Fumagalli - Quando Il Cielo Si Oscura - Modi Di Vita Nel Medioevo

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Vito Fumagalli Quando il cielo s'oscura Modi di vita nel Medioevo Il Mulino. 1987.

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Vito Fumagalli Quando il cielo s'oscura Modi di vita nel Medioevo Il Mulino. 1987.

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Premessa. La storia della mentalità e del comportamento dei diversi ceti sociali nel Medioevo, nonostante le tappe segnate dalla ricerca in questo campo, registra ancora ampie lacune da colmare, ben più di altri settori d'indagine. Certo che spesso da monografie dedicate alle istituzioni, alla società, alla cultura, alla vita materiale, esplicitamente o di riflesso esce illuminato anche il modo di sentire e di agire degli uomini. Il contenuto di questo libro è proprio la vicenda dell'uomo, la volontà di sopravvivenza, il dramma e la tragedia, anche, che la segnano; a volte nascosti, altre volte chiari, inconfondibili. Sono le stesse testimonianze degli uomini del passato a parlare, a dirci le loro debolezze, le paure, le crisi, la speranza. Uomini cui accadde di vivere in un ambiente naturale molto diverso dal nostro; l'economia, la società, i comportamenti politici erano differenti dai nostri. Essi erano influenzati da queste realtà e le influenzavano. Nella sostanza, tuttavia, non erano diversi da noi. Ci è stato a cuore, infatti, cercare di capire come gli uomini di allora si atteggiavano nei confronti del mondo naturale, del soprannaturale, della vita, della violenza, della guerra, della morte, eterne realtà e tragici fantasmi che, in modi diversi, hanno sempre accompagnato la nostra storia. Queste pagine non sono destinate agli specialisti della storia del Medioevo, se non per proporre un'interpretazione, una riflessione in più intorno a cose che essi conoscono. Sono invece destinate a chiunque voglia accostarsi a quell'epoca interrogandosi sull'uomo, sulle sue aspirazioni, la sua forza, le sue debolezze, nel presente e nel passato, tentando, semmai, di distinguere ciò che deve finire da ciò che è degno di durare. Abbiamo aggiunto al testo una bibliografia, appunto per i non specialisti, sui temi affrontati in questo libro, per approfondirli (negli articoli e nei volumi qui segnalati si troveranno ulteriori indicazioni bibliografiche); non abbiamo invece indicato fonti, dal momento che i nostri riferimenti ad esse sono puntuali nel corso del testo, e perciò facilmente reperibili da chi conosca la materia, e privi di grosse difficoltà per gli altri. Desidero infine ringraziare la casa editrice Utet di Torino per avermi permesso di utilizzare in questo libro il materiale da me preprarato per La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all'età contemporanea. V.F.

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Introduzione. Il senso della fine. Nel colmo dell'età carolingia, in un momento della sua rigogliosa fioritura, quando la Chiesa era ricca e potente dopo secoli di accumulo di ricchezze, il dotto monaco Alcuino scriveva versi di profonda tristezza. Era come se presentisse che anche ciò che Carlo Magno ed i suoi predecessori avevano creato, l'ordine, la buona amministrazione, la sconfitta dei pagani, la cultura, tutto sarebbe stato scosso fra non molto, nella consapevolezza della labilità di ogni sforzo umano. «La bellezza del mondo se ne va, tutto cambia presto, ogni cosa seguendo una sua legge. Nulla è eterno nulla è immutabile. Così la notte oscura con le tenebre il chiarore vitale del giorno, l'inverno arriva rapido a gelare la bellezza dei fiori, il vento sconvolge il mare placido. I giovani che inseguivano nelle lande i cervi, ora, vecchi, Si appoggiano stanchi, per camminare, ai bastoni. Ma perché noi infelici ti amiamo, o mondo che ci sfuggi dalle mani? Tu fuggi inesorabilmente, rapidamente, cambiando con il tempo». L'attaccamento alla vita e la coscienza del suo continuo allontanarsi dall'uomo tormentavano gli uomini dotti del tempo: una natura che cambiava volto, dall'estate all'inverno, una gioventù sfrenata nelle cacce, destinata alla vecchiaia tremante, il mare che con la cattiva stagione era flagellato dalla tempesta. «L'amore di Dio riempia sempre i nostri petti... Egli è la nostra gloria, la vita, la salute», ammonisce alla fine Alcuino; ma è un amaro ripiego. In realtà, il senso della fine, il senso della precarietà di tutto, non staccava anche gli spiriti più religiosi dall'amore della vita, protesi ad una lotta con il tempo che tutto rapisce, per rubargli a loro volta almeno qualcosa. Con forza Alcuino canta il ritorno della bella stagione: «Il cuculo si è già fatto sentire, in alto, sui rami degli alberi, la terra variopinta si copre dei germogli dei fiori. La vite fa aprire sui tralci le gemme dell'uva, come i nostri pensieri si muovono leggeri stimolati dal canto dell'usignolo sui cespugli rossastri. Il sole sale alto nel mezzo delle costellazioni e vince sfolgorante il dominio delle tenebre». L'alternarsi della bella alla cattiva stagione, dell'abbondanza alla carestia, della pace alla guerra, della salute alla malattia, della vita alla morte scandivano l'esistenza degli uomini, legati com'erano alle leggi della natura, sprovvisti di mezzi efficaci per contrastarle. Una natura in cui erano come immersi, selvaggia su larghi spazi, non modificata sensibilmente dall'opera dell'uomo, anzi dominatrice, madre e matrigna, datrice di vita e di morte, le cui ambigue volontà erano scrutate attraverso l'osservazione degli astri, delle eclissi di sole o di luna che gettavano la paura in molti.

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Capitolo primo. Quando il cielo s'oscura. Gli uomini di Chiesa spiavano nel mondo naturale i segni del castigo divino, individuati nel turbamento dell'ordinario corso delle stagioni, nel sopravvenire di fatti climatici perniciosi, freddo, siccità, strane piogge di sabbia dal cielo. Andrea da Bergamo non riesce ad immaginare che la mancanza di lealtà del principe di Benevento nei confronti dell'imperatore resti impunita ed ecco che i fenomeni verificatisi nell'anno 871 e nell'872 sono da lui considerati segni della collera divina, manifestazioni dell'ira e punizioni nello stesso tempo: «... molti fatti strani si verificarono davanti agli occhi degli uomini. Il vino, una volta fatta la vendemmia, appena versato nei tini divenne torbido, ciò che noi diciamo 'voltarsi'. Il giorno di Pasqua sembrava fosse piovuta sabbia sugli alberi, sui cespugli e le erbe, sui paesi». Poco tempo dopo, la brina, nelle pianure e nelle vallate, avrebbe gelato i tralci delle viti e le foglie ancora tenere degli alberi nei boschi. In agosto un nugolo impressionante di cavallette, venendo da Est, si sarebbe abbattuto sui campi del Veneto e della Lombardia, distruggendo i cereali: avanzavano e calavano sulla terra compatte, perché, commenta Andrea citando un passo della Bibbia, «le locuste non hanno un capo, ma, nonostante ciò, volano in schiere ordinate». La paura sollecitava le persone colte a fare considerazioni di lugubre pessimismo in occasione della morte di importanti personaggi: il disordine politico sarebbe scattato con estrema gravità subito dopo la morte dell'imperatore Ludovico II, nell'875, sempre stando ad Andrea da Bergamo. Così, segni paurosi, eclissi di luna o di sole, preannunciavano la scomparsa di coloro cui erano affidati i popoli e la loro pace. Andrea ci racconta che poco tempo prima che Ludovico il Pio morisse vi fu una spaventosa eclissi di sole: durante il giorno si fece un buio tale che si vedevano le stelle come di notte. L'avvenimento coincide, nel racconto di Andrea, con il giorno dell'Ascensione: le tenebre, calate sulla terra proprio quando ricorreva la vittoria di Cristo sulle leggi del mondo con la sua ascesa al cielo, fecero pensare che la fine di tutte le cose fosse imminente, gettando gli uomini nello spavento. Ma, insperatamente, timidamente, il sole a poco a poco s'illuminò di nuovo. Il timore sembrava cessato, quand'ecco che in piena notte balenò una luce, forte come fosse giorno: l'aurora boreale, fenomeno allora inspiegato, non lasciò più alternative alla paura. Le persone dotte, riflettendo sul prodigio, ammonirono la gente con la parola del Vangelo: «Fratelli, siate preparati, si è compiuto ciò che il Signore ha detto nel Vangelo: «Quando vedrete questi segni, sappiate che sarà vicino il giorno del Signore grande e manifesto a tutti!». E Andrea conclude: «Il successivo mese di Giugno l'imperatore Ludovico morì, finendo in pace i suoi giorni. Dopo scoppiò la discordia fra i tre fratelli, Ludovico e Carlo da una parte, Lotario dall'altra». Fatti naturali, come la pioggia mista a sabbia proveniente dall'Africa, spesso di colore rossastro, terrorizzavano la gente comune e le stesse persone colte, che vedevano in essi il volto sinistro della materia piegata da Dio a manifestare la sua ira o a preannunciare gravi disagi per gli uomini. Le nuvole, che al tramonto assumono forme e colori variabili, spesso fiammeggianti, erano ritenute proiezioni di immagini di guerra e di morte nell'imminenza di scontri fra re rivali o di incursioni di barbari. Nel cielo si scorgevano, così, cavalieri e cavalli, armi scintillanti. Si arrivava anche ad udire il rumore di eserciti in marcia. Quando i Longobardi stavano per calare in Italia nel 568, racconta Paolo Diacono che nell'oscurità si vedevano guizzare in cielo immagini terribili, fiammeggianti, che preannunciavano con il loro colore il sangue che sarebbe stato versato nella guerra. Allora si udì anche il suono delle trombe che chiamavano a battaglia, giorno e notte, e il rumore di cavalli e di uomini armati in arrivo. Il pessimismo degli uomini di Chiesa, un'attitudine professionale quasi, non deve certo farci immaginare quel mondo e quegli uomini così come essi a forti tinte ce li hanno tramandati nelle loro cronache. La gente non viveva, sotto l'assillo perenne del peggio, un'esistenza disperata: contadini e artigiani, nobili e re accudivano ai loro compiti, senza il timore di fallire ripetutamente. Sono i chierici che scelgono dai fatti, che non ci hanno tramandato certamente con obiettività, quelli che stanno loro a cuore: i fatti rivelatori, nella loro perniciosa gravità, dei peccati degli uomini e del castigo di Dio. Ma, anche tenendo conto di una tale selezione e di una certa esagerazione, non possiamo non constatare che sia le calamità naturali, sia le reazioni di paura serpeggianti fra il popolo erano frequenti. Del resto, un mondo che l'uomo non riusciva a controllare non poteva essergli benigno più di tanto. Le stesse credenze popolari pagane--e qui gli uomini di Chiesa non c'entrano--rivelano nei loro contenuti un atteggiamento di paurosa sottomissione nei confronti delle forze della natura. I contadini, quando la luna s'oscurava per eclissi, l'aiutavano a riprendersi, suonando a viva forza trombe e agitando campanelli. Temevano che, con la morte dell'astro che presiedeva alla vita vegetale e animale, questa s'arrestasse. Essi, a modo loro, come i chierici a loro modo, credevano dunque nella fine del mondo. Quella fine che -- come il grande storico Marc Bloch ha giustamente osservato -- terrorizzava a intervalli di tempo più o meno lunghi gli uomini, quando un fatto di particolare gravità aumentava il normale senso di paura che sotto sotto sempre covava. Quindi, gli uomini di Chiesa, allorché attribuivano anche agli altri la paura della fine, non sbagliavano nella sostanza, anche se per essi, che scrivevano, la fine era voluta da Dio; un Dio, del resto, non molto diverso allora da una dea materiale, ambigua e misteriosa nelle sue

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manifestazioni come era la luna, simbolo di un mondo naturale che offriva agli uomini una vita precaria e insicura. La morte di un pio personaggio, la discordia politica, il tradimento bastavano a far ritenere che Dio volesse castigare il suo popolo--che spesso non era responsabile di tali cose -- infliggendogli il terrore della fine. Il fatalismo capriccioso delle divinità antiche era allora solo leggermente scalfito da un nuovo credo religioso che, d'altronde, stentava a farsi strada fra tanti, soprattutto fra i rustici. Ancora alla fine del secolo VIII o agli inizi del IX, l'elenco delle pratiche pagane è assai denso: fra di esse compare quella di «aiutare» la luna. Quando era abate Atala, successore di San Colombano nel monastero di Bobbio, un suo monaco incendiò un tempio pagano costruito con tronchi d'albero sulla riva della Stàffora, vicino a Tortona. I contadini, allora, si radunarono, presero a bastonate il monaco e lo gettarono nel fiume. Questo si sarebbe salvato per intervento divino, mentre i suoi feritori sarebbero morti quasi tutti, condannati dalla nuova divinità che non volevano riconoscere. L'episodio, della prima metà del secolo VII, è uno dei tanti che rivelano la lotta a fondo che gli uomini di Chiesa condussero allora e, in misura diversa, anche dopo, contro le pratiche pagane. E, nello stesso tempo, testimonianza della resistenza delle medesime di fronte all'evangelizzazione delle campagne. Alberi sacri vengono abbattuti, uno dopo l'altro, nel corso del Medioevo, ma la sacralità della pianta, in cui forse si materializzava più che in altri elementi, per i rustici, la forza della natura, non venne mai meno. Si è detto, infatti, che gli uomini del Medioevo erano come inghiottiti dalla natura, una natura per secoli in vastissime aree selvaggia, fatta di grandi foreste, di paludi, di lande coperte dall'erba. La natura, per tutto il Medioevo, è al centro dell'attenzione dell'uomo, con un'intensità di interrogativi e osservazioni che a noi può sembrare ossessionante. Non conosciamo se non imperfettamente tale rapporto, assai stretto, che nei ceti più bassi, soprattutto delle campagne, assumeva caratteri di quasi esclusivismo. Sicuri di essere legati ineluttabilmente al mondo naturale (animale e vegetale) e regolati dalle sue stesse leggi, sia le persone colte che l'uomo comune vivono la propria vita senza distogliere mai lattenzione da esso, timorosi ogni qual volta segni eccezionali (come eclissi, comete, aurore boreali ed altro) sembrano rivelare un'impennata, uno scarto, un'arrestarsi dell'evoluzione regolare delle cose. La paura che accada qualcosa di irreparabile diventa, allora, facilmente parossismo: dovunque, sulla terra e nel cielo, si osservano segnali di un mondo che ammonisce a non infrangere le regole e, per l'uomo di chiesa, anche di non peccare contro Dio ed il prossimo. I documenti narrativi dell'alto Medioevo, letti, purtroppo, sino ad ora, prevalentemente come repertori della storia politica, dei trttati, delle paci, delle guerre, guerre, se li osserviamo--come in realtà soprattutto sono -- nella loro caratteristica di specchio dei rapporti dell'uomo con la natura, ci si presentano come cronache attente e puntigliose di ciò che di naturale avveniva sulla faccia della terra, nelle acque, nel cielo. Soprattutto nei primi secoli del Medioevo, i fenomeni naturali erano considerati e vissuti come segni. Questo linguaggio della natura non è analogamente riscontrabile nelle cronache del pieno e tardo Medioevo, quando l'attenzione dello scrittore era attratta in maniera altrettanto forte (o, anche, maggiormente) dall'aspetto più schiettamente naturale dei fenomeni e dalle loro conseguenze sulla vita materiale dell'uomo. Tuttavia, i fenomeni celesti, anche se con minor peso che nel passato, dovevano incombere a lungo sulla fantasia delle persone, ammonendole e spaventandole. A livello di storia della mentalità, siamo ben lontani dall'avere una nozione abbastanza realistica dell'evolversi del rapporto dell'uomo con la natura, anche se è noto che un maggior razionalismo si fece strada nei ceti colti dal secolo XII in poi. Ma in qual misura esso operò sulle persone incolte e fino a qual punto modificò il comportamento degli stessi uomini colti? Sono problemi largamente aperti, anche se molto è stato scritto sulla scienza medievale; non altrettanto, anzi molto meno, si è studiata la mentalità, che, per quanto concerne il rapporto uomo/natura, pur cambiando essa nel corso del tempo, ha mantenuto lungamente certe caratteristiche, in particolare nel mondo contadino. La natura appariva generosa, nutriva l'uomo, legato ad essa per l'ombelico, incapace di modificarla sensibilmente; ma anche misteriosa, capricciosa, vendicativa. Misteriosa per ciò che d'ignoto racchiudeva nel suo grembo, generatore spesso di cose mostruose (anche se, nell'alto Medioevo, fatte di elementi naturali, magari combinati diversamente dalla norma o materialmente ingigantiti). Ancora più misteriosa la natura ai confini di quello che si riteneva il mondo abitato: a Nord di questo, come ci racconta Paolo Diacono sul finire del secolo VIII, gorghi profondi, grandi bocche aperte pronte a inghiottire uomini e cose segnavano i confini invalicabili, creature strane abitavano quei luoghi lontani. A mano a mano che ci si allontana dai luoghi famigliari, in cui si vive, aumentano gli esseri misteriosi. All'estremo Nord della Germania--narra ancora Paolo Diacono--sulle rive del mare, in una grande rupe s'insinua una caverna dove sette uomini sono immobilizzati nel sonno. Forse sono antichi romani, forse cristiani, e verrà il tempo in cui Dio li sveglierà per predicare la fede in quelle terre barbare. Vi fu chi tentò di spogliarne uno, ma il fuoco s'attaccò alle sue braccia. Non lontano dai sette dormienti abitano gli Scritofinni, dove la terra è ricoperta dalle nevi; essi mangiano carni crude. Procedendo da quei lidi verso Occidente, l'oceano si apre senza confini: là è un gorgo famoso, profondissimo, detto ombelico del mare. Le navi che vi passano sopra per loro disgrazia, quando il gorgo si spalanca, due

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volte al giorno, vengono inghiottite, trascinate nella voragine con la velocità delle frecce che volano nell aria. Su quegli estremi litorali l'acqua del mare s'alza e s'abbassa periodicamente, i fiumi corrono al rovescio, verso le sorgenti, per molte miglia, la loro acqua diventa salata. Da quelle terre lontane sarebbero venuti i Longobardi, fatti coraggiosi per aver conosciuto con i propri occhi paesaggi, animali, uomini mostruosi. Leggende paurose percorrono i racconti dei cronisti dell'alto Medioevo, nate dall'osservazione della terra e del cielo fatta più attenta e angosciata quando la guerra raggiunge momenti di particolare intensità. Così, leggiamo di un vallo lunghissimo che in una sola notte s'alzò da solo dalla terra nella pianura ai confini orientali dell'impero carolingio, dove le battaglie erano più accanite e ostinate. L'uomo si sentiva sicuro all'interno del suo paese, nel cuore caldo della patria, dove la terra gli era buona madre e lo aspettava se eventi particolari lo avevano violentemente allontanato da lei, come capitò all'antenato di Paolo Diacono. Nei primi secoli del Medioevo, tutto ciò che esorbitava dai limiti del normale si pensava generato, per cosi dire, dalla natura; si trattava di - esseri materiali, seppure spesso mostruosi, legati al mondo vegetale, animale, umano. Più tardi, invece, acquistarono un contenuto ed una fisionomia sovrannaturali, in concomitanza con il progressivo allontanarsi dell'uomo dalla natura, della distruzione di molte sue componenti, tra le quali boschi e foreste, che vennero ridotte a coltura. Le selve che restarono dopo il lungo intervento colonizzatore divennero via via realtà estranee all'uomo, spesso paurose. E significativo che le apparizioni dei morti iniziassero allora ad aver luogo soprattutto in esse. Ma nell'alto Medioevo tutto, pur con diverse sfumature, era assimilato alla natura, magari deformata o abbellita: lo stesso Paradiso veniva immaginato come sublimazione della terra coltivata dall'uomo, un giardino bellissimo, con acque, fiori, alberi. Si credeva che l'uomo si muovesse con facilità da questo all'altro mondo: prima di morire la visione del Paradiso si schiudeva sul capezzale, si sentivano profumi intensi, si udivano musiche inebrianti. I morti non di rado tornavano in vita per raccontare dell'altro mondo, i santi scendevano su questo a compiere un pellegrinaggio al sepolcro di un martire famoso, a pregare per la propria anima sulla propria tomba. Insomma, il mondo naturale e quello «soprannaturale» non erano ancora divisi dalla linea che si andrà allargando e irrigidendo a iniziare dal pieno Medioevo; l'uno e l'altro erano fatti della stessa materia, seppur sublimata per quanto concerne il secondo Le eclissi di luna e di sole, guardate con timore dai rustici e dagli uomini di chiesa, anche se per motivi in parte diversi, per secoli hanno avuto il significato di pericolose interruzioni nell'andamento regolare del mondo della natura e dell'universo tout court. Il naturalismo fatalistico caratterizzò la civiltà contadina, anche dopo l'alto Medioevo, entro certi limiti sino alla soglia dei giorni nostri. Esso non risparmiò nemmeno molte persone colte, anche se queste, nell'atto di spiegarli, risolsero spesso tali fenomeni naturali nella volontà divina. E difficile separare le due mentalità, popolare e dotta; o, meglio, districarne le componenti. Questo aspetto della mentalità medioevale, radicato negli animi da tempo incalcolabile, abbarbicato al cuore delluomo insieme alla stessa civiltà rurale millenaria, cioè la paura dei segni del mondo fisico, terrestre e celeste, fu il più tenace, il più lento a morire, non essendo caratteristico di un'epoca determinata, ma di un tempo senza misura. Tuttavia, le cronache del pieno Medioevo sono molto meno attente a tali segni che non ai disastri climatici, alle malattie pestilenziali, alla carestia ed alla fame: si faceva strada una mentalità utilitaristica «in nuce» anche se dovette coinvolgere una cerchia tutto sommato ristretta di persone. Questo si verificò, difatti, soprattutto nelle cronache cittadine italiane, espressione di un milieu sociale di ricchi mercanti e artigiani, della città «nuova», incamminata ad esercitare prepotentemente il proprio peso sulle campagne, a modificarle, a eliminarne l'aspetto più naturale, le zone incolte; allontanandosi, così, progressivamente dagli stretti legami con l'ambiente fisico caratterizzanti l'alto Medioevo. Non a caso, la crisi economica, sociale e politica del '300 (crisi della civiltà comunale e cittadina) è parallela al ritorno nelle cronache nostrane dell'attenzione viva ai fatti portentosi, che, nella mente degli uomini, evolvettero sempre più verso dimensioni parossistiche, mostruose, e, rispetto all'alto Medioevo, sovrannaturali: ormai non era più soltanto il mondo naturale a prestare le sue forme per disegnare le fantasie angosciose dell'uomo. «Il 22 di agosto fu ritrovata una biscia al Riole in una canapaia, da mastro Gian Francesco Gabbie, barbiere, di tale grossezza che nessuno la volle affrontare né con pietre né con legni, ma un certo Brocardo Picio andò con un archibugio e l'ammazzò e la portò in piazza; questa fu misurata (ed era) lunga due braccia, grossa come tre [bisce], (tanto) che nessuno la poteva circondare con ambo le mani; aveva la testa come un sasso»: così racconta, per l'anno 1544, la cronaca del prete Giorgio Franchi, di Berceto, nel Parmense. Anche nell'alto Medioevo si credeva nell'esistenza di mostri, ma essi non emanavano quel senso di angoscia surreale, come capita, invece, più avanti. I guerrieri dalla testa di cane (una vecchissima leggenda), di cui ci parla Paolo Diacono verso la fine del secolo VIII, non incutono quella strana paura, incontenibile, degli immaginari lupi, surreali, enormi, o con la coda mozza o altre fattezze inesistenti, ferocissimi, che riempiono i racconti delle cronache soprattutto a iniziare dal '300: si pensi al lupo mostruoso di Gubbio, di francescana memoria. Eppure questi sono animali, mentre gli uomini dalla testa di cane (i cinocefali) non fanno parte del mondo naturale; tuttavia, i secondi spaventano solo per la ferocia che hanno in comune con il cane, semmai esasperata, mentre i primi sono lupi irreali, materializzazione di un'immagine che ormai l'uomo aveva di certe

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componenti della natura, soprattutto delle foreste e degli animali che le popolavano, che si facevano sempre più estranei all'uomo, scivolando via via nel mostruoso, quando non nel surreale. Del resto, nell uomo stesso l'idea che si faceva dell'anima, dei morti, dell'aldilà era sempre più lontana dal naturalismo del primo Medioevo e rifletteva conturbanti, angosciose credenze di matrice clericale: si pensi all orrore ispirato dalla «danza dei morti», un tema che afflisse per secoli le raffigurazioni artistiche e le descrizioni scritte della morte in mezza Europa, a iniziare dal tardo Medioevo. Lo stesso crescente distacco dalla natura e dalle sue leggi, inoltre, rendeva inaccettabile una di queste, la morte, che veniva sempre più immaginata (a differenza del passato) come momento di rottura innaturale, paurosa, spesso mostruosa: da allora datano le raffigurazioni terrorizzanti dei cadaveri in putrefazione, con lunghi, irreali vermi nel ventre. Fino a che punto questi mutamenti coinvolgessero i diversi ceti sociali, le persone di diversa cultura, di diversa collocazione geografica, non sappiamo. E, tuttavia, difficile escludere che, seppure in modo diverso, coinvolgessero un po' tutti. Il mistero, la paura, l'angoscia -- e il loro contrario--cambiano, dunque, di contenuto con il trascorrere del tempo; ma certe matrici, pur fattesi meno cogenti, restano, soprattutto nei ceti più difficilmente influenzati dalla cultura dotta: semmai, tra di essi vecchie credenze e ideologie nuove s'incrociano, generando prodotti ibridi di confusione e degenerazione, come il diffondersi della convinzione che connotava mostruosamente la stregoneria, assorbendo in una visione clericale di peccaminose collusioni con il demonio pratiche un tempo in larga misura lontane dal sovrannaturale di ogni tipo, anzi, come la pratica dei Benandanti, legate strettamente alla natura nei loro riti propiziatori della fertilità. Va detto, tuttavia, che usanze pagane fondate sullo spargimento del sangue umano, esistenti nei primi secoli del Medioevo, vanno scomparendo col tempo, combattute dalla Chiesa e da una più ampia cultura di estrapolazione dell'uomo dal mondo della natura e da certe terribili leggi che si credeva vi presiedessero. Su questa linea evolutiva, che vede una lenta e continua affermazione dell'uomo sulla natura, spesso sopraffacendo le leggi naturali e, quindi, anche, in tanti casi, umane, si muovono i mutamenti coscienti o inconsapevoli della mentalità. Essa è sovente rivelata da quelle notazioni delle fonti, soprattutto narrative, che ancora molti considerano «particolari» di secondaria importanza, essendo frequentemente il riflesso di credenze da noi troppo lontane, non di rado leggendarie, favolose, o, come l'episodio del ritorno dell'antenato di Paolo Diacono alla sua casa, di cui parleremo, essendo attribuiti all'aneddotica non degna di attenzione se paragonati ai grandi problemi delle migrazioni di popoli, delle guerre, della successione di re, imperatori, papi, delle strutture economiche e sociali. Senza la storia delle strutture economico-sociali e delle istituzioni, oltre che, ovviamente, della cultura, non ha senso fare storia della mentalità (che si ridurrebbe quasi a folklore); ma le notazioni minute sulle attitudini dell'uomo nel Medioevo (che vorrebbero ben più pagine di queste solo per sfiorarne ampiezza e peso), dal materiale all'immaginario, stagliano la perenne vicenda umana sulla griglia delle prime, conferendole vita, movimento, individuazione.

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Capitolo secondo. La natura e l'uomo. Sorge non lunge alle cristiane tende, tra solitarie valli, alta foresta foltissima di piante antiche orrende ... né v'entra peregrin, se non smarrito, ma lunge passa, e la dimostra a dito. (Tasso, Gerusalemme liberata, XIII) Cominciare dal paesaggio, per cogliere il comportamento degli uomini, in una delle sue più corpose materializzazioni, può sembrare ripetitivo e stantio ove si vogliano ribadire concezioni in voga soprattutto a cavallo del '900, quelle della Kulturgeschichte (o Siedlungsgeschichte), troppo rigide nell'individuazione di culture etniche in peculiari organizzazioni del suolo, prescindendo largamente da variazioni sociali del tema e da mutamenti, spesso radicali, dettati da motivazioni economico-demografiche, quando non proprio dall'incrocio di culture diverse nello stesso territorio. Non crediamo che l'insediamento accentrato o sparso i campi aperti o chiusi, o altre forme ritenute immobili nella fisionomia rurale, lo siano mai veramente state: semmai hanno costituito modelli ricorrenti, non duraturi, della sistemazione del suolo; e qui sta, forse, il meglio della Kulturgeschichte, soprattutto nell'indicare la casistica delle forme e, ancor di più, una casistica. Altri sono i fenomeni che hanno segnato a lungo per molti secoli, il paesaggio, rispecchiandovi accentuatamente una mentalità: la presenza di vaste aree incolte nell'Europa Occidentale durante l'alto Medioevo è il volto di un'economia legata all'ambiente naturale, della volontà intesa a non modificarlo sensibilmente, del timore, anche, di porsi in alternativa con l'ordine delle realtà di natura. Sino al secolo XI le campagne sono marcate--in tante zone prevalentemente--da questo tratto di selvatichezza che riflette una scelta degli uomini del tempo, prima dello sbilanciamento verso l'agrarizzazione del suolo che, tuttavia, procedette per molto tempo senza radicalismi distruttori delle terre incolte. Così, su di una base socialmente larga di attaccamento a questo ambiente ed alle sue risorse, diversi sono i modi e le possibilità di vita e di uso in esso. La caccia, attività di tutti-- tendenzialmente -- vi era praticata soprattutto dai nobili, che, con il trascorrere del tempo, limitando il peso dei comuni uomini liberi nella vita politica e sociale, riuscivano ad assicurarsi, con fini esclusivistici, proprietà e utilizzazione delle foreste. Ciononostante, per tutto l'alto Medioevo la caccia agli animali di grossa taglia veniva praticata da chi non era nobile, pur in ambiti boschivi finiti nelle mani dei ceti superiori, che ne permettevano, tuttavia, l'uso anche ad altri. Già nel XII secolo, però, almeno in larghe zone dell'Europa, particolarmente dove, progredita la colonizzazione, le terre incolte si erano ridotte di molto, la nobiltà s'irrigidì nel controllo delle stesse, riservandosi gelosamente il diritto di caccia grossa. Anche se non sappiamo granché su questa evoluzione, sui termini concreti in cui avvenne, sulle diverse modalità da zona a zona, disponiamo di forti indizi per ritenere che al Nord delle Alpi l'attività venatoria caratterizzava più decisamente il modo di vita del ceto nobiliare, del resto molto più numeroso e potente che in Italia, dove città e ceti urbani smorzavano, per tutto il Medioevo, il potere dei nobili, ne sfumavano, complicandolo con apporti esterni, il comportamento, ne limitavano presenza e prestigio. I versi del Tasso citati in exergo che descrivono la foresta sede dei convegni delle streghe, le cui caratteristiche selvagge l'autore volutamente esaspera, sono una delle tante raffigurazioni letterarie delle grandi boscaglie solitarie, che l'uomo non frequentava, lasciate quasi solo all'esercizio della caccia. Era la foresta selvaggia, intricata, buia anche di giorno, dove s'aggiravano animali feroci. Ben diversi erano i boschi attraversati da sentieri, popolati da mandrie di bestie domestiche, da pastori, boscaioli, contadini che vi raccoglievano il miele delle api nelle cavità degli alberi, i frutti del suolo e dei cespugli. Un paesaggio naturale, questo, certamente, ma frequentato e modificato dall'uomo, anche se vi si potevano aggirare animali pericolosi. In certi punti il bosco restava intatto perché motivi particolari ne sconsigliavano l'alterazione: presenza di acque stagnanti, di alberi che non davano frutti utili, ripidità del pendio in montagna, lontananza dai centri abitati. Là la foresta dell'uomo e la foresta selvaggia si toccavano e la seconda cominciava ad ingombrare il territorio e ad impedire l'ingresso a persone e animali, per l'intrico della vegetazione. Verso la fine del '300, negli Statuti di Mirandola, nella bassa pianura modenese, si ordina ai cacciatori di porre le tagliole ed i lacci in quella parte del bosco in cui non entravano le bestie al pascolo, ma dove viveva solo la selvaggina. Porci, pecore e capre non varcavano un confine oltre il quale essi sentivano presente il pericolo, di fronte all'ostacolo che subito li arrestava: la mancanza di sentieri. La stessa caccia non poteva essere praticata agevolmente in tali foreste, perché cani e cavalli non potevano muoversi senza difficoltà e l'uomo doveva farsi strada abbattendo cespugli, tagliando l'erba troppo alta. Quando le caratteristiche naturali erano accentuate, le dimensioni del bosco considerevoli, la sua distanza dai luoghi abitati notevole, ecco che gli uomini guardavano con sospetto quelle «solitudini», come erano soliti chiamarle. Solo coraggiosi eremiti, ladri, briganti, cacciatori incalliti vi si avventuravano; gli altri se ne tenevano lontani, anche per la paura di essere assaliti dai malviventi. Di tali foreste abbondava la pianura padana, soprattutto lungo il corso del Po e degli affluenti maggiori, e si stendevano sempre più larghe verso il mare, finendo spesso in vasti specchi d'acqua cosparsi di canneti.

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Ma le grandi foreste quasi impraticate dall'uomo, le sterminate brughiere dai suoli poco irrigati trionfavano particolarmente al Nord delle Alpi, assumendo connotati e dimensioni eccezionali nell'Europa centroorientale. Qui erano le sterminate «solitudini» dove s'incrociavano le bande dei popoli provenienti dall'Est, vi prendevano piede temporaneamente, di lì organizzando spedizioni contro le aree occidentali e meridionali. Solo a iniziare dal secolo X l'avanzata dei coloni tedeschi verso Oriente e lo stabilirsi pacifico in tali zone di «barbari» ormai quasi civilizzati diedero un aspetto meno selvaggio a quei territori. L'altro tipo di foresta, quella in cui l'uomo si recava abitualmente, era diffuso ovunque. Anzi, nei primi secoli del Medioevo, continuando una fase già in atto da tempo, boschi, acquitrini e brughiere occupavano territori che prima erano stati intensamente abitati e coltivati, allargandosi nelle più basse valli dell'Appennino, delle Alpi, nelle colline e nelle pianure prossime alle città, entrando fin dentro le mura diroccate di queste. Così tutto il paesaggio aveva un aspetto rurale, campagnolo; dove tuttavia le terre non coltivate prevalevano sui coltivi e avevano come inghiottito villaggi e centri urbani. Le rovine di paesi e città, soffocate dalla vegetazione, erano sparse ovunque, prima che i monaci le cominciassero a utilizzare per costruire le loro chiese e le loro abitazioni, come fece San Colombano in Francia e in Italia. Giunto qui, venne a sapere di una chiesa semidistrutta, a Bobbio, nel fondovalle del Trebbia, nella «solitudine delle campagne dell'Appennino», e decise di riattarla; li sorse uno dei più famosi monasteri d'Europa. Eppure anche in quella zona, non certo di alta montagna, si era spinta vigorosamente la boscaglia, allontanando gli abitanti, trasformando il territorio un tempo popolato in «solitudine». Agli inizi del VII secolo i boschi selvaggi, dunque, erano quasi dappertutto e solo lentamente acquisteranno la fisionomia del bosco frequentato dall'uomo, trasformato dai suoi interventi. Ma, a quel tempo, fra le boscaglie certamente dominava il primo tipo, quella foresta che teneva lontani da sé gli esseri umani, le loro greggi e i cacciatori meno temerari. Tutto il percorso di Colombano dal Nord, attraverso la Francia, fino al suo stabile arrivo in Italia, si snoda nella cornice di un paesaggio desolato, disseminato di rovine, di monti e pianure boscosi, di animali feroci, come il branco di lupi che gli si fece incontro mentre si aggirava nelle «solitudini» della Borgogna. Un lupo, stando al racconto di Paolo Diacono, avrebbe guidato il suo bisavolo che fuggiva dalla prigionia degli Avari, attraverso le boscaglie alpine sino al Friuli, sua patria. Sidonio Apollinare, vescovo di Clermont-Ferrand capoluogo storico dell'Alvernia, già nel V secolo scriveva che vi erano diocesi e parrocchie dove nessun uomo di Chiesa si prendeva cura delle anime «Dappertutto vi sono chiese con il tetto rovinato, cadente, le porte spezzate, i cardini divelti; i cespugli spinosi ne ingombrano l'ingresso, greggi di animali pascolano dentro le chiese, muovendosi nelle navate e presso gli altari intorno ai quali cresce l'erba. L'abbandono è dovunque nelle campagne come nelle città, dove sempre più Si diradano le funzioni religiose». Gli uomini di Chiesa, persone colte, sentivano più degli altri il peso di tanta desolazione perché sapevano che non era sempre stato così; il loro pessimismo diventava continuamente paura al primo segno che la natura desse, un'eclissi, una carestia, o altro. «Al cominciare del mese di Ottobre, il globo solare si oscurò; non se ne vedeva nemmeno un quarto ... la stella detta cometa, con la coda a forma di spada, stette per un anno sopra la regione e in cielo si vedevano scoppiare incendi e altre cose mostruose», scrisse Gregorio, vescovo di Tours, vissuto nel VI secolo. Certo che il secolo VI pesò gravemente sugli uomini, più in Italia che altrove. Qui si era protratta per decenni la guerra fra Goti e Bizantini che devastò il paese come forse mai era avvenuto prima; e, poco prima dell'invasione dei Longobardi, scoppiò la peste, arrivata dall'Oriente, che investì gran parte dell'Europa centro-meridionale. Il fenomeno assunse dimensioni e intensità eccezionali, paragonabili, per restare entro l'arco del Medioevo, solo alla Peste Nera del 1348. Prima che la malattia raggiungesse la città di Clermont-Ferrand in Francia, stando al contemporaneo resoconto che ne fece Gregorio di Tours, un avvenimento straordinario, premonitore, spaventò gli uomini che assistevano ai riti religiosi nella cattedrale. Fulmineamente un'allodola entrò nella chiesa e spense tutti i lumi sfiorandoli rapida nel volo. Ed ecco che in quel territorio esplose la malattia, in forma tale da mietere un numero altissimo di vittime. Cominciarono a scarseggiare ed a mancare i sarcofagi e si dovettero seppellire i cadaveri a gruppi. Le persone, come fossero morse da un serpente, Si coprivano di piaghe nell'inguine e nelle ascelle, morendo tra sofferenze atroci dopo pochi giorni. Molti impazzivano, per il dolore e la paura. Il ricordo di quell'esperienza angosciosa fu tramandato a lungo, e ancora verso la fine del secolo VIII riesce a fornircene una meticolosa descrizione Paolo Diacono, lo storico dei Longobardi. Città e campagne sarebbero state quasi spopolate dal morbo, che avrebbe colpito in Italia soprattutto il Nord, in particolare la zona centro-occidentale. Le macchie scure, spia della presenza della peste bubbonica, che apparivano accompagnate dalla tumefazione dell'inguine e di altre parti del corpo, spaventavano la gente che le vedeva dappertutto; sui muri delle case, sulle vesti, sulle porte. L'uomo reagiva, come sempre in quell epoca, quasi solo col terrore alla calamità, e sí lasciava morire immaginando cose strane, udendo nello stato febbrile che gli annebbiava la mente, il suono di trombe che chiamavano a battaglia, il confuso agitarsi di armati e cavalli. Sulle strade deserte non si vedeva passante, ma lunghe file di cadaveri, mentre gli animali selvaggi entravano nelle città ridotte a tane. Nelle lande piatte dei pascoli non si udivano i fischi dei pastori;

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nei campi coltivati nessuno mieteva il grano, nessuno vendemmiava l'uva che aspettava luccicante, invano, chi la raccogliesse. Il mondo sembrava tornato al grande silenzio delle origini, quando né animali né uomini lo popolavano. Facciamo pur conto dell'esagerazione di un racconto che generalizza l'accaduto; certo è che la peste dovette dare il colpo di grazia ad una popolazione già provata gravemente in Italia dalla lunga guerra greco-gotica. Alboino, a capo dei Longobardi, non dovette faticare a impadronirsi della Penisola: Paolo Diacono riconosce che la peste e una tremenda carestia avevano falciato la popolazione, che in tali condizioni non poté validamente resistere all'invasore. La malattia non infierì una volta sola, ma continuò per forse più di un secolo a martellare, anche se con intensità minore, ora una zona ora l'altra dell'Italia. Ancora Paolo Diacono scrive che, verso la fine del secolo VII, dopo un'eclissi di luna, il cielo si oscurò per un'eclissi di sole: subito sarebbe imperversata. di nuovo, la peste, uccidendo gli uomini per tre mesi, nell'estate. Da Pavia a Roma, la malattia mieteva le sue vittime intensamente Gli abitanti avrebbero abbandonato Pavia, la capitale del regno, fuggendo sui monti: sulle piazze e nelle strade deserte cresceva l'erba e s'alzavano arbusti, riducendo la città ad una larva desolata di se stessa. Ed ecco che tutti si convinsero che di notte vagavano per le sue strade abbandonate, a terrorizzare le poche persone rimaste, i due angeli famosi, del Bene e del Male. Si sentiva, nella stretta della paura, il tonfo che faceva lo spiedo con il quale l'angelo del Male batteva gli usci; se ne contavano i colpi, perché ad ognuno corrispondeva un morto. Difatti, quante volte l'angelo del Male, su indicazione dell'angelo del Bene, colpiva una porta, altrettante persone dovevano morire in quella casa appena fosse tornato il giorno. Gli uomini pregarono Dio che tutto finisse, ma fu loro risposto, forse da un ecclesiastico, che solo dopo aver costruito un altare in onore del martire Sebastiano nella chiesa di San Pietro in Vincoli la peste si sarebbe fermata. Si fecero arrivare le sue reliquie da Roma, si fece l'altare: e, stando a Paolo Diacono, la peste subito finì. Era trascorso poco tempo da questo tragico ritorno della peste quando la crudeltà degli uomini e il soprannaturale mostruoso s'unirono forse al doloroso ricordo della malattia, in un intreccio usuale a quei tempi. Il fatto, che ci è raccontato ancora da Paolo Diacono, ci introduce in un mondo cupo di re e cortigiani, sospettosi, violenti, paurosi dell'aldilà. Il re Cuniberto era deciso a uccidere, con l'aiuto del suo scudiero, due uomini che avevano tramato contro di lui, Aldone e Grausone. Re e scudiero, a Pavia, parlavano di questo in una stanza della casa del re, quando furono distratti da un grosso moscone che era volato a posarsi su di una finestra. Cuniberto lo colpì con il coltello, ma riusci solo a tagliargli una zampa, e quello scomparve. Nel frattempo, Aldone e Grausone, che non conoscevano il progetto del re, stavano avvicinandosi al suo palazzo, quando un uomo zoppicante, senza un piede, si accostò a loro rivelando le intenzioni di Cuniberto. Allora si rifugiarono in una chiesa, per salvarsi, e il re, venutolo a sapere, credette che il suo scudiero l'avesse tradito. Di fronte all'evidenza del fatto che costui non si era mai allontanato dal palazzo, fece interrogare i due che si erano chiusi nell edificio sacro sul perché l'avessero fatto; questi risposero che erano stati avvertiti dell'intenzione del re; assicurando che li avrebbe perdonati, Cuniberto fece loro chiedere chi aveva raccontato i suoi propositi. Ed ecco che i due dissero dell'uomo, con una gamba di legno, dal ginocchio in giù, che li aveva avvertiti del tranello. Il re capì allora che il moscone CUI aveva troncato una zampa era un essere diabolico; e perdonò i suoi nemici, terrorizzato da quanto era avvenuto. L'ombra dell'antiré Alachi, che i suoi avevano ucciso e barbaramente straziato, doveva anch'essa pesargli: quando fu sconfitto, e ucciso in battaglia, ad Alachi tagliarono la testa, spezzarono le ginocchia e ne ridussero il resto del corpo ad una massa informe. Forse per espiare, Cuniberto ordinò di costruire un monastero nel luogo dove aveva combattuto e vinto Alachi. Ma fece questo certo anche per ringraziamento, perché, come ci spiega Paolo Diacono, aveva ottenuta la vittoria «con l'aiuto di Dio». Crudeltà, violenta esibizione della forza fisica, miste a sussulti di timori e rimorsi, a fantasie di fatti strani e mostruosi, aleggiano intorno alle figure dei potenti, così come ci sono state tramandate dagli scrittori contemporanei. E la gente comune, cosa sappiamo di lei? La rozzezza dei costumi era caratteristica che marcava intensamente ogni persona; del resto, di fronte ad un ambiente fisico ritornato un po' dappertutto quasi primitivo, le reazioni, gli atteggiamenti degli uomini non lasciavano posto a raffinatezze. A metà del secolo VII le leggi del re longobardo Rotari si dovevano preoccupare delle liti violente che scoppiavano nelle grandi boscaglie fra i pastori: era facile sconfinare con i greggi di animali nella proprietà di un altro, e allora si può immaginare cosa accadesse fra chi conduceva al pascolo i porci o le pecore. Il senso della proprietà privata non era ben chiaro a quelle persone, soprattutto quando si trattava di terre incolte che la natura sembrava offrire libere all'uso di tutti. I confini erano segnati su alberi, indicati da grossi sassi piantati nel terreno, o situati lì da tempo senza che nessuno ce li mettesse: era agevole, e pericoloso insieme, spostare tali indicazioni da una pianta all'altra, o addirittura togliere di mezzo il segno naturale del confine tagliando l'albero o strappando dalla terra la pietra. Se era un servo a farlo, poteva incorrere nella pena di morte. La terra coltivata, fino a tutto il secolo VII, dovette essere una presenza modesta rispetto allo spazio incolto anche in quelle zone vicine alle città e attigue ai villaggi che sarebbero state sottoposte alla colonizzazione

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soprattutto a iniziare dal secolo IX. Tuttavia, anche in questo secondo tempo la situazione non sarà la stessa ovunque: basti pensare alla città di Modena rimasta per secoli circondata dalle paludi; alle basse pianure difficili da bonificare per l'ingombrante incombere delle acque profonde, ai pianalti troppo aridi per tentarvi qualcosa di più d'una magra pastorizia, alle groppe più alte dei monti rimaste irrigidite nei loro irti mantelli boschivi sino ad epoche inoltrate. All'aprirsi del Medioevo, la vegetazione selvatica, alberi, sterpi, alte erbe, era avanzata su fronti onnipresenti, circondando gli abitati, penetrandovi, coprendo le rovine delle città e dei villaggi dai quali gli uomini erano assenti da tempo. Dove alcuni secoli prima erano città, nell'alto Medioevo si sostituirono vaste boscaglie, o massicce paludi; sicché poteva capitare a Chi Si aggirava in una foresta di veder comparire inaspettatamente gli edifici smozzicati e silenziosi di una città abbandonata, trasformata in tana di bestie selvagge. Tutto il lungo cammino di San Colombano e dei suoi compagni, come abbiamo visto, è segnato da questi incontri di rovine, tra le quali essi costruiscono monasteri, risvegliando la vita là dove era morta da tempo. Ma si trattava di una ripresa ben lontana, nelle dimensioni dei nuovi insediamenti monastici del secolo VI e del VII, da ciò che erano stati gli agglomerati antichi cui i monaci si appoggiavano per sfruttare le rovine nel costruire le loro chiese e le loro abitazioni. L'economia dei nuovi centri che essi fondavano era prevalentemente silvopastorale; la foresta e la palude inghiottivano ancora quelle timide cellule di intervento colonizzatore. Un ambiente semiprimitivo, dunque, costituiva il mondo degli uomini del secolo VI e del VII, dove, però, le risorse non mancavano ad una popolazione assai ridotta nel numero: caccia, pesca, allevamento brado, frutti spontanei delle piante erano un notevole mezzo di sostentamento, insieme con un'agricoltura ancora in via di affermazione. Ma l'uomo era praticamente alla mercé di tale ambiente, legato ai capricci del clima che poteva far germogliare prepotentemente la vegetazione come mortificarne terribilmente la vitalità con impennate di gelo o di siccità. Così, senza scorte sufficienti, che solo un'agricoltura più degna di questo nome già nel secolo IX potrà assicurare, quando leconomia legata alle aree incolte, compromessa da cause naturali, non bastava a nutrire le persone, allora scoppiavano epidemie, certamente favorite dalla denutrizione, da vere e proprie carestie. Ai disagi naturali si univano il martellare delle guerre, i disordini endemici di una società sconvolta dalle liti violente, dai furti, dagli omicidi; le paure che l'uomo non poteva non sentire quando questi fenomeni assumevano un'intensità particolare. Anche se non possiamo dosare nemmeno in modo approssimativo questi fatti, il loro ricorrere costante e ravvicinato nelle testimonianze di chi allora scriveva non può non corrispondere alla realtà. Anzi, la stessa laconicità dei resoconti non significa altro che l'abitudine a sopportare un tale stato di cose, di cui si scriveva solo nei casi più gravi, senza lo stupore e la meticolosità che gli stessi fenomeni avrebbero destato nei cronisti di qualche secolo dopo, meno abituati ad una tale durezza di vita. Guerra, carestia, epidemia è un terzetto macabro, colto nell'insieme dei fatti osservati con una ripetitività tale da farcelo apparire come normale schema interpretativo delle umane cose: a volte lo schema doveva essere quasi solo un enunciato obbligatorio, l'osservazione di fatti che andavano annotati, anche se non importanti come altri. Spesso, tuttavia, erano momenti di vera angoscia, e ciò traspare dalle fantasie surreali che essi suscitavano, tramandateci dal cronista, e dalle paure che agitavano l'uomo, abituato sì alla sopportazione, ma pur sempre capace di soffrire e di nutrire timore. «Quell'anno, come trent'anni prima, un'epidemia di peste inguinale investì nuovamente Ravenna, Grado e l'Istria. Agilulfo fece la pace con gli Avari. Childeberto, invece, dichiarò la guerra a suo cugino, figlio di Ilperico; si scontrarono e caddero combattendo trentamila uomini. Vi fu anche, allora, un inverno molto rigido: non se ne ricordava uno così. Ed ecco che sulla regione dei Brioni cominciò dalle nubi a cadere sangue, che scorreva poi sulla terra nei fiumi». Da queste parole Paolo Diacono fa precedere la notizia che a quel tempo papa Gregorio Magno scrisse i Dialoghi. Quest'opera, così diversa dalle altre del grande pontefice, costituisce un tentativo di dimostrare la persistenza della fede, della volontà stessa di vivere e continuare a vivere in tempi duri; nella cornice in cui gli uomini, numerosi, si muovono, accampa soprattutto la povertà generale di vita, la rusticità estrema di contadini e di uomini di Chiesa, non molto diversi tra di loro, il desiderio di qualcosa che il mondo sembrava proibire, spiato nei sogni, nelle visioni, nelle azioni di personaggi dai quali si attendeva quanto non era nella realtà delle cose. Le «scene di vita» che Gregorio ci racconta sono tanto più degne di credito in quanto egli ha interesse non a quelle povere cose, ma ai miracoli che intervenivano in qualche modo ad aggiustarle. Ed ecco allora che vediamo alzarsi il fumo dai covoni di frumento dolosamente incendiati che il vescovo di Rieti, Probo, ha appena mietuto; egli non ha altro di cui vivere per tutto l'anno e Dio deve in qualche modo aiutarlo. Cosi il prete Santolo, che sta facendo costruire in Umbria una chiesa, non ha pane per sfamare i muratori. Un eremita, che viveva nei boschi del Sannio, poteva contare solo su di alcuni alveari. Il monaco Isacco, «ai primi tempi dei Goti», viveva poveramente sui monti di Spoleto, dove si era presto fatto dei discepoli che lo invitavano ad accettare lusinghiere donazioni. Isacco voleva che lui ed i confratelli restassero poveri, e così li vediamo chini a vangare la terra.

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Su di uno sfondo cupo, di guerre, faide di palazzo e violenze d ogni genere, brulicava una folla di uomini intenti al lavoro. Si trattava di scavare fossati per riparare dalle acque dilaganti gli avamposti delle terre messe a coltura, i villaggi; di costruire case, imPiantare poderi, sistemare per il pascolo vaste boscaglie tracciandovi gli indispensabili sentieri, collocandovi grosse pietre a indicare i confini della proprietà, imprimendo, allo stesso scopo, con marchi arroventati lettere dell'alfabeto su piante secolari, custodendo i greggi di maiali e di pecore aggirantisi nelle pianure e sui monti. Contro una natura ritornata selvaggia l'uomo oppone uno sforzo continuo, in un pullulare di iniziative che segnavano la ripresa lenta del Medioevo di fronte alla rovinosa fine del mondo antico. Le statue degli dei pagani assistevano immote, nelle selve, al nascere di una realtà nuova che un giorno le avrebbe definitivamente abbattute assieme agli innumerevoli alberi da cui erano circondate. I documenti ci raccontano, direttamente o indirettamente, queste cose, anche se sono più attenti alle vicende dei monaci e dei preti, che sapevano scrivere ed hanno tramandato in primo luogo le loro imprese. Del resto, nei secoli VI, VII e VIII, monaci, preti e contadini dovevano assomigliarsi al punto da essere confusi: la Chiesa ricca e potente, gli ecclesiastici dai vestiti sfolgoranti, dai bei cavalli preziosamente bardati erano ancora un'eccezione. Quando San Colombano si infilava i guanti per maneggiare meglio la scure o la vanga diventava boscaiolo e contadino; così i confratelli che a Bobbio lavoravano i campi preparandoli alla semina, tagliavano gli alberi, recintavano le vigne, accudivano ai mulini. La regola monastica a quel tempo consigliava di nutrirsi a sufficienza per poter lavorare; una moderata dose di vino era tutt'altro che sconsigliata: non c'era tempo per le stremanti penitenze degli oziosi monaci orientali o per gli eremiti che da soli ancora popolavano i boschi e le caverne dell'Occidente europeo, guardati con ammirazione, ma anche con una certa diffidenza, da quei monaci che lavoravano con fatica la terra della loro comunità. Sorgendo nel cuore di antiche e desolate foreste, i piccoli gruppi di confratelli, innumerevoli, non diversamente dai rustici contadini che vi si spingevano per guadagnare terra alle colture, sforacchiarono lentamente e alla fine fecero in pezzi il mantello boschivo che copriva agli inizi del Medioevo quasi tutto il suolo dell'Europa. Era un attacco puntiforme ma brulicante alla natura, anche se generalmente le boscaglie erano solo meglio sistemate per allevarvi animali più che per lanciarvi fazzoletti di campi e di vigne. L'economia--detta dagli storici «silvopastorale» --segnerà ancora per secoli ovunque il volto dell'Europa: era impensabile allora staccarsi dal bosco, da tutte le sue risorse, dalle sue attrattive: nobili e contadini vi praticavano la caccia, santi ed eremiti vi ricercavano le condizioni di stupita solitudine per i loro colloqui con la divinità, dirigendosi nel fitto della vegetazione o scalando le rocce più ripide per assicurarsi una difesa dalla frequentazione dei loro simili. Lentamente, tuttavia, progrediva l'agricoltura, assicurando la sussistenza ad un maggior numero di persone, l'agiatezza, la ricchezza ed il potere, anche, ad una cerchia che era destinata con il tempo a restringersi e a divenire sempre più ricca e potente, soprattutto, in Italia, dopo la conquista da parte dei Carolingi. Altrove un tale processo di aristocratizzazione era già avviato vigorosamente e maturato. Se dunque l'atteggiamento dei nobili fu sostanzialmente quello di preservatori delle aree incolte -- salvo necessità contrarie di vario ordine e grado--questo ruolo però fu riservato, in Italia particolarmente, agli Strati più alti della nobiltà.

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Capitolo terzo. Vivi e morti. Il grande e delicato Alcuino, monaco poeta, vedeva lo svanire troppo rapido delle cose, il cambiare delle forme, il loro cammino verso l'annullamento di tutto. Non è certo solo il desiderio di comporre belle parole--che pure gli sono care--a spingere il dotto uomo di Chiesa a gettare lo sguardo sull'orizzonte della fine. Una vita precaria, una morte che allora scandiva le vicende degli uomini con colpi più fitti delle nascite, lo portano spesso a tristi considerazioni. La morte sul campo di battaglia, la mortalità infantile, le malattie, le pestilenze, la nutrizione legata ai capricci delle stagioni (e quindi spesso scarsa) mantenevano bassa la media della vita. Basta leggere i documenti del tempo, dove l'uomo fa capolino per vendere un campo, averne uno in affitto, operare uno scambio di terre, per constatare che gran parte delle persone non ha più il padre: il nome personale, che veniva precisato con quello del padre, ci prospetta una folla innumere di «figli del fu»: Pietro del fu Andrea, Paolo di Antonio di buona memoria... Le cronache, poi, sono segnate a scadenza ravvicinata dalla segnalazione di nobili caduti in battaglia, di figli di grandi personaggi deceduti per malattia in età giovane, di carestie e pestilenze micidiali. Siamo ben lontani dal possedere una nozione dell'incidenza di questo sulla coscienza degli uomini; gli occhi di coloro che morivano e di quanti li vedevano morire non ci sono noti affatto: quali sofferenze, quali rimorsi, paure? Possiamo soltanto dire che la morte era rispettata, come fatto davanti al quale bisognava fermarsi e riflettere, qualcosa che anche allora era difficile accettare. Sulla diversità degli atteggiamenti tra un ceto sociale e l'altro sappiamo ben poco. Quando moriva un potente in tanti casi un cronista lo annotava, collegando non raramente il fatto, come abbiamo visto, con un fenomeno naturale disastroso. Ma sappiamo che anche gente comune donava beni alle chiese, ai monasteri, per assicurare la salvezza eterna a sé ed ai propri congiunti. Come si era preparati ai disastri naturali, tuttavia, lo si era anche di fronte al più tragico dei disastri: la morte. I nobili erano abituati a darla e a riceverla, in battaglia soprattutto. Anche se le guerre del tempo non erano catastrofiche come quelle dell'età moderna e contemporanea, rischiare la vita era comunque da mettere sempre sul conto quando si combatteva. La popolazione -- anche se non abbiamo cifre da proporre -- in certi luoghi abbastanza folta, era normalmente rarefatta, in un ambiente naturale spopolato o quasi. Le descrizioni delle grandi proprietà dicono di vastissime aree forestali, di brughiere, di paludi, di poche terre coltivate. Questa natura poco addomesticata penetrava anche negli agglomerati urbani, dove prati, campi, vigneti non Si contavano. Gli uomini, dunque, erano pochi, almeno i vivi; mentre, con il trascorrere del tempo, le aree cimiteriali acquistavano una dimensione ed un'importanza che noi forse non riusciremo mai ad immaginare. Era un mondo di morti, e così comprendiamo il pessimismo dei chierici, il loro assistere impotenti e scettici allo svanire della vita; come capiamo gli innumerevoli donativi alle chiese, dettati dalla paura di morire e dalla volontà di procurare preghiere a quell'altra massa di persone, ben più consistente, che dormiva dentro e attorno alle chiese, attendendo il giorno in cui sarebbero state svegliate per il giudizio finale. Un mondo di giovani, ha scritto un grande storico, per l'alto Medioevo; certo, ma ancor più un mondo di morti. Questo possiamo almeno in parte valutarlo leggendo i documenti privati. Alcuni sono particolarmente eloquenti: si tratta delle pergamene in cui comunità intere o quasi fanno la loro comparsa, per chiedere ad un potente una concessione, durante quel secolo famoso per le scorrerie degli Ungari, il decimo, ma anche dopo. Come abbiamo già visto, in genere i capifamiglia (e altri che ad essi si associano) non hanno più il padre, cosa che risulta dall'elenco dei loro nomi. Le chiese aumentavano di numero con il trascorrere del tempo, dal secolo VIII in poi soprattutto. La cristianizzazione di folle sempre più numerose -- anche se si trattava spesso di una trasformazione superficiale--spingeva un po' tutti a edificare luoghi per i loro morti: a quel tempo, tra il X e l'XI secolo in particolare, chiese e monasteri erano tantissimi: arrivavano ad essere molte centinaia nel territorio corrispondente ad un'odierna provincia. In gran parte erano fondazioni private; in esse stavano a capo delle comunità, spesso esigue, membri delle famiglie fondatrici. Ma non poche col tempo si popolavano di numerosi ecclesiastici, quando abbiamo a che fare con istituzioni volute da famiglie della media e grande nobiltà. In tali casi era necessario fissare un numero limite, da non sorpassare, perché le proprietà bastassero sempre al sostentamento degli uomini di Chiesa. Nel secolo X, l'epoca di maturazione della civiltà altomedievale, le comunità religiose toccano livelli di presenze impressionanti. In particolare le chiese pubbliche, cioè le pievi rurali e le cattedrali; nelle prime i soli preti--senza contare gli ordini ad essi inferiori--potevano toccare la dozzina (si pensi che una diocesi comprendeva normalmente una ventina e più di istituti plebani); le cattedrali ospitavano da venti a sessanta preti, oltre ai restanti ecclesiastici. Ancor più affollati i monasteri di fondazione regia o della grande nobiltà. La moltitudine del clero assicurava una somma elevata di preghiere per le anime dei morti e di coloro che si premunivano in attesa del decesso: in un'epoca segnata da una religiosità fortemente materiale, il numero di coloro che pregavano contava più di ogni altra cosa per la salute delle anime. Siamo ancora lontani dal

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possedere un quadro della presenza ecclesiastica a quel tempo, ma è noto che era un fatto di vastissima consistenza. In una civiltà che aveva famigliarità con la morte, questa non rappresentava ancora un avvenimento quasi «innaturale», addirittura mostruoso, come era destinato ad essere visto più tardi, quando la popolazione sarebbe cresciuta ed il numero dei viventi avrebbe costituito una folla che bilanciava validamente quanti via via perdevano la vita. La morte nell'alto Medioevo era guardata sì con rispetto al momento della mutazione di «vita», al trapasso, con paura comprensibile, anche; con costernazione quando si trattava di personaggi potenti, di santi, da cui il popolo si attendeva protezione ed aiuto. Ma anche in questo caso era cosa naturale, che incuteva paura come le eclissi di luna o di sole che le cronache mettono in relazione con tali luttuosi avvenimenti. Allora gli uomini dotti -- ma non essi soltanto -- si spaventavano, come per una calamità della natura, come per un segnale di future disgrazie o conseguenza di peccati. L'anno 840, agitato dalle discordie tra l'imperatore e i suoi figli, e tra questi ultimi, la morte di Ludovico il Pio scatena il terrore nell'animo dei cronisti, che la raccontano insieme con l'indicazione di paurose eclissi e l'ammonimento a coloro che minacciano l'unità dell'Impero. Ma basta sfogliare le vite dei santi, monaci o chierici, ed ecco che l'uomo di Dio ci appare sempre pronto alla morte; ed anche altri personaggi più legati al mondo, giunti presso la fine, vi si accingono senza trepidazioni che non siano per il loro destino ultraterreno. Spesso il santo desidera terminare la propria vita per godere delle beatitudini eterne, ma il momento del trapasso viene differito dal Signore contro la sua volontà. C'è molto di edificante in tutti questi esempi di morti perfette; però l'assenza costante della paura fisica del decesso non può che essere significativa: si era abituati tutti a quel momento, che giungeva sempre presto, salvo eccezioni, in un'epoca in cui era difficile reperire persone che avessero più di sessant'anni, per impiegarle come testimoni a processi relativi a fatti accaduti prima che la gran parte dei vivi avesse un'età capace di ricordare. Non c'erano elenchi di nati (e qui sarebbe inutile discutere su motivazioni meramente ecclesiologiche o amministrative). Ma c'erano, numerosi, i codici contenenti i nomi dei defunti per cui pregare, che monasteri e chiese spesso si scambiavano gli uni con gli altri; così gli elenchi dei vivi nei libri memonali degli enti ecclesiastici erano scritti solo perché si pregasse in vista del loro decesso e della salvezza della loro anima. Dagli elenchi dei morti conosciamo spesso la data del loro trapasso, come anche le cronache ce ne informano per i potenti; ma quasi mai i documenti ci dicono la data delle nascite. La vita, dunque, contava meno della morte, in un certo senso; certo non ci si preoccupava granché di conservarla, di mantenersi sani a lungo. Del resto, un ambiente povero non tollerava popolazioni longeve; era un circolo vizioso: le morti precoci e frequenti toglievano valore alla vita; questa, non tutelata, conduceva facilmente al decesso. Non tutelata per una serie lunga di motivi, per la mentalità, le istituzioni, la realtà materiale. Con ciò non è necessario pensare che non si provvedesse alla propria sopravvivenza: lo si faceva nei limiti concessi dalle risorse materiali dell'epoca, come dalla mentalità, non ancora tesa a contrastare validamente malattie, calamità naturali, disagi. La natalità non doveva essere bassa se non di rado nelle classi inferiori troviamo tre, quattro fratelli in età adulta: ciò significa che ne erano nati ben di più, se la sopravvivenza toccava un numero per allora certo non scarso. Nelle categorie sociali più elevate, delle quali abbiamo spesso elenchi famigliari completi o quasi, i fratelli si attestavano, tra il IX e il X secolo, sul numero di 4, 5, 6 e più. In questo caso contava anche la maggiore disponibilità di cibo, di vestiario; ma spesso l'uso smodato di carne e vino tendeva a limitare gli effetti benefici della ricchezza. «Pemmone aveva come moglie una donna di nome Ratberga. Costei, poiché sembrava una contadina, chiedeva ostinatamente al marito di lasciarla andare via e di cercarne una adatta ad essere moglie di un duca. Ma questo--un uomo prudente--ribatteva che più della bellezza gli stavano a cuore la sua onestà, la sua modestia, i costumi. Dalla donna il duca ebbe tre figli: Rachis, Ratcais e Astolfo, uomini di grande valore in guerra. La nascita di questi fece rifulgere la modestia della madre». Queste parole ce le ha tramandate Paolo Diacono, nella seconda metà del secolo VIII, e riguardano un potente duca del Friuli degli inizi dello stesso secolo. La soddisfazione di avere figli, per di più valorosi, il piacere destato dalla vigoria fisica della donna, dalla sua fertilità, più che dalla sua bellezza, ricorrono spesso nella cronachistica altomedievale. Nel secolo X, Liutprando, futuro vescovo di Cremona, parlando nella sua cronaca di re Ugo e delle sue concubine, bollate dalla misoginia del narratore, non si trattiene, però, dall'elogiare la nascita della prole: «Aveva tante concubine, ma ne amava tre più di tutte le altre: Pezola, di basso sangue servile, che gli diede un figlio maschio, Bosone, che il re poi collocò come vescovo a Piacenza dopo la morte del presule Guido; Roza, figlia del Valperto che il re aveva fatto decapitare, che gli partorì una figlia bellissima; la terza, Stefania, romana di nascita, dalla quale nacque un figlio, Tebaldo, che egli fece arcidiacono della cattedrale di Milano, con lo scopo, una volta deceduto l'arcivescovo, di fargli assumere il suo posto». Gli Annali del regno dei Franchi sottolineano il fatto che Carlo Magno visse settant'anni, un livello a quei tempi difficilmente raggiungibile; difatti molti dei suoi figli morirono prima di lui. L'incidenza della mortalità spingeva alla procreazione di molti figli ed al matrimonio con più donne, se l'uomo -- come avvenne a Carlo

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Magno -- viveva a lungo. Così ci spieghiamo la frequente presenza di concubine, un fatto che la sola rozzezza dei costumi non basta a giustificare. Più numerosa era la prole, più salivano le probabilità che la famiglia -- ed il potere da essa detenuto--continuasse. In tale modo, soprattutto, in un ambiente naturale difficile, in condizioni precarie di vita, fra i tanti pericoli che gli venivano dai suoi simili, l'uomo provvedeva alla sopravvivenza di se stesso nel susseguirsi delle generazioni. L'alta mortalità, tutte quelle sepolture nelle chiese e attorno ad esse, la vicinanza di tanti morti ai vivi facevano incombere i primi sui secondi. I defunti erano immaginati in continua attività, consiglieri, ammonitori, castigatori dei vivi, affiancati a loro anche nelle battaglie, custodi severi dei beni delle chiese e dei monasteri. Santi e altri, morti in «odore di santità», in un tempo in cui non esisteva ancora un procedimento chiaro di canonizzazione dei defunti ritenutisanti, si pensava fossero numerosissimi e si mescolassero quasi per forza di cose ai viventi. Soprattutto, il mondo terreno e quello dell'aldilà erano percorsi da viaggi in un senso e nell'altro, di morti e di vivi. A questi ultimi -- si pensava -- poteva accadere di morire e di rivivere, di essere trasportati, nell'anima mentre tutti li credevano deceduti, nel pieno delle sofferenze infernali o delle gioie paradisiache, e poi essere risospinti di nuovo alla vita, ammaestrati da ciò che avevano visto. Così, come si è osservato, anche persone definitivamente passate nell'altro mondo facevano ritorno in questo, a pregare sulla loro tomba o su quella di un santo famoso, per il bene della propria anima. I due mondi non erano separati da una linea profonda, e la precarietà dell'esistenza si traduceva materialmente nella possibilità di andare e venire, a discrezione del Signore. Con il passare del tempo, i chierici proponevano però immagini più marcate, via via sempre più minacciose e truci, dei morti che calavano nel mondo dei vivi. Le ricchezze delle chiese e dei monasteri si erano fatte impressionanti nei secoli IX e X e molti le usurpavano, spesso impadronendosene con la violenza. Ecco allora che il santo a cui la chiesa o il monastero erano dedicati ne diveniva il difensore severo, vigile, castigatore. Non raramente la violenza che egli esercitava non aveva nulla da invidiare a quella dei potenti laici predatori dei beni dei chierici dei monaci e dei contadini. Parallelamente, i santi in genere erano divenuti terribili, a prescindere dal compito particolare di custodi delle proprietà ecclesiastiche. Sensibili alle offese, gelosi del loro culto, rivali, anche, fra di loro nell'azione del proteggere, del guarire, dell'aiutare in battaglia. L'autore della Cronaca della Novalesa, il celebre e ricco monastero piemontese, racconta che un giorno il sacrestano vide ripetutamente riaccendersi i lumi nella chiesa dove egli li aveva spenti dopo che le sacre funzioni erano terminate. L'uomo non sapeva cosa fare, terrorizzato da tutta quella luce che ostinatamente, a intervalli, gli rivelava una presenza sovrannaturale e inquietante. Fu fatto buio solo quando, celebrata una messa in onore di due santi di cui ci si era dimenticati, essi si rabbonirono, appagati dal culto che spettava loro. Le reliquie di San Martino--trasportate da Tours in Borgogna durante le incursioni dei Normanni, per motivi di sicurezza--vennero collocate in una chiesa dove provocarono miracoli portentosi. Quando le riportarono nella città d'origine tutto il tragitto fu segnato dal potere miracoloso del santo, incessantemente. Di tali processioni abbiamo non pochi resoconti e ci è difficile immaginare che l'uomo non avesse paura, timore, o reverenza, quando vi si imbatteva o veniva a sapere che le ossa di qualche santo stavano per arrivare, soprattutto nel caso di santi famosi come Martino, patrono della Gallia. Per ordine dei santi Pietro e Paolo, due demòni si recarono a casa di un potente, usurpatore di beni del monastero della Novalesa. Lo sorpresero mentre banchettava, lo bastonarono ferocemente: l'uomo impazzì e non si riprese sino alla morte, davanti alla quale giunse senza ricevere il conforto del sangue e del corpo del Signore. Altre volte i santi intervengono di persona, non sempre con la violenza, e comunque senza mai spargere sangue con le loro mani: nel racconto della Novalesa Pietro e Paolo ordinarono la bastonatura ai demòni; anzi, avendoli incontrati con in mano delle spade, le sostituirono con bastoni. La morte, quando inflitta direttamente dal santo, arrivava senza che questi usasse le armi, almeno generalmente, crediamo. Ma normalmente bastavano minacciose visioni e apparizioni, nel sonno, nella veglia notturna, o di giorno, per dissuadere con lo spavento un potente malvagio, dare un ordine ad un fedele, rimettere sulla retta strada un buon uomo traviato. La frequenza delle visioni e delle apparizioni era proporzionale all'importanza del santo, sia per la sua posizione gerarchica all'interno del mondo dei beati, sia per il numero di chiese e monasteri a lui dedicati. Più erano numerosi gli enti ecclesiastici dei quali era il protettore, più frequenti risultavano i suoi interventi. Come quelli di San Benedetto, fondatore del monachesimo occidentale, che vediamo apparire di notte in un racconto della Cronaca della Novalesa. Spesso l'apparizione si materializzava ed i santi circolavano così nelle loro chiese, nei loro monasteri. Le azioni violente, con spargimento di sangue, erano lasciate a defunti comuni--se non a comodi demòni--che usavano per questo le armi allora più micidiali. Ad un prete-- ancora secondo il cronista novalicense--fu affidato il compito di percuotere di notte selvaggiamente, con una pesante arma da taglio, il capo di un ostinato e potente ladro delle proprietà monastiche: il disgraziato era stato colpito dal prete defunto solo in sogno, ma l'effetto fu reale, perché, svegliatosi, sentì male alla testa, si ammalò e morì rapidamente.

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Non è certo un caso che tali comportamenti dei defunti--santi o meno--caratterizzino soprattutto i secoli X e XI: non è difficile scorgere nelle loro azioni lo stile di vita di una nobiltà guerriera che affermava largamente il proprio potere con la violenza, venuto meno ogni controllo dell'autorità centrale, rispetto al periodo carolingio, quando le dinastie feudali non s'erano ancora formate e la signoria locale era contenuta dalla rete di funzionari regi, almeno entro certi limiti. Anche la Chiesa, dunque, aveva un «ceto militare» nei potenti santi e nei loro esecutori, un «ceto» che non sempre entrava in campo per difendere i suoi beni; spesso--come il ceto nobiliare--agiva per allargarli. Già in età carolingia si ammoniscono i chierici, nelle leggi, a non estorcere le proprietà ai fedeli con la paura che la religione del tempo sapeva incutere. Rustici timorosi dell'aldilà, ma anche potenti lignaggi nobiliari si erano dissanguati nei loro patrimoni per il timore di una sorte ultraterrena perniciosa e anche delle conseguenze che poteva avere, ancora mentre vivevano, un loro rifiuto di donazione a chiese e monasteri protetti da santi temuti. Le pestilenze cessano quando si alza una chiesa ad un santo famoso; e dopo una vittoria difficile è prudente ricordarsi nello stesso modo di un illustre defunto. «A quel tempo, re Cuniberto, molto amato dal suo popolo, avendo regnato per dodici anni sui Longobardi, uscì dalla vita terrena. Egli aveva edificato, nei pressi di Coronate, dove si era misurato in battaglia contro Alachi, un monastero dedicato al martire Gregorio», narra Paolo Diacono, riferendosi probabilmente all'anno 700.

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Capitolo quarto. La bellezza del corpo. Nel canto XIX del Purgatorio, Dante vede in sogno «una femmina balba / ne gli occhi guercia, sovra i pié distorta / con le man monche e di colore scialba». Ma, mentre egli la guarda, «come il Sol conforta / le fredde membra che la notte aggrava», il suo sguardo la trasforma, sino a farla diventare bella, colorandole il viso dei colori che svegliano amore negli uomini. Allora ella cominciò a cantare come una sirena, attraendolo fortemente, finché venne interrotta violentemente da un'altra donna, «santa e presta»-- sono le parole di Dante -- che le stracciò i vestiti scoprendole il ventre: ne uscì una puzza tale che il sonno del poeta ne fu scosso ed egli si svegliò. L'immagine della donna che a prima vista incanta e poi paurosamente imbruttisce o, comunque, suscita schifo nell'uomo, aveva lontani precedenti nella condanna clericale della bellezza fisica, soprattutto nella condanna della bellezza femminile. Già Liutprando di Cremona, dicendo della particolare bellezza di una concubina del re d'Italia Ugo, si sente in dovere di precisare che tale bellezza andava valutata tenendo conto del fatto che la carne è destinata alla putrefazione, ripetendo così un usuale adagio. Non molto tempo prima, l'abate di Cluny, Oddone, in una sua importante opera trattatistica scriveva: «la bellezza del corpo è solo data dalla pelle. Difatti, se gli uomini potessero scorgere ciò che si nasconde sotto la pelle--come si legge in Boezio che le linci sono ritenute capaci di vedere le interiora -- avrebbero schifo di vedere le donne. La loro bellezza in realtà è fatta di muco, sangue, liquido e fiele. Se uno pensa a ciò che è dentro le narici, nella gola e nel ventre, trova solo sporcizia. E, dal momento che non sopportiamo di toccare nemmeno con la punta delle dita il muco e lo sterco, perché mai dovremmo desiderare di abbracciare un sacco di sterco?». La pelle, dunque, per il grande abate di Cluny, è solo un contenitore di umori vischiosi, di liquidi repellenti, di sterco; questa è la vera bellezza: un velo sottile su tante porcherie. E allora perché volerle abbracciare queste donne, anche le più belle, se non sono altro che involucri sottili di sostanze che suscitano nausea e ribrezzo? Oddone non smentisce la sua proposizione nemmeno quando racconta la vita -- celebre opera agiografica -- del santo conte di Aurillac, Geraldo. Questi subì una sola volta--a detta del suo biografo --le tentazioni della carne. Accadde che la figlia di un suo uomo lo colpisse per la sua bellezza ed egli ne restasse preso: «Incautamente indugiava a guardare il colore delicato della sua pelle e così incominciò a subire quel piacere. Oh, se avesse subito cercato di raffigurarsi ciò che si nascondeva sotto la pelle! Difatti soltanto del colore di questa è fatta la bellezza della carne». Geraldo, dunque, è attratto da un involucro di cose repellenti, proprio come è definita fisicamente la donna dal suo biografo Oddone nel trattato di cui si è detto; ma quella apparente bellezza lo trascina sino a volerne godere: egli fissa, con il padre della fanciulla, un appuntamento nella loro casa e vi si reca. A questo punto, come abbiamo visto accadere a Dante nel Purgatorio, la vera realtà della donna, per grazia di Dio, si rivela al buon conte, salvandolo dal peccato. Difatti, arrivato accanto a lei, di fronte alla fiamma del camino che nel frattempo era stato acceso per riscaldare la casa nella stagione fredda, dopo il tramonto, su quello sfondo rosseggiante la donna subì una paurosa trasformazione: la sua bellezza svanì in forme repellenti. Fuori di casa la notte era gelata e Geraldo, salvato dal volere di Dio proprio mentre stava per commettere peccato, si gettò a cavallo attraverso la campagna, fino a che fece giorno, subendo un freddo atroce, desideroso di punire così la sua cattiva intenzione. Ma non bastò il rigore di quella notte, che il conte non dimenticò mai, alla volontà divina di colpire il peccatore: una lunga cecità fu inflitta a lui che non aveva saputo vedere con gli occhi della ragione la turpe realtà contenuta dal colore piacevole e delicato di una cute femminile. Non fosse stato per la grazia di Dio, che continuò a implorare anche al culmine della sua passione, Geraldo avrebbe ceduto. Lui, che aveva superato-- diversamente da tanti altri -- l'adolescenza senza incorrere nel «naufragio del pudore», in cui clamorosamente s'accasciano gli adolescenti per anni. Sono tutte considerazioni di Oddone di Cluny, che ci rivelano come egli--ma anche una cultura largamente diffusa -- affrontasse il problema dell'attrazione amorosa, della donna, della sua bellezza, delle sollecitazioni sessuali. Ma l'abate di Cluny va ben oltre: ci racconta che il santo conte non volle mai sposarsi, per restare casto; rifiutò le nozze anche quando il potente duca d'Aquitania--del resto suo amico--gli offrì come futura moglie la propria sorella. La bellezza, quella agognata, o sognata, si contrapponeva rigidamente all'aspetto conferito alla maggior parte delle persone da una vita fisicamente intensa, segnata dal contatto con un ambiente naturale ancora primitivo. Di qui, anche, l'attrattiva verso la delicatezza delle forme, come l'esile collo del conte di Aurillac, che attira su di sé l'attenzione del biografo, unico elemento che spicca in un corpo irrobustito dall'attività sportiva della caccia e dei finti combattimenti. Diqui la predilezione per una pelle liscia, lucente, bianca (più tardi raffigurata chiaramente nei dipinti), ben diversa dal colorito marcato di uomini e donne avvezzi all'aria aperta ed al sole. Se queste scelte ci sono proposte da persone colte, è difficile immaginare che non fossero condivise anche da coloro che più di esse vivevano un'esistenza fisicamente scandita e segnata da esercizi venatori e militari o dalle fatiche dei campi. Ma un ideale così lontano dalle immagini consuete--

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di uomini e donne certo più robusti che delicati-- non doveva rappresentare che la punta sublime di una immaginazione normalmente attenta a forme fisiche quali la vita di allora quotidianamente faceva passare sotto gli occhi, non solo abituali ma anche congeniali. Di passioni robuste ancorate alla sessualità più elementare le cronache del tempo danno frequenti e realistici resoconti. Sono le donne vogliose e gli uomini incontinenti dei quali ci parla il futuro vescovo di Cremona Liutprando, a metà del secolo X. Lo scrittore lo fa con compiacenza dettata dalla soddisfazione di aver scoperto e bollato il vizio; ma ciò non toglie che donne e uomini innamorati non figurino nelle sue pagine se non come tali. E un piccolo prete irsuto, dai genitali ipertrofici, a mettere nei guai la moglie di re Berengario I, compromettendola senza che la regina tenti seriamente di far passare inosservata la relazione. Vari secoli prima, Romilda, vedova recente di un valoroso soldato, il duca del Friuli Gisulfo, era stata colpita dalla forza che emanava dalla figura caracollante del capo degli Avari, che la donna vide per sua disgrazia dagli spalti di Cividale: pur di giacere con lui, gli aprì le porte della città, facendogli arrendere i resti di un esercito glorioso. Ancora nel secolo X, una donna greca reclama ad alta voce che al marito i nemici, guidati dal re d'Italia, nello Spoletino, stiano per amputare i testicoli, dicendo che peggio non potrebbero trattarla. Si può continuare con episodi di questo tipo o simili, narrati da cronache di ogni epoca o territorio dell'alto Medioevo, quindi riflettenti una mentalità sulla cui diffusione c'è poco da dubitare. Ma, appunto l'estrema fisicità, spesso la bestialità, delle passioni provocava reazioni contrarie: l'anelito verso una bellezza dai contorni evanescenti, diafana, fragile, o addirittura il ripudio di ogni forma materiale e corporea della stessa e l'abbandono della fantasia a immagini di luci, suoni, profumi ultraterreni. Uomini e donne che muoiono momentaneamente e s'inabissano nella luminosità del Paradiso e poi tornano nostalgici sulla terra a finire la vita che Dio ha prestabilito per loro: sono episodi delle monache del secolo VII, come ce li racconta Giona di Susa; e di uomini, grosso modo dello stesso periodo, dei Dialoghi di papa Gregorio Magno. Il Paradiso è immaginato spesso come un giardino di alberi, cespugli, fiori, candidi sassi: il contrario del paesaggio semiprimitivo che gli uomini di allora si vedevano intorno. Materialità della vita quotidiana e evanescente delicatezza, immaterialità, anche (si pensi alla luce che in tante visioni era il Paradiso), dell'altra vita, quella vera, duratura, eterna. Tra questi due poli, un ideale della bellezza umana che oscilla fra diafani pallori, membra delicate e una concezione di sano vigore fisico. Tuttavia, ben poco sappiamo sulla diffusione e l'incidenza di queste immagini che gli uomini si facevano di se stessi, quando desideravano i propri simili. Certo che sogni di mondi irraggiungibili sono spia di una realtà contraria, cruda, non di rado brutale. Non a caso è soprattutto nei primi secoli del Medioevo che, da un lato, abbiamo resoconti di amori pesantemente realistici e, dall'altro, di evasioni in mistiche visioni di luci, in ascoltazioni di suoni divini, nell'odorare profumi indicibili: quando il corpo di un santo è riesumato, tutt'attorno il profumo è soavissimo; così, quando una persona di santa vita, sul letto di morte, vede figure angeliche, gli altri sentono musiche e profumi; e la luce scatta viva e accecante nel cielo quando un'anima benedetta vi sale. Sulla bellezza del corpo, così come su tutta la vita fisica, sta l'ombra della morte, più drammaticamente avvertita dagli uomini di cultura, attenti alla brevità dell'esistenza, in un'epoca in cui pochi arrivavano alla vecchiaia. La gente comune doveva accettare la fine come normale scansione nel flusso delle cose, vegetali e animali. I moralisti, chierici e monaci predicatori, l'indicavano a tutti per far loro sentire più vicino il tribunale di Dio, il giorno della paura. Ma tutti avevano davanti agli occhi il principio e la fine della vita, l'estrema debolezza del corpo di fronte al trascorrere del tempo, alle insidie immancabili delle malattie. «Era una persona bella», a volerla definire «secondo le leggi della carne destinata alla putrefazione»: così per tutto l'alto Medioevo gli intellettuali chierici si piegavano a scrivere della bellezza, nelle vite dei santi, nelle cronache. Tuttavia, in queste espressioni non c'è nulla della carica macabra e mostruosa che l'immagine della fine evocherà verso il culmine del Medioevo, quando la morte sarà vista più come un'estranea e malvagia visitatrice che come una compagna naturale, anche se scomoda, di ogni essere vivente.

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Capitolo quinto. La caccia. Nella Vita Odonis, Giovanni Italico, biografo dell'abate di Cluny, ricordando le parole di quest'ultimo sulla sua educazione militare, accompagna alla descrizione dell'addestramento alla guerra quella dell'addestramento alla caccia nella giovinezza del futuro monaco, che solo la grazia divina, «che concede di salvarsi anche a coloro che non lo vogliono», riuscì a strappare da quella routine. Quando Oddone scriveva la Vita del conte Geraldo si soffermava sulle stesse cose, dicendo che si insegnava al santo, da ragazzo, «a guidare i molossi, a usare bene l'arco, a lanciare con un colpo studiato del braccio falchi e sparvieri». Ma, «per disposizione divina», Geraldo si ammalò e non poté continuare in quegli esercizi; proprio come Oddone, che, a sua volta, per tre anni soffrì di un ostinato mal di testa. Caccia e addestramento militare andavano di pari passo per i rampolli della nobiltà del secolo X, attività destinate a divenire col tempo, soprattutto dal XII secolo, prerogative di ceto, suoi incontestabili diritti, segno di distinzione di rango dagli altri, cui via via era concesso cacciare solo selvaggina minore o, se di grossa taglia, come capitava in certe zone, a patto di consegnare la testa e le parti migliori dell'animale al signore. Tuttavia, Oddone di Cluny, pur ricordando con nostalgia faticosamente repressa gli anni in cui, bello e forte, affrontava quelle prove di forza (dalle quali solo la grazia divina lo distolse), nell'opera trattatistica intitolata Collationes esce in una dura condanna dell'attività venatoria: «Se si desidera sfuggire alla crudeltà di Caino, bisogna vivere in meditazione, cessare, seguendo l'esempio dei malvagi, di darsi ad attività che distolgono da essa. Difatti, colui del quale si parla nel Vangelo, non sarebbe incappato nei briganti, se non fosse uscito da Gerusalemme, che significa la contemplazione della pace ... Così, è scritto di Giacobbe che (da uomo semplice se ne stava nella sua casa). Esaù, invece, che non fu caro a Dio, fu uomo amante della caccia». La caccia, nel suo aspetto di violenta evasione da se stessi, è contrapposta alla sedentarietà necessaria alla riflessione sulle cose di Dio. Ma anche questo secco enunciato del monaco riformatore che, del resto, non oblitera del tutto la sua adesione «profonda» ad uno stile di vita esaltante la forza fisica espressa anche nell'arte venatoria, non deve farci dimenticare che ecclesiastici secolari e regolari si davano con largo dispendio di tempo e di energie a quello sport. Segno di un costume fortemente radicato e sempre più ritenuto prerogativa di nobili, laici o ecclesiastici che fossero. Già nelle leggi carolinge si deve vietare agli stessi abati e alle badesse di tenere cani da caccia nei monasteri; come si proibisce questa a tutti gli uomini di chiesa. Ma sono divieti che avevano lo stesso valore di quelli relativi all'espropriazione dei beni fondiari dei «meno potenti». Dove già non c'erano, i conti carolingi facevano nascere foreste, per potervi cacciare: un costume che in Italia i Gonzaga e gli Este protrarranno sino all'epoca moderna e contemporanea. Fonte importante di derrate alimentari, la caccia era, però, soprattutto un fatto di costume: non per nulla ad essa restarono legati in particolare i nobili ostinati, nel pieno Medioevo, a preservare gli spazi boschivi dove esercitarla, a costo di sottrarre terra ai contadini, bisognosi di campi da mettere a cereali e a vigneti. Ma anche questi, se preferirono dopo il secolo XI o il XII, a seconda dei luoghi, abbattere le foreste per far posto ai coltivi, lo fecero perché spinti dalla necessità di sfamarsi, pur se non è da escludere che con il tempo essi non vedessero di buon occhio le foreste (dove solo o quasi solo i nobili erano padroni), simbolo, con i castelli, e con i grandi allevamenti di colombi, del privilegio nobiliare. «Il Re amava moltissimo l'aria aperta ... Egli usciva solamente per tre motivi: cacciare il cervo almeno una volta alla settimana, e spesso più volte, a Marly o a Fontainebleau con le sue mute di cani ... ». Così SaintSimon scrive -- ma lo fa anche altrove -- della passione per la caccia nutrita dal Re Sole: lo stile di vita dei nobili, re compresi, fu segnato a lungo da un'abitudine che aveva le proprie radici molto lontano e che noi vediamo affondate nei primi secoli del Medioevo, quando le fonti ce ne testimoniano la ritualizzazione, fissata soprattutto in un periodo dell'anno, l'autunno. I diplomi emessi dai re spesso riportano come data topica una sede preferita per l'esercizio della caccia in questa stagione; possiamo controllare, soprattutto attraverso questi documenti, la ripetitività annuale del tempo dedicato alla caccia e, quando i documenti sono sufficienti, calcolarne in qualche modo la durata che poteva essere anche di vari mesi. Per dedicarsi alla caccia--ma spinti, più profondamente, dalla predilezione per una vita all'aria aperta e dalla preferenza verso le dimore rurali piuttosto che verso quelle cittadine--vediamo re e imperatori (ma così si comportavano i nobili in genere) trascorrere gran parte del tempo nelle loro aziende di campagna (le corti). E un fenomeno che travalica l'età medievale, ma che riteniamo abbia assunto allora il ruolo di marcare definitivamente un comportamento. Di Ludovico II, re d'Italia e imperatore, grazie ai diplomi che egli rilasciava, sappiamo che si trovava a Corteolona, nella bassa pianura pavese, il primo settembre 874, il 9 ottobre, il 13, il 15 dello stesso mese, il primo novembre; l'8 dicembre è in località non identificata, ma certo non un centro urbano. Spesso soggiorna in una sua residenza di caccia, una grande azienda dell'odierno territorio di Alessandria, il cui centro doveva corrispondere forse all'attuale Capriata d'Orba, detto, comunque, Orba nell'alto Medioevo. Essa fu già preferita ad altre sedi rurali dai re longobardi; certo dal tempo di re Cuniberto (688-700), dal momento che Paolo Diacono riferisce due episodi della vita di questi in cui la foresta della corte Orba gioca un ruolo importante. Anche del re Liutprando (713-744) possiamo dire la stessa cosa, se leggiamo Paolo Diacono: «Liutprando si trovava nel bosco detto Urbe, a caccia, quando uno di coloro che lo

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accompagnavano, mentre cercava di colpire con l'arco un cervo, senza volere ferì un nipote del re Aufuso, figlio della sorella». Qui, all'indicazione dell'attività venatoria se ne unisce un'altra: quella dell'esercizio violento della stessa, spesso causa di ferite mortali. Lamberto, re d'Italia e imperatore, morirà nell'autunno dell'898, proprio nella zona di caccia di cui parliamo, sbattendo la testa contro un grosso ramo d'albero mentre a cavallo inseguiva con foga un cinghiale (qualcuno disse, invece, che era stato assassinato). La stessa morte incontrò nel '700 un nobile normanno, stando al contenuto raccapricciante di una novella della raccolta Clair de Lune, intitolata Le loup, una delle ultime scritte da Guy de Maupassant. Vi è descritta la caccia parossistica ad un grande lupo, in una notte autunnale del 1764, protagonisti due fratelli, nobili e provetti cacciatori. L'inseguimento inizia quando un grande cespuglio, coperto di foglie morte, si agita aprendosi e lascia apparire la sagoma grigia della bestia. Allora essi si gettarono a briglia sciolta ad inseguirla e i cavalli bucavano il bosco spezzando rami e cespugli nella corsa forsennata, senza più nulla vedere e sentire, finché uno dei cacciatori urtò un grosso ramo, che gli spaccò la testa e l'altro se lo caricò sulla sella per riportarlo a casa. Fu in quel momento che rivide il lupo e riprese ad inseguirlo, sino ad un vallone pietroso illuminato dalla luna, dove in un macabro corpo a corpo l'animale morì strangolato dall'uomo. La storia atroce fu raccontata in una delle ricorrenze della festa di Sant'Uberto (così ci dice Maupassant), patrono dei cacciatori, cioè il 3 novembre; fatto sta che fu pubblicata il 14 dello stesso mese in Le Gaulois, l'anno 1882. Tutta la novella fa pensare, per il senso del leggendario e la violenza dell'azione, a La Légende de Saint Julien l'Hospitalier (apparsa nel 1877) di Flaubert, di cui Maupassant fu allievo fedele; ma, in realtà, essa nasce dall'ambiente della nobiltà campagnola normanna, legata a vecchissimi modi di vita, anche se nel profondo stanno i temi della paura e del sangue, ricorrenti e tremendamente vissuti dall'autore, legati ad ataviche tradizioni regionali e -- perché no? -- famigliari. Nel 1052, durante una battuta di caccia, morì il personaggio più potente dell'Italia Settentrionale, Bonifacio di Canossa, in una delle sue grandi foreste padane. Si sparse la voce che lo avessero ucciso, riempiendolo di frecce avvelenate. Certo che, ancora una volta, foresta e caccia sono gli sfondi sui quali si stagliano morti violente.

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Capitolo sesto. La violenza. Al di là delle competizioni militari, sollecitate dall'esigenza della difesa o dalla volontà di conquista, la violenza--e il fenomeno è assai noto--conferiva una generale caratteristica di aggressività ai rapporti fra le persone nel Medioevo. Ne conosciamo la presenza, sappiamo che costituì un aspetto rilevante della storia del periodo; ma siamo ancora lontani dal potercene rappresentare un quadro abbastanza vicino alla realtà. Le fonti sono state studiate con l'intento di utilizzarle per la soluzione di altri problemi (le strutture economiche, sociali, politiche, ecclesiastiche, la cultura), oppure, se interrogate sul comportamento violento delle persone, ciò è spesso avvenuto in un'ottica folkloristica, o, comunque, senza una risoluta indagine scientifica. Del resto, la storiografia che ha tracciato il quadro delle strutture sociali ha prestato attenzione quasi unicamente alle funzioni, ai rapporti fra le medesime sul piano del potere e del possesso fondiario. E palese, per esemplificare, che la storia della nobiltà feudale è stata sorda a forti curiosità sulla faccia violenta del ceto nobiliare, salvo ammissioni, sottolineature, anche, di atteggiamenti prevaricatori, tenendo però sempre in principal conto altre caratteristiche e vocazioni: difendere, combattere, donare. O il problema della violenza è stato ricondotto e identificato a quello dello sfruttamento, individuato nell'esercizio maturo della signoria di banno a iniziare dal secolo XII, non certo affrontato con la volontà di rievocare -- nelle sue componenti mentali e materiali -- un modo di vita particolare ma largamente praticato: la violenza dell'uomo all'uomo. Le modalità materiali della pratica violenta, quando indagate non di per se stesse o fatte oggetto di effetti spettacolari sul pubblico dei lettori, ma considerate per dare fisionomia concreta ad uno stile di vita, sono base indispensabile a chiunque voglia fare una storia della violenza ed evidenziare ciò che abbiamo sulle spalle di un passato che non può non spiegare, almeno in parte, i rigurgiti di prevaricazione mai venuti meno nel tempo. Tuttavia, una «storia della violenza» isolata e ripiegata in se stessa, senza contestualità rigorose con altri oggetti dell'indagine storica, oltre, ovviamente, ad enfatizzare un aspetto della storia di un'epoca, rischiando di identificarla tout-cort con esso, risulterebbe monca, inadeguata, tra l'altro priva delle sue più profonde motivazioni, che stanno in buona parte nelle strutture economico-sociali e nella cultura--in senso largo-- di un'epoca e dei diversi periodi della stessa. Con tutte queste riserve sul già fatto e sul da farsi, non ci è impossibile--né è inopportuno, crediamo--proporre alcune considerazioni. Una violenza dalla base sociale assai larga emerge sia dalle leggi «barbariche» che da quelle longobarde del re Rotari, come da altre fonti coeve: con questo intendiamo dire che nei primi secoli del Medioevo la pratica della violenza non è ancora prerogativa di un ceto nobiliare--che, tra l'altro, allora non esiste, o, dove esista, non è adeguatamente rappresentativo-- ma bensì è pratica di tutti verso tutti, per così dire. Essa è diretta anche allora, in primo luogo, dall'alto verso il basso: è la violenza degli uomini liberi sui servi. E, inoltre, è caratterizzante dei rapporti dei liberi fra di loro, come dei servi nei confronti dei pari grado. Nell'Editto di Rotari, il corpo più massiccio di disposizioni è costituito da quelle criminali. Va rilevata la casistica assai ampia degli atti violenti: oltre agli omicidi, ferite inferte con armi di ogni tipo, più o meno gravi negli effetti, percosse d'ogni genere. Le norme Si riferiscono in gran parte a violenze nei riguardi di servi; ma quelle relative a liti tra liberi non appaiono molto inferiori di numero. Proprio la casistica varia e fitta delle azioni criminali e le forti penalità comminate evidenziano l'esistenza di endemici, quotidiani comportamenti violenti. La pesante severità con cui si punisce chi entra di notte nel recinto che custodisce l'abitazione di un altro senza avvertirlo è spia di uno stato continuo di allerta e pericolo che può essere sventato, certo, ma è forse nondimeno assillante. Recinti di ogni tipo proteggono gli uomini e le loro cose, dall'abitazione al campo, al vigneto: essi servono ugualmente contro uomini malintenzionati e animali selvatici. Proprio le grandi dimensioni della pericolosità, che scaturiva, oltre che dai rapporti fra le persone, da un ambiente largamente inselvatichito da secoli, se spiegano la casistica assai varia dei mezzi di difesa, mostrano, però, una condizione normale di vita e fanno ritenere che la paura esisteva si -- e in certi frangenti doveva crescere notevolmente--ma essa era stata come assorbita da quegli uomini, divenuta un elemento inconsciamente caratterizzante del loro stato d'animo, e non costituiva un'insorgenza abnorme, anche se frequente. In determinate circostanze essa superava la soglia della normalità ed era «veramente» paura, agitazione, terrore. Ma proprio il sapere quali fossero tali circostanze -- che ignoriamo quasi del tutto -- ci potrà schiudere uno spiraglio sulle paure di allora. L'abitudine alla guerra, alle ferite, alla morte, alle malattie mortali limitano di parecchio lo spazio entro il quale ricercare le occasioni di paura. Le cronache del tempo sembrano presentarci uomini molto più paurosi di fronte ai fenomeni celesti eccezionali (eclissi di sole e di luna, comete, stelle cadenti) o immaginari (nubi rossastre, che, per la forma particolare, erano ritenute sovrannaturali cavalli e cavalieri armati; piogge, miste a sabbia rossa proveniente dall'Africa, scambiate per sangue) che non di fronte ai fatti di guerra ed alle gravi avversità climatiche. La violenza sull'uomo, nelle sue manifestazioni più efferate, è raccontata, normalmente, senza gravi turbamenti: cronache e vite di santi ne sono piene e ci offrono la visione di caratteri sempre sul punto di

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esplodere, come gonfiati da una perenne tensione verso la violenza e la soluzione violenta dei rapporti con gli altri. Però, oltre alla stigmatizzazione della violenza da parte degli uomini pii e l'esempio pacifico di questi, monaci e chierici (quelli esemplari, s'intende), anche gli altri, i laici e i religiosi non ossequienti alle leggi canoniche, non dovevano essere solo inclini alla violenza, ma anche trattenuti da essa da una forza compensatrice contraria: la prudenza, l'equilibrio, la misura sono non a caso doti del laico potente in tutto il Medioevo. Caratteristiche, queste, che non potevano essere solo nella penna dello scrittore, che le attribuiva a uomini determinati, a scopo edificatorio, ma che non di rado era bene informato su comportamenti e persone. La casistica degli atti violenti è già indicata nelle leggi, sia nelle norme che li vietano, menzionandoli, sia in quelle che infliggono punizioni violente, dall'amputazione di arti all'uccisione, ad altro, spesso ingiungendo la pubblicità dell'esecuzione della pena. Tuttavia, le fonti narrative, specialmente quelle che stigmatizzano l'effusione del sangue--si trattasse di pene o di delitti --, in particolare le vite dei santi, allargano considerevolmente la varietà e la gravità dei casi. L'intervento del santo a impedirne l'attuazione, o il resoconto delle sue astensioni o delle sue opposizioni a eseguire o far eseguire punizioni gravi o del suo ribrezzo a opprimere i deboli (il santo era in queste circostanze un personaggio dotato di un pubblico ufficio o, comunque, un potente), ci aprono gli occhi su di una grave realtà di violenze quotidiane. Disgraziati, ritenuti a torto colpevoli, sbrigativamente accecati; altri, rustici al lavoro nei campi, assaliti e percossi dalla masnada di un signore; altri ancora, rei di crimini commessi, puniti al di là e ben più gravemente del dettato della legge. Ma la legge stessa--come si è osservato--aveva la mano pesante; sicché sentiamo l'abate di Cluny Oddone elogiare il santo conte di Aurillac, Geraldo, perché lasciava fuggire dal carcere coloro che erano destinati a dure punizioni. Se l'audacia e il valore militare sono doti universalmente riconosciute ai capi, tuttavia, almeno nelle intenzioni di uomini di chiesa, il contenere l'istinto di punire o la propensione all'atto violento è considerata dote di grande conto. Non pochi re sanno perdonare traditori e violenti, stando alla storia che Paolo Diacono traccia del popolo longobardo. E questo non è soltanto l'esito comportamentale dettato dalla grandezza della generosità, ma anche l'atteggiamento dell'uomo che sa frenarsi, se potente e offeso. «Valoroso in battaglia, clemente con i colpevoli», scrive appunto Paolo Diacono del re Liutprando. Il genere di violenze, che, con tante altre, scandirono gli inizi del secolo VIII, non era certo destinato a venir meno col tempo. Tuttavia, pare che tali fenomeni calassero di frequenza, almeno in generale, salvo ritorni e incresciose recrudescenze in determinate circostanze. Ma, anche se ben poco sappiamo sulla storia della violenza, possiamo ritenere che essa, con l'affermarsi di un ceto di potenti, ne divenisse quasi prerogativa. Ci spieghiamo: violenti erano tanti, ovviamente, ma poiché il potere e le armi divennero progressivamente attributo di pochi, questi erano altamente in grado di opprimere i più deboli. Mentre in età longobarda--stando alla esplicita legislazione -- sono i liberi a trattare violentemente i servi, in epoca carolingia le leggi dei re si appuntano soprattutto sull'oppressione dei liberi da parte dei potenti, quel ceto nobiliare che anche in Italia ormai si andava costituendo come classe di governo. Del resto, la prerogativa della violenza legata alla condizione sociale elevata si inscriveva nei cambiamenti profondi che i grandi proprietari di terre, i nobili, provocavano progressivamente--da noi e altrove--nelle strutture economiche, sociali, nelle stesse istituzioni ecclesiastiche. Come le terre venivano via via in gran parte concentrate nelle grandi aziende fondiarie, le curtes, così i loro detentori si affermavano sempre più come gli amministratori dello stato e fornivano i loro membri alla gerarchia ecclesiastica; nello stesso tempo essi abusavano delle cariche pubbliche e del potere scaturente dalla ricchezza per attirare nel cerchio del loro controllo gli uomini e le loro cose. L'aristocratizzazione della società significò anche -- se ci è permesso di dirlo--l'aristocratizzazione della violenza. Soprattutto dal secolo X in poi, i potenti erano i guerrieri professionisti, quelli che la stessa Chiesa classificherà proprio come ceto (ordo dei combattenti, pugnatorum) e ammonirà sia a non cozzare fra di loro, sia a non usare violenza agli inermi, additando la tutela di questi, l'ordine dello stato, la difesa e la dilatazione della Chiesa di Dio. Con l'istituzione della cavalleria si ebbe un ulteriore sforzo nella direzione del mitigamento dell'animus guerriero del nobile; così con la creazione di ordini religioso-militari: tutte soluzioni, o tentate soluzioni più che altro, al grave problema posto dall'esistenza di un ceto di vocazione e professione guerriera nel quadro di organismi statali in cui il potere centrale non era in grado di contenerlo efficacemente, spesso nemmeno minimamente. Proprio agli inizi del Medioevo, in Inghilterra, un uomo viveva gli ultimi anni della sua vita in un monastero. Un giorno gli si presentarono alcune persone per fargli una richiesta sgradita: lo pregarono di combattere, anzi di tornare a combattere, perché egli era stato re e valoroso guerriero. La risposta fu negativa, ma i visitatori insistettero; lo ricattarono mettendogli sotto gli occhi la cattiva condizione in cui versava il paese, una guerra difficile, una battaglia decisiva da affrontare. L'uomo, allora, accettò di combattere ancora una volta, a capo del suo vecchio esercito, ma ad una condizione: non voleva uccidere e avrebbe combattuto con un bastone, senza lancia né spada. Lo scontro fu terribile e colui che era stato re e poi divenuto monaco mansueto cadde nel combattimento, come narra il Venerabile Beda, vissuto fra VII e VIII secolo, nella Storia degli Angli.

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In piena età feudale, nella violenta battaglia fra le truppe di Berengario I e quelle di Rodolfo di Borgogna, a Fiorenzuola d'Arda, tra Parma e Piacenza, il luglio del 923, accadde qualcosa di simile. Sconfitto Berengario, i suoi uomini furono inseguiti e uccisi uno dopo l'altro, finché il conte Gariardo, che comandava gli avversari assieme a tale Bonifacio, gridò di smettere quel macello e ordinò di colpire con le lance rovesciate, impugnandole dalla parte della punta, per non ferire gravemente dei nemici già sgominati. Pochi decenni prima anche Geraldo di Aurillac-- racconta Oddone di Cluny--voleva che i suoi uomini usassero lo stesso sistema, sempre, nei combattimenti, e Dio, pietoso -- aggiunge il biografo -- li faceva ugualmente vincere. Sono episodi che, verificatisi o meno (spesso chi racconta non offre tutte le garanzie di una informazione precisa o, addirittura, obiettiva), rivelano la profonda repulsione da parte di molti verso lo spargimento di sangue, la violenza largamente praticata, materialmente incombente sugli uomini. E il riflesso di una realtà negativa opposta: i nobili amavano la guerra e il sangue e non si fermavano di fronte alle sofferenze più crude. Quando non mancava molto tempo, ormai, alla fine del dominio longobardo in Italia, Ariberto, conquistato il trono, fece cavare gli occhi ad un figlio del suo concorrente; tagliò naso e orecchie alla moglie ed alla figlia. Si salvò il giovanissimo Liutprando, perché era di statura piccola e di complessione gracile; non ci si aspettava che sarebbe divenuto un guerriero audace, viste le sue fattezze. Ma, poi, non solo lo divenne, ma fu fatto anche re. Ciò che abbiamo ricordato non è nulla di fronte alle più gravi azioni di violenza che i dotti del Medioevo ci raccontano inorriditi; sono avvenimenti usuali, che segnano il trascorrere del tempo e scandiscono sinistramente le pagine dei cronisti. Le vicende dei Longobardi sono marcate spesso dalle azioni di un'umanità rozza e primitiva, oscillanti fra il valore militare e la ferocia, sullo sfondo di passioni, aneliti brucianti di potere, la volontà di vendetta, odi, invidie cocenti. Pochi decenni dopo la conquista longobarda dell'Italia, gli Avari, guidati dal re Cacano, si avventarono contro il Friuli, una delle porte della nostra penisola, la più fragile, sempre martellata dalle incursioni orientali. Il duca Gisulfo morì in battaglia, e allora la moglie, Romilda, si preparò con quanti restavano a difendere la città più importante, Cividale. La donna, quando il re degli Avari giunse sotto le mura di Cividale e lo vide a cavallo, giovane e fiero, circondato dai suoi uomini, se ne innamorò. Come abbiamo già visto, non seppe trattenersi e gli mandò a dire che lo avrebbe fatto entrare nella città, se poi l'avesse sposata. Cacano accettò; così si impadronirono gli Avari di Cividale e la saccheggiarono, portandosi via tutti gli abitanti sino al grande accampamento al di là delle Alpi che essi chiamavano Campo Sacro. Qui decisero di ucciderli tutti, tranne donne e bambini che vollero tenere come schiavi. Si salvarono fuggendo i figli del valoroso duca Gisulfo, anche i due più piccoli destinati alla schiavitù. Tra questi, Grimoaldo, futuro capo del grande ducato di Benevento, diede prova precoce del valore che un giorno avrebbe pienamente rivelato. Infatti riuscì a salvarsi sbalzando da cavallo con un colpo ben assestato della sua piccola spada il soldato che lo riportava in prigionia dopo che aveva tentato la prima volta la fuga. Il piccolo guerriero raggiunse in tal modo i fratelli che si erano messi al sicuro e li rese felici per ciò che aveva fatto. Le donne, dopo che gli altri erano stati uccisi, corsero il pericolo di essere violentate; e lo furono tutte, tranne le due figlie di Gisulfo, che, per evitarlo, riuscirono a escogitare un ripugnante stratagemma: si misero tra i seni dei pezzi di carne, lasciandola andare in putrefazione: ne venne una puzza tale che nessuno osò toccarle e furono vendute come schiave. La loro madre, che sperava che Cacano la sposasse, ottenne un orribile matrimonio. Il re le disse che glielo avrebbe concesso; ma questo fu il modo, stando al cronista: dodici Avari la violentarono per una notte intera e, all'alba, il re le diede il marito che la donna s'era «meritato»: un grande palo in mezzo all'accampamento, con la punta aguzza, ritto, sul quale infilarono Romilda. Come per allontanare l'attenzione da questo tremendo supplizio, lo scrittore--Paolo Diacono-- lascia per qualche pagina il triste racconto di violenze e passa a raccontare della sua famiglia. L'attaccamento alla stirpe, alla famiglia ed alla casa fa da contrappunto alla brutta storia di Romilda. Sono ancora gli Avari che si portarono via allora cinque fanciulli della famiglia da cui sarebbe disceso il cronista. Uno di loro, Lupicis, bisnonno di Paolo, una volta cresciuto non resistette al richiamo della propria terra; con un po' di pane, un arco e delle frecce, si mise in viaggio tra i boschi delle Alpi verso l'Italia. Un lupo gli apparve all'improvviso a guidarlo attraverso quelle solitudini e lo accompagnò, fino a quando l'uomo, allo stremo delle forze, senza più cibo, decise di ucciderlo e mangiarlo: gli puntò contro l'arco, ma la bestia scomparve. Tuttavia, ormai era destino che arrivasse. Stanchissimo, s'era messo a dormire e forse, in fondo, non avrebbe più voluto svegliarsi, stremato com'era e disperato, quando fece un sogno: «Alzati--gli diceva un uomo -- coraggio! Prendi la direzione verso la quale hai i piedi, così sdraiato; là è l'Italia». Si rimise in cammino, giunse ad una casa in cui abitava una vecchia che ebbe pietà ed anche un po' di paura di quell'uomo: infatti gli diede da mangiare quel tanto che gli bastava

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per reggersi in piedi ma non per ucciderla e derubarla. Lupicis giunse finalmente in patria: la sua casa aveva il tetto sfondato; tra i muri che erano rimasti e fra le erbacce s'alzava alta una pianta: stanco vi appese le armi, e così ricominciò per lui la vita. Gli nacque Arechi, da Arechi Varnefrido, da Varnefrido Paolo ed il fratello Arechi, che ebbe il nome del nonno. Ma, dopo questo intermezzo, che apre una parentesi insolita nella narrazione di vicende terribili, queste riprendono a scorrere dalla penna dell'autore. Paolo racconta che gli Slavi pagavano un tributo ai fratelli Tasone e Caccone, duchi del Friuli, figli del valoroso Gisulfo. Ma ecco che, regnando essi nella pace, questa fu violentemente interrotta dal patrizio bizantino Gregorio. Il perfido funzionario aveva promesso a Tasone che l'avrebbe adottato come figlio e i due fratelli si recarono da lui a Oderzo. Lì Gregorio avrebbe dovuto tagliare la barba a Tasone, rendendolo con tale cerimonia suo figlio adottivo. Ma, appena entrati in città, i due ed il loro seguito, si accorsero che erano state chiuse le porte alle loro spalle e li si voleva uccidere. Non c'era altro da fare che scambiarsi l'addio l'uno con l'altro, disperdersi nelle vie e nelle piazze, difendere fino all'ultimo la vita. Finirono tutti uccisi. Gregorio mantenne a modo suo la promessa: si fece portare la testa, mozzata, di Tasone e gli rasò la barba. Così lo adottò come proprio figlio.

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Capitolo settimo. La guerra. Gli uomini di chiesa condannarono per tutta l'età medievale lo spargimento di sangue, salvo giustificarlo, più o meno calorosamente, a seconda dei luoghi e dei tempi (e degli intellettuali che ne trattarono), al fine di difendere o dilatare la Chiesa di Dio, proteggere i deboli, salvare l'ordine dello stato. Tuttavia, se leggiamo trattati, omelie, vite di santi, l'esercizio della forza fisica, con esiti, ovviamente, spesso cruenti, emerge come fatto che ripugnava agli autori. Ma questo atteggiamento, in verità, è più posizione di dottrina che convinzione profonda: lo si vede enunciato, ma, poi, nel resoconto dei fatti, nel tratteggio di biografie e azioni di laici valorosi, avvertiamo spesso sia un'adesione sottile, sia, talora, aperta, all'impiego della forza, alla morte in battaglia. Chi ha studiato il clero e la nobiltà laica ha troppo insistito sulla separazione di due mondi, su due sfere di funzioni, su due culture (in senso lato) diverse. Veramente, anche il pio monaco, che spesso proveniva da famiglia nobiliare e che, comunque, viveva in un'epoca di guerrieri (prima tutti gli uomini liberi, poi quasi solo i nobili), aveva una sua cultura più radicata, sotterranea e pervicace di quella che doveva ufficialmente enunciare e in cui spesso si sforzava di credere. Un chierico colto e pettegolo, misogino e moralista come Liutprando, futuro vescovo di Cremona, che scrive a cavallo della metà del secolo X, non ha occhi che per le glorie militari--se così possiamo dire-- quando voglia raccontare con passione un avvenimento. Così fa per la morte di Anscario, marchese diSpoleto, un temerario che egli preferisce al fratellastro, Berengario d'Ivrea, il futuro re d'Italia, astuto e cauto. Il re di allora, Ugo, aveva deciso di far uccidere Anscario, come ci racconta Liutprando, nonostante fossero consanguinei. Dopo un combattimento impari, superato dalle soverchianti forze dei nemici, Anscario sta per morire. Di fronte, ormai, ha uno dei capi avversari, un traditore che lo incalza, vedendolo ridotto a mal partito con la lancia spezzata, senza più la parte che portava il ferro e la punta; ma con questo mozzicone d'arma Anscario si getta a cavallo contro il vassallo spergiuro, gli spinge l'asta rotta in bocca con una forza tale da farla uscire sanguinolenta dalla testa. Poi inpugna solo la spada e ammazza molti uomini, finché gli sono addosso in tanti e il cavallo scivola, all'indietro, in un gran buco, schiacciandolo contro la terra mentre un nugolo di frecce lo uccide. La fisicità della battaglia -- ben più lunga dell'episodio che abbiamo riportato -- è narrata con un realismo attento e compiaciuto, e la condanna è solo per la superiorità numerica del nemico, l'inganno orchestrato dal re, il tradimento del vassallo e, alla fine, la soddisfazione di Ugo e del nuovo marchese di Spoleto vergognosamente germogliate su di una morte valorosa. Anche dell'accanita battaglia di Fiorenzuola d'Arda, che portò alla sconfitta di Berengario I, nel luglio del 923, Liutprando ci fornisce un racconto preciso, insistendo sulla gran strage di uomini dall'una e dall'altra parte, senza accenni di pietà, salvo la notazione che un capo, alla fine, ordinò ai suoi di smettere lo spargimento di sangue mentre gli uomini di Berengario fuggivano annientati. Segue il resoconto dell'assassinio di Berengario, colpito alla schiena e finito davanti ad una chiesa di Verona: il sangue piovve abbondantemente su di una pietra davanti alla porta della chiesa, e ancora ai tempi di Liutprando-- questi ci dice--nessuno era riuscito a lavarlo; così-- aggiunge -- la macchia rossa rivelava la perversità dell'azione, condotta a termine con l'inganno. In un periodo di poco anteriore, le riflessioni di Oddone, secondo abate di Cluny, sulla guerra e, nella sua Vita del santo conte Geraldo di Aurillac, la narrazione del comportamento di questi, rivelano un atteggiamento certo non compiaciuto di azioni pesantemente violente. Nelle Collationes, Oddone augura al nobile, cui Dio ha consegnato la spada per mantenere l'ordine sociale, di poterla restituire a Lui, un giorno, senza averla macchiata di sangue. Nella biografia di Geraldo tiene a sottolineare che il conte non ferì mai nessuno, che, anzi, come abbiamo visto, quando era inevitabile lo scontro militare, egli ordinava ai suoi uomini di combattere con le lance rovesciate. E un sogno monacale, questo, di impossibile realizzazione, inaccettabile in una società che esigeva l'uso della violenza per una difesa quasi quotidiana: tant'è vero che le successive rielaborazioni della Vita di Geraldo espunsero questa, come quasi tutte le altre annotazioni tese a proporre la figura di un laico monasticamente addomesticato. Tuttavia, al di là del rifiuto della violenza, l'attrattiva della forza fisica e della destrezza sportiva nobiliare non risparmiano nemmeno Oddone, se, dicendo della vita quotidiana del suo santo, si compiace di esaltarne appunto la forza, sino alla notazione in cui ci ricorda che era capace di saltare nella corsa al di là della spalla di un cavallo. Dunque, anche per un uomo di chiesa come il secondo grande abate di Cluny, teorizzatore della domesticazione della forza a difesa dei deboli e a contenimento dei violenti, tuttavia ciò che caratterizzava la sostanza della vita nobiliare, ossia la destrezza nell'uso delle armi e l'agilità del corpo, costituiva un qualcosa di cui non era facile sbarazzarsi. Non ci spiegheremmo questo se non considerassimo che in ogni strato sociale, ad ogni livello di funzioni (laiche o ecclesiastiche), cioè ad un livello culturale in senso lato -- intendiamo, di mentalità--, l'attitudine alle competizioni militari era reputata la dote per eccellenza; tale da far vibrare le corde del sentimento anche in un monaco accanito stigmatizzatore della violenza.

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Negli scrittori del secolo X appare già l'attenzione alla guerra ed all'addestramento militare come funzioni di un ceto ristretto, quello nobiliare; le stesse azioni competitive in battaglia ci vengono proposte come gesti di coraggio e di forza di singoli, che sono i membri del ceto, appunto, dei nobili; o, anche, come caratterizzanti le attitudini di un gruppo famigliare-- in senso lato--appartenente alla nobiltà. Nei Gesta Berengarii, difatti, è chiamato in causa il valore dei Supponidi, detti così, nella fonte, dal nome Suppo ricorrente in varie famiglie dell'aristocrazia legate da vincoli di sangue. La rappresentazione letteraria rispecchiava una evoluzione profonda verificatasi nella società europea dall'VIII al X secolo: la progressiva restrizione nelle mani di guerrieri professionisti della prerogativa di difendere coloro che, invece, vedevano sempre più sottratto loro tale compito insieme, più generalmente, ad ogni capacità pubblica. Già nel secolo IX, molti uomini liberi, piccoli o medi proprietari, non sono più chiamati alle armi, nello stesso tempo che perdono il diritto-dovere di assistere ai processi, costruire ponti e strade e svolgere altre attività civili. Si tratta di un fenomeno scandito con forti diversità da zona a zona, molto meno incisivo, ad esempio, in Italia rispetto alla Francia; tuttavia è aperta la strada ad un processo di aristocratizzazione della società destinato ad accentuarsi col tempo e che coinvolge anche la sfera economica, quella religiosa e culturale, svolgendosi con accentuazioni diverse nei diversi settori, ma influendo su tutti: chi era vincolato, dal beneficio concessogli dal re, al servizio militare, alla presidenza o assistenza ai processi, ad altri compiti pubblici, in genere si dava presto da fare per sfruttare la propria carica accumulando ricchezza, come le leggi carolinge ostinatamente denunciano: ecco la ripercussione del fenomeno dell'aristocratizzazione nella sfera economica. A livello culturale, più tarda è l'elaborazione della teoria dei tre ordini (guerrieri, oranti, agricoltori); tuttavia, di fronte ad una realtà mutata, si sente il bisogno di rappresentare diversamente che nel passato la società. Ma ancora nel secolo IX, l'annalistica, le cronache, le storie propongono azioni militari etniche, di popoli interi, o di loro eserciti, o di capi che li guidano, relegando su di un piano marginale descrizioni di combattimenti singoli (spesso collegati --si badi--anche se non esplicitamente, al valore militare del popolo o della stirpe, nel senso di un vasto raggruppamento tribale). Paolo Diacono, che scrive nella seconda metà del secolo VIII, dopo la caduta del regno longobardo nelle mani dei Carolingi, narra che Gisulfo, nipote di Alboino, pretese le migliorifarae (le stirpi), quelle con una sicura tradizione di alto valore militare, prima di accollarsi il comando del Friuli, terra di frontiera quanto mai bisognosa di guerrieri provetti. Ottenne dal re questo, e mandrie di cavalli robusti, anch'essi indispensabili per la difesa di quei luoghi. Le scorrerie batterono a lungo sul Friuli, in seguito, e Avari e Slavi ebbero modo di mettere a dura prova subito Gisulfo e le sue farae: il duca morì in combattimento con i suoi uomini, Cividale fu saccheggiata. La forza e il valore trasmessi con il sangue nei discendenti della stirpe sono accampati da Paolo Diacono quando inizia a parlare del re Rotari, forse il più valoroso dei re longobardi: «Arioaldo, dopo aver regnato sui Longobardi dodici anni, venne a morire. Diventò allora re dei Longobardi Rotari, Arodo di stirpe». Tuttavia, già in età longobarda, e già prima ancora e altrove in Europa, il capo militare emergeva tra gli altri guerrieri e capi valorosi avevano discendenti valorosi che limitavano entro ambiti più circoscritti della stirpe la tradizione del coraggio e della forza. Via via si enucleavano famiglie -- in senso largo -- di professionisti della guerra, sia per l'esigenza di un addestramento militare sempre più complesso di fronte a invasori che arrivavano dall'Oriente padroni di difficili tecniche di combattimento, sia per la necessità di controllare meglio organismi statali che si facevano accentrati, attraverso famiglie di fedeli, spesso legate al re da vincoli di sangue, sia per il bisogno di collocare persone di fiducia nelle zone di frontiera che i Carolingi allargavano progressivamente, sia per l'evoluzione in forma di luogo d'esercizio del potere delle grandi proprietà fondiarie, sia infine per l'affermarsi di nuovi vincoli, di natura personale e feudale, tra gli uomini. Un insieme di fattori, che comunque avevano alla base la necessità di difendersi e di assalire, fecero sì che una classe militare uscisse dalle originarie folle di guerrieri guidati da capi. La nobiltà fu destinata a non perdere, per molti secoli, quella connotazione di classe guerriera che farà dire al barone di Charlus della Recherche proustiana: «So che non è di buon gusto parlare delle virtù della propria famiglia. Ma è ben noto come i nostri siano sempre stati i primi nelle ore del pericolo. Il nostro grido d'arme, allorché lasciammo quello dei duchi di Brabante, è stato Passavant. Sicché, tutto sommato, è abbastanza legittimo che questo diritto d'essere dappertutto i primi, da noi rivendicato per tanti secoli in guerra, l'avessimo ottenuto poi a Corte. E, perbacco, qui ci è sempre stato riconosciuto». Nella città di Oderzo i Longobardi si erano difesi da valorosi, coerentemente con tutti gli atti di eroismo che Paolo Diacono attribuisce al suo popolo, che combatte sempre con onore, vinca o perda le sue battaglie. E un'epopea popolare nella quale, tuttavia, emergono sempre più e si stagliano vigorosamente le figure dei capi che, con la progressiva aristocratizzazione di quella società, resteranno alla fine quasi gli unici cui l'attenzione dello scrittore si volga. Con l'instaurarsi progressivo di una società feudale, poi, dopo la conquista d'Italia ad opera dei Carolingi, persiste, come abbiamo detto, l'epopea popolare, ma si affaccia l'esaltazione del valore militare del nobile.

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Con il trascorrere del tempo, l'esercito divenne il seguito di pochi armati a cavallo di un signore, conte, duca o re, anche se dietro ai cavalieri più prestigiosi ancora per un po' s'allineeranno i discendenti, rarefatti nel numero, dei liberi guerrieri longobardi. Ma il cuore di Paolo è per le gesta della sua gente, tutta quanta, e per quel periodo, avvolto nella leggenda, in CUi essi Si fecero strada dalle fredde terre della Scandinavia attraverso l'Europa, fino all'Italia. Giunto al limite della Calabria, Autari, il re più glorioso, forse, colpì con la lancia una colonna che sorgeva dalle acque del mare, sullo stretto, oltre il quale si vedeva la Sicilia, esclamando: «Qui sarà il confine del popolo longobardo! ». Leggende affascinanti fanno scorrere quel popolo attraverso le grandi pianure centrali dell'Europa, vincitore, accanito nella guerra come pochi altri. Così figure leggendarie accampano alte già alle origini della sua storia. Come colui che sarebbe stato il secondo re dei Longobardi, detto Lamissione, da Lama, che nella loro lingua voleva dire anche palude. Fu lì, in un acquitrino, che lo trovò, con altri sei fratellini abbandonati dalla madre ignota, Agilmondo, il primo re longobardo. Con la lancia s'era messo a frugare fra quel groviglio di corpicini, quando da essi s'alzò una piccola mano che gli afferrò vigorosamente l'arma: era il futuro re dei Longobardi, che il primo adottò, chiamandolo Lamissione. Egli vinse i Bulgari, vendicando l'uccisione del padre adottivo e--si diceva-- sconfisse le terribili Amazzoni. Alla vita si preferiva la morte, quando questa era la prova del valore militare o smentiva ogni sospetto di vigliaccheria. E nelle battaglie, spesso, esser coraggiosi significava morire. Un episodio narrato da Paolo Diacono dovette marcare per lungo tempo la memoria del popolo longobardo; se un'immagine di sconfitta doveva essere evocata, di strage subita, di ostinata volontà di essere annientati, agli occhi del ricordo una sola, forse, accampava su tutte le altre. Accadde quando ormai da tanti decenni i Longobardi dominavano l'Italia e dovevano limitarsi a difenderne i confini. A nord-est era il ducato del Friuli, sempre minacciato da incursioni slave, a quel tempo retto da Ferdulfo, un uomo superbo, ma valoroso. Fu durante un assalto degli Slavi che il comandante d'un presidio locale non riuscì a raggiungerli, dopo che essi avevano assalito dei pastori e si erano poi dati alla fuga. Il capo di quel manipolo di Longobardi si chiamava Argaid, un nome che si prestava facilmente allo scherno, dato che arga voleva dire vigliacco. Il duca Ferdulfo ne approfittò, apostrofandolo superbamente: «Quando riuscirai ad essere un valoroso, tu che hai avuto nome da arga?». L'uomo così rimproverato in realtà era un valoroso e gli rispose che avrebbe dimostrato chi di loro due fosse un vigliacco. L'occasione venne quando una banda di Slavi entrata nel Friuli si attestò su di un rilievo difficile da raggiungere. Il duca e l'altro, con i loro uomini, stavano sotto, e Ferdulfo cercava la strada meno impervia per assalire gli Slavi. Allora Argaid spinse il proprio cavallo su per il fianco più ripido del monte e invitò il duca a seguirlo, se ne avesse avuto il coraggio: così avrebbero visto tutti chi di loro era il pauroso. Il duca e tutti i guerrieri gli vennero dietro. Fu una strage: i nemici li vinsero senza nemmeno usare lance né spade, ma colpendoli con pietre e scuri, sbalzandoli dai cavalli sui quali si reggevano a fatica per la salita. Morirono quasi tutti, compreso il duca e l'uomo che egli aveva insultato. Gesta valorose di truppe e di singole persone riempiono il racconto di Paolo Diacono; è la prova della grandezza del popolo cui egli appartiene, ed un rimpianto, anche, perché Paolo scrive la sua opera quando ormai Carlo Magno ha conquistato il regno dei Longobardi, di CUi il nostro autore non ci ha tramandato la storia della sconfitta. Vigliaccherie, inganni, debolezze di capi dovettero essere tali da impedirgli di parlarne. A lui che, anche per il re del suo popolo ritenuto il più prudente, il più pio, nell elencarne le doti afferma subito: «Di grande valore nel combattimento». A prova di questo narra un fatto decisivo, che tanto più ci meraviglia se pensiamo che re Liutprando, stando a quanto ne sappiamo, non doveva essere un uomo particolarmente forte. Eppure un giorno si fece seguire fin dentro una fitta boscaglia da due guerrieri che sapeva volevano ucciderlo e, all'improvviso, sguainò la spada invitandoli a misurarsi con lui; quelli ne furono terrorizzati e gli si gettarono ai piedi. L'attitudine guerriera, si trattasse di laici o di ecclesiastici, era considerata caratterizzante, più che ogni altra capacità, dell'uomo nella pienezza dellapersonalità, anche se poi esso vi rinunciava, magari pur sempre per combattere sia pure contro il demonio e le sue tentazioni. I santi prediletti erano i santi guerrieri e spesso si immaginava che questi tornassero sulla terra a combattere, a provare di nuovo fisicamente ciò che amavano fare da vivi. Guidare ancora eserciti, terrorizzare i nemici, impugnare lancia e spada, cavalcare nel mezzo della battaglia era aspirazione--si credeva--di coloro che erano morti come di quanti continuavano a vivere. Nei primi tempi della conquista longobarda dell'Italia, al duca di Spoleto Ariulfo che era un soldato valoroso accadde di combattere una battaglia diversa dalle solite cui era abituato. Difatti, mentre contrastava validamente le truppe bizantine, si trovò ripetutamente esposto a colpi pericolosi degli avversari. Un guerriero, però, che egli non conosceva, lo difendeva ostinatamente, combattendo con audacia. Terminata vittoriosamente la battaglia -- racconta Paolo Diacono -- il duca chiese ai suoi uomini chi si fosse destreggiato meglio di tutti in quel combattimento. «Nessuno ha usato le armi meglio di te, o duca!» gli risposero. Ma egli insisté che un altro lo aveva nettamente superato e se ne andò pensieroso. Finché, giunto a Spoleto, entrò in una chiesa che non aveva mai visitato, dedicata a San Savino. Guardando le pareti, ad un

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tratto si fermò: aveva riconosciuto nel volto di San Savino, là raffigurato, quello del soldato valorosissimo che gli aveva difeso la vita. Non riusciva a credere che un morto tornasse sulla terra per combattere accanto ai vivi; ma Paolo Diacono commenta ironicamente i dubbi del valoroso duca informandoci che era pagano ... altrimenti, come tutti gli altri guerrieri guadagnati alla fede cattolica, avrebbe trovato ciò del tutto normale. Molto tempo più tardi, infatti, quando i Longobardi ormai erano stati in gran parte convertiti, all'antiré Alachi bastò vedere avanzare l'immagine dell'arcangelo guerriero San Michele tra le schiere del nemico re Cuniberto per non avere più il coraggio di affrontare la battaglia per lui decisiva. Fu inutile che uno dei suoi gli dicesse che aveva le traveggole, che l'immagine l'aveva vista solo con gli occhi della paura: si lasciò uccidere. Il suo corpo, come abbiamo già scritto, fu orribilmente mutilato. Gli venne tagliata la testa, gli spezzarono le ginocchia; a un ammasso informe fu ridotto il corpo di quell'uomo valoroso che in un precedente conflitto, vergognandosi di avere ucciso un diacono che, mascherato dall'elmo, portava le stesse armi del re Cuniberto, aveva esclamato: «In questa battaglia abbiamo solo ottenuto di uccidere un chierico! Se Dio mi darà vittoria nel futuro, faccio voto di colmare un intero pozzo con testicoli di chierici!».

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Capitolo ottavo. La nobiltà. In un'epoca in cui non era concepibile astrarre l'individuo dal gruppo al quale apparteneva, il suo valore e le sue capacità affondavano le radici nella continuità della famiglia, anzi della stirpe e più largamente, soprattutto agli inizi del Medioevo, del popolo. Storia dei Franchi, Storia dei Longobardi, Storia dei Sassoni, Storia degli Angli: non era possibile raccontare diversamente le cose. Paolo Diacono ci ha tramandato una breve ma appassionante epopea del suo popolo, i Longobardi, esaltandone il valore militare, la generosità, la forza, piangendone amaramente le debolezze. Ad un certo punto della cronaca, egli inserisce la storia della sua famiglia, risalendo indietro nel tempo sino al suo bisnonno: uno sforzo notevole, per quei tempi così poveri di documenti scritti, prova della grande propensione a interrogare a ritroso la trasmissione della vita, delle virtù, delle debolezze. Ma, prima, aveva già scritto che nel Friuli, la sua patria, quando Alboino scese in Italia, s'erano fermate le stirpi migliori: così anche la sua famiglia ne faceva parte, discendente da una delle stirpi più valorose. La nobiltà era dunque questa: l'eredità, col sangue, di una tradizione esaltante che a quel tempo poggiava anzitutto sulla forza ed il valore militare, sul coraggio. In pieno '300, molti secoli dopo, gli operai ed i poveri artigiani, che a Firenze si ribellarono al potere costituito, venivano chiamati «gente senza nome», «gente nata ieri», contrapposti a coloro che vedevano legittimati ricchezza e potere dalla trasmissione di questi per un lungo arco di tempo. Proprioallora le grandi famiglie si cercarono antenati di ascendenza millenaria, convinti che solo un tempo quasi immensurabile potesse giustificare pienamente la loro nobiltà. Nei primi secoli del Medioevo, però, le vicende militari, le difficoltà stesse dell'esistenza potevano rendere precaria la nobiltà di una stirpe, di un popolo intero, ne decretavano spesso anche la fine. Perciò le stirpi nobili nascevano e morivano, si sostituivano facilmente l'una all'altra, e la libertà, che era sinonimo di nobiltà, non escludeva dal suo possesso gli stessi servi in ascesa sociale. In battaglia, il re longobardo Lamissione promise ai servi la libertà in cambio di un comportamento valoroso. Più tardi, i re carolingi spogliavano anche delle cariche più alte coloro che se ne erano dimostrati indegni. Nell'impero carolingio solo la stirpe regia assicurava alla maggior parte dei suoi membri, dopo il secolo VIII, la trasmissione della proprietà terriera e del potere. Per tutti gli altri una drammatica precarietà di vita, che coinvolgeva l'economia, la società, le istituzioni, rendeva difficile l'eredità delle prerogative nobiliari. Dopo, soprattutto a iniziare dal XII secolo, basterà la nascita ad assicurare al nobile il segno indelebile di una profonda distinzione sociale. Se nelle biografie dei personaggi pii vissuti nei secoli V, VI e VIII la saggezza, la generosità, la continenza, l'uso moderato del cibo e delle bevande, e, spesso, una vita eremitica, bastavano a spiegarne la santità, dal secolo X in poi l'autore delle «vite» di uomini ritenuti migliori di altri nella scala della perfezione spirituale si sentirà in dovere di dimostrare la nobiltà della loro origine. Non poco imbarazzo dovette affrontare chi scrisse la biografia di San Giovanni di Gorzia, il grande riformatore benedettino vissuto nel secolo X, poiché questi non era di famiglia nobile. Ed ecco che l'autore si sforza di mostrare che i genitori del santo erano abbastanza ricchi: ma tutte le sue parole tradiscono una situazione famigliare non brillante, quando, ormai, non erano sufficienti la libertà ed un certo benessere per dar titolo ad essere chiamati nobili. La società ormai era percorsa da quel processo di avanzante aristocratizzazione tesa a caratterizzare ogni aspetto dell'attività umana, compreso l'esercizio di una vita santificante. Gli ecclesiastici, appunto, quando scrivono di stili di vita religiosi, tendono ad accompagnare alla trasmissione nel tempo della nobiltà quella di una vita particolarmente dedita alle pratiche religiose, alla carità, alla preghiera. Il padre del santo conte Geraldo di Aurillac, di famiglia aristocratica, era solito, a intervalli di tempo, non dormire con la propria moglie: quasi un avvio alla perfetta castità del figlio. Il biografo ci racconta tale abitudine tutto compiaciuto, forse quanto lo è nell'elencarne gli antenati illustri, legati da parentela alla stirpe regia. Nel '200 inoltrato, Luigi IX, il santo re della Francia, a detta del suo biografo ammonì un maestro della Sorbona a non vestirsi in modo troppo ricercato, date le sue umili origini; anche se, contemporaneamente, si sottometteva al suo sentimento cristiano, consigliando a chi, come il re, aveva rimproverato il maestro della Sorbona, di non farlo più, perché quest'ultimo ne soffriva. E certo che il biografo di San Luigi, il celebre sire di Joinville, non transigeva con chi era meno nobile di lui, o non lo era affatto, o, comunque, con quanti non rispettavano l'etichetta dettata dalla gerarchia. Il formalismo era destinato a irrigidirsi con il tempo: un altro celebre biografo di un celebre re, Saint-Simon, dà uno spazio preponderante al resoconto delle ascendenze nobiliari delle famiglie di Francia ed al loro ossequio dell'etichetta. Più risentito del settecentesco biografo, il proustiano barone Palamède de Charlus non rinuncia alla convinzione di appartenere alla più nobile famiglia di Francia; tutto quanto egli dice sulla sua famiglia in fatto di nobiltà, cumulo di titoli, precedenze e privilegi appaga il suo compiaciuto orgoglio nobiliare. Ma non si dimentichi che Charlus tiene a chiarire, anzitutto, che i suoi antenati sono sempre stati i primi ad accorrere al combattimento nelle ore del pericolo: questo è il passaporto che ha varcato i secoli per giustificare i privilegi della stirpe dei Guermantes, cui Palamède de Charlus apparteneva. Di questo aspetto, più antico, più genuino, della tradizione nobiliare, cioè il coraggio, l'incarnazione nel romanzo di Proust non è certo il nostro barone, ma il nipote Robert de Saint-Loup, immolato, giovane

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ufficiale, sul campo di battaglia, per salvare i suoi uomini. Dopo un'esistenza da intellettuale democratico e da viveur ostinato a voler apparire intelligente e aperto, solo nella morte egli tocca l'espressione migliore di se stesso; un attimo di coraggio che apre allo scrittore, a Proust, lo spiraglio su tutti quegli aspetti della personalità di Saint-Loup che prima non aveva osservato o aveva semplicemente sottovalutato: il muoversi agile, proprio come un uomo votato alla guerra, anche fra i canapè d'un salotto elegante; l'aver schiaffeggiato una sera un insolente giornalista reo di scarsa cortesia; l'ingenuità e la forza dei suoi sentimenti amorosi; fino al ricordo di una testa che solo dopo la morte appare essere stata triangolare, rigida, con lo sguardo azzurro fermo. Il tocco finale, il sigillo ad una vita in fondo solo apparentemente diversa dalla fine, è il gran segno dei Guermantes, una «G» maiuscola sulla bara, che indicava come l'uomo era tornato a far parte della sua stirpe. Medioevo proustiano, questo, ma -- si badi -- soprattutto persistere di una tradizione di lealtà coraggiosa, il miglior emblema della nobiltà nella sua terra d'elezione e di maggior radicamento nella civiltà del paese: la Francia. Quante consonanze fra il Proust della «Recherche» e il Bloch della «Strana disfatta», quante espressioni di solidarietà profonda alla tradizione di coraggio della nobiltà e dell'ufficialità militare francese, in corrispondenza con l'esaltazione del valore in guerra di contadini e operai, quasi per nulla di borghesi... Dieci secoli prima, i nobili che parteggiavano per Berengario, re d'Italia, contro Rodolfo di Borgogna s'erano fatti massacrare per difenderne la corona. Al punto che uno dei due capi delle truppe di Rodolfo ordinò ai suoi uomini di non uccidere più i nemici ma di colpirli con il rovescio delle armi, come abbiamo già scritto. Il cronista italiano di quella sanguinosa battaglia--una delle più cruente dell'epoca--conclude scrivendo che molte famiglie nobiliari ne uscirono decimate, che l'intera nobiltà italica si rarefece paurosamente dopo l'eccidio. Valore e generosità, anche se la ferocia sollecitata dal sangue spesso vi s'accoppiava, segnano di una caratteristica marcata il comportamento nobiliare.

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Capitolo nono. La casta sacerdotale. Il Medioevo, soprattutto nell'età feudale, fu in Europa l'epoca degli uomini di Chiesa, sacerdoti e monaci. Le fondazioni pie, luoghi di culto e di assistenza ai poveri, oltre che di preghiera, sorgevano dappertutto, piccole o grandi; esse erano una caratteristica dominante del paesaggio, concorrendo con le fortificazioni, castelli, torri e mura, a dargli una fisionomia destinata a durare per secoli. La paura dell'aldilà, la presenza incombente delle pene infernali che scuotevano l'immaginazione di uomini istintivi ed impressionabili, li spingevano a mettersi all'ombra di una chiesa, di un ospizio, di un monastero, donando ad essi i propri beni e richiedendo in cambio una preghiera costante dopo la morte. Fu così che aumentarono le proprietà del clero e aumentarono gli ecclesiastici con il passare del tempo, assicurati nella loro sussistenza da cospicue donazioni. Dai piccoli lotti di terra conferiti da contadini di mediocre condizione, alle vaste estensioni donate dalla nobilità e dai re, si venne formando una somma di beni inferiore solo a quelli della corona. Nella seconda metà del secolo IX, il monastero piacentino di San Colombano di Bobbio aveva già accumulato parecchie decine di grandi proprietà fondiarie. Erano le cosiddette «corti», costituite da una parte gestita in economia, lavorata dai servi domestici, sprovvisti di poderi, e dalle corvées che su di essa erano tenuti a compiere molti dei coloni insediati sulle terre circostanti l'area centrale, concesse loro in affitto. Più di 600 coloni aveva Bobbio a quel tempo; un migliaio erano i coloni del monastero di Santa Giulia di Brescia; di analoghe folle di coltivatori dipendenti disponevano tanti altri enti monastici nell'Italia del tempo. In Toscana, San Salvatore dell'Amiata e Sant'Antimo, nel Senese, gareggiavano con i potenti monasteri del Nord e con quelli del Centro e del Sud, tra i quali Santa Maria di Farfa e San Vincenzo al Volturno. Alcuni esempi questi, fra decine di grandi cenobi, di fondazione regia quasi tutti, che raggiunsero ricchezza e celebrità eccezionali con il trascorrere degli anni, toccando l'apice nel secolo X. Le chiese vescovili disponevano in genere di una ricchezza inferiore a quella delle abbazie; come la cattedrale di Modena, sempre in conflitto, per motivi di proprietà, con la vicina abbazia regia di Nonantola. Ma, se le famose comunità monastiche, le più prestigiose sedi vescovili detenevano il primato della ricchezza, del potere e della cultura, una miriade di piccole chiese, di piccoli monasteri concorrevano con le prime per l'altissimo numero a cui assommavano. Dai passi alpini ed appenninici alle basse pianure paludose, ai litorali malsani del mare, migliaia di fondazioni di culto e di assistenza a poveri e viandanti si offrivano in successione continua a chi allora si metteva in viaggio da una regione all'altra dell'Italia. Non diversamente stavano le cose nelle zone transalpine, dove primeggiavano le abbazie illustri di Corbie, in Francia, di Fulda, Reichenau, San Gallo, Prüm, nelle terre di lingua tedesca. Centinaia di monaci affollavano i grandi monasteri; tutti dediti ad una pesante liturgia, all impetrazione continua della pace, della sicurezza dell'Impero e dei Regni, della fede cristiana, alla celebrazione della ricorrenza degli anniversari di morte dei grandi personaggi; centinaia di poveri venivano sfamati mentre si alzavano i canti dalle bocche dei confratelli a rimedio delle anime dei potenti defunti. Nelle piccole chiese, nei piccoli monasteri, sparsi nelle campagne e nei villaggi, si pregava per uomini sconosciuti, cui la salute dell'anima era assicurata dal dono di un campo, di un vigneto, di una fetta di bosco ai sacerdoti ed ai monaci. Pur persistendo culti pagani nella folla dei rustici, questi si legavano sempre maggiormente alle chiese, spesso confondendo le pratiche, credendo ad una fede naturalistica antica ed agli insegnamenti della religione cristiana, in un'ibrida commistione che noi, ancora oggi, ben poco conosciamo. Dalle leggi longobarde a quelle carolingie, i re stessi debbono vietare i culti pagani tributati alle forze della natura, ad alberi, fonti, sorgenti, rocce, considerati sacri perché vicino ad essi i rustici si adunavano a compiere pratiche antiche. Molti chierici credevano alle stesse cose cui prestavano fede i contadini e tremavano se la luna s'oscurava, se in cielo appariva per lunghe notti una cometa, se un mago pronosticava calamità. Grandine, tuoni e lampi si credeva fossero manifestazioni dell'ira divina, come di divinità pagane così anche del dio cristiano, quando la paura causata da guerre e malattie si accompagnava a tali fenomeni naturali. Potevano nascere ed essere raccontate leggende paurose: grosse pietre che cadevano dal cielo assieme alla grandine, fulmini che castigavano gli uomini incendiando i villaggi di una regione, piogge di sangue, simboli di guerra proiettati nelle figure rosseggianti di un cielo al tramonto dove si vedevano spade, lance, cavalieri in marcia verso un paese lontano. Su questo sfondo di credenze, pagane o cristiane, ma pur sempre sollecitatrici di paura, è facile capire come chi rappresentava sulla terra la divinità, mago o sacerdote, fosse guardato con rispetto, venerazione, come la malattia piegasse gli uomini a temere la morte e ad accattivarsi il clero elargendogli i propri beni. Così il clero, soprattutto l'alto clero, si arricchiva ed il suo stile di vita si allineava a quello dei nobili, negli abiti stessi, nella vita di ogni giorno. Ripetutamente i re carolingi debbono proibire agli abati, alle badesse, ai vescovi, e a tutto il clero, di andare a caccia. E il grande abate di Cluny, Oddone, scrive, come abbiamo visto, che Dio ebbe in dispregio Esaù perché era cacciatore; perché la caccia distrae dalla riflessione e scatena istinti incontrollabili. Da una Chiesa umile--quella dei primi secoli--

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via via si giunge alla Chiesa ricca, cattedrali e abbæie floride e potenti, vescovi e abati splendidamente vestiti, amanti dei cavalli, dei cani, delle grandi mangiate, non diversamente dai nobili laici ai quali spesso sono imparentati. Nello stesso tempo, reazioni violente ad una società che diventava sfarzosa ed oppressiva in chi doveva rappresentarne il meglio scoppiavano in tutti gli strati della medesima. Dalle rivolte dei rustici alle crisi di coscienza dei potenti: conti che abbandonavano la loro carica e la ricchezza per entrare in monastero, come quei due che si adattarono nella comunità dei monaci piemontesi della Novalesa ad accudire ai porci. Nel secolo X, il secolo di ferro, le conversioni sono innumerevoli, a cominciare dal conte di palazzo Sansone che si fa monaco oscuro e penitente, scadendo dalla carica più alta in Italia, dopo quella del re, a umile servo di Dio. Bastava un avvenimento che colpisse quegli uomini impulsivi, la vista della sofferenza di altri, un sogno premonitore, una malattia a gettarli su di una strada opposta a quella che essi percorrevano. Come accadde a San Giovanni di Gorzia, colpito dalla conoscenza di una donna che portava sotto le vesti uno strumento di penitenza: veder sopportare, per la fede, il dolore da una donna bastò all'uomo per spingerlo alla mortificazione dei sensi. Spesso era la materialità e la fatica, anche, dell'educazione nobiliare, tutta dedita agli esercizi militari, oltre che alla caccia, a fiaccare e nello stesso tempo a convincere di vivere una vita troppo assorbita dalle attività fisiche animi sensibili, come quello del futuro grande abate di Cluny. Per tre anni -- egli racconterà in seguito ad un suo discepolo -- fu tormentato da un terribile mal di testa che, a sua detta, gli era causato dagli esercizi militari e dalla caccia. Decise, allora, di uscire dalla corte del duca di Aquitania, Guglielmo il Buono, e non fu più cavaliere, ma canonico, poi eremita, poi monaco. Ancora poco tempo prima di morire, tuttavia, Oddone rimpiangeva la forza fisica della sua giovinezza trascorsa nell'uso delle armi, dei cavalli, dei cani: «Allora tutti dicevano che ero bello e forte ed ora tu mi vedi vecchio e brutto». Egli avrebbe voluto che anche il potente conte di Reims, Fulcone, detto il Buono (si diceva che volesse lasciare la vita di cavaliere), lo seguisse nella milizia di Dio, ma l'amico non si decise a farlo, forse restando nel secolo per meglio poter influire sulle sue vicende. Perché molti nobili vivevano nel secolo religiosamente, sfruttando la loro alta carica per aiutare la povera gente ed i monaci, i preti bene intenzionati. Così visse--ci racconta sempre Oddone nella biografia che ne scrisse -- il potente conte Geraldo, che abitava ad Aurillac, nell'Alvernia, a cavallo del secolo X. Anche Geraldo era passato attraverso una dura e fastidiosa malattia, che Dio gli aveva mandato per punirlo di un grave peccato. Dopo aver superato la tentazione, della quale abbiamo parlato sopra, il conte Geraldo volle punirsi: cavalcò un'intera notte al freddo; anche per spegnere definitivamente gli ultimi guizzi di una fiamma troppo impetuosa. E in seguito lo punì anche Dio, colpendolo con una lunghissima cecità. Guarito, visse da santo, si fece una tonsura sul capo, come un monaco, e di giorno la copriva con un berretto; ma la sera, finalmente, poteva darsi tutto a Dio, lui monaco nel secolo. D'altro canto, il mantenimento della carica comitale in un periodo di gravi disordini--«turbato l'ordine del regno a causa della prepotenza dei marchesi», scrive Oddone--permette a Geraldo di difendere dagli abusi dei potenti quanti gli sono affidati. Monaci, vescovi che diventano monaci, nobili che anch'essi entrano nel chiostro o vivono monasticamente nel mondo, in gran numero, costituiscono la risposta ed il contrappeso ad una trasformazione delle strutture sociali in senso sempre più aristocratico, con metodi di assoggettamento degli uomini e di appropriazione delle loro terre spesso violenti. Violenza, coscienza di un sistema violento, crisi all'interno di un tale sistema, generano numerosi casi di contestazione che si risolvono, tra l'altro, in riforme monastiche intese a riportare la vita dei cenobi ai compiti prettamente religiosi che essa aveva qualche secolo prima. Violenza e pietà sono il binomio entro il quale oscillano la coscienza e le azioni di alti ecclesiastici e di nobili potenti: una forte umanità tratteneva gli uomini, molti uomini, dall'abusare del loro potere. Un potere cui spesso rinunciavano o che esercitavano equamente.

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Capitolo decimo. Crisi di coscienza e cambiamentidi stati di vita. Sono attestate con frequenza, lungo tutto l'arco cronologico del Medioevo, per molti personaggi, rotture brusche con il passato, abbandoni, defezioni. Così come sono emersi sino ad ora alla luce della ricerca storica, riguardano nobili e, più tardi, mercanti. Tuttavia, salvo colpi di sonda in questo ambito di problemi, manchiamo ancora di ricerche sistematiche in grado di farci dosare realisticamente il fenomeno. Anche in questo caso, mentre per i primi secoli del Medioevo le fonti raccontano di crisi e mutamenti nello stato di vita degli umili o, comunque, di personaggi comuni--pur dicendoci le stesse cose di potenti--, con il passare del tempo esse sembrano rivelare un'attenzione esclusiva, o quasi, alle «conversioni» di uomini (ma anche di donne) in vista. Si tratta di fonti da collocarsi a livelli sociali elevati, frutto, inoltre, soprattutto, della cultura che esprime l'evoluzione in senso aristocratico dei ceti dirigenti di allora. Se, quindi, esse vanno interrogate con cautela, come non esaustive, nello stesso tempo riflettono largamente la realtà: infatti, irrigiditesi le funzioni dei vari livelli in cui la compagine sociale si articolava, relegati a vincoli di lavoro manuale i compiti dei ceti subalterni, per questi i cambiamenti di stato dovevano essere più difficili che prima. Per quanto concerne la nobiltà, pur riscontrandosi motivazioni diverse a seconda dei luoghi e dei tempi, la molla di base del ripudio della vita passata stava soprattutto nel sopravvenire del fastidio per la violenza. Da guerrieri a chierici e poi a monaci oppure da guerrieri a monaci: questo è il cammino che sovente è prospettato nelle biografie di pii personaggi, si tratti di opere agiografiche o di cronache legate alle vicende di chiese episcopali o di famosi monasteri; ma un po' tutte le fonti narrative raccontano in questo modo le «conversioni». L'attrazione verso uno stile di vita perfetto, o comunque migliore, e il ripudio di quello passato sembrano sollecitare le coscienze, soprattutto a iniziare dal tardo secolo IX e dal X quando appunto, la nobiltà si va irrigidendo come ceto chiamato particolarmente al mestiere delle armi e, quindi, alla pratica, spesso quotidiana, della violenza. In molte circostanze, il cambiamento di stato di vita, cioè normalmente l'entrata in un monastero, avviene al finire di un'esistenza guerriera: è il caso del re longobardo Rachis, come di tanti altri personaggi segnati da pesanti compiti militari. E questo è più che un indizio che la «conversione» costituisce la risposta, al negativo, alla funzione militare e interessa, seppur con scansioni diverse, tutto il periodo medievale e ben oltre: basti per tutti il riferimento a Ignazio di Loyola. Tuttavia, a seconda delle situazioni e dei caratteri infinite erano le modalità concrete di tale risposta. Per ricordare un altro esempio famoso, Ludovico il Pio mescolava continuamente la propria attività di re a pratiche liturgiche degne di un chierico scrupoloso, e Luigi IX, nel secolo XIII, non fu molto diverso da lui. Altri passavano periodicamente il loro tempo in monastero, magari il monastero di famiglia; altri vi entravano con la volontà di restarvi definitivamente, salvo uscirne, per sempre o temporaneamente -- quando circostanze gravissime lo richiedevano--, per il bene degli altri. Moltissimi si accontentavano di costruire monasteri affollati di monaci che pregassero per loro, trovando nell'attività liturgica di altre persone la compensazione di ciò che essi non potevano o non volevano fare. Ma non pochi, certamente, bruciavano i ponti dietro di loro e cambiavano radicalmente vita, senza ripensamenti e ritorni. La malattia accompagna spesso il periodo di transizione; e non esagereremo certo nel pensare che essa avesse origine da uno stato di depressione profonda, di grave turbamento; anche se la malattia può essere stata l'occasione propizia per riflettere a lungo -- nell'inoperosità imposta da essa -- sul proprio stile di vita, e sollecitare così il cambiamento. Come Oddone, molto più tardi Francesco di Assisi e Ignazio di Loyola vedranno interrotta da un periodo di malattia la vita antecedente la «conversione». Del resto, come è noto, malattia voleva anche dire purificazione (quindi in vista, pure, di uno stadio ulteriore sulla via del perfezionamento spirituale); spesso i santi vedono scandita la loro esistenza da stati di infermità successivi e progressivi in ordine alla gravità del male. Anche il conte Ansfrido--di cui ci parla l'autore del De diversitate temporum, il monaco di Metz Alperto, nel secolo XI--divenuto, da nobile cavaliere, vescovo, afflitto improvvisamente da cecità entra in monastero. Prima di passare dalla funzione di conte a quella di vescovo, Ansfrido, nei limiti concessigli dai suoi doveri secolari, si dedicava intensamente alla preghiera recitando il divino ufficio, tanto che «alcuni sconsiderati lo deridevano dicendo in giro che egli faceva una vita da monaco», come ci ricorda Alperto di Metz. Poi, divenuto vescovo, sopravviene la malattia che lo aiuta a spingersi ancora più in alto nella scala della perfezione, persuadendolo a farsi monaco: «Per buonvolere di Dio, spentosi il desiderio degli occhi e chiusasi la porta, così, all'occasione di peccare, il suo volto conservava esteriormente la dignità del vescovo nello stesso tempo che non aveva nulla dinnanzi da desiderare con i sensi. Cieco, poteva pensare a Dio e ritirarsi in se stesso meditando; in tale frangente gli avvenne di capire, quasi con terrore, che i fiori di questo mondo non sono che sporcizia davanti a Dio ... lasciò i suoi abiti fini e indossò la veste che dico non povera ma piuttosto angelica imposta dalla regola di San Benedetto».

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Crisi improvvise, più o meno lungamente vissute portano a radicali cambiamenti nello stato di vita delle persone; spesso gli scrittori dell'epoca non ne parlano espressamente, soprattutto quando si tratta di gente comune, per la quale la rottura con il passato non suscita alcuno scalpore: sono, questi, gli umili che entrano a schiere nella vita monastica fuggendo dal mondo, numerosi nella testimonianza dei Dialoghi di papa Gregorio Magno. Ma, con il trascorrere del tempo, oltre che un'evoluzione aristocratica nella mentalità delle persone dotte che scrivevano le biografie di altri, operò nel senso di una pesante selezione sociale dei biografati anche il mutato stato delle cose: la società, dal secolo IX in avanti, andava cambiando profondamente nelle sue strutture, segnate sempre più dalla presenza di un'élite nobiliare, via via quasi esclusiva detentrice delle capacità civili, dalla professionalità militare all'amministrazione pubblica all'accesso alle cariche ecclesiastiche più alte, secolari e regolari. Quindi, con il tempo, in effetti crisi di coscienza e cambiamenti di vita investivano soprattutto coloro, i nobili, che si erano largamente sostituiti agli altri nelle responsabilità del potere e dell'assistenza spirituale. Così gli storici del tempo, i trattatisti, i biografi dei santi parlano quasi soltanto delle conversioni negli strati più alti della società. Spesso, tuttavia, lo stile di vita monastico si assimilava--stante una certa educazione -- talmente alla vita laicale, da fondersi con essa e produrre nei laici uno stile di esistenza moderato, non-violento, regolato da una routine quasi monastica. E il caso, forse, del padre di Oddone di Cluny, un nobile potente che il biografo dell'abate dice conoscitore delle Sacre Scritture e assai morigerato nei costumi, al punto che in sua presenza si mangiava solo o ascoltando letture edificatorie o parlando di questioni religiose e morali. Ciò è volutamente scritto in polemica con opposti modi di vita, come emerge chiaramente sia dalle Collationes di Oddone, sia dalla biografia del conte di Aurillac: noi troviamo applicati nella vita quotidiana di questo i consigli e gli ordini che nelle leggi carolinge (i Capitolari) venivano dati ai conti; basti riferirsi all'ingiunzione fatta ad essi di non recarsi in stato di ebbrezza alle sedute giudiziarie. Evidentemente di norma succedeva il contrario di quanto scandiva la giornata dei potenti buoni; cioè i potenti si comportavano in genere come le leggi carolinge ostinatamente proibivano di fare. Al di là di ogni possibilità, almeno per ora, di dosare realisticamente il peso sociale dei due opposti comportamenti, un po' tutte le fonti, tuttavia, ci aprono un largo squarcio su di uno stile di vita segnato dalla violenza, dall'esibizione della forza fisica, dalla crudeltà, spesso. Tant'è vero che i pochi che sfuggivano alla regola di vita degli altri potenti, in misura più o meno larga, erano detti «Buoni» di soprannome: Geraldo detto il Buono, Guglielmo duca d'Aquitania detto il Buono, Folco di Reims, conte, detto, anch'esso, il Buono ... Relativamente pochi, costoro non lo erano in assoluto, perché non sarebbe difficile continuarne la lista, che, tra l'altro, in circostanze mutate, seguita ben oltre il Medioevo. Ciononostante, la moderazione, l'antica discretio benedettina, insinuatasi nel regime di vita di nobili o di re, dovette avere una portata tutto sommato ristretta se, ancora nel '200, San Luigi di Francia si sentiva continuamente obbligato a farne la propaganda presso coloro che lo circondavano, a cominciare dai suoi uomini di fiducia. Spesso capitava al suo biografo, Jean de Joinville, che era anche suo siniscalco per la regione di Champagne, di essere ammonito. «Egli versava acqua nel vino che beveva, in quantità variabile secondo la forza del vino. A Cipro, una volta, mi chiese perché io non temperavo il vino che bevevo ed io gli risposi che la colpa era dei medici, che mi assicuravano che avevo la testa grossa e lo stomaco freddo, per cui mi era impossibile ubriacarmi. Ma il re soggiunse che i medici mi ingannavano e che, se io non mi abituavo ad annacquare il vino finché ero giovane e lo avessi fatto, poi, da vecchio, avrei sofferto di gotta, di mal di stomaco, e avrei perso la salute. Aggiunse ancora che, se avessi bevuto vino puro da vecchio, sarei stato ubriaco tutte le sere; una cosa molto vergognosa per una persona anziana». La moderazione, esemplificata già nelle biografie di laici potenti alcuni secoli prima, appare dunque anche nello stile di vita di Luigi IX, pur se il peso della regola monastica vi si fa sentire molto meno e l'apertura alle cose del mondo, ai suoi problemi, non ammette discussioni. Joinville scrive del re: «Era così sobrio, che io non l'ho mai sentito ordinare il menu dei suoi pasti, come fanno tanti signori; egli si accontentava di ciò che il cuoco gli preparava e di quanto gli servivano in tavola. Era moderato nel parlare; mai l'ho sentito dir male di qualcuno, né giurare par le diable, come s'usa normalmente in tutto il reame, cosa, io credo, che non piace affatto a Dio ... Diceva che bisogna vestirsi e armarsi in modo che le persone sagge della vostra età non dicano che è troppo ed i giovani che non è abbastanza ... Tutti i giorni egli ascoltava l'ufficio in musica, una messa bassa da Requiem, poi la messa del giorno, o del santo --se era il caso--cantata. Tutti i giorni, dopo pranzo si riposava in letto; quando aveva dormito e fatto la siesta, recitava nella sua stanza l'ufficio dei morti in compagnia d'uno dei suoi cappellani; dopo assisteva al vespro; la sera ascoltava compieta ...».

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Bibliografia. A proposito di storia della mentalità, si veda soprattutto J. Le Goff, Le mentalità: una storia ambigua, in AA. W., Fare storia. Temi e metodi della nuova storiografia, a cura di J. Le Goff e P. Nora, Torino, Einaudi, 1981, pp. 293-258 (trad. it. di Faire de l'histoire, Paris, Gallimard, 1974). Ci sembra ancora proponibile, anche se sono trascorsi vari anni, quanto l'A. scriveva: «Per lo storico, oggi, mentalità è un termine ancora nuovo e già sciupato. Si parla molto di storia delle mentalità, se ne sono dati pochi esempi convincenti ... si tratta ancora di un terreno vergine, da dissodare ...» (ivi, p. 239). Altri esempi di tale storia --dopo le citate parole del Le Goff--si sono dati. Oltre ai noti saggi suoi e del Le Roy Ladurie, tra gli altri segnaliamo J.-C. Schmitt, Le Saint-Lévrier. Guinefort guérisseur d'enfants depuis le XIII° siècle, Paris, Flammarion, 1979 (trad. it. Il Santo Levriero. Guinefort guaritore di bambini, Torino, Einaudi, 1982). La caratteristica delle ricerche cui abbiamo fatto riferimento ci sembra la collocazione in contesti sociali determinati di elaborazioni culturali, dotte o folkloriche, cioè la loro storicizzazione. Certo che modelli comportamentali possono essere di lunga durata, permanenti, e, anche, comuni a strati diversi della società; essi, tuttavia, non escludono i primi, anzi, ne sono come lo sfondo, l'orizzonte, anche se la valenza degli «atteggiamenti generali» conosce scansioni diverse nel tempo, enfatizzazioni o cadute e, alla lunga, un modo di pensare o di agire (che spesso coincidono) può indebolirsi, sino alla cessazione. Prodotto da condizioni storiche concrete e cronologicamente datato, pur se, in qualche modo, riflesso in altre culture ed epoche, è il modello culturale della società tripartita rievocato da G. Duby, Les trois ordres ou l'imaginaire du féodalisme, Paris, Gallimard, 1978 (trad. it. Lo specchio del feudalesimo. Sacerdoti, guerrieri e lavoratori, Bari, Laterza, 1980); si veda anche J. Le Goff, Les trois fonctions indo-européennes. L'historien et l'Europe féodale, in «Annales E.S.C.», XXXIV, (1979) n. 6, pp. 1187-1215; O. Niccoli, I sacerdoti, i guerrieri, i contadini. Storia di un'immagine della società, Torino, Einaudi, 1979. Sullo stretto legame, l'identificazione, quasi, tra uomo e natura nel Medioevo, cfr. A. Ja. Gurevic, Le categorie della cultura medievale, Torino, Einaudi, 1983, in particolare pp. 29-96, con buona bibliografia sul tema (trad. it. di Kategorii srednevekovoj kul'tury, Moskva, Izdatel'stvo aIskusstvo», 1972): l'opera è importante perché mette a fuoco la variante sociale nella storia della cultura (in senso lato); tuttavia non è colta la differenza, anche sotto questo aspetto, tra alto e pieno Medioevo e, comunque, non è recepita sensibilmente una diversa scansione temporale all'interno del lungo arco dei secoli di mezzo, esistente, invero, pur nelle aree geografiche che non registrano la periodizzazione applicata comunemente all'Europa Occidentale (anche se con termini storiografici diversi e senza rigide concordanze temporali da paese a paese). Per i problemi relativi alla scienza medievale, pOi, la bibliografia è assai vasta: se ne veda lo spessore già nell'opera del Gurevic. Sulle leggende, le paure, le credenze pagane, la cultura dotta nell'alto Medioevo, cfr. V. Fumagalli, Il Regno italico, Torino, Utet, 1986, pp. 24-25 e passim; per il diverso atteggiamento nei confronti delle apparizioni dei morti, inserito nella cornice dei mutamenti strutturali fra alto e pieno Medioevo, vedi Id., Il paesaggio dei morti. Luoghi d'incontro tra i morti e i vivi sulla terra nel Medioevo, in «Quaderni Storici», XVII, (1982), n. 2, pp. 411425; sulle visioni e sull'aldilà nei secoli VI-XI, cfr. M. Aubrun, Caractères et portée réligieuse et sociale des «Visiones» en Occident du VI' au XI' siècle, in «Cahiers de civilisation médiévale», XXIII, (1980), n. 2, pp. 109-130; vedi inoltre G. Le Don, Structures et significations de l'imagerie médiévale de l'enfer, in «Cahiers de civilisation médiévale», XXII, (1979), n. 4, pp. 363-372. Riguardo ai guerrieri dalla testa di cane, cfr. C. Lecouteux, Les Cynocéphales. Étude d'une tradition tératologique de l'Antiquité au XII' s., in «Cahiers de civilisation médiévale», XXIV, (1981), n. 2, pp. 117-128; sull'atteggiamento dell'uomo nei confronti del lupo, con precisi riferimenti ai contesti storico-naturalistici e culturali, vedi G. Ortalli, Natura, storia e mitografia del lupo nel Medio Evo, in «La Cultura», XI, (1973), pp. 257-311; molte riflessioni e molti dati sull'immagine della morte (con ampia bibliografia) si trovano in Ph. Ariès, L'uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Bari, Laterza, 1979 (trad. it. di L'homme devant la mort, Paris, 1977) e C. Frugoni, La protesta affidata, in «Quaderni Storici» cit., pp. 426-448, un saggio ricco dell'apporto della competenza iconografica dell'A. alla discussione dell'immagine della morte e dei morti fra XII e XV secolo; sui Benandanti, ma, più in generale, anche sull'evolversi dell'atteggiamento della cultura dotta e dei contenuti delle pratiche stregonesche stesse, cfr. C. Ginzburg, I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Torino, Einaudi, 1966. Sulla raffigurazione dell'uomo nell'iconografia, è importante E. Buschor, Das Porträt, München, Piper, 1960; sulla famiglia, la Parentela, la donna, la sessualità, si veda R. Fossier, Enfance de l'Europe, vol. II, Paris, Presses Universitaires de France, 1982, pp. 905-950, con una buona bibliografia (trad. it. L'infanzia dell'Europa, Bologna, Il Mulino, 1987). Attento ai particolari (come l'episodio dell'antenato di Paolo Diacono) significativi della mentalità dello scrittore, ma anche ai vasti orizzonti culturali e di civiltà in cui ognuno vive e scrive, è G.

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Vinay, del quale basti ricordare il volume Alto Medioevo latino, Napoli, Guida, 1978. Sul rapporto tra individuo e società è fondamentale K. Schmid Uber das Verhältnis von Person und Gemeinschaft, im fruheren Mittelalter, in «Frühmittelalterliche Studien», I, (1967), pp. 225-249. Il paesaggio altomedioevale, in gran parte eredità del mondo tardo-antico, fu modificato nel senso di un'accentuazione delle sue caratteristiche silvo-pastorali nell'alto Medioevo. Dopo una lenta colonizzazione, puntiforme--direi--attuata nei secoli VII-X, si procedette ad interventi, massicci, programmati, di agrarizzazione del suolo incolto, quando modificazioni profonde nelle strutture economiche, sociali, e -- perché no? -- mentali spinsero in tale direzione. Il paesaggio non è, tuttavia, frutto soltanto di strutture economico-sociali e mentalità propense, di volta in volta, a organizzare forme diverse dello stesso: il peso dell ambiente fisico ereditato è notevole; ma, lentamente o meno, una civiltà opera sul mondo fisico che la ospita, cambiandolo. In questo senso, è anche un prodotto della mentalità, come, del resto, è ben percepibile nell'atteggiamento che uomini e ceti sociali hanno di fronte ad esso, nel caso nostro, nell'alto Medioevo, di accettazione elettiva delle aree incolte, generalmente. Sui limiti della Kulturgeschichte, cfr. G. Tabacco, Problemi di insediamento e di popolamento nell'alto Medioevo, in «Rivista Storica Italiana», LXXIX, (1967), n. 1, pp. 67-110; sul dibattito odierno relativo al rapporto spazio/atteggiamenti mentali, si veda R Comba, Il territorio come spazio vissuto. Ricerche geografiche e storiche nella genesi di un tema di storia sociale, in «Società e storia», X[ (1981), pp. 1-27; su di un elemento specifico dell'ambiente, G. Ortalli, Natura, storia e mitografia del lupo nel Medioevo, cit.; sul paesaggio dell'Italia nell'alto Medioevo, con riferimenti ad altre aree europee, V. Fumagalli, Il Regno italico, cit., pp. 57-100; ivi, a pp. 305-314, le fonti e la bibliografia sui temi trattati in questa sede. Per il significato delle opere di ambito cluniacense, sulle quali abbiamo particolarmente insistito, non solo su di un piano dottrinale, ma anche di atteggiamenti mentali, si veda soprattutto P. Lamma, Momenti di stonografia cluniacense, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1961, in particolare p. 21, nota 4; V. Fumagalli, Note sulla «Vita Geraldi» di Odone di Cluny, in «Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo», LXXVI, (1964), pp. 217240; J.-C. Poulin, L'idéal de sainteté dans l'Aquitaine carolingienne. D'après les sources hagiographiques (750-950), Québec, Les Presses de l'Université Laval, 1975, con ampissima rassegna di fonti e di bibliografia a pp. 167-201; da ultimo, ma con omissioni e fraintendimenti grossolani della precedente bibliografia, B.H. Rosenwein, Rhinoceros Bound: Cluny in the Tenth Century, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1982. Sul tema degli uomini liberi e della loro progressiva decadenza, sul tema dell'aristocratizzazione delle funzioni-guida (come la guerra) della società, vedi J. Fleckenstein, Adel und Knegertum unl ihre Wandlung im Karolingerreich, in AA.W., Nascita dell'Europa ed Europa carolingia: un'equazione da verificare, Vol. I, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, 1981, pp. 67-94; V. Fumagalli, Le modificazioni politico-istituzionali in Italia sotto la dominazione carolingia, ivi, pp. 293-317; K. Bosl Seitbilder und Wertvorstellungen des Adels von der Merowingerzeit bis zur Höhe der feudalen Gesellschaft, München, 1974; W. Von Braunfels (a cura di), Karl der Große, Bd. I, Persönlichkeit und Geschichte, Düsseldorf, 1965. Sulla guerra, sono fondamentali P. Contamine, La guerra nel medioevo, Bologna, il Mulino, 1986; F. Cardini, Quell'antica festa crudele, Milano, Il Saggiatore, 1987. Sul rapporto, a livello ideologico, tra chiesa, aristocrazia e attitudini militari, cfr. J. Flori, L'idéologie du glaive. Préhistoire de la chevalerie, Genève, 1983; A. Barbero, L'aristocrazia nella società francese del Medioevo, Bologna, Cappelli, 1987 (con ampissima bibliografia relativa all'Occidente europeo). Sul medioevo in Proust, cfr. R. Bales Proust and the Middle Ages, Genève, Librairie Droz, Sulle vicende di Oddone di Cluny e di San Geraldo di Aurillac, sulle loro attività secolari e le loro crisi, cfr. V. Fumagalli, Note sulla «Vita Geraldi» cit., pp. 219-221; sull'attaccamento all'esercizio della caccia da parte di laici ed ecclesiastici, M. Montanari, L'alimentazione contadina nell'alto Medioevo, Napoli, Liguori, 1979, pp. 261-268 (Caccia e vita signorile: cultura e atteggiamenti mentali); sulle sedi dei re e degli imperatori è fondamentale C. Brühl, Fodrum, Gistum, Servitium Regis. Studien zu den wirtschaftlichen Grundlagen der Königtums im Frankenreich und in den fränkischen Nachfolgestaaten Deutschland, Frankreich und Italien vom 6. bis zur Mitte des 14. Jahrhunderts, vol. I, Köln-Graz, Böhlau, 1968, in particolare pp. 392-451. Per il legame tra pratiche violente e funzioni militari o di comando, G. Duby, Guemers et paysans. VII' - XII' siècle. Premier essor de l'économie européenne, Paris, Gallimard, 1973 (trad. it. Le origini dell'economia europea. Guerrieri e contadini nel Medioevo, Bari, Laterza, 1975); il processo di aristocratizzazione delle funzioni militari e, quindi, anche, dell'esercizio della violenza in guerra, oltre che l'affermarsi di un potente ceto nobiliare signorile e delle sue attitudini al controllo ed all'oppressione dei comuni uomini liberi, è illustrato da V. Fumagalli, Le modificazioni politico-istituzionali cit.

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Crisi e mutamenti di stato di vita nel ceto nobiliare sono delineati e motivati in V. Fumagalli, Il Regno italico cit., pp. 121-123. Sui livelli sociali delle canonizzazioni nel Medioevo, cfr. P. Delooz, Sociologie et canonisations, La Haye, M. Nijhoff, 1969, passim (con ampia bibliografia).

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Intersezioni Sergio Anselmi, Storie di Adriatico Sergio Anselmi, Ultime storie di Adriatico Hannah Arendt, Ilfuturo alle spalle Raymond Aron, Clausewitz Giovanna Axia, Elogio della cortesia. L'attenzione per gli altri come forma di intelligenza Michail Bachtin, Tolstoj Paolo Barbaro, Venezia, I'anno del mare felice LisliBasso Carini, Cose maidette. Memoriediun'ottuagenaria Georges Bataille, La sovranità Janina Bauman, Inverno nel mattino. La vita di una ragazza nel ghetto di Varsavia Janina Bauman, Un sogno di appartenenza. La mia vita nella Polonia del dopoguerra Julien Benda, Il rapporto di Uriele Peter L. Berger, Il brusio degli angeli. Il sacro nella società contemporanea Peter L. Berger, Una gloria remota. Avere fede nell'epoca del pluralismo István Bibó, Isteria tedesca, paura francese, insicurezza italiana. Psicologia di tre nazioni da Napoleone a Hitler István Bibó, Miseria dei piccoli Stati dell'Europa orientale Hans Blumenberg, Il riso della donna di Tracia. Una preistoria della teoria Hans Blumenberg, L'ansia si specchia sul fondo Hans Blumenberg, Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell'esistenza Remo Bodei, Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste Piero Boitani, L'ombra di Ulisse. Figure di un mito Corrado Bologna, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce Giuseppe Bonazzi, Lettera da Singapore. Ovvero, il terzo capitalismo Pier Cesare Bori, L'altro Tolstoj Fernand Braudel, La dinamica del capitalismo Attilio Brilli, Quando viaggiare era un'arte. Il romanzo del Grand Tour Attilio Brilli, Il viaggiatore immaginario. L'Italia degli itinerari perduti Victor Brombert, La prigione romantica. Saggio sull'immaginario Peter Burke, L'arte della conversazione Michel Butor, Improvvisazioni su Rimbaud Piero Camporesi, Il pane selvaggio Piero Camporesi, Il paese della fame Elena Carandini Albertini, Dal terrazzo. Diario 1943-1944 Franco Cassano, Approssimazione. Esercizidiesperienza dell altro Franco Cassano, Partita doppia. Appunti per una felicità terrestre Giulio Cattaneo, Da inverno a inverno Remo Ceserani, Viaggio in Italia del dottor Dapertutto Nicola Chiaromonte, Credere e non credere Emil M. Cioran - Constantin Noica, L'amico lontano Carlo M. Cipolla, Il burocrate e il marinaio. La «sanità» toscana e le tribolazioni degli inglesi a Livorno nel XVII secolo Carlo M. Cipolla, Miasmi ed umori. Ecologia e condizioni sanitarie in Toscana nel Seicento Carlo M. Cipolla, Conquistadores, pirati mercatanti La saga dell argento spagnuolo Carlo M. Cipolla, Cristofano e la peste Carlo M. Cipolla, Le macchine del tempo Antoine Compagnon, I anque paradossi della molernità Ernst Robert Curtius, Marcel Proust Alessandro Dal Lago, Descrizione li una battaglia. I rituali lel calcio Alfred Döblin, Scritti berlinesi Mary Douglas, Come pensano le istituzioni Mary Douglas, Crelere e pensare Mary Douglas, Purezza e pericolo. Un'analisi lei concetti di contaminazione e tabù Mary Douglas, Rischio e colpa Mary Douglas - Baron Isherwood, Il mondo delle cose. Oggetti, valori, consumo Roberto Ducci, La bella gioventù Norbert Elias, Humana conditio. Osservazioni sullo sviluppo lell'umanità nel quarantesimo anniversario lella fine li una guerra Norbert Elias, La solituline del morente Norbert Elias, Mozart. Sociologia di un genio Roberto Escobar,Totò Roberto Esposito, Nove pensieri sulla politica Joachim Fest, I maghi ignari. Thomas e Heinrich Mann Joanne Finkelstein, Andare a pranzo fuori. Sociologia delle buone maniere Harold Fisch, Un futuro ricordato. Saggio sulla mitologia letteraria Northrop Frye, Tempo che opprime, tempo che relime. Riflessioni sul teatro li Shakespeare Vito Fumagalli, L'alba lel Medioevo Vito Fumagalli, La pietra viva. Città e natura nel Medioevo Vito Fumagalli, Matille li Canossa. Potenza e solituline di una lonna lel Melioevo Vito Fumagalli, Quanlo il cielo s'oscura. Modi li vita nel Melioevo Vito Fumagalli, Solitudo carnis. Vicenle lel corpo nel Melioevo P.N. Furbank, Quel piacere malizioso. Ovvero la retorica lelle classi sociali Peter Gay, Un ebreo senza Dio. Freul, l'ateismo e le origini lella psicoanalisi Clifford Geertz, Oltre i fatti. Due paesi, quattro lecenni, un antropologo Clifford Geertz, Opere e vite. L'antropologo come autore Ernest Gellner, Ragione e cultura. Il ruolo lella razionalità e lel razionalismo nella storia Anthony Giddens, La trasformazione lell'intimità. Sessualità, amore el erotismo nelle società molerne Anthony Giddens, Le conseguenze lella molernità. Filucia e rischio, sicurezza e pericolo Jeffrey Herf, Il molernismo reazionario. Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e lel Terzo Reich Albert O. Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica Albert O. Hirschman, Retoriche dell'intransigenza. Perversità, futilità, messa a repentaglio Ursula Hirschmann, Noi senzapatria Aldous Huxley, La volgarità in letteratura Vjaceslav Ivanov, Dostoevskij. Tragelia Mito Mistica Vladimir Jankélévitch, Debussy e il mistero Frank Kermode, Il segreto nella Parola. Sull'interpretazione della narrativa Leszek Kolakowski, Presenza del mito Leszek Kolakowski, Se non esiste Dio Wolf Lepenies, Conseguenze di un evento inaudito. I tedeschi lopo l'unificazione Wolf Lepenies, Natura e scrittura. Autori e scienziati nel XVIII secolo Jean-François Lyotard, Peregrinazioni. Legge, forma, evento Salvatore Mannuzzu, Ilfantasma lella giustizia Odo Marquard, Apologia del caso Mary McCarthy, Intellettuale a New York Mary McCarthy, Vivere con le cose belle Christian Meier - Paul Veyne, L'identità del cittadino e la democrazia in Grecia Luigi Meneghello, Promemoria. Lo sterminio degli ebrei d 'Europa, 1939-1945 Renato Mieli, Deserto rosso. Un decennio da comunista Georges Minois, Piccola storia dell'inferno Giovanni Morelli, Il morbo di Rameau. La nascita della critica musicale George L. Mosse, La nazionalizzazione lelle masse Constantin Noica, Pregate per il fratello Alessandro Constantin Noica, Sei malattie dello spirito contemporaneo Helga Nowotny, Tempo

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privato. Origine e struttura del concetto di tempo Maurice Olender, Le lingue del Paradiso. Ariani e Semiti: una coppia provvidenziale Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola Giorgio Perlasca, L'impostore Tina Pizzardo, Senza pensarci due volte Stefano Poggi, Gli istanti del ricordo. Memoria e afasia in Proust e Bergson Karl R. Popper, Il mito della cornice. Difesa della razionalità e della scienza Ezio Raimondi, Il colore eloquente. Letteratura e arte barocca Ezio Raimondi, La dissimulazione romanzesca. Antropologia manzoniana Ezio Raimondi, Politica e commedia. Il centauro disarmato Gregory J.E. Rawlins, Le seduzioni del computer Giovanni Ricci, Il principe e la morte. Corpo, cuore, effigie nel Rinascimento Renato A. Rozzi, Costruire e distruggere. Dove va il lavoro umano? Lea Ritter Santini, Lessing e le vespe. Il viaggio in Italia di un illuminista Lea Ritter Santini, Nel giardino della storia Lea Ritter Santini, Ritratti con le parole Werner Ross, Lou Andreas-Salomé. L'incontro con Nietzsche, Rilke, Freud John Rosselli, Sull'ali dorate. Il mondo musicale italiano dell'Ottocento Paolo Rossi, Il passato, la memoria, l'oblio. Sei saggi di storia delle idee Paolo Rossi, Naufragi senza spettatore. L'idea di progresso Renato A. Rozzi, Costruire e distruggere. Dove va il lavoro umano? Gian Enrico Rusconi, Rischio 1914. Come si decide una guerra Fernando Savater, Apostati ragionevoli. Ritratti di ribelli illustri Roger Shattuck, L'occhio innocente. La letteratura moderna e le arti Herbert A. Simon, La ragione nelle vicende umane Wanda Skof Newby, Tra pace e guerra. Una ragazza slovena nell'Italia fascista Gianni Sofri, Gandhi in Italia Dolf Sternberger, Ombre del mito. Charlot, Mephisto, Marlene Dolf Sternberger, Panorama del XIX secolo Arid Toaff, Mostrigiudei. L'immaginario ebraico dal Medioevo alla prima età moderna Hans Erich Troje, Archeologia del matrimonio. Pazienza, infedeltà e altre strategie Victor Turner, Dal rito al teatro Lucette Valensi, Venezia e la Sublime Porta. La nascita del despota Paul Valéry, La crisidelpensiero e altri «saggiquasi politici» Jean-Pierre Vernant, La morte negli occhi. Figure dell'Altro nell'antica Grecia Peter Wapnewski, Tristano, l'eroe di Wagner Aldo Zargani, Certe promesse d'amore Aldo Zargani, Per vtolino solo. La mia infanzia nell'Aldiqua. 1938-1945 Paul Zumthor, Babele

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Risvolto. Chi voglia accostarsi all'epoca medievale per conoscerne mentalità e stili di vita troverà in queste pagine di Vito Fumagalli un racconto limpido e avvineente. Lo storico deserive la concreta esperienza degli uormini di allora, le loro eondizioni di vita, eosì eome le loro aspirazioni, le credenze e i valori che li orientavano soprattutto quando, alle prese con una natura selvaggia e minacciosa, si trovavano a decifrare con terrore i segni del castigo divino. La morte, il soprannaturale, la guerra, la violenza, ma anche l'ideale di bellezza: in relazione a questi nodi morali e materiali fondanti si definisce la visione del mondo dell'uomo medievale che Fumagalli ci restituisce viva e in movimento, in una narrazione costantemente sorretta da una sieura padronanza generale del quadro economico, sociale e istituzionale. Vito Fumagalli (1938-1997), docente di Storia medievale nt il'Università di Bologna, con il Mulino ha pubblicato anche «La pietra viva» (1988), «Uomini e paesaggi medievali» (1989), «Solitudo carnis» (1990), «L'alba del Medioevo» (1993), «Paesaggi della paura" (1994) e «Matilde di Canossa» (1996). Finito di stampare nel giugno 1998 dalla litosei via bellini, 22/4, rastignano, bologna Cover design: Miguel Sal & C.