Futuro Del Tradizionalismo 6 Marzo

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Piero Vassallo Il futuro della tradizione Frammenti di un ideario censurato

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Piero Vassallo

Il futuro della tradizione Frammenti di un ideario censurato

Indice

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Pag. 3 La moderazione oltre il moderatismoPag. 8 La desolazione del fatalismo e lo splendore della libertà cristianaPag. 19 Il cammino della libertàPag. 26 Necker, il senso comune e la mano magica del mercato Pag. 30 La violenza e l’ordinePag. 35 Sotto la parrucca la cultura popolare Pag. 41 Ellenismo, Romanità, CattolicesimoPag 55 La destra italiana in un fotogramma di taglio stalinianoPag. 59 Democrazia e assolutismo democratico Pag. 67 L’ambiente, la bellezza, la tecnica Pag. 72 Sigfrido e Parsifal icone del progresso anzi del regressoPag. 77 Le comunità naturaliPag. 88 Cesarismo e popolarismo Pag. 96 La tradizione fonte del progresso

ILa moderazione oltre il moderatismo

Subordinata all’indeclinabile primato della verità, la moderazione è una virtù cristiana il cui esercizio è necessario a quanti intendono adeguare la testimonianza

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della fede intransigente al metro della carità. Non c’è dunque motivo di confondere la moderazione con il moderatismo, radice dell’atrofia spirituale e della timidezza di pensiero, i difetti ai quali Benedetto XVI attribuisce la causa dell’allarmante deriva secolare in atto nella Chiesa postconciliare 1. Paolo Pasqualucci ha dimostrato che i protagonisti del Concilio Vaticano II erano agitati da uno stato d’animo irrealistico, che incoraggiava ad ammirare il meraviglioso progresso del genere umano e a tacere l’orrore dell’Arcipelago Gulag allo scopo di lodare senza imbarazzi l’immaginaria libertà che il mondo moderno concedeva alla Chiesa. Ai teologi “conciliari” Gianni Baget Bozzo indirizza la pesante accusa di aver nascosto la verità sull’anima immortale: “È all’interno della teologia cristiana che è nata la spinta verso la secolarizzazione dell’anima, verso il silenzio su di essa per ridurre l’uomo soltanto al sociale. Questo è stato il modo con cui i teologi hanno voluto afferrare la gnosi del marxismo, che poneva il possibile come negazione del reale all’interno della concezione dialettica della mente e della storia” 2. Il moderatismo è stato seminato dai nuovi teologi al fine di giustificare l’adattamento all’ideologia e l’ecumenico silenzio sui suoi errori ed orrori, per mezzo di “opportuni aggiornamenti”, in pratica mediante l’esposizione della dottrina “attraverso le forme dell’indagine e della formulazione letteraria del pensiero contemporaneo” 3. La moderazione abitua a separare la persuasione della vanagloria, un risultato diverso dall’accomodante compromesso inseguito da retori dominati dal desiderio di piacere al mondo e perciò inclini a mescolare il pensiero forte con le deboli opinioni dei miscredenti. I veri moderati sdegnano i compromessi e chiudono le porte al relativismo proprio perché sono risoluti a adeguare 1 Cfr. l’accorato discorso dell’otto marzo 2008 all’assemblea del Pontificio consiglio della cultura.2 Cfr.: “L’immortalità dell’anima”, in “Studi Cattolici”, febbraio 2008.3 Cfr.: “Giovanni XXIII e il Concilio Ecumenico Vaticano II”, edito da Ichthys in Rimini nel 2008, pag. 273.

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il loro comportamento con le norme che l’equità naturale e il senso della misura dettano alla retta coscienza. Sul fronte opposto, i banditori del moderatismo, anziché frenare la loro fastidiosa parlantina, ambiscono a moderare e censurare la verità, adattandola alle confuse sollecitazioni dell’uditorio antagonista 4. Separata dall’intollerantissima verità e opposta all’onestà intellettuale che è comandata alla persona, la moderazione si snatura, riversandosi nel pensiero camaleontico e adagiandosi su quel manuale delle incaute aperture, delle negoziazioni avventurose e delle acrobazie verbali, che, in tempi intitolati alla babele del pensiero, insegnava la surreale geometria delle parallele convergenti. L’esito inglorioso delle utopie moderne ha finalmente smentito i sofismi che, negli anni dell’euforia ecumenica, gli avventurosi teologi elettrizzati da De Lubac, Congar, Chenu, Balthasar, Schillebeeckx e Rahner, facevano circolare per accreditare il progetto inteso a stabilire l’acrobatico accordo tra la salvezza eterna e la felicità promessa dai banditori comunisti dell’effimero. La partecipazione ubiquitaria del partito moderatista alla ridicola manfrina inscenata intorno ai matrimoni pederastici, alle manipolazioni genetiche e all’eutanasia, esige che adesso si faccia chiarezza sulla vera natura della moderazione. Il significato della moderazione, oltre che nella decisione di affermare il primato della buona grazia sul tracotante vociare, si trova, infatti, nell’attitudine a percepire la netta separazione del vero, che unisce gli uomini di buona volontà, dall’errore, che produce insensate divisioni. Negli anni del delirio intorno al rumoroso dialogo sotto la bandiera bianca, il filosofo Michele Federico Sciacca aveva appunto sostenuto che, nell’esercizio della moderazione, la

4 La tendenza ad adattare la verità cattolica alle esigenze dei non credenti è stata purtroppo incoraggiata da Giovanni XIII che nell’allocuzione Gaudet Mater Ecclesia ha affermato la necessità di esporre la dottrina cristiana “mediante le forme d’indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno”.

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tollerantissima misericordia è sempre sottomessa all’intollerante verità. Per attuare il difficile e contrastato disegno della restaurazione, Benedetto XVI oggi riafferma l’autentica idea di moderazione, e perciò sostiene che il Cristianesimo, in quanto religione del Logos, è “Fede che proviene dalla ragione creatrice e aperta a tutto ciò che è veramente razionale”. Il vero moderato aderisce alla fede incrollabile professata dai Padri della Chiesa, i quali non avevano tuttavia difficoltà a riconoscere, ammirare e fare propri i frammenti di verità nascosti nelle fluttuanti opere dei filosofi pagani. La differenza tra moderazione e moderatismo, ultimamente, risiede in ciò, che delle culture altre, la moderazione apprezza e usa le (eventuali) schegge di verità, mentre il moderatismo favorisce la timidezza, che incensa l’intero corpo dell’errore affacciato alla scena di passaggio. Per scongiurare le cadute e gli appiattimenti sulla delicata fragilità del moderatismo, Sant’Agostino, nel “De agone christiano”, rammentata la riprovazione paolina della timidezza 5, esortava i cristiani ad imitare la vita eroica di Gesù: “Non amate le cose temporali, perché se si amassero come un bene le amerebbe l’uomo che il Figlio di Dio ha assunto. Non temete gli oltraggi e le croci e la morte, perché se nocessero agli uomini non le avrebbe sofferte l’uomo che il Figlio di Dio ha assunto” 6. La moderazione esige l’approfondimento della verità cattolica e perciò rafforza la testimonianza dei fedeli, il moderatismo attribuisce all’errore l’impossibile compito di rafforzare la verità indirizzandola ai deboli clamori del giornalismo teologizzante. Modelli dei veri moderati, dunque, non sono i fautori del compromesso con il mondo moderno – da Pio XII definiti modernolatri - ma i santi fondatori della cultura cristiana:

5 “Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza ma di forza”, 2Tim., 1,7.6 Cfr.: “Nolite amare temporalia quia si bene amarentur, amaret ea homo quem suscepit Filius Dei. Nolite timere contumelias et cruces et mortem, quia si nocerent homini, non ea pateretur homo quem suscepit Filius Dei”, in “Opere di Sant’Agostino”, VII/2, Città Nuova editrice, Roma 2001, pag. 95.

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Giustino Martire, Clemente Alessandrino, Ireneo da Lione, Eusebio da Cesarea, e Agostino, che stabilirono l’alleanza della fede con le parziali verità contenute nelle opere filosofiche dei pagani. Il sommo Tommaso D’Aquino, pur opponendosi al culto indebito e insensato, che il secolo averroista tributava ai fondamentali errori che inchiodavano la filosofia greca al pregiudizio immanentista, non esitò ad apprezzare le verità intraviste da Platone e da Aristotile. Le verità aristoteliche furono, infatti, integrate e perfezionate dalle geniali e rivoluzionarie intuizioni di San Tommaso, quindi usate per innalzare la metafisica classica al concetto di creazione. Cornelio Fabro è autore di un fedele ritratto del vero moderato, quale fu felicemente interpretato dall’Aquinate: “E’ vero che con i suoi avversari di Parigi, per difendere la verità, sapeva esprimere il suo pensiero con risolutezza, ma il suo giusto sdegno non trascese mai la giusta misura. Per nobiltà d’animo e sentimento di forza innata, non per debolezza, si mostrava mite e comprensivo verso le ripulse e gli errori del suo ambiente. Tommaso possedeva quel che gli italiani chiamano gentilezza: quella maniera fine, cavalleresca, sempre pronta al bisogno e piena di attenzioni, che emana dall’intimo dominio di sé e dalla fede nel bene”. Per gli uomini politici, è magnifico esempio di moderazione il cardinale Ercole Consalvi (1757 – 1824) l’animoso e strenuo segretario di stato di Pio VII. Consalvi si oppose risolutamente all’invadente Napoleone, ma, quando l’avversario fu sconfitto ed esiliato a Sant’Elena, non esitò a distinguersi dagli ottusi reazionari riconoscendo, con ammirevole onestà intellettuale, la convenienza di ratificare, perché buone, alcune delle leggi imposte dall’imperatore francese. Il ricordo dell’azione politica condotta dal cardinale Consalvi aiuta a capire che il pensiero autenticamente moderato sa distinguere la fedeltà alla tradizione dalla pigra adesione al passato e separare l’intransigenza dall’immobile miraggio che esclude il cambiamento e l’ordinato progresso civile. Di qui il programma di Consalvi, inteso a “Introdurre quegli emendamenti e quei cambiamenti che la decrepitezza

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di antiche istituzioni, la loro alterazione, gli abusi introdotti, la lezione dell’esperienza, i mutamenti del tempo e dei costumi potranno ragionevolmente rendere necessari”. I criteri applicati dall’illuminato ministro di Pio VII suggeriscono ai moderati l’opportunità di respingere le suggestioni nostalgiche – gozzaniane e/o daviliane – diffuse da quella struggente affezione agli stati d’animo e alle chimere del passato, che è caparbiamente difeso dai gendarmi della memoria ridicolizzati da Giampaolo Pansa. L’attualità storica abbandona i quartieri dell’arroganza moderna, ma non celebra i ritardi della pigrizia. Fiduciosa nel futuro della tradizione, l’avanguardia dei moderati, si è emancipata dalle suggestioni codine. Il futuro appartiene, infatti, ai tradizionalisti che sapranno pensare e agire con la mente rivolta oltre e non più contro le consunte espressioni della modernità.

IILa desolazione del fatalismo

e lo splendore della libertà cristiana

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Dai pregiudizi filosofici del mondo moderno, dalla negazione della trascendenza di Dio e del fondamento oggettivo della morale, discendono oscure e insoddisfacenti risposte al problema della libertà umana. I bruschi rifiuti e le sfuggenti definizioni della libertà formulate nella luce obliqua e ingannevole del principio d’immanenza, confermano puntualmente la tesi cui da sempre aderiscono gli interpreti cristiani della filosofia perenne: la nozione di libertà, se separata dal suo necessario e insostituibile fondamento - la legge divina partecipata alla creatura razionale - e dal suo debito fine - il raggiungimento della perfetta felicità in Dio - sprofonda nel vaniloquio e si abbassa alla figura ondivaga, che è adatta solo all’esercizio meccanico, assordante e dispersivo della lingua. L’involuzione della filosofia immanentista, peraltro, era stata avvertita da Kierkegaard: “Il pensiero moderno è rimasto indietro rispetto all’intero paganesimo: l’antico paganesimo, anche se non aveva raggiunto la libertà, la cercava e si muoveva soprattutto con l’opera dei filosofi in direzione dello spirito che fu poi rivelato dal Cristianesimo, mentre il pensiero moderno ha fatto l’operazione inversa cioè di annientare e mistificare la concezione cristiana in direzione di abbandonare lo spirito” 7. Non per caso, il fondatore dell’ateismo moderno, Benedetto Spinoza, fu anche un risoluto negatore della libertà: “Falluntur homines quod se liberos esse putant, quae opinio in hoc solo consistit, quod suarum actionum sint consci et ignari causarum, a quibus determinatur” 8. In ossequio al pregiudizio materialistico, Hobbes ha poi ridotto la libertà all’assenza d’impedimenti fisici: “Libertà significa (propriamente) assenza di opposizione (per opposizione voglio dire impedimenti esterni al movimento) e può essere applicata non meno alle creature irrazionali e inanimate che a quelle razionali” (Leviathan, cap. XXI). Mediante una magistrale analisi, Paolo Pasqualucci ha accertato che la definizione di libertà come assenza

7 Cfr.: Cornelio Fabro, Riflessioni sulla libertà”, Edivi, Segni 2005, pag. 179.8 Citato da Cornelio Fabro, in “Riflessioni sulla libertà”, op. cit., pag. 18.

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d’impedimenti materiali è esposta a un’insanabile contraddizione. Per evitare che l’idea di privazione della libertà fosse associata alle demagogiche promesse dei libertari e alle fantasticherie degli utopisti, Hobbes introdusse, infatti, il concetto di una certa proporzione tra ciò che si vuole fare e ciò che si è effettivamente in grado di fare. Sennonché Hobbes, in conseguenza di tale rettifica, fu costretto a riconoscere che è privo di libertà solo chi è impedito nel poter fare ciò che è effettivamente alla sua portata. Pasqualucci conclude, pertanto, che “L’idea di una certa proporzione tra ciò che siamo in grado di fare (obiettivamente) e ciò che (soggettivamente) vogliamo fare, sembra far emergere anche il lato puramente interiore della libertà, se è vero che quest’ultimo si fonda sulla consapevolezza di ciò che siamo. Ma il lato interiore del concetto della libertà, una volta approfondito, ci conduce al di là del materialismo, fino a dissolvere o far apparire del tutto secondaria l’idea della libertà come pura assenza di impedimenti al nostro movimento” 9. Quasi erede della fragile dottrina di Hobbes, John Locke, un pensatore che, secondo Giambattista Vico “si studiava di stabilire la metafisica della moda”, ha sostenuto che la libertà non riguarda la responsabilità ma il potere di fare 10. Su Locke sono illuminanti le considerazioni di Cornelio Fabro: “Nella concezione orizzontale dell’empirismo la spontaneità della libertà è spiegata … in funzione dell’atto e precisamente della contingenza che compete all’atto. Secondo Locke la libertà consiste nella capacità attiva (power) di agire o non agire, ed essa coesiste, com’egli

9 Cfr:: “Commento al Leviathan”, Margiacchi-Galeno editrice, Perugia 1999, pag. 221.10 Lettera all’abate Degli Esperti in Roma. Non è inutile rammentare che Domenico Losurdo, insospettabile studioso d’area progressista, ha dimostrato che l’ambiente cui Locke apparteneva a pieno titolo, aveva adattato la morale alle esigenze del sordido affarismo praticato dai mercanti di schiavi. Mercante di schiavi egli stesso, Locke è un vessillifero conveniente all’ideologia liberale.

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spiega ampiamente, con la necessità della volizione, poiché l’esistenza e non esistenza dell’atto della volontà segue perfettamente la determinazione e non semplicemente la preferenza della sua volontà. A suo avviso non c’è nulla di strano che necessità e libertà coesistano perché chi è libero non è propriamente la volontà ma l’uomo” 11. Sviati e frastornati dalle fumose opinioni del loro fondatore, i teorici liberali hanno abbassato la libertà da segno e presidio della naturale dignità umana, a passione anonima, dipendente dalle circostanze esteriori. La libertà, in definitiva, è fatta scendere al livello di funzione della cieca e anodina volontà di possedere e apparire. Di qui il potere soffocante, che il binomio produzione – consumo esercita sulla vita sociale dei moderni. Curiosamente, la dottrina lockiana della libertà rilancia e alimenta quelle inestinguibili contese, che avevano suggerito la hobbesiana riduzione del diritto naturale a gestione pacificatrice dello smodato desiderio di possesso. Il fine della libertà liberale non è il controllo degli impulsi distruttivi, ma l’accanita, perpetua ricerca dell’agio sulla terra: la libertà si risolve, infine, nella disponibilità dei mezzi materiali, ottenuti anche a prezzo delle fatiche snervanti, che hanno per desolato esito la scena del consumismo. La teoria lockiana giustifica lo scialo della vita nella perpetua, feroce e snervante lotta per la conquista dei mezzi necessari ad appagare i desideri dei consumatori e dei cacciatori di prestigio 12. Di passata, si può sostenere che il nucleo infetto dell’ideologia comunista – l’invidia e l’odio di classe – non è un rimedio al consumismo, ma il corollario dell’abnorme, feroce cupidigia soggiacente al liberalismo classico. Ora Cornelio Fabro ha dimostrato che, alle soglie dell’età contemporanea, la tradizione immanentista ha compiuto il passo decisivo verso la riduzione della libertà al puro arbitrio: “Infatti, l’assolutezza del sapere ovvero della

11 Cfr.: “Riflessioni sulla libertà”, op. cit., pag. 18.12 Facilmente il giudizio su Locke si estende, e con poche varianti, agli altri pensatori della scuola liberale, a cominciare da Bentham , Smith e Ricardo.

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certezza non procede, secondo l’incisiva formula di Fichte, dal conoscere ma è «un prodotto della libertà assoluta la quale perciò non soggiace ad alcuna regola o legge od impulso estranei ma è essa stessa quest’assoluta libertà». Di qui la riduzione trascendentale dell’essere alla libertà: «Nessun a natura e nessun essere se non mediante la volontà, i prodotti della volontà sono il vero essere». … L’orizzonte della verità è quindi capovolto: non è più la presenza del mondo, l’essere del mondo, ciò che fa il cominciamento e lo status in quo della verità, ma l’Io che come atto di libertà, fondato in se stesso, è un cominciare assoluto” 13. Da allora, la scolastica dei moderni ha dichiarato formalmente il divorzio dalle leggi del pensiero codificate da Aristotele, per abbracciare le suggestioni di Böhme e Lutero e addirittura gli schemi mitologici dello gnosticismo antico. Hegel ha sostenuto, infatti, che “La libertà coincide con la Volontà assoluta dello Spirito assoluto ed è in sé determinata come Volontà assoluta. Una libertà che fosse riservata all’individuo, come persona singola, è da Hegel tacciata di arbitrio che è l’opposto della libertà” 14. Nell’opera dello spinoziano Nietzsche, infine il pregiudizio ateo ha celebrato l’amor fati, furente negazione della libertà. Nietzsche ammette che, posto il pregiudizio ateo, l’esercizio del libero arbitrio è privato della sua necessaria giustificazione: “Ingenuità, quasi restasse ancora una morale quando manca un Dio che la sancisca! L’aldilà è assolutamente necessario se si conserva la fede nella morale” 15. Non aveva dunque torto Georges Bataille quando sosteneva che, nel sottosuolo della filosofia hegeliana, il cuore inavvertito del nichilismo era agitato dall’amor fati. L’orizzonte del pensiero moderno è la libertà insensata, che appartiene unicamente allo spettrale supplente di Dio, il

13 “Riflessioni sulla libertà”, op. cit., pag. 20.14 “Riflessioni sulla libertà”, op. cit., pag. 21.15 Cfr.: “La volontà di potenza”, Bompiani, Milano 1992, pag. 148.

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Fato, feticcio riapparso in mezzo alla tempesta gnostica scatenata dai romantici. Gli interpreti più coerenti dell’esistenzialismo, a cominciare dal post nietzschiano Martin Heidegger, chiudono la deprimente serie dei travisamenti della libertà: le loro filosofie hanno trascinato all’estrema e paradossale conseguenza le tesi degli atei, la gettità, mitologia contemplante l’oscuro e perverso potere che getta l’umanità nel regno dell’assurdo. Gli ultimi banditori della modernolatria sono riusciti a far credere che la libertà è un assoluto orizzontale, una divinità circolante intorno a se stessa e all’assenza di una qualunque causa finale 16. Il più estremista fra i pensatori moderni, Jean Paul Sartre, nel saggio “L’être et le néant”, affermò addirittura che ogni decisione (degna o perversa) maturata dal simulacro della libertà umana ha valore assoluto, ma immediatamente chiarì che, nella totale assenza di un significato e di una legge superiore, qualsiasi scelta di vita è accettabile: la santità vale quanto l’ubriachezza, l’eroismo quanto la diserzione, la laboriosità quanto l’ozio, la castità quanto la perversione sadica, la mitezza quanto la ferocia. L’ultimo orizzonte del determinismo è la rinuncia alla libertà, l’oblio del dover essere, l’imperioso invito a lasciarsi vivere, ad abbandonarsi al fato: vivere è far vivere l’assurdo. Si stabilisce in tal modo l’impero delle chiacchiere gridate dalla ragione decostruita, parole in libertà, che invitano allo scialo dell’esistenza attraverso le deboli consolazioni offerte dai salvagente mondani: evasione, lusso, narcotici, pederastia, dolce morte. Equamente distribuiti nelle scuole di pensiero che hanno guerreggiato e non solo a parole durante gli agitati secoli della modernità, i divulgatori del pregiudizio antimetafisico moltiplicano gli errori intorno alla libertà: alcuni negano l’appartenenza della libertà alla persona umana, attribuendola in esclusiva a vaghe e impersonali entità, altri alterano la libertà, costringendola e umiliandola nelle 16 La presenza di modernolatri nella Chiesa postconciliare è stata denunciata dal cardinale Siri in “Getsemani” e da Cornelio Fabro ne “L’avventura della teologia progressista”.

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angustie del materialismo e dell’utilitarismo, altri ancora, dopo aver riconosciuto l’ispirazione imperdonabilmente teologica della vera idea di libertà, forzano il pensiero a sprofondare nel malinconico gorgo delle “passioni inutili”. Di qui la fondamentale e indeclinabile formulazione spinoziana del determinismo – fatalismo moderno: “Non v’è nella mente alcuna volontà libera o assoluta, ma a volere questo o quell’altro la mente è determinata da una causa e questa da un’altra e così all’infinito”. Opportunamente Cornelio Fabro rammentava che “L’etica cristiana ha per fondamento la responsabilità che ognuno ha delle proprie azioni e suppone quindi la libertà individuale: in una concezione panteista o averroista di una libertà unica che finisce per coincidere con la necessità di natura: hic homo non erit dominus sui acti, nec aliquis eius actus erit laudabilis vel vituperabilis; quod est divellere principia moralis philosophiae (De unitate intellectus § 81)” 17. Nell’orizzonte nichilista della filosofia ultima, si rivela l’intenzione servile e illusoria dell’anticonformismo personificato da Alberto Moravia, «papa letterario vestito del suo successo» (secondo l’icastica definizione di Augusto Del Noce) eletto della sinistra comunista oggi disfatta ma nel 1984 in grado di imporlo al parlamento europeo. Il contraffatto, conformistico anticonformismo di Moravia infuria dal dopoguerra ad oggi – dall’età dell’impostura gramsciana al malinconico naufragio nei libri dell’editoria adelphiana – nell’intento di dimostrare l’impossibilità della vita ordinata moralmente e di conseguenza la fatalità della depravazione. Il romanzo moraviano “Il conformista” si rivela metafora del lungo e penoso viaggio compiuto dalla letteratura italiana attraverso le nebbie della kermesse comunista per raggiungere l’esito decadente, ossia quel conformismo anticonformista, che sostituisce la morale tradizionale con la frenesia libertina.

17 Cfr. la voce “libertà” dell’Enciclopedia Cattolica.

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Il “messaggio” del romanzo, in ultima analisi, si riduce all’insinuazione che la vita morale è strutturalmente impossibile e, se tentata, funesta. La tragedia del conformista Marcello è l’emblema di quel “sentimento d’incapacità totale, di paralisi ad opera della potenza imperscrutabile delle circostanze”, che György Lukács identificava con la situazione del processo kafkiano, dove gli uomini si agitano vanamente, come le mosche che cercano di liberarsi dalla pania 18. Nella trama del “Conformista”, la scolastica di sinistra ha voluto leggere il destino fallimentare della morale tradizionale – cattolica e borghese - e il suo ineluttabile naufragio nella violenza bestiale. Sennonché, al lettore senza paraocchi, si affaccia il sospetto che la leggenda intorno al destino fallimentare di qualsiasi vocazione alla vita virtuosa, intenda dimostrare l’ineluttabilità del modello decadente, che diluvia nell’area un tempo intitolata al progressismo. L’opera di Moravia va dunque inclusa nel catalogo intitolato a quei maestri del sospetto che hanno battezzato l’ideologia progressista con l’acqua della disperazione e con il fuoco della religione capovolta.

Spinoza, descrivendo una scena mondana dominata dalla circolazione infinita delle cause finite, ha preparato il terreno al quel connubio del non senso con il moto perpetuo, che (lo hanno stabilito Alexandre Kojève e Georges Bataille) ha appiattito il vertice speculativo della modernità, l’idealismo hegeliano, sul mito dell’eterno ritorno dell’identico. L’insidia mortale oggi incombente sulla cultura postmoderna è appunto costituita dall’illusione che l’anarchia morale, associata al mito dell’eterno ritorno, sia una pacifica alternativa ai bellicosi programmi delle vecchie ideologie.

18 G. Lukács, “Il significato attuale del realismo critico”, Einaudi, Torino 1957, pag, 34.

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Risultato di tale malinteso è la sovrapposizione – quasi una decalcomania - dell’irrequieto Chatwin, il dandy senza progetti, sull’imprenditore liberale e sull’attivista sovietico, figure un tempo impegnate all’incremento perpetuo delle rispettive utopie. Dopo il Sessantotto, a destra e a sinistra della decadenza occidentale, la nuova mitologia radical chic e/o liberal chic soddisfa il disperato desiderio di quanti s’illudono di curare la malattia ideologica con il suo ultimo ectoplasma: il ruggente anticonformismo dell’anarca ambidestro, interpretazione caricaturale della singolarità kierkegaardiana. Se non che il singolo, che resiste alla massa servile, sta agli antipodi del sedicente anticonformista, stirneriano di risulta e psicopompo da talk show, che vanta il successi nei giornali e nelle riviste pornografiche diluvianti sulle opposte fazioni della cultura occidentale. Attualmente, dell’anticonformismo si propongono, infatti, due diverse ed irriducibili definizioni. La prima contempla la scelta razionale, che rifiuta la degradante massificazione e perciò si adegua alla legge divina partecipata alle creature. La seconda definizione contempla, invece, la scelta del modello trasgressivo, illusoriamente anticonformistico, modello accettato per impulso dello stato d’animo estetizzante, che disprezza la tradizione e ignora qualsiasi argomento razionale. Sulla comica educazione del ribelle conformista, il card. Giuseppe Siri scriveva dieci anni prima del Sessantotto: “I mezzi di propaganda generalmente non diffondono idee; iniettano solo e con persistenza stati d’animo. Gli stati d’animo entrano in tutti e non hanno bisogno di cultura per forzare la porta. Ma quando sono entrati fermentano, si riesprimono a poco a poco in idee subcoscienti … Quelle idee sono tali da dare una fisionomia al proprio orientamento mentale e ad indicare ad un uomo dove si debba inquadrare come metodo di vita e criterio di azione. La tecnica dello stato d’animo oggi governa il mondo e francamente non so cosa pensare di un mondo che

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è arrivato al punto di farsi governare soprattutto dalla tecnica dello stato d’animo”. Non va peraltro dimenticato che il conformismo del genere trasgressivo dilagava fin dagli albori dell’apostasia moderna: Giambattista Vico lo aveva puntualmente definito “il pensiero languente, che perdesi nella frivolezza, e si fa connivente ai sensi”. Il mondo moderno, dichiarando la guerra alla philosophia perennis e rifugiandosi nel rifiuto della fede cristiana, ha proclamato la prevalenza del senso sull’intelletto e il dominio della suggestione sull’argomentazione. In una lettera all’abate Degli Esposti, Vico cita, quale frutto del rammollimento, l’opera di Pierre Gassendi, un pensatore che aveva trasferito nella filosofia materialista le suggestioni ricevute dalla letteratura libertina del Seicento. Vico sostiene, infatti, che Gassendi “ritruovò il mondo tutto marcio in amore di romanzi e illanguidito in braccio di una troppo compiacente morale, e vivo udì da per tutto celebrarsi il suo nome di ristoratore della buona filosofia”.

Padre Reginald Garrigou-Lagrange aveva previsto le escandescenze della rilassatezza e il suo inevitabile incontro con “un panteismo mistico e un neo-gnosticismo secondo cui tutti gli esseri escono da Dio per emanazione (c’è così una caduta, un male cosmico, un peccato originale sui generis)” 19. Il languido conformismo degli anticonformisti ha introdotto nella storia d’Europa una novità disgraziata: la tendenza a separare la morale dal bene e perfino dall’utile. L’ultramoderno Isaiah Berlin ha sostenuto addirittura che il modello dei conformisti radicali è “il Satana di Milton, che dopo aver visto l’agghiacciante spettacolo dell’inferno persiste ciò nondimeno nei suoi disegni malvagi”. Risultato della bizzarra miscela di amore disinteressato e amore insensato, è un’ostinazione

19 Citato da Paolo Pasqualucci, cfr. “Giovanni XXIII e il Concilio Ecumenico Vaticano II”, op. cit., pag. 33.

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masochistica, acclamante la catastrofe universale e la bellezza delle “uscite dall’essere” in direzione dello zero metafisico. Anticipando la soluzione autodistruttiva del tardo Novecento, Simone Weil, sacerdotessa del sospetto affermò appunto che "Noi dobbiamo amare il male in tanto che male" 20. L’epilogo del laicismo è la maledizione del creato e la calunnia rivolta contro il Creatore. Giacomo Leopardi è, infatti, il legittimo erede dell’Illuminismo. Per contrastare il disfattismo degli autodistruttori, già incubanti nel XIX secolo, un insigne maestro della libertà cristiana, il padre Luigi Taparelli D’Azeglio, aveva opportunamente rivendicato la teoria tomista sulla naturale inclinazione della volontà al bene: “Ogni atto morale muove dalla brama della felicità, come da principio indeliberato … onde qualunque volta io opero deliberatamente opero perché bramo il mio bene” 21. Ovviamente, la scoperta della tendenza indeliberata al bene non autorizza a ritenere che l’umanità non abbia la facoltà di scegliere. Tale era, ad esempio, l’opinione di Pasquale Galluppi: “Se un sasso, cadendo, potesse conoscere il proprio operar crederebbe come noi di essere libero nel tendere al centro; eppure sarebbe necessità di natura quella che egli crederebbe elezione di libertà” 22. Tapparelli D’Azeglio ha confutato la tesi del Galluppi, dimostrando che “La ragion di bene ossia il bene in genere fu il motivo della volontà per tenere a un bene particolare prima col compiacersene poi col volerlo. Il primo motore adunque della volontà (presupposto l’obbietto particolare in cui la mente ravvisò una ragione di bene) fu il bene in generale, obbietto proprio della volontà: ma questo bene apparendole sotto forme limitate la lasciò pienamente in balia di sé medesima; libera essa fu dunque nella intenzione del bene onesto”. Il rifiuto del pessimismo

20 Simone Weil, Cahiers, III, Edizioni Adelphi, Milano 1989.21 Cfr.: “Saggio teoretico di diritto naturale”, Napoli, 1850, vol. I pag. 25.22 Op. cit., pag. 20.

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radicale è motivato dalla realistica considerazione della “libertà che fu libera sempre fuorché nel primo impulso che al bene la portava e la porta. In due principii risolvesi adunque ogni atto libero cioè nella natural tendenza al bene in generale e nella rappresentazione del bene particolare” 23. Dal suo punto di vista Antonio Rosmini ha condiviso la tesi del Tapparelli sull’universale tendenza al bene sostenendo che la volontà, per essere buona, deve odiare il nulla. I maestri dell’immanentismo moderno, hanno invece ridotto il principio indeliberato a cieco impulso, facendo crescere una selva babelica di dottrine paradossali, che coniugano il determinismo con la rivolta contro l’esistente. È dunque inevitabile ammettere che la libertà della persona umana non può abitare in mezzo alle maschere filosofiche e ai tetri fantasmi emanati dalla superstizione arcaica e dall’ateismo moderno. Nell’enciclica Spe salvi, Benedetto XVI, dopo aver sollecitato l’autocritica della modernità, afferma che va incontro ad un vicolo cieco l’intenzione di superare l’illuminismo senza abbandonare la teologia del sospetto soggiacente a tutti gli ateismi. Secondo il papa restauratore, Theodor Adorno, pur avendo “formulato la problematicità della fede nel progresso in modo drastico” (“Spe salvi” § 22) cade nelle contraddizioni ultime del moderno rovesciando l’insegnamento biblico sulla bontà del creato in una gnosi moralistica affermante che “Un mondo, nel quale esiste una tale misura di ingiustizia, di sofferenza degli innocenti e di cinismo del potere, non può essere l’opera di un Dio buono” (“Spe salvi” § 22 e 42). Occorre dunque fare un passo indietro dal “moderno”e riconoscere che la libertà discende dalla verità cristiana e soltanto da essa.

23 Op. cit., pag. 26.

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IIIIl cammino della libertà

Nel solco del Vangelo, San Tommaso d’Aquino ha dimostrato che la libertà comincia dall’indipendenza (assenza di vincoli) che l’uomo rivendica per le sue azioni: Quantum ad exercitium actus voluntas a nullo obiecto de necessitate movetur 24. Di qui l’esigenza di liberare il tomismo dalle ipoteche accese dalla tarda scolastica e riscoprire, al seguito di Cornelio Fabro, gli argomenti addotti dall’Angelico per restaurare la nozione di libertà quale segno della divina somiglianza della persona umana. Alla luce della metafisica tomistica, si può finalmente capire che l’atto della libertà rappresenta la partecipazione della creatura alla creazione di un uomo nuovo, conforme ad una nuova essenza. La nuova creatura, del resto, è il tema dominante della teologia cristiana esposta nelle Lettere di san Paolo: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono e a lui gradito e perfetto” (Romani 12, 2). Sartre ha forse intravisto (pur travisandola) questa innovativa verità. Lo lasciano intendere le pagine convulse e baluginanti del voluminoso “L’être et le néant”, dove si

24 Summa theol., Ia – IIae, q. 10, a).

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sostiene che la volontà dell’esistente precede e in certo modo crea la sua essenza. Liberata dall’ossessione atea, la tesi di Sartre produce un’apertura all’orizzonte della creatività umana. Mediante l’uso responsabile e coerente della libertà, infatti, l’uomo può diventare “causa sui”, creatore (per partecipazione) della propria novità e del proprio destino eterno. E può diventarlo dal momento, che la radice della libertà è, come sostiene Fabro, la creatività partecipata. Per inciso: è questa la vera causa della dignità conferita alla persona umana. Un’insigne interprete della metafisica fabriana, Rosa Goglia, afferma, appunto, che il cammino di Cornelio Fabro “Procede da San Tommaso e con San Tommaso verso Kierkegaard, ossia dall’Essere come fondamento al Singolo come assoluto esistenziale per partecipazione” 25. A sostegno del suo assunto, Rosa Goglia cita un fondamentale giudizio di Fabro: “Per il fatto che l’uomo si eleva nella sfera dello spirito, qualcosa si muta in ordine all’essere stesso, alla sua struttura trascendentale e categoriale”. Di qui la definizione del vero anticonformista: “Da questa radice è sorta [in Kierkegaard] la dottrina centrale della sua antropologia, la teoria della Massa e del Singolo. Il Singolo è appunto l’individualità spirituale perfettamente sviluppata, come quella che ha operato la scelta dell’Assoluto ed ha ottenuto la salvezza del suo essere – della sua libertà – con l’inserzione nell’Onnipotenza che salva. ... L’Onnipotenza, dice Kierkegaard, non rimane legata al rapporto ad altra cosa, perché non vi è niente di altro a cui si rapporta; no essa può dare senza perdere il minimo della sua potenza, cioè può rendere indipendente” 26. Rosa Goglia conclude il suo acuto commento affermando che “Secondo Fabro questo testo è l’espressione, forse, più ardita e profonda di tutta la storia del pensiero. Così Kierkegaard esprimeva a distanza di sei secoli la stessa

25 Cfr.: “Cornelio Fabro filosofo della libertà”, Biblioteca di “Filosofia oggi”, Genova 2000, pag. 1426 Ibidem.

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dialettica Onnipotenza - libertà di cui San Tommaso, con una riflessione insolita, tutta moderna, faceva il punto di partenza in elevazione trascendentale. È proprio della dignità di Dio ch’Egli muova e inclini e diriga tutte le cose, ma così ch’Egli resti non mosso né inclinato né diretto da nessun’altra cosa. Pertanto – ecco l’osservazione nuova che vorrei chiamare il passaggio al limite di tutto il pensiero occidentale – più una natura è vicina a Dio e tanto meno è da qualcos’altro inclinata ed è più in grado d’inclinare se stessa” 27. In un pregevole saggio sulla filosofia di Fabro, una giovane studiosa lombarda, Luisella Scrosati osserva giustamente che “Per conciliare e la causalità totale di Dio sulle creature e la libertà umana, l’idealismo risolve quest’ultima nell’essenza divina. L’uomo non è fuori di Dio, ma in lui e la sua attività è un momento della vita divina. In quest’ottica, la libertà richiede dunque il panteismo, l’immanenza di Dio nella storia umana”. Negata la trascendenza di Dio, l’idealismo replica la negazione spinosiana della libertà: “E così la libertà umana viene interamente assorbita o, se si preferisce, dissolta nella necessità dell’Assoluto. Hegel, nella sua Fenomenologia dello Spirito, delinea appunto il percorso dello Spirito assoluto che si realizza nella storia: è lo Spirito, l’Assoluto, l’unico “protagonista” della storia; tutto il resto si fa momento necessario della sua realizzazione” 28. Ai seguaci della fallace opinione sulla libertà, Fabro replica che «L’io è libero non perché si trasferisce e si annienta nell’Infinito, neppure perché si lascia essere (cioè trascinare all’infinito) nel finito, ma perché si erge come affermazione di capacità di scegliere l’Assoluto». In “Partecipazione e causalità in San Tommaso d’Aquino”, Fabro aveva già posto le basi della sua teoria della libertà, dimostrando che all’Angelico va attribuito il merito di aver confutato l’estrinsecismo platonico e l’occasionalismo: negli argomenti a sostegno di tale negazione affondano le radici del vero umanesimo.

27 Ibidem.28 Cfr.: “La libertà nel pensiero di Cornelio Fabro”, inedito.

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Scriveva Fabro: “La volontà creata è causa integrale, nel suo ordine, del proprio atto ch’è il suo effetto, come lo è la natura nel proprio ordine per i fenomeni naturali: San Tommaso, che ha respinto il separatismo ed estrinsecismo platonico su tutta la linea della costituzione degli esseri, lo ha energicamente bandito anche dall’ordine dinamico, negando il passo a qualsiasi forma di occasionalismo. Nell’ordine predicamentale, quindi gli effetti particolari derivano direttamente dalle proprie cause particolari alle quali corrispondono; gli atti di scelta delle volontà create sono effetti corrispondenti all’esercizio delle rispettive libertà dei soggetti singoli, perché effettivamente l’uomo mediante la libertà va conosciuto causa sui. Questa rivendicazione della originalità della causalità finita, e soprattutto nella sua forma più alta ch’è la libertà creata, è forse il frutto più profondo dell’assimilazione fatta da San Tommaso del naturalismo aristotelico così che, al di sopra di tutte le altre correnti del pensiero cristiano, si può parlare di un autentico Umanesimo tomistico ch’è nel fondo l’espressione perenne di quella rivendicazione della divina dignità dell’uomo che dev’essere l’Umanesimo cristiano”. Alla luce delle geniali e innovative focalizzazioni, per mezzo delle quali Fabro ha restituito alla metafisica di San Tommaso l’originale splendore, la dottrina cristiana sulla libertà si afferma come l’unica in grado di ribaltare le situazioni di alienazione e frustrazione costruite dal pensiero moderno. Ora la chiave della soluzione vincente formulata da Fabro, è una meditata (e documentata) affermazione del primato della volontà, ossia la confutazione di quell’unilaterale formalismo (o essenzialismo) della scolastica decadente, che ha offuscato e debilitato la metafisica di San Tommaso: “Questa supremazia esistenziale attiva della volontà, scrive Fabro, è l’esigenza più sentita del pensiero moderno, il quale però ha oscillato paurosamente fra l’assorbimento della volontà da parte dell’intelletto o dell’intelletto da parte della

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volontà optando o per il dominio della ragione o per il titanismo dell’azione” 29. Fabro, interpretando l’insegnamento cristiano (non supinamente aristotelico) del tomismo, ha quindi dimostrato che la volontà umana può opporsi vittoriosamente alle potenze che hanno ispirato e suggerito le diverse formule del determinismo, “Può dominare la molteplice pressione non solo oggettiva da parte delle cose (valori reali, utilità, vantaggi...) ma anche soggettiva (inclinazioni, passioni, aspirazioni...)” 30. Dopo il restauro fabriano, il cammino del tomismo

conduce alla soluzione del problema della libertà. Gli amanti della libertà senza compromessi con l’errore, possono finalmente resistere ai banditori delle fisime illiberali del liberalismo, il culto dell’utile e la mistica della produzione. L’argomento decisivo, l’unico che può ostacolare il riflusso delle suggestioni liberali, è la rivelazione dell’insanabile conflitto che oppone la libertà ai miti intorno al primato dell’economia. Nicola Petruzzellis ha dimostrato che l’indizio di tale conflitto sta nelle pagine della marxiana “Critica dell’economia politica”, dove si dichiara che “nella produzione sociale della loro vita gli uomini entrano in rapporti determinati e necessari, indipendenti dalla loro volontà” 31. L’uscita dall’incubo moderno inizia dove si chiarisce che la filosofia a monte del liberalismo comunica direttamente con il determinismo marxiano e riflette le fumose e ingannevoli superstizioni intorno al fato e alle sue vane apparenze. La filosofia dell’utile è l’ectoplasma dell’oscurantismo pagano, che invade – avvelenandoli – i teatrini della comunicazione sociale.

29 Cfr.: “Riflessioni sulla libertà”, op. cit. pag. 49.30 Ibidem.31 Cfr.: “Strumentalità dell’utile”, in ”Il non primato dell’economia”, Sesto Incontro Romano 1978, edizioni Volpe, Roma 1979, pag. 194.

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Dominata dai fantasmi del paganesimo, l’ideologia liberale è un abbaglio salottiero, ispirato dalla cupidigia e dal culto superstizioso delle utilità, e sostenuto del pregiudizio intorno al primato dell’economia. Una superstizione rozza, che moltiplica la stupidità del secolarismo, avvolgendola in quella religione della cupidigia e dell’azzardo universale, che celebra i suoi riti nella borsa valori. L’unico antidoto all’alienazione economicistica, promossa dall’utilitarismo liberale, è dunque la fuga dalla massa e la conversione alla vita fedele a quella verità di ragione, che afferma il primato dello spirituale. Al riguardo è doveroso ricordare che, nel cuore degli anni di piombo, un geniale e ardimentoso organizzatore culturale, Giovanni Volpe, si oppose alla tirannia del pensiero unico intitolando al “non primato dell’economia” uno dei più animati e fruttuosi incontri romani della fondazione Gioacchino Volpe. La vera libertà nasce, infatti, dall’affrancamento della persona umana dal fascino emanato dai mezzi materiali, che seguono come ombre l’avvilente potere del desiderio profano.

La confutazione dell’ideologia liberale si legge nella scintillante pagina scritta da Kierkegaard per ridicolizzare mito del numero. In essa si trova il fondamento del vero anticonformismo, l’abbandono del singolo alla divina Provvidenza: “La legge è questa: tutto ciò che, per diventare importante, ha bisogno del numero, è eo ipso privo di importanza ed è tanto meno importante quanto più grande è il numero di cui abbisogna. Tutto ciò che non può essere realizzato, arrangiato, compiuto se non per via del numero e che poi gli uomini ammirano stupefatti, come se ciò fosse la cosa importante, è proprio cosa senza importanza. Ciò ch’è veramente importante sta in senso inverso, ha sempre meno bisogno del numero per poter compiersi, e per la cosa più importante di tutte, per quella che muove cielo e terra non c’è bisogno che di un solo

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uomo, se c’è bisogno di più questo sottrae. Le guerre europee, le rivoluzioni, le esposizioni d’arte e i giornali a tiratura gigantesca ecc. non possono certamente essere allestiti da un uomo solo. Ma la cosa più importante di tutte, ciò che interessa angeli e demoni, è che un uomo si metta in rapporto con Dio: per questo un solo uomo basta” 32. A malgrado della distanza del suo pensiero dalla filosofia kierkegaardiana, Michele Federico Sciacca ha condiviso il principio che contempla la superiorità del bene personale sull’astratto benessere della massa. Sciacca sostiene, infatti, che “la legge deve garantire il libero esercizio dei diritti personali per i fini del singolo. Essa è valida nella misura in cui lo garantisce, vi si uniforma e non lo ostacola. … anche se la legge ci garantisce l’ottimo degli ordini sociali e politici, e il massimo di benessere, se è ingiusta, negativa della persona e dei suoi diritti innati, non si ubbidisce, ci si ribella proprio per la giustizia superiore di rispettare la dignità dell’uomo, che non è fatta da alcun ordinamento esteriore ma dalla sua libertà interiore, dalla legge morale secondo cui si perfeziona e dalla destinazione trascendente che lo compie ” 33. Va da sé che la libertà, intesa come emancipazione spirituale dal numero, non giustifica l’apolitia dei neghittosi e non incoraggia le fantasticherie arcaiche dei pauperisti. Il Vangelo è sempre stato e rimane all’avanguardia nella guerra contro la miseria e la fame. Hanno, infatti, una radice cristiana (patristica, benedettina, tomistica, umanistica e controriformista) i valori dell’Occidente che sono degni di sopravvivere alla crisi contemporanea. In vista della produzione dei beni indispensabili alla vita umana il magistero cattolico ha sempre incoraggiato le politiche di sviluppo tecnologico. Nel Radiomessaggio per il Natale del 1953, Pio XII ha stabilito che la tecnica è un dono divino, da usare con saggezza e al riparo dalla furia manichea.

32 Cfr.: “Diario”, XI2 A 167; Morcelliana, Brescia 1963, vol. II, pag. 634.33 Cfr.: “Tematica del pensiero politico-giuridico di A. Rosmini”, in “Rivista rosminiana di filosofia e di cultura”, aprile-settembre 19612, pag 251.

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Se non che la promozione della tecnica e l’incremento della produzione di beni non occupano il cuore della filosofia del liberalismo, che è invece dedicato al servizio della volontà di potenza e alla persecuzione degli uomini liberi 34.

IVNecker, il senso comune

ferma la mano magica del mercato

La partita tra pensiero cattolico e illuminismo non è ancora chiusa come si evince dai discorsi di Benedetto XVI attenti alle novità filosofiche che sono intese “A far esplodere tutte le contraddizioni che, oggi, di fronte ai problemi drammatici riguardanti la vita e la morte degli uomini rendono sempre più incerta ed impotente ogni presa di posizione meramente razionalistica e totalmente disancorata da certezze trascendenti e assolute”. La consapevolezza della crisi in atto non esclude, tuttavia la ricerca di un’intesa con quelle istanze della modernità, che sono dettate dalla ragione e perciò si pongono in contrasto con l’ideologia razionalistica. Ora suggerisce un’esplorazione del versante razionale e non ideologico del XVIII secolo un saggio sul pensiero di Jacques Necker, che Antonio Tomarchio, giovane e sagace ricercatore dell’università di Catania, ha pubblicato nella

34 Non a caso Locke, il sommo maestro dei liberali, dichiarava che la libertà va concessa a chiunque eccezion fatta per i cattolici.

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“Rassegna siciliana di storia e cultura” diretta dal compianto Dino Grammatico. Grazie ad un’attenta e imparziale analisi del “Trattato sui grani” Tomarchio ha scoperto, infatti, i pensieri non allineati e non illuminati del celebre banchiere ed economista ginevrino. Durante il regno di Luigi XVI, Necker apparteneva all’esclusivo club degli illuministi. Gli imparruccati D’Alambert, Helvetius e Diderot erano abituali frequentatori del suo salotto parigino. Negli ambienti monarchici il pensiero antagonista non si era ancora manifestato: perfino De Maistre e De Bonald condividevano la cultura egemone. L’alta società francese, il salotto e il “palazzo” confidavano nel potere infallibile attribuito ai lumi. Nella seconda metà del Settecento, fra i conservatori illuminati circolavano liberamente le illusioni e le fisime intorno agli effetti sempre salutari e felici delle liberalizzazioni sfrenate. All’osservatore odierno è difficile immaginare gli effetti devastanti causati dalla sequela delle leggi dedotte dal mito della mano magica. L’Occidente contemporaneo conosce solo un liberalismo circospetto, decelerato dall’esperienza e avviato dalla critica verso l’economia solidale di mercato. L’ideologia propriamente detta liberale è tenuta sotto schiaffo dal dubbio sulla mano magica: i suoi banditori non osano ostacolare la sequela di metodi eterodossi, quali i provvedimenti atti a compensare i danni procurati all’agricoltura dalle calamità naturali e a calmierare i prezzi dei beni di prima necessità. Nel Settecento, invece, la rigida – propriamente fanatica - applicazione dei dogmi affermati dall’ideologia in vista dell’utile astratto, contemplava la licenza di esportare il grano, innescando quei vertiginosi e selvaggi aumenti dei prezzi che trasformavano l’acquisto del pane in un vero dramma per i meno abbienti. A mal grado della sua appartenenza all’oligarchia illuministica, Necker rifiutò – in nome del buon senso e della solidarietà – l’astratta logica delle liberalizzazioni, che procuravano ingenti guadagni ai proprietari terrieri e agli

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esportatori di grano, mentre stabilivano prezzi proibitivi per il pane, alimento principale dei meno abbienti. Tomarchio definisce e commenta la politica di Necker con semplicità e chiarezza: “Con il principio della libertà di disporre della proprietà senza alcuna limitazione si crede di difendere la pubblica felicità, ma in realtà accade il contrario. Privare un regno dei prodotti utili al nutrimento dei suoi abitanti per venderli all’estero ottenendo in cambio denaro, è ciò che Necker biasima”. Necker assumeva una posizione d’avanguardia affermando il principio della destinazione sociale della proprietà: “La liberalizzazione del commercio dei grani, nella misura in cui favoriva una piccola parte della società [i proprietari terrieri e gli esportatori di granaglie] contro l’interesse generale doveva essere abolita, senza alcuna preoccupazione di intaccare i diritti della proprietà”. L’aspetto singolare della polemica condotta dal moderato Necker contro i liberalizzatori selvaggi, è, appunto, la sua giustificazione per mezzo di un principio desunto dalla tradizione cattolica: la proprietà è inviolabile purché favorisca il raggiungimento del bene pubblico, bene che consiste nel coniugare la produzione della ricchezza per i privilegiati con la tranquilla e dignitosa esistenza di tutti. Non a caso il divieto di esportare il grano fu una costante direttiva del governo pontificio (e di conseguenza l’argomento principale della boriosa polemica anticlericale, condotta dai liberali puri e duri in nome del progresso attuato, ad esempio, mediante l’imposizione di tasse sul macinato) 35. La rievocazione della annosa polemica sulla libertà del mercato dimostra che la conquista del benessere diffuso non è un risultato ottenuto dalla “mano magica del mercato” (ad altro esito indirizzata dai prestigiatori liberali e dai

35 In forza della opposizione all’ideologia, due grandi protagonisti dell’opposizione cattolica al secolo liberale, Gregorio XVI e Pio IX, si opposero strenuamente alla mitologia liberale che spacciava la mano magica del mercato quale giustificazione del traffico d’oppio organizzato dalla Compagnia del Indie.

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santoni della finanza) ma il frutto del provvidenziale incontro dei principi dell’umanesimo cristiano con le conquiste della tecnologia. Non per niente il liberalismo “puro e duro” ritorna sulla scena contemporanea solo nella veste di quell’arnese ideologico esausto, che suggerisce comportamenti affaristici spregiudicati quale, ad esempio, l’inseguimento della convenienza negli acquisti delle merci prodotte dallo schiavismo cinese. Tali comportamenti ripugnano alla coscienza dell’umanità più matura e perciò mettono fuori gioco l’ideologia liberale. I promotori cattolici della Fondazione Laogai, che si oppongono strenuamente all’immorale traffico delle merci taroccate prodotte nei campi di concentramento cinesi, indicano i limiti dell’ideologia liberista. La loro opposizione, dettata dal buon senso che ispirava il pragmatico Necker e il governo pontificio, rammenta che la libertà di mercato è utile solo se associata ai principi indeclinabili del diritto naturale. Fantasma del XVIII secolo, la pura ideologia liberale sembra vincente grazie ai successi conseguiti nel Novecento mediante l’applicazione del principio di solidarietà. Principio “eterodosso” cioè contrario alle regole stabilite dai narratori settecenteschi delle fiabe intorno alla mano magica. Al proposito è necessario rammentare che il tracollo del sistema ideologico comunista non è stato avviato da un classico partito liberale ma da un sindacato di cattolici polacchi, che affermavano la cultura solidale. La formula “cattolicesimo liberale” va rovesciata nella più realistica espressione di un liberalismo rettificato dalla dottrina sociale dei9 cattolici. Liberalismo cristianizzato non significa il cedimento del cattolicesimo all’ideologia ma, al contrario, la demitizzazione della “mano magica del mercato” e l’auspicato arretramento del pregiudizio ideologico davanti al metodo pragmatico, che istituisce il ragionevole equilibrio tra la libertà di mercato e la solidarietà. Secondo uno schema a suo tempo proposto da Necker.

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VLa violenza e l’ordine

Nato a Barcellona nel 1915 da una famiglia aristocratica (suo padre, Eugenio, fu un noto drammaturgo, oltre che lucido sostenitore della destra moderna), Álvaro d’Ors, appartiene alla ristretta cerchia dei testimoni (Francisco Elias de Tejada, Juan Vallet de Goytisolo, Pedro Galvao de Sousa e Miguel Ayuso Torres) che hanno incrementato la tradizione civile del Cattolicesimo ispanico. Nel 1936, prima di terminare gli studi giuridici, grazie ai quali diventerà docente di diritto romano, Álvaro D’Ors si arruolò come volontario nell’esercito carlista, alleato di Francisco Franco, e prese parte alla Guerra di Liberazione dalla tirannia. Nel 1943 vinse il concorso per la cattedra di Diritto romano nell’università di Granada. In seguito e fino al 1985, insegnò nelle università di Santiago di Compostela e di Navarra. La sua ingente produzione comprende saggi di diritto romano e scritti di carattere filosofico – politico - giuridico. Scritto nel 1987, il saggio di Álvaro d’Ors sull’uso legittimo della forza è articolato in tre parti (Retrospettiva, Introspettiva, Prospettiva) alle quali è stata aggiunta ultimamente una significativa nota, che aggiorna il testo

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mediante una riflessione sui drammatici eventi del 2001: gli scontri durante il convegno genovese del G8 e l’attentato islamico alle due torri di New York 36. Nella prima parte, implicita confutazione della dottrina buonista sulla non violenza e conseguente riabilitazione dell’uso legittimo della forza, è rivendicata la dignità morale dell’Alzamiento cattolico del 1936: l’iniziativa dei franchisti “era assolutamente necessaria per evitare la rivoluzion,: essa fu una legittima difesa anti-rivoluzionaria”. Al proposito è necessario rammentare che tra il luglio 1936 e l’aprile 1939 subirono il martirio 6.832 cristiani, 4.184 appartenenti al clero diocesano, dodici vescovi, un amministratore apostolico, 2365 religiosi e 238 tra suore e seminaristi 37. I cattolici furono perseguitati senza altro motivo che l’odio teologico. L’accusa di aver provocato la collera dei comunisti, che Emmanuel Mounier rivolse ai vescovi ispanici firmatari di una condanna della rivoluzione, è un falso grossolano. La presunta “provocazione” dell’episcopato spagnolo, infatti, avvenne cinque anni dopo il 1931, data d’inizio della persecuzione comunista (incendio delle chiese e massacri di sacerdoti e religiosi) 38. Il giudizio di D’Ors coincide con la tesi di Vitaliano Mattioli, un sacerdote romano docente dell’Università Urbaniana, che ha violato la legge del potere culturale e il tabù storiografico pubblicando, per i tipi dell’editore De

36Álvaro d’Ors, “La violenza e l’ordine”, traduzione e nota biobibliografica

di Paola Helzel, Costantino Marco, Lungro di Cosenza, 2003. Cfr il sito internet www.costanet.it/marcoeditore.

37 Cfr.: Alberto Rosselli, “La persecuzione dei cattolici nella Spagna repubblicana”, Solfanelli, Chieti 2008.38

Mounier accreditava la leggenda inventata dalla propaganda anticattolica in odio, sono sue parole, “al sordido anticomunismo, pieno di paura e di egoismo, che sottolinea la sproporzione fra la mediocrità che lo sostiene e il formidabile slancio storico che il comunismo ha provvisoriamente e parzialmente captato” (“L’anticomunismo”, nel giornale “Le voltigeur”, 16 novembre 1938).

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Fina, un saggio il cui titolo non lascia dubbi sull’esplosivo contenuto: “Massoneria e comunismo contro la Chiesa in Spagna 1931-1939”. Don Mattioli non è prigioniero di schemi astratti e di pregiudizi partigiani e, pertanto, può esaminare i fatti della storia senza pagare pedaggi a destra o a sinistra: analizza le cause prossime e remote che hanno preparato la guerra civile stemperando e corrompendo la fede dei popoli ispanici, non tace, infatti, le gravi responsabilità di quell’oligarchia retriva che la vulgata di sinistra vuole associare alla Chiesa. All’origine della decadenza spagnola si trova, lo rammenta Mattioli, l’influenza dell’Europa protestante, che diffuse nella Spagna assolutista e codina di Carlo III (1759-1788) e, dopo la parentesi relativamente felice del regno di Ferdinando VII (1814-1833), in quella liberale d’Isabella e dei suoi successori, i semi corrosivi dello scetticismo e dell’irreligione. La rivoluzione che ha devastato la Spagna, trovò un perfetto terreno di cultura nella mentalità modellata da almeno due secoli di propaganda anticlericale, oltre che negli stati d’animo destati dalle sette iniziatiche, lubrificate dal denaro dell’oligarchia inglese. La resistenza carlista e franchista ebbe dunque il carattere di lotta per la restaurazione della Cristianità. D’Ors cita la lettera pastorale scritta nel 1936 dal vescovo di Salamanca: “L’attuale lotta riveste, sì, la forma esterna di una guerra civile, ma in realtà è una Crociata. Fu una sommossa, però, non per turbare, bensì per ristabilire l’ordine”. Di recente Giovanni Paolo II ha sollevato il velo dell’impostura storiografica, conferendo ad un alto numero di vittime del comunismo la dignità dei martiri e l’onore degli altari. «Per decenni», ha scritto Vittorio Messori nel saggio “Pensare la storia”, «anche per un certo mondo cattolico, sembrò che chi doveva farsi perdonare e far dimenticare, nella tragedia spagnola, fosse la Chiesa, non fossero gli anarchici, i socialisti, i comunisti. Ed è con fastidio che si

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respingeva l’idea stessa di martirio di quegli innocenti, fino al punto di bloccare i processi canonici per la beatificazione». Si può dunque condividere il giudizio di D’Ors, secondo cui la Spagna, “deve la propria identità ad un conflitto interno fondamentale, certamente bellico, da cui si generò l’impronta imposta dal vincitore: una guerra civile configurante”. A differenza dell’Inghilterra e della Germania, che ricevettero la loro identità moderna da conflitti tra cristiani, nel caso della Spagna, infatti, “l’elemento caratteristico è che la guerra costituente fu una guerra contro la popolazione infedele”. In questa teoria generale, che contempla la guerra civile configurante, qualcuno potrebbe intravedere una vaga dipendenza dalla dialettica amico-nemico elaborata dal fumoso Carl Schmitt. Si tratta di un’ipotesi errata, ed infatti D’Ors cita un testo del Beato Josemaria Escrivà, che allontana la fastidiosa ombra di Schmitt: “La guerra è il massimo ostacolo ad un cammino facile. Però, alla fine, dobbiamo amarla come il religioso deve amare le sue discipline”. Certo è che l’identità storica della Spagna dipende, senza ombra di dubbio, da due crociate combattute contro nemici, la falsa profezia maomettana e l’ateismo sovietico. In forza di questa ovvia verità storica, D’Ors afferma risolutamente che la cultura politica della Spagna è radicalmente opposta a quella dell’Europa: “In tal senso la Spagna non appartiene all’Europa ... e qualsiasi intento europeizzante presuppone, per noi, una deviazione dell’essenza dello spirito ispanico. Per lo stesso motivo, la confessionalità cattolica viene ad essere un’esigenza politica, malgrado le dichiarazioni della Chiesa sulla libertà religiosa, che non possono colpire l’essenza della Spagna, sempre più papista del Papa”. Compatibili con le tesi anti europeiste di De Tejada, le affermazioni di D’Ors sono perfettamente condivisibili anche perché l’incresciosa Europa dei burocrati infeudati a Bruxelles, al confronto con la realtà delle Nazioni cattoliche,

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ha una consistenza molto inferiore a quella di un’arbitraria espressione geografica. Nella seconda parte del libro, “Introspettiva”, D’Ors svolge alcune interessanti considerazioni sulla teologia politica. In primo luogo, seguendo la lezione di San Tommaso d’Aquino e dei teologi controriformisti, allontana le suggestioni assolutistiche, derivate dall’idea neopagana di “sovranità” politica, affermando, senza mezzi termini, l’esistenza di un principio superiore allo stato, cioè la naturale subordinazione dell’autorità umana all’autorità divina: “Tutti coloro che sono chiamati sovrani, nonostante la loro apparente maestà, siano essi re autocratici o costituzionali, governi oligarchici o democratici, non sono altro che delegati che devono comandare nel nome di Gesù e ai quali bisogna obbedire per il seguente motivo: per la potestà che hanno ricevuto da Lui”. Da questo principio l’autore fa discendere una forte obiezione all’idea di sovranità popolare (o assolutismo democratico), così definita: “La radice teologica dell’errore democratico deriva dalla confusione tipicamente protestante, che termina inevitabilmente nell’ateismo, il cui Deus absconditus non è semplicemente un Dio spirituale e nascosto poiché i nostri sensi non lo riescono a percepire, bensì un Dio assente – che si trova oltre le stelle, e lì resta, come nell’Inno dell’Allegria – un Dio che non si interessa delle cose umane e che per questo lascia l’uomo in assoluta indipendenza”. Della terza parte dell’opera, “Prospettiva”, è in modo particolare interessante lo sviluppo di una dottrina del lavoro intesa a superare il pregiudizio materialistico, che sta a fondamento sia del liberalismo sia del comunismo. La premessa dell’originale teoria proposta dall’autore è che il concetto di lavoro “è eccessivamente ristretto se si riduce solo a ciò che esige uno sforzo fisico, e, per di più, anche di valore economico. Con un concetto tanto ridotto, il poeta e la carmelitana, la madre di famiglia che culla suo figlio, la fanciulla che rammendando la calza tiene d’occhio le vacche del padre, e chi insegna gratuitamente ad altri, il filosofo ed il vescovo, non sarebbero lavoratori; di fatto quando si parla

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di lavoro non si suole inserire coloro che non realizzano un lavoro attivo, soprattutto manuale e non remunerato”. Pertanto l’autore conclude che è preferibile parlare di servizio anziché di lavoro: l’esaltazione del lavoro “è stato un modo per riscattare il lavoratore manuale dalla sua ancestrale servitù”, modo che ha però generato il mito della classe, mito che ha fatto avanzare l’ideologia marxiana “fino al punto di declassare i non lavoratori come borghesi che non meritano di vivere”. L’idea di servizio, invece, “esalta non la schiavitù come situazione sociale ma la relazione di servire

VISotto la parrucca,

la cultura della destra popolare

Negli anni che hanno covato la torbida rivoluzione sessantottina, un manipolo intrepido di giovani studiosi appartenenti alla comunità tradizionalista, ispirata e guidata dal filosofo ispanico Francisco Elias de Tejada y Spinola e dai e fondatori della rivista tradizionalista “L’Alfiere”, Gabriele Fergola e Silvio Vitale 39, osò perlustrare le vicende più imbarazzanti (e perciò severamente proibite dal potere 39 Del nucleo che ha costituito la società italiana dei giusnaturalisti cattolici poi movimento tradizionalpopolare, facevano parte, insieme con Francisco Elias de Tejada y Spinola e Silvio Vitale, Giovanni Torti, Paolo Caucci, Tommaso Romano, Pierfranco Bruni, Pino Tosca, Isabella Rauti, Umberto Balistreri, Sergio Fabiocchi, Corrado Camizzi, Pucci Cipriani, Remo Palmirani, Raimondo Gatto, Alessandro Massobrio.

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culturale) della storia modersmo” la spiritualità, controrivoluzionaria e popolare che preparò l’affermazione del romanticismo in Italia . Purtroppo gli intellettuali, che ispirarono la destra emarginata in seguito al colpo di stato del luglio 1960, non seppero sviluppare le intuizioni di Gentile e perciò smarrirono il filo conduttore della tradizione popolare, estenuandosi tra le tesi delnociane (che conducono a Malebranche e al problematico tradizionalismo bonaldiano) e le tesi di Evola, che non conducono ad alcun approdo. De Tejada (nei monumentali volumi della sua “Filosofia del diritto”) ha dimostrato esaurientemente che la filosofia neoidealista di Giovanni Gentile non può diventare l’ultima frontiera della cultura tradizionalista. La religione liberale, che Gentile ha dedotto dalla storia spirituale dell’Ottocento reazionario, infatti, contiene oscurità, che sono visibili nel tentativfæÂÆR–ç6÷&vVç¦RFV’f—fÖ&–36ÒæVÆÆ7F÷&–FVÂ…d””’6V6öÆò–æfGF’Â6’

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40? Cfr. “Del pensiero italiano dal 1815 al 1830” in: “Rosmini e Gioberti”, XXV volume delle Opere complete di Giovanni Gentile, Sansoni, Firenze 1958, pag. 21.

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41? Ibidem.

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in cui sono confinate dai sofismi costruiti dalla sovrana vulgata comunista, postcomunista e cattocomunista. E non solo dalle leggende nere: la genuina ispirazione delle destre è nascosta dalla damnatio memoriae di quei seguaci di san Tommaso d’Aquino, che, a partire dal XVI secolo, diedero vita ad una lucida e strenua opposizione agli errori filosofici a monte dell’assolutismo monarchico. Il cono d’ombra che avvolge la destra tradizionalista ha, infatti, origine dall’ostracismo dei filosofi controriformisti e di tutti i continuatori dell’opera di San Tommaso. Di qui il successo di una fittizia e incapacitante biblioteca genericamente antimoderna, costituita dalle tortuosità percorse da un babelico assortimento di scrittori aporetici e caliginosi, parrucconi e/ o devianti, quali Edmund Burke e Louis de Bonald, Joseph De Maistre e Carl Schmitt, René Guénon e James Hillman, Friederich Nietzsche e Roberto Calasso, Julius Evola e Martin Heidegger, Mircea Eliade e Jan Couliano, Simone Weil ed Elémire Zolla, Thomas Hobbes e Roberto Esposito, Cristina Campo e Gomez Dávila, Alain de Benoist e Massimo Cacciari, Alexandre Kojève e Georges Bataille e via cucendo e confondendo contro il filo della ragione. Sono gli autori che hanno abbassato le difese immunitarie della cultura controrivoluzionaria, abbandonandola all’influsso della confusione neodestra. Le loro tesi falsamente spirituali costituiscono una preziosa conferma degli alibi citati a difesa di quel ramo deviante della cultura cattolica, dove sono maturati i frutti più velenosi dell’eresia nascosta, vale a dire le teorie che attribuiscono alla rivoluzione del 1789 la dignità di un provvidenziale movimento indirizzato alla liberazione dai popoli oppressi delle monarchie profane, in odore di paganesimo. La figura storica e la fonte più genuina della cultura della destra, si trova invece nella dottrina vissuta e non elucubrata dal movimento cattolico dei Viva Maria!. A partire dal 1788, gli insorgenti antimoderni sono stati protagonisti della resistenza popolare all’eversione libertina e all’usurpazione assolutistica, eversione promossa, come dimostrarono esaurientemente l’abbé Augustin Barruel e gli

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storici carlisti, dall’oligarchia cortigiana, che, dopo aver insegnato ai monarchi la maestosa indecenza, lo stupido scialacquio, le odiose rapine fiscali e la bestiale persecuzione degli ordini religiosi, ha coronato la decadenza dell’antico ordine europeo scatenando l’insaziabile cleptomania e il sanguinario giustizialismo dei giacobini 42. Senza conoscere le opere dei tradizionalisti di scuola ispanica e italiana, un ex comunista di acuto e onesto ingegno, Massimo Caprara, ha finalmente indicato nelle concomitanti insorgenze del popolo cristiano contro l’assolutismo e contro l’illuminismo “L’occasione unificante che la vulgata corrente del Risorgimento ha trascurato e che comunque pesa come uno squillante anello mancante”. Nella Toscana umiliata dal giansenismo degli Asburgo; nella Vandea flagellata dai gabellieri e dai ciurmatori giacobini; nel Meridione d’Italia, prima invaso dai giacobini quindi dai garibaldini e infine mortificato dai burocrati piemontesi; nel Messico martirizzato dalle oligarchie laiciste, gli insorgenti cattolici agivano in difesa della libertà popolari, promossa dalla Chiesa, “società vera e perfetta, completamente libera, e titolare di diritti suoi propri e permanenti, ad essa conferiti dal suo divino Fondatore”, secondo la definizione del Beato Pio IX. Paolo Pastori, nel pregevole saggio “Tradizione e tradizionalismi”, dimostra, senza lasciare ombra di dubbio, che gli insorgenti, prima di opporsi al giacobinismo, “vero paradigma di un radicalismo politico irrisolvente”, contrastarono l’arroccamento dell’assolutismo su posizioni senza vita 43. E si domanda: “Quante sono – sul versante di coloro che avversavano il dispotismo monarchico, senza peraltro volere la negazione totale dell’ordine esistente – le voci inascoltate, le attese deluse, le istanze accese da tanto ardente entusiasmo di rinnovamento, quindi troncate e spente da quella ragione generale che in nome della futura felicità del

42 Cfr.: “Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme”, vol 2, Diffusion de la Presse Française, Chiré-en-Montreuil, 1973.43 Cfr.: “Tradizione e tradizionalismi”, Milella, Lecce 1997, pag. 231.

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genere umano impose con la spietatezza della forza, inenarrabili sofferenze, massacri, sopraffazioni?” 44. Non senza fondati motivi, dunque, Pastori attribuisce ai nostalgici dell’Ancien régime l’incapacità di valutare “ciò che accomuna, in una medesima ostilità alla tradizione, i monarchi assoluti, i philosophes, gli idéologues più accanitamente impegnati contro la religione ed i fondamenti stessi dell’ordine etico – politico - istituzionale tradizionale” 45. In un saggio pubblicato di recente, Riccardo Pedrizzi, afferma, dal suo canto, che l’antefatto della tragedia totalitaria, consumata nell’età moderna è costituito dal delirio sovranista di Jean Bodin e dall’assolutismo dei Borbone di Francia. Sono state le “monarchie moderne, che, affermando un potere senza limiti e alleandosi con le oligarchie avventizie, hanno spezzato l’antico legame con il popolo aprendo la strada alle tirannidi rivoluzionarie” 46. Pedrizzi cita, al proposito, un autore cancellato dal bianchetto progressista e colpevolmente dimenticato dagli intellettuali di destra, il conte Monthlosier, che, all’inizio del XIX secolo, denunciava il carattere rivoluzionario e usurpatore dell’assolutismo di Luigi XIV. Secondo Monthlosier non fu tanto la filosofia del 1789 quanto la monarchia borbonica a demolire le istituzioni della Francia cattolica, e a spianare la via al sovvertimento giacobino, producendo il vuoto tra il potere centrale e la società. In questa prospettiva conservazione e rivoluzione fanno parte (come lamentava Maria Adelaide Raschini) di quelle innumerevoli, false contrapposizioni delle quali si nutre la cultura oggi dominante. Non c’è dubbio che solo la circolazione delle nozioni proibite e purtroppo inaudite, che rivelano il fondamento reazionario dei crimini rivoluzionari, può liberare la cultura da questo falso dilemma, ed abbattere i pregiudizi

44 Ibidem.45 Op. cit., pag. 13.46 Cfr.: ”Rivoluzione e dintorni”, op. cit., pag. 97.

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incapacitanti di certa destra ossia intaccare l’ottuso e funereo conformismo impiantato sulle rovine dell’ideologia comunista. Gli intellettuali della destra non devono inventare gli strumenti necessari alla riabilitazione della loro cultura, ma semplicemente imparare a riconoscerli e ad usarli. Ma questo uso non può darsi senza la preventiva rinuncia a quelle suggestioni codine che sono emanate dagli autori che rappresentano la continuità della sovversione anticattolica.

VIIEllenismo, Romanità, Cattolicesimo

Estranea e forse sconosciuta alla cultura della Grecia profonda, l’idea dell’universale solidarietà del genere umano iniziò a diffondersi in Occidente per effetto dell’influenza culturale dell’Egitto e della Persia 47. In seguito il sentimento ecumenico fu tonificato dalla filosofia stoica, che elevò e nobilitò la cultura greca e romana innestandovi alcuni elementi della spiritualità semitica 48. Per valutare realisticamente le origini dell’universalismo politico nel mondo antico e la sua disposizione al Cristianesimo, piuttosto che alla composita cultura di 47 Marta Sordi scrive al riguardo: “Non può sfuggire l’importanza dell’adesione pubblica di Alessandro all’ideologia monarchica persiana, nel momento in cui, sposando egli stesso secondo il rito persiano la figlia di Dario e convincendo gli amici e gli eteri a sposare a loro volta nobili persiane ... egli intendeva sancire l’avvenuta fusione fra vincitori e vinti”. Cfr. “Il re e la verità nella concezione monarchica di Alessandro”, in: Aa. Vv., “Alessandro Magno tra storia e mito”, Jaca book, Milano 1984, pag. 52. La fusione della cultura macedone con la cultura persiana fu consacrata a Susa nel 324, con la celebrazione di oltre diecimila matrimoni “misti”48 L’universalismo, si afferma in opposizione all’ellenismo, cioè come cultura dei “barbari”. I principali rappresentanti della Stoa, infatti, erano estranei alla Grecia “profonda”: Zenone di Cizio era fenicio, Crisippo di origine semita, Posidonio d’Apamea siriaco.

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Alessandro Magno, occorre dunque far riferimento alla filosofia degli stoici, che era antitetica al particolarismo etnicistico delle oligarchie greche. All’interno dell’impero ellenistico, che, nell’immaginario degli intellettuali occidentali, rappresenta il preambolo dell’universalismo, si scontravano, infatti, tre opposte e irriducibili tendenze: la tradizione popolare della monarchia macedone, la mentalità etnicistica (in ultima analisi sofistica e perciò incline alla tirannide) propagata dai greci e sempre associata a suggestioni arcaicizzanti, e, infine, l’universalismo, espressione delle dottrine religiose diffuse nel Medio Oriente da Ebrei, Egiziani e Persiani. Di lì a pochi anni, lo ha dimostrato Virginia Guazzoni Foà, gli stoici tradurranno le dottrine religiose in una filosofia destinata ad influenzare (attraverso l’opera di Cicerone) la

cultura romana e perfino la filosofia di sant’Agostino 49. Il versante propriamente superstizioso e arcaico dell’ellenismo alessandrino, più adatto a colonizzatori che a civilizzatori, è contrassegnato invece dalla tendenza ad imporre ai sudditi la mitologia e il culto del potere. La monarchia, che tra i macedoni era popolare e temperata, nell’interpretazione elaborata durante il regno di Alessandro Magno diventò potere assolutista, sistema al cui vertice stava l’imperatore, oggetto di un culto divino. Marta Sordi, pur sostenendo che il pensiero ellenico era alieno dal riconoscere ad un vivente il diritto al culto divino, riconosce che esso “ammetteva una certa divinizzazione dell’uomo, sollevato dalle sue virtù al di sopra dei comuni mortali (il culto eroico era diffuso largamente nella religiosità greca: Brasida e Timoleonte dopo la morte, e Lisandro ancora vivente avevano ricevuto tale culto, Isocrate, insistendo discendenza eraclide della dinastia macedone, aveva contributo ad elevare sul piano eroico la figura di Filippo)” 50. La “Scienza Nuova” di Vico, nondimeno, aveva già dimostrato che la teologia eroica,

49 Cfr.: Virginia Guazzoni Foà, “Storia del pensiero occidentale Dalle origini alla chiusura della scuola di Atene”, Marzorati, Milano1977, pag. 316 e seg..50 Cfr.: Marta Sordi, “Storia politica del mondo greco”, Vita e Pensiero, Milano 1982, pag. 219.

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dominante nell’antica Grecia nacque da un grossolano errore, che attribuiva dignità divina all’esistenza goffa e immane dei primitivi. Alessandro Magno, in sintonia con tale superstizione primitiva, cui era stato iniziato dalla madre Olimpia 51, si fece proclamare figlio di Zeus Ammone 52, nell’intento di sottrarre il suo regno ai vincoli della legge e dell’autorità popolare, che presso i macedoni era più antica dell’autocrazia. Senza dubbio il culto divino tributato all’imperatore ellenistico è incompatibile con la religione tradizionale dei macedoni 53, tanto da apparire associato ad un ateismo scettico, che nella religione contemplava lo strumento del potere e la fomite della corruzione. Alla metamorfosi oscurantista prodotta dal culto divino del re macedone, si accompagnò e si oppose, tuttavia, un’inedita e feconda coscienza del valore universale della politica, una novità destinata a costituire il fondamento legittimo e non più profano dell’imperium di Roma e la ragione della sua adattabilità al Cristianesimo. Ora la decisiva funzione della novità stoica appare evidente, quando si confronta con la rivoluzione (rivoluzione nel senso che al termine attribuiva l’esoterista René Guénon vale a dire regresso al passato remoto, alla scienza anarchica dei primitivi) attuata dall’imperatore Giuliano l’Apostata per esautorare i cristiani e far retrocedere l’impero alla pura lettera della mitologia greca 54.

51 Marta Sordi sostiene che “Il Macedone era intimamente persuaso della sua discendenza divina (la madre Olimpia doveva avere avuto molta influenza su queste convinzioni e vale la pena di ricordare che a lei, in particolare, Alessandro comunicò con una lettera l’oracolo di Ammone promettendole, a quanto dicono le fonti, ulteriori rivelazioni segrete al suo ritorno in patria”. Cfr. “Storia politica del mondo greco”, op. cit., pag. 216. 52 Nell’inverno del 332 Alessandro visitò il santuario di Giove Ammone nell’oasi di Šiva: in quella occasione la sacerdotessa lo proclamò figlio di Giove. Su questo cfr.: Marta Sordi, “Storia politica del mondo greco”, op. cit., pag. 215.53 Di qui quel rifiuto opposto dai nobili macedoni alla proscunesis , che diede origine alla feroce reazione di Alessandro. 54 Polymnia Athanassiadi-Fowden, nel suo saggio “L’imperatore Giuliano”, Rizzoli, Milano 1984, pag. 138, ha dimostrato che la teologia dell’Apostata era costituita mediante l’arbitrario concorso di elementi poetici e filosofici, in quanto Giuliano non faceva mai distinzione tra lettere sacre e profane.

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Nell’intento di ridestare la fede negli dèi, Giuliano introdusse una legge che costringeva gli insegnanti cristiani a risolvere un dilemma drammatico: “O rinnegare la propria fede, oppure abbandonare il posto eminente che occupavano nella società; scegliendo questa seconda alternativa essi diventavano naufraghi della vita sociale, esposti alla pubblica commiserazione e alla fame. Ma appunto a questo risultato mirava Giuliano: i cristiani dovevano abbandonare i posti eminenti della società, e tutt’al più potevano rimanere come fastidiosi tollerati nei posti senza importanza, fino a che man mano scomparissero anche di qua. Dunque persecuzione sanguinosa, no: bensì lenta asfissia e inesorabile paralisi” 55. Marta Sordi, ha rafforzato questo giudizio: “Giuliano non era solo intollerante, ma anche fanatico e seguace di culti orientali, teurgia, culti caldei e simili. La sua legge sulla scuola è la prova eclatante della sua intolleranza, di cui restano tracce nel testo del Codice teodosiano e in una lettera dello stesso Giuliano che ne spiega le ragioni. … Giuliano assumeva come assodato che la letteratura da Omero in poi fu letteratura sacra, e in base a questo vietò ai cristiani sostenendo che per poter insegnare bisognava credere agli dèi celebrati dagli autori pagani” 56. Occorre aggiungere che, dopo la demistificazione compiuta da Vico, è a tutti evidente che i miti intorno agli dèi greci erano la rappresentazione dell’umanità allo stato selvaggio e non il risultato di una speculazione razionale. L’appello di Giuliano alla tolleranza è dunque destituito di qualsiasi giustificazione laica: la legge dell’Apostata sulla scuola si rivela un maldestro e grottesco tentativo di santificare la pornografia fantastica del paganesimo.

55 Cfr.: Giuseppe Ricciotti, “L’imperatore Giuliano l’apostata secondo i documenti”, Mondadori, Milano 1956, pag. 252.56 Cfr. “L’Avvenire”, 4 agosto 2000. L’autorevole Luigi Gallinari, che ha condotto studi sistematici sul concetto giulianeo di educazione afferma che l’opera di Giuliano “può essere considerata come una continuazione degli scritti anticristiani di Celso e Porfirio, ai quali era debitori di molti argomenti” e conclude dichiarando la validità del giudizio di San Gregorio Nazianzeno, secondo cui Giuliano mantenne sempre un atteggiamento ostile (e persecutorio) nei confronti dei cristiani. Al riguardo cfr. “Giuliano l’Apostata e l’educazione”, Settimo Sigillo, Roma 1992.

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Ma qual era, in fondo, la fede dell’Apostata? Nel denso saggio su Giuliano, Alexandre Kojève, autorevole precursore del pensiero postmoderno, oltre che alto funzionario del Kgb sovietico, ha svelato l’indirizzo laico e sofistico del potere, che ha espresso compiutamente lo spirito dell’ellenismo. Secondo Kojève all’interno del discorso teologico che Giuliano indirizza al volgo profano, si svolge, ad uso degli iniziati, un profondo e nascosto discorso ateo. Kojève sostiene che, nel pensiero tardo ellenistico, la teologia ha la funzione di un gioco intellettuale, concepito per ingannare e sottomettere le anime semplici e fiduciose: “Secondo Giuliano tutti i discorsi teologici sono necessariamente contraddittori nei loro termini e perciò mitici o falsi. … In effetti Giuliano ci dice questo: «Colui che inventa le sue storie poetiche allo scopo di migliorare i costumi e nel far questo utilizza miti teologici, deve rivolgersi non a degli uomini ma a quanti sono ancora dei bambini, sia per età che per intelligenza»”. Nel riconoscimento della motivazione ateista dell’ardente restauratore pagana, il punto di vista del sovietico Kojève coincide curiosamente con quello del neopagano Julius Evola57. Quasi confermando la teoria di Giambattista Vico (e anticipando le teorie dello junghiano James Hillman sull’essenza psichica degli dèi), Julius Evola sostiene, infatti, che la teologia di Giuliano si riduce a sistema degli stati d’animo puramente umani: “Nella rivalutazione, tentata da Giuliano, dell’antica tradizione sacra romana, è l’idea esoterica della natura degli dei e della conoscenza di essi che si fa valere. Una tale conoscenza significa realizzazione interiore. In tale prospettiva gli dèi appaiono non come finzioni poetiche o come astrazioni di teologi filosofanti, bensì come simboli e proiezioni di stati trascendenti della coscienza” 58. La tesi enunciata da Evola, accreditato esperto di esoterismo, svela i motivi profondi della popolarità di

57 La definizione è di Corrado Barbagallo, cfr.: “Giuliano l’Apostata”, Bietti, Milano 1940, pag. 63.58 Cfr.: “Ricognizioni”, Edizioni Mediterranee, Roma 1974, pag. 162.

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Giuliano fra i laicisti d’età postmoderna e perciò conferma il racconto di Gregorio Nazianzeno, che descrive il rito iniziatico cui Giuliano prese parte al tempo del suo soggiorno in Efeso come un’empia discesa negli abissi dell’inganno e dell’autosuggestione. La testimonianza di Eunapio, citata da Gregorio, mostra la struttura ridicolmente illusoria dei misteri, che allettavano soggetti creduli e psichicamente vulnerabili (quale era in fondo Giuliano) promettendo ascensioni vertiginose: “Se ti avvenisse di partecipare ai misteri, ti vergogneresti sommamente di esser nato e chiamato uomo” 59. Giuseppe Ricciotti, trascrivendo e commentando il resoconto del Nazianzeno sull’iniziazione dell’apostata, osservava opportunamente che “Giuliano discese in un santuario sotterraneo inaccessibile al volgo, avendo con sé un uomo abile in prestigi ingannatori, sofista meglio che sapiente. Quei tali, infatti, praticano un tipo di divinazione che esige tenebre e demoni sotterranei per conoscere l’avvenire. ... Che cosa abbia detto in seguito, che cosa abbia fatto, di quali frodi sia stato oggetto lo sanno soltanto coloro che subiscono tali iniziazioni. Ad ogni modo, da quel giorno i demoni s’impossessarono di lui” 60. Giuliano tentò la restaurazione del paganesimo arcaico attuando un piano discriminatorio, che, violando la tradizionale libertà d’insegnamento, contemplava l’esclusione dei cristiani dalla cultura classica. Giuseppe Ricciotti osserva al proposito che “Nei primi secoli di Roma il paterfamilias esercitava la patria potestas curando personalmente l’istruzione del figlio, aiutato tutt’al più da uno schiavo litterator e talvolta posponendo a questo ufficio di padre gli affari pubblici: Catone il Maggiore scrisse di proprio pugno a grossi caratteri un libro sul quale suo figlio doveva esercitarsi” 61.

59Cfr.: “L’imperatore Giuliano l’apostata secondo i documenti”, Mondadori, op. cit., pag. 52.60 Cfr.: “L’imperatore Giuliano l’Apostata secondo i documenti”, op. cit., pag. 56. 61 Cfr.: “L’imperatore Giuliano l’Apostata secondo i documenti”, op. cit. pag. 247.

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L’apostata applicava ad un filosofema - la natura è un assoluto perfetto, una divina coincidentia oppositorum - il modulo totalitario forzosamente tratto dalla prima e fondamentale legge del Cristianesimo: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima , con tutta la tua forza e con tutta la tua mente. Sennonché il totalitarismo cristiano ha senso solo nell’orizzonte del dualismo Creatore - creatura. Nel contesto della religione dell’immanenza la fede totalitaria decade ineluttabilmente nell’idolatria dell’unico oggetto che, ad una vista annebbiata, si mostra come sommo vertice della natura increata: il potere dello stato 62. La teologia giulianea, d’altra parte, stava agli antipodi della concezione romana del diritto, il cui simbolo era il fascio delle libertà e delle dignità familiari. Il bizzarro disegno della cosmopoli, concepito nell’infatuazione per le spurie divinità della mitologia arcaica e attuato nel disprezzo dei valori autenticamente romani, si rivelò anacronistico e comunque incompatibile con la tradizione 63. Senza dubbio, Giuliano fu il precursore di quella parodia religiosa, che caratterizzerà le fasi più oscure del Novecento totalitario. La conferma viene dal fatto che, in vista della rifondazione pagana dell’impero, egli compilò un catechismo, scimmiottatura e caricatura naturalistica di quello cattolico, un catechismo che ha singolari somiglianze con il nucleo immanentistico del c. d. cristianesimo tedesco teorizzato da Alfred Rosenberg e con la (presunta) teologia paolina di Jacob Taubes.

62 E’ ovvio peraltro che la tendenza a riversare la religione nella politica esclude “l’influenza dello spirito cristiano ... nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in tutti gli ordini e ragioni dello stato” auspicata da Leone XIII (Immortale Dei, 1 novembre 1885).63 A proposito dell’estraneità di Giuliano alla cultura e alla tradizione autenticamente romana Pierre Labriolle, cfr.: “Cristianesimo e paganesimo alla metà del IV secolo”, in ”Storia della Chiesa” vol. III/1, SIAE, Torino 1972, pag. 228, rammenta che “Diversamente dagli altri imperatori del IV secolo, Giuliano non conosceva che mediocremente il latino e scrisse sempre in greco”.

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Ma il sogno allucinato di Giuliano (così lo definì il Nazianzeno) offendeva proprio quella pietas romana, che egli presumeva di restaurare. Perfino autori dichiaratamente ostili al Cristianesimo, come Ammiano Marcellino, presero le distanze da un progetto, che, ai loro occhi, appariva superstizioso e irragionevole 64. Nella vicenda esemplare di Giuliano è riconoscibile una verità, che zittisce i lanciatori (ambidestri) di contumelie laiche e iniziatiche contro il guelfismo: l’imperialismo pagano, che prepara l’attribuzione della totalità divina alla polis, si valuta correttamente come farsa pagana, inscenata intorno al modello ecclesiale. Si è fortemente tentati di concludere che il fondamentalismo pagano elucubrato da Giuliano è il precedente ideale delle scenografie totalitarie allestite nel XX secolo da staliniani e hitleriani. Neppure il tenebroso regno di Eliogabalo produsse un’ideologia paragonabile all’estremismo e all’intolleranza dispotica di Giuliano: la giustizia romana, costituita secondo il comandamento “pacis imponere mores, parcere subjectis et debellare superbos”, era, infatti, totalmente estranea al contraffatto sovrannaturalismo e al tortuoso perfettismo. Il fatto è che i romani, a differenza di Giuliano, ignoravano l’esistenza del vero Dio e della sua grazia, e, conseguentemente, non erano in grado di scimmiottarne l’ecclesia. I romani, in altre parole, non aderivano alla scienza sommamente fallace, che è intesa all’adulterazione mondana della spiritualità cristiana. Giuliano, cristiano eretico prima che apostata e mistagogo delirante, possedeva, invece, le coordinate teoretiche necessarie a parodiare la vita ordinata all’imitazione della carità divina: in tal modo egli poté architettare un impero esemplarmente conforme ai princìpi dell’integralismo sconsacrato.

64 Gregorio Nazianzeno, Or., IV, 99.

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Abbagliato dai misteri dell’Ellade ultra antica e dallo gnosticismo asiatico 65, l’apostata divenne incapace di distinguere l’intollerante superstizione dalla giustizia romana. Segno di tale confusione è la furia con cui accusava il realismo della gerarchia cattolica di lassismo spirituale 66. Certo è che l’obiezione di Gregorio Nazianzeno a Giuliano riguarda specialmente le conseguenze disastrose del perfettismo. Il contraffatto integralismo religioso, applicato all’azione del governo, agiva nella società dell’impero come un veleno mortale, faceva sorgere fazioni irriducibili e facinorose, poneva discordia nelle famiglie, scuoteva le fondamenta dello stato, provocava la violenza e la guerra civile. Gregorio Nazianzeno ha descritto con efficacia implacabile i risultati della politica giulianea: “I popoli e le città divise da contrasti, le famiglie spaccate, i legami matrimoniali spezzati, tutto ciò che era naturale che accompagnasse quel male e che di fatto lo accompagnò in grande misura fu vantaggioso per la gloria di Giuliano o per la sicurezza dello stato?” 67. Sant’Agostino aveva diligentemente compitato i testi delle orazioni gregoriane. Si può affermare, senza tema di smentita, che la sua teologia civile è, in larga misura, ispirata alle obiezioni rivolte a Giuliano dal Nazianzeno. Le tesi esposte nel De Civitate Dei rivelano, infatti, la costante preoccupazione di evitare la perniciosa contaminazione tra summum bonum e bonum civile, cioè l’ambiguità che caratterizza il pensiero giulianeo e tutte le eresia politica similari. Punto fermo della fede è che l’intergalità della vita cristiana esclude la rovinosa caduta nel sovrannaturalismo politico: il Regno dei Cieli non è di questo mondo e non è opera umana. Per prima cosa, dunque, sant’Agostino definisce Giuliano e gli altri banditori del sovrannaturalismo

65 Julius Evola ha riconosciuto senza avanzare le riserve antignostiche attribuitegli dai seguaci che nei misteri del mithracismo, ai quali Giuliano era iniziato, si trovavano elementi del dualismo madzeo, dello gnosticismo e della magia. Cfr. “Ricognizioni”, op. cit., pag. 111. 66 Giuliano imperatore, Caes., X, 336, a-b.67 Gregorio Nazianzeno, Or. IV, 75.

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usurpatori della dignità salvifica cristiana, “auctores suae beatae vitae et quasi conditores esse voluerunt” 68. È falsa tuttavia l’opinione secondo cui sant’Agostino, nel rivendicare l’appartenenza esclusiva del sommo bene alla Città di Dio, avrebbe screditato e quasi scomunicato la politica. Perfino un critico arcigno come Vittorio Beonio Brocchieri, è stato costretto ad arretrare di fronte alle dichiarazioni di Agostino sul carattere provvidenziale dell’impero romano 69. Dopo aver sostenuto che Sant’Agostino “non si svincola e non si libera mai totalmente dalla premessa negativa e dall’ossessione antimondana che gli ispira l’avversione contro lo Stato”, il politologo scriveva, infatti: “Lo Stato sarebbe dunque una mala pianta che nasce da un la seme? Arrivato a questo punto, Agostino torna sui suoi passi, rifacendo l’argomento a rovescio (o quasi) e dice che l’unità statale realizzata da Roma è determinazione della divina Provvidenza” 70. La tendenza a svalutare la natura creata e a chiudere i problemi della teologia politica nel rigido dilemma Dio-Antidio, è tipica del settarismo gnostico e delle teologie postmoderne, non del genuino agostinismo. Al contrario dei suoi avversari pagani, sant’Agostino vide con chiarezza che, nell’empia pretesa di attribuire allo stato l’origine della beatitudine, risiede l’inganno satanico principio delle invivibili tirannidi. La condanna agostiniana della politica “divinizzata” non coinvolge la scienza del governo, funzionale alla conservazione dell’uomo nella pace e nell’ordine. La teologia agostiniana, pertanto, riconosce che, nel loro ambito, le virtù

68 Sant’Agostino, Ep. 155, 2, 1. La dottrina, che Giuliano deduceva da Giamblico e da Massimo d’Efeso era una combinazione di teologia e teurgia, intesa a dimostrare che l’anima può sprigionare da sé la potenza anagogica, e diventare partecipe della vita divina naturale.69 Ad esempio “Romanorum regnum a Deo vero esse dispositum, a quo est omnis potestas, et cuius providentia reguntur universa”, De Civ. Dei, V, 21. 70 Ibidem.

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politiche sono buone, anche se inefficaci per la salvezza eterna 71. Non è dunque azzardata l’affermazione che la teologia agostiniana della storia ha preparato il terreno a San Tommaso d’Aquino, che nella Summa theologiae ha stabilito con chiarezza che il potere dell’uomo sull’uomo – il futuro bersaglio delle polemiche innescate da comunisti e anarchici - non è contrario alla dignità di Adamo nello stato d’innocenza: “Non est contra dignitatem status innocentiae quod homo homini dominaretur” 72. Contro gli eccessi del perfettismo di matrice catara, l’Angelico aveva già sostenuto che non sarebbe stata sconveniente la manifestazione di una certa ineguaglianza: “sed et secundum animam diversitas fuisset et quantum ad iustitiam e quantum ad scientiam” 73. Dopo queste indispensabili chiarimenti, San Tommaso espose i due significati del termine potere, dominium. Il primo significato considera il dominio quale opposto della servitù: “uno modo secundum quod opponitur servituti et sic dominus dicitur cui aliquis subditur ut servus”. Il secondo significato allude al governo delle persone libere: “alio modo accipitur dominium secundum quod communiter refertur ad subiectum qualitercumque et sic etiam ille qui haber officium gubernandi et dirigendi liberos dominus dici potest”. Il primo significato riguarda il potere alterato dalla colpa di Adamo. Il secondo significato riguarda invece il potere unito alla giustizia. Non a caso, San Tommaso definisce questa seconda forma del potere ricorrendo ad una citazione agostiniana: “Iusti non dominandi cupiditate imperant sed officio consulendi: hoc naturalis ordo praescribit, ita Deus hominem condidit” 74.

71 In un recente saggio, uno fra i più aggiornati studiosi della filosofia agostiniana, Franco Monteverde, esclude che per Sant’Agostino lo stato sia un disvalore. Cfr.: “Introduzione generale alle opere di S. Agostino”, Città Nuova, Roma 2006 pag. 139 e seg..72 Sum. Theol., q. 91, a. 3.73 Sum. Theol., q. 91, a. 2.74 De Civ. Dei, XIX, 14.

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Alla luce della dottrina di San Tommaso è fuor di dubbio che il normale esercizio del potere non è contrario alla dignità umana. Il confine tra l’integralità della fede e l’integralismo è, infatti, segnato proprio dal seguente giudizio agostiniano: “Deus ostendit in opulentissimo et praeclaro imperio Romanorum quantum valerent civiles etiam sine vera religione virtutes” 75. Antipelagiano intransigente nella difesa della dottrina della grazia, l’Ipponate nutrì un forte e ragionevole ottimismo nel giudicare l’etica naturale dei romani. Poiché Dio ha rivelato di volere che l’uomo viva e si salvi, le virtù politiche, in quanto necessarie alla conservazione dell’uomo, devono essere considerate utili e preziose, anche se disgiunte dalle virtù soprannaturali. È questo il punto cruciale e decisivo: Agostino teneva conto della causa che diede inizio alla società umana ed aveva chiaro il terrore suscitato dal ricordo della vita ex lege 76. Il carattere autentico e propriamente innovativo dell’ellenismo, quello religioso, che l’Occidente cristiano, con Clemente Alessandrino ed Eusebio da Cesarea, apprezzerà come segno della praeparatio evangelica, si trova, dunque, nell’apertura della filosofia stoica all’universalità. Segno anticipatore di tale incontro, l’opposizione all’assolutismo alessandrino fu particolarmente dura e ostinata nell’area dove era più forte l’influsso delle due culture orientali (l’apocalittica ebraica e la teologia dell’impero persiano) che portavano i semi

75 Sant’Agostino, Ep. 138, 3, 17. I romani non conobbero la vera religione ma una pietas che aveva fondamento nel pudore. Dionisio di Alicarnasso, contemporaneo di Augusto, attribuì a tale pietas la causa della superiorità di Roma sulla Grecia.76 Dalla storia primordiale i grandi pensatori agostiniani dell’età moderna, Vico e Rosmini, trassero decisivi argomenti contro l’utopia anarchica e a favore del diritto romano. Scrive ad esempio Rosmini: “Lo sguardo diretto da un’antica serie di esperienze coglie più sicuro nel vero che non un’immaginazione senza briglia di fatti, scorazzante nel campo dell’insolito e del possibile. Persuadiamoci: le istituzioni prime necessariamente sono quelle su cui riposa la società; perciocché coloro che la fondarono furon costretti di farla esistere quando ancora non esisteva”. Cfr. “Filosofia della politica”, Rusconi, Milano 1983, pag. 104.

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dell’universalismo politico, il riconoscimento della dignità del popolo e un più alto concetto di divinità. L’usurpazione delle prerogative divina non era conforme alla tendenza della filosofia, che si affermava nell’età di Alessandro, incoraggiando la tendenza a demitizzare gli dei, e a mostrarne la natura di maschera della corruzione. La spietata critica della religione antropomorfica, iniziata da Senofane e condotta a perfezione dal Platone antipoetico, aveva ispirato il rifiuto del fondamento superstizioso del potere pagano. L’immagine di Alessandro educatore del mondo, che Plutarco traccia nel “De fortuna aut virtute Alexandri”, è dunque anacronistica, poiché rispecchia l’ideale di un’età successiva, quella che vide l’attuazione dell’universalismo ellenistico nell’impero romano. Si può affermare senza tema di smentita, che la dialettica che percorre tutta la storia dell’Occidente inizia dal conflitto tra il chiuso particolarismo delle oligarchie superstiziose e passatiste, e la mentalità nuova, inaugurata dalla filosofia stoica, che in qualche modo precorre la dottrina cristiana. Giuliano l’Apostata è l’emblema del regresso alla cultura ellenistica sofferto dall’impero romano e, perciò, l’idolo dei reazionari e dei decadenti di tutte le provenienze e di tutte le radunate moderne e postmoderne. Quando sono fermamente stabilite le riserve sulle ipocrisie dei poteri che alimentano gli egoismi, si può affermare tranquillamente che l’ostilità preconcetta nei confronti dell’economia globale, intesa come interpretazione dell’istanza universalistica, è giudicabile alla stregua di una pulsione reazionaria, segnata da un surrettizio paganesimo. La contestazione della strategia intesa allo sviluppo planetario dell’economia – vale a dire la rivolta officiata dal movimento anarchico a Seattle - rappresenta la scena dell’oscurantismo neopagano in agguato (è il caso di dire) contro le forze del sano sviluppo. Ovviamente riconoscere che l’universalismo contiene, fin dalle lontane origini, le ragioni del progresso, mentre l’etnicismo greco esprime le tensioni regressive, non obbliga ad approvare automaticamente tutti i mezzi con i quali sono perseguiti i fini dell’economia globale.

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E’ ovvio che affermare le ragioni dello sviluppo non significa approvare gli abusi e gli errori di quanti a parole sono favorevoli allo sviluppo. Il senso critico non deve essere abbassato per nessuna ragione al mondo ed è perciò lecito dubitare (ad esempio) sulla fedeltà ai princìpi dell’universalismo da parte del fondo monetario internazionale, di certe multinazionali o delle fondazioni cosmopolite che sono intestate a miliardari antiproibizionisti qual è, ad esempio, Soros. E’ tuttavia evidente che la fanatica contestazione della politica americana e peggio il vaniloquio dietrologico intorno al male americano e ai suo complotti, appagano la smania regressiva delle sinistre, ma non risolvono il problema della fedeltà all’autentico universalismo. I pastori dell’arretratezza avversano l’economia globale nel preciso intento di colpire l’Occidente, ai loro occhi colpevole di aver smentito e sconfitto l’utopia comunista e, in essa, il disegno della regressione arcadica. Un delirio punitivo acceca gli intellettuali neosinistri (e purtroppo anche i neodestri) e li conduce al punto disgraziato dove i fantasmi del naturalismo greco hanno prodotto la metastasi nazista. Vecchie gattare affrante, sileni dalla chioma formicolante, pensatori dilatati e sculettanti marciano sulle strade, che un tempo erano battute dell’alleanza della gloriosa armata rossa con l’invincibile esercito hitleriano. La conformità della politologia globalista ai princìpi che stanno a fondamento dell’Occidente è da verificare, mentre non c’è dubbio che la furente opposizione dei no-global e dei dietrologi ambidestri si volge all’antichità, alle oscenità della mitologia, all’arretratezza naturalistica, al dispotismo selvaggio, al degrado zoologico dell’antropologia, insomma agli oggetti della sconfinata ammirazione dei nazisti. Non è un caso che la cultura post marxiana, seguendo Herbert Marcuse e Jacob Taubes, abbia fatto propria la filosofia di un nostalgico della Grecia primitiva quale fu Nietzsche. Insieme con Nietzsche il materialismo storico sprofonda, infatti, nella storia naturale. L’entusiasmo prometeico piange alla fontana del tempo perduto dalle Niobi della rivoluzione. L’aspetto inquietante

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di tale scena non è la provenienza (peraltro indiscutibile, malgrado il parere del “ripulitore” Gianni Vattimo) di Nietzsche dall’area più tenebrosa della destra germanica, ma la sintonia che, attraverso Nietzsche, si stabilisce tra la sinistra postmoderna e la Grecia arcaica, oppressiva, superstiziosa e sofistica. Il progressismo svanisce nel corteo della retromarcia, dove le menadi dell’ecologia più feroce s’incontrano con gli efebi della mollezza, per la celebrare il ritorno alla natura primordiale. La tracotanza, che eccitava Gagarin e gli altri conquistatori sovietici del cielo, si è appiattita sui flebili languori del crepuscolo.

VIIILa destra italiana,

in un fotogramma di taglio stalinista

Da fonti tendenziose lo storico non può ottenere altro che informazioni incomplete e ingannevoli. Il supercilioso Francesco Germinario, specialista di studi sul poligrafo Alain De Benoist e sulla neodestra, ha dedicato un saggio alla cultura dell’area 77, facendo uso prevalente se non esclusivo dei giudizi unilaterali e delle informazioni frammentarie raccolte nei soli scritti degli intellettuali ritenuti degni di abitare nel girone inferiore della sua selezionata e pregiata biblioteca.

77 Cfr.: “Da Salò al governo Immaginario e cultura politica della destra italiana”, Boringhieri, Torino 2005)

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Conosciuti ed apprezzati da un pubblico effervescente, gli autori promossi ed eletti da Germinario (Pino Rauti, Gianfranco De Turris, Mario Bernardi Guardi, Gennaro Malgieri, Enrico Nistri, Marcello Veneziani ecc.) appartengono, con varie differenze, a quella scuola di pensiero, che ha concepito, nell’inconsapevole subalternità al gramscismo trionfante, una destra fondata sul disprezzo di sé: “Né destra né sinistra, oltre la destra oltre la sinistra, e di destra e di sinistra, sono espressioni ricorrenti nell’epopea identitaria dell’estrema destra, anzi sono inscritte nelle stesse origini ottocentesche della destra sovversiva e antidemocratica”78. Una destra che rifiuta d’esser tale e nello stimato delirio sessantottino vedeva una splendida occasione per trasformarsi in movimento antagonista capace di produrre inaudite alleanze, è un energetico atto a contrastare la debilitazione del progressismo. Ora l’emblema delle fonti alle quali ha attinto Germinario è il “fascismo immenso e rosso”, al quale Giano Accame ha intitolato un suo provocatorio e volutamente paradossale saggio su Drieu La Rochelle e il fascismo romantico dei francesi (che è assai diverso dal fascismo degli italiani). Il fascismo rosso è un emblema singolare e intrigante, per il pubblico che ama i funambolismi. Non il simbolo dell’autentico popolo di destra, popolo del buon senso e del realismo, che aspira alla tradizionale tranquillità nell’ordine e all’onesto sviluppo dell’economia, piuttosto che alle astratte avventure consigliate dai brillanti sognatori ammessi agli esclusivi scaffali di Germinario. Ora il risultato della drastica e ingiustificata limitazione delle fonti è un disegno storico mutilato, nel quale le culture delle destre sono ridotte all’esangue misura della neodestra francese. Il profilo disegnato da Germinario assomiglia alle inquietanti foto di gruppo, che l’arcigna polizia di Stalin otteneva sottoponendo gli originali al taglio delle personalità diventate scomode.

78 Op. cit., pag. 27.

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L’Unione sovietica è affondata nella sterminata geografia del Gulag, ma in Italia le imperterrite forbici del Kgb tagliano ancora. Curiosamente le figure censurate da Germinario (forse) perché ritenute imbarazzanti, appartengono agli interpreti e ai protagonisti del realismo politico d’ispirazione cattolica, vale a dire ai promotori della strategia intesa alla collaborazione con il partito dei cattolici e alla scalata democratica al potere: Arturo Michelini, Ernesto De Marzio, Nino Tripodi, Carlo Costamagna, Gianni Roberti, Nicola Galdo. Germinario, il naso chiuso da pregiate mollette antifasciste, li respinge i protagonisti della migliore destra nella penombra delle informazioni frettolose e vagamente disgustate. E con loro respinge nell’oblio nero gli illustri accademici e gli eminenti pensatori cattolici, che in grande numero sono stati protagonisti di un’appassionante stagione della cultura anticonformista. Insieme con i maggiori esponenti del Msi, le ingorde fotografie di taglio stalinista divorano anche la nuova generazione di intellettuali che, negli anni Cinquanta, animò la vita della migliore destra: Fausto Gianfranceschi, Enzo Erra, Giano Accame, Attilio Mordini, Nicola Cimmino, Francesco Grisi, Silvio Vitale, Giuseppe Tricoli, Gianfranco Legitimo, Fausto Belfiori, Primo Siena, Gaetano Rasi, Massimo Anderson, Giovanni Torti, Angelo Ruggiero, Carlo Casalena, Enzo Natta, Pietro Giubilo, Augusta Ribotta, Pinuccio Tatarella. Le forbici di un autore progressista sono ovviamente insindacabili. Il risultato consiste tuttavia in opinioni infondate, notizie di seconda e terza mano, argomentazioni vacillanti oltre che in immotivate censure. Germinario sostiene la tesi di una destra chiusa in se stessa: “Siccome la democrazia può anche fiaccare chi democratico non è, la scelta dell’autoestraniazione e dell’autoghettizzazione diventa l’unica praticabile. Non c’era altra forma di resistenza possibile se non l’arroccamento”79.

79 Op. cit., pag. 24.

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Una tesi suggestiva ma capace di stare in pedi solo se incastonata nel ritratto di famiglia realizzato mediante le forbici censorie della neodestra e del rautismo. L’idea di una destra ghettizzata – chiusa nel frigorifero – era sostenuta, infatti, solo dalla minoranza del Msi, rappresentata da Giorgio Almirante e da Pino Rauti. Quando nel ritratto di famiglia sono inseriti gli autentici protagonisti della maggioranza realista, la tesi di Germinario si squaglia per fare posto alla verità storica, contemplante il sostegno della destra missina a quattro governi democristiani (Pella, Zoli, Segni, Tambroni) e il voto determinante per l’elezione di due presidenti della repubblica (Antonio Segni e Giovanni Leone). L’immagine dell’arroccamento si rifugia pertanto nei progetti fumosi elucubrati in quella destra di nicchia, che si riconosce nella deprimente metafora del partito da frigorifero. Francamente ridicolo è il giudizio scandalistico con il quale Germinario tenta di squalificare la destra svelando una sua sostanziale estraneità alla cultura della nazione. Lo scandalo si troverebbe, infatti, nello scarso interesse prestato all’opera di un gigante tra virgolette come Claudio Pavone e nell’ovvia attribuzione a Pasolini (l’autore di un testo vomitevole quale “Petrolio”) di un progetto inteso a dissacrare i valori della religione cancellando ogni figura della trascendenza. Come se il pasoliniano Alberto Zigaina non avesse riconosciuto che Pasolini dissacrò e scimmiottò il martirio cercando e infine trovando una morte degna dell’attore pederastico che egli impersonava. Lacunoso, distratto e nutrito di letture superficiali e riduttive è il profilo di Giovanni Volpe. Germinario, liquidata in due righe l’ingente attività della fondazione Gioacchino Volpe (organizzazione di convegni e seminari, pubblicazione degli atti, diffusione di opuscoli filosofici e politici), dedica la sua attenzione alla rivista “Intervento” nel tentativo di minimizzare l’apporto di Augusto Del Noce allo sviluppo della cultura di destra. La fiducia di Germinarlo nei canonici principi della storiografia progressista conserva dunque il suo adamantino

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splendore. Un impertinente lettore, tuttavia potrebbe intravedere la vaga ombra di un dubbio serpeggiante tra le righe allarmate ma titubanti degli ultimi due capitoli del saggio in questione, quelli dedicati allo spinoso problema della revisione. L’azzardo non può spingersi a tal punto, ma un’impertinenza sfrenata e indelicata oserebbe insinuare che lo schema contemplante le equazioni nazifascismo = Male Assoluto e comunismo = lieve disturbo associato all’emancipazione dei popoli e ad ogni modo meravigliosa macchina al servizio della giustizia antifascista – è un compendio storico invecchiato e bisognoso di urgenti ritocchi. Necessita, ad esempio di una chiara distinzione del fascismo dal nazismo (secondo la lezione di Renzo De Felice, Augusto Del Noce, Franco Perfetti, Fabio Andriola, Guido Mussolini) e di un aperto riconoscimento dell’enormità dei delitti con i quali i comunisti hanno inaugurato il secolo sterminato.

IXDemocrazia e assolutismo democratico

Nel profetico radiomessaggio per il Natale del 1944, Pio XII, ha segnalato il pericolo costituito dagli eccessi del potere popolare, ossia da “quella corruzione che attribuisce alla legislazione dello stato un potere senza freni né limiti e che fa anche del regime democratico, nonostante le contrarie ma vane apparenze, un puro e semplice sistema di assolutismo”.

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Le frequenti violazioni del diritto naturale, compiute dagli stati occidentali nel formale rispetto della legalità democratica, ultimo il decreto vampirista, che autorizza il sacrificio degli embrioni umani alla scienza, confermano il giudizio di Pio XII, e perciò autorizzano a concludere che il totalitarismo sopravvive nel politicamente corretto. È indiscutibile, peraltro, che solo il magistero cattolico ha tentato di elaborare seriamente una dottrina contemplante la tutela della persona dall’esorbitanza delle leggi imposte dal potere democratico. In realtà, l’ostinato silenzio sul problema della limitazione del potere democratico, serve a distrarre l’opinione pubblica, nascondendo la fragilità delle filosofie illuministiche, che diffondono i miti intorno l’assoluto contingente. La ricerca delle difese umanistiche contro l’ingiustizia sancita dall’assolutismo democratico deve pertanto incominciare dalla puntuale ricostruzione degli intrecci di immanentismo, determinismo, religione del potere e culto della sovranità popolare, che stanno a fondamento della politologia che è prevalsa in Occidente dalla fine del secolo di Cartesio, Spinosa e Hobbes. Ora la scoperta degli intrecci filosofici a monte dell’assolutismo democratico si deve a Giuseppe Capograssi, il filosofo del diritto, che seguendo le geniali intuizioni di Vico, ha dimostrato la natura pseudo mistica della politica secolarizzata 80. Capograssi iniziò il suo cammino di ricerca dal riconoscimento dell’influsso decisivo che il vuoto intellettualismo di Cartesio esercitò nella rivoluzione moderna: “Con Cartesio tutta la realtà nasce dal fatto del pensare e l’essere sparisce di fronte al pensare. La mente dell’uomo fa la realtà e Dio ridotto all’idea conserva la sua esistenza solo in virtù del grande e pericoloso argomento escogitato da Sant’Anselmo, fino a che anche questo è

80 Giuseppe Capograssi (Sulmona 1889 – Roma 1956) pur non respingendo in via definitiva l’influsso ricevuto dal pensiero moderno, elesse quale suo autore Giambattista Vico e di conseguenza avversò strenuamente l’intellettualismo cartesiano e i suoi disgraziati esiti, l’Etica di Spinoza e il Leviathan di Hobbes

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totalmente criticato e l’antica idea di Dio è abolita. Sulla direzione aperta da Cartesio col suo cogito lavora tutto il pensiero moderno” 81. Il giudizio di Capograssi su Cartesio coincide in qualche modo con l’analisi di Cornelio Fabro e pertanto si può leggere come un invito rivolto ai cattolici affinché comprendano che la corruzione assolutista della democrazia ha la sua lontana causa nella falsificazione della metafisica tradizionale: “La vera rivoluzione è qui e non nelle rivoluzioni politiche che poi seguirono. Da questo sovvertimento di tutto il reale nasce tutta la squilibrata epoca moderna e le sue rivoluzioni e le sue distruzioni” 82. Contro l’opinione dei moderni, Capograssi sosteneva pertanto che “l’autorità è volontà razionale che interviene a trasformare l’individuo in personalità e a sollevare la convivenza immediata e naturale degli uomini a società del diritto” 83. La teoria dell’autorità esposta da Capograssi concorda con quella della teologia scolastica e della Controriforma e con la Scienza Nuova di Vico, dunque è in linea con le conclusioni antimoderne di Pio XII e di Antonio Messineo. Con esplicito riferimento a San Tommaso, Francisco Suarez affermava ad esempio: “Dicendum est potestatem (civilem) ex sola rei natura in nullo singulari homine existere, sed in hominum collectione. Conclusio communis et certa sumitur ex D. Thoma ... principem habere potestatem ferendi leges quam in illum transtulit communitas” 84. E il Bellarmino, quasi facendogli eco: “Politicam potestatem immediate esse tamquam in subiecto in tota multitudine, nam haec potestas est de iure divino, et ius nulli modo in particulari dedit hanc potestatem” 85. L’auctoritas, infatti, fa parte della natura razionale, “cum

81 Cfr. “Riflessioni sulla autorità e la sua crisi”, Lanciano 1921, sta in Opere, Giuffré, Milano 1959, vol. I pag. 337.82 Op. cit., pag. 338.83 Op. cit., pag. 212.84 De legibus ac Deo legislatore, III, (De lege humana et civili, c. 2, In quibus hominibus immediate existat ex natura rei potestas haec condendi leges humanas?) 85 De laicis, 6.

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hominibus nata est”, e Vico la definisce virtù “cognata vel nativa” 86. In tempi più recenti, un autorevole collaboratore di Pio XII, il gesuita Antonio Messineo ha definito l’autorità “un’attribuzione connessa in modo necessario con la natura dell’ente, che, possedendo quella determinata costituzione essenziale, voluta da Dio, postula uno speciale completamento o facoltà, senza cui non potrebbe sussistere” 87. Coerente con la definizione tradizionale d’autorità, Capograssi può fronteggiare risolutamente la metafisica di Spinoza, la seconda fonte della rivoluzione politica iniziata da Cartesio. A Spinosa, Capograssi attribuisce l’invenzione di un nuovo universo, dove “Tutte le cose della realtà che erano tali perché partecipavano dell’essere ma non esaurivano l’essere ed avevano in sé la propria sostanza, ora divengono formazioni di una nuova sostanza, la quale sia sotto l’attributo della estensione sia sotto l’attributo del pensiero contiene in sé tutto l’essere” 88. Mentre dimostra che la fusione del mondo nella sfera dell’unica sostanza costituisce il preambolo alla negazione di Dio Creatore, Capograssi sottolinea che tale è il frutto dell’intellettualismo cartesiano: “Da una parte sparisce il mondo dall’altra sparisce Dio: a poco a poco non rimane altro che l’atto della mente che si è sollevata all’idea di sostanza e nell’idea della sostanza ha trovato la prova dell’esistenza di essa. Dal puro fatto del cogito nasce dunque la distinzione di quella che era stata considerata dagli uomini la creazione, cioè l’opera di una intelligenza infinita e della volontà di uno spirito infinito” 89. Cartesio disegna un orizzonte rigorosamente meccanicistico, nel quale tutto è necessario, il moto dell’universo e nel moto dell’universo le azioni umane: “La vita interiore non è dunque che una serie di cause ed effetti

86 “De uno universi iuris principio et fine uno”, XCVIII.87 Cfr. La voce “autorità” nell’Enciclopedia cattolica, Roma, 1951, col. 479-480.88 “Riflessioni sull’autorità e la sua crisi”, op. cit., pag. 33889 Ibidem.

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che passano senza posa e costituiscono quell’ombra che si chiama individualità umana. Con una costruzione così ferrea nella quale idee e cose sono mosse e si atteggiano con pari moto e con pari nesso la libertà umana diventa parola senza contenuto di realtà” 90. Posta la negazione della libertà anche il concetto di persona è trasformato e adattato ai princìpi del meccanicismo: “Nella universale concatenazione delle cause e degli effetti l’individuo non ha scopi, i quali per sé presuppongono la libertà ma ha solo tendenza e comando: non conosce altro che il suo corpo, il puro fatto del suo esistere che è una manifestazione della sostanza e la sua tendenza non può non essere che la conservazione di sé stesso nel suo essere. E conservare il suo essere è la virtù, la vera virtù dell’uomo. Virtù ritorna così al significato originario di forza … tutta la vita dell’uomo non è che una continua esplicazione di energia spesa per conservare quell’unico punto di realtà che è rimasto nell’universo vuoto” 91. Il penultimo anello della catena rivoluzionaria è l’abbassamento della vita morale al conato, in ultima analisi all’istinto di conservazione “sul quale si costruisce tutta quanta la vita morale dell’individuo e poiché questo è il suo assoluto diritto, la forza dell’individuo per soddisfare e realizzare questa tendenza, è il solo vero sommo diritto di natura” 92. Capograssi, adesso indica la via che deve essere percorsa per sottrarre la politica all’ipoteca del determinismo, che attribuisce all’autorità “la fissità e la fatalità dei fenomeni naturali e mentre perde ogni qualità e natura spirituale cioè libera, cade al grado di fenomeno, di strumento, di mezzo poiché diventa strumento di uno scopo, di un bene che essa serve a far conseguire” 93. Dalle nebulose testimonianze sparse nelle favole che “furono le prime storie della nazioni gentili” (SN 44 Dello stabilimento de’ principii I, 1), Giambattista Vico ha astratto,

90 Op. cit., pag. 339.91 Ibidem.92 Ibidem.93 Op. cit., pag. 213.

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applicando un geniale e innovativo metodo di analisi filologica, le nozioni che dimostrano l’immane barbarie dell’umanità decaduta in conseguenza del peccato originale. In base a tali nozioni, la scienza politica inizia dalla considerazione dei mezzi usati per sottrarre gli uomini al potere mortifero del vizio, che li aveva ridotti a vivere “come bestie immani in una somma solitudine d’animi e di voleri” (conchiusione dell’opera) . L’originaria finalità della politica fu pertanto educare i “primi uomini selvaggi” per allontanarli dalla “feroce libertà bestiale” e dai “costumi sconci, laidi e oscenissimi” (SN 100, Dello stabilimento de’ principii II, LIV). Sant’Agostino e Vico, concordano nello stimare indispensabile l’esercizio del potere coattivo della legge, e nel giudicarlo funzionale al disegno della paideia divina. Nel progresso storico i due autori cristiani hanno specialmente considerato l’eterogenesi dei fini, cioè l’esercizio del potere di Dio nel rispetto della libertà umana: “Egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch’essi uomini si avevano proposti; de’ quali fini ristretti, fatti mezzi per servire fini più ampi, gli ha sempre adoperati per conservare l’umana generazione in questa terra”.94 Il motore della storia è l’azione creatrice, l’auctoritas dell’Ipsum Esse, che soccorre la natura, non l’insurrezione del pensiero umano contro la realtà. L’ottimismo cristiano, pertanto, rigetta gli storicismi ispirati dalla nozione hegeliana e marxiana di uomo = essere strutturalmente negativo, essere che si realizza nella misura in cui aggredisce e rivoluziona il creato. Vico ha dimostrato, invece, che l’umanità si solleva dalla barbarie per mezzo del pudore, attitudine infusa dalla Provvidenza affinché desse origine ai primi ordinamenti, le famiglie, dove l’autorità agisce usando duramente la forza: “La provvedenza spiega i suoi ordini per vie tanto facili quanto sono i naturali costumi .... Imperciocché vogliono gli uomini usar la libidine bestiale e disperdere i loro parti, e ne

94 “Scienza Nuova” (seconda, 1744), Conchiusione dell’opera.

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fanno la castità dei matrimoni, onde surgono le famiglie. (SN Conchiusione dell’opera). Senza questo iniziale sollecitazione l’umanità si sarebbe estinta nel marciume e nel sangue. L’autorità paterna, benché esercitata spietatamente, era uno strumento del piano civilizzatore, concepito dalla divina Provvidenza. La sapienza cristiana, infatti, ha sempre affermato che l’auctoritas è una disposizione ad “augere”, ad avanzare sulla via del progresso autentico. Non a caso la fonte della vera democrazia si trova nel pensiero cattolico, specialmente nel pensiero della Controriforma, e non negli inconsapevoli maestri della rivoluzione, come riteneva Maritain 95. Teorizzare la consumazione della legge naturale, d’altra parte, è pensare un non senso. Sant’Agostino al proposito affermava: “Quo cum ventum erit, non erit vita mortalis” 96. La perfezione evangelica si attuerà quando il tempo sarà convertito all’eternità. Allo stesso modo non è ragionevole ritenere che il progresso degli ordini civili dipenda dalla secolarizzazione. La sua origine, infatti, è provvidenziale e non profana. Agostino e Vico hanno evitato con cura di scivolare nelle ambiguità dell’ottimismo antropologico e del pelagianesimo, quindi d’immaginare il progresso della giustizia civile nella luce del naturalismo. In altre parole: hanno escluso l’idea immanentistica e pagana del progresso, evento necessario, assolutamente spontaneo e ininterrotto. D’altra parte non hanno mai concesso nulla al pessimismo antropologico radicale. In modo speciale Vico, seguendo l’insegnamento della tradizione scolastica e controriformistica, si oppose strenuamente alla diffusione della teologia luterana della storia e al pensiero cartesiano. Egli, con la teoria dei corsi e ricorsi, ha rappresentato la storia delle civiltà come movimento guidato dalla provvidenza e sostenuto dall’aspirazione delle comunità ad ottenere il pieno rispetto della legge naturale.

95 Cfr. “Umanesimo integrale”, Torino, 1962, pag. 21796 De Civ. Dei, XIX, 17.

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I regimi popolari, secondo Vico, rispondono a una superiore istanza etica e religiosa, che dall’alto si comunica al “basso”: “Plebes patrum iniuriis oppressi, deorum hominumque opem implorarunt, reges illico extitere illis, plebium implorationibus, tamquam collatis suffragiis creati, aut fortissimi viri, qui cuncta, moribus corrupta, ad se unos emendanda revocarunt, aut viri sapientissimi, qui legibus poenabilis antiquos mores ... ad sua principia reduxere” 97. I progressi dei popoli sulla via della giustizia hanno principio dall’esigenza razionale dell’onesto e continuano finché le nazioni si mantengono nell’onestà. Le leggi permissive, in ogni momento, possono corrompere e capovolgere in regresso gli avanzamenti della libertà: “Prima selvaggi e soli; poi stretti in fida amicizia con pochi; indi, per fini civili, attaccati a molti; finalmente, per fini particolari d’utile o di piaceri, dissoluti con tutti e, nelle gran folle de’ corpi, ritornano alla primiera solitudine” 98. La libertà è inseparabile dall’autorità. Lo spiegamento dell’individualismo anarchico e trasgressivo genera soltanto la solitudine disgregata. Il fatto è che, nel pensiero autenticamente cristiano, la storia è la scena della libertà umana che realizza la sua inclinazione ad augere per l’influsso della provvidenza. Il vero progresso coincide con la moralità in quanto la moralità è il “puntello”. Quando i valori morali sono negati dal principio di piacere, la persona si dissocia e, con la persona, si dissociano i legami che uniscono la comunità. I popoli, allora, regrediscono “alla primiera solitudine” e al deserto dell’antivita. Per questo Agostino, dopo aver bollato l’immoralità di Babilonia, non ha difficoltà ad ammettere che ai cristiani è lecito usare il “resto” di moralità presente in Babilonia, perché da quel “resto” deriva l’unità e la pace: “Quia in eius est pace pax vestra, utique interim temporalis, quae bonis malisque communis est” 99. Il criterio realistico di Agostino, felicemente applicato da Vico, vale per ogni età storica. Esso è sufficiente ad

97 “De constantia iurisprudentis”, XVIII, 2.98 “Scienza Nuova” (seconda, 1744), l. II, c. XVIII.99 De Civ. Dei, XIX, 26.

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allontanare la tentazione di una chiesa rifugiata nella pia selvatichezza e nel vuoto della presunzione di avere una grazia separata dalla natura. Il fatto che la cultura dei cattolici sia attualmente soffocata dalla mole di un apparato culturale urlante e intollerante non nasconde la verità: lo storicismo laico, in passato egemone, grazie all’efficacia della strategia gramsciana, oggi è una scatola vuota, nella quale si è precipitata la disperazione dei decadenti. Delle due pseudoreligioni idealistiche, quella della destra romantica e quella della sinistra tra virgolette scientifica, non rimane altro che una totalità decerebrata e un potere oscillante tra l’oligarchismo e l’abbandono libertario, il fumo della banca mondiale e il nero alchemico di “Morte a Venezia”. E’ questa la società senza puntelli, cui il maritainiano Dossetti si rassegnava con tanta gioiosa leggerezza.

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XL’ambiente, la bellezza, la tecnica

Nella gerarchia dei poteri congiunti con la creatività partecipata, un posto eminente compete all’idoneità dell’uomo a custodire e incrementare la bellezza e lo splendore della natura. La fatica dell’uomo faber, infatti, è intesa a glorificare Dio, “che contiene in se stesso in maniera sovraeminente la Bellezza fonte di ogni cosa bella”, scrive l’Aeropagita 100. Gregorio di Nissa afferma che Dio ha fatto apparire l’uomo in questo mondo “affinché fosse il contemplatore e la guida delle meraviglie dell’universo” (“La formazione dell’uomo”, 1, 2).. Mediante il perfezionamento e l’abbellimento del creato, l’uomo opera nella fedeltà all’indeclinabile legge, che accomuna l’essere alla verità, alla bontà, all’unità e alla bellezza. Non per caso una delle opere insigni dei monaci benedettini fu il dissodamento dei terreni che la grande crisi romana aveva lasciato incolti ed esposti alla devastazione dei barbari. Le norme dell’agricoltura impiantata dai benedettini hanno guidato il lavoro dei campi fino alle soglie dell’età moderna 101. I grandi monasteri di Bobbio, della Novalesa, di Nonantola, di Pomposa, di Polirone, di Fossanova, di Cassino, di San Vincenzo al Volturno, oltre ad irradiare la spiritualità cristiana e a conservare e trasmettere i monumenti della cultura classica, hanno svolto la funzione di scuole di tecnologia e di bellezza, intorno alle quali si è conservata e incrementata l’eredità della civilizzazione romana.

100 Dionigi Aeropagita, “De divinis nominibus”, IV, 7, ed. italiana a cura di Piero Scazzoso, Rusconi, Milano 1981, pag. 302.101 Al riguardo cfr. le voci dell’Enciclopedia cattolica, dedicate ai diversi rami dell’ordine benedettino da Tommaso Leccisotti.

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La guerra tra l’uomo e la natura è una fisima prodotta dalla convergenza delle due scuole di pensiero che, contrapponendosi, hanno fondato i piloni del ponte tra il titanismo moderno e il nichilismo postmoderno: la scuola dei progressisti scientifici, e la scuola antiscientifica degli ecologisti. Ispirato dalla dialettica hegeliana e marxiana, il progressismo scientifico, ha negato la teologia dionisiana della bellezza 102, attribuendo alla natura il significato di un “negativo” da aggredire, scomporre chimicamente, sovvertire e rivoluzionare, e perciò ha tributato un culto superstizioso al lavoratore – demiurgo. Sotto l’influsso del pessimismo antropologico radicale, che è predicato dai maestri del sospetto, la rivoluzione ecologica attribuisce la funzione del “negativo” alla fatica nel frattempo declassata a maleficio inquinante. La negazione scientifica della bellezza creata, urlata nella pagina rovente sul pastore e l’asinaro, nella quale Marx tentò di giustificare il disprezzo per la natura incontaminata, idolatrava il lavoro tecnologico, vedendo in esso lo strumento perfetto della rivolta contro il creatore, e perciò introduceva innaturali e aberranti elementi di disarmonia e bruttezza. La concezione rivoluzionaria dell’homo faber, quale agente inconsapevole dell’assolutamente altro, “malleus maleficarum”, “ira implacabile” e “notte terrificante in cui si nasconde dio”, significava che il progresso, secondo il pensiero moderno, è segretamente indirizzato al totale annientamento dell’essere, alla sequela del sogno gnostico, dove appare un mondo senza traccia di vita.

102 “De divinis nominibus”, op. cit., ibidem: “Dal Bello tutti gli esseri hanno ottenuto di essere belli, ciascuno a modo proprio, e a causa del Bello esistono gli accordi, le amicizia e le comunicazioni di tutte le cose e nel Bello tutte le cose stanno unite. Il Bello è principio di tutte le cose in quanto causa efficiente che muove tutte le cose e le tiene insieme con l’amore verso la propria bellezza; ed il Bello è il fine di tutte le cose ed è degno di essere amato in quanto causa finale (infatti tutte le cose nascono a causa del Bello) e causa esemplare, perché tutte le cose si definiscono in riferimento a lui. Infatti avviene per il Bello ciò che avviene per il Buono: tutte le cose in ogni maniera tendono al Bello e al Buono, né esiste alcun essere che non partecipi del Bello e del Buono”.

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Nel suo diario un apologeta del lavoro rivoluzionario, Ernst Jünger, confessa di trovare serenità soltanto nella fantasticheria intorno all’estinzione di tutte le vite. Ora non c’è dubbio che la cupa fantasticheria jüngheriana perfezioni e concluda la mitologia hegeliana e marxiana intorno al potere del lavoratore. Negli “Scritti politici”, Hegel aveva esposto, infatti, uno schema di progresso tecnologico distruttivo, che, riflettendo l’ateologia radicale, proclama l’aperta ostilità verso la natura: “La tragedia che l’assoluto gioca eternamente con se stesso. Esso si genera eternamente nell’oggettività, si proietta in questa immagine, che è la sua propria, nella passione e nella morte, e si innalza dalle sue ceneri fino alla purezza”. La storia del pensiero moderno, è dunque riducibile all’avviamento di un moto perpetuo e circolare, dall’indeterminato – allo zero metafisico della stravolta metafisica degli atei - alla realtà, dalla realtà alla cenere e dalla cenere all’indeterminato. Filosofo, dopo Hegel, era l’operatore tecnocratico, che scomponeva alchemicamente la natura per innalzarla all’assolutamente indeterminato, all’apeiron. Presupposto del conseguente pensiero di Marx e della rivoluzione comunista è che la natura dev’essere rifatta mediante l’attività violenta dell’homo faber. La rivoluzione comunista è stata la guerra dell’industria contro la natura creata e contro i credenti – i borghesi - suoi custodi. Non si comprende lo spirito della rivoluzione moderna (e lo spirito del suo ovvio prolungamento postmoderno) finché non si riconosce che l’orizzonte ateo è strutturalmente acosmistico e nichilistico e perciò estraneo e incompatibile con la tradizione umanistica. Apparentemente l’ecologismo afferma un’idea del tutto contraria a quella elaborata da Hegel e Marx: la tecnologia ferisce la natura e perciò dev’essere raffreddata e possibilmente azzerata. Se non che la prassi ecologica - naturalistica è solo il rovescio della medaglia prometeica, coniata dalla tradizione hegeliana e marxiana: anche l’abbandono della tecnica,

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infatti, è concepito quale arma nella guerra contro l’essere. Guerra, peraltro, approvata e incoraggiata dai poteri forti, come si è visto durante la conferenza del Cairo. La lettura degli autentici maestri dell’econichilismo (ad esempio: Pier Paolo Pasolini e Manlio Sgalambro, secondo i quali generare uomini è un peccato contro l’ecosistema) chiarisce facilmente che gli errori contrapposti in realtà sono intercambiabili e coordinati. La negazione ecologista, nominalmente opposta alla rivoluzione progressismo e al macchinismo, nega la dignità del lavoro umano e concepisce la natura come una madre selvaggia, che deve essere abbandonata a se stessa. Ora è evidente che i due contrapposti errori convengono nell’intenzione di diminuire la bellezza del mondo; il furente errore tecnicistico sfregiando la natura, l’errore ecologista privandola dell’apporto del lavoro umano. L’ex sessantottino Roberto Calasso, maestro di nichilismo puro e infaticabile ricercatore e collezionista di schegge filosofiche impazzite, ha visto, nell’idea del dominio tecnologico sulla natura, il chiaro riflesso dell’ebbrezza nichilistica. È così svelata la segreta natura del materialismo: “Questa è la promessa di potenza, questa è l’ebbrezza del Nulla, che muove la macchina, miscela inesauribile, sprigionamento di forze. E addirittura l’idea di un processo fine a se stesso, che Marx ha macchiato d’infamia in centinaia di pagine ... anche questo ora ci appare come qualcosa di ben più esaltante dell’infantile, anche se benintenzionato mondo dell’antichità” 103. Alla luce del chiarimento di Calasso, smette di stupire e di scandalizzare il fatto che l’Unità, già organo dei lavoratori progressisti, abbia pubblicato una squillante e cubitale intervista a Dacia Maraini, dove si loda il godimento ecologico di Pasolini davanti all’atroce spettacolo di miseria “naturale” offerto dai villaggi africani. E dove si dichiara,

103 “Cfr.: “La rovina di Kasch”, “Glosse a Marx”, Adelphi, Milano, 1983, pag. 290.

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senza ritegni, la nostalgia per lo spettacolo del degrado, allontanato, in Occidente, dal potere tecnologico 104. Il Novecento ha conosciuto il volto orribile e l’espressione concentrazionaria del tecnicismo: i gulag e i lager, cattedrali consacrate alla bruttezza e alla ferocia. E le città anonime, dove regna la desolazione: gli spaventosi quartieri di Bucarest, costruiti da Ceausescu nell’intento di massificare e abbrutire i contadini rumeni. Purtroppo la lezione di Ceausescu ha avuto uditori anche in Italia, come si può rilevare facilmente dalla spaventosa osservazione di quartieri come Tor Bella Monaca, a Roma, le lavatrici e la diga a Genova, lo Zen a Palermo, Nichelino nella cintura torinese ecc.. L’intervento dell’uomo sulla natura, se condotto alla luce della vera religione, può produrre, tuttavia, un supplemento di bellezza, che arricchisce ed esalta la natura. L’Italia cristiana offre magnifici esempi di armonia attuata tra il lavoro dell’uomo e la natura. La città di Assisi, modello d’integrazione del tessuto urbano nel verde della collina umbra. E come Assisi le altre splendide gemme dell’Italia cristiana, da Gubbio ad Amalfi, da Siena ad Aquileia, da Bergamo a Urbino, da Mantova a Ferrara, da Orvieto a Viterbo, da Venezia a Latina, da Ravenna ad Ascoli. Non solo nelle città si può scoprire la meraviglia della creatività italiana. Le vertiginose terrazze costruite dai vignaioli delle Cinque Terre, a prezzo di una fatica durata secoli ininterrotti sono un esempio di mirabile integrazione di natura e architettura. Gli uliveti che si estendono sulle dolci colline intorno a Siena esaltano la misteriosa docilità della natura alla tecnica sapiente dell’uomo. I giardini – orti di nobile e sapiente delizia, fioriti intorno a Firenze o sulle coste e sulle isole del Lago Maggiore. Gli eremi costruiti dai monaci di tradizione benedettina, per ridurre alle leggi dell’ospitalità e del raccoglimento montagne impervie e brulle. Le risaie nella campagna vercellese e nella Lomellina. Gli argini che hanno domato e ingentilito i fiumi della Lombardia e del Veneto,

104 Cfr. “Eravamo tre amici in viaggio”, L’Unità, 6 agosto 1995.

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creando i tranquilli indimenticabili panorami della pianura. Tutta l’Italia tradizionale testimonia che il lavoro è un esercizio della religione che esalta la bellezza. E che l’operosità manifesta la somiglianza divina dell’umanità.

XISigfrido e Parsifal:

emblemi del progresso, anzi del regresso

Nel 1889, cento anni prima che le travolgenti macerie del muro berlinese muovessero la rivoluzione al suo esito decadente, Nietzsche allestì un nuovo scenario, in cui i poemi nibelungici di Richard Wagner annunciavano l’inevitabile fusione del progressismo illuminato con quell’oscura e tragica anarchia primordiale, che è descritta nelle pagine del “De rerum natura” di Lucrezio e della “Scienza Nuova” di Vico. Benché formulato alla luce intermittente della ragione devastata, l’interpretazione nietzschiana del wagnerismo dimostra la fatale inclinazione della scienza illuminata alla superstizione arcaica. Wagner, stendendo una vernice spiritualista sopra la vocazione anarchica e nichilista del mondo moderno rese, infatti, pubblico l’indirizzo crepuscolare e trasgressivo delle rivoluzioni. Il linguaggio rapsodico di Nietzsche ha definito la natura rivoluzionaria del wagnerismo: “Come si elimina la sventura del mondo? Come si elimina l’antica società? Soltanto dichiarando guerra ai patti (alla tradizione, alla morale). Questo fu Sigfrido. Comincia a farlo presto: la sua nascita è già una dichiarazione di guerra alla morale – egli viene al mondo da un adulterio, da un incesto” 105.

105 Cfr.: “Il caso Wagner”, 4.

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Il giovane, venerante Nietzsche, nelle opere wagneriane della prima maniera, apprezzava la celebrazione dell’affannosa e disordinata felicità elargita dal dio dell’ebbrezza. Felicità mercuriale, che discendeva dalla spietata e animalesca trasgressione della legge naturale: “Sigfrido e Brunilde; il sacramento del libero amore; lo schiudersi dell’età d’oro; il crepuscolo degli dei dell’antica morale” (Ibidem). Nietzsche abiurò la fede wagneriana quando si persuase (erroneamente) che il “Parsifal” fosse la rappresentazione di un colpevole cedimento ai principi dell’ascetismo cristiano. Ai suoi occhi la (presunta) conversione di Wagner all’ascetismo e allo “spiritualismo” era “Una disgrazia. La navicella s’incagliò; Wagner mise radici. Lo scoglio fu la filosofia di Schopenhauer; Wagner mise radici in un’opposta visione del mondo. Che cosa aveva messo in musica? L’ottimismo. Wagner se ne vergognò. Per lo più era un ottimismo per il quale Schopenhauer aveva creato un cattivo aggettivo – l’ottimismo scellerato”. Scosso da un’isterica gelosia, Nietzsche attribuì la causa della “conversione” wagneriana all’influsso dell’odiata rivale, Cosima Listz: “Il Parsifal di Wagner fu in primissimo luogo e fin dall’inizio una condiscendenza in fatto di gusto agli istinti cattolici di sua moglie, la figlia di Lizst … da ultimo anche un atto di quella eterna vigliaccheria del maschio davanti a tutto quanto si chiama eterna femminilità ” 106. In realtà tanto Sigfrido quanto Parsifal sono segnavia della rivoluzione in cammino verso il nulla. L’abbagliante infondatezza dello schema dialettico inventato da Nietzsche per opporre la “beata” effervescenza dei coribanti alla fredda virtù apollinea, impediva l’avvistamento del pensiero unico e concorde, soggiacente alle forme anfibia della religione wagneriana. Oltre tutto i più aggiornati e smaliziati studi del defunto Elemire Zolla hanno dimostrato, la profonda identità delle figure di Apollo e Dioniso.

106 Cfr.: Frammento 308.

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Dominato dalla maniacale avversione nei riguardi di qualunque simulacro del Cristianesimo, Nietzsche non vide l’uguaglianza delle due facce della medaglia pagana. Di conseguenza non si rese conto che lo stato d’animo manifestato dal “Parsifal”, non discendeva dal vago istinto cattolico di Cosima, ma dallo spirito anarchico e libertino – propriamente coribantico - che agitava e tormentava il genio di Wagner durante la composizione delle opere dedicate alla leggenda di Sigfrido. D’altra parte, non è lecito dimenticare che il “Parsifal” è la fonte penultima di quella sciagurata e delittuosa parodia, il c. d. “cristianesimo tedesco”, che ha rovesciato frammenti pagani, rottami gnostici, deliri pornografici e fantasticherie medievali nei malsani contenitori del romanzo politico imbastito dai nazionalsocialisti. L’identità delle due opposte e ricorrenti tradizioni, l’antichità pagana e l’apostasia moderna, tradizioni ricapitolate dall’infatuazione dionisiaca del greco Nietzsche e dall’imitazione buddista recitata dall’indiano Schopenhauer, è ben visibile grazie all’intuizione geniale di un teologo tedesco, Joseph Ratzinger, il futuro Benedetto XVI. Il cardinale Ratzinger, commentando la fine ingloriosa del comunismo ha, infatti, indicato la mesta uguaglianza della gioiosa ebbrezza rivoluzionaria e dell’umbratile depressione nichilista: “Non molto tempo fa un’espressione come mestizia di questo mondo appariva oscura, anzi irreale, ché sembrava che i figli di questo mondo fossero molto più allegri dei credenti. Oggi che le promesse della libertà illimitata sono state guastate completamente, incominciamo a comprendere di nuovo l’espressione mestizia di questo mondo” 107. Antonio Socci, nel “Giornale” del 12 settembre 2005, dopo aver definito la rivoluzioni moderne “Travestimenti dell’antica gnosi, che giudicava il creato un orrore plasmato da un Demiurgo maligno”, segnala un singolare paradosso: “Il mondo (laico, moderno) ha abbandonato la Chiesa

107 Joseph Ratzinger, “Guardare Cristo”, Milano, 1990, pag. 59.

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accusandola di reprimere la gioia di vivere e oggi, ai primi segni della cervicale e della bronchite, sprofondato nella cupezza disperata, accusa la Chiesa di lodare la bellezza della vita”. Pubblicato nel 2005 per i tipi dell’editrice nietzschiana Adelphi, la puntigliosa prefazione dell’occultista Francesco Zambon al “Libro del Graal” di Robert de Boron, la più matura versione della mitologia medievale intorno a Parsifal, conferma, senza volerlo, il giudizio di Ratzinger. Il radicale pessimismo dell’ultimo Wagner era, appunto, ispirato dalla mitologia del medioevo ereticale, oltre che dalle leggende alchemiche, dalle tradizioni celtiche, e dalle curiosità per il buddismo, diffuse dai sincretismi intorno alla metà del XIX secolo 108. Wagner fu estraneo al pensiero cristiano poiché “Graal ed Eucarestia non sono affatto la stessa cosa”109. È dunque lecito affermare che proprio da Wagner ebbe inizio la delnociana rivoluzione ulteriore, la rivoluzione francofortese che ha promosso la guerra del nulla sessantottino contro la legge naturale. L’appartenenza ultramoderna di Wagner appare chiaramente, quando si considerano le sorgenti del suo Parsifal. Quali antiche fonti della leggenda di Parsifal, Zambon elenca anzitutto gli apocrifi del Nuovo Testamento e i testi dell’eresia gnostica: “Robert de Boron – o la sua fonte diretta – utilizzò certamente una versione del Vangelo di Nicodemo, combinandolo con apocrifi di epoca più tarda, come la «Guarigione di Tiberio» e la «Vendetta del Salvatore» 110. Dopo i testi gnostici Zambon cita le “profezie” millenaristiche di Gioacchino da Fiore: “L’articolazione del Libro del Graal in tre tempi successivi, simboli o manifestazioni delle tre persone della Trinità, è stata accostata con ragione alla teologia della storia di Gioacchino da Fiore”.

108 Cfr.: Richard Barber, “Il Graal”, Piemme, Milano 2005, pag. 47 e seg..

109 “Il Graal”, op. cit., pag. 183.110

Cfr.: “Il libro del Graal”, Adelphi, Milano, 2005, pag. 17.

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Ora la teologia gioachimita della storia dipendeva da una tracotante dottrina libertaria, che contemplava addirittura la consumazione storica della legge naturale e della legge evangelica: “Gioacchino, le cui opere incominciavano a circolare a partire dal XIII secolo, distingueva infatti nella storia sacra del mondo tre status: quello in cui gli uomini erano sotto la legge, che va dalla creazione del mondo alla venuta di Cristo, quello attuale, in cui ci troviamo sotto la grazia, e che corrisponde alla persona del figlio; infine quello in cui saremo sotto una grazia maggiore, atteso in un prossimo futuro e corrispondente alla persona dello Spirito Santo”. Nella leggenda di Parsifal si trovano anche le tracce delle antiche tradizioni magiche e psichedeliche, che narrano le inquietanti avventure dei bardi gallesi. A proposito degli allucinati che popolano la mitologia medievale, Zambon, pur facendosi cauto, ammette che “In questi personaggi si possono riconoscere gli eredi romanzeschi dei druidi, i sacerdoti della religione celtica … Essi possiedono il dono della metamorfosi, ossia compendiano magicamente in sé tutta la natura… La loro follia è segno dell’ispirazione divina, i loro canti poetici sono rivelazioni sacre”. Nulla si può dunque obiettare seriamente a Zambon quando afferma che le tradizioni graaliche, alle quali Wagner attinse a piene mani, “rinviano ai temi della perfetta comunione con la natura e della signoria su tutti gli esseri”, temi che sono presenti nelle descrizioni celtiche del sapiente (dell’iniziato) come uomo selvaggio o folle dei boschi. A questo punto è opportuno rammentare che il nome Parsifal significa puro e selvaggio, un titolo che si può attribuire senza difficoltà sia ai giovani attivisti al seguito del capitano Röhm sia ai sessantottini replicanti e festanti nelle cerimonie no global. Per la presenza di mistagoghi ebbri, la scena religiosa celtica ricostruita da Wagner è dunque simile alla scena della Grecia dionisiaca, venerata da Nietzsche. Al proposito non è inutile rammentare le impertinenti - pertinenti interpretazioni di Julius Evola, nelle quali il graal era assimilato alla coppa delle pozioni inebrianti consumate durante i riti dell’alta iniziazione.

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Restaurati dopo il fatidico Sessantotto dai naufraghi della rivoluzione, questi riti indicano l’approdo del pensiero moderno sulla sponda ossessa e grottesca, dove - intorno alle fungaie allucinogene - fioriscono l’anarchica, il naturalismo, l’ecologismo e il pensiero debole, valori ben quotati dal mercato culturale postmoderno. La recente, rinnovata fortuna della mitologia intorno al graal (significativa, ad esempio, è l’altissima tiratura di un cervellotico, uggioso e indigesto romanzo “Il codice Da Vinci”) rappresenta, con regia adelphiana, l’ultimo atto del ciclo rivoluzionario: la comica finale.

XIILe comunità naturali

Estinte le ideologie e sprofondato l’illuminismo nella shakespeariana “immensità cadaverica della notte buia”, sulla scena contemporanea si affrontano due capovolti ectoplasmi: una destra sedicente comunitaria e una sinistra liberal. Prive di sicure ascendenze filosofiche e di espliciti riferimenti alla storia, le fazioni superstiti tentano di qualificarsi piantando paletti che dovrebbero segnare la distanza dall’ingombrante passato ideologico. La destra avventizia ed esangue recupera i cascami del nazionalismo ottocentesco e del comunitarismo democristiano per proporli, quali antidoti al pensiero unico e quali baluardi contro il fantasma del questore universale. La sinistra senza pensiero solletica i nemici del male americano magnificando i radiosi orizzonti del cosmopolitismo interculturale, del potlac e del lassismo liberal chic. I tamburi del talk show rullerebbero indisturbati a sostegno della nuova sinistra, universale, tollerante e buona

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se, nella nebbia generale, fosse possibile stabilire con certezza dove sta la sinistra bella e dove la bieca destra. La luna ideologica ha, infatti, abbandonato il pozzo delle identità granitiche e delle certificazioni indeclinabili per navigare in acque libere e insicure. Inutilmente i portatori delle altezzose suggestioni anticristiane, che ancora dominano la vita culturale dell’Occidente, stanno tentando di ricostruire la scena nella quale la fatale guerra tra i due blocchi giustificava l’esclusione tassativa del pensiero intitolato alla terza via. Alla commedia degli inganni la storia non consente di replicare in modo serio. Il vuoto ermetico in cui si agitano le attonite controfigure delle ideologie, e più ancora la feroce pienezza del fanatismo islamico, dimostrano che il Cristianesimo è l’unica dottrina atta a conservare in vita la civiltà dell’Occidente. La sola fonte di civiltà, dopo tutto. È finalmente consentito intraprendere una terza via, equidistante dall’atomismo liberal e dal comunitarismo avventizio: il percorso segnato dall’antropologia tradizionale, che studia l’uomo concreto, plasmato dal corso provvidenziale della storia. Su tale percorso l’uomo è irriducibile alle categorie zoologiche, nelle quali vorrebbe costringerlo e mortificarlo l’ecologismo, variante estrema del funerale moderno. Fondata sul sano realismo, l’antropologia tradizionale ha conquistato la sua autorità mediante l’osservazione imparziale dei segni, che costringono a riconoscere la singolare specificità della natura umana e l’eminenza della sua organizzazione sociale. Ora, in mezzo a tali segni, i più eloquenti sono la lunga permanenza (fino a dieci volte superiore a quella degli animali) della prole in uno stato di quasi completa inettitudine e l’incremento che la durata del periodo d’inettitudine infantile subisce in ragione del progresso della scienza e della tecnologia. Questi segni fanno intendere che l’uomo, oltre che sociale e razionale, è un animale tradizionale, e che la qualità della sua vita dipende dalla trasmissione (trans-datio) del patrimoni di cultura, memoria storica e scienza accumulato attraverso le generazioni.

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Davanti a quest’evidenza Enrique Gil y Robles era obbligato ad ammettere che nelle famiglie la tradizione coincide con la continuità della vita. “L’uomo, ha scritto un geniale interprete della tradizione cattolica, l’italo ispanico Francisco Elias de Tejada y Spinola, può trasmettere insegnamenti ereditati da altri uomini, mentre l’animale non può trasmettere ai suoi congeneri quello che ha appreso. L’uomo è sociologicamente tradizionalista, mentre l’animale è schietta natura senza storia” 111. Costruita sul fondamento del realismo antropologico, la dottrina sociale cattolica riacquista credibilità e autorità dopo gli esiti catastrofici del pensiero astratto. Nel citato saggio sulle tre vie della politica, confutando le fragili argomentazioni dei sociologi da talk show e dei teologi da salotto, De Tejada ha dimostrato l’irreparabilità degli errori che si sono contrapposti durante il XX secolo: “Mentre il liberalismo fa girare la vita politica intorno all’individuo, aspirando ad eliminare sia la società che lo stato, e il totalitarismo concentra tutto nello stato, che assorbe sia l’individuo che la società, il tradizionalismo pone la società nel centro della scena politica, affermando l’indipendenza della società dallo stato e basandosi su di essa per la realizzazione concreta dell’esistenza terrena degli individui” 112. Misconosciuto ed emarginato durante gli anni bui dell’infatuazione sessantottina, il pensiero tradizionalista oggi incontra il pensiero avanzante tra le righe dell’arroventata delusione moderna. I continui appelli al nuovo, le legittime proteste dei garantisti e la larga adesione alla formula più società meno stato, accentuano il mortificante disorientamento e l’incertezza seguiti alla catastrofe delle ideologie, disagi epocali, che trovano una chiara soluzione soltanto nella dottrina tradizionale rivalutata e approfondita dai testimoni del giusnaturalismo contemporaneo, Giorgio Del Vecchio,

111 “Liberalismo, totalitarismo, tradizionalismo”, in “Traditio”, a. I, Genova giugno 1978.112 Ibidem.

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Antonio Messineo, Giuseppe Capograssi, Pedro Galvao de Sousa, Dario Composta, Raimondo Spiazzi, Sergio Cotta, Paolo Pasqualucci, Francesco Gentile, Ennio Innocenti, Juan Vallet de Goytisolo, Miguel Ayuso, Danilo Castellano, Francesco Mercadante, Silvano Scalabrella, Lino Di Stefano, Gianfranco Morra e, ovviamente, De Tejada. Il fatto è che l’antropologia cattolica non nasce da astrazioni solitarie ma dalla realtà storica, banco di prova delle verità rivelate da Dio e delle verità razionali attinte da pensatori rigorosi. Non è il manufatto di ideologi incapsulati nel vuoto cartesiano, ma l’autobiografia dell’uomo concreto. In piena sintonia con Del Vecchio, Tejada ha affermato che “La società e non lo stato è il veicolo della tradizione. Perché la società è una totalità di vita e lo stato un potere ordinatore di comando. Nella società, nella vita sociale, entrano elementi religiosi, culturali, economici. Nello stato, invece, interviene solamente il potere. Lo stato risponde alla necessità della sicurezza collettiva, la società all’intera vita umana nelle connessioni degli uomini con i propri simili. Connessioni ordinate, regolate, equilibrate in se stesse. La società è un ordine vitale, nei due aspetti delle necessità materiali e di quelle spirituali ... Lo stato è il potere che ordina, ma non potrà mai sopprimere e assorbire gli elementi che ordina” 113..Il cammino sulla terza via incomincia necessariamente dalla definizione della famiglia, quale cellula fondamentale, insostituibile e indistruttibile del consorzio umano e “primo antichissimo Principio di tutta l’Umanità” 114. Danilo Castellano osserva al proposito che “Se matrimonio e famiglia resistono, ciò è dovuto al fatto che contro l’ordine della creazione nulla l’uomo può, anche se spesso si illude, delirando, di avere su di esso un potere illimitato. Il fatto che la famiglia resista nonostante le difficoltà, le aggressioni e i reiterati tentativi di dichiararne la morte, è la prova della sua naturalità” 115.

113 Ibidem.114 “Scienza Nuova” prima”, II, VI, edizione a cura di Francesco Flora, Mondatori, Milano 1957, vol. I, pag. 797.

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Costituito da un uomo e da una donna per procreare ed educare i figli, il nucleo familiare ha un ruolo insostituibile nella trasmissione del sapere necessario alla vita e perciò esige la tutela e il sostegno della legge e del potere civile. A nessuno deve essere consentito di attentare alla sacralità dell’unione familiare mediante l’allestimento delle parodie pederastiche o la sequela delle mostruose procedure biologiche, praticate per realizzare il concepimento di figli conformi al fatuo desiderio di genitori vanesi. Ora è evidente che le condizioni ottimali alla formazione umanistica di una gioventù capace di progredire ordinatamente sono offerte da un ambiente familiare indenne dai turbamenti dell’ateismo, dell’anarchia e dell’oscenità. “Questa e non altra, conclude Vico, dopo aver decriptato i documenti della mitologia classica, è certamente l’umanità, la quale sempre e dappertutto resse le sue pratiche sopra questi tre sensi comuni del genere umano; prima che ci sia Provvidenza; secondo che si facciano certi figliuoli con certe donne, con le quali siano almeno i principii d’una religion civile comuni; perché da’ padri e dalle madri con uno spirito i figliuoli si educhino in conformità delle leggi e delle religioni, tra le quali sono essi nati; terzo che si seppelliscano i morti” 116. La conclusione di Vico smentisce l’utopia libertina e abbatte i castelli innalzati nell’aria fritta dal radical chic, dimostrando la loro impossibilità: “Onde non solo non fu al mondo nazion d’atei, ma nemmeno alcuna nella quale le donne non passino nella religione pubblica de’ loro mariti… molto meno vi fu alcuna che usò la Venere canina o sfacciata” 117.

115 Cfr.: “Della famiglia: brevi considerazioni sulla sua essenza”, in “Dalla geometria legale -statualistica alla riscoperta del diritto e della politica Studi in onore di Francesco Gentile”, Fundación Francisco Elias de Tejada, Madrid 2006, pag. 218. 116 “Scienza Nuova” prima, I, I, edizione a cura di Francesco Flora, op. cit., vol. I, pag. 762.117 Ibidem.

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Di qui l’obbligo di rivendicare, senza giri di parola e rossori politicamente corretti, la perpetua indissolubilità del matrimonio quale strumento indispensabile di uno sviluppo civile conforme al diritto di natura. In una fase della storia culturale europea, segnata dall’insorgenza dei socialisti e dei nichilisti, alleati contro l’ordine sociale cristiano, Leone XIII, confutando la torbida e ingannevole teoria del libero amore, dimostrò, appunto, che “l’esigenza del diritto naturale, si fionda principalmente sopra l’unione indissolubile dell’uomo e della donna” 118. Non a caso i romani costruirono la loro esemplare legislazione fondandola sulla teoria che attribuisce alla dignità del matrimonio solenne, definito appunto coniugium stabile e omnis vitae consortium, l’origine della distinzione della società umana dal branco. Il Vangelo ha elevato alla dignità di sacramento l’istituto del matrimonio, confermando e chiarificando il diritto naturale e facendo dell’indissolubilità la condizione indispensabile all’esistenza stessa del matrimonio. Coerentemente, San Tommaso sostiene che il matrimonio sarebbe invalido se nel consenso, che lo stabilisce, si esprimesse un’intenzione contraria alla fedeltà al vincolo indissolubile 119. Pio XI, riprendendo la dottrina romana del coniugium stabile, ha rammentato pertanto che “La natura assolutamente peculiare e speciale di questo contratto lo rende totalmente diverso, non solo dagli accoppiamenti fatti per cieco istinto naturale fra i bruti, in cui non può esservi ragione o volontà deliberata, ma altresì da quegli instabili connubi umani, che sono disgiunti da qualsivoglia vero ed onesto vincolo di volontà e destituiti di qualsivoglia diritto di domestica convivenza” 120. Vico, attraverso la penetrante, originalissima lettura della mitologia classica era giunto alla conclusione che il progresso dell’umanità ebbe inizio dai matrimoni: “la pietà

118 Quod apostolici muneris, 28 Dicembre 1878.119 Sum. Theol., III Suppl., q. 49, a. 3. 120 Casti connubii, 31 Dicembre 1930.

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co’ matrimoni è la scuola dove s’impararono i primi rudimenti di tutte le grandi virtù” 121. Per comprendere l’ufficio della famiglia nello sviluppo dell’ordine civile, occorre rammentare che, in origine, come adesso, l’alternativa al matrimonio stabile era costituita dalla nefanda comunione delle donne e dei figli. La mitologia intorno alla felicità procurata dal libero amore ha origine dalla opinione (prima nutrita e poi abbandonata e sdegnata da Platone) che attribuiva agli uomini dell’età dell’oro (e non agli uomini avviliti dal peccato) l’uso comune delle donne e l’allevamento collettivo dei figli. Vico, sfatando la ridicola leggenda dell’età dell’oro e riportando il platonismo nel solco della sua originaria intenzione morale, ha aperto la via al rinnovamento della scienza antropologica. Dopo la parentesi dell’illuminismo, la cultura deve misurarsi nuovamente con i pensieri dell’avanguardia antropologica ispirata da Vico. Mediante una lettura originalissima della mitologia classica, Vico ha dimostrato, che la civiltà dell’Occidente, ha avuto inizio dalla fondazione delle famiglie: “La prima umana società conciliata dalla religione fu quella de’ matrimoni, che dovett’essere di certi uomini che per timore di una divinità si ritrassero dal divagamento ferino” 122. L’infanzia eroica del genere umano si svolge nella cerchia gelosa dei nuclei familiari: “Dai Greci fu detta Era, dalla quale, scrive Giambattista Vico, debbono essere stati detti essi eroi, perché nascevano da nozze solenni” 123. Se non che le famiglie obbediscono ad un impulso naturale, che le spinge ad uscire dal loro chiuso per spiegare il diritto naturale e dare vita all’ordine civile: “Quindi nello stato delle famiglie tal diritto monastico, con le occasioni delle necessità o utilità familiari, siasi spiegato in diritto naturale iconomico. Dipoi, diramati i ceppi in più famiglie,

121 “Scienza Nuova” seconda, II, IV, edizione delle Opere a cura di Francesco Flora, op. cit., vol. I, pag. 233.122 “Scienza Nuova” prima, II, VI, edizione delle opere a cura di Francesco Flora, op. cit., vol. I, pag. 796. 123 “Scienza Nuova” seconda, II, IV, edizione a cura di Francesco Flora, op. cit., vol. I, pag. 232.

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alle occasioni delle comuni bisogne delle intiere attenenze, ossia delle case antiche ovvero tribù, le quali furono innanzi delle città e sopra le quali sorsero le città – le quali case, prima e propriamente, da’ latini di dissero gentes – siasi il diritto iconomico propagato in un diritto naturale delle genti prima e propriamente così dette, che i latini dissero gentes maiores” 124. Dallo sviluppo dei primi nuclei familiari, dalla opposizione della religiosità al disordine comunistico, hanno avuto origine tutte le altre società naturali (tribù, villaggi, compagnie d’impresa, corporazioni, centri di cultura, città) che rappresentano la crescente complessità della storia: Ultima società è lo stato, che si costituisce, appunto, per coordinare la vita delle comunità naturali che hanno raggiunto un alto grado di complessità. Grazie alla interpretazione vichiana della mitologia, è evidente un’altra verità che oggi risulta decisiva: la società non riceve l’impulso a progredire dalla cupidigia e dall’odio di classe ma dalla religione e dal desiderio di emulare le virtù delle famiglie eroiche. Un solido punto d’appoggio per la politica conforme al tradizionalismo, è il paradosso in forza del quale la virtù esercita il suo primato anche nelle società dominate dalla smania del successo e corrotte dall’avidità dei beni materiali che lo significano. Quantunque disonesto e insolente, nessun uomo sopporta infatti che il suo successo sia attribuito alla disonesta fortuna e all’assenza di merito. All’avanguardia oggi si trova nuovamente il pensiero cattolico. Non senza scandalo degli opinionisti e dei teologi da palcoscenico, ma nella piena fedeltà alla tradizione vincente, Giovanni Paolo II ricorda insistentemente che i cattolici non possono contrastare il principio dell’indissolubilità del matrimonio, e della fedeltà alla parola data davanti all’altare. Sono lontani i tempi del trionfalismo laico, quando il dissenso cattolico era incensato perfino da alcuni vescovi conformisti – tra di loro ci fu chi dichiarò addirittura il

124 “Scienza Nuova” seconda, II, V, edizione a cura di Francesco Flora, op. cit., vol I, pag. 794 - 795.

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rispetto per i fedeli divorzisti “per motivi di libertà di coscienza, di pace sociale e di valutazioni politiche contingenti”. Il vento della storia occidentale, ultimamente, soffia in senso favorevole alla ragione cattolica. Davanti agli stupefatti cultori del vecchio progressismo, il sogno americano, incalzato dal terrorismo islamico, indossa l’armatura della morale tradizionale. Mentre le elezioni presidenziali americane si svolgono infatti come una corsa per conquistare le posizioni dell’avanguardia a destra, l’americano medio abbandonato il sorriso ottuso dello yankee, si trasforma nella figura vivace dell’uomo latino, fedele alla tradizione e cattolica. Chiusa la scuola del progressismo, dall’America l’Italia può imparare la stima della tradizione. Della stagione dei viscidi compromessi e delle umilianti abdicazioni rimane soltanto la memoria dei fedeli coraggiosi, che osarono opporsi all’imperiosa deriva della mondanità. Fra di loro Nino Badano, che scriveva nelle pagine intrepide della rivista di Giovanni Volpe, “La Torre”: “Il matrimonio è indissolubile, non solo come sacramento, ma come istituzione naturale; solo una donazione perenne dei coniugi garantisce alla famiglia l’adempimento della sua funzione sociale, soprattutto educativa. La famiglia unita è necessaria al bene della società. Per le sue rovinose conseguenze il divorzio è una piaga. Il cristiano, come cittadino, ha il dovere di proporre e difendere il suo modello di famiglia, perché deve partecipare alla costruzione di un retto ordine civile, partecipazione urgente quando la famiglia è insidiata da una permissiva, che favorisce il coniuge colpevole e non tutela i diritti dei figli, degli innocenti e dei deboli”. Nell’età del disincanto ideologico, a parlare in difesa del matrimonio indissolubile sono i dati statistici, che compongono il ritratto angosciante di una società smembrata e moralmente esausta. Ogni anno il decano della Sacra Rota, monsignor Mario Francesco Pompedda, espone al papa un bilancio penoso: affievolimento delle difese morali, incoscienza del peccato grave, ostinato rifiuto della scelta che comporta un impegno

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vincolante nella buona e nella cattiva sorte, obliqua concezione della libertà. Gli atti delle cause matrimoniali, quadretti di ordinaria disumanità e di disgregazione sociale, potrebbero ispirare una collana di romanzi neri – alla Michel Houllebecq – tanta è la stupida ferocia che in essi si registra. Prima del dogma, è l’esperienza comune a certificare che nessuna società sopravvive senza rispettare la parola data in materia grave come l’unione matrimoniale. A chi ha il coraggio di consultarli, gli atti della Sacra Rota svelano la minaccia che il divorzismo porta nel cuore della convivenza civile: la sopraffazione del divertimento sulla vita, dello stato d’animo sulla ragione, della libidine sul diritto. Troppo facilmente l’unione familiare si spezza a causa di risibili e demenziali conflitti sulle vacanze, sulla festa del sabato sera, sulle compagnie d’evasione, sulle strategia da seguire nell’ascesa all’effimero. Il processo di secolarizzazione, iniziato sotto i lumi del razionalismo e proseguito attraverso le serenate romantiche, psicoanalitiche e sessantottine al libero amore e alla famiglia allargata, ha dato luogo ad una preoccupante e dispendiosa malattia sociale. La sterminata solitudine della folla contemporanea invoca esempi di moralità accettata e vissuta eroicamente. Il forte richiamo del papa all’indissolubilità del matrimonio, sottolinea il fatto che il futuro della civiltà occidentale si guadagna o si perde nelle famiglie. La fermezza dei princìpi cristiani rinvia sempre all’insegnamento della carità, secondo cui l’uomo non esiste per la legge, ma la legge per l’uomo. Nella luce della dottrina di Cristo, il secondo nome della solidarietà verso il prossimo è coerenza di vita e fermezza dei princìpi. Sarebbe facile compiacere e benedire, in nome della tradizione cristiana, la volontà di ripudiare il coniuge non più amato, per unirsi con l’oggetto dell’amore avventizio e fittizio. Quale trasgressione non può essere giustificata da un falso ideale? Scroscerebbero gli applausi, se la Chiesa cattolica si arrendesse allo spirito del tempo e vezzeggiasse gli ideali

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conformi al comandamento usa e getta. Un Cristianesimo conciliante e carino, oltre tutto, non subirebbe la temibile concorrenza delle religioni alternative, che promettono baldoria in terra e felicità nell’alto degli improbabili cieli. Ma la fede cristiana è una porta stretta: chi l’attraversa deve scegliere la vita difficile, il pericoloso mare della seconda navigazione, dove si corre il rischio dell’odio nutrito dai disertori, che hanno i piedi piantati nella terra del timore. Usata dalla fermezza, l’antropologia cattolica può aprire quella via di libertà, che lo smarrimento degli ideologi cerca a tastoni nella notte del politichese. La dottrina tejadiana, ad esempio, fa costante riferimento alla storia della Cristianità, che ha riconosciuto il primato della società sullo stato, al punto di ordinare le monarchie (quella ispanica, in special modo) nel riconoscimento dell’autonomia che compete alle società formate dalla storia, ed escludendo perciò le ingiustizie e le oppressioni che hanno afflitto le nazioni cattoliche governate dai giacobini e dai liberali secondo i criteri del centralismo burocratico. A malgrado del chiasso babelico sollevato dai contestatori neopagani allo sbaraglio e dagli innovatori da bar, l’attualità del pensiero tradizionale, la sua piena conformità alle profonde aspirazioni dei popoli delusi dal moderno, oggi sono incontestabili. L’opera tejadiana ha liberato il tradizionalismo dalle gabbie incapacitanti dell’archeologia e gli ha impresso la forma di una scuola d’avanguardia, che interviene efficacemente nel dibattito postmoderno, contribuendo all’impegno della gerarchia per la riaffermazione dell’antropologia cattolica 125. Senza ombra di dubbio oggi la scuola tejadiana rappresenta l’avanguardia del movimento tradizionale ed una fra le più vitali e attrezzate agenzie culturali operante nella fluida area della destra italiana. L’efficacia della presenza tradizionalista è misurata dalla risonanza delle sue iniziative e dalla riconosciuta indipendenza delle sue

125 E’ opportuno rammentare che di recente il card. Joseph Ratzinger ha dichiarato senza mezzi termini che l’influsso delle idee imposte dalle agenzie culturali controllate dai sedicenti progressisti offusca l’identità dei cattolici. Cfr. “Il sale della terra”, ed. Paoline, Cinisello B., 1997.

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iniziative, conseguenti ad un organico progetto di cultura politica e perciò mai condizionate dalla cultura dei partiti. Dopo gli anni plumbei dell’egemonia progressista, l’espansione del movimento fondato da de Tejada apre uno spiragli alla speranza nel futuro. Nel solco del tradizionalismo hanno messo radici gruppi autorevoli e influenti, , che gestiscono un’università della filosofia politica, promuovono importanti convegni di studi, gestiscono case editrici e librerie, pubblicano autorevoli riviste La strada da percorrere è lunga e ardua, ma, grazie a Dio, la costituzione di una vasta area tradizionalista non è più un’utopia.

XIIICesarismo e popolarismo,l’eredità del Vico inattuale

Nel 1725, a conclusione della prima stesura della “Scienza Nuova”, Giambattista Vico dichiarò che la monarchia popolare, costituita nella Napoli ispanica in base ai princìpi della religione cristiana, era la più conveniente ai popoli che hanno raggiunto un alto grado di sviluppo civile:

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“Le monarchie sono spezie di governo sommamente conforme alla natura delle idee umane spiegate” 126. Nella seconda e definitiva edizione della “Scienza Nuova”, pubblicata nel 1744, quando l’illuminismo, terminata la fase dell’incubazione, stava per diffondere i suoi devastanti miti per tutta l’Europa, Vico confermò la tesi sull’eccellenza della monarchia tradizionale, quale regime inteso all’emancipazione e all’elevazione delle plebi. Dopo aver denunciato l’ispirazione retriva e l’indirizzo oligarchico della resistenza che, nei popoli più arretrati, ostacola la costituzione di monarchie popolari (“I nobili non si possono persuadere ch’i plebei abbiano la stessa natura umana ch’essi hanno”), Vico affermava, infatti, che “in Europa, dove dappertutto si celebra la religion cristiana (ch’insegna un’idea di Dio infinitamente pura e perfetta e comanda la carità inverso tutto il genere umano) vi sono delle grandi monarchie ne’ lor costumi umanissime” 127. Quando Vico elogiava l’azione cesarista condotta dalle monarchie durante i primi anni del Settecento, non poteva prevedere e criticare lo sviluppo degli inammissibili errori (assolutismo e dottrina gallicana) che caratterizzeranno la prima sotterranea e inavvertita fase della rivoluzione francese, il dispotismo illuminato. La diffidenza, che l’oscuro scenario del XVIII secolo suggerisce agli studiosi dell’istituto monarchico, non diminuisce, tuttavia, il valore del giudizio favorevole che sta a fondamento della politologia vichiana. Grazie alla magistrale analisi dei testi mitologici e delle deche di Tito Livio, Vico accerta, infatti, che il cammino verso l’umanizzazione della società incontra l’ostacolo costituito dalla tendenza delle oligarchie ad impedire l’elevazione delle plebi alla dignità civile. Il fine dell’antistorica resistenza al progresso è la conservazione di un potere superato dalla maturazione della coscienza della plebe e infirmato dal suo aperto dissenso.

126 Scienza Nuova prima 1725, Capo ultimo, Età degli huomini.127 Scienza Nuova seconda, Libro V, Del ricorso delle cose umane, § 3.

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Il pesante potere esercitato dalle aristocrazie, che nella prima fase della vita politica era stato indispensabile al superamento del disordine cui era soggetta la plebe, era giustamente rifiutato dalla mentalità dei popoli inciviliti ed umanizzati dalla prolungata obbedienza alla legge. Vico dimostra che c’è un momento della storia in cui il regime aristocratico, non più idoneo a promuovere la crescita della società civile, si abbandona all’istinto di conservazione e affida la sua sorte a quella politica di violenze, oppressioni e tradimenti che è perfettamente rappresentata dalla congiura contro Giulio Cesare, che era per l’appunto il capo del partito popolare. Alle soglie della modernità, questo momento cruciale della storia si riproduce nello scontro che oppone la consunta ideologia oligarchica alla cultura umanistica ispirata e diffusa dal Cattolicesimo. Vico è lontano dal disprezzo che i giacobini e i liberali rivolgeranno contro l’aristocrazia, tanto è vero che riconosce la provvidenziale, insostituibile funzione svolta dagli ottimati nella prima fase dell’incivilimento: “non si può intendere in civil natura uno stato il quale a sì fatte aristocrazie fusse superiore”. Avverte tuttavia che, in condizioni storiche mutate, l’eccessiva asprezza e la gelosia del potere aristocratico si traduce in abusi, che destano l’insofferenza e suscitano la rivolta dei sudditi “che commovendo civili guerre nelle loro repubbliche le mandano ad un totale disordine” 128. Di conseguenza Vico chiarisce che, esaurito il loro compito storico, i regimi aristocratici, prima attraversano la fase della corruzione oligarchica, quindi sono aggrediti dalle passioni anarchiche che sorgenti dal basso. L’unica alternativa al disordine, a quel punto, è l’abolizione del privilegio oligarchico e l’attuazione dei principi umanistici del diritto naturale che non sono ancora riconosciuti dal potere costituito.

128 Scienza Nuova seconda, Conchiusione. Quasi dimenticando il retroterra provvidenzialista della Scienza nuova, Marx riteneva che Vico avesse anticipato la teoria (materialista) della lotta di classe e perciò consigliava la lettura della sua opera.

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Il cesarismo si manifesta come espressione di quel potere carismatico, che perfino Max Weber attribuirà all’irriducibile volontà di rinnovare la tradizione. Volontà perfettamente espressa nella formula evangelica “sta scritto, ma io vi dico”. L’ordine della storia, a quel punto, è far evolvere il potere, trasformando i regimi aristocratici in monarchie popolari, “cesariste” e “paterne”: “Perché questa è la natura de’ principii: che da essi primi incomincino ed in essi ultimi le cose vadano a terminare”. Vico sostiene, pertanto, che la divina Provvidenza dispone che dal popolo “uno come Augusto vi surga e vi si stabilisca monarca, il quale, poiché tutti gli ordini e tutte le leggi ritruovate per la libertà punto non più valsero a regolarla e a tenerlavi dentro in freno, egli abbia in sua mano tutti gli ordini e tutte le leggi” 129. Che questa sia l’indirizzo voluto dalla Provvidenza e attuato per mezzo della libertà degli uomini, lo conferma il fatto che nell’Europa progredita d’inizio Settecento, “non sono d’aristocrazie più di cinque ... e quasi tutte sono di brievi confini. Ma dappertutto l’Europa cristiana sfolgora di tanta umanità che vi si abbonda di tutti i beni che possono felicitare l’umana vita, non meno per gli agi del corpo che per gli piaceri così della mente come dell’animo” 130. Ora la teoria “cesarista”, cui Vico aderì ponendosi in sintonia con l’insegnamento di Sant’Agostino, di San Tommaso e dei teologi della Controriforma, chiarisce la ragione della scelta maturata dalla Gerarchia cattolica nel 1925, quando, alla vecchia politica liberal cattolica del partito popolare di don Sturzo, fu preferito il più attuale regime cesarista instaurato in Italia da Benito Mussolini. Non senza ragione, Pio XI ritenne che l’ideologia cattolico - liberale di Sturzo e De Gasperi non fosse adatta ad imporre la giustizia sociale cioè a promuovere le classi sociali più disagiate. Qualunque sia l’opinione o quantunque sia dura e intransigente la sua condanna, nessuno può negare seriamente

129 Ibidem. 130 Ibidem.

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a. che nel regime fascista prevaleva inizialmente una sincera vocazione “cesarista”, b. che Mussolini tentò di elevare le classi meno agiate e di migliorare le loro condizioni di vita,c. che una delle numerose correnti culturali attive nel partito fascista rivendicava l’eredità cesarista di Giambattista Vico, d. che gli studiosi di Vico attivi nella vasta e composita area fascista consideravano la Scienza Nuova una fedele interpretazione della tradizione cattolica.

Fli studiosi d’avanguardia, radunati nella scuola di mistica fascista, sostennero che la filosofia di Vico era il naturale segnavia del movimento 131. Al proposito ha osservato Nino Tripodi: “È significativo che proprio a Vico, e proprio il 23 marzo del 1919, si sia riferito Paolo Orano nel commentare, sul Popolo d’Italia, la fondazione dei Fasci di combattimento. Orano indicava nel filosofo della Scienza Nuova il precursore dell’interpretazione del tempo, chiamandolo maestro dei nostri orientamenti ed evocando la sua teoria del fatto come sede del vero” 132. Nel 1928 un giovane esponente del Guf napoletano, Alberto Mario Foschini, aveva pubblicato un singolare saggio filosofico scritto per dimostrare che il fascismo discendeva dalla Controriforma e non dalla filosofia dell’Europa protestante: “Don Sturzo ritiene il fascismo prodotto da ispirazioni filosofiche e butta fuori Fichte, Hegel, Bergson ecc. Noi insisteremmo, invece, nell’opinione che il fascismo parte dalla controriforma. … il fascismo ed il suo animatore partono e si fondano sull’inequivocabile autorità del Cattolicesimo: ed è a tutti cognita la lotta che lo spirito fascista mantiene contro tutte le forme occulte e insidiose del protestantesimo … Ed il fascismo,

131 Non i seguaci di Oswald Spengler, Evola ad esempio, che condividevano il disprezzo nutrito dal maestro nei confronti dell’esperienza cesarista.132 Cfr.: “Fascismo così”, Ciarrapico editore, Roma 1984 pag. 21.

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antiprotestante per eccellenza, è, con l’assertore di tutte le italianità, il ripudiatore intransigente di Lutero Calvino e consociati e, tra di noi, dei Bruno, degli Ochino, dei Socino ecc. che ne importavano le merci” 133. Il cesarismo, oltre che da Benito Mussolini, era affermato dalla filosofia gentiliana, imperfetta ma non del tutto refrattaria ai sani princìpi dell’umanesimo cristiano. Purtroppo, nel secondo dopoguerra, la lezione vichiana (così felicemente interpretata da Foschini, da Pallotta, da Giani e da Tripodi) è stata fraintesa e alla fine avversata dal reazionario Julius Evola, diventato pensatore egemone nell’area della destra italiana. In conseguenza degli abbagli di Julius Evola, la dottrina politica di Vico fu disattesa proprio dagli uomini forse più qualificati e adatti ad applicarla. Gli uditori di Spengler ed Evola hanno esposto la cultura di destra agli influssi dell’oligarchismo, ritornante attraverso le suggestioni iniziatiche e regressive del postmoderno. A differenza di Gentile, che aveva intravisto il profondo significato cristiano e umanistico della dottrina di Vico, Evola aveva stravolto il significato della Scienza Nuova, confondendola con le stralunate teorie di Oswald Spengler e di Jean Jacques Bachofen e riducendola, infine, ad un improbabile elogio delle mitologie intorno ai “sapienti” vissuti nell’età primordiale. Ettore Marano, ha dimostrato, peraltro, che Evola criticò la politica sociale condotta da Mussolini, ravvisando in essa il trionfo dell’economia sulla spiritualità ariana, “trionfo che non tarderebbe a fare del fascismo una brutta copia del bolscevismo” 134. L’ideale cesarista predicato da Vico, non è incompatibile con l’umanesimo del lavoro dunque è diverso e irriducibile dalla concezione elitaria di Evola, che ha fondamento nel ghibellinismo e nelle leggende iniziatiche fiorite intorno alla sapienza di presunte antichità ariane.

133 Cfr.: Alberto Mario Foschini, “Il Fascismo sintetizzatore e superatore di tutti i partiti”, Napoli 1928, stampa anastatica a cura della redazione di “Italia tricolore per la terza repubblica”, n. 51, Lugo di Romagna 2007.134 Cfr. “Una critica aristocratica al fascismo”, Idee in movimento, Genova 2004

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Tali leggende sono andate incontro alle due concordi (e discordi) pulsioni della reazione oligarchica: l’orgoglio codino, non ancora sopito dalla nobiltà crepuscolare, e le fantasticherie dei nazisti intorno al mito di Agarthi. Evola condivideva la furente disapprovazione del cesarismo dichiarata da Oswald Spengler e lo snobistico disprezzo del salotto nei confronti della persona di Mussolini. Il fatto è che Evola aveva ricevuto (dai teosofi, da René Guénon e dal decadente Jean Jacques Bachofen) gli abbagli della cultura regressista (adesione acritica ai miti platonici intorno alla statua di Glauco, culto delle immani libertà dei primitivi ecc.) e perciò era diventato incapace di vedere la dipendenza del progresso dalla tradizione. In ultima analisi era inadatto ad apprezzare i quarti di nobiltà tradizionale impersonati da Mussolini. La refrattarietà di Evola alla giustizia promossa dal cesarismo è la ragione dell’interesse per la sua opera ultimamente nutrito dall’oligarchia crepuscolare 135. Nelle pagine conclusive delle due edizioni della “Scienza Nuova”, Vico propone, invece, l’ordine politico realizzato nel Regno di Napoli grazie all’integrazione della cultura italiana con la cultura ispanica. La monarchia di Napoli, mettendo a freno l’arroganza delle oligarchie, realizzò alcuni fra i più autentici valori della tradizione aristocratica. Questa verità fu riconosciuta perfino da Bendetto Croce. Che nell’introduzione alla “Storia del Regno di Napoli”, confessa, infatti, di aver scoperto la grandezza dell’antico Regno di Napoli grazie alla lettura di un saggio del giurista cattolico Enrico Cenni: “Il vecchio regno di Napoli mi si trasfigurò innanzi agli occhi della mente non solo in uno degli stati più importanti della vecchia Europa, ma in tale che aveva sempre tenuto,

135 Una favorevole recensione della ristampa di un’opera dell’Evola trans - idealista è apparsa nel Corriere [oligarchico] della Sera del 12 settembre 2007. Il recensore segnala che il propagandista del barone nero, “maestro di libertà”, nell’area del potere culturale è Massimo Donà un discepolo di Severino e Cacciari, i maestri egemoni nella scuola veneziana di nichilismo postcomunista.

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nell’avanzamento sociale, il primato o almeno uno dei primi posti. Sorse esso, infatti, nuovo e singolare esempio nella semibarbarica Europa, come monarchia civile, fondata da Ruggiero, conservata e rassodata dai successori, innalzata al sommo fastigio dalla gloria di Federico Svevo: uno stato moderno, in cui il baronaggio era contenuto in istretti confini, ai popoli si garantiva libertà e giustizia, la mente del sovrano, rischiarata da nobili concetti morali e politici, regolava il tutto”. Il cesarismo, nell’aspetto descritto da Vico, è l’essenza di quella tradizione italiana di matrice cattolica - controriformista, che giustifica, ancor oggi, la rivendicazione del primato civile. Le rughe mostrate dai princìpi ispiratori della carta costituzionale cattocomunista del 1948 suggeriscono una riflessione sul cesarismo vichiano quale interpretazione aggiornata della tesi aristotelica riguardante la superiorità dei regimi misti 136. Dalla “Scienza Nuova”, infatti, si possono trarre argomenti a sostegno della repubblica presidenziale oltre che suggerimenti per la costituzione di un bicameralismo perfetto, contemplante un parlamento popolare e un parlamento degli “ottimati” 137. La soluzione costituita dal bicameralismo perfetto costringerebbe i poteri forti ad uscire dalla penombra procurata dalle indulgenze dell’assolutismo democratico per entrare nella legalità. Il fatto che le proposte avanzate dai cattolici alla vigilia del referendum del 1946 ed intese a scrivere la costituzione italiana combinando il principio “cesarista” del presidenzialismo con i princìpi della sana democrazia e con

136 Negli anni di piombo un tentativo di attualizzare l’insegnamento del Vico cesarista fu compiuto da Tommaso Romano, che costituì quel movimento tradizionalista monarchico oggetto della puntuale ricostruzione di Umberto Balistreri (“Legittimismo romantico”) d’imminente pubblicazione. 137 Ad esempio, la camera alta potrebbe essere costituita da un numero ristretto di senatori scelti con voto qualificato fra dagli esperti di giurisprudenza e i rappresentanti dei contribuenti. Un tale parlamento potrebbe assumere le funzioni di filtro delle leggi votate dal parlamento, che è attualmente attribuita alla consulta, e di controllo della spesa, attualmente affidata alla corte dei conti.

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le ragioni delle classi egemoni siano state contrastate e bocciate dalla reazione feroce, scatenata dai poteri forti, dimostra, che questa è la strada che una destra autenticamente popolare deve percorrere senza esitazioni.

XIVLa Tradizione fonte del progresso

La curiosa novità dell’età postmoderna è costituita dal subitaneo ripudio dell’idea di progresso da parte dei progressisti. La conseguenza del nuovo orientamento è la rimozione della teoria superstiziosa che associava le conquiste dell’umanità alla rivolta contro il passato. Le

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vedette ecologiche stanno infine rovesciando l’utopia del futuro in una palpitante nostalgia dell’antico. Imprevedibile e inedita, la trasformazione del progressismo nel suo contrario era stata però intravista dagli esponenti delle minoritarie e isolate scuole intitolate alla tradizione. Dopo che gli anni Novanta hanno confutato i residui argomenti dell’apostasia moderna, le scuole tradizionaliste sono uscite dalla loro nicchia e perfezionando le loro argomentazioni hanno conquistato un più vasto pubblico 138. Ha inizio una nuova fase, intesa a diffondere la convinzione che la cultura del progressismo si è decomposta per dare vita a un pulviscolo di stati d’animo intonati all’anarchia al nichilismo. I protagonisti dell’avanguardia tradizionale hanno finalmente sciolto i lacci della mitologia codina, che li costringeva nella parte di una minoranza anacronistica e marginale, e incominciano ad affermare il loro pensiero sulle cause profonde della avvenuto divorzio del progressismo dalla speranza in un futuro migliore. La guerra del progressismo alla speranza, infatti, ha spiazzato l’oligarchia rivoluzionaria, consegnandola alle umilianti teorie sullo sviluppo zero e sulla decostruzione del pensiero. L’insensato avallo dell’avventurismo teologico non è più sufficiente a nascondere l’emancipazione del progresso tecnologico da un pensiero, che ormai trova credito solo nei vandali effervescenti e negli apologeti della retromarcia: è evidente che futuro non abita più da quella parte. Il codice del razionalismo imparruccato, che nel Settecento indirizzava lo studio all’imperioso ambito delle kantiane scienze sode e bacchettava severamente i cultori

138 Attualmente il pensiero tradizionalista e diffuso dagli editori di alcune eccellenti collane storico-filosofiche e dai redattori di riviste di ottimo taglio: “L’Alfiere” di Edoardo Vitale e Luciano Salera, “Studi cattolici” di Cesare Cavalleri, “Instaurare” di Danilo Castellano, “Radici cristiane” di Roberto De Mattei, “La Tradizione” di Angelo Ruggiero e Pietro Giubilo, “Cristianità” di Giovanni Cantoni, “Sodalitium” di Curzio Nitoglia, “Spiritualità e letteratura” di Tommaso Romano, “Controrivoluzione” di Pucci Cipriani e Luciano Garibaldi, “Civitas christiana” di Maurizio Ruggero, “Alfa e omega” fondata da Siro Mazza, “Intervento nel sociale” di Riccardo Pedrizzi, “L’altra voce” di Domenico Longo, “La Tradizione cattolica” di Ugo Carandino.

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della metafisica, oggi si traduce nelle urla scomposte e incontrollate di cortei, nei quali infuriano la nostalgia del disordine primordiale e la cupidigia di malessere. La scolastica rivoluzionaria, avvolta nell’oscena bandiera di San Francisco, si è finalmente abbandonata alle languide manfrine, che girano intorno all’assenza del progetto e alla fine della storia. Purtroppo Jacques Maritain, non presagendo il destino fallimentare del mondo moderno, aveva legato un’ingente frazione della filosofia cattolica allo sconsiderato invito a identificarsi con le aspirazioni dell’avversario. Nel 1956, l’inascoltato Antonio Messineo aveva dimostrato che la filosofia della storia elaborata da Maritain girava intorno al paradosso della cristianità profana: “L’influsso della vera religione sulla cultura, secondo Maritain, avverrebbe con la discesa dei valori religiosi sul piano umano e temporale. Ma affinché essi diventino elemento di civiltà, dovranno particolarizzarsi, perdendo la loro trascendenza e universalità” 139. Secondo Maritain e i suoi seguaci democristiani, per agire nella storia, il sale cristiano doveva trasformarsi nella dolcezza della modernità, cioè sostenere il movimento delle nazioni verso la secolarizzazione, il depauperamento della vera dottrina e … l’arcipelago Gulag. Maritain non giudicava l’azione dei moderni rivoluzionari alla luce della classica dottrina sull’onnipotenza di Dio, che può trarre il bene dal male degli uomini, ad esempio la gloria delle carmelitane martirizzate a Compiègne dall’intenzione delittuosa e dalla passione inutile e grottesca dei carnefici giacobini, a proposito dei quali Rosmini parlava di “abisso della malignità”. Il pensiero di Maritain dipendeva, invece, dalla stravagante teoria esposta da Bloy, nel saggio d’ispirazione millenaristica “Dagli ebrei la salvezza”; teoria che addirittura attribuiva allo Spirito Santo la fondazione dell’età del disordine rivoluzionario. Nella blasfema e ridicola dottrina di Bloy, non si contempla Dio che trae il bene dall’altrui peccato, ma lo Spirito Santo autore del male.

139 “La filosofia della storia di Maritain”, in “Civiltà cattolica”, 1956, vol. III, pag. 449-63.

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All’esortazione di Maritain a conformare la salvezza cristiana alle esigenze della genericità mondana, ha fatto seguito, purtroppo, la teologia postconciliare, l’equivoca dottrina dell’estremista ecumenico Karl Rahner, che, lo ha documentato padre Cornelio Fabro 140, predicava un cristianesimo anonimo, contemplante l’abbassamento della Redenzione a un (presunto) denominatore comune con le rivoluzioni moderne e con le religioni asiatiche. Stabilito sul fondamento insicuro della filosofia maritainiana e della teologia rahneriana, il partito di centro che guarda a sinistra, ultimamente contempla solo scene babilonesi su piste di anfetamina. Piste benedette dall’oligarchia iniziatica e gradite al sottosuolo perché indirizzate alla dissoluzione e al nulla. La discesa della parabola rivoluzionaria ha finalmente incontrato il delirio intorno al “millennio” libertario instaurato dallo stravolto Spirito Santo di Bloy. La scuola di mediazione, fondata da Maritain e gestita dai suoi discepoli, infine trova rifugio naturale nei giardini delle canoniche, dove i cappellani delle tute bianche coltivano l’erba indiana a beneficio degli sconvolti e dei deragliati. Per esercitare il potere sulle proprie rovine, il progressismo ateo si è appiccicato alla contraddittoria figura dell’eterno ritorno, al mito che scende in guerra contro il progresso voluto dalle bieche destre. In modo paradossale, il balletto Excelsior sta diventando il simbolo postmoderno della destra. Mandata sulle onde della Rai, da incauti orfani della sinistra televisiva, una nuova versione dell’Excelsior ha sconcertato gli spettatori, rivelando la possibile, imbarazzante associazione del progresso tecnologico a una cultura reazionaria risolutamente sviluppista e non più allergica alla scienza. La corruzione decadente e il trasbordo progressista sulla folle nave del pensiero decostruito, non stupisce più, quando si considera che il razionalismo è approdata al pessimismo radicale, dopo aver percorso l’anginosa strada del pregiudizio ateo. Nell’ateismo, infatti, il sogno moderno ha incontrato scorbutiche difficoltà, barriere insormontabili e

140 Cfr.: “La svolta antropologica di Karl Rahner”, Rusconi, Milano 1973.

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feroci smentite. Nessuno ha finora escogitato una formula atta ad impedire che l’idea del mondo senza principio e senza finalità, elaborata dall’ateismo dopo l’utopia, naufraghi in quel confuso e angosciante incubo, che ha il nome di eterna ripetizione dell’identico. L’illusione razionalista tramonta nel Sessantotto, quando i francofortese e i californiani stabiliscono che la dottrina dell’oltreuomo annulla e sostituisce la filosofia di Marx. E tramonta perché proprio Nietzsche, in un frammento del 1885, ha confessato che l’idea dell’eterno ritorno fa cadere le più elementari certezze del razionalismo. A ben vedere il mito dell’eterno ritorno scioglie il matrimonio della ragione con l’ateismo, sostituendo la causa prima con l’idea, perfettamente insensata e insensatamente teologica, del circolo vizioso, circulus vitiosus deus 141. Negli anni che prepararono la catastrofe mentale del Sessantotto, il lugubre Pierre Klossowski, aveva ammesso, senza difficoltà e ritegni, che l’ultima spiaggia del pensiero ateo è la dottrina dell’eterno ritorno, “Concepita come un simulacro di dottrina il cui stesso carattere parodistico dà conto dell’ilarità come attributo dell’esistenza sufficiente a se stessa” 142. Davanti alla minaccia del nichilismo ridarellaro, si fa evidente l’assoluta inadeguatezza della filosofia che sta “a monte” della nuova chiacchiera democristiana. Le divagazioni intorno all’umanesimo integrale, che sarebbe impresso nel codice profondo delle moderne rivoluzioni, sprofondano nel gorgo dell’assurdità. “Non esiste progresso senza tradizione, né c’è tradizione senza progresso”, scriveva Francisco Elias de Tejada, smentendo le fantasticherie dei rivoluzionari intorno alla cultura della tradizione quale preambolo dell’immobilismo. De Tejada ha peraltro dimostrato che “Progredire significa cambiare qualcosa e questo vuole dire, dal punto di vista della morale, migliorare qualcosa. Questo qualcosa è il contenuto della tradizione ereditata. Mancando questa cioè

141 Cfr.: Pierre Klossowski, “Nietzsche, il politeismo e la parodia”, Se, Milano 1999, pag. 77.142 Op. cit., pag. 53.

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la materia da trasformare il progresso risulterebbe impossibile, giacché sarebbe privo della realtà-base su cui apportare cambiamenti e miglioramenti” 143. A sostegno della legge che stabilisce l’unione indissolubile di tradizione e progresso, Michele Federico Sciacca ha proposto un’efficace allegoria: “Conservatorismo e sovversivismo sono, per atteggiamenti apparentemente opposti e sostanzialmente identici, la ruina di una società: il primo perché conserva senza innovare, l’altro perché pretende innovare senza conservare; il primo conservando fuori della sua attualità il principio, lo rende inoperante e fa che invecchi e cessi di essere antico, l’altro respingendolo come vieto pregiudizio, pretende innovare l’esistenza stessa della società negandole l’essere. In breve, il primo si tiene stretto al tronco dell’albero e vorrebbe che foglie nuove non ne mettesse e che le secche non cadessero; l’altro abbatte il tronco e quando è già per terra gli chiede di dar vita a sempre nuove foglie e verdi” 144. Ammaliati dal defunto errore moderno, i cattolici liberali militanti a destra credono nella bontà di un’azione politica unicamente impegnata nella produzione del benessere economico e di conseguenza neutrale sul fronte dell’etica. L’importanza della prosperità economica non può essere sottovalutata, specialmente in presenza dei rischi che, in Italia, sono costituiti da un irrazionale partito della spesa e della fiscalità soffocante. Il problema è che l’assillante problema economico impedisce ai liberali la vista della mole enorme di malessere causato dalla disobbedienza alla legge cristiana. Prima dei problemi posti dall’economica insufficiente, si presentano, infatti, i dolori e le angosce discendenti dalle trasgressioni, ad esempio i dolori causati dal tragico scialo di giovani vite dopo le baldorie del sabato sera e/o dalle spaventose tragedie che si svolgono sulla scena della tossicodipendenza e della pedofilia.

143 “Il Carlismo”, Thule, Palermo 1978, V, 75.144 Citato da Mario Buscemi, in “Rosmini e Tocqueville Le ragioni cristiane del liberalismo”, Centro Siciliano Sturzo, Palermo 2004, pag. 109.

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Dolorose sono anche le umiliazioni e le sofferenze procurate dalla trionfante cultura del libero amore, che favorisce la disgregazione familiare a danno della prole e del coniuge debole. La feroce trasgressione abortista (contro cui si è levato il coraggio di Giuliano Ferrara) ha infine prodotto quel vuoto demografico che attira l’incontrollato flusso migratorio portatore indesiderato di disagi e paure. La scuola tradizionalista afferma, pertanto, che è compito primario della politica l’attenta considerazione dei mali morali da rimuovere per attuare la tranquillità nell’ordine. Il divorzio della politica dai problemi etici è il divorzio della politica dalle sue ragioni. Solo l’infantile frivolezza del talk show può arrendersi alla suggestione relativista e afflosciarsi sull’indifferenza di fronte alle cause di tante sciagure. Per riscattare la cultura della destra dall’alienazione liberale, è necessario ricorrere allo storicismo cristiano di Vico, che ha fondato la teoria del progresso civile sull’affermazione della morale. Grazie alla lezione di Francisco Elias de Tejada, di Michele Federico Sciacca e di Nicola Petruzzellis, oggi è possibile comprendere che l’antichità romana non fu un segnavia, piantato per indicare il presunto splendore del paganesimo, ma un’orma della Provvidenza che agisce nella storia indicandole le vie dell’onestà 145. Per dimostrare il primato della giustizia romana nel mondo antico, Vico affermava, infatti, che “... la Provvedenza ordinò che ‘l censo vi fusse la regola degli onori; e così gli industriosi non gli infingardi, i parchi e non gli prodighi, i provvidi non gli scioperati, i magnanimi non i gretti di cuore, ed in una i ricchi con qualche virtù o con alcuna immagine di virtù non i poveri con molti e sfacciati vizi, fussero estimati gli ottimi del governo” 146. In conseguenza del restauro tomistico compiuto da Cornelio Fabro, è finalmente legittimo associare lo

145 Cfr. la nota tejadiana in Aa. Vv., “Vico maestro della tradizione”, Thule Palermo 1976.146 “Scienza Nuova” seconda (1744), Conchiusione dell’opera.

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storicismo di Vico con la metafisica dell’atto d’essere e così sostenere senza nulla concedere allo storicismo hegeliano, l’immanenza della causalità divina nella storia dei popoli. La formula che giustifica lo storicismo cristiano, dopo l’acquisizione delle tesi sul tomismo essenziale, si può ricavare agevolmente da un brano di Andrea Dalledonne, commentatore e continuatore dell’opera fabriana: “San Tommaso, mentre dimostra nel modo speculativamente più rigoroso la trascendenza metafisica di Dio su tutti gli enti, dimostra la perfetta immanenza creatrice di Dio in essi, immanenza contraria a quella della pseudo-metafisica moderna, dove l’Assoluto e il finito sono radicalmente e irreparabilmente confusi. Ex adverso, in san Tommaso l’immanenza causale di Dio negli enti presuppone la sua assoluta trascendenza. Poiché l’esse è illud quod est magis intimum cuilibet et quod profundius omnibus inest, Dio, causando l’esse partecipato degli enti, spirituali e materiali, è intrinseco a ciascuno di essi per essentiam praesentiam et potentiam” 147. Nella prospettiva aperta dal tomismo essenziale, è superato l’ostacolo sul percorso dello storicismo cristiano, cioè l’apparente incompatibilità della libertà umana con l’onnipotenza divina. E’ invece dimostrata la possibilità dell’intreccio di agire umano e provvidenza divina, possibilità intravista ed affermata in una splendida pagina della Scienza Nuova: “Perché pur gli uomini hanno essi fatto questo mondo di nazioni ... ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch’essi uomini si avevan proposti; de’ quali fini ristretti, fatti mezzi per servire a fini più ampi, gli ha sempre adoperati per conservare l’umana generazione in questa terra” 148. Lo sviluppo ordinato dell’umanità, dunque, dipende dalla combinazione dei fini ristretti dell’umanità con i fini più ampi della Provvidenza. Risultato della sottomissione delle passioni umane ai fini della Provvidenza è la tradizione del diritto naturale,

147 Cfr.:”Problematica del tomismo essenziale”, Elia, Roma 1980, pag. 220.148 “Scienza Nuova” seconda (1744), Conchiusione dell’opera.

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tradizione che, per i popoli gentili, ebbe l’oscuro e rozzo avvio, che Vico rievoca: “Cominciò, qual dee, la moral virtù dal conato, col qual i giganti dalla spaventosa religione de’ fulmini furono incatenati per sotto i monti, e tennero in freno il vezzo bestiale d’andar errando da fiere per la gran selva della terra e s’avvezzarono ad un costume tutto contrario, di star in quei fondi nascosti e fermi; onde poscia ne divennero gli autori delle nazioni ... onde a Giove fu dato il titolo di statore ovvero di fermatore” 149. L’allusione alle catene con le quali Prometeo era costretto alle rupi, fa capire che l’interpretazione vichiana del mito di Prometeo, è antitetica alla suggestione pagana, poi ripresa dai progressisti atei dell’Ottocento, per affermare calunniosamente l’insipienza del creatore, narrando un drammatico disordine nella creazione. Non a caso, Simone Weil, provetta attrice sulla scena dell’impostura neognostica, si riconoscerà nella tenebrosa e capovolta teologia, che soggiace al mito di Prometeo. Quasi anticipando la heideggeriana gettità, la tradizione prometeica incitava, infatti, a disprezzare il re degli dei, colpevole di aver gettato l’uomo nel mondo senza dotarlo delle facoltà necessarie alla lotta per sopravvivere. Platone, ad esempio, riferisce di un mito, secondo cui, per la colpevole negligenza d’un sommo dio, l’uomo fu creato privo di ogni qualità e di ogni difesa e perciò inadatto alla vita: “le altre creature erano accuratamente fornite di tutto, l’uomo ignudo, scalzo, senza giaciglio, inerme”. La miserevole condizione umana mosse a pietà l’antagonista degli dei, Prometeo. Di lui scrive Platone che ”non sapendo quale mezzo di salvezza escogitare, il dio rubò, insieme con il fuoco, la scienza fatta abito d’arte e ne fece dono all’uomo” 150. Per una religione come quella pagana, popolata da figure antropomorfiche e intrisa di passioni degradanti, Prometeo se non l’antitesi del divino rappresenta il versante anomalo e la dissidenza dall’Olimpo. 149 “Scienza Nuova” seconda, 1744, Libro secondo, c. IV, “della morale poetica, e qui dell’origine delle volgari virtù insegnate dalla religione co’ matrimoni”.150 Protagora, 321 D 5.

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Il prometeismo personifica il conflitto di due disposizioni che la ragione deve ritenere e di fatto ritiene del tutto incompatibili: la sollecitudine per il bene dell’umanità e la smania d’infrangere la legge divina. Inoltre in esso si affaccia il paradosso del bene umano odioso e colpevole agli occhi di Dio. Questo ossimoro reggeva i malintesi teologici soggiacenti al marxismo alimentando l’idea che la promozione del progresso, buona sulla terra e al cospetto degli uomini, fosse empia nel giudizio delle divinità invidiose. Al Dio provvidente dei cristiani, l’insensata antropologia dei moderni, quella di Marx in modo eminente, ha opposto la figura (ricopiata dall’incubo pagano) di una giustizia divina fondata sull’odio e sul disprezzo delle creature più nobili: “Prometeo sottrasse il bagliore del fuoco che è padre di tutte le arti e l’offrì ai mortali – di tale misfatto bisogna che paghi le pene agli dei e impari a rispettare la signoria di Zeus, abbandonando il suo amore per gli uomini” 151. Perfettamente opposta è l’antropologia di Vico, che, proprio nel Prometeo incatenato, indica il simbolo dell’umanità in cammino verso l’ordine civile: il timore della divinità, infatti, costituiva la sola alternativa alla nefanda dissolutezza, cui si abbandonavano i primitivi. Sotto questo profilo è condivisibile la tesi di Gerhard Voss, secondo il quale la teologia dei gentili, in origine, fu una fantasticheria poietica funzionale all’esigenza di sopravvivere al disordine, cioè un inconsapevole soccorso alla vita umana in altro modo destinata a perdurare nell’immoralità e a soccombere nel conflitto generato dalle passioni sfrenate. In sé falsa, la teologia olimpica esprime l’istanza vitale, indispensabile a condurre i gentili alla giustizia e alla razionalità: “Le religioni sono quelle unicamente per le quali i popoli fanno opere virtuose per sensi, i quali efficacemente muovono gli uomini ad operarle” 152. Ovviamente Vico, che applica fedelmente i criteri agostiniani, precisa di seguito che la falsa religione fa leva

151 Prometeo, prologo.152 “Scienza Nuova” seconda (1744), Conchiusione dell’opera.

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sulle passioni e non sulla ragione dell’uomo: “avendosi posti beni terminati e caduchi così in questa vita come nell’altra ... perciò i sensi devono strascinare la mente a far opera di virtù”, mentre la vera fede rischiara la mente e la riabilita al governo delle passioni. La tradizione gentile del diritto naturale, tuttavia, rappresenta l’esigenza della vita morale, che è comune alle due religioni. La conclusione di Vico è che il progresso civile è possibile soltanto ai popoli che organizzano la loro vita in conformità al diritto naturale. La puntuale conferma della verità della tesi vichiana sul progresso è scritta a caratteri cubitali nello scenario postmoderno, che rappresenta (nei cortei no global come nelle feste dell’orgoglio gay e dell’ebbrezza drogastica) la dissociazione dell’idea di progresso reale dall’intenzione di proseguire nell’ateismo e nell’immoralità.

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