Francesco Varanini Di chi Sono le storie. Ancora a proposito di storytelling

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 Di chi sono le storie di Francesco Varanini La narrazione rappresenta un potentissimo strumento di organizzazione del senso. La vita ha senso  perché ‘ce la raccontiamo’. Guardiamo alle storie che si raccontano le persone che lavorano insieme. Queste storie sono la  prima fonte del Knowledge Management . Attraverso storie, narrazioni -conversando, raccontando  barzellette o scrivendo e-mail- portiamo alla luce le esperienze, le conoscenze di cui no n sappiamo  parlare altrimenti. T rasformiamo ciò che è tacito e latente in qualcosa di vivo. Eppure accade di frequente che chi si occupa di Knowledge Management trascuri del tutto le narrazioni. E accade anche che si intenda per  storytelling  non le narrazioni spontanee di persone che vivono nell’organizzazione, ma narrazioni create ad hoc da pretesi esperti, tese a convincere i lavoratori di qualcosa. Le narrazioni aziendali sono così ridotte ad una nuova forma di propaganda o di indottrinamento. Beninteso, il punto di vista dell’interprete, dell’esperto, dell’osservatore ‘professionista’, non è certo privo di importanza. Eppure, lo sguardo dell’osservatore ‘professionista’ non è che uno sguardo in una pluralità di sguardi. Dovremmo sempre ricordare che lo sguardo dell’osservatore ‘professionista’ rischia sempre di essere viziato dalla pretesa di pensare a nome degli altri, di sussumere la comunità dei parlanti e dei viventi a una non richiesta guida. Dovremmo sempre chiederci se l’esperto ‘professionista’ rispetta la libertà di autori e lettori. O se pretende invece di imporre loro un proprio controllo. Wittgestein, in una prefazione da lui stesso preparata per le Ricerche filosofiche  -libro, come si sa, che l’autore non riuscì in realtà a scrivere pienamente, a organizzare, a terminare- afferma: “Non vorrei, con questo mio scritto, risparmiare ad altri la fatica di pensare. Ma, se fosse possibile, stimolare qualcuno a pensare da sé”. 1 Dobbiamo credere che le interpretazioni autorevoli aggiungano conoscenza, ma dobbiamo anche  porci, in quanto ricercatori sociali, il problema del limite: la nostra autorevole lettura può finire col fornire agli altri l’alibi per non pensare da sé. Pensare, costruire conoscenza, narrare: questo è il nucleo generatore. Ricordiamo come l’etimo lega narrazione a conoscenza, knowledge, können, ci parla dell’‘accorgersi’ ciò che osserviamo ed accade, e ci permette di considerare la carenza di narrazioni come ignoranza. Di fronte a questo nucleo generatore, l’accanimento definitorio non aggiunge poi molto. Si può certo, volendo, distinguere storytelling  e narrative argomentando che narrative guarda a testi canonizzati, organizzati in una forma ritenuta definitiva; mentre storytelling  guarda a storie che non hanno ancora l’organizzazione e la coerenza di una narrazione, storie ancora provvisorie, che stanno venendo alla luce. Ma già la distinzione assume un senso diverso se passiamo dall’inglese all’italiano. Come possiamo tradurre storytelling ? Il termine inglese può ben denominare un prodotto che il consulente può vendere a qualche azienda. Ma la distinzione tra narrative e storytelling  perde senso se appena allarghiamo lo sguardo oltre le discipline manageriali e guardiamo alla storia e alla teoria della letteratura. Ciò che può apparire nuovo nell’ambito del management, era già stato detto da studiosi di critica del testo e teoria della letteratura. E non c’è nemmeno bisogno, per trovare studiosi che ci forniscano le chiavi interpretative, di restare nell’ambito di contemporanei esegeti, legati allo strutturalismo e alla semiotica. T utto era già chiaro agli occhi di studiosi che alla mo derna critica à la page piace considerare superato vecchiume. Penso a Ramón Menéndez Pidal: “tradizione è la trasmissione di conoscenze e pratiche di interessi sociale o collettivi fatta in tutto o in gran parte oralmente, dai vecchi ai giovani, di generazione in generazione”. Ogni narrazione è trasmissione di conoscenze e pratiche, trasmissione di interessi sociale o collettivi fatta in tutto o in gran parte oralmente. Di fronte a un testo preesistente ognuno “inventa ciò che non ricorda più bene”, “rifà ciò che non gli piace”, e “in questa rielaborazione rapida e quasi involontaria, ognuno può avere un 1 Ludwing Wittg enstein,  Philosoph ische Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford, 1953; cito dal Ludwig Wittgenst ein, Werkausgabe, Band I, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1989. Vorwort, p. 231-232; trad. it.  Ricerche filoso fiche, Einaudi, 1967. Prefazione dell'autore, pp. 3-4.

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La storia della letteratura ci aiuta a demistificare lo 'storytelling'. L'arte di raccontar storie è troppo importante per essere ridotta ad un prodotto consulenziale. Le storie sono di chi le scrive e le legge prima che degli interpreti.

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Di chi sono le storie

di Francesco Varanini

La narrazione rappresenta un potentissimo strumento di organizzazione del senso. La vita ha senso

 perché ‘ce la raccontiamo’.

Guardiamo alle storie che si raccontano le persone che lavorano insieme. Queste storie sono la

 prima fonte del Knowledge Management . Attraverso storie, narrazioni -conversando, raccontando barzellette o scrivendo e-mail- portiamo alla luce le esperienze, le conoscenze di cui non sappiamo

 parlare altrimenti. Trasformiamo ciò che è tacito e latente in qualcosa di vivo.

Eppure accade di frequente che chi si occupa di Knowledge Management trascuri del tutto le

narrazioni. E accade anche che si intenda per  storytelling non le narrazioni spontanee di persone che

vivono nell’organizzazione, ma narrazioni create ad hoc da pretesi esperti, tese a convincere i

lavoratori di qualcosa. Le narrazioni aziendali sono così ridotte ad una nuova forma di propaganda o

di indottrinamento.

Beninteso, il punto di vista dell’interprete, dell’esperto, dell’osservatore ‘professionista’, non è

certo privo di importanza. Eppure, lo sguardo dell’osservatore ‘professionista’ non è che uno

sguardo in una pluralità di sguardi. Dovremmo sempre ricordare che lo sguardo dell’osservatore

‘professionista’ rischia sempre di essere viziato dalla pretesa di pensare a nome degli altri, disussumere la comunità dei parlanti e dei viventi a una non richiesta guida. Dovremmo sempre

chiederci se l’esperto ‘professionista’ rispetta la libertà di autori e lettori. O se pretende invece di

imporre loro un proprio controllo.

Wittgestein, in una prefazione da lui stesso preparata per le Ricerche filosofiche -libro, come si sa,

che l’autore non riuscì in realtà a scrivere pienamente, a organizzare, a terminare- afferma: “Non

vorrei, con questo mio scritto, risparmiare ad altri la fatica di pensare. Ma, se fosse possibile,

stimolare qualcuno a pensare da sé”.1

Dobbiamo credere che le interpretazioni autorevoli aggiungano conoscenza, ma dobbiamo anche

 porci, in quanto ricercatori sociali, il problema del limite: la nostra autorevole lettura può finire col

fornire agli altri l’alibi per non pensare da sé.

Pensare, costruire conoscenza, narrare: questo è il nucleo generatore. Ricordiamo come l’etimo lega

narrazione a conoscenza, knowledge, können, ci parla dell’‘accorgersi’ ciò che osserviamo ed

accade, e ci permette di considerare la carenza di narrazioni come ignoranza.

Di fronte a questo nucleo generatore, l’accanimento definitorio non aggiunge poi molto. Si può

certo, volendo, distinguere storytelling e narrative argomentando che narrative guarda a testi

canonizzati, organizzati in una forma ritenuta definitiva; mentre storytelling guarda a storie che non

hanno ancora l’organizzazione e la coerenza di una narrazione, storie ancora provvisorie, che stanno

venendo alla luce. Ma già la distinzione assume un senso diverso se passiamo dall’inglese

all’italiano. Come possiamo tradurre storytelling ?Il termine inglese può ben denominare un prodotto che il consulente può vendere a qualche azienda.

Ma la distinzione tra narrative e storytelling perde senso se appena allarghiamo lo sguardo oltre lediscipline manageriali e guardiamo alla storia e alla teoria della letteratura.

Ciò che può apparire nuovo nell’ambito del management, era già stato detto da studiosi di critica

del testo e teoria della letteratura. E non c’è nemmeno bisogno, per trovare studiosi che ci

forniscano le chiavi interpretative, di restare nell’ambito di contemporanei esegeti, legati allo

strutturalismo e alla semiotica. Tutto era già chiaro agli occhi di studiosi che alla moderna critica à

la page piace considerare superato vecchiume. Penso a Ramón Menéndez Pidal: “tradizione è la

trasmissione di conoscenze e pratiche di interessi sociale o collettivi fatta in tutto o in gran parte

oralmente, dai vecchi ai giovani, di generazione in generazione”. Ogni narrazione è trasmissione di

conoscenze e pratiche, trasmissione di interessi sociale o collettivi fatta in tutto o in gran parte

oralmente. Di fronte a un testo preesistente ognuno “inventa ciò che non ricorda più bene”, “rifà ciò

che non gli piace”, e “in questa rielaborazione rapida e quasi involontaria, ognuno può avere un

1Ludwing Wittgenstein,  Philosophische Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford, 1953; cito dal Ludwig Wittgenstein, Werkausgabe, Band I,

Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1989. Vorwort, p. 231-232; trad. it. Ricerche filosofiche , Einaudi, 1967. Prefazione dell'autore, pp. 3-4.

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momento creatore felice”.2

Come nel Libro del buen amor la narrazione, sia orale che scritta, va di mano in mano, come palla

nelle mani di ragazze che giocano; bravo chi saprà afferrarlo, aggiungendoci magari qualcosa di

suo: “Chiunque sia che lo ascolti/ può aggiungere dell'altro/ vada di mano in mano/ come palle alle

ragazze/ se ben cantare sapesse,/ e emendare quello che volesse;/ a chiunque lo chiedesse,/ lo

 prenda chi ci riesca.”3

Ciò che conta è il modo di osservare il mondo e di vivere la produzione di conoscenza. Sidistingueva già prima del 1500 tra mester de juglaría e mester de clerecía: due tipi di 'mestiere', tra

loro contrapposti. Da un lato il cantore per lo più anonimo, o comunque disinteressato ad affermare

l'univocità della propria voce, legato a radici popolari, a suo agio nel ruolo di erede del giullare,

trovatore, cantastorie. E dall'altro il chierico, che afferma in partenza la propria diversità dal mondo

degli altri, i fruitori, gli ascoltatori o lettori, e considera elemento fondante della letteratura il

 proprio intervento dotto ed elaborato.

Ritroviamo la divaricazione tra i due ‘mestieri’ in ambiti diversissimi. Prendiamo ad esempio un

classico della sociologia del Ventesimo Secolo. Il  Polish Peasant ,4 di Thomas e Znaniecki, è un

testo unico nel suo genere. Si pone lo scopo di narrare la storia dell’emigrazione polacca negli Stati

Uniti. Lo scopo potrebbe essere raggiunto nel mondo consueto: il ricercatore lavora su fonti e

materiali documentari, cita le fonti, ma espone al lettore solo la sua interpretazione. Invece, il PolishPeasant ci presenta una grande novità narrativa: offre in lettura i documenti, e cioè una ricchissima

raccolta di narrazioni: lettere di emigrati e di loro familiari, storie di vita autografe, norme e

 procedure amministrative, articoli giornalistici, ecc.

Qui ciò che hanno saputo dare i due studiosi è precisamente porre limiti al proprio ruolo. Ben

 prima dell’interpretare e dell'inquadrare, per loro veniva il raccogliere le lettere degli emigranti,

l’offrirle alla nostra lettura. Anche se Znaniecki non le avessero lette accuratamente tutte le lettere,

come qualche ‘esperto’ commentatore afferma, non sarebbe poi un gran danno. Perché la narrazione

arriva sotto i nostri occhi. Noi che leggiamo possiamo prendere per buona l’interpretazione di

Thomas e Znaniecki. Ma in ogni caso, possiamo ‘farci una nostra idea’. Insomma: leggendo il

 Polish Peasant , non soffriamo di nessuna ‘nostalgia del testo’, perché il testo c’è.

Allargando di nuovo lo sguardo, potremmo dire che la cura filologica ed i commenti di Gianfranco

Contini e di Giorgio Petrocchi e ci aiutano certo a leggere la  Divina Commedia. Ma la loro resta

una interpretazione, una delle interpretazioni possibili. Nessuna autorevole interpretazione è tanto

 buona da rendere inutile la personale lettura di ognuno di noi. E sopratutto, nessuna interpretazione

 può sostituire il testo dantesco, la fonte che veramente ci arricchisce.

2Ramón Menéndez Pidal,  Poesía juglaresca y orígenes de las literaturas románicas, Madrid, 1957, p. 364. (Sesta ed ultima ed. di  Poesía

 juglaresca y juglares, Madrid, 1924).3

"Qualquier omne que lo oya,/ puede más añadir/ ande de mano en mano/ como pella a las dueñas/ si ben trobar sopiere,/ è enmendar lo que

quisiere;/ a quien quier quel pidiere,/ tómelo quien podiere." Juan Ruiz Archipreste de Hita,  El libro del buen amor , ed. di Joan Corminas,Madrid, Gredos, 1967.

4  William I. Thomas, e Florian Znaniecki, The Polish Peasant in Europe and America, 5 voll. Boston, Richard G. Badger, 1918-20 (vol. I e II

originariamente pubblicati da The University of Chicago Press, 1918; seconda ed., 2 voll., New York, Alfred A. Knopf, 1927); trad. it.  Il 

contadino polacco in Europa e in America, Milano Comunità, 1968.

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