franzshooting 6 - Matteo Vegetti

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6 GIALLO INFINITO MATTEO VEGETTI

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shooting №6

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ottoBRE oktoBER 2011

giallo infinitofoto e testo di Matteo Vegetti

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Incontro Egon Moroder Rusina nella sua casa di Ortisei: fondata dalla nonna Rosina, non solo distingue la sua famiglia dagli altri Moroder della Val Gardena, ma è dalla stessa casa che deriva il nome d’arte attraverso il quale è noto: “Rosina in ladino diventa Rusina.” Ride: “Ogni tanto qualcuno telefona a casa chiedendo di parlare con Rusina, pensando sia mia moglie!”Egon Rusina, illustratore e caricaturista altoatesino, si muove veloce da una stanza all’altra e mi lascia a curiosare in un corridoio ricoperto di quadri: caricature dai dettagli minuti, paesaggi, ritratti, poster con set di carte da gioco da lui disegnate, donne concupiscenti, un autoritratto al carboncino, pennellate rosso carminio (scoprirò in seguito che si tratta di sangue) che si inseguono su una grande tela. Niente a che fare con la sua recente produzione: ultimamente, infatti, dipinge solo ed esclusivamente quadri gialli, senza forme né linee, solo un campo giallo uniforme e nient’altro. Fino a oggi, ne ha dipinti centoventotto.“Il lunedì mattina c’è sempre qualcosa da fare in città, vieni, andiamo in banca e poi partiamo”. Mentre Egon sbriga le sue faccende, Ortisei lentamente si sveglia e i primi passanti si affacciano sul corso.Via. Pantaloni di cuoio (“i migliori contro il freddo e l’umidità, li ho da più di vent’anni”), uno zaino, un ombrello e una cartelletta piena di fogli bianchi. La funivia e poi una lunga camminata “nel posto più selvaggio della valle, non crederesti mai che al di là di quelle cime ci sono impianti sciistici, bar e ristoranti.” Egon cammina velocemente davanti a me, ogni tanto si volta per farmi notare un dettaglio del paesaggio: una roccia dalla forma particolare, la terra rossa e il torrente dalle acque sanguigne che l’attraversa: “Quando piove d’un tratto il fiume straripa e allora è impossibile oltrepassarlo. Vieni siamo quasi arrivati.”Un’ultima salita e si scorge un fiocco rosso mosso dal vento: “ecco il primo segnale, l’ho messo tanto tempo fa e ancora resiste: indica il mio campo”. Sente belare le capre, le migliori compagne della sua solitudine, e capisce che stanno bene e sono contente di rivederlo: “ho imparato più dalle capre che non dagli esseri umani”. Accelera, molla lo zaino su un tavolo e va ad abbracciare i suoi animali.

Il campo di Egon si stende di fronte ai miei occhi: in lontananza la tenda canadese circondata da un recinto di corda “per evitare che le mucche la calpestino”, una riserva di legna da ardere, alcuni utensili da cucina, un tavolo e due panche, dei sedili di pietra attorno a un focolare, un riparo per le capre e un minuscolo pollaio. Mentre Egon si prende cura di capre e galline, noto i segni dell’artista in quest’eremo montano: un albero biforcuto che si staglia contro il cielo, uno scheletro di mucca ricomposto a formare una creatura fantastica, un ramo contorto che ricorda un piccolo velociraptor, il tavolino su cui dipinge macchiato da tracce di vernice. “Ho scoperto questo posto molti anni fa, quando cercavo un posto tranquillo per poter stare in intimità con la donna che sarebbe diventata mia moglie. In seguito ho cominciato a venirci da solo, per dipingere”. E così il ritrovo dei primi amori diventerà il luogo della sua produzione artistica.Ci sediamo e compaiono quasi magicamente una bottiglia di vino e dello speck. Mentre Egon affetta e mesce un buon rosso mi racconta della sua vita e della sua arte, due personaggi di una stessa storia.Lo sguardo di Egon si perde nel vuoto, le mani si muovono delicatamente a mezz’aria a dipingere ricordi e parla quasi incessantemente: i primi tempi nelle botteghe degli scultori, la scuola d’Arte di Ortisei, gli studi a Firenze, il Sessantotto e il viaggio in Afghanistan in un vecchio pulmino (“e quattro ruote di scorta che la notte usavamo come cuscini”), l’insegnamento e la decisione che no, così non sarebbe potuta andare: “la scuola era la gallina dalle uova d’oro, si poteva andare in pensione prestissimo ma a ventiquattro anni avevo bisogno di altri stimoli e così ho lasciato l’insegnamento per mettermi a disegnare e basta”. E incominciano così le caricature e il suo periodo più figurativo, la fase “del macello” (“per tre anni ho vissuto in un macello e ho dipinto col sangue degli animali che lì venivano uccisi”: mi spiega le tecniche per far sì che il sangue non si coaguli, le reazioni chimiche che si ottengono con certi colori e poi una ricerca sempre più spinta verso l’astrazione che si lega all’approfondimento di filosofie orientali, zen e buddhismo: incomincia a disegnare le scie di condensa lasciate dagli aerei che solcano i cieli altoatesini (“l’ispirazione non esiste, è un processo di sviluppo lento che non

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parte da una folgorazione”) contro paesaggi che diventano sempre più minimalisti; via i campi, via le montagne e resta solo la scia in un campo di colore, poi anche le scie scompaiono e allora rimane solo il colore puro e in questo continuo “togliere”, arrivare al giallo, per lui l’essenza dell’astrazione. “Sì, il giallo, ho sperimentato diversi colori prima di approdarvi, dapprima coi colori primari ma sia il rosso che il blu portano con sé connotazioni troppo forti, il sangue e il mare, il fuoco e il cielo, e così la forma ultima di astrazione è diventato il giallo: i bambini disegnano il sole come giallo, ma io che l’ho guardato bene, che l’ho fissato a lungo, il sole, ti posso dire che è bianco, del bianco più bianco che c’è”. C’è qualcosa di zen nelle sue parole. E così Egon abbandona la minuzia delle sue caricature, la forza violenta del sangue, la pace dei paesaggi e cerca se stesso nel vuoto del giallo: “da qualche tempo non voglio fare altro e voglio dipingere solo per me stesso; tutto quello che ho fatto prima mi dà la nausea mentre riempire questi fogli di giallo mi aiuta a ritrovare il mio Io”.Il tempo non è dei migliori per dipingere: serve il calore del sole per far seccare i colori e allora Egon mi porta a esplorare la valle mentre i suoi racconti continuano.Con le capre al seguito Egon sgambetta rapidamente su pendii rocciosi, faccio fatica a seguirlo mentre lui salta da una roccia a un’altra con movenze quasi caprine. Mi indica una parete a strapiombo: “di questo muro ho fatto cinquanta disegni e poi li ho esposti in una vecchia galleria scavata dai prigionieri russi a Ortisei”.Continuiamo a camminare: “tutti pensano che sia diventato matto, a venir qui in montagna, a vivere in solitudine, però io qui ritrovo me stesso e quello che dicono gli altri mi interessa poco”.“Mi piace vivere qui da solo ma non sono un eremita che rifugge il mondo: mi piace anche il la compagnia, la buona tavola e il buon vino” e infatti, in un rifugio poco lontano, chiacchiera amabilmente coi ragazzi che vi lavorano, scherza con la proprietaria e racconta col sorriso sulle labbra uno dei tanti episodi che hanno costellato la sua vita.Si rientra, con le capre che lo seguono ordinatamente, io che faccio fatica a stargli dietro.La notte che arriva, la gelida notte, è riscaldata da un fuoco acceso quasi per magia e da un’ottima

pasta al gorgonzola (miracoli della dispensa di Egon) preparata sulla brace ardente.La mattina seguente ci svegliamo con un cielo sgombro da nubi: “bene, dopo potrò dipingere, ma prima andiamo a far legna, tanto il sole non supererà le montagne prima delle dieci”. E così l’artista si trasforma di nuovo nell’uomo dei boschi: si pone una grossa gerla sulle spalle e mi conduce lungo erte erbose per raccogliere legna da ardere e paglia per il rifugio delle capre.Quando finalmente il sole spunta dalla sagoma scura delle Dolomiti, Egon si fa serio e scruta il cielo.Dispone i colori, il pennello e il legnetto, con cui darà i primi strati, attorno alla zona di lavoro, si china sul foglio bianco e comincia a dipingere.Dall’angolo in alto a sinistra, con rapidi movimenti della mano, trascina una goccia di pigmento giallo lungo la superficie: intinge il bastoncino e continua a riempire il foglio. “I primi tre o quattro strati li stendo con questo bastoncino e poi proseguo col pennello: per ogni quadro ci vogliono almeno una quindicina di strati”.Sembra di assistere a una preghiera e i movimenti ripetitivi della mano paiono disegnare sulla superficie immacolata una serie di caratteri arabi, mantra tibetani, segni di una civiltà perduta.Quando il foglio è completamente ricoperto, Egon si alza e lascia il suo lavoro: “mentre aspetto che asciughi approfitto per dare una sistemata al campo” e l’artista che fino a poco fa era chino sulla sua opera si trasforma nuovamente in uomo eminentemente pratico: legna da spaccare, fuoco da accendere, capre da mungere, l’aia da rassettare.Ma quando Egon si siede sul suo sgabello e riprende a dipingere la natura attorno a lui cessa di esistere, il suo Io si immerge nella pittura gialla cromo e la preghiera poco prima interrotta riprende: un mantra infinito il cui unico suono è il lieve raschiare del legno contro la superficie irregolare della carta.E mentre Egon continua a dipingere mi allontano, lo lascio alla sua arte che non è più arte, alla sua meditazione e al ripetersi infinito di quel gesto che porta alla conoscenza di sé: dolcemente, il silenzio della meditazione si confonde, nei rumori del bosco.

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