e gli estremi catastali risultanti dai pubblici registri, l’esatta individuazione dei beni viene fornita dalla prima e non dai secondi 10. Se invece i contraenti hanno inteso identificare l’immobile unicamente con i dati riportati a catasto, questi esauriscono l’oggetto contrat-tuale e pertanto sono sottratti (al pari di qualunque elemento pattizio essenzia-le) alla rettifica unilaterale ad opera del notaio. Occorrerà un negozio di rettifi-ca, con l’intervento delle parti originarie o almeno di alcune di esse 11.

In effetti, le parti private ricorrono, solitamente, ai dati catastali in funzione accessoria e confermativa rispetto al l’indicazione delle coerenze o dei confini del bene trasferito (mappali confinanti, altre unità immobiliari, parti condomi-niali, e così via). Quindi, l’identificazione del bene è affidata in primo luogo alla sua descrizione, nonché al l’indicazione dei suoi limiti fisici e solo in via subor-dinata alla trascrizione degli estremi catastali. Ecco allora che questi ultimi “non incidono sulla sostanza del trasferimento, e ciò consente quindi di escludere che l’errore su quei dati produca ambiguità ed oscurità sull’oggetto del negozio” 12.

Dati anagrafici

Quanto detto sopra vale anche per i dati anagrafici delle parti intervenute in atto e trascritti in maniera errata. Anche in questo caso si è in presenza di dati preesistenti al rogito, essendo iscritti in pubblici registri. Quindi l’attività del notaio è di mero accertamento, scevra di profili valutativi, pertanto l’unilate-ralità della rettifica è da considerarsi senz’altro ammissibile 13.

Prezzo

Il discrimine dell’attività valutativa del notaio vale anche a stabilire quando è possibile rettificare il prezzo di un bene oggetto dell’atto. Sarà vietata una

10 DI FABIO, Manuale di notariato, 185, Milano, 2007. 11 LEO, Studio 618-2010, cit., 10. Si veda anche, per l’atto di rettifica, CASU, op. cit., 3, sul-

la necessità della presenza o meno di tutte le parti nella previgente disciplina. 12 LEO, Studio 618-2010, cit., 11. Vale la pena di osservare, riguardo alla natura accessoria

dei dati catastali, che anche prima dell’introduzione dell’art. 59-bis della legge notarile, parte della dottrina ammetteva la possibilità di rettificarli unilateralmente. Cfr. IACCARINO, Rettifica unilaterale di dati catastali in Notariato, 6/2004, 623 ss.

13 Sempre che l’errore possa qualificarsi come materiale: si veda al riguardo PETRELLI, op. cit., 13, secondo cui occorre “che dal contesto emerga inequivocabilmente che si tratta di quel-la determinata persona e non di un’altra (ad esempio raffrontando la data di nascita errata con il codice fiscale).

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rettifica che comporti la ricostruzione, a posteriori, della volontà delle parti; ed ammessa invece se si tratta di dare atto di dati anteriori al rogito ed erro-neamente riportati.

Così non sarà possibile un atto in cui le parti abbiano dichiarato un prezzo che il notaio ha trascritto erroneamente. Si capisce perché: qui la rettifica pre-supporrebbe ripercorrere a ritroso il processo che ha determinato la pattuizio-ne. In assenza dei privati, sarebbe il notaio a determinare la manifestazione della loro volontà; il che non è ovviamente consentito. Al riguardo si è osser-vato che l’errore del notaio (nell’atto originario) si estenderebbe alle parti con la lettura dell’atto e la sua approvazione da parte dei comparenti, con il che, la cifra, pur erroneamente trascritta dal notaio, sarebbe fatta propria dai privati 14.

Diverso è il caso in cui l’errore cada sulle modalità di pagamento del prez-zo, come quando si riporta, erroneamente, la cifra scritta su un assegno conse-gnato a titolo di pagamento. In quest’ipotesi, si può ben qualificare l’errore come materiale: infatti il prezzo è stato correttamente dichiarato e trascritto in atto, quindi la volontà delle parti è stata correttamente documentata 15. Inoltre, è soddisfatto il requisito della preesistenza, perché il titolo di pagamento è successivo all’accordo sulla quantificazione del prezzo. Perciò il notaio deve solo compiere un accertamento volto ad appurare la difformità tra il dato cor-retto ed antecedente (l’accordo delle parti) e l’erronea trascrizione del del con-tenuto del titolo di pagamento.

4. I dati non rettificabili

Va ribadito, per individuare un principio valido in ogni possibile caso, che il confine entro cui è possibile la rettifica unilaterale è dato dal sostanziarsi dell’azione del notaio in una mera azione di accertamento di dati precedenti alla redazione dell’atto e non implicanti in sede di correzione, un accertamento della volontà dei soggetti privati. Tra le parti dell’atto sottratte alla rettifica unilaterale, va annoverato sicuramente l’oggetto, nelle varie forme e contenuti che può assumere in base alla volontà di volta in volta manifestata. È evidente infatti che il regolamento pattizio non può essere disciplinato dal notaio, che, altrimenti, assumerebbe la qualifica di parte.

14 LEO, Studio 618-2010, cit., 12. 15 Cfr. Rettifica unilaterale dell’errore sul l’importo di uno degli assegni consegnati al no-

taio a titolo di prezzo. Risposta a quesito n. 454/2012 dell’Ufficio Studi del Consiglio Naziona-le del Notariato.

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Passando all’esame di casi pratici, la decisione della Commissione Ammi-nistrativa Regionale di Disciplina (d’ora in poi COREDI) della Toscana del 27 novembre 2014, ha giudicato non lecito, perché ricevuto al di fuori della com-petenza attribuita dall’art. 59/bis, un atto di rettifica unilaterale in cui il notaio ha dichiarato che oggetto di una precedente compravendita doveva essere non la quota di 1/12, ma quella di 6/12 di proprietà. Ha osservato la Commissione che “l’errore cosiddetto materiale oggetto della rettifica di cui all’art. 59/bis della legge notarile può considerarsi tale solo quando nell’atto sia ravvisabile con assoluta certezza la volontà del suo autore, cosicché l’integrazione può considerarsi una operazione puramente meccanica e quindi tale da escludere qualsiasi attività interpretativa da parte del notaio (in tal senso Carlino, Rettifi-ca di errori materiali negli atti notarili, in Gazzetta Notarile, 2011, n. 1/3, 32)”. Mentre l’ammontare della quota compravenduta non può essere deter-minata in base a dati oggettivi e preesistenti, bensì soltanto con un’attività va-lutativa della volontà delle parti.

Ancora più evidente l’impossibilità di rettifica notarile allorquando nell’at-to che viene corretto siano stati venduti dei beni che i privati non intendevano trasferire. Di un’ipotesi del genere si è occupata COREDI Toscana del 7 mag-gio 2015 cui è stato sottoposto il caso di una rettifica di un precedente atto in cui le parti, intervenute per mezzo di rappresentante, avevano trasferito un ga-rage che invece non era loro intenzione compravendere.

La Commissione ha rilevato che non spetta “l’attribuzione al notaio del po-tere di certificare che un determinato immobile era stato trasferito per errore e che invece le parti non intendevano trasferirlo, qualificando tale errore come relativo a dati preesistenti ed arguendo tale preesistenza dalla circostanza che la procura abilitante il rappresentante ad emettere dichiarazione di volontà in nome del rappresentato non facesse riferimento anche a tale immobile.” La mancanza di tale potere si desume non solo dalla funzione di adeguamento di cui all’art. 47 l.n.; ma anche dal combinato disposto degli artt. 51, n. 8, 58, n. 6 della legge e 67 del regolamento notarile che “imponendo al notaio la lettura dell’atto dopo il suo confezionamento, permettono alle parti di verificare che quanto riprodotto nel documento dal pubblico ufficiale rogante corrisponda alla loro volontà precedentemente dichiaratagli”.

Quindi, “se le parti hanno ascoltato quanto letto dal notaio e poi l’hanno approvato e sottoscritto, la loro volontà deve intendersi efficacemente manife-stata ed atta a produrre effetti giuridici”. Dopodiché è escluso che il notaio possa intervenire rettificando quanto dichiarato dalle parti. Infatti, “la rettifica è mera dichiarazione di scienza è mai dichiarazione di volontà; essa è pertanto preclusa ogni qualvolta sussistano elementi di incertezza riguardo all’esistenza o al contenuto dell’errore, ed in particolare ogni qualvolta sia necessaria un’at-

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tività di interpretazione del contenuto dell’atto, e di indagine nel processo psi-cologico degli autori dello stesso.”

Va escluso anche che si possa rettificare un atto nel quale le parti hanno ceduto un diritto al posto di un altro. È il caso portato all’esame di COREDI Lombardia del 1° ottobre 2015 chiamata a pronunciarsi su una rettifica unila-terale con cui erano stati corretti precedenti atti oggetto dei quali era la cessio-ne del diritto di proprietà superficiaria e non, come le parti intendevano, di piena proprietà. Secondo la Commissione va esclusa la possibilità di “far ri-corso all’art. 59-bis l.n. per rettificare il diritto (oggetto) di una compravendi-ta, laddove non si trattasse di correggere una dizione che risultasse chiaramen-te errata con un procedimento di mero riscontro.”

Un elemento siffatto può ben essere corretto unilateralmente dal notaio; al contrario, la determinazione circa il tipo di diritto da cedere spetta alle parti private e solo a loro. E il notaio che non si attiene a questa regola, infrange il principio generale dell’intangibilità della sfera giuridica altrui.

Sempre a proposito di atti non rettificabili, merita rilevare che sia la deci-sione appena vista che quella dianzi citata della COREDI Toscana del 7 mag-gio 2015, escludono la possibilità di rettificare atti aventi ad oggetto diritti rea-li. Testualmente: “va poi dato il massimo rilievo al giudizio di questa Com-missione secondo cui la rettifica di cui all’art. 59-bis l.n. è preclusa quando il contratto che si intende rettificare abbia prodotto effetti di natura reale, in quanto tali non modificabili se non previa nuova manifestazione di volontà delle parti”.

Neppure sono rettificabili gli atti nulli. È evidente, infatti, che la nullità rende l’atto improduttivo di effetti, quindi non avrebbe senso correggerne un elemento di minore importanza che non fa venir meno la causa di nullità. Ma al di là di questa argomentazione di “buon senso”, occorre dire che ostano ra-gioni di carattere più propriamente giuridico:

1) la rettifica unilaterale non incide sul piano dell’efficacia, che resta quella prodotta dall’atto rettificato. Essa è dunque uno strumento del tutto inconfe-rente per rimuovere gli effetti della nullità;

2) va poi sempre ricordato il disposto dell’art. 1423 c.c., per cui la nullità è sempre insanabile, a meno che la legge non ne consenta la convalida. Questa però va prevista da specifiche disposizioni di legge e non può certo identifi-carsi con uno strumento di portata generale quale è quello previsto dall’art. 59/bis della legge notarile.

Pertanto, non rientrano tra gli atti rettificabili non possono rettificarsi atti nulli per carenza di menzioni in materia urbanistica, ad esempio perché man-canti dell’indicazione della conformità dei fabbricati ai dati catastali ed alle

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planimetrie; lo stesso è a dirsi per atti dispositivi di diritti reali su terreni, mancanti del certificato di destinazione urbanistica; ancora non possono essere rettificati atti che violano l’art. 46 del Testo Unico sull’Edilizia 16.

5. Conseguenze sanzionatorie

Si è visto sopra che la rettifica non è idonea a modificare l’efficacia sostan-ziale dell’atto, ma soltanto ad eliminarne dei difetti sul piano materiale 17, e che se usata al di fuori dei limiti previsti dal legislatore (ad esempio, per “cor-reggere” cause di nullità), essa è improduttiva di effetti. Ma un atto rogato senza rispettare la competenza prevista dalla legge, pone altresì il problema della responsabilità disciplinare del pubblico ufficiale.

La dottrina, già in sede di prima analisi della norma, ha prospettato una violazione dell’art. 28 l.n.; in quanto un atto rogato al di fuori delle proprie at-tribuzioni, è senz’altro da considerare non consentito dalla legge (Petrelli). Al-la stessa conclusione giunge anche Carlino 18, prendendo spunto dalla giuri-sprudenza formatasi in tema di verbali di constatazione e precostituzione di prove testimoniali da parte del notaio 19.

In accordo, la maggioranza delle decisioni prese dalla giurisprudenza am-ministrativa delle COREDI 20 . Condividiamo quest’opinione, espressa con particolare efficacia da COREDI Toscana del 7 maggio 2015: “... anche a con-

16 La casistica è di CASU, op. cit., 9, il quale aggiunge all’elenco gli atti mancanti di firma delle parti o del notaio (art. 58 l.n.). L’Autore invita opportunamente a non confondere con la rettifica le ipotesi in cui gli atti anzidetti possono essere confermati o sanati. In questi casi oc-corre, se consentita dall’ordinamento, una nuova manifestazione di volontà delle parti, che è cosa diversa dalla certificazione in cui si risolve la rettifica unilaterale.

17 Lo si riscontra anche nella tecnica redazionale dell’atto suggerita dalla dottrina, per cui la rettifica dovrebbe constare di tre parti:

– l’indicazione dell’errore; – l’accertamento, con funzione certificativa, del dato corretto; – la rettifica vera e propria con la sostituzione del dato sbagliato con quello esatto. 18 Rettifica degli errori materiali negli atti notarili. In Gazzetta Notarile, XXXVI, 43. 19 Ben si intende che conteniamo il nostro ragionamento alla responsabilità disciplinare che

presuppone un atteggiamento psicologico di buona fede, pur nel mancato rispetto dei limiti della propria competenza. In caso di volontarietà della dichiarazione falsa, con la consapevo-lezza del suo carattere inveritiero, il notaio risponde di falsità ideologica commessa da pubbli-co ufficiale in certificazione (art. 480 c.p. – Cass. pen., sez. V, 9 luglio 2014, n. 41172).

20 Cfr. COREDI Toscana del 27 novembre 2014, 20 febbraio 2015 e 7 maggio 2015, CO-REDI Lombardia del 26 novembre 2015.

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siderare il solo significato logico dell’espressione il notaio ha facoltà di retti-ficare, fatti salvi i diritti dei terzi, un atto pubblico o una scrittura privata au-tenticata contenente errori od omissioni materiali relativi a dati preesistenti alla sua redazione, ne discende che il notaio che infranga detto limite (e dun-que, in negativo, il notaio che rettifichi atto che non contenga errori materiali), compia un atto proibito dalla legge e, in quanto tale, sussumibile nella fatti-specie prevista dall’art. 28 n. 1 della legge notarile”.

Per completezza, diamo conto anche dell’opinione, minoritaria, che nega l’applicabilità dell’art. 28 l.n. al caso di specie 21. Al riguardo si è sostenuto che presupposto dell’art. 28 è la nullità assoluta dell’atto, mentre la rettifica, se rogata non rispettando i limiti di legge, sarebbe soltanto inefficace.

Anche nell’ambito della magistratura togata non si registra unanimità di vedute. Da un lato infatti, una Corte d’Appello 22 ha respinto la doglianza contro una condanna inflitta dalla COREDI per violazione dell’art. 59-bis e conseguente responsabilità ex art. 28, n. 1, l.n., con la seguente motivazione: “laddove la legge richiede che la rettifica consista in una certificazione di dati preesistenti, deve ritenersi che i dati da sostituire (errore) o da ricostrui-re (omissione) debbano emergere immediatamente dallo stesso documento autentico da rettificare, o da altro documento preesistente, così da poter esse-re trasfusi nell’atto rettificato senza interferire senza interferire con la mani-festazione di volontà contenuta nell’atto. È intuitivo che un tale processo di mera sostituzione nominalistica delle espressioni grafiche contenute nell’atto oggetto di rettifica non possa riguardare la manifestazione della volontà ne-goziale”.

Di contro, va registrata una decisione di segno opposto in cui la Corte di Appello di Milano 23 ha riformato una decisione della Commissione di Disci-plina lombarda. In primo grado era stata affermata la responsabilità di un no-taio per violazione dell’art. 28 l.n. per avere egli rogato un atto di rettifica in cui certificava che oggetto dell’atto rettificato era la compravendita della piena proprietà anziché della proprietà superficiaria. La Corte togata ha negato la sussistenza della responsabilità ai sensi dell’art. 28, ma non in senso assoluto; bensì a seguito di una ricostruzione sia dei precedenti dell’atto rettificato che del suo senso complessivo. Si è quindi ritenuto che la rettifica non aveva mo-

21 Sostenuta in COREDI Lazio del 10 settembre 2014 e COREDI Sicilia del 30 ottobre 2012. Conforme anche la recente COREDI Piemonte 25 gennaio 2017.

22 Decreto di rigetto n. 1181/2016 del 27 luglio 2016 della Corte di Appello di Firenze. 23 Corte di Appello di Milano del 18 ottobre 2016 r.g. n. 1600/16 in riforma di COREDI

Lombardia del 26 novembre 2015, n. 161.

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dificato la volontà espressa dalle parti, ma solo rappresentato la successione dei passaggi di proprietà di un mappale; che in questa serie di passaggi si era verificato un errore nella sola intestazione catastale (si era indicato come pro-prietario il Demanio, che invece non aveva acquistato il mappale interessato, ma un sub-mappale); che questo errore era stato poi ripreso negli atti successi-vi.

Per la Corte questa complessa situazione ha integrato i requisiti della mate-rialità e preesistenza dell’errore, e quindi ha consentito un legittimo ricorso all’art. 59-bis l.n. Come si vede, la più recente giurisprudenza esclude la re-sponsabilità ex art. 28 l.n.; ciò nonostante, ad avviso di chi scrive, lo strumen-to della rettifica andrebbe usato con ogni prudenza, essendo destinato a pro-durre effetti nella sfera giuridica di chi non partecipa all’atto.

6. Effetti della rettifica

L’art. 59-bis prevede in capo al notaio, l’obbligo della pubblicità. È sorta questione se sia sufficiente l’annotazione della rettifica, o se invece occorra trascrivere anche l’atto di rettifica con una nota a se stante. La questione è legata all’esigenza di tutelare i diritti dei terzi, espressamente fatti salvi dal-l’art. 59-bis in commento. Parte della dottrina argomenta dalla mancanza di effetti innovativi sostanziali, la non necessità di un’apposita nota di trascri-zione.

La prassi, a quanto ci consta, è di segno contrario, e suffragata da convin-cente dottrina notarile. Ed infatti, è stato giustamente osservato 24 che la nota di trascrizione della rettifica si pone come formalità autonoma, benché colle-gata all’atto che viene corretto. Ora, la nota spiega i suoi effetti dal momento in cui viene trascritta. Quindi, in base alla regola della priorità delle trascrizio-ni, la rettifica non sarebbe opponibile ad un atto precedentemente trascritto; con il che i diritti dei terzi, sempre se hanno trascritto anteriormente, sono fatti salvi, come l’art. 59-bis richiede. La trascrizione della rettifica, dunque, rende opponibile ai terzi l’effettivo contenuto negoziale (Petrelli), ma non può re-troagire; perciò i diritti dei terzi in buona fede che hanno trascritto medio tem-pore sono tutelati.

Se invece si sostiene che, mancando la rettifica di contenuto innovativo, è sufficiente la sola annotazione, questo “non farebbe altro che segnalare che l’atto rettificato è stato fin, dall’origine, inserito nei registri immobiliari

24 LEO, op. cit., 15/16, PETRELLI, op. cit., 15.

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secondo il contenuto risultante dall’attività rettificativa.” (Leo). In conse-guenza, la rettifica verrebbe ad assumere valore retroattivo, prevalendo an-che sulle trascrizioni di terzi, successive all’atto rettificato. Soluzione que-sta in contrasto sia con il principio generale che affida la tutela dei terzi alla priorità delle trascrizioni, che con l’esplicito richiamo fatto dall’art. 59-bis l.n.

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Breve chiosa finale, in tema di rettifica di atti di società di capitali destinati all’iscrizione nel registro delle imprese Maurizio Cavanna

Elementi di flessibilità nelle tecniche di documentazione giuridica, come quelli che esprime l’art. 59-bis l.n. (introdotto dal d.lgs. 2 luglio 2010, n. 110) meritano di essere riconsiderati allorché ad essere formalizzate in un atto nota-rile siano vicende inerenti lo svolgimento dell’attività di impresa. Questo am-bito normativo infatti si rivela essere interessante banco di prova per tale stru-mento di facilitazione nella redazione dei documenti, per ragioni diverse.

È quasi doveroso partire dalla considerazione delle norme dettate in tema di invalidità degli atti costitutivi e delle deliberazioni delle società di capitali, che appaiono tutte improntate al perseguimento del comune obiettivo di stabi-lizzare nella massima misura possibile gli effetti dei medesimi atti e delibera-zioni. La sanatoria ex lege del vizio dell’atto costitutivo di società di capitali una volta che lo stesso sia iscritto presso il registro delle imprese (e sempre al netto dei casi di irregolarità più gravi, che eccezionalmente comportano la nul-lità dell’atto costitutivo medesimo, cui altrettanto eccezionalmente consegue la messa in liquidazione della società), ovvero le regole che prevedono ulterio-ri casi di eccezionale sanatoria delle deliberazioni assembleari (si pensi ad esempio a talune specie descritte nell’art. 2479-ter c.c.), rendono manifesta l’intenzione del legislatore di escludere la rilevanza di taluni vizi meno signi-ficativi del processo di documentazione. Per essi pertanto non si pone la ne-cessità di procedere ad alcuna rettifica, essendo ex lege inidonei a produrre al-cun difetto dell’atto. Nulla invero sembra possa impedire di introdurre una ret-tifica dell’atto medesimo, che, ove ne sussistano i presupposti, potrà essere in-serita unilateralmente dal notaio ai sensi del citato art. 59-bis l.n.

Lo stesso si può forse argomentare con riguardo al caso di altri errori nella documentazione giuridica delle vicende assembleari, che siano pur sempre qualificati come privi di valenza giuridica da legge. È ad esempio il caso del-l’errore del conteggio dei voti che si riveli non decisivo ai fini dell’assunzione della deliberazione collegiale: laddove la stessa deliberazione deve intendersi pur sempre validamente assunta anche se, in ipotesi, la percentuale di capitale che la approva è in realtà più ampia di quella che è stata documentata nel ver-

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bale. Ovvero anche il caso del voto che si dimostra essere stato invalidamente espresso e quindi erroneamente conteggiato a favore, allorché la maggioranza che sorregga la decisione sia comunque sufficiente a determinare l’appro-vazione dell’ordine del giorno (secondo lo schema della c.d. prova di resisten-za). O ancora potrebbe venire in evidenza la speculare ipotesi della delibera negativa, allorquando dovesse emergere che si sia indebitamente tenuto conto di alcuni voti contrari all’approvazione dell’ordine del giorno, allorquando an-che senza il loro conteggio non si sarebbe comunque raggiunto il quorum de-liberativo necessario alla sua approvazione. Nulla impedisce peraltro che, per chiarezza, compiutezza e correttezza di informazione, il verbale-atto notarile possa essere rettificato unilateralmente dal notaio che lo ha ricevuto.

In altre parole, per la formalizzazione dell’atto costitutivo delle società di capitali ovvero la documentazione giuridica degli eventi assembleari, il legi-slatore indica un più ristretto ambito di rilevanza di taluni errori o vizi dei rela-tivi atti, al deliberato obiettivo di favorire la stabilità degli assetti delle società munite di personalità giuridica. In tale contesto, la rettifica, pur sempre am-missibile, assume una valenza meno decisiva: essa vale a meglio puntualizzare e “ripulire” i contenuti oggetto di documentazione, mentre per legge i vizi sa-rebbero già di per sé non significanti a prescindere da qualsiasi rettifica o va-riazione ex post.

In altre occasioni, per contro, la rettifica dell’atto può apparire insufficiente a completare il contenuto dell’atto da emendare, soprattutto in funzione del controllo che segue sull’atto medesimo e la connessa pubblicità presso il regi-stro delle imprese. Anche in questo caso l’approccio sembra debba essere ca-sistico. Si pensi all’ipotesi che il difetto di documentazione incida sui presup-posti di iscrivibilità al registro delle imprese di un verbale redatto in forma pubblica: ad esempio si riunisce l’assemblea e l’ordine del giorno viene ap-provato sulla base di un quorum deliberativo che poi si scopre inidoneo in quanto previsto dal previgente statuto mentre l’attuale richiede un consenso più ampio. L’errore evidentemente qui consiste nell’aver preso in considera-zione ai fini del computo del quorum un testo statutario non aggiornato: que-sta circostanza certo può essere fatta constare con un atto rettificativo, ma è dubbio che il semplice emendamento dell’atto “verbale” possa essere suffi-ciente a correggere l’errore. Qui infatti il discorso è più delicato, in quanto l’assemblea ha proclamato il risultato favorevole all’accoglimento dell’ordine del giorno e quindi si tratta di comprendere come la rettifica possa incidere sul procedimento che conduce all’iscrizione presso il registro delle imprese.

Ora, può accadere che l’errore sia scoperto prima dell’iscrizione al registro del verbale: in questa evenienza il notaio potrà comunicare agli amministratori della società che non sussistono i presupposti per l’iscrizione dell’atto al regi-

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stro, consigliando magari di riconvocare nei termini l’assemblea per verificare se la decisione possa essere presa con il quorum maggiorato previsto dal vi-gente statuto. A prescindere dalla circostanza che nel frattempo sia rinnovata la convocazione e possa essere nuovamente chiamata ad esprimersi l’assem-blea di quella società, il primo verbale non sarà iscritto al registro delle impre-se.

Più delicata è la situazione che si verrebbe a delineare allorché quel verbale fosse già stato iscritto al registro delle imprese. In tale evenienza infatti la ret-tifica dell’atto gioverebbe a poco, se ad essa non si accompagnasse altresì una qualche forma di pubblicità presso il registro delle imprese, volta a far consta-re il difetto non solo dei contenuti dell’atto ma anche della pubblicità che ne è scaturita.

Pare che in questi casi non si possa prescindere dalla procedura indicata da legge, che ammette la sanatoria delle delibere annullabili o nulle previa reite-razione sostitutiva della delibera viziata (v. artt. 2377, penultimo capoverso, e 2379-bis c.c.), quand’anche il vizio sia riscontrabile oggettivamente e “sulla base di dati preesistenti” alla redazione del verbale. In tal modo sarebbe iscrit-ta al registro delle imprese una delibera valida, ma solo previa ripetizione del-la delibera assembleare e non su iniziativa unilaterale del notaio.

Diversamente si dovrebbe valutare se l’atto di rettifica unilateralmente pro-dotto dal notaio possa essere “titolo idoneo” ad ottenere la cancellazione dal registro delle imprese della deliberazione indebitamente iscritta, per sé o quan-to meno previa attivazione del procedimento di cancellazione d’ufficio.

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L’accordo del debitore: presupposti, finalità, modalità, prime criticità operative, prospettive di riforma Mariateresa Quaranta

SOMMARIO

1. La disciplina del sovraindebitamento: un breve inquadramento. – 2. Una precisazione lessi-cale. – 3. I presupposti dell’ammissibilità. – 4. L’accordo del debitore: profili di sintesi. – 5. Intersezioni tra accordo del debitore e fallimento. – 6. Accordo del debitore e start up. – 7. Uno sguardo alla casistica. – 8. La Riforma Rordorf.

1. La disciplina del sovraindebitamento: un breve inquadramento

Com’è noto, l’introduzione delle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento è il punto di arrivo di un percorso normativo lungo e complesso.

Basterà qui ricordare i provvedimenti normativi che si sono rapidamente succeduti: il d.l. 22 dicembre 2011, n. 212, che prevedeva un primo nucleo della disciplina dell’insolvenza dei soggetti non fallibili, non fu convertito in legge; gli artt. 6 e ss. della l. 27 gennaio 2012, n. 3 furono modificati, a stretto giro, già dal d.l. 18 ottobre 2012, n. 79, convertito in legge 17 dicembre 2012, n. 221; due anni più tardi, è intervenuto il d.m. 24 settembre 2014, n. 202, che ha istituito il registro degli organismi autorizzati alla gestione della crisi da sovraindebitamento.

A tal proposito, la dottrina non ha mancato di rilevare che un simile “acci-dentato cammino” ha avuto quale esito “un testo normativo poco lineare, spesso confuso e con numerose sovrapposizioni, e persino con qualche con-traddizione” (Costa, Profili problematici della disciplina della composizione delle crisi da sovraindebitamento, in Impresa e mercato. Studi dedicati a Ma-rio Libertini, III, Milano, 2015, 1314).

Al netto di tale prima criticità, si è osservato che con la disciplina del so-vraindebitamento “lo Stato affida all’autonomia negoziale la gestione del so-vraindebitamento del debitore civile e prende atto della necessità di un inter-vento in tal senso per evitare ripercussioni ulteriori sull’economia nazionale”

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(Rossi Carleo, Oltre il consumatore nel tempo della crisi: le nuove competen-ze dell’AGCM, in AA.VV., Le obbligazioni e i contratti nel tempo della crisi economica. Italia e Spagna a confronto, a cura di Grisi, Napoli, 2014, 253 ss.).

Vale la pena ricordare che le procedure di sovraindebitamento rappresenta-no un notevole cambio di prospettiva da parte dell’ordinamento: il sistema ita-liano regolava sin qui l’insolvenza del debitore civile applicando pedissequa-mente le norme in materia di espropriazione forzata.

Viceversa, la nuova disciplina introduce chiari profili di concorsualità nel trattamento del sovraindebitamento del debitore che, per espressa previsione legislativa, non può accedere alle ordinarie procedure concorsuali.

Non è superfluo ricordare quale sia l’origine storica dell’impostazione sin qui seguita dal legislatore: il primo codice di commercio unitario, introdotto nel 1865 sulla falsariga del codice sardo, così come il codice di commercio del 1882 erano piuttosto netti nel delimitare l’ambito di operatività del fallimento.

Poteva infatti fallire soltanto colui che si fosse trovato in una situazione di “cessazione dei pagamenti”: un’espressione, quest’ultima, che portava a far coincidere pacificamente la figura del soggetto fallibile con quella del com-merciante.

Ciò premesso, resta da chiedersi quali possano essere le ragioni di un mu-tamento di prospettiva così profondo: tra le soluzioni prospettate dagli inter-preti si segnala quella secondo cui il problema della globalizzazione delle economie e il carattere transnazionale dei mercati ha portato alla ribalta co-me nuovo fenomeno economico sociale il vistoso incremento dell’attitudine al consumo e, quindi, il crescente ricorso al credito, come strumento di finan-ziamento, da parte di categorie, persone fisiche e nuclei familiari, che tradi-zionalmente si ponevano in posizione marginale o residuale rispetto a tali tecniche” (in questi termini, vedi Frascaroli Santi, Procedimento di composi-zione della crisi da sovra indebitamento e di liquidazione del patrimonio, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da Vassalli-Luiso- Gabrielli, Torino, 2014, 544).

Ci si può ora soffermare sulle linee essenziali della nuova normativa. È noto che essa ha introdotto due procedure – accordo del debitore e piano

del consumatore – dirette entrambe a rimediare alla situazione di sovraindebi-tamento secondo un piano proposto dallo stesso debitore.

In via alternativa, è altresì prevista la possibilità di procedere alla liquida-zione del patrimonio.

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2. Una precisazione lessicale

Occorre sottolineare che la legge n. 3/2012, mutuando un’impostazione ti-pica dei sistemi di Common Law, offre in apertura all’interprete alcune nota-zioni terminologiche, specificando quale sia il significato di alcuni lemmi che ricorrono nella legge stessa.

Si chiarisce così, ad esempio, che “sovraindebitamento” è “una situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio pronta-mente liquidabile per farvi fronte, nonché la definitiva incapacità del debitore di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni ovvero la definitiva inca-pacità di adempierle regolarmente” (art. 6, lett. a).

Resta fermo che il debitore che può accedere alle procedure di cui alla l. 3/2012 è soltanto il soggetto che versi in una situazione di sovraindebitamento non assoggettabile alle procedure concorsuali ordinarie (art. 6, comma 1).

3. I presupposti di ammissibilità

L’art. 7 della legge n. 3/2012 individua alcuni presupposti che devono essere rispettati affinché il soggetto possa accedere alle procedure di sovraindebitamen-to (per il piano dei consumatori si veda quanto stabilito dal comma 1-bis, art. 7).

L’accordo:

− deve assicurare il regolare pagamento dei titolari di crediti impignorabili (ai sensi dell’art. 545 c.p.c. e delle leggi speciali);

− deve prevedere scadenze e modalità di pagamento dei creditori di ciascu-na classe;

− deve indicare le eventuali garanzie rilasciate e le modalità per l’eventuale liquidazione di beni;

− deve prevedere l’integrale soddisfacimento dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione Europea, dell’IVA e delle ritenute operate, mentre è con-sentito prevedere una dilazione del pagamento.

L’accordo:

− può prevedere la suddivisione dei creditori in classi; − può prevedere, per i crediti muniti di privilegio, pegno e ipoteca, in sod-

disfacimento non integrale, ma ne deve comunque assicurare il pagamento in misura non inferiore rispetto a quella realizzabile in caso di liquidazione, avendo riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti oggetto del privilegio, come attestato dagli O.C.C.;

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− può prevedere l’affidamento del patrimonio del debitore ad un gestore per la liquidazione, la custodia e la distribuzione del ricavato ai creditori.

Il gestore incaricato deve essere un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 28 l.f. (ossia un professionista che potrebbe essere nominato cu-ratore). Ciò si comprende perché i compiti che vengono affidati al gestore so-no simili a quelli cui è chiamato a svolgere il curatore in ambito fallimentare per quanto riguarda la gestione e la liquidazione dell’attivo del fallimento.

Al secondo comma dell’art. 7, vengono posti ulteriori requisiti, in senso negativo, in questo caso riferiti al soggetto sovraindebitato, sia esso un debito-re non fallibile ovvero un soggetto qualificabile quale consumatore.

La proposta non sarà ammissibile qualora il soggetto:

a) sia sottoposto a procedure concorsuali diverse da quelle di sovraindebi-tamento ex legge n. 3/2012;

b) abbia già fatto ricorso ad una delle procedure di sovraindebitamento, ex l. 3/2012, nei cinque anni precedenti;

c) per cause a lui imputabili, abbia subito uno dei provvedimenti di cui agli artt. 14 e 14-bis (risoluzione e revoca);

d) abbia fornito documentazione che non permette di ricostruire compiuta-mente la sua situazione economica e patrimoniale.

In merito al primo punto, la causa di inammissibilità è in linea con la ra-tio delle procedure introdotte dalla legge n. 3/2012 che, infatti, sono pensate per risolvere le situazioni di crisi di quei soggetti che non avrebbe potuto ac-cedere ad alcuna delle c.d. procedure maggiori. Tale vincolo non opera sol-tanto al momento della presentazione dell’accordo per le valutazioni in meri-to all’ammissibilità. Tale requisito deve essere, infatti, rispettato durante tut-to il periodo, a partire dalla presentazione dell’accordo e sino alla conclusio-ne della procedura in base ai tempi ivi previsti. Il quinto comma dell’art.12, infatti, prevede la risoluzione dell’accordo nel caso venga pronunciata sen-tenza di fallimento a carico del debitore. È infine da rilevare come questo primo requisito non sia riservato al solo debitore c.d. sotto soglia; è infatti da notare come il soggetto qualificato come consumatore sia anch’egli assog-gettabile alle procedure concorsuali c.d. maggiori. Si pensi ad esempio al ca-so del socio di società di persone che al momento di presentazione del piano sia qualificabile come consumatore, non presentando alcun debito relativo all’impresa partecipata, ma che in un secondo momento venga dichiarata fal-lita la società partecipata e per estensione anche il soggetto illimitatamente responsabile, che pertanto perderà la qualifica di consumatore.

Il punto b) esclude che chi abbiano già fatto ricorso ad una delle procedure

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nei cinque anni precedenti possa nuovamente giovarsi degli istituti. Queste procedure sono pensate per risolvere situazioni di crisi di soggetti

“minori” e per permettere un rientro nel mondo dell’impresa, ovvero, nel caso del consumatore, il ritorno nel ciclo dei consumi. Si vuole sì aiutare i soggetti in crisi, ma evitare il ricorso sistematico a queste procedure. Si pensi ad esempio ad un soggetto che contragga debiti in maniera non soste-nibile, essendo consapevole della possibilità di ricorrere alle procedure pre-viste dalla legge n.3/2012 e di poter quindi beneficiare della falcidia dei crediti e della successiva esdebitazione. In assenza del vincolo al punto b) questo soggetto potrebbe porre in essere tale comportamento in maniera si-stematica, facendo ricorso alle procedure in maniera sproporzionata a danno dei creditori, e quindi in contrasto con le finalità della legge ed in palese abuso del diritto.

Il punto c) prevede la preclusione all’accesso alle procedure qualora sia sta-ta pronunciata risoluzione dell’accordo, art. 14, ovvero revoca del piano, art. 14-bis, per cause imputabili al soggetto sovraindebitato.

Il primo articolo riguarda l’accordo del debitore non fallibile, mentre il se-condo il piano del consumatore, ed in concreto trattano i medesimi casi di comportamenti non corretti.

Il creditore potrà promuovere istanza al tribunale, in contradditorio con il soggetto sovraindebitato, qualora ravvisi l’ipotesi che quest’ultimo abbia tenu-to uno dei seguenti comportamenti:

− abbia dolosamente o per colpa grave, aumentato o diminuito il passivo, ovvero abbia sottratto o dissimulato una parte rilevante dell’attivo, ovvero ab-bia dolosamente simulato attività inesistenti;

− non abbia adempiuto agli obblighi derivanti dall’accordo/piano, non ven-gano costituite le garanzie promesse o se l’esecuzione del piano diviene im-possibile, anche per ragioni non imputabili al debitore.

Vi sono dei termini entro cui il creditore è legittimato a presentare ricorso, distinti per le due tipologie di comportamenti sopra elencate.

Per quanto riguarda la prima tipologia, il termine è fissato nei sei mesi successivi alla scoperta del comportamento, e comunque non oltre il decor-so di due anni dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento. Per la seconda tipologia di situazione vale il medesimo termine primo di sei mesi dalla scoperta, mentre per il secondo il termine è ridotto ad un anno dalla scadenza del termine fissato per l’adempimento. Il maggior termine concesso per promuovere istanza contro il debitore, nel caso di una menda-ce dichiarazione degli elementi costituenti l’attivo ed il passivo della proce-dura, può essere motivato con la maggiore gravità del comportamento e

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come l’accertamento di un maggiore attivo rispetto a quello dichiarato, pos-so richiedere dei lunghi tempi al soggetto investito della possibilità di pre-sentare ricorso.

Al contrario per la seconda schiera di comportamenti, l’inadempimento o l’impossibilità all’esecuzione del piano è nota ai creditori già alla scadenza di uno dei termini previsti per il pagamento, risultando quindi giustificabile il minor termine previsto per la presentazione del reclamo.

La preclusione all’accesso alle procedure è limitata ai soli casi in cui l’inadempienza derivi da una causa imputabile al debitore, mentre sono esclusi i casi in cui sia dovuta ad eventi fuori dal suo controllo. Ne è un esempio, il caso in cui il piano o l’accordo preveda un versamento periodico quale quota dello stipendio percepito dal soggetto, o comunque preveda il salario quale fonte delle risorse necessarie al piano, e durante l’esecuzione del piano o dell’accordo il soggetto perda il posto di lavoro per cause a lui non imputabili. In questo caso pare pacifico che il creditore non potrà chiedere la revoca dell’omologa del piano del consumatore ai sensi dell’art. 14-bis, ovvero la ri-soluzione dell’accordo ai sensi dell’art. 14.

Infine, il punto d) del secondo comma dell’art. 7, impone l’inammissibilità della proposta nel caso in cui la documentazione fornita dal soggetto non con-senta di ricostruire compiutamente la sua situazione economica e patrimoniale.

È, infatti, il sovraindebitato, l’unico soggetto legittimato a proporre istanza per l’ammissione ad una delle procedure disciplinate dalla legge n. 3/2012. Inoltre la principale finalità di tali procedure risiede nella risoluzione dello sta-to di crisi del soggetto, pertanto il maggiore effetto positivo si avrà nei suoi confronti. Pare quindi pacifico che venga richiesto che il soggetto fornisca la più puntuale e completa documentazione possibile in maniera da agevolare lo svolgimento dei compiti degli organi della procedura. La giurisprudenza di merito si è più volte espressa in questo senso.

La valutazione della completezza della documentazione ai fini dell’art. 7, comma 2, lett. d), sarà effettuata dal giudice delegato alla procedura che dovrà esprimersi in merito all’ammissibilità. Altresì resta chiaro il fatto che da un punto di vista operativo l’organo della procedura maggiormente interessato dalla documentazione sarà l’O.C.C. È infatti tale soggetto che dovrà svolgere il ruolo di consulente del soggetto sovraindebitato nella predisposizione del piano, e proprio in tale compito dovrà utilizzare operativamente la documen-tazione fornita dall’istante.

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4. L’accordo del debitore: profili di sintesi

Gli assi fondamentali della disciplina dell’accordo del debitore sono i se-guenti:

– il debitore formula una proposta diretta alla ristrutturazione dei debiti e alla soddisfazione dei crediti;

– tale proposta necessita dell’approvazione di tanti creditori che rappresen-tino il 60% dei crediti;

– una volta approvata, la proposta è sottoposta al giudizio di omologazione da parte del Tribunale e diviene obbligatoria per tutti i creditori anteriori.

Come già visto, la proposta di accordo deve assicurare la soddisfazione dei crediti impignorabili e quella dei creditori privilegiati, ancorché non integrale e purché essa sia superiore a quella eventualmente realizzabile in caso di li-quidazione; la dilazione di pagamento è consentita soltanto in relazione ai tri-buti che costituiscono risorse proprie della U.E., in relazione all’I.V.A. e alle ritenute operate e non versate.

Occorre sottolineare che se la proposta del creditore è approvata, l’Orga-nismo di composizione della crisi invia ai creditori una relazione; entro i dieci giorni successivi, i creditori possono formulare contestazioni.

Decorso il termine suddetto, l’Organismo trasmette al giudice la relazione e le eventuali opposizioni, attestando altresì la fattibilità del piano.

L’accordo è omologato quando il Tribunale verifica il raggiungimento del quorum del 60% e l’idoneità del piano a soddisfare i creditori; in caso di con-testazioni, il piano è ugualmente omologato laddove il Tribunale ritenga che il creditore possa essere soddisfatto, in esecuzione dell’accordo, secondo una misura non inferiore all’alternativa rappresentata dalla liquidazione.

In particolare, l’accordo può prevedere (in base all’art. 8 della legge):

1. la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante crediti futuri;

2. la sottoscrizione da parte di uno o più terzi che tramite il conferimento, anche in garanzia, di redditi o beni sufficienti, consentano di assicurare l’at-tuabilità del piano;

3. eventuali limitazioni all’accesso al mercato del credito al consumo, all’utilizzo di strumenti di pagamento elettronico e alla sottoscrizione di stru-menti creditizi e finanziari;

4. una moratoria, fino ad un anno dall’omologa, per il pagamento dei credi-tori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione.

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Per quanto riguarda le possibili previsioni contenute nell’accordo o piano è possibile effettuare alcuni collegamenti con quanto previsto per gli istituti del Fallimento e del Concordato Preventivo.

La ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qual-siasi forma è una previsione riconducibile anche al dettato dell’art. 160 l.f. ri-guardante il Concordato Preventivo.

In merito alla possibile partecipazione di terzi, anche con riguardo al Con-cordato Preventivo è consentita; all’art. 160, comma 1, lett. b), è infatti con-cessa la possibilità che il piano preveda l’attribuzione delle attività dell’im-presa ad un assuntore che potrà anche essere un creditore ma anche un terzo. Si pensi poi all’istituto delle offerte concorrenti.

Anche con riguardo ai crediti privilegiati, o muniti di pegno o ipoteca, vi è la stessa previsione di possibile moratoria con medesime limitazioni anche nella normativa del Concordato Preventivo con continuità aziendale, ed in par-ticolare al comma 2, lett. c), art. 186-bis, l.f.

Per il soddisfacimento non integrale dei suddetti crediti valgono le mede-sime limitazioni anche nella procedura del Concordato Preventivo, ed in parti-colare la medesima dicitura è riportata all’art.160 l.f., comma due, che però sostituisce alla figura del O.C.C. quella del professionista attestatore in pos-sesso dei requisiti di cui all’art. 67 l.f., comma 3, lett. d).

Per quanto riguarda i criteri di suddivisione dei creditori in classi, si rinvia alla normativa relativa al Fallimento e del concordato.

Infine era possibile individuare la stessa previsione riguardo il trattamento delle risorse proprie dell’Unione Europea, dell’IVA e delle ritenute operate, anche nella disciplina del Concordato Preventivo, ed in particolare all’art. 182-ter l.f., con oggetto la “transazione fiscale”, è presente la previsione di una possibile dilazione di tali debiti ma ne è espressamente vietata la falcidia.

Ora non è più così, a seguito della modifica del dicembre 2016 (la recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, del 7 aprile 2016, in ordine alla causa C-546/14 aveva anticipato tale conclusione).

La causa era relativa ad un imprenditore italiano che aveva previsto nel piano concordatario la parziale falcidia del debito IVA. La questione fu rimes-sa alla Corte Europea, stante il fatto che, secondo le interpretazioni vigenti, la norma che vieta la falcidia dell’IVA in riferimento alla transazione fiscale, ex art. 182-ter l.f., deve essere estesa anche alle procedure di concordato (sent. Corte Cass. n. 22931 e n. 22932 del 4 novembre 2011). Secondo tali arresti, l’IVA, essendo tributo d’interesse comunitario, dovrebbe essere sottoposta ai vincoli che impediscono allo stato membro di rinunciare alla sua riscossione.

La Corte Europea si è espressa in senso contrario rispetto le sentenze della corte nazionale. La possibilità di prevedere in un piano concordatario la falci-

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dia dell’IVA non risulta in contrasto con l’obbligo degli stati membri si garan-tire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio, nonché la riscossione ef-fettiva delle risorse proprie dell’Unione. In particolare, veniva evidenziato come, per il concordato, la procedura disciplinata dalla legislazione italiana preveda che, nel caso il patrimonio disponibile sia insufficiente a soddisfare i crediti privilegiati, il piano potrà essere ammesso unicamente nel caso che un esperto indipendente attesti che tale credito non riceverebbe un migliore trat-tamento nel caso di fallimento del debitore. Inoltre, la procedura prevede la votazione da parte dei creditori, al fine della sua approvazione. Lo stato mem-bro ha quindi la facoltà di votare in senso avverso qualora non concordi con le conclusioni dell’esperto indipendente. Infine, nel caso il concordato venga comunque omologato, potrà presentare ulteriore opposizione.

Secondo tale interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia Europea, la proce-dura di concordato preventivo, sarebbe da considerarsi idonea ad accertare che, a causa dello stato di insolvenza del debitore, lo stato membro non possa recuperare il proprio credito IVA in misura maggiore. Pertanto, non costituirebbe una rinun-cia generale e indiscriminata alla riscossione dell’IVA, e quindi non presentereb-be contrasto con gli obblighi di riscossione in capo allo stato membro.

Questa sentenza della Corte Europea potrà avere delle ripercussioni anche sugli istituti disciplinati dalla legge n. 3/2012, dato che gli elementi presi in considerazione dalla Corte sono presenti anche nella disciplina in esame. Qui però, a differenza che nel concordato, vi è una espressa previsione legislativa da superare (l’art. 7 prevede espressamente l’impossibilità di falcidiare l’IVA) e quindi si dovrà comunque aspettare una modifica della legge n. 3/2012.

5. Intersezioni tra accordo del debitore e fallimento

La dottrina si è occupata del rapporto tra accordo del debitore e fallimento, muovendo dall’art. 12, comma 5, legge n. 3/2012, secondo cui “la sentenza di fallimento pronunciata a carico del debitore risolve l’accordo”.

Per conseguenza, gli atti posti in esecuzione dell’accordo non sono soggetti a revocatoria. “Evidentemente – si è osservato – il legislatore vuole riferirsi ad alcune ipotesi limite, come quella in cui il soggetto si sia rivelato successiva-mente fallibile e quindi sia stato erroneamente ammesso alla procedura, oppure abbia avviato una attività di impresa durante la procedura, oppure ancora sia un soggetto non fallibile di per sé, ma che potrebbe fallire a seguito del falli-mento altrui, come i soci di società di persone” (Costa, Profili problematici del-la disciplina della composizione delle crisi da sovraindebitamento, in Impresa e mercato. Studi dedicati a Mario Libertini, III, Milano, 2015, 1320).

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6. Accordo del debitore e start up

Innanzitutto, occorre soffermarsi sinteticamente sui contorni della start up, ricordando che la regolamentazione di tale società è caratterizzata da un mar-cato favor del legislatore; numerose sono, del resto, le deviazioni dal diritto commerciale e da quello fallimentare.

In dottrina si è osservato che “la previsione, nell’ambito della disciplina societaria, di norme applicabili ad una categoria che abbracci più tipi rap-presenta una tecnica a cui il legislatore è ricorso più volte e in contesti diffe-renti. Anche le startup (…) rappresentano una categoria: infatti, possono es-sere costituite in forme differenti, che comprendono tutti i tipi di società capi-talistiche, le cooperative, le società europee, purché non quotate” (Cagnasso, in un contributo in corso di pubblicazione in Giur. It.).

Introdotta nell’ordinamento al fine di incentivare lo sviluppo tecnologico e l’occupazione, la start up innovativa, ai sensi dell’art. 25, d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni in legge 17 dicembre 2012, n. 221, “è la società di capitali, costituita anche in forma cooperativa, le cui azioni o quote rappresentative del capitale sociale non sono quotate su un mercato regola-mentato o su un sistema multilaterale di negoziazione”.

Rappresentano ulteriori requisiti:

a) il fatto di essere costituita da non oltre 60 mesi dalla data di presentazio-ne della domanda e lo svolgimento di attività d’impresa;

b) avere la sede principale degli affari e degli interessi in Italia; c) a partire dal secondo anno di attività, il totale del valore della produzione

annua, così come risultante dall’ultimo bilancio approvato entro 6 mesi dalla chiusura dell’esercizio, non è superiore a 5 milioni di euro;

d) la start up innovativa non distribuisce e non ha distribuito utili; e) l’oggetto sociale esclusivo o prevalente è costituito dallo sviluppo, dalla

produzione o dalla commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico;

f) non è stata costituita da una fusione, scissione societaria o a seguito di cessione di azienda o di ramo d’azienda;

g) le spese in ricerca e sviluppo sono uguali o superiori al 15% del maggior valore fra costo e valore totale della produzione della start up innovativa.

Del tutto peculiare appare la disciplina in tema di riduzione del capitale per perdite: ex art. 26, d.l. n. 179/2012, il termine entro il quale la perdita deve ri-sultare a meno di un terzo “è posticipato al secondo esercizio successivo”; e ancora, “nelle start up innovative che si trovino nelle ipotesi previste dagli artt. 2447 o 2482 ter del codice civile l’assemblea convocata senza indugio

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dagli amministratori, in alternativa all’immediata riduzione del capitale e al contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al minimo legale, può deliberare di rinviare tali decisioni alla chiusura dell’esercizio successivo. Fino alla chiusura di tale esercizio non opera la causa di sciogli-mento della società per riduzione o perdita del capitale sociale”.

La Relazione illustrativa al d.l. n. 179/2012 ha specificato che “l’estensio-ne di dodici mesi, fermo ogni altro presidio a tutela dei creditori e dei soci, può consentire all’impresa start up innovativa di completare l’avvio e di rien-trare fisiologicamente dalle perdite maturate nelle primissime fasi”.

Tra i primi commentatori alla disciplina si è affacciata l’idea che il legisla-tore abbia optato “per un meccanismo di incentivazione della propensione del rischio di impresa, consentendo, tra l’altro, alla società di proseguire a di-spetto delle perdite e, quindi, con potenziale danno per i creditori”; si è altresì osservato che “pare infatti poco provvidenziale la possibilità di rinviare una perdita che abbia superato il livello di guardia, se vi è il rischio, anche solo potenziale, di ampliare considerevolmente il passivo e di pregiudicare le stes-se ciance di ripresa” (Fregonara, La start up innovativa. Uno sguardo all’e-voluzione del sistema societario e delle forme di finanziamento, Milano, 2013, 56 ss.).

Riaccostandosi al tema della relazione, occorre ribadire che le start up in-novative non sono assoggettate alle procedure concorsuali ordinarie; è la stes-sa relazione di accompagnamento al d.l. 179/2012 a chiarire la ragione di tale opzione: “l’intervento è volto a disciplinare il fenomeno della crisi aziendale della start up innovativa tenendo conto dell’elevato rischio economico assun-to da chi decide di fare impresa investendo in attività ad alto livello di inno-vazione. Si vuole indurre l’imprenditore a prendere atto il prima possibile del fallimento del programma posto a base dell’iniziativa, posto l’elevato tasso di mortalità fisiologica delle start up”.

Di conseguenza, le start up sono soggette in via esclusiva alla procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento.

Si impongono, però, due avvertenze. La prima: la start up potrà ricorrere soltanto all’accordo del debitore o alla

liquidazione del patrimonio; è lo stesso dato letterale dell’art. 6, comma se-condo, legge n. 3/2012 ad avvalorare tale soluzione interpretativa, laddove specifica che il consumatore è una persona fisica.

La seconda: l’esenzione dalle procedure concorsuali ordinarie è limitata nel tempo, non potendo protrarsi oltre cinque anni dalla costituzione.

La delimitazione temporale assume una rilevante conseguenza sul piano dell’eventuale consecuzione tra accordo del debitore e fallimento; ai sensi dell’art. 12, comma 5, legge n. 3/2012, “la sentenza di fallimento pronunciata

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a carico del debitore risolve l’accordo”. È precisato tuttavia che gli atti, i pa-gamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione dell’accordo omologato non sono soggetti all’azione revocatoria ex art. 67 l. fall.

La disposizione troverà applicazione, naturalmente, nel caso in cui la socie-tà non possieda più i requisiti propri della start up.

La consecuzione tra liquidazione del patrimonio e fallimento non è, invece, espressamente disciplinata. Si può osservare che l’art. 14-quinquies, comma 4, legge n. 3/2012 stabilisce che la procedura rimane aperta sino alla completa esecuzione del programma di liquidazione e, in ogni caso, per i quattro anni successivi al deposito della domanda.

Atteso che l’esenzione dal fallimento per la start up ha durata pari a cinque anni, e che la liquidazione del patrimonio può protrarsi per almeno quattro an-ni, se si esclude l’ipotesi (assai improbabile) che la start up domandi la liqui-dazione nel momento stesso in cui è costituita, si deve concludere che vi sarà un lasso temporale in cui la società è fallibile ancorché in pendenza della pro-cedura di sovraindebitamento.

7. Uno sguardo alla casistica

Ai sensi dell’art. 480, comma 2, c.p.c., il precetto deve “contenere l’av-vertimento che il debitore può, con l’ausilio di un organismo di composizione della crisi o di un professionista nominato dal giudice, porre rimedio alla si-tuazione di sovraindebitamento concludendo con i creditori un accordo di composizione della crisi o proponendo agli stessi un piano del consumatore”.

L’addizione normativa, operata da d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni in legge 6 agosto 2015, n. 132, ha originato più interpreta-zioni.

Secondo un primo orientamento, l’atto di precetto che difetti di tale avver-timento è nullo (Trib. Milano, 23 dicembre 2015, su leggiditalia.it). Un altro indirizzo, più attento al dato letterale, ha correttamente rilevato che il codice di rito non prevede che l’inserimento dell’avvertimento debba avvenire a pena di nullità, e stabilito quindi la validità del precetto che ne sia eventualmente sprovvisto (Trib. Frosinone, 28 gennaio 2016, su leggiditalia.it; Trib. Roma, 19 gennaio 2016, ivi).

Sempre sul piano strettamente processuale, si è stabilito che “nel procedi-mento di composizione della crisi da sovraindebitamento è necessaria l’assistenza tecnica del debitore poiché: 1) la proposta è una domanda giudi-ziale con il fine di comporre una crisi finanziaria, e si è in presenza di interes-si contrapposti; 2) il ricorso è introduttivo di una procedura; 3) la procedura

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si svolge davanti ad un tribunale; 4) la procedura presenta fasi potenzialmen-te contenziose” (Trib. Vicenza, 29 aprile 2014, su ilcaso.it).

La stessa decisione ammette però che “l’assistenza di un legale che assista il debitore può non essere necessaria se nell’O.C.C. che concretamente pre-senta la domanda vi sia anche un legale che se ne faccia carico, curando tutti gli aspetti tecnici della stessa”.

Resta comunque fermo che “nella procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento nulla vieta al debitore di avvalersi per la redazione del piano di un soggetto di sua fiducia ma è l’O.C.C. che, in ogni caso, deve fare proprio, se condiviso, il piano redatto dal professionista privato, verificando-ne sia la veridicità che la fattibilità a norma di legge (art. 15, co. 6, l. n. 3/2012), e così rendendosi fidefacente nei confronti del tribunale e dei credi-tori, conformemente alle sue funzioni pubblicistiche”.

Seguendo il Trib. Milano, 18 agosto 2016, su ilcaso.it, “Non può essere sottoposto a una delle procedure della legge 3/2012 il socio illimitatamente responsabile di una società di persone poiché quest’ultimo è assoggettabile al fallimento ex art. 147 l.f. Il socio illimitatamente responsabile non rientra in-fatti tra i soggetti di cui all’art. 7 L. 3/2012, secondo il quale il debitore può accedere al sovraindebitamento solo se non risulta assoggettabile ad altre procedure concorsuali quali appunto il fallimento in estensione”.

Lo stesso Tribunale, con provvedimento in data 13 ottobre 2015, su ilca-so.it, ha affermato che “non è ammissibile la domanda di sovraindebitamento proposta da imprenditore individuale assoggettabile al fallimento in ragione delle soglie quantitative previste dall’articolo 1 legge fall. e non sia ancora decorso l’anno di cui all’articolo 10 legge fall.”.

Il Trib. Reggio Emilia, 24 giugno 2016, in Quotidiano Giuridico, 2016, ha specificato che “prima di procedere all’omologazione dell’accordo, il Tribu-nale ha il dovere di verificare se il ricorrente abbia compiuto atti in frode ai creditori. Si tratta di un controllo necessario da cui può derivare la revoca del decreto di ammissione alla procedura ed il rigetto della domanda di omo-logazione, prescindendo dal raggiungimento della maggioranza e dalla con-venienza dell’accordo. Qualora il controllo evidenzi l’esistenza di atti in frode o di iniziative in tal senso, l’accordo di composizione della crisi non può esse-re omologato”.

In argomento, si può ricordare che “l’accertamento circa la sussistenza di atti in frode ai creditori, ai fini dell’ammissibilità della domanda di accesso del sovraindebitato alla procedura di liquidazione ex art. 14-quinquies L. n. 3 del 2012, deve essere condotto dal Giudice del sovraindebitamento a prescin-dere dalla sussistenza di una sentenza sul punto, e pertanto, a maggior ragio-ne, tale giudizio ben può basarsi su fatti accertati in altri giudizi, di cui sia

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parte il sovraindebitato, anche in sede penale, tanto più se tali accertamenti hanno ricevuto conferma in grado di appello” (Trib. Monza, 4 maggio 2016, su leggiditalia.it).

Si può aggiungere che “la mancata produzione della dichiarazione dei redditi nei termini prescritti comporta l’inammissibilità della domanda di composizione della crisi da sovraindebitamento, in quanto non consente di ri-costruire compiutamente la situazione economica e patrimoniale del ricorren-te, così come previsto dall’articolo 7, comma 2, lettera d) della legge n. 3 del 2012, mentre la sua produzione tardiva non consente l’esplicazione dell’esa-me dell’attestatore al fine della valutazione sulla fattibilità del piano, il che configura un ulteriore profilo di inammissibilità rappresentato dalla incom-pleta attestazione” (Trib. Asti, 18 novembre 2014, su ilcaso.it).

Nello stesso senso, si è stabilito che “La mancata produzione della dichia-razione dei redditi nei termini prescritti comporta l’inammissibilità della do-manda di composizione della crisi da sovraindebitamento, in quanto non con-sente di ricostruire compiutamente la situazione economica e patrimoniale del ricorrente, così come previsto dall’articolo 7, comma 2, lettera d) della legge n. 3 del 2012, mentre la sua produzione tardiva non consente l’esplicazione dell’esame dell’attestatore al fine della valutazione sulla fattibilità del piano, il che configura un ulteriore profilo di inammissibilità rappresentato dalla in-completa attestazione” (Trib. Firenze, 27 agosto 2012, su ilcaso.it).

Il Tribunale di Treviso, con la recente sentenza del 19 gennaio 2017 ha sta-tuito che “deve ritenersi che il provvedimento di revoca del decreto di omolo-ga di un accordo per la composizione della crisi da sovraindebitamento, emesso dal giudice del reclamo proposto avverso tale decisione ai sensi dell’art. 12,comma secondo, L. 3/2012, non determini immediatamente la perdita di efficacia di detto decreto, ma solo successivamente al passaggio in giudicato della decisione che ha accolto l’opposizione. Infatti, quelle medesi-me esigenze di certezza giuridica e di funzionalità della procedura che, con riguardo al fallimento, giustificano, secondo un orientamento giurispruden-ziale fermissimo, la stabilità della sentenza dichiarativa sino al passaggio in giudicato del provvedimento di revoca della stessa ex art. 18 L.F., devono va-lere, per uniformità interpretativa, sia ex art 183 L.F. per il concordato pre-ventivo, sia anche per l’accordo di composizione della crisi, laddove i rispet-tivi ricorsi siano stati in un primo tempo omologati, e ciò fin tanto che non ri-sultino definite con sentenze passate in giudicato le decisioni assunte dai giu-dici del reclamo che hanno revocato l’ammissione dei debitori a dette proce-dure (nello specifico, il tribunale, in sede di ricorso ex art. 669 terdecies c.p.c., ha ritenuto, pertanto, ammissibile la proposizione da parte della debi-trice, che inizialmente aveva vista accolta la sua proposta di accordo di com-

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posizione della crisi e successivamente aveva proposto ricorso in Cassazione avverso la decisione che ne aveva revocato l’omologazione, di un ricorso ex art. 700 c.p.c. volto ad inibire, nelle more della definizione del procedimento di opposizione, il prodursi degli effetti pregiudizievoli che avrebbero potuto conseguire nei suoi confronti all’esito dalle procedure esecutive nel frattempo intentate)”.

Sempre in tema di revoca il Tribunale di Reggio Emilia, con la pronuncia dell’11 Marzo 2015 ha affrontato il tema del trust costituito dal debitore ed ha affermato che “Costituisce atto in frode ai creditori – ostativo alla composi-zione della crisi da sovraindebitamento (ai sensi dell’articolo 10, comma 3°, della Legge 27/1/2012, n. 3) – il trust istituito dal debitore successivamente al manifestarsi della situazione di squilibrio patrimoniale e, inoltre, con modali-tà e clausole tali da far presumere l’intento del disponente di mantenere il controllo sui beni sottraendoli alla garanzia patrimoniale”.

Infine, la Cassazione ha preso in considerazione la falcidia dei crediti privi-legiati ed ha stabilito che: “Nella composizione della crisi da sovraindebita-mento, se la falcidia del creditore munito di causa legittima di prelazione è l’eccezione alla regola della soddisfazione integrale, come tale praticabile so-lo in presenza delle condizioni stabilite dal legislatore (i.e. attestazione di in-capienza del bene e non alterazione dell’ordine delle cause legittime di prela-zione), in assenza di espressa indicazione, da parte del debitore, della volontà di falcidiare il creditore prelatizio le suddette condizioni di ammissibilità sus-sistono, la proposta deve essere interpreta nel senso che la soddisfazione of-ferta al suddetto creditore è integrale. Con il conseguente mancato computo del credito ai fini del calcolo della maggioranza e la conseguente mancata espressione della volontà di aderire o meno alla proposta del debitore” (Cass. civ., sez. I, 20 dicembre 2016, n. 26328).

8. La Riforma Rordorf

Vale la pena di prestare, infine, uno sguardo d’insieme al “cantiere” della riforma delle procedure concorsuali.

Occorre ricordare che “nel corso dei lavori della Commissione molto si è discusso sul come configurare – soprattutto con riguardo all’esdebitazione – i requisiti di meritevolezza del debitore. A fronte di un’opinione che, paventan-do il rischio di troppo facile abuso dell’istituto, avrebbe preferito un regime più severo, è prevalso l’orientamento di chi, in linea con le legislazioni dei paesi (anche extraeuropei) che vantano il più alto indice di applicazione delle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento, ha scelto di non

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esigere requisiti soggettivi troppo stringenti. A ciò ha indotto la considerazio-ne, da un lato, dell’eterogeneità qualitativa dei soggetti destinatari (spesso privi di livelli culturali idonei per rendersi conto del progressivo sovraindebi-tamento), dall’altro dell’oggettiva difficoltà di individuare rigorosi criteri, si-curamente verificabili, in rapporto all’estrema varietà delle situazioni di vita che possono determinare situazioni individuali di grave indebitamento, senza rischiare di generare un contenzioso dalle proporzioni difficilmente prevedi-bili o senza, altrimenti, finire per restringere a tal punto la portata dell’isti-tuto da frustrare sostanzialmente le finalità di politica economica ad esso sot-tese: finalità consistenti non tanto in una forma di premialità soggettiva quan-to piuttosto nel consentire una nuova opportunità a soggetti schiacciati dal peso di un debito divenuto insopportabile. In tale ottica si è quindi optato per l’inserimento di requisiti negativi, ostativi ai benefici di legge, individuati nel-la mala fede o nel compimento di atti di frode (la mala fede tendenzialmente rilevante nel momento della contrazione del debito, la frode normalmente operante nelle fasi precedenti o successive all’ammissione alla procedura)” (così, Pellecchia, op. loc. ult. cit.).

Com’è noto, alla presentazione dei lavori della Commissione Rordorf è se-guito il disegno di legge delega 11 marzo 2016, il quale all’art. 9 prevede che il Governo proceda al riordino e alla semplificazione della disciplina in mate-ria di sovraindebitamento.

Il disegno di legge approvato dalla Camera il 1° febbraio 2017 ed oggi ap-prodato al Senato (all’esame dello stesso) detta i seguenti principi e criteri vol-ti alla semplificazione della materia.

1. Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1, per la disciplina della procedura di composizione delle crisi da sovraindebitamento di cui alla legge 27 gennaio 2012, n. 3, il Governo procede al riordino e alla semplificazione della disciplina in materia attenendosi ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

a) comprendere nella procedura i soci illimitatamente responsabili e indi-viduare criteri di coordinamento nella gestione delle procedure per sovrain-debitamento riguardanti più membri della stessa famiglia;

b) disciplinare le soluzioni dirette a promuovere la continuazione dell’attività svolta dal debitore, nonché le modalità della loro eventuale con-versione nelle soluzioni liquidatorie, anche ad istanza del debitore, e consen-tendo, esclusivamente per il debitore-consumatore, solo la soluzione liquida-toria, con esclusione dell’esdebitazione, nel caso in cui la crisi o l’insolvenza derivino da colpa grave, malafede o frode del debitore;

c) consentire al debitore meritevole, che non sia in grado di offrire ai cre-ditori alcuna utilità, diretta o indiretta, nemmeno futura, di accedere all’esde-

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bitazione solo per una volta, fatto salvo l’obbligo di pagamento del debito en-tro quattro anni, laddove sopravvengano utilità;

d) prevedere che il piano del consumatore possa comprendere anche la ri-strutturazione dei crediti derivanti da contratti di finanziamento con cessione del quinto dello stipendio o della pensione e dalle operazioni di prestito su pegno;

e) prevedere che nella relazione dell’organismo di cui all’articolo 9, com-ma 3-bis, della legge 27 gennaio 2012, n. 3, sia indicato se il soggetto finan-ziatore, ai fini della concessione del finanziamento, abbia tenuto conto del merito creditizio del richiedente, valutato in relazione al suo reddito disponi-bile, dedotto l’importo necessario a mantenere un dignitoso tenore di vita;

f) precludere l’accesso alle procedure ai soggetti già esdebitati nei cinque anni precedenti la domanda o che abbiano beneficiato dell’esdebitazione per due volte, ovvero nei casi di frode accertata;

g) introdurre misure protettive simili a quelle previste nel concordato pre-ventivo, revocabili su istanza dei creditori, o anche d’ufficio in caso di atti in frode ai creditori;

h) riconoscere l’iniziativa per l’apertura delle soluzioni liquidatorie, anche in pendenza di procedure esecutive individuali, ai creditori e, quando l’insolvenza riguardi l’imprenditore, al pubblico ministero;

i) ammettere all’esdebitazione anche le persone giuridiche, su domanda e con procedura semplificata, purché non ricorrano ipotesi di frode ai creditori o di volontario inadempimento del piano o dell’accordo;

l) prevedere misure sanzionatorie, eventualmente di natura processuale con riguardo ai poteri di impugnativa e di opposizione, a carico del creditore che abbia colpevolmente contribuito all’aggravamento della situazione di in-debitamento;

m) attribuire anche ai creditori e al pubblico ministero l’iniziativa per la conversione in procedura liquidatoria, nei casi di frode o inadempimento.

In merito alle soluzioni di composizione della crisi attuate mediante un piano in continuità da parte dell’imprenditore non fallibile occorre rilevare come si profili una diversificazione dei contenuti di disciplina tra accordo di composizione della crisi e concordato preventivo, dato che le soluzioni liqui-datorie richiedono nel secondo caso la presenza della finanza c.d. terza (se-condo la soluzione originariamente individuata nell’ambito dei lavori della Commissione Rordorf e ripristinata in sede di lavori parlamentari, v. art. 6, comma 1, lett. a) e quanto meno il pagamento della soglia del 20% dei crediti chirografari (secondo la modifica apportata in sede di lavori parlamentari all’art. 6, cit.).

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836 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 3|2017

Un importante elemento di novità è costituito dal possibile passaggio a so-luzioni di tipo liquidatorio anche su istanza del debitore, a differenza di quanto avviene attualmente, dove la conversione nella liquidazione dei beni avviene solo nelle ipotesi tassativamente previste dalla legge (art. 14-quater della leg-ge n. 3/2012).

Una delle lacune più significative dell’attuale legge in materia di sovrain-debitamento è quella relativa alla posticipazione delle misure protettive anco-rate non già agli atti introduttivi, ma al decreto di apertura della procedura (artt. 10, 12-bis e 14-quinquies della legge n. 3/2012), con il conseguente pre-giudizio non solo per la predisposizione del piano di soluzione della crisi da parte del debitore (nel caso del piano del consumatore o dell’accordo di com-posizione della crisi), ma anche per la realizzazione della par condicio credito-rum, suscettibile di essere compromessa a fronte di condotte opportunistiche (sebbene legittime) dei creditori che acquisiscano diritti di prelazione nell’im-minenza dell’apertura della procedura. L’art. 9, lett. g) prevede, quindi, di “in-trodurre misure protettive simili a quelle previste nel concordato preventivo, revocabili su istanza dei creditori, o anche d’ufficio in caso di atti in frode ai creditori.”

La lettura del principio evidenzia come l’anticipazione delle misure protet-tive agli atti introduttivi della procedura (con un esplicito richiamo alla disci-plina del concordato preventivo) sia riequilibrata – nella prospettiva di pre-venzione di abusi di carattere dilatorio da parte del debitore – dalla revocabili-tà su istanza non solo dei creditori, ma anche d’ufficio (seppure nella sola ipo-tesi di atti in frode ai creditori) delle misure protettive. È pertanto evidente come il richiamo alla disciplina del concordato preventivo riguardi la tipologia degli effetti protettivi più che un’integrale ricezione dei contenuti dell’art. 168 l.f. (non connotato dalla revocabilità ex officio degli effetti protettivi).