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Ti verrà1 forse all’orecchio qualcosa di me; sebbene sia dubbio che il mio povero, oscuro nome pos-sa arrivare lontano nello spazio e nel tempo. E forse ti piacerà sapere che uomo fui o quale la sorte del-le opere, soprattutto di quelle la cui fama sia giunta sino a te e di cui tu abbia sentito vagamente par-lare. Sul primo punto se ne diranno indubbiamente di varie: perché quasi tutti parlano non come vuo-le la verità, ma come vuole il capriccio; e non c’è misura giusta né per lodare né per biasimare. Sonostato uno della vostra specie, un pover’uomo mortale, di classe sociale né elevata né bassa; di anticafamiglia, come dice di se stesso Cesare Augusto2; di temperamento per natura né malvagio né senzascrupoli, se non fosse stato guastato dal contatto abituale con esempi contagiosi3. L’adolescenza mi il-luse, la gioventù mi traviò, ma la vecchiaia mi ha corretto, e con l’esperienza mi ha messo bene in te-sta che era vero quel che avevo letto tanto tempo prima: che i godimenti dell’adolescenza sono vani-tà; anzi me lo insegnò Colui che ha creato tutti i secoli e tutti i millenni, e che di quando in quandopermette ai miseri mortali, pieni di presunzione, d’andare fuori strada, perché possano conoscere sestessi, ricordando – sia pure tardi – i propri peccati. Da giovane m’era toccato un corpo non molto for-te, ma assai agile. Non mi vanto d’aver avuto una grande bellezza, ma in gioventù potevo piacere: dicolore vivo tra bianco e bruno, occhi vivaci e per lungo tempo di una grandissima acutezza, che controogni aspettativa mi tradì passati i sessanta, in modo da costringermi a ricorrere con riluttanza al-l’aiuto delle lenti. La vecchiaia prese possesso d’un corpo che era stato sempre sanissimo e lo circon-dò con la solita schiera di acciacchi.

Ho avuto sempre un grande disprezzo del danaro; non perché non mi piacesse essere ricco, ma per-ché detestavo le preoccupazioni e le seccature che sono compagne inseparabili dell’essere ricchi. Nonebbi la possibilità di lauti banchetti, e perciò non ebbi da fissarci il pensiero: ma io mangiando poco esemplicemente passai la vita più contento che con le loro raffinatissime tavole tutti i successori di Api-cio4. I banchetti – li chiamano così, ma sono gozzoviglie, nemiche della moderazione e del vivere co-stumato – non mi sono mai piaciuti, ed ho giudicato una fatica inutile invitarvi gli altri e dagli altriesservi invitato. Ma pranzare con gli amici mi è sempre piaciuto, tanto che nulla mi è stato più gra-dito che averli come commensali, e mai di mia volontà ho mangiato senza compagnia. Nulla mi ha tan-to infastidito quanto il lusso; non soltanto perché è peccaminoso e contrario all’umiltà, ma perché ècomplicato e non lascia in pace. Mi travagliò, quand’ero molto giovane, un amore fortissimo; ma fu ilsolo, e fu puro; e più a lungo ne sarei stato travagliato se la morte, crudele ma provvidenziale, nonavesse spento definitivamente quella fiamma quand’ormai era languente5. Vorrei davvero poter dired’essere assolutamente senza libidine; ma se lo dicessi mentirei. Posso dir questo con certezza: d’aver

1. Ti verrà: Petrarca si rivolge ad un desti-natario generico, tra i posteri.2. come ... Augusto: Petrarca cita Svetonio,Augusto, 2. È frequente in Petrarca il con-fronto con gli scrittori del passato, considera-ti modelli paradigmatici.3. dal contatto ... contagiosi: qui come

altrove Petrarca formula un giudizio negativosulla propria epoca, considerata un’età di de-cadenza.4. Apicio: attivo nell’età di Tiberio, autore diuna raccolta di ricette intitolata De re coqui-naria, fu figura di ospite prodigale, tanto chedissipò nei banchetti il proprio patrimonio.

5. Mi travagliò ... era languente: Pe-trarca afferma che questa passione per Lauraoccupò la sua adolescentia, che egli fa termi-nare nel 1332; in realtà sopravanzò tale data,occupando un periodo assai più ampio dellavita dello scrittore.

FRANCESCO PETRARCA dalle Epistole

Un’autobiografia di Petrarca: l’epistola Ai posteri

L’epistola latina Posteritati (Alla posterità) è anteriore al 1367, ma alcune aggiunte risalgono al 1370-1371; fu

scritta probabilmente a Milano, con lo scopo di giustificare la permanenza presso i Visconti, criticata da Boc-

caccio e da altri amici fiorentini, che consideravano «tiranni» i signori milanesi. Per questo Petrarca insiste qui

sulla sua dignità e autonomia di intellettuale superiore alle parti. L’epistola rimane interrotta al 1351. Lo scrit-

tore intendeva collocarla in chiusura delle Senili, così come le Familiari si concludevano con lettere indirizza-

te ai grandi del mondo classico.

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sempre in cuor mio esecrato quella bassezza, quantunque vi fossi spinto dai calori dell’età e del tem-peramento. Ma tosto che fui presso ai quarant’anni, quando ancora avevo parecchia sensibilità e pa-recchie energie, ripudiai siffattamente non soltanto quell’atto osceno, ma il suo totale ricordo, come semai avessi visto una donna. E questa la pongo tra le mie principali felicità, ringraziando il Signored’avermi liberato, ancor sano e vigoroso, da una servitù così bassa e per me sempre odiosa6.

Ma passiamo ad altro. La superbia l’ho riscontrata negli altri, ma non in me stesso; e sebbene siastato un piccolo uomo, sempre mi sono giudicato ancor più trascurabile. La mia ira danneggiò assaidi frequente me stesso, mai gli altri. Mi vanto francamente – perché so di dire la verità – d’aver unanimo molto suscettibile, ma facilissimo a dimenticare le offese, ed al contrario saldissimo nel ricor-do dei benefici ricevuti. Fui desiderosissimo delle amicizie oneste e le coltivai con assoluta fedeltà. Mail supplizio di chi a lungo invecchia è appunto di dover sempre più spesso piangere la morte dei pro-pri cari. Ebbi la fortuna di godere la familiarità dei principi e dei re, e l’amicizia dei nobili, tanto daesserne invidiato. Tuttavia da parecchi di coloro che più amavo mi tenni lontano: fu sì radicato in mel’amore della libertà, da evitare con ogni attenzione coloro che sembravano esserle contrari anche nelnome solo7. I più grandi re del mio tempo8 mi vollero bene e mi onorarono – il perché non lo so; è cosache riguarda loro – e con certuni ebbi rapporti tali che in certo qual modo erano loro a stare con me; edalla loro grandezza non ebbi noie, ma molti vantaggi. Fui d’intelligenza equilibrata piuttosto che acu-ta; adatta ad ogni studio buono e salutare, ma inclinata particolarmente alla filosofia morale ed allapoesia. Quest’ultima con l’andare del tempo l’ho trascurata, preferendo le Sacre Scritture, nelle qua-li ho avvertito una riposta dolcezza (che un tempo avevo spregiata), mentre riservavo la forma poeti-ca esclusivamente per ornamento. Tra le tante attività, mi dedicai singolarmente a conoscere il mon-do antico, giacché questa età presente a me è sempre dispiaciuta, tanto che se l’affetto per i miei carinon mi indirizzasse diversamente, sempre avrei preferito d’esser nato in qualunque altra età; e que-sta mi sono sforzato di dimenticarla, sempre inserendomi spiritualmente in altre. E perciò mi sonopiaciuti gli storici; altrettanto deluso, tuttavia, per la loro discordanza, ho seguito nei casi dubbi la ver-sione a cui mi traeva la verisimiglianza dei fatti o l’autorità dello scrittore. Nel parlare, secondo han-no detto alcuni, chiaro ed efficace; ma a mio vedere fiacco ed oscuro. Ed in realtà nella conversazionequotidiana con gli amici e con i familiari non ho mai avuto preoccupazione di parlar forbito; e mi stu-pisco che Cesare Augusto l’abbia avuta. Ma dove l’argomento o la sede o la persona che m’ascoltavaparevano richiedere diversamente, mi ci sono provato un poco; con quanta efficacia, non so; l’hannoda giudicare coloro di fronte ai quali parlai. Per mio conto, purché abbia vissuto rettamente, poco micuro di come abbia parlato: gloria vana è cercare la fama unicamente nel luccicare delle parole. [...]

I miei genitori, originari di Firenze, furono persone dabbene, di condizione media, e – per dir la ve-rità – piuttosto poveri. Erano stati cacciati dalla patria9 e perciò nacqui in esilio, ad Arezzo, nell’annodi Cristo 1304, un lunedì, all’alba del 20 luglio.

Il caso e la mia volontà così hanno distribuito il mio tempo fino ad oggi. Il primo anno di vita, e nep-pure intero, lo passai ad Arezzo, ove la natura mi aveva portato alla luce; i sei anni seguenti10 essen-do stata richiamata dall’esilio mia madre, li passai all’Incisa, in una campagna del babbo a 14 migliasopra Firenze; l’ottavo a Pisa, dal nono in poi nella Gallia Transalpina, sulla riva sinistra del Rodano,nella città di Avignone, dove il pontefice romano ha tenuto a lungo e tiene in vergognoso esilio la Chie-sa di Cristo, anche se pochi anni fa Urbano V sembrò averla ricondotta alla sua propria sede11. [...]Là..., sulla riva del ventosissimo fiume12, passai la fanciullezza sotto la guida dei genitori; e poi l’ado-lescenza intera sotto la guida dei miei vani piaceri. Non senza stare lontano, tuttavia, per lunghi in-tervalli: in quel tempo, infatti, una piccola città vicina, ad est d’Avignone, Carpentras, m’ebbe per quat-tr’anni interi13. In ambedue le città imparai un po’ di grammatica, di dialettica, di retorica14, quantolo comportava l’età: cioè quanto s’usa insegnare nelle scuole; e quanto poco sia, lo capisci da te, letto-re carissimo. Partito per Montpellier a studiare legge, vi passai altri quattro anni15; poi a Bologna, e

6. Ma tosto ... odiosa: a quarant’anni Pe-trarca ebbe la seconda figlia naturale, e que-sto gli causò dei travagli morali.7. Tuttavia ... nome solo: Petrarca inten-de riferirsi ai tiranni.8. I più ... tempo: si tratta di Roberto d’An-giò, re di Napoli; Carlo IV, l’imperatore; Urba-no V, il pontefice.

9. I miei genitori ... patria: Petrarca erafiglio di un notaio, ser Petracco, e di Eletta Ca-nigiani, che lasciarono Firenze a seguito dellasconfitta dei Bianchi del 1302.10. i sei anni seguenti: dal 1305 al 1311.11. Urbano V ... sede: la cosiddetta «cat-tività avignonese» (1305-1377) fu interrottada Urbano V che dall’aprile 1367 al settembre

1370 riportò la sede pontificia a Roma.12. ventosissimo fiume: il Rodano.13. per quattr’anni interi: dal 1312 al1316.14. grammatica ... retorica: in queste trediscipline gli fu maestro Convenevole da Pra-to.15. altri quattro anni: dal 1316 al 1320.

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vi spesi tre anni16 a studiare tutto il corpo del diritto civile. Ero un giovanotto che secondo l’opinionedi parecchi prometteva grandi cose, se avessi seguitato quella strada; ma io quello studio lo lasciaicompletamente appena mi lasciò la sorveglianza paterna17. Non perché non mi piacesse la maestà deldiritto, che indubbiamente è grande e satura di quella romana antichità di cui sono ammiratore, maperché la malvagità degli uomini lo piega ad uso perfido. E così mi spiacque imparare ciò che non avreipotuto usare onestamente; d’altra parte con onestà sarebbe stato pressoché impossibile, ed il com-portamento retto sarebbe stato imputato a imperizia. E così a ventidue anni tornai a casa. Chiamo«casa» quell’esilio ad Avignone, dove ero stato sin dalla fine della mia infanzia. L’abitudine ha infattiuna forza quasi pari a quella della natura. Già dunque cominciavo ad esservi conosciuto, e comincia-va ad esser desiderata da personaggi importanti la dimestichezza con me: il perché ora confesso dinon saperlo e me ne meraviglio. Ma allora non mi meravigliavo, perché l’età mi faceva credere più chedegno di qualsiasi onore. Fui soprattutto richiesto dai Colonna, una famiglia illustre e nobile, che al-lora frequentava la curia romana: dirò meglio, la onorava; fui accolto da loro, e tenuto in un conto chenon so se oggi, ma allora certo non meritavo. Con l’illustre ed incomparabile Iacopo Colonna, alloravescovo di Lombez – non so se ho mai visto e se vedrò mai un altro che gli stia a pari –, passai in Gua-scogna, sotto i Pirenei, un’estate quasi divina per la grande piacevolezza del padrone di casa e degliospiti18, e sempre la ricordo e la sospiro. Al ritorno stetti sotto suo fratello, il cardinale Giovanni Co-lonna19, per parecchi anni, non come sotto un padrone, ma come sotto un padre; anzi, neppure: comesotto un fratello affettuosissimo e addirittura come in casa mia. In quel tempo la curiosità che è deigiovani m’indusse a percorrere in lungo e in largo la Francia e la Germania20, e quantunque altri mo-tivi fossero posti innanzi ufficialmente per giustificare la mia partenza agli occhi dei superiori, tutta-via la ragione vera era il desiderio vivo di vedere tante cose. In quei viaggi visitai prima di tutto Pa-rigi, e mi divertii a verificare cosa c’era di vero e di fantastico in quel che si raccontava di quella città.Tornato di là, andai a Roma21, che sin dall’infanzia desideravo ardentemente di vedere; a Roma mi af-fezionai tanto al magnanimo capo della famiglia Colonna, Stefano, uomo della stessa levatura di qual-sivoglia degli antichi, e tanto gli fui accetto, che avresti detto non facesse differenza fra me e i suoi fi-glioli. L’affettuoso attaccamento di quell’uomo eminente rimase immutato verso di me fino al termi-ne della sua vita22, ed in me seguita a vivere, e non cesserà se non quando sarò morto. Tornato anchedi là, non riuscivo a sopportare il senso di fastidiosa avversione che provavo per quella disgustosissi-ma Avignone (avversione in me costituzionale per tutte le città, ma particolarmente per quella). Cer-cavo un rifugio come si cerca un porto, quando trovai una valle piccola ma solitaria ed amena, che sichiama Valchiusa, a quindici miglia da Avignone; e vi nasce la Sorga, regina di tutte le fonti23. Incan-tato dal fascino di quel luogo, mi trasferii lì con tutti i miei libri, quando già avevo trentaquattro an-ni. Sarebbe una lunga storia se volessi raccontare tutto quello che ivi ho fatto per tanti e tanti anni;basti questo: quasi tutti i libercoli miei li ho compiuti o cominciati o concepiti lì, e furono tanti che fi-no a questa età continuano a tenermi intensamente occupato. La mia intelligenza è come il mio cor-po: ha più agilità che robustezza; e perciò mi fu agevole concepire tanti disegni che poi lasciai da par-te per la difficoltà di eseguirli. L’aspetto stesso della valle mi suggerì di porre mano al Bucolicum car-men, un’opera boschereccia, e ai due libri sulla Vita solitaria dedicati a Filippo, grand’uomo sempre,ma allora modesto vescovo di Cavaillon ed ora eminente cardinal vescovo sabinense24, che ormai èl’unico vivo di tutti i miei vecchi amici e m’ha voluto e mi vuole bene non da vescovo, come Ambrogioverso sant’Agostino, ma da fratello. Un Venerdì Santo25 camminavo per quelle colline quando mi ven-ne l’idea imperiosa di scrivere un poema epico su quel primo Scipione Africano, la cui fama straordi-naria mi fu cara sin da quand’ero ragazzo; dal nome del soggetto lo intitolai Africa: poema che per nonso quale ventura, se sua o mia, a tanti è stato caro senza che ancora lo conoscessero. Lo cominciai congrande lena, ma presto distratto da varie occupazioni lo misi in disparte. Soggiornavo in quei luoghi

16. tre anni: a Bologna Petrarca rimase i treanni che dedicò allo studio delle leggi e poi,con varie interruzioni, dal 1320 al 1326.17. la sorveglianza paterna: il padre mo-rì nel 1326.18. degli ospiti: si tratta del romano LelloTosetti e del fiammingo Ludwig van Kempen,conosciuti nel 1330.

19. Giovanni Colonna: fu eletto cardina-le nel 1327 e morì nel 1348.20. a percorrere ... Germania: si trattadel viaggio compiuto nel 1333 che toccò Bel-gio, Francia e Germania.21. a Roma: nel 1336.22. fino ... vita: Stefano Colonna, padre diGiacomo e Giovanni, morì tra il 1348 e il 1350.

23. quando trovai ... fonti: la scoperta diquesto luogo avvenne nell’estate del 1337.24. modesto vescovo ... sabinense: Fi-lippo di Cabassole fu vescovo dal 1334; no-minato nel 1368 cardinale, fu vescovo di Sa-bina. Morì nel 1372.25. Un Venerdì Santo: l’anno è il 1338 o1339.

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quando – sembra una favola! – mi arrivarono nella medesima giornata26 due lettere, dal senato di Ro-ma e dalla cancelleria dell’università di Parigi, che a gara m’invitavano a ricevere l’alloro di poeta e aRoma e a Parigi. Ero giovane e me ne inorgoglii, stimandomi anche io meritevole di quell’onore di cuim’avevano giudicato degno uomini sì autorevoli, e dando peso non ai miei meriti ma alle asserzionialtrui. Ero tuttavia esitante a chi dare la preferenza, e per lettera ne chiesi consiglio al cardinale Gio-vanni Colonna: abitava così vicino27 che avendogli scritto sul tardi, potei ricevere la risposta il giornodopo prima delle nove. Seguii il suo consiglio e decisi di preferire ad ogni altra cosa la maestà di Ro-ma. Ci sono due mie lettere a lui, che chiedono e approvano il suo consiglio. Dunque ci andai; e sebbe-ne – come tutti i giovani – io fossi giudice molto indulgente delle cose mie, tuttavia ebbi vergogna difidarmi al giudizio che di me stesso davo io, o che ne davano coloro che mi avevano invitato, i quali cer-to non l’avrebbero fatto se non m’avessero stimato degno dell’onore che mi offrivano. Decisi perciò direcarmi prima di tutto a Napoli, e mi presentai a Roberto28, grandissimo re e grandissimo filosofo, nonmeno illustre per la dottrina che per lo scettro: l’unico re che i nostri tempi abbiano avuto amico e delsapere e della virtù.Vi andai perché mi giudicasse secondo il suo parere; ed oggi io mi stupisco – e cre-do che sapendolo anche tu, lettore, ti meraviglierai – pensando a quale gli sembrai ed a come gli fuiaccetto. Sentita la ragione della mia venuta, se ne rallegrò straordinariamente, pensando alla mia gio-vanile confidenza, e forse riflettendo che l’onore che gli chiedevo non era senza sua gloria, dal momentoche per degno giudice io avevo scelto lui solo fra tutti i mortali. Insomma, dopo infiniti discorsi sopravari argomenti, e dopo avergli mostrato la mia Africa di cui tanto si compiacque da chiedermi il favo-re che la dedicassi a lui – e naturalmente non potei né volli rifiutarglielo – mi fissò un giorno precisoper darmi il giudizio per cui ero venuto, e mi trattenne da mezzodì fino a sera. E poiché il tempo ri-sultò inadeguato agli argomenti in continuo aumento, ripeté la cosa anche nei due giorni successivi.Sondata così in tre giorni la mia ignoranza, alla fine del terzo mi proclamò degno dell’alloro. Me l’of-friva a Napoli e mi pregava con grande insistenza perché consentissi: l’amore per Roma l’ebbe vintasulla veneranda insistenza d’un tanto re. E così, vedendo che il mio proposito era inflessibile, mi ac-compagnò con lettere e messi al senato romano, per manifestare con grande benevolenza il suo giu-dizio su di me.

Ed il giudizio del re fu allora perfettamente armonico con quello di tanti altri e soprattutto con ilmio; ma oggi non mi sento di approvare quel consenso unanime suo, mio, di tutti: sul re ebbe maggiorpeso il desiderio di incoraggiare la mia età, che non la ricerca del vero.Tuttavia andai a Roma e quan-tunque senza merito adeguato, rinfrancato e reso fiducioso da un giudizio tanto autorevole, con gran-de esultanza dei Romani che poterono assistere a quella cerimonia, ebbi l’alloro di poeta quando eroancora uno scolaro da dirozzare. Ed anche su ciò esistono delle lettere mie, in versi e in prosa. Questamia incoronazione non mi arricchì di sapienza; mi attirò invece una grandissima invidia. Ma anchequesto sarebbe un discorso troppo più lungo di quanto qui si richiede. Partito di là andai a Parma, evi passai qualche tempo con i Da Correggio, eccellenti signori, pieni di liberalità a mio riguardo, main disaccordo tra loro; i quali allora governavano la città con tale regime, quale non aveva avuto a me-moria d’uomo, e quale prevedo non potrà più avere in questo secolo. Ero pensoso dell’onore che avevoricevuto, e preoccupato che non apparisse conferito immeritatamente, quando un giorno, salendo unacollina, giunsi in un bosco chiamato Selvapiana situato al di là del fiume Enza nel territorio di Reg-gio. Colpito dalla bellezza del luogo, ripresi l’Africa lasciata interrotta, e, svegliata l’ispirazione chesembrava essersi assopita, quel giorno scrissi qualcosa; e tutti i giorni successivi sempre un poco, fin-ché, ritornato a Parma e trovata un’abitazione appartata e tranquilla (che poi ho comprata ed anco-ra è mia), in un tempo non lungo condussi a fine quell’opera con tanto entusiasmo, che oggi me ne stu-pisco io stesso. Di là tornai alla fonte di Sorga ed alla mia solitudine d’Oltralpe29... Avevo già da lun-go tempo conquistata la benevolenza di Giacomo da Carrara il Giovane30, gentiluomo perfetto e signorequale non so se in questo secolo ce n’è stato uno simile; anzi lo so: non ce n’è stato uno. Con messi e let-tere fin oltre le Alpi, quand’ero lì, e per l’Italia ovunque mi trovassi, per parecchi anni mi sollecitò e

26. nella medesima giornata: il giorno1 settembre 1340. Cominciò il viaggio per Na-poli il 16 febbraio 1341; fu incoronato in Cam-pidoglio il giorno 8 aprile dal senatore Orsodell’Anguillara.27. abitava così vicino: soggiornava in-fatti ad Avignone.

28. Roberto: Roberto d’Angiò, re di Napolidal 1309 al 1343. Di parte guelfa, e perciò ne-mico di Enrico VII, fu rinomato per la sua cul-tura (un aspetto che Dante considerava con-trastante con le mansioni di governo, cosic-ché in Paradiso, VII, v. 147 dice di lui che èdivenuto «re tal ch’è da sermone»).

29. Di là tornai ... d’Oltralpe: Petrarcarestò a Valchiusa dalla primavera del 1342 al-l’autunno del 1343. L’autore omette il secon-do soggiorno a Valchiusa nel 1346-47.30. Giacomo da Carrara il Giovane:signore di Padova fino al suo assassinio, neldicembre 1350.

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mi pregò con grande insistenza di entrare in relazione con lui. Da coloro che stanno bene non speromai nulla; pure decisi di andare da lui e vedere un po’ a che tendeva tutto quell’insistere di un perso-naggio che era grande e che non conoscevo. E così, sia pure tardi, e dopo aver dimorato a lungo a Par-ma e a Verona, ovunque, ringraziando Iddio, accarezzato assai più di quanto meritassi, andai a Pado-va31. Vi fui ricevuto da quell’uomo di illustre memoria, non come tra mortali, ma come in cielo vengo-no accolte le anime dei beati; e fui accolto con tanta gioia e con tanta inestimabile ed affettuosareverenza, che sono costretto a passarla sotto silenzio, visto che non posso sperare di esprimerla a pa-role. Tra l’altro, saputo che fin dall’adolescenza ero chierico, mi fece eleggere canonico di Padova, perlegarmi più strettamente, oltre che a se stesso, anche alla sua città. Insomma, se avesse vissuto più alungo, avrei fatto punto con il mio vagabondare e con tutti i miei viaggi. Ma ahimè, nulla tra i morta-li dura, e se ti è toccata una dolcezza, presto ti finisce nell’amaro. Iddio lo portò via, dopo averlo la-sciato meno di due anni a me, alla sua patria ed al mondo, che non eravamo degni di lui. Gli succe-dette il figlio32, illustre signore pieno di prudenza, che sulle orme del padre mi ha sempre avuto caroe sempre mi ha onorato: ma, io, incapace di stare fermo, me ne tornai in Francia33, non tanto per il de-siderio di rivedere ciò che avevo già veduto le mille volte quanto per cercare, come fanno i malati, dirimediare al disagio cambiando posto.

Trad. it. di P. G. Ricci, in F. Petrarca, Prose, a cura di G. Martellotti, P. G. Ricci, E. Carrara, E. Bianchi, Ricciardi, Milano-Napoli 1955

31. andai a Padova: dal 10 marzo al 4maggio 1349.

32. il figlio: Francesco da Carrara.33. tornai ... Francia: nel 1351. A questo

punto si interrompe l’autobiografia.

L’esilio

«Caso» e «volontà»

Avignone

Il diritto e le lettere

L’amoreper Roma antica

Primo scritto autenticamente autobiografico di un autore italiano (nella Vita nuova le vicendedell’esistenza sono subordinate a un disegno ideale, allegorico e narrativo), la Posteritati contieneun resoconto piuttosto preciso e dettagliato della vita di Petrarca, dalla nascita al 1351 (manca,per gli anni posteriori, un’analoga documentazione). L’ordine con cui vengono esposti gli avveni-menti, a partire dal ricordo dei propri genitori, è naturalmente quello cronologico, entro il quale,tuttavia, vengono ritagliati i momenti che l’autore ritiene possano dare di sé un’immagine ideal-mente compiuta. Alla semplice registrazione delle date e dei fatti si accompagna così una loro in-terpretazione, esplicita o implicita, che permette di ricondurre il discorso alla concezione del mon-do propria del poeta. Ecco alcune possibili osservazioni:

– il ricordo dell’esilio dei genitori, cacciati da Firenze per le lotte fra i «bianchi» e i «neri», vienepresentato in un modo del tutto neutro, senza suscitare emozioni; l’ideologia petrarchesca è ora-mai lontana dalle passioni politiche di Dante, che erano legate ai conflitti comunali;

– l’evolversi del «tempo» della vita è fatto dipendere dal «caso» e dalla «volontà», che, mentre sicollegano alla tradizionale antinomia fra la fortuna e la virtù, pongono l’accento sulla dimensionepsicologica ed esistenziale dell’esperienza petrarchesca: si noti, poco dopo, il riferimento all’«ado-lescenza», trascorsa «sotto la guida dei vani piaceri» (è la situazione sviluppata in numerose poe-sie);

– il soggiorno ad Avignone richiama il «vergognoso esilio» della «Chiesa di Cristo», suscitandoanche in questo caso lo sdegno di Petrarca (espresso attraverso l’aggettivo);

– dopo alcune osservazioni critiche sul “sistema” scolastico del tempo, viene sottolineata l’op-posizione fra gli studi giuridici, voluti dal padre, e gli studi letterari, prediletti invece dal poeta; ilche non esclude il riconoscimento della «maestà del diritto», espressione di «quella romana anti-chità» di cui Petrarca si professa «ammiratore»; ma introduce anche una distinzione di caratteremorale, fra i compromessi con la propria coscienza cui costringe l’esercizio dell’avvocatura e il ca-rattere, nobile e disinteressato, delle lettere;

– l’amore per i viaggi è il segno di una irrequietezza che corrisponde a un irrinunciabile biso-gno di conoscenza; il culmine di queste peregrinazioni è rappresentato da Roma, che costituisce ilfulcro delle aspirazioni ideali di Petrarca (anche Stefano Colonna è definito «uomo della stessa le-

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ANALISI DEL TESTO

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La città e Valchiusa

L’incoronazione

L’inquietudine esistenziale

Un ritratto ideale

Il “letterato”

L’amore

vatura di qualsivoglia degli antichi»); l’amore per Roma si collega alla sua ammirazione per l’an-tichità, al desiderio di trasferirsi idealmente in essa, a cui si contrappone il disprezzo per l’età pre-sente;

– il nuovo riferimento a «quella disgustosissima Avignone», per la quale ribadisce la «fastidio-sa avversione», si allarga a un più generale giudizio negativo sulla vita delle città, cui si contrap-pone la «vita solitaria» («Cercavo un rifugio come si cerca un porto...»), con brevi ma commosse no-tazioni sul soggiorno di Valchiusa e sulla Sorga, la «regina di tutte le fonti», cui è legata la memo-ria di Chiare, fresche e dolci acque, nonché su Selvapiana;

– il rapporto fra la solitudine e gli studi prelude ad alcune notizie sull’attività letteraria e sul-l’inquietudine intellettuale del poeta; è importante notare come egli insista soprattutto sull’Afri-ca, da lui considerata evidentemente la sua opera capitale, quella da cui doveva derivargli la glo-ria, e non citi neppure le rime in volgare;

– il più lungo spazio dedicato agli antecedenti e alla cerimonia dell’incoronazione poetica con-ferma il posto centrale occupato da questo avvenimento nella biografia del poeta;

– l’accenno all’«invidia», che conclude l’episodio, introduce una nota di pessimismo che sembraaccentuarsi verso la fine, con la considerazione che «nulla tra i mortali dura, e se ti è toccata unadolcezza, presto ti finisce nell’amaro». L’inconfondibile accento petrarchesco dell’espressione ri-badisce il senso di una irrequietezza esistenziale che caratterizza anche queste pagine, suggel-landole con un tono di amara e disincantata stanchezza, all’insegna di un’inquietudine («incapa-ce di stare fermo») considerata come una malattia dell’anima («come fanno i malati»).

Ad una considerazione complessiva, emerge come Petrarca voglia costruire di sé un ritrattoideale. Innanzitutto trascura le contingenze minori della sua esistenza, i fatti strettamente pri-vati, e si concentra soprattutto sui suoi rapporti pubblici coi potenti, sulla sua carriera letterariae sulle sue opere. In secondo luogo insiste sul suo disprezzo del denaro, sulla ricerca di una vitamodesta e appartata, tutta dedita all’attività intellettuale, sulla mancanza di superbia (e difattile professioni di modestia sono frequentissime), sulla castità e sul trionfo sopra le passioni, chel’han portato a lasciare i vani piaceri della giovinezza, sul rapporto di indipendenza nei confrontidei potenti, visti come amici più che come signori: è l’immagine ideale del letterato, colui che dedi-ca tutta la sua vita all’attività intellettuale disinteressata, e si offre ai contemporanei e ai postericome modello di saggezza. È singolare il distacco con cui Petrarca parla qui dell’amore per Laura,che appare assai lontano dai tormenti espressi nelle Rime: la morte, crudele ma provvidenziale,spegne la fiamma quando già era languente. Ma anche questo ridimensionamento è coerente conl’immagine idealizzata che egli vuol lasciare ai posteri.

Raccogliere le informazioni che Petrarca dà di se stesso rispetto a:

classe sociale

aspetto fisico

valore dato al denaro

amore

amicizia

libertà

studi

viaggi

gloria

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T1 PROPOSTE DI LAVORO

Page 7: FRANCESCO PETRARCA dalle Epistole T1 · PDF fileFrancesco Petrarca • T1 ©Pearson Italia S.p.A. 1 Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria 5 10 15 20 25 30 Ti verrà1 forse all’orecchio

Francesco Petrarca • T1 7© Pearson Italia S.p.A.Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria

Quali aspetti del testo con-sentono di definire Petrarcaun intellettuale cosmopolita(non più comunale) e nellostesso tempo umanista?

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Quale rapporto Petrarca af-ferma di avere avuto con i si-gnori?

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Con quale tecnica Petrarcatraccia il proprio autoritratto?(Verificare se ricorre alla cro-naca, alla precisa scansionetemporale, all’uso di affer-mazioni certe e sicure, alladrammaticità, se privilegiagli avvenimenti pubblici oquelli privati, se ricorre allaconfessione).

4Perché Petrarca sceglie perla sua epistola un insolitodestinatario come la poste-rità? Quali caratteristicheculturali questo destinatariodeve possedere per potercomprendere il messaggiodell’autore?

2

Ricercare tutte le espressio-ni del testo con le quali Pe-trarca, fingendo di sminuirsi,in realtà si esalta (ad esem-pio ritrovare le parentesi, gliincisi, le attenuazioni retori-che).

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