Francesco Orlando, Statuti Del Soprannaturale Nella Narrativa

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FRANCESCO ORLANDO Statuti del soprannaturale nella narrativa I. Una credulità illimitata. Mentre Don Chisciotte dorme, dopo che dalla prima sortita è tornato a casa bastonato, il curato e il barbiere bruciano i suoi libri di cavalleria e murano la stanza dove si trovavano. «Forse, togliendo la causa, sarebbe cessato l’effetto». Niente, al contrario, servirà a rende- re inattaccabile la pazzia di lui quanto la motivazione che gli viene imbastita per la scomparsa della sua biblioteca. È stata opera d’un mago, venuto a cavallo d’un serpente e volato via dal tetto: lui accetta il racconto come omogeneo alla fantasia cavalleresca, tanto che subito lo rimotiva e arricchisce in proprio 1 . Ed ecco pronta per il capitolo seguente, per la prima avventura della seconda sortita, la miglior giustificazione del suo violento cozzo contro terra, che altrimenti la darebbe vinta alle ragioni di Sancho e della realtà. «Credo, ed è verità, che quel mago Frestón che mi rubò la stanza e i libri, ha cambiato questi giganti in mulini, per togliermi la gloria di batterli: tanta inimicizia mi porta!» 2 . Altri dieci capitoli, e senza la stessa scappatoia, gli riuscirebbe piú difficile non trarre sane conseguenze dalle sassate che gli hanno fracassato costole, dita e denti. Quel furfante del mago nemico, alla cui genia «è facilissimo farci apparire ciò che vogliono», per invidia della sua gloria «ha cambiato gli squadroni dei nemici in greggi di pecore». Sancho ne dubita? che li segua un po’, e li vedrà riconvertirsi da montoni in uomini 3 . Sancho finisce con l’imparare la lezione cosí bene che il cavaliere se la vedrà imposta a sue spese dallo scudiero, inver- tite le parti. Quando a lui non appaiono che una brutta contadina e le compagne su tre asini, Sancho gli assicura che è Dulcinea con due don- zelle sui loro palafreni. E lui dichiara per primo, nell’interpellarla trasformata com’è, che un mago malvagio ha posto «nuvole e cateratte» sui suoi occhi 4 . Si duole piú tardi: «M’hanno perseguitato maghi, maghi mi perseguitano e maghi mi perseguiteranno...» 5 . Non è, però, che tutti i maghi nelle storie cavalleresche siano cattivi. Anzi, quando gli pare sorprendente che Sancho sia andato e tornato dal Toboso cosí presto come se avesse volato, comprende chi lo ha sospinto a sua insaputa: «quel dot- to negromante che ha cura delle cose mie ed è mio amico, perché per forza

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Critica letteraria Francesco Orlando

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FRANCESCO ORLANDO

Statuti del soprannaturale nella narrativa

I. Una credulità illimitata.

Mentre Don Chisciotte dorme, dopo che dalla prima sortita è tornato a casa basto-nato, il curato e il barbiere bruciano i suoi libri di cavalleria e murano la stanza dove si trovavano. «Forse, togliendo la causa, sarebbe cessato l’effetto». Niente, al contrario, servirà a rendere inattaccabile la pazzia di lui quanto la motivazione che gli viene imba-stita per la scomparsa della sua biblioteca. È stata opera d’un mago, venuto a cavallo d’un serpente e volato via dal tetto: lui accetta il racconto come omogeneo alla fantasia cavalleresca, tanto che subito lo rimotiva e arricchisce in proprio1. Ed ecco pronta per il capitolo seguente, per la prima avventura della seconda sortita, la miglior giustificazione del suo violento cozzo contro terra, che altrimenti la darebbe vinta alle ragioni di Sancho e della realtà. «Credo, ed è verità, che quel mago Frestón che mi rubò la stanza e i libri, ha cambiato questi giganti in mulini, per togliermi la gloria di batterli: tanta inimicizia mi porta!»2.

Altri dieci capitoli, e senza la stessa scappatoia, gli riuscirebbe piú difficile non trarre sane conseguenze dalle sassate che gli hanno fracassato costole, dita e denti. Quel furfante del mago nemico, alla cui genia «è facilissimo farci apparire ciò che vogliono», per invidia della sua gloria «ha cambiato gli squadroni dei nemici in greggi di pecore». Sancho ne dubita? che li segua un po’, e li vedrà riconvertirsi da montoni in uomini3. Sancho finisce con l’imparare la lezione cosí bene che il cavaliere se la vedrà imposta a sue spese dallo scudiero, invertite le parti. Quando a lui non appaiono che una brutta contadina e le compagne su tre asini, Sancho gli assicura che è Dulcinea con due donzel-le sui loro palafreni. E lui dichiara per primo, nell’interpellarla trasformata com’è, che un mago malvagio ha posto «nuvole e cateratte» sui suoi occhi4.

Si duole piú tardi: «M’hanno perseguitato maghi, maghi mi perseguitano e maghi mi perseguiteranno...»5. Non è, però, che tutti i maghi nelle storie cavalleresche siano cattivi. Anzi, quando gli pare sorprendente che Sancho sia andato e tornato dal Toboso cosí presto come se avesse volato, comprende chi lo ha sospinto a sua insaputa: «quel dotto negromante che ha cura delle cose mie ed è mio amico, perché per forza ce n’è uno, e ci dev’essere, altrimenti non sarei un buon cavaliere errante». L’annientamento delle distanze è esempio di magia benefica: un cavaliere può esser preso «mentre dorme nel suo letto, e senza sapere come o qualmente si sveglia il giorno dopo a piú di mille leghe da dov’era al farsi notte». Cosí, mentre uno di essi rischia di soccombere combattendo con draghi o mostri nelle montagne d’Armenia, può arrivargli in aiuto su una nuvola o un carro di fuoco un altro che poco prima si trovava in Inghilterra, e che ci si ritroverà la sera stessa6.

Don Chisciotte si aspetta di essere similmente trasportato, alla vista d’una barchetta vuota, nell’episodio dei mulini sul fiume7. Per conciliare l’apparente promessa iniziale col solito esito disastroso, alla fine dell’episodio arriva a postulare una doppia con-temporanea presenza: «E in quest’avventura devono essersi incontrati due valenti maghi, e l’uno impedisce quel che l’altro intraprende; l’uno m’ha disposto la barca, l’al-tro m’ha rovesciato in acqua»8. È l’unica volta che ricorre a un’ipotesi di cosí illimitato e infallibile potere esplicativo; anche l’ipotesi d’un solo mago buono in azione resta una

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pura induzione, nel passo citato prima. Ma è semplicemente perché a lui, Don Chisciotte, di fatto va sempre male. Garante d’uno dei tratti piú simpatici e piú comici del personaggio, qual è l’imperturbabilità, la sua gnoseologia a fondo magico permetterebbe applicazioni ancora piú estese di quanto non occorra alla sua sfortunata esperienza.

Difficile dire se tutto si spiega perché non si spiega niente, o niente perché si spiega tutto. Sancho attacca a fondo la pretesa che una bacinella da barbiere sia l’elmo di Mambrino? Dimostra un «raziocinio corto»:

È mai possibile che da quando sei con me non ce l’hai fatta a capire che tutte le cose dei cavalieri erranti sembrano chimere, sciocchezze e stravaganze, e che sono tutte fatte al contrario? E non perché sia davvero cosí, ma perché si muove sempre in mezzo a noi una caterva di maghi che tutte le nostre cose mutano e svisano, e le girano a piacer loro, e secondo che abbiano voglia di favorirci o rovinarci; e cosí questa che a te pare bacinella da barbiere a me pare l’elmo di Mambrino, e parrà altro ad un altro9.

Durante la contesa sullo stesso oggetto all’osteria, gli sfugge detto: «ché non tutte le cose di questo castello saranno condotte per incantesimo»; cioè, sarebbe un’eccezione qualcosa che non fosse adulterato. Poco dopo, non osa «dire affermativamente nulla», su quanto succede nel presunto castello, perché s’immagina che succeda tutto «per via d’incantesimo»10. Di tanta prudente apertura al possibile, come s’è visto, non manca d’approfittare l’astuzia di Sancho. Ottiene cosí, dal padrone, brevissimi assensi colloquia-li, insignificanti se non andassero presi alla lettera per quello che sono: il massimo della credulità permissiva. Forse, in fondo alla caverna di Montesinos, un’ora equivale per incantesimo a tre giorni e tre notti? Risposta di Don Chisciotte: «Cosí sarà»11. Ciò che gli cola in faccia da dentro l’elmo, non è ricotta, certo, che vi sia stata nascosta; è allora una prova che anche Sancho viene perseguitato da maghi? Risposta di Don Chisciotte: «Tutto può essere»12.

Tutto può essere, le cose sono tutte fatte al contrario. Appena meno vertiginosa della prima proposizione, la seconda oggi può rammentare un postulato dei linguaggi dell’inconscio secondo Freud: la «rappresentazione mediante il contrario». Di cui è male-dettamente impossibile prevedere quando vige o non vige: «il sogno si prende anche la libertà di rappresentare qualsiasi elemento con il suo desiderio antitetico [Wunschgegen-satz], di modo che, di fronte a un elemento che ammette un proprio contrario, da prin-cipio non sappiamo se è contenuto nei pensieri del sogno in senso positivo o negativo»13. Non è forse a causa di quest’irritante postulato che è stata piú spesso contestata la serietà prescientifica della psicanalisi? E prima d’una scientificità abituata a eludere il cosiddetto irrazionale, non se n’era già irritata l’assoluta razionalità a confronto con l’irra-zionale assoluto? A metà strada fra Cervantes e Freud, voglio dire, non c’era stato l’illuminismo?

È una logica restia a tagliare netto fra i contrari quella che Voltaire derise senza tre-gua, nel simbolismo biblico soprattutto. Ma per brevità basta qui citare, da La prin-cipessa di Babilonia, l’oracolo consultato per devozione, da cui sarebbe difficile trarre una qualsiasi conseguenza: «Mistura di tutto; morto vivo, infedeltà e costanza, perdita e guadagno, calamità e fortuna»14. Certo, a Cervantes un’analoga logica veniva, in buona misura, dai romanzi di cavalleria che a sua volta intendeva deridere. Eppure dubito che nei romanzi e poemi in questione, dal Cinquecento su su fino all’assunzione letteraria della materia di Bretagna nel grande XII secolo francese, il soprannaturale abbia mai goduto di tutta la libertà che ha nella mente di Don Chisciotte. Se ci è dato per pazzo, questa non è l’ultima ragione. Nei suoi libri ci sono, fra le molte regole che sa a menadito, regole del soprannaturale; non c’è però la necessità di estenderle tanto. Tanto da coprire qualunque smentita inflitta, dalla realtà, alle illusioni che lo rendono simpatico e comico.

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2. I limiti necessari del credibile.

Regole del soprannaturale: chi non ne ricorda in una qualche fiaba, chi non sa come a volte siano esplicite e precise? Risaliamo davvero al XII secolo. Nell’Ivano di Chrétien de Troyes, un cavaliere di Artú in cerca d’avventure perviene a una fontana insieme fredda e bollente, sotto un albero. L’acqua, se con un bacino pendente dall’albero la si versa sopra una gran pietra, scatena sulla foresta una tempesta terrificante. Prescrizioni eseguite quattro volte, da personaggi diversi15; quali che ne fossero il senso e l’origine nel folklore celtico, il loro effetto avvia e conclude la trama del poema. Ma il punto è che le regole del soprannaturale non si circoscrivono affatto in un caso evidente come le prescrizioni.

Nel Lai piú adorabile di Maria di Francia, Guigemar, il principe bretone prode e bello che rifugge dall’amore ha ferito una cerva. La freccia rimbalza e lo ferisce, l’animale par-la, gli profetizza che guarirà solo per mano di una donna che soffra d’amore quanto lui16. Una profezia ha ancora una vaga somiglianza con una prescrizione. Non cosí ciò che segue: Guigemar scorge un porto dove non sapeva che ce ne fosse alcuno, sale su una nave in cui non trova anima viva, s’è appena sdraiato che la nave è già in alto mare, si addormenta17. Il vecchio re della terra dove arriverà, geloso della giovane moglie, la fa custodire in una stanza reclusa fra un’invalicabile muraglia e il mare. All’approdo della nave, la regina con la sua damigella sveglia il giovane, lo cura, lo nasconde18. I loro amori durano un anno e mezzo prima di venire sorpresi dal re. Il rivale apportato dal mare è rimesso in mare coi peggiori auguri, ma la nave da sé lo riporta in patria19; la donna è imprigionata, ma un giorno trova aperta la serratura e pronta la nave20; si ricongiungeranno in Bretagna, con poche altre peripezie.

Un soprannaturale, dunque, per niente cristiano, propizio alla naturalità dell’amore. Rimedia a un dato iniziale strano, la riluttanza del protagonista verso le donne; e strano, sognante, è tutto il tono che in un riassunto della trama va perduto. Solitudine precede e segue l’episodio della cerva parlante, connota la magica nave semovente, situa tacitamente fuori dal mondo sia la clausura della bella che la felicità dell’adulterio. In teoria c’interessa questo: se, invece, il soprannaturale non avesse che le funzioni d’un espediente narrativo per aggirare gli ostacoli, potrebbe passare muraglie e sorveglianze in modi svariatissimi, comunque meno imprevedibili. Di fatto esso risulta non solo orientato tematicamente, poiché arride solo ai due amanti, ma spazialmente per cosí dire localizzato.

E questo, eccettuata la foresta della cerva, sempre in rapporto al mare: come dire a una distanza, a un tragitto. La distanza che separa l’una dall’altra le situazioni di par-tenza degli amanti, e loro entrambi dall’amore. Il tragitto che mettendoli fronte a fronte svela la misteriosa complementarità di quelle due situazioni: in senso sia tematico sia spaziale, poiché l’amore arriva dal lato dove a segregare la donna c’è solo il mare, natura non murata né sorvegliata. Siamo però lontanissimi dall’allegoria. Siamo piuttosto vicini a capire qualcosa che altri testi d’ogni sorta potranno confermarci, e che la folle licenza della logica di Don Chisciotte velava.

Nelle sue articolazioni letterarie, sole di mia competenza, il soprannaturale non può che venire configurato, tratteggiato, ritagliato da regole, al punto da tendere a consistere in esse. La loro motivazione può anche restare oscura e latente (ho scelto apposta un te-sto come Guigemar); al limite, può bastare come motivazione la loro presenza stessa. Si fanno valere in un ambito che non è immaginario solo in quanto fictio letteraria. All’in-terno di questa, è supposizione di entità, rapporti, eventi in contrasto con leggi della real-tà sentite come naturali o normali, in una situazione storica data. (E non sospese da

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convenzioni di genere letterario: nella favola esopica, non risulta soprannaturale che gli animali parlino; nella lirica, non lo è mai che la fantasia metaforica congiunga tutto con tutto). Se la definizione di soprannaturale che ho appena proposta è piú estensiva di quelle correnti, adoperarla permetterà un maggior numero di accostamenti e differenziazioni.

Entro tale ambito due volte immaginario, tocca alle regole limitare determinandola, e determinare limitandola, l’infinitezza della fantasia, l’informità del non essere, la plasticità del vuoto preliminare. Epoca per epoca, testo per testo, le regole vengono inventate in proprio e/o riprese da codici preesistenti; culturali, questi, e/o già letterari. Se un rimando a codici mitologico-religiosi può informare sul perché di quel tal soprannaturale nella tale opera, il rimando a quelli letterari apre un circolo vizioso: spiegare col codice le opere, o meglio il loro successo, vuol dire scordarsi che il codice si spiega col successo delle opere. In ogni caso, non si dà soprannaturale che immaginariamente sostituisca in tutto l’ordine della realtà, ma solo che lo modifichi in parte; e sia pure in gran parte. Una vera radicale alternativa è inconcepibile. Quand’anche consistesse nella mera, anarchica rappresentazione d’un caos.

3. In un altro mondo, o in un mondo altro.

Leggi naturali o normali della realtà: e se la fictio letteraria si esenta da esse, si situa per intero altrove? se ispirandosi a codici culturali, o no, crea coi propri pieni poteri un’altra realtà? L’uno è il caso, teologia e fantasia collaborando, nientemeno che della Commedia di Dante. Poema che ha un solo personaggio vivo, che comincia allegorizzando l’uscita dal mondo dei vivi, finisce nell’istante stesso di rientrarci; e dà una soluzione estrema alle esigenze di localizzazione del soprannaturale.

La traversata del mondo dei morti evoca, seguendola, una topografia non meno fisica che morale. La quale si dà per cosí poco accidentale da farsi ammirare, quale manifestazione della razionalità infallibile di Dio, quasi non fosse invenzione d’autore: «O somma sapïenza, quanta è l’arte – che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, – e quanto giusto tua virtú comparte!»21. Localizzazione è qui un insieme complicato, motivato, grandioso e totalitario di localizzazioni: l’opposto d’un al di là rivelato per visioni singole. Un formidabile horror vacui vieta d’immaginarlo altrimenti che secondo la continuità dell’esperienza sensoriale terrena. Può dettare circostanziate comparazioni che, partendo a rovescio da un altro mondo, riportano costantemente al nostro – e nean-che sempre quale termine soccombente a una superiorità iperbolica. Vera opposizione fra i due mondi è un perpetuo capovolgimento morale: l’ordine della giustizia divina presuppone, nel sostituirlo castigando o premiando, il disordine del mondo peccatore.

Qui come non mai, il soprannaturale è fatto di regole. Può essercene perfino una, di ultraterrena psicologia, che disperatamente affretta l’esecuzione delle regole distributive: nei dannati vicinissimi alla pena, «la tema si volve in disio»22. Tutt’altro che arbitrarie, esse equivalgono alla razionalità divina, la topografia equivale ad esse, il viaggio alla topografia: si va, letteralmente, di regola in regola. Nell’Inferno, dove l’itinerario è piú materialmente credibile, non è predisposto per il vivo Dante né per il fuoruscito Virgilio; gli spostamenti contrastati, ingegnosi o faticosi sceneggiano un soprannaturale di secondo grado. Nel Purgatorio, le sofferte difficoltà dell’ascesa lungo le cornici della montagna assumono valore non solo espiatorio ma allegorico-morale, senza perdere troppo in fisicità. Nel Paradiso, con passaggi subitanei, inavvertiti o rispecchiati in rapimenti, le luminose localizzazioni dei beati non sono meno visionarie per essere illusorie ad personam.

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Contribuí senza dubbio anche un rifiuto del soprannaturale, di questo soprannaturale cosí concreto nel suo bassomedievale razionalismo, alla bestemmia della tesi di Croce sull’impoeticità della «struttura» («la rappresentazione dell’altro mondo, dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, non poteva essere soggetto intrinseco della sua poesia»23). Si constata cosí indirettamente, presso alti esponenti d’una cultura laica, quanto la secolare prossimità della Chiesa cattolica sia arrivata a ottundere la sensibilità al soprasensibile sotto il cielo italiano. Contini purtroppo avrebbe aggiornato a modo suo («e dunque, addio viaggio») la tesi di Croce24. La migliore, piú puntuale smentita di essa è nei versi di Dante: è la suprema poesia dello sguardo retrospettivo dall’alto, nell’ultimo canto, al-l’immensità del viaggio e alla progressione delle sue tappe. «Or questi, che dall’infima lacuna – dell’universo infin qui ha vedute – le vite spiritali ad una ad una...»25.

E il caso che una realtà integralmente altra sia creata senza appoggiarsi a codici pre-esistenti, coi pieni poteri della fictio letteraria? È documentabile anch’esso? Con un salto di secoli, sí: è precisamente il caso del racconto di Borges, La biblioteca di Babele. La sostituzione totale non è che apparente, come in Dante, come sempre. Pure, s’impone nella prima frase con la prepotenza immediata d’un pugno sul tavolo: «L’universo (che altri chiamano la Biblioteca) si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali...»26. La biblioteca, la quale perdurerà estinta la specie umana27, è una natura; in quanto tale è oggetto sfuggente d’interrogativi e investigazioni. Metto da parte, come per il poemetto di Maria di Francia, ogni tentazione d’interpretare: non perché il compito dei compiti sia fuori moda, o perché Borges fa dell’interpretazione il tema stesso del racconto, agnostico e mistico, libresco eppure tremendo. L’ambizione di queste pagine, piú modesta, è di recare un contributo alla teoria.

Sull’universo fatto dunque biblioteca, le informazioni proseguono coi pozzi di ventilazione fra gli esagoni, i palchetti che di essi coprono quattro lati su sei, gli anditi angusti che sboccano in altre gallerie tutte identiche. Ma a sinistra e a destra, ci sono «due gabinetti minuscoli. Uno permette di dormire in piedi; l’altro, di soddisfare i bisogni fecali»28. Residui del nostro universo, la cui permanenza o no è imprevedibile: si parlerà di suicidi, di malattie polmonari, di epidemie29; non si parlerà mai di mangiare, mettiamo, o di fare l’amore. Nemmeno di donne; e gli uomini tutti, pare, sono bibliotecari. Come intendere concretamente che le loro peregrinazioni degenerano «in brigantaggio»30? I morti vengono sepolti, e si dissolvono, facendoli precipitare nei pozzi all’infinito31. La permanenza in quest’universo di tutto ciò che proviene dal nostro esige estraniate modifiche.

Primo residuo, la biblioteca stessa, con le sue parti e predicati. Che colui che informa e dice io abbia in gioventú «viaggiato»32, vuol dire che ha lasciato, per altri esagoni, «il dolce esagono natio»33. Le informazioni sicure sono poche rispetto alle congetture, opinioni, dimostrazioni, scoperte, la cui pluralità e precarietà si cimenta con la compren-sione dell’universo. Si sa il numero di palchetti, libri, pagine, righe, lettere per esagono34; ma «la natura informe e caotica di quasi tutti i libri» estrania la biblioteca, rende la sostituzione di universo contraddittoria. Per trovare anormale un libro che contenga tre lettere «perversamente ripetute dalla prima riga all’ultima», o «un mero labirinto di lettere», per parlare di «insensate cacofonie, di farragini verbali e d’incoerenze», ci vuole la nozione del libro normale. Ma da dove può venire questa nozione, se qui nell’intera massa dei libri s’incontra al massimo «una riga ragionevole o una notizia giusta»35?

La casistica tende addirittura a quell’anarchia che suggerivo prima, alternativa all’in-sostituibilità della realtà totale. «Escluso è solo l’impossibile. Per esempio: nessun libro è anche una scala»36. S’incrociano con surreale amenità i residui, spregiando su scala continentale geografia e distribuzione delle lingue: sarà accertato infine che i «quasi due fogli di righe omogenee», creduti portoghese da un «decifratore ambulante», yiddish da altri, sono «un dialetto samoiedo-lituano del guaraní, con inflessioni di arabo classico»37.

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È detto invece con trepida solennità che le lettere «dhcmrlchtdj» devono pur racchiu-dere, in qualche lingua segreta della biblioteca, «un terribile senso»; che non si può articolare sillaba senza che sia, in qualche lingua, «il nome possente d’un dio»38. Tutto è non senso o tutto è senso, ma non si passa oltre a ogni regola se non per ipotesi ideale, anche qui.

4. Uno statuto fra tanti, il solo studiato.

La dimensione realistica del quotidiano è deformata dalla pazzia di Don Chisciotte, lontana dalla materia di Bretagna, trascesa in Dante, abolita in Borges. Pure è nel quadro di essa che da un paio di secoli siamo piú avvezzi, e proviamo piú emozione, a sentir irrompere il soprannaturale. La Venere d’Ille di Mérimée era nel 1837 una novella d’am-bientazione contemporanea, che si svolge in Rossiglione ma ha per narratore un parigino. Scettico, si capisce, su ciò che gli confida in disparte il giovane sposo di pro-vincia atterrito. La statua da poco dissepolta di Venere, al cui dito questi aveva infilato l’anello per poter giocare a pallacorda, quando voleva riprenderselo ha stretto il dito. «È mia moglie, evidentemente, visto che le ho dato il mio anello...»39. L’induzione superstiziosa, che all’altro dà un attimo di brivido, non spiegherebbe l’inesplicabile se non potesse, come una regola, avere conseguenze ulteriori. Presto infatti ci sarà di che temerla tragicamente confermata.

La novella figura tra gli esempi piú puri di un «fantastico» definito dall’esitazione da-vanti al soprannaturale, nel libro di Todorov che, inaugurando tutta una bibliografia, ha rilanciato il concetto40. Ho verso questo libro, salve le riserve, un debito duplice. La sua definizione di fantastico, e relativa periodizzazione storico-letteraria, non richiederanno che alcuni importanti aggiustamenti per essere adottate e utilizzate qui sotto. Ma c’è forse ancora di piú. Il libro dimostrava che è possibile definire in modo convincente uno statuto letterario del soprannaturale, e documentarlo in un periodo determinato e in un insieme di generi. Perché, mi chiedo da anni, quanto è stato possibile per uno non dovrebbe esserlo anche per altri statuti, in altri periodi e generi – virtualmente per tutti?

Queste pagine propongono sperimentalmente un modo di procedere, attraverso pochi esempi. Non mi è mai parso un caso che la riuscita di Todorov, a considerarla iniziatrice, vertesse su uno statuto del soprannaturale per cosí dire centrale o simmetrico. Su quello statuto che, mettendolo sotto il segno del dubbio, lo lascia in equilibrio instabile fra riconoscimento e rigetto della sua consistenza ontologica. Guardando ai nostri esempi precedenti, chi non converrebbe che in Chrétien o in Marie, in Dante, perfino in Borges, la consistenza prestata al soprannaturale è maggiore di quanto non consenta l’esitazione in Mérimée; che è minore invece in Cervantes, dove la evacuano comicità e pazzia? Meno banale sembrerà capovolgere le cose, e rispondere alle domande seguenti. Quando la consistenza è maggiore, e sia pure massima, è sempre anche plenaria, ossia esente da limitazioni o incrinature? Quando è minore, e sia pure minima, è sempre anche deficitaria, ossia priva di ogni allettamento o richiamo?

Ho già cercato di mostrare come sia impossibile dare, a simili domande, risposte affermative; che cioè mettano in termini di tutto o niente la fiducia avocata, a beneficio del soprannaturale, da diverse specie di letteratura. Ridiamo sí della credulità di Don Chisciotte in fatto di maghi, come delle altre sue stravaganze; ma parallelamente simpatizziamo o ci identifichiamo in lui, per l’una come per le altre. E non è certo l’unico esempio ad agire cosí. D’altra parte, saliamo sulla nave di Guigemar, percorriamo l’altro mondo con Dante, c’insediamo nella biblioteca di Babele; ma «quella volontaria sospensione dell’incredulità per il momento, che costituisce la fede poetica» (piú calzanti del solito le famose parole di Coleridge41), non è incondizionata. Che non lo sia dipende

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dal concetto stesso che ho introdotto per primo e a cui ho attribuito portata piú generale, quello di regole.

5. Credito, critica e formazione di compromesso.

Se non è questione di tutto o niente, sarà piuttosto questione di proporzioni. Fra che cosa e che cosa? Chiedercelo, a questo punto, non serve tanto a individuare le istanze già intraviste nell’altalena di consistenze forti o deboli del soprannaturale, quanto a scegliere i nomi con cui chiamarle. È legittimo o no (altrimenti che per gusto mnemonico dell’allitterazione) parlare di credito e di critica? Di un credito, s’intende, accordato al soprannaturale affinché esista; di una critica opposta al soprannaturale poiché non esiste? Gli inconvenienti sono particolarmente evidenti per la seconda espressione. La critica rischia di ritorcersi, dal soprannaturale, su chi fa uso della parola critica; peggio, della parola soprannaturale essa stessa.

Mi riporto a una lucida pagina di Durkheim, oggi lontana in data e non sospetta di relativismi facili. L’idea di soprannaturale presuppone il senso d’un ordine naturale, di leggi inderogabili da cui i fenomeni sono legati; questo determinismo universale è ben posteriore a un’antichità in cui gli eventi piú meravigliosi non erano sentiti, nell’ac-cezione moderna, come miracoli41. Dobbiamo allora, per parlare e di soprannaturale e di critica, aspettare Bacone, Galileo, Cartesio? Tutti e tre nacquero entro cinquant’anni dopo Cervantes, il cui nome fa rimbalzare lo scrupolo all’altro estremo: forse non dobbiamo nemmeno parlare di credito per il Don Chisciotte, che si chiude riaffermando il desiderio di «rendere aborrite agli uomini le false e insensate storie dei libri di ca-valleria»43. Quanto poi, figuriamoci, ai romanzi di un Voltaire... Forse, se era saggio da parte di Todorov e tanti altri attenersi al fantastico e basta, è solo perché in quel caso la bilancia di credito e critica non può pendere troppo né da una parte né dall’altra.

Tentiamo di non darla vinta a uno storicismo da non presumere l’unico o il migliore: quello che, preso da vertigini davanti alle troppo lunghe durate, nel chiudere gli occhi su di esse si acceca sulla dimensione teorica. La quale viene aperta, invece, dal bisogno di confrontare qualunque fenomeno esistente con qualunque altro anche lontanissimo – e talvolta con fenomeni inesistenti, in via ipotetica. Certo, i nostri due termini credito e critica, della cui vacillante incompatibilità vive il fantastico ottocentesco, altrove possono l’uno o l’altro essere anacronistici; quasi rendersi tali a vicenda. Suppongo che ci siano testi di agiografia medievale leggibili senza mai portare a coscienza, come limitazione del credito, quel minimo di regole che pure ho dato per immancabile. E una tale limitazione minimale ha meno a che fare con un’istanza critica che coi piú semplici, empirici diritti del senso della realtà.

Di contro, so per pratica che ci sono testi illuministici da leggere senza che la critica antireligiosa permetta cedimenti inconsci, ammetta risvolti di fascinazione in prodigi, leggende o dogmi. E se cosí è tanto piú quanto il testo in questione è piú ideologico, anche nei piú narrativi o letterari può darsi che il credito salga a stento sopra zero. Entrambi i termini suonano impropri nei casi estremi, o di fiducia nel soprannaturale o di sua demistificazione: il nome di critica sotto il polo positivo delle credenze appena regolate, il nome di credito sotto il polo negativo dell’incredulità militante. Ma ciascuno dei due risulta appropriato nel caso in cui l’istanza opposta sembra scomparire, magari scende al di sotto della coscienza; non basta forse perché, teoricamente, siano appropriati entrambi in tutti i casi intermedi? Ritengo di sí, ad un patto: che la serie dei casi intermedi si lasci disporre in modo graduale o scalare, collegando gli estremi.

Chi non è convinto da questi ragionamenti nutra pure, se continua a leggere, una riserva tutto sommato innocua: poco pertinente, infatti, rispetto agli esempi su cui vorrei

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poi soffermarmi. Sospetti pure che lo scrivente, un modernista, proietta sul medioevo e sull’antichità modelli buoni solo dopo la frattura creata dal maturare dello spirito critico moderno, tra riforma e illuminismo. O addirittura che proietta sul Sette, sul Sei, sul Cin-quecento, modelli suggeriti dalla frequentazione dell’Otto e del Novecento. Non lo nego: il pregiudizio da cui sono indotto a mantenere i termini credito e critica è di origine freudiana. Si lega a opinioni mal riassumibili e tanto meno difendibili, qui, in breve.

Si lega all’idea che dopo Freud non abbia piú senso parlare d’un irrazionale contrapposto a una razionalità, ma piuttosto di razionalità diverse, piú o meno permissive o esigenti. All’idea che la vera struttura portante di ciò che Freud scoprí, e «sfortunatamente chiamò l’inconscio»44, sia una struttura piuttosto di ordine logico, o meglio antilogico: il concetto di «formazione di compromesso». E che lo stesso concetto si riveli fecondo, fino a essere imprescindibile, nella teoria e nell’analisi della letteratura. Freud è tanto rigoroso nell’uso dei concetti quanto restio alle definizioni; perciò ne produco una mia. «Definiamo formazione di compromesso una manifestazione semiotica – linguistica in senso lato – che fa posto da sola, simultaneamente, a due forze psichiche in contrasto diventate significati in contrasto»45.

Il concetto è soggiacente al seguente passo freudiano sulla psicogenesi del motto di spirito, nel libro relativo. Un passo secondo me piú che estensibile, come altre teorizzazioni di quel grande libro, alla letteratura in generale. Si tratta del piacere dell’assurdo, e dei giochi infantili con le parole:

...qualunque fosse il motivo che spingeva il bambino a cominciare con questi giochi, nello sviluppo ulteriore si dedica ad essi con la coscienza che sono insensati, e trova la sua soddisfazione proprio nell’attrattiva di ciò che è proibito dalla ragione. È per sottrarsi alla pressione della ragione critica che adesso utilizza il gioco. Ancora piú dispotiche sono però le restrizioni che devono affermarsi durante l’educazione a pensare correttamente e a distinguere ciò che nella realtà è vero da ciò che è falso, e perciò la ribellione contro la costrizione del pensiero logico e della realtà viene dal profondo ed è incessante; anche i fenomeni dell’attività fantastica rientrano in questa prospettiva46.

Storicizzare queste straordinarie righe è meno semplice di quanto parrebbe. Certo, ragione critica e pensiero logico sono innanzi tutto o soltanto quelli a cui Freud poteva pensare nel 1905, all’uscita dal periodo positivista. Ma l’educazione di cui si parla non è solo a pensare correttamente, è anche a distinguere il vero dal falso; la costrizione, oltre che della logica, è della realtà. Ci sono veramente state epoche storiche in cui quest’ulti-ma esigenza non si poneva neppure? O in cui non rappresentava minimamente una co-strizione, e non poteva suscitare nessuna forma, neppure superficiale e intermittente, di ribellione? In ogni caso c’interessa l’ultima breve frase, che ho messa in corsivo. Essa attribuisce come origine lo stesso piacere alla letteratura in generale (a partire, per ipotesi, dal motto di spirito), e alla letteratura con temi soprannaturali in particolare. A un ambito immaginario già una volta, e all’ambito che ho chiamato due volte immaginario. Qualsiasi letteratura richiede la compresenza d’istanze opposte, è in sé una formazione di compromesso: fra reale e irreale. Quei temi richiedono una qualche sospensione d’incredulità in piú, dal massimo al minimo, e nella prima formazione di compromesso ne introducono una seconda. Quasi producessero letteratura al quadrato.

So bene che quei temi, trasversali al verso e alla prosa come ai generi letterari piú diversi, si possono studiare da tanti punti di vista. I quali non si escludono fra loro; possono combinarsi, anzi, risposte a tante domande quante sono le variabili degne d’at-tenzione. Da dove viene, il soprannaturale? quando non è inventato ex novo, ecco le variabili delle tradizioni storico-nazionali: greca e latina, giudaica e cristiana, celtica, germanica-scandinava, orientale d’importazione, folclorica intercontinentale. In che cosa consiste? inventato, reinventato o no, offre variabili di materia, nei temi stessi o nei miti

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ed eroi: magia e fantasmi, metamorfosi e animismo, gli dèi e le personificazioni di natura, i profeti e i santi, le fate e il diavolo, Medea, Mosè, Gesú, Lancillotto, Sigfrido, Armida, Faust. Che cosa significa? salvi tutti gl’imprevisti dell’interpretazione, conosce variabili sia in senso allegorico-morale, come l’eterno conflitto fra bene e male, la moderna denuncia dei prezzi del progresso, ecc., sia nel senso del simbolismo psicana-litico, dal trauma della nascita a ogni trasfigurazione dell’erotismo. Che effetto produce? fanno da variabili, chiamiamole tonali o affettive con tutte le sfumature e contaminazioni, il sorriso del diletto e la risata dello scherno, l’incanto dei prodigi e il brivido del sacro, l’inquietudine del sinistro e l’attanagliamento del terrore. Quali epoche attraversa? le variabili storico-cronologiche, importantissime, ma impossibili da abbordare senza aver fatto distinzione fra le tante forme assunte dalla tematica, rinviano preliminarmente a tutte le altre variabili.

Ora, la questione di metodo è la seguente. A parità di variabili storico-cronologiche, storico-nazionali, mitiche o propriamente tematiche, allegoriche o simboliche, tonali o af-fettive, resta ancor sempre un’altra variabile e un’altra domanda. In che proporzioni il so-prannaturale si presta, rispettivamente e simultaneamente, al credito e alla critica? Altrimenti detto, secondo lo stesso punto di vista: entro quali formazioni di compromesso si forma? L’accostamento di testi differenti o lontani per data, per lingua, per materia, per senso sottinteso, per emozioni sollecitate, può essere tuttavia illuminante se basato su analogie di fondo negli statuti a cui s’intitolano queste pagine. Su analogie, cioè, relative ai modi del rapporto di convivenza fra due razionalità: una piú compiacente e una piú intransigente, sempre. Di tutte le variabili precedenti è doveroso tenere gran conto, ma non è nessuna di esse ciò che mi pare piú avvincente studiare. La mia ipotesi di lavoro è che, di testo in testo, la tematica del soprannaturale in letteratura vada studiata come una serie di formazioni di compromesso.

6. Dalle favole di Omero allo scherno di Voltaire.

In principio erano le regole (per la buona ragione che, piú in principio ancora, è il caos). Primaria fra le regole del soprannaturale sembra la localizzazione, che lo limita e determina immaginandolo là e non altrove. Si parte idealmente dal poema omerico piú ricco di mostri e portenti, l’Odissea. Lungo il racconto di Ulisse ad Alcinoo, gli approdi dell’eroe toccano altrettante localizzazioni del soprannaturale, favolosamente geo-grafiche: ora le terre, ora ancor meglio le isole, dei Lotòfagi, dei Ciclopi, di Eolo, dei Lestrígoni, di Circe, dei Cimmerii, delle Sirene, del Sole, di Calipso; piú la discesa all’Ade, e lo stretto fra Scilla e Cariddi47. Un giorno, saranno isole dei mari nordici le tappe portentose d’un viaggio di vivi verso l’isola dei beati. La Navigazione di San Brandano, d’ignoto autore irlandese, in prosa latina altomedievale, conobbe tanto successo per tre o quattro secoli da raggiungere Dante.

Per millenni, fino al Sei-Settecento, fino agli ultimi poemi epico-religiosi, il credito ac-cordato al soprannaturale potè essere pieno. Sappiamo che il credito piú pieno non fa a meno di regole, bensí riduce alle regole un’istanza limitativa a cui si appropria male il nome di critica. La localizzazione peraltro non è l’unica regola possibile, né le sole forme di localizzazione sono quelle esemplificate finora nello spazio: spazio di transizione, spazio ultraterreno, spazio remoto. Ci sono localizzazioni nel tempo. Per non indugiare su quanto precede l’avvento del romanzo moderno, indico quelle la cui evidenza mi fa fare economia di citazioni: il tempo ricorrente della notte, e in esso l’ora della mezzanotte; il tempo a sua volta remoto, e irripetibile, del passato mitico. Irripetibile ossia incontrollabi-le, qualifiche che originariamente non conferivano se non maestà a un tale tempo; pure,

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volendo, dall’incontrollabile all’incredibile il passo è breve. I primi a volersene accorgere furono già scrittori latini e greci.

Nel primo libro delle Metamorfosi, Ovidio racconta del diluvio, di Deucalione e Pirra soli risparmiati, dell’oracolo che per rinnovare la specie prescrive loro di gettarsi pietre alle spalle. Quando arriva alla metamorfosi delle pietre in uomini, intercala in meno d’un esametro: «chi ci crederebbe, se non fosse l’antichità ad attestarlo?»48. Domanda la cui malizia rovescia il rapporto che stabilisce: l’autorità del tempo non accredita l’incredibile, sarà già molto se questo non scredita quella. Parlare di critica, stavolta, non è illecito. Ma forse che in quel verso, e attraverso tutto il poema, una critica inversamente proporzionale al credito ha la stessa forza che avrà in Cervantes? Rispondere di no significa lasciar intravedere un altro dei casi intermedi; e con esso, la loro gradualità.

Un accostamento che si voglia basato su proporzioni massime di critica e minime di credito, per le letterature antiche, porta piuttosto a Luciano di Samosata. Nel suo Zeus attore tragico, gli dèi assistono dall’alto alla disputa, davanti a una folla, fra uno stoico e un epicureo: sul primo, che prende le loro parti, ha la meglio il secondo negando la loro esistenza. Comparabile col risvolto di simpatia che si riserva Don Chisciotte, cioè con un credito nascosto, è soprattutto la Vera storia. Il piú volutamente inverosimile dei racconti mette anche qui in caricatura altri romanzi; «iniziatore e maestro di simili ciarlatanerie» fu appunto Ulisse, per ciò che narra ad Alcinoo49. Qui il narratore è verace viceversa nel darsi per menzognero: «Scrivo dunque di cose che né ho viste né ho vissute né ho apprese da altri, né anzi affatto esistono né possono assolutamente avvenire»50.

Vogliamo, a questo punto, darci una terminologia? Chiamerei soprannaturale letterario di tradizione il piú forte: accreditato al massimo, convalidato da durevoli reificazioni dell’immaginario collettivo, limitato unicamente dalle proprie regole. Per quanto ogni testo lo ricrei in una nuova forma, le materie sono tramandate attraverso i secoli, piú o meno fedelmente. Di contro il piú debole, criticato al massimo, lo chiamerei soprannaturale di derisione: mai originario, sempre reso storicamente possibile dal superamento d’una razionalità inferiore. Distinguerei da esso, sia pure come il piú vicino, un soprannaturale d’indulgenza. Il sorriso in luogo del riso, se si vuole; a metterla in termini psicologici però i trapassi sarebbero ancora piú fluidi, le distinzioni piú fluttuanti, che nelle categorie definite a cui può dopo tutto aspirare la teoria della letteratura.

Meglio dire che il terzo statuto differisce dal secondo, anche a partire da eguale incredulità sottintesa, perché lascia venire allo scoperto un compiacimento nella credu-lità superata, nella regressione irrazionale. La questione del vero e del falso è accantonata da lusinghe edonistiche. Da un piacere, non tanto fine a se stesso, quanto trovato nell’attrattiva di ciò che è proibito dalla ragione – con le parole di Freud. Dominante nell’antichità fu il soprannaturale di tradizione. Ma basterebbero Luciano e Ovidio per provare che sopravvenne a contrastarlo quello di derisione, a levargli peso quello d’indulgenza. Credo che il medioevo si sia avvicinato a questi ultimi di rado, o appena, o tardi; rinuncio per prudenza a optare fra le due categorie, di fronte alle ambiguità dei casi di frate Alberto e soprattutto di frate Cipolla, in Boccaccio51.

Fu rinascimentale e italiana, in ogni caso, la vera riscoperta del soprannaturale d’in-dulgenza. In Boiardo, la materia di Bretagna ha un bel sovrabbondare di regole e localizzazioni fiabesche; non è a riparo da un’ironia che ne fa pagare la godibile inverosi-miglianza all’arcivescovo Turpino, alla tradizione personificata in “fonte”. Se di Orilo, ta-gliato in due da un colpo di spada, la metà rimasta a cavallo va a risuggellarsi con la metà caduta (cosí vorrà poter fare Don Chisciotte52), è tal cosa che «avengaché Turpino a ciò me mova – Io stesso a racontarla mi vergogno»53. Ariosto, si sa, eclissò anche in fatto d’ironia il predecessore. Se l’ippogrifo in volo è «un’alta maraviglia, – che di leggier creduta non saria»54, a questo e altro sarebbero applicabili due versi riferiti a qualcosa che soprannaturale non è, la verginità dell’avventurosa Angelica: «Forse era ver, ma non

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però credibile – a chi del senso suo fosse signore»55. In Rabelais si vuole, invece, che sia doveroso credere alla nascita di Gargantua dall’orecchio sinistro di sua madre. «Se non ci credete, che me ne importa, ma un uomo dabbene, un uomo di buon senso crede sempre quel che gli è detto, e quel che trova scritto»; tanto piú quando nelle sacre scritture non c’è nulla in contrario, e nulla è impossibile all’onnipotenza divina, e i precedenti abnormi vanno dalla mitologia alla scienza di Plinio56.

Sulle varianti censurate di simili passi, da un’edizione all’altra di Rabelais, influí l’in-sorgere del protestantesimo in Francia. Direi, in generale e sui tempi lunghi, che riforma e controriforma influirono sia sul soprannaturale di tradizione che su quello d’indulgenza: sul sistema di alternative che essi costituivano insieme. Fu come se ormai quello di tradizione, per aver parte nella profondità d’un capolavoro, dovesse aggravarsi d’una qualche figurazione di problemi fra teologici e morali. Esempi per eccellenza l’inferno, il demonio o i demoni, i maghi e le maghe loro strumenti, che restando ideologicamente condannati possono captare la predilezione del lettore, nei grandi poemi epico-religiosi: dal cattolico Tasso ai protestanti Milton e Klopstock. Caduta, libero arbitrio, peccato, dannazione, redenzione, resurrezione, stimolano inventività poetica nella misura stessa in cui la loro problematicità si è accresciuta. (Nel teatro, dietro lo spettro paterno che appare ad Amleto, Shakespeare mette l’orrore d’un crimine contro natura; Racine, dietro i mostri con cui è imparentata Fedra, la tremenda predestinazione giansenista).

D’altra parte lo spirito critico nuovo, nient’affatto estraneo allo stesso rinnovamento religioso, favorí gli slittamenti dal soprannaturale d’indulgenza a quello di derisione. Nel primo Seicento, mentre la materia di Bretagna veniva genialmente presa di mira da Cervantes, in Italia e in Francia la mitologia greco-romana subí offensive di piú modesto livello: nei poemi eroicomici alla Tassoni, burleschi alla Scarron. La Disputa degli Antichi e dei Moderni esplose in Francia solo a fine secolo. Ma le premesse c’erano anche altrove e prima, covavano in quell’aspetto modernista del barocco che lo rese bifronte e lo predestinò a ripudi violenti. Fu non a caso Perrault, il capofila dei Moderni francesi, ad attingere dal retaggio folclorico un soprannaturale innocuo: altro da quello bretone scre-ditato, da quello classico consunto, da quello cristiano compromettente.

Dicono i versi all’inizio di Pelle d’asino: «Perché mai vi meravigliate – Che la ragione piú sensata, – Se è stanca del troppo vegliare, – Da racconti d’orchi e di fate – In modi ingegnosi cullata – Trovi piacere a sonnecchiare?57». Ancora nel tardo Settecento tedesco, Wieland, all’inizio del suo Oberon medievaleggiante, addita alla propria musa gli ascoltatori: «Inclini alla convenzione reciproca, – Se sai ingannarli, di lasciarsi volenterosi ingannare»58. Epigrafi per il soprannaturale d’indulgenza; piú d’ogni altro affidato, non tanto alla materia dei racconti, quanto a delicate ironie di scrittura. E solo statuto che non saprei documentare nel romanzo, almeno nel romanzo per adulti. Con le fiabe di Perrault, nel 1697, esso entrava nella letteratura a destinazione infantile; dove sarebbe perdurato sino all’Ottocento, sino alle fiabe di Andersen, a Pinocchio di Collodi, ad Alice nel paese delle meraviglie di Carroll. Come il soprannaturale di tradizione, dal canto suo, sino alle fiabe genuinamente arcaiche dei fratelli Grimm.

Nel 1704, con Le Mille e una notte tradotte dall’arabo, Galland dotò la prosa francese d’un favoloso ulteriormente inedito. Preso, anziché dal basso, da fuori, da una letteratura esotica; e adatto a rielaborazioni indulgenti se non derisorie. Contribuí cosí a fare che prediligesse spunti orientali la narrativa illuministica matura, fin dalle Lettere persiane e da Zadig. Nell’andirivieni epistolare del romanzo di Montesquieu, essere persiani consente sí di guardare con estraniamento critico l’occidente, Parigi, il cattolicesimo, i suoi dogmi. Pure l’oriente è e resta l’antichissima patria di varie cose sotto processo: mi-to, metafora, poesia, religione rivelata e cattiva logica che le accomuna, il tutto depositato in libri sacri. Rimando all’analisi che avevo fatta delle lettere 16-18, dove il Corano, in superficie degno delle Mille e una notte, sotto sotto si presta a stare per la

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Bibbia. E Montesquieu sta ad entrambi come Luciano o Cervantes ai loro romanzi, come stanno a un qualche testo serio, per lo piú, autori altrettanto irriverenti. Il soprannaturale di derisione trionfa in un impossibile dialogo fra logica buona e cattiva: nel doppio senso che contro la filosofia il mito ha ridicolmente torto, ma che a lasciarne parlare la regressiva retorica c’è segretamente gusto59.

Il primo dei racconti filosofici di Voltaire non concede quasi neppure altrettanto. Si disputa in Babilonia: o il grifone non esiste, e allora perché vietare di mangiarne; o, dal momento che è vietato, bisogna che l’animale esista. Della saggezza conciliante di Zadig fa le spese l’inesistente, la cui nullità di conseguenze diventa passibile di rispettose gradazioni: «Se ci sono grifoni, non mangiamone; se non ce n’è, ne mangeremo ancora meno...». Per poco Zadig non fa le spese della propria saggezza, accusato dal dotto autore di tredici volumi sui grifoni60; l’inesistente è verboso e persecutorio. La Principessa di Babilonia lascia riapparire a tratti il sorriso dell’indulgenza, però si ride senza volere dei patriarchi biblici apprendendo, ad esempio, l’età della madre di Amazan: «era una dama di circa trecento anni; ma della sua bellezza qualcosa restava ancora, e si vedeva bene che dai duecentotrent’anni ai quaranta circa era stata incantevole»61. Meno letto dei capolavori, Il toro bianco è l’affabulazione d’una propaganda fattasi accanita in tarda età. Dipende infatti dalla qualità letteraria dei suoi libelli antireligiosi, a decine, se è notorio che con Voltaire la derisione ha l’ultima parola come non mai; al punto che il soprannaturale conserva a stento l’eco d’un appello, tendenzialmente viene ridotto al silenzio.

7. La tematizzazione del dubbio.

A quali condizioni, dopo l’illuminismo, un soprannaturale forte poteva riprendere la parola? È la domanda storica a cui di fatto rispondono gli studi sul fantastico, per lo piú senza saperlo. Definendo il concetto in base all’esitazione, Todorov ha attirato su una giusta intuizione di fondo varie riserve. Dopo tanti altri, a me preme contestare la troppa importanza da lui data agli scioglimenti narrativi: fantastico sarebbe ciò che, alla fine, né si razionalizza nello «strano» né si conferma nel «meraviglioso». La tesi esclude i maggiori successi del gotico inglese, I Misteri di Udolfo della Radcliffe dove il so-prannaturale finisce razionalizzato, Il Monaco di Lewis dove non tarda a confermarsi. Ora, nella produzione gotica da Il castello di Otranto di Walpole (1764) fino a Melmoth l’errante di Maturin (1820), guarderei innanzi tutto al significato che acquista la serie delle localizzazioni: spaziali e temporali.

Nel tempo, di romanzo in romanzo e per epoche intermedie, dal secolo XI di Walpole ci si avvicina alla contemporaneità del 1816 di Maturin. Perché invece nello spazio, a partire da un’estremità sud-orientale come Otranto, si resta quasi sempre in Italia meridionale, in Spagna, non piú a nord della Francia centrale? Perché, credo, un tale spazio è anch’esso tempo: scrittori e lettori del paese piú avanzato d’Europa proiettano nel meridione cattolico, superstizioso, feudale, turbolento, passionale, il loro stesso passato superato. La localizzazione in negativo ne presuppone una in positivo, da cui sono assicurati entro l’Inghilterra i confini della vera civiltà. La prova si avrà nel romanzo della Austen che, stando a quello della Radcliffe come Don Chisciotte ai romanzi di cavalleria, rasenta deliziosamente il soprannaturale di derisione. La giovane Catherine è disillusa e rinsavita, dopo aver creduto di rivivere Udolfo nell’ammodernata Abbazia di Northanger che la ospitava. No, certi orrori non resterebbero nascosti, qua «dove strade e giornali mettono tutto allo scoperto»; di sicuro non nella parte centrale del paese, a non voler proprio garantire per zone marginali62.

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All’inizio dei Misteri di Udolfo siamo, nel 1584, fra Guascogna e Linguadoca. Ma la poetica del romanzo storico è di là da venire: la protagonista Emily, come suo padre, coltiva valori apertamente settecenteschi, borghesi, protestanti – inglesi. La razionalità superiore da sottoporre a grave indecisione si accorda con un’individualistica intimità, familiare e sentimentale63. Si stabilisce un solido piano realistico, nel contrasto di questi valori coi controvalori di parenti mondani e ambiziosi; una riuscita degna d’altri generi di romanzo è il petulante personaggio della zia, Madame Cheron poi Montoni. Perduto il padre, caduta in balia del temibile secondo marito italiano di costei, la giovane viene condotta a Udolfo sugli Appennini. L’orrida sublimità della montagna, caposaldo nella riscoperta preromantica della natura, già contemplata a distanza davanti ai Pirenei, si muta ora nell’altra faccia del sublime: quella da Burke imparentata col terrore64.

Un terrore di ordine, oltre che naturale e prima che soprannaturale, sociale: viaggiando «attraverso regioni di profonda solitudine», la gola piú selvaggia e appartata sembra a Emily «un luogo perfettamente adatto come ritiro di banditi»65. Il vero oggetto di ciò che presto ha temuto in Montoni pur ammirandolo, losco, bello e audace com’è, si rivela un arbitrio pronto a non rispettare diritti, non rispondere di atrocità, farsi giustizia da sé66. La diffidenza anticattolica resta virtuale, salvo brevi passi contro i conventi67

(l’autrice si rifarà abbondantemente in L’Italiano). Dei due grandi archetipi edilizi assurti in quel rivoluzionario scorcio di secolo a simboli dell’antico regime, è l’altro a dare ospitalità supposta al soprannaturale: il castello. Localizzazione nella localizzazione del superato. Una volta fantomatizzata a tal punto, con lo sguardo estraneo d’una classe usa ad abitazioni ben piú raccolte, la dimora dei signori anteriori ha tutti i titoli per fun-gere da sfondo sinistro. L’immensità svuotata delle orgogliose proporzioni da tempo inu-tili68; l’irrazionalità labirintica di corridoi, svolte, passaggi e appartamenti remoti69; la decadenza incombente che fa rovinare torri, tetti, mura, cappelle, ali intere 70.

Immensità, irrazionalità e decadenza in cui si resta isolati, ci si smarrisce e si respira morte. Un castello solo non basta, e scampata da Udolfo, Emily vedrà proseguire e sciogliersi le sue peripezie a Château-le-Blanc in Linguadoca. C’era passata vicino col padre morente: esemplari del brivido nuovo i brevi dialoghi coi contadini, che piú delle stranezze viste o udite li avevano distolti dal provare a pernottarci, non con notizie de-terrenti ma con reticenze inquietanti71. Tocca però al castello italiano mettere il coraggio e la ragione dell’eroina a tale cimento che l’uno e l’altra, il luogo e il soggetto, diventano complementari. L’uno impone le condizioni del dubbio a cui deve resistere l’altra: «Mentre passava lungo le ampie e solitarie gallerie, fosche e silenti, si sentí abbandonata e timorosa di... non sapeva bene che cosa»72.

Questa «apprensione d’ignoto che risale verso l’assolutezza dello spavento infantile»73, fa perdonare i frequenti svenimenti, e sentire tuttora l’originalità un po’ sbiadita del romanzo. Rende indimenticabili quale illusorio soprannaturale, per lo piú notturno, i lamenti al di là d’una delle innumerevoli porte74, i silenzi o suoni a distanza75, gl’inseguimenti tortuosi76, le voci uscite dai muri77, le figure indistinte nel buio78, i cadaveri decomposti veri o di cera79, perfino le musiche misteriose di mezzanotte80. Le immancabili razionalizzazioni non disperdono l’atmosfera, proprio perché impreve-dibilmente distribuite su tutte le misure: dagli equivoci rassicurati entro poche righe o paragrafi, agli enigmi che lungo centinaia di pagine sottendono l’intera trama.

L’esitazione è un concetto necessario ma insufficiente se, al di sotto del tempo piú lineare e piú labile, le soluzioni di essa diventano quasi indifferenti. Come ribattezzare il concetto reso adeguato? Tenuto conto che la paura ha radici in una profondità dov’è indelebile il soffio del soprannaturale, non bisogna badare che alla tematizzazione del dubbio: poco importa quanto protratta e come risolta. Burke (dicendo necessaria al terrore l’oscurità, causa dei suoi poteri «la nostra ignoranza delle cose»81) ci autorizza a parlare di un soprannaturale, meglio ancora che d’incertezza, d’ignoranza. Teo-

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ricamente, la nostra tipologia verrebbe a strutturarsi sulla simmetria delle tre risposte possibili, alla questione della consistenza ontologica: un sí e un no agli estremi, con le inverse attenuanti che abbiamo visto; al centro, un forse. Si tratta però d’un centro, oscillante, che tende a sbilanciarsi impercettibilmente verso il sí.

Fa parte dell’eredità illuministica, nella Radcliffe, il pessimismo della ragione: quando a Château-le-Blanc si discute se gli spiriti possano rivisitare la terra, il gentiluomo che lo nega trova piú argomenti e meno seguaci82. La cameriera Annette poi è fonte di dicerie accolte con cosí illogica fede, che il cannone accanto a cui «qualcosa» sarebbe apparso le vale come prova dell’apparizione83. Ma Emily non è solo esposta alla loquacità incolta di Annette. Il dubbio alligna in lei stessa, e di molte frasi ricorrenti fa succinte for-mazioni di compromesso, dove il vocabolario vuole screditare ciò che l’informazione sta accreditando. Se ne ha un esempio al piú presto: «benché sorridesse al sentir menzionare questa ridicola superstizione, non potè, nel suo presente stato d’animo, resistere del tutto al contagio»84. E la tematizzazione del dubbio sarebbe inconcepibile, senza l’altra maggiore innovazione apportata, per giustificarsi, dal soprannaturale d’i-gnoranza. Per la prima volta, sebbene si racconti in terza persona, esso appare non in prospettiva d’autore ma sempre di personaggio: filtrato da una soggettività, guardato da un punto di vista.

Parleremo allora di soprannaturale d’ignoranza anche in un caso in cui le ragioni per non parlare di fantastico sono opposte, rispetto all’esempio gotico. Là il soprannaturale, plausibile in uno spazio-tempo fuori mano, era smentito; stavolta, inammissibile a contatto col qui ed ora, è in definitiva avverato. Hoffmann aveva inaugurato dal 1809 (Il cavaliere Gluck) le ambientazioni contemporanee e quotidiane, quasi rinunciando alla localizzazione. Il vaso d’oro, del 1813, ha per sottotitolo: Fiaba dell’età nuova.

Lo studente Anselmus avrebbe buone speranze di arrivare a segretario intimo o perfino a consigliere aulico, in Dresda, se non gliele guastasse una scalogna di goffi infortuni come quello che apre il racconto. Si rifugia afflitto sotto un sambuco, e quando comincia a udire bisbigli e tintinnii, poi vede rilucere fra i rami tre serpentelli verde oro, dice a se stesso: è solo il vento della sera, che oggi si fa intendere in parole; è il sole, che fa scintillare smeraldi nel fogliame. Conosciamo questo bivio, giganti o mulini, elmo o bacinella? si tratta però d’un romantico Don Chisciotte a rovescio. Lo studente, bello ma vestito fuori moda come se il sarto sapesse d’un moderno frack per sentito dire85, ha ragione lasciandosi andare alle sue allucinazioni e rendendosi sospetto di pazzia. Nell’ar-chivista Lindhorst ha un mago buono vero, è vera la strega che sotto diverse vesti lo perseguita; incarnato in savi funzionari quali il condirettore Paulmann e il cancelliere Heerbrand, il senso della realtà di Sancho ha torto.

Ma come abbiamo visto, l’oscillazione è prima di tutto interiorizzata nel protagonista. Abbraccia il sambuco, invoca i serpentelli svaniti; compatito dai passanti, perde ogni me-moria dei prodigi; la ritrova in barca, al riflesso dei fuochi d’artificio sull’Elba; sta per get-tarsi in acqua, si rifà compatire, soffre un folle dissidio; sente bisbigliare: «credi in noi», rivede le tre strisce lucenti, no, è lo specchiarsi di finestre illuminate...86 Ho riassunto tre o quattro pagine su un centinaio; le transizioni nei due sensi continuano in media al-trettanto numerose. Talvolta stupende, se all’indubitabile delle localizzazioni si sostituisce una dubbiosa prospettiva. Come quando, di sera, un uomo lungo e magro «gli fu davanti all’improvviso»; e dopo un dialogo in cui l’identità dell’archivista è compromessa dall’inverosimile, lo è dall’incertezza se si allontani nel crepuscolo un uomo o un avvoltoio, se il vento sospinga falde di soprabito o grandi ali in volo87.

Scrivendo in terza persona, Hoffmann come la Radcliffe anticipa l’uso prospettico della prima persona che si dimostrerà il piú idoneo al soprannaturale d’ignoranza88. L’i-ninterrotta tematizzazione del dubbio, le recidive sia del credito che della critica, si distribuiscono specularmente sotto i segni inversi. Con la stessa intermittenza, Anselmus

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resta fedele alle apparizioni anche entro il mondo borghese di Veronika, figlia di Paulmann; torna a peccare di scettico buon senso anche man mano che si approssima alla concretizzazione femminile di Serpentina, figlia di Lindhorst. Il quale, oltre che archivista, è un mago e una salamandra.

La «discosta antica casa» di costui89, dove Anselmus va a copiare manoscritti, e dove la biblioteca si alterna a una fatata serra, localizza certo il soprannaturale; e lo intensifica all’eccesso, dato che Hoffmann è in genere al meglio quanto piú è conciso. Metamorfosi e trasfigurazioni moltiplicate in libertà sfiorerebbero il Kitsch, solo conviene ricordarsi che il soprannaturale d’ignoranza stenta qui a svincolarsi non da quello di tradizione, ma da quello d’indulgenza. Cosí a maggior ragione nel racconto fiabesco di Lindhorst al caffè, che suscita a due riprese clamorose risate. A Heerbrand sembra «magniloquenza orientale», mentre lui lo dà per «letteralmente vero»; non manca di aggraziate ironie («un bel tipo in gamba di negromante, che si era comprato in Lapponia un alloggio per l’estate»90).

Nell’analogo racconto di Serpentina ad Anselmus, si parla del presente come del «tempo infelice in cui la lingua della natura non sarà piú intesa dalla degenere stirpe de-gli uomini», a meno di avere «un infantile animo poetico»91. In un appello al lettore, il soprannaturale è oggetto d’una nostalgia «che lo spirito, come un bambino severamente educato e timido, non osa esprimere»92. Alla fine, chi diventa consigliere è Heerbrand; e Veronika, superate le tentazioni di soprannaturale nero della strega, lo sposa. Mentre Anselmus si è unito a Serpentina; dove? in Atlantide. L’imbarazzo del narratore a con-cludere viene risolto, scrivendogli una lettera e porgendogli una bevanda, da chi? dall’archivista-salamandra93. Il dubbio tematico si annulla nell’immaginario al quadrato, elevato a letteratura per antonomasia; ma il grande avvenire del soprannaturale d’ignoranza non avrebbe seguito questa via a ritroso.

8. La rimotivazione del mistero.

Per poco gli studi sul fantastico non ce lo fanno credere l’unico statuto del sopranna-turale invalso tra fine Sette e fine Ottocento. Difficile dimenticare l’esistenza e la fortuna europea del Faust di Goethe, dell’Anello del Nibelungo di Wagner; d’accordo, ma non c’è lí per ingerirli l’onnivora categoria del meraviglioso? Punto di partenza della mia ricerca è stato il diffidare di questa pigra, antistorica assimilazione retrospettiva. Presto seguito da un convincimento: di statuti post-illuministici del soprannaturale, negli ultimi decenni del Settecento, ne sorsero due ad un tempo, non uno. Il Faust esorbita dalla narrativa. Ma devo pur rifarmi, con almeno un’osservazione, al modello originale dell’altro statuto; fecondo anche in narrativa, durante lo stesso arco di secolo. Nelle fonti (libro popolare del 1587, spettacolo di marionette dal tardo Seicento), colui con cui il dottore stipula un patto poteva prendere il nome di Mefistofele, rispondere a domande sull’inferno, avere caratteristiche proprie. Non per questo rappresentava sostanzialmente altro che una tautologia da soprannaturale di tradizione: il diavolo è il diavolo. In Goethe le cose non sono cosí semplici.

L’identità diabolica ha già fatto discutere maestro e discepolo secondo il bivio donchisciottesco, cane spettrale o barboncino innocuo94? Faust ha in seguito assistito a piú d’una metamorfosi, quando viene al dunque: «Allora, chi sei?». La risposta non suona minimamente prevedibile, né potrebbe mai riuscire immediatamente chiara: «Una parte di quella forza – Che sempre vuole il male, e sempre opera il bene». Il dottore deve insistere: «Cosa s’intende con questo indovinello?». L’ulteriore replica è poco meno imprevedibile e oscura95; non la riporto neppure, forse per noi basta cosí. Mi compete

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ancora meno d’altre volte ciò di cui per fortuna il contributo teorico non ha bisogno, interpretare.

Interroghiamoci solo sull’effetto che fa la risposta di Mefistofele, a lettori colti che non abbiano in mente o sotto gli occhi un commento. C’è una forza che vuole il male e opera il bene, che fa cosí sempre, e di cui il diavolo è una parte... Di che razza di discorso si tratta? Non richiama citazioni della sacra scrittura, non ha l’aria di provenire da una teologia; malgrado stia in bocca al diavolo, potrebbe anche non riferirsi a una sfe-ra soprannaturale. Siamo nell’ambito di una metafisica o di un’etica laica? di ciò che Voltaire aveva cominciato a chiamare filosofia della storia? Una cosa è sicura: qui il dia-volo definisce se stesso, e l’autodefinizione è cosí singolare da essere una ri-definizione.

Affinché un soprannaturale letterario forte ridivenisse accettabile in un mondo desacralizzato, si dava un percorso solo in apparenza meno moderno che il dubbio e la prospettiva, che il quotidiano e il contemporaneo. Ci si poteva riportare, come se niente fosse, alla tradizione: alle sue localizzazioni, ambientazioni leggendarie o lontane, presentazioni a tutto tondo. Il soprannaturale che mi accingo a individuare, infatti, con-vive spesso con quello di tradizione, gli si alterna mediante trapassi inosservati. L’importante è che in momenti essenziali le antiche motivazioni, indebolite o perdute, siano sostituite da rimotivazioni efficaci. L’inattuale acquista allora un’attualità tanto maggiore in quanto supremamente problematica: per la seguente ragione.

Proprio a partire dalla svolta storica che accelerò come mai prima i ritmi del progresso, il presente cominciava ad avere aspetti sentiti come enigma, oltre che come trauma. Trasporli in soprannaturale, al fine di significarli, voleva dire ricorrere a ciò che è misterioso per eccellenza; e che lo è a priori, essendo anche qualcosa, per eccellenza, di anteriore. Cosí il soprannaturale ritrova consistenza ontologica. La prende a prestito dal rinvio, perentorio anche se latente, a referenti di realtà: un rinvio che chiamerei allegorico-referenziale (a scanso di confusioni con l’allegoria vecchia o nuova). E tali referenti, luoghi di minor resistenza della realtà, trovano nel soprannaturale un’espres-sione enigmatica adeguata. I primi sono i soli che abbiano bastante pregnanza per rimo-tivare il secondo; il secondo è il solo che abbia bastante mistero per esprimere i primi.

Chiamiamo di trasposizione questo soprannaturale che, anziché intravisto o velato, è dato per conoscibile innanzi tutto lasciandolo parlare. Di cui non è una voce ignara a riferire quel che può dall’esterno, bensí una voce autentica a rivelare quel che vuole dall’interno. Se mi astengo dal decidere a cosa rinvii l’autodefinizione del Mefistofele di Goethe, assicuro in compenso: non resterà l’unico diavolo a rimotivarsi da sè, nell’Ot-tocento. Vari suoi discendenti letterari, nel farlo, si rapportano presumibilmente alla razionalità del progresso – seppure in negativo come ai loro simili si addice. Peccato che Il giocatore generoso di Baudelaire sia un poema in prosa, che io non possa leggere nell’originale I fratelli Karamazov di Dostoevskij (libro XI, capitolo 10). Per restare vicino alla genesi del soprannaturale di trasposizione, come di quello d’ignoranza, prendo un testo databile fra il 1781 e il 1787. Vathek, racconto arabo, fu scritto in francese dall’in-glese William Beckford poco piú che ventenne.

Risente di piú generi narrativi: la favola all’orientale, il racconto filosofico, il gotico ai suoi albori (per noi, tre statuti diversi). Il soprannaturale di derisione alla Voltaire è cosí gustoso, nell’impertinente disinvoltura di piú dei nove decimi del testo, che si può dire inatteso il terribile finale senza far torto all’unità dell’insieme. Eppure, chi è il Giaurro, lo straniero che fa subito da doppio mostruoso rispetto a Vathek, al califfo esagerato in appetiti fisici come in sete di conoscenze? Negli uni lo sorpassa; per l’altra, gli prospetta una meta misteriosa. Con ciò di sé parla poco ed equivocamente, ma parla. E cosa significano le «straordinarie», le «impossibili» merci da lui esibite appena compare: «pantofole che aiutavano il piede nella marcia; coltelli che tagliavano senza il movimento della mano; sciabole che a un minimo gesto vibravano il colpo»96?

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Quando Vathek scende gradini che non finiscono mai e passa un portale, comprendiamo che il luogo a cui è giunto, e il Giaurro che lo accoglie, sono versioni musulmane dell’inferno e del diavolo. La tradizione da rimotivare si dà per orientale; niente di piú occidentale delle rimotivazioni. Fantasmagorica l’immensità del luogo, l’elevazione delle volte, la lontananza da cui irradia un fulgore crepuscolare. Ma nella folla di coloro che passeggiano pallidi come cadaveri, con occhi simili a fosforescenze da cimitero e una mano sul cuore arso da fiamme, tutti sono taciturni; assorti o frenetici, si evitano vagando a caso come se ognuno fosse solo. Da ogni parte si apre intorno una vera esposizione di ricchezze, pietanze, allettamenti. Ancora di merci, insomma: colossale quanto quella che caratterizzerà le società capitalistiche secondo Marx. Liberi di percorrerla a piacimento, senza porte chiuse per loro, tutti non la fanno oggetto che di disattenzione e indifferenza97.

Se è questo l’inferno, a cui si arriva giú per una scalinata senza accorgersi di morire, forse ci si trovava già in esso da vivi? L’implicita equazione col mondo contemporaneo fa che si vada a cercare il paese di cui nessuno ha sentito parlare e si entri nella regione sconosciuta, da cui veniva il Giaurro98, senza sapere cosa si cerca e dove si entra. Profusione e spreco, sazietà e disappetenza artificiali, si svelano profeticamente dietro i possenti appetiti dell’epoca borghese eroica in cui visse Beckford (le origini della sua smisurata fortuna di famiglia non erano neanche commerciali o industriali, ma coloniali e schiavistiche).

Borges afferma che «si tratta del primo inferno realmente atroce della letteratura»99: ne ha sentito la modernità, pur leggendolo in chiave solo metafisica. E senza una chiave anche metafisica, non se ne passa lo spaventoso portale. Sia detto chiaro: il soprannaturale di trasposizione è tale a pieno titolo, piú forte di quello d’ignoranza, poco meno di quello di tradizione. Il suo rinvio allegorico-referenziale non si risolve in un’allegoria dei referenti, anzi, riverbera una trasfigurazione di essi. A riprova: non è necessario che il lettore, o perfino l’autore, portino rinvio e referenti a coscienza. Basta sentirci qualcosa di noto e familiare, anche se non viene riconosciuto (un po’ come nella definizione freudiana del sinistro, senza che l’effetto dei testi sia sinistro sempre).

Poiché è da questo statuto che era partita la ricerca, oso prendere a testimone me stesso: e tocco Wagner, teatro anche musicale, ancora piú fuggevolmente che Goethe. Da tempo ha finito col sembrarmi incomprensibile che si veda, si ascolti la scena terza dell’Oro del Reno, e dietro la magia mitica non traspaia un incubo di officina capitalistica ottocentesca. Cosí, che non s’intraveda dietro l’elmo magico, là come alla fine del primo atto di Crepuscolo degli Dèi, la minacciosa onnipotenza tecnica moderna. Pure, non ho dimenticato gli ascolti ingenui d’una volta: quelle pesantezze metalliche da opprimenti macchinari, quei corni in pianissimo grigi, insidiosi ed equivoci, mi trasmettevano già un sovrappiú di conturbante meno fiabesco che fantascientifico. Aver capito che traducono in soprannaturale l’antinatura, viceversa, è lungi dall’impedire che mi facciano tremare.

La tentazione di sant’Antonio di Flaubert è ascrivibile alla narrativa, malgrado la forma teatrale (per un secolo non portata sulla scena); non foss’altro, grazie all’intensità stilistica delle copiose didascalie. Confesso, in proposito, un’esperienza diversa. Anche nella versione definitiva e meno prolissa, l’avevo presa a lungo per un esercizio di prosa d’arte ed erudizione decadente, due delle cose di piú noiosa lettura che conosca. Nel momento in cui mi è balenato il rinvio allegorico-referenziale, ne scoprivo la bellezza: la movimentata coerenza, l’abbagliata monotonia da ossessione. Nella Vita di Antonio di S. Atanasio, IV secolo, puro soprannaturale di tradizione, figuravano diavoli e tentazioni al plurale. Della pluralità, Flaubert fa il suo tema stesso.

Una pluralità di civiltà e credenze millenaria, intercontinentale, a stento ancora contenuta nell’unità politica del tardo impero romano, già costretta nell’unità religiosa del cristianesimo vincente: è ciò che il tentatore mobilita contro il santo. Con la

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precarietà, relatività, intercambiabilità di ogni patrimonio culturale, di ogni elaborazione ideologica, muove all’assalto dei fondamenti esclusivi di una fede. Se, da una parte, il rinvio va alla ben piú sterminata pluralità di culture del globo intero, male unificato dal-l’imperialismo moderno, va d’altra parte a colpire le sicurezze dell’etnocentrismo ottocentesco. Il soprannaturale di trasposizione ha spesso del profetico; oggi, il tutto sa di disgregazione eclettica postmoderna (senza il compiacimento).

Le visioni, di per sé soprannaturali o no, e se sí, immaginarie al cubo, fanno da tentazioni in due modi inversi. Prevale una spinta centrifuga, che mira a disperdere l’uni-cità del cristianesimo nell’eterogeneità di tutto il resto. Piú raro e angosciante l’attacco centripeto: somiglianze inattese, da disparate parti, assediano quell’unicità. Non è facile elencare le innumerevoli pluralità evocate. Formalmente, è prediletto l’elenco stesso, e un’onomastica lussureggiante; materialmente l’esotico, il periferico, l’iperbolico e il favoloso. Tra didascalie, monologhi e dialoghi si alternano la voce d’autore e le voci di Antonio, del suo discepolo Ilarione, del diavolo che ne ha preso l’aspetto; ma soprattutto degli esseri d’ogni sorta che succedendosi presentano, e il piú delle volte definiscono, se stessi.

Pluralità di popoli, di vivande, di monete100. Di eretici («tutti vi accaparrano per discutere e convincervi»), e infuriano asserzioni, narrazioni, esclamazioni101. Di regioni, città, distanze attraversate («come la terra è grande!», pensa Antonio102; per certi mercanti, «ci vogliono quarantatré interpreti durante il viaggio»103). Di divinità, quelle di ciascun popolo ignorate dagli altri, la cui sfilata («che quantità! cosa vogliono?») ascende dai feticci e dagli idoli agli dèi orientali ed olimpici, fino a Geova104. Di animali (tali che entreranno, o se no potrebbero, nel manuale di zoologia fantastica di Borges105). E quanti e quali complementi oggetti; per esempio, lungo le offerte della regina di Saba («Ec-co...», «Vuoi...», «Ho...»106), o di Apollonio di Tiana («Ti farò...», «Conoscerai...», «Ti spiegherò...» 107).

Ma c’è di peggio, come dicevo. La riapparizione di Apollonio creduto morto fa dire al santo: «Come Lui!»108. Tra le divinità che sfilano, le piú sanguinarie danno una scusa al falso discepolo per alludere a supplizi voluti dal Dio ebraico-cristiano; un dio a tre facce gli dà pretesto per enunciare il dogma della trinità109. La vita di Budda ricorda in piú punti i vangeli; il pianto di Venere sul morto Adone, la madre di Gesú110. Dalle false religioni alla vera, anche senza somiglianza o discendenza, c’è successione. Se Antonio, egiziano, dà a Iside dell’impudica: «Rispettala! Era la religione dei tuoi avi! hai portato i suoi amuleti nella culla»111. Gli dèi greci hanno ancora adoratori, la bellezza del loro culto merita d’essere idealizzata, il patriarcale rimpianto dei lari domestici suona affettuoso112.

Piú a oriente c’erano dèi mostruosi, eppure: «Quella che hai visto era la credenza di molte centinaia di milioni d’uomini!»113. Passato per ultimo il Dio del Vecchio Testamento: «Resto io!», dice Ilarione; ma non può rivelarsi come il diavolo senza immediatamente ridefinirsi: «Mi chiamano la Scienza»114. E nel dialogo a volo, mentre trasporta Antonio fra le stelle, le visioni non suggeriscono che razionali oggetti di credenze moderne: astronomia, e panteismo. Giove e Saturno sopravvivono come nomi di pianeti. In una didascalia, le parole: «tutti gli astri che gli uomini piú tardi scopriranno»115, sono le sole in cui il volo soprannaturale renda diretto ed esplicito un contatto fra il moderno e l’antico: fra ciò di cui il rinvio allegorico-referenziale dissimula l’attrazione, dovunque altrove, e ciò di cui sfrutta la suggestione.

Non era probabile che i due ultimi statuti contrapposti convivessero, per piú d’un secolo, senza incrociare e mescolare le loro caratteristiche. Mi pare che di rado l’ambien-tazione leggendaria, la cui ripresa caratterizza l’uno, risulti compatibile con la presentazione prospettica tipica dell’altro. È tuttavia questo il caso in Ondina di de la Motte-Fouqué (1811), primi sette capitoli: finché la creatura elementare non si mette a spiegare da sé, anche lei, la propria natura. A partire invece dal contemporaneo e dal

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quotidiano, è frequente che il dubbio dell’ignoranza resti tematico senza vertere principalmente, o dopo aver cessato di vertere, su una questione di consistenza. In altre parole non si dubita tanto, o non piú, se il soprannaturale sia o non sia; piuttosto s’ignora che cosa sia, perché sia, che cosa significhi. Per quel tanto che dai relativi testi emergono risposte, a confrontarle col rinvio allegorico-referenziale quale l’ho documentato finora, il maggior elemento mancante sembra la storicità: sino a che punto è fondamentale?

Lo spostamento d’accento dal se al che cosa non può comunque che diminuire, in diversi modi e misure, le distanze fra il soprannaturale d’ignoranza e quello di trasposizione. Fornisce inoltre un antidoto, lo dico per inciso, al diffuso passatempo di negare consistenza al primo nei testi in prima persona: sottraendo terrore e interesse al dubbio, applicando a ogni costo la categoria di “narratore inattendibile”, riducendo tutto ad allucinazione, psicologia e soggettività. Vittime illustri, Il giro di vite di James, e ancora piú anacronisticamente (1824!) le stupefacenti Memorie e confessioni private d’un peccatore giustificato di Hogg. In chiave non di se ma di che cosa, Il diavolo innamorato di Cazotte, del 1772, recupera meglio la posizione precorritrice attribuitagli da Todorov. Non mi resta che nominare alla rinfusa, in ordine di data: Storia meravigliosa di Peter Schlemihl di Chamisso; Frankenstein di Mary Shelley; Lo strano caso del Dr Jekyll e Mr Hyde di Stevenson; Dracula di Stoker...

9. La prepotenza del gratuito.

La Metamorfosi impone la propria deroga dal verosimile entro tre righe, con la prepotenza da pugno sul tavolo della Biblioteca di Babele. Parlerei volontieri, per lo statuto entro cui accostare i due testi, d’un soprannaturale d’imposizione: «Quando Gregor Samsa una mattina si svegliò da sogni inquieti, si trovò nel suo letto trasformato in un enorme scarafaggio»116. Fra i due bruschi inizi si ha però, anche, speculare opposizione. In Borges, non fossero gli immancabili residui, la sostituzione d’universo sarebbe totale; in Kafka lo strappo è assolutamente uno solo, entro la totalità inalterata del nostro mondo. Se lo statuto in questione è invalso nel Novecento, non confrontiamolo unilateralmente col fantastico, ma con entrambi gli statuti antecedenti.

Rispetto al soprannaturale d’ignoranza, la conquista del quotidiano permane. Ma mediazioni formali quali la prospettiva, la prima persona, adatte a una consistenza ontologica in dubbio, perdono necessità all’atto dell’imposizione istantanea di tale consistenza. Tutto può esser detto al lettore, manifestato ai personaggi, e tutto in una volta; come la metamorfosi di Gregor in una riga. Rispetto al soprannaturale di traspo-sizione, il nuovo non è soltanto piú assoluto e aggressivo. Fa una sorte diversa a quel rinvio allegorico-referenziale di cui pure eredita l’esigenza: non s’individuano piú referen-ti unitari, determinati, tanto meno storici, né ci sono piú del resto entità che definiscano se stesse.

Attenzione, però. Non che, in assenza di precisi referenti, si trascorra nel non senso o in un senso qualunque. C’è qualcosa, fra le estremità: nel nostro caso, fra l’intendere la metamorfosi come malattia mortale o castigo edipico o discriminazione dell’ebreo, e il pretenderne indecidibile il significato, inspiegato il formidabile effetto. Spaziano, in mez-zo, classi di significato meno strette e meno larghe; abbastanza capienti, e abbastanza anguste, perché chi legge debba scomodamente ansimarci dentro. L’improvviso; l’irreversibile; l’incomunicabilità unilaterale; l’emarginazione; la degradazione; la ricognizione; la progressione; l’adattamento; la rassegnazione; l’eliminazione; e quant’altro.

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Non meno strano del dato iniziale, l’accoglimento di esso da parte dei soggetti inte-ressati. Eminentemente antirealistico è che esso non faccia problema, o almeno, non co-me farebbe qualora l’assurda ipotesi esplodesse in realtà; ciò scontato, niente di piú realistico di tutto il resto. Sono cose, queste, ripetutamente osservate. Se sono vere, ripensiamole come formazione di compromesso: le regole da cui il soprannaturale riceve forma, e il grado di credito che si accaparra, si implicano ancora una volta a vicenda. Il soprannaturale d’imposizione assume, per tutt’altre vie, piena forza come quello di trasposizione (piú di quello d’ignoranza, poco meno di quello di tradizione).

Dà il tono la sconcertante improprietà dei primi pensieri del personaggio. Preoccupazione ordinaria per orari di treni e conseguenze medico-burocratiche, spostamenti quasi umoristici di reazioni emotive: «Lo sguardo di Gregor si diresse alla finestra, e il cattivo tempo – si sentivano battere gocce di pioggia sulla lamiera della finestra – lo rese proprio malinconico»117. Le reazioni di tutti gli altri, sorella, genitori, ragioniere, due successive domestiche, tre pensionanti, anche le piú inorridite o schifate, mancheranno sempre di specificità problematica. Quella che ha colpito la famiglia è, se pur grande come nessun’altra nella cerchia dei parenti e amici, «una disgrazia»118. La pronta, indignata disdetta dei pensionanti differisce poco da ciò che potrebbe verificarsi allo sporco spettacolo di un vero scarafaggio o di un topo119.

Nemmeno contrastano, con la normalizzazione del soprannaturale in quanto tale, i problemi che il dato iniziale pone a Gregor e agli altri in quanto mero dato. Per lui comin-cia subito una ricognizione del proprio corpo, o meglio del rapporto fra questo e il mondo: corpo e rapporto che gli sono diventati di colpo, all’inizio, del tutto ignoti. Ce ne vuole per arrivare dalle prime sgomente percezioni (ventre e zampette all’aria, prurito e brividi, pigolio nella voce), attraverso scoperte rassicuranti o demoralizzanti (il dorso è elastico, le zampette sono adesive, non ha denti ma ha robuste mascelle, aderisce a perfezione al terreno ma non si orienta all’indietro), fino a un benessere liberamente animalesco (strisciare sulle pareti, pendere al soffitto)120. Se c’è progressione di conoscenza, ha luogo nel sapere, non nel capire. Non prende a oggetto la metamorfosi, cioè il soprannaturale; esercita un miope sguardo dentro di esso e ne lascia intatta la gratuità.

Consegue a quella fisica una riscoperta morale, ancora piú straziante: adattamento al proprio adattamento, rassegnazione alla rassegnazione. Frattanto, lentamente complementare e divergente, progredisce l’abitudine che gli altri fanno a lui. Sempre meno nel senso d’una accettazione impietosita, sempre piú d’una indifferenza infastidita; sino al rifiuto mortale e alla rimozione della carcassa. Sotto una protratta figu-ra come di reticenza o litote, l’imposizione non rinvia a niente di piú vago che un nucleo patetico inequivocabile, ma proprio perciò inesprimibile per vie naturali. Gregor non è ca-pito continuando sempre a capire, gli altri si credono sicuri che non li capisca. Per risparmiare alla sorella la sua vista non basta nascondersi sotto il canapè, bisogna disporci sopra un lenzuolo, e «per questo lavoro gli ci volevano quattro ore»121. Solo quando il moribondo è uno scarafaggio, ridiventano struggenti frasi come le ultime interiorizzate in lui: «Alla sua famiglia ripensò con commozione e amore»122. Poi la terza persona può richiudersi su di lui, girare senza scosse la prospettiva all’altrui sollievo, piú franco che pudibondo.

Che ne sarà, fra altri cinquant’anni, della parola surrealismo? Verrà anch’essa usata, com’è accaduto con romanticismo, in un senso storico-letterario piú estensivo dell’acce-zione rigorosa di scuola o avanguardia? In qualità di rivendicazione sistematica, nel No-vecento, fra l’altro del soprannaturale, il surrealismo meriterebbe di vedersi annessi un Kafka e un Borges. Curioso a ben rifletterci, sui tempi lunghi, il rapporto col soprannaturale della letteratura francese. Era la letteratura che aveva modellato nel XII secolo i miti arturiani, facendo dono all’Europa di materia inesausta dal Due al

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Cinquecento. Mentre, a partire non dai tempi della ragione cartesiana ma di quella scolastica, è come se essa stessa fosse rimasta impoverita degli statuti forti – comparativamente beninteso. Fino a non avere, nemmeno nell’Ottocento, il suo Goethe o Wagner; né (senza far torto a Gautier, Maupassant e altri) il suo Hoffmann o Poe, il suo Stevenson o James.

E nella narrazione surrealista piú celebre, Nadja di Breton, il partito preso di veridicità autobiografica, anagrafica, fotografica, preclude il ricorso all’invenzione; la presunzione che il meraviglioso sia diffuso nel quotidiano sdrammatizza l’inseguimento del meraviglioso. Per un effetto da veti incrociati, il soprannaturale resta tutto sommato contumace. Bisogna risalire ai grandi precursori che Breton si attribuiva; se non al lontano Swift, per eccellenza al truce, impassibile e caricaturale Lautréamont, nei cui Canti di Maldoror la derisione si era capovolta contro il positivismo imperante. Oppure bisogna andare fuori dal surrealismo in senso stretto, fuori dalla Francia – prima o poi dall’Europa.

Sono sí letteratura occidentale, ma nata a distanza dal vecchio centro, i testi a cui piú rimpiango di non aver potuto fare posto. Sia almeno arricchito da qualche titolo sovrano, in chiusura, il piú recente dei miei statuti nell’ordine cronologico (tradizione, derisione, indulgenza, incertezza, trasposizione, imposizione; spostando alla fine il primo dei sei, ed equiparando gli ultimi due, si percorrono effettivamente proporzioni di credito crescente e critica decrescente, o al contrario nell’altro senso).

Penso a Il Maestro e Margherita di Bulgakov, se sapessi il russo, col suo allegro, feroce, sanguinario, satanico, sontuoso, mirabolante soprannaturale tautologico: negazione punitiva dei propri materialistici e burocratici negatori. A Cortázar, a una novella come Lettere di mamma: dove lo sgretolarsi di un’insincerità difensiva, la non impunità di una colpa, finiscono col reificarsi, senza che sia neanche tanto impressionante, in cancellazione della morte. A Cento anni di solitudine di Márquez: al-l’iperbole d’una natura equatoriale da cui il reale è talmente surriscaldato, che ad accreditare per prime il surreale sono le manie di scienza e di tecnica d’un inguaribile don Chisciotte progressista.

NOTE

1. M. de CERVANTES, Don Quijote de la Mancha, Barcelona, Instituto Cervantes, 1998, pp. 89-90 (parte I, cap. 7). Le traduzioni dei testi (non degli studi), salvo indicazione contraria, sono mie; li cito da edizioni in lingua originale, dando tra parentesi i numeri di capitolo, parte, libro, canto ecc.

2. Ibid., p. 96 (I 8). 3. Ibid., p. 195 (I 18). 4. Ibid., pp. 704-10 (II 10).5. Ibid., p. 896 (II 32). 6. Ibid., pp. 360-61 (I 31). 7. Ibid., p. 868 (II 29). 8. Ibid., p. 873 (II 29). 9. Ibid., p. 277(I 25). 10. Ibid., pp. 521-23 (I 45). 11. Ibid., p. 824 (II 23). 12. Ibid., p. 761 (II 17). 13. FREUD, Opere [1899], vol. 3, Torino, Boringhieri, 1967, p. 293 (trad. Fachinelli;

L’interpretazione dei sogni, cap. 6, C). 14. VOLTAIRE, Romans et contes, «Bibliothèque de la Pléiade», 1979, p. 368 (cap. 4).

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15. CHRÉTIEN DE TROYES, Le chevalier au lion (Yvain), Paris, Champion, 1982, pp. 12-4 (vv. 380-450); p. 25 (vv. 800-10); pp. 67-8 (vv. 2174-5, 2220-4); pp. 198-9 (vv. 6508-16, 6523-32).

16. Les Lais de Marie de France, Paris, Champion, 1981, pp. 6-7 (vv. 37-68), 8-9 (vv. 89-121).

17. Ibid., pp. 10-11 (vv. 145-203). 18. Ibid., pp. 12-17 (vv. 209-378). 19. Ibid., pp. 21-2 (vv. 527-42), 23-5 (vv. 577-632). 20. Ibid., pp. 25-6 (vv. 655-90). 21. D. ALIGHIERI, La Commedia secondo l’antica vulgata, 2, Firenze, Le Lettere, 1994,

p. 314 (Inf. XIX 10-2). 22. Ibid., p. 54 (Inf. III 126). 23. B. CROCE, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 196611, p. 49. 24. G. CONTINI, Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 369-70 (Un’in-

terpretazione di Dante). 25. ALIGHIERI, La Commedia cit., 4, pp. 544-45 (Par. XXXIII 22-4).26. J. L. BORGES, Obras completas, I, 1923-1952, Barcelona, Emecé, 1996, p. 465. 27. Ibid., p. 470. 28. Ibid., p. 465. 29. Ibid., pp. 467 nota, 470. 30. Ibid., p. 470. 31. Ibid., p. 465. 32. Ibid.33. Ibid., p. 468. 34. Ibid., p. 466. 35. Ibid.36. Ibid., p. 469 nota. 37. Ibid., p. 467. 38. Ibid., p. 470. 39. MÉRIMÉE, Théâtre de Clara Gazul. Romans et nouvelles, «Bibliothèque de la Plé-

iade», 1978, pp. 750-51. 40. T. TODOROV, La letteratura fantastica, Milano, Garzanti 1977. 41. S. T. COLERIDGE, Biographia Literaria, Oxford University Press, 1967, vol. II, p. 6

(cap. 14). 42. E. DURKHEIM, Le forme elementari della vita religiosa, Milano, Comunità, 1982, p.

28.43. CERVANTES, Don Quijote cit., p. 1223 (II 74). 44. I. MATTE BLANCO, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, Torino,

Einaudi, 20002, p. 105. 45. F. ORLANDO, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi, 1992, p.

211. 46. FREUD, Opere [1905-1908], vol. 5, Torino, Boringhieri, 1972, p. 113 (ma la

traduzione è mia; Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, cap. 4).47. Odissea, canti IX-XII. 48. OVIDE, Les Métamorphoses, Paris, Les Belles Lettres, 1961, t. I, p. 21 (libro I, v.

400). 49. Lucian in Eight Volumes, I, London, Heinemann, 1961, p. 250 (I 3). 50. Ibid., p. 252 (I 4). 51. Decameron, IV 2, VI 10. 52. CERVANTES, Don Quijote cit., p. 114 (I 10).

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53. Tutte le opere di Matteo M. Boiardo, Milano, Mondadori, 1937, vol. II, p. 371 (Orlando innamorato, libro III, canto II, ottava 54).

54. Tutte le opere di Ludovico Ariosto, Milano, Mondadori, 1964, p. 63 (Orlando furioso, canto IV, ottava 4).

55. Ibid., p. 15 (I, 56). 56. RABELAIS, Oeuvres complètes, «Bibliothèque de la Pléiade», 1994, p. 22 (Gargan-

tua, cap. 6). 57. PERRAULT, Contes, Paris, Garnier, 1967, p. 57. 58. Ch. M. WIELAND, Epen und Verserzählungen, München, Winkler, 1964, p. 10 (can-

to I, ottava 8).59. F. ORLANDO, Illuminismo, barocco e retorica freudiana, Torino, Einaudi, 1997, pp.

29-64. 60. VOLTAIRE, Romans et contes cit., p. 65-66 (cap. 4). 61. Ibid., p. 376 (cap. 4). 62. J. AUSTEN, Northanger Abbey, Lady Susan, The Watsons, and Sanditon, Oxford

University Press, 1990, pp. 159, 160-61 (vol. II, capp. 9, 10).63. A. RADCLIFFE, The Mysteries of Udolpho, Oxford University Press, 1966, pp. 1-26

(vol. I, capp. 1, 2), 56-73 (cap. 6), 82-98 (cap. 8); 580-95 (vol. IV, capp. 10, 11). 64. Ibid., p. 1 (I 1); pp. 224-26 (II 5); pp. 241-42 (II 6); pp. 467-68 (III 10).65. Ibid., p. 402 (III 6).66. Ibid., p. 122 (I 12); p. 361 (III 3); e cf. pp. 224-25, 240 (II 5); p. 329 (II 11); p. 367

(III 3); p. 384 (III 5); p. 435 (III 8). 67. Ibid., pp. 475-76 (III 11); p. 489 (III 12); cf. anzi pp. 639-40 (IV 15). 68. Ibid., pp. 226-28 (II 5); pp. 244-45 (II 6). 69. Ibid., pp. 230-32 (II 5); pp. 257-58 (II 6); pp. 317, 318, 320-21, 322 (II 10); 429-33

(III 8); pp. 457-60 (III 9). 70. Ibid., pp. 229-30, 232 (II 5); pp. 344-46 (III 1); pp. 376-77 (III 5). 71. Ibid., pp. 62-64 (I 6). 72. Ibid., p. 308 (II 9). 73. F. ORLANDO, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Torino, Einaudi,

19942, p. 175. 74. RADCLIFFE, The Mysteries cit., p. 258 (II 6); p. 309 (II 9); p. 321 (II 10). 75. Ibid., p. 253 (II 6); p. 318 (II 10). 76. Ibid., pp. 430-32 (III 8). 77. Ibid., pp. 289-91 (II 7); pp. 394-95 (III 6); e cf. pp. 459-60 (III 9). 78. Ibid., pp. 355-57 (III 2); pp. 367-68 (III 3); pp. 373-74 (III 4). 79. Ibid., pp. 347-48 (III 1); e cf. p. 365 (III 3); pp. 233-34 (II 6); pp. 248-49 (II 6); pp.

662-63 (II 17). 80. Ibid., pp. 68-69 (I 6); pp. 525-26 (IV 3); pp. 541-42 (IV 5); pp. 550-51 (IV 6); p.

661 (IV 17); pp. 330-31 (II 11); pp. 386-88 (III 5); pp. 437-40 (III 8); p. 459 (III 9). 81. E. BURKE, A Philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and

Beautiful, Oxford University Press, 1990, pp. 54, 57 (parte II, 3, 4). 82. RADCLIFFE, The Mysteries cit., pp. 549-50 (IV 6). 83 Ibid., pp. 233, 236-39 (II 5); pp. 254-55 (II 6). 84 Ibid., p. 68 (I 6). 85 E. T. A. HOFFMANN, Sämtliche Werke in sechs Banden, II 1, Deutscher Klassiker

Verlag, Frankfurt am Main, 1993, pp. 229-35 (I Veglia). 86. Ibid., pp.186-9 (II). 87. Ibid., pp. 253-58 (IV). 88. Cf. TODOROV, La letteratura fantastica cit., pp. 86-90. 89. HOFFMANN, Sämtliche Werke cit., p. 242 (II).

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90. Ibid., pp. 244-48 (III). 91. Ibid., pp. 290-91 (VIII). 92. Ibid., pp. 250-52 (IV). 93. Ibid., pp. 315-21 (XII). 94. J. W. GOETHE, Faust, Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt am Main, 1994, pp. 58-

59 (Fuori porta). 95. Ibid., pp. 64-65 (Studio [I]). 96. W. BECKFORD, Vathek. Racconto arabo, Venezia, Marsilio, 1996, p. 54 (trad. Pao-

letti). 97. Ibid., pp. 226-30, 236-8. 98. Ibid., pp. 54, 70. 99. J. L. BORGES, Obras completas, II, 1952-1972, Barcelona, Emecé, 1996, pp. 108-9

(Sul “Vathek” di William Beckford: in Altre inquisizioni). 100. G. FLAUBERT, La Tentation de Saint Antoine, Paris, Garnier, 1954, pp. 5 (I), 69-70

(IV), 180 (V); 25, 27-29 (II). 101. Ibid., pp. 5 (I), 69-120 (IV). 102. Ibid., pp. 136-44 (IV). 103. Ibid., p. 45 (II). 104. Ibid., pp. 162-68, 176-228 (V).105. Ibid., pp. 263-75 (VII); cf. J. L. BORGES, Obras completas en colaboración,

Barcelona, Emecé, 1997, pp. 603, 663, 665, 672 (Il libro degli esseri immaginari: Il catoblepa, Il mantícora, Il mirmecoleone, Il nesnas).

106. FLAUBERT, La Tentation cit., pp. 44-48 (II). 107. Ibid., pp. 157-58 (IV). 108. Ibid., p. 153 (IV). 109. Ibid., pp. 164, 166 (V). 110. Ibid., pp. 170-72, 192 (V). 111. Ibid., p. 195 (V). 112. Ibid., pp. 203-4, 223-24 (V). 113. Ibid., p. 176 (V). 114. Ibid., pp. 228-30 (V). 115. Ibid., p. 235 (VI). 116. F. KAFKA, Drucke zu Lebzeiten, New York, Fischer-Schocken Books 1994, p. 115

(I). 117. Ibid., p. 116 (I). 118. Ibid., p. 131 (I), pp. 175-76 (III). 119. Ibid., pp. 186-88 (III). 120. Ibid., pp. 115-19, 131-33, 137-42 (I), p. 159 (II). 121. Ibid., pp. 157-58 (II). 122. Ibid., p. 193 (III).

(da Il romanzo. I. La cultura del romanzo, a cura di Franco Moretti, Einaudi, Torino 2001, pp. 195-226)

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