FRANCESCO CIRIOLO_In prossimità del sè_ percezione arte psicologia
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Francesco Ciriolo (2008), In prossimità del sé. Campo di visione ed ottica ecologica, http://www.cinefilab.it/download/elenco_pdf.htm
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IN PROSSIMITÀ DEL SÉ. CAMPO DI VISIONE ED OTTICA ECOLOGICA
FRANCESCO CIRIOLO
(…) della
ricchezza di una visione creata da se stessa. (Fernando Pessoa, Fiat Lux) Tu dici: io apro gli occhi e vedo quello che c’è ecc. ecc. ad infinitum ( Hans M. Enzensberger, La vista)
“La visione è una faccenda strana e meravigliosa”1. Queste le parole di
Gibson che aprono The Ecolgical Approach to Visual Perception, nel quale
traspare tutto l’interesse (e lo stupore) verso lo studio della percezione. Vedere
presuppone un ambiente dato, costituito, un mondo cioè che coinvolge l’intera
persona che in quello stesso mondo apprende, si muove, vive. È fondamentale
notare come per Gibson, egorecezione (la percezione di sé) ed esterocezione (la
percezione dell’ambiente) siano inestricabilmente legati: “Le informazioni sul sé
accompagnano le informazioni sull’ambiente, e i due tipi di informazioni non
possono essere separati. L’egorecezione accompagna l’esterocezione, come l’altra
faccia di una moneta. (…) Si percepisce l’ambiente e ci si co-percepisce”2.
Tuttavia, pur ammettendo un soggetto che acquisisce informazioni vedendo
il (e nel) mondo, si potrebbe obiettare che la percezione sia invece
un’elaborazione fisiologica derivata dagli stimoli che colpiscono la retina (deriva,
questa, di matrice costruttivista). I prossimi paragrafi valgono ad evitare tali esiti.
Prenderemo in esame il campo di visione in ottica ecologica con riferimento alla
Relazione presentata nel marzo 2008 presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Un sincero ringraziamento è per Roberta De Monticelli non solo per i preziosi consigli, ma per avermi costantemente seguito e incoraggiato in questo studio sull’arte e la psicologia della percezione.
1 Gibson (1986), trad. it. (1999), p. 29. 2 Ivi, p. 203.
Francesco Ciriolo (2008), In prossimità del sé. Campo di visione ed ottica ecologica, http://www.cinefilab.it/download/elenco_pdf.htm
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percezione nell’arte, cercando di spiegare, incitare quantomeno, come e perché si
ha un particolare “punto di vista” sul mondo, senza affatto escludere l’unità delle
credenze che si formano percependolo e facendone parte.
1. “Necessità dell’incompletezza”. Dal rettangolo all’ovoide.
(…) Ma l’occhio in realtà non lo vedi. E nulla nel campo visivo fa concludere che esso sia visto da un occhio. (Ludwig Wittgenstein, Tractatus, 5.633)
Durante il XX secolo il dibattito contemporaneo sulla percezione ha visto
intrecciarsi due ambiti apparentemente separati: la psicologia e l’arte. Tale
interesse è testimoniato dagli studi condotti da Gombrich, Panofsky e, soprattutto,
da Rudolph Arnheim. Da parte sua, Gibson ebbe ripetute occasioni di confronto
con essi, aprendo dibattiti, più o meno accesi, durante la sua intera carriera3.
Questi incontri testimoniano una non comune abilità dello psicologo
statunitense nel proporre originali soluzioni al problema della percezione, sebbene
unita ad una mancata capacità di comprendere il fenomeno artistico. Infatti, come
riportato da Arnheim, “Un uomo come Gibson, che faceva ricerche di grande
intelligenza sulla percezione, non aveva la minima idea di cosa fosse l’arte, non
ne capiva gli elementi (…) quando parlava di arte era imbarazzante, viceversa
quando si occupava della percezione conseguiva magnifici risultati”4. Ciò non
sembra escludere alcuni rimandi che può avere l’ottica ecologica in ambito
artistico, in riferimento a quel ventaglio di posizioni sorte a cavallo fra XVIII e
XIX secolo, che hanno come problema la rappresentazione, quanto più fedele
3 Significativo è il confronto fra Gombrich e Gibson. In questa sezione non avremo modo di approfondire la disputa fra i due, soffermandoci più in particolare sull’ottica ecologica. Per chi voglia approfondire questo aspetto, l’indirizzo http://www.gombrich.co.uk/dispute.php fornisce lettere, convegni e abstract che documentano esaustivamente entrambe le posizioni e i motivi di disaccordo. 4 Pizzi Russo (2005), p. 257.
Francesco Ciriolo (2008), In prossimità del sé. Campo di visione ed ottica ecologica, http://www.cinefilab.it/download/elenco_pdf.htm
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possibile, della naturale percezione visiva, senza che si abbiano ripercussioni
sull’osservatore o sull’opera d’arte.
Guardare un’opera d’arte, fruire dei suoi particolari toni cromatici,
ammirarne le caratteristiche, presuppone un osservatore. Elementare. Non così
ovvio se il problema viene considerato dal punto di vista dell’artista. Porre
davanti all’osservatore una tela bidimensionale creando un effetto
tridimensionale, presuppone uno studio di ottica e geometria descrittiva tale da
determinare con esattezza la dimensione di profondità fra tutti gli elementi
dell’opera. Questa illusione è una vera “invenzione”5 prospettica, generalmente
fatta risalire a Brunelleschi e all’Alberti6. Dal XV secolo, seppure con notevoli
apporti, la prospettiva rimane comunque un potente strumento per ogni artista
come fonte di rappresentazione tridimensionale, fino al sistematico rifiuto dovuto
alle Avanguardie, a cominciare dal Futurismo e dal Cubismo.
Per il nostro studio basterà notare come, sia pure in misure diverse, i
principali artisti fino al XIX secolo fecero coincidere l’ottica geometrica con la
naturale percezione visiva. Un’equazione, questa, che implica un considerevole
numero di assunzioni e, in ogni caso, non priva di problematiche. Come nota
Kemp, essi
(…) condividevano nella maggior parte dei casi un’importante supposizione di base, ossia che la
scienza dell’ottica geometrica corrispondeva in modo diretto ai meccanismi fondamentali del
processo visivo. La conseguenza di questa osservazione non sempre dichiarata, era che i
procedimenti geometrici fornivano un mezzo appropriato per la rappresentazione di oggetti
tridimensionali su una superficie piana, in modo tale che la configurazione presentata all’occhio
dalla proiezione era essenzialmente la stessa osservata nell’oggetto reale.7
5 Kemp (1990), trad. it. (2005), p. 17. 6 Per un panorama dettagliato cfr. ivi, capp. I-III. 7 Ivi, p. 185 (corsivo mio).
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Sebbene con Leonardo gli studi di anatomia e di prospettiva aerea hanno
tutti i presupposti per dissipare in parte questi assunti, nondimeno anche gli studi
di Keplero che esaminavano l’occhio
come una forma di camera oscura – dove l’immagine invertita è messa a fuoco sulla retina –
lasciava la supposizione principale largamente inalterata. Il suo nuovo occhio fu concepito
interamente nel contesto dell’ottica geometrica, e le idee fondamentali sull’angolo visivo e sulla
proporzionalità tra immagine e oggetto rimasero intatte. Quei teorici che discussero le operazioni
del nuovo occhio erano facilmente in grado di farlo operare in armonia con le regole prestabilite
della prospettiva.8
Anche in psicologia, Gibson non è da meno nel notare che “confondere la
prospettiva pittorica con quella naturale è equivocare il problema della percezione
visiva sin dall’inizio”9.
Nessuna concezione dell’occhio sembrava tenere alla “geometrizzazione”
dello spazio e della percezione. Ancora maggiore è l’effetto della rivoluzione
copernicana e la messa in discussione della concezione aristotelica. L’
“operazione di alta chirurgia”10, come viene chiamata da Bozzi, fra qualità
primarie e secondarie ad opera di Galileo, non è che l’ennesima riprova della
corrispondenza fra scienza ottica e processo visivo.
Questa distinzione viene consolidata da tutta la tradizione empirista. Infatti,
è proprio all’interno dell’empirismo che nasce un nuovo modo di rapportarsi alla
percezione visiva e conseguentemente alla prospettiva stessa.
8 Ibidem (corsivo mio). 9 Gibson (1986), trad. it. (1999), pp. 130 – 131. 10 Bozzi (1998), p. 91.
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Nel monumentale Modern Painters, Ruskin (noto empirista) lascia ampio
spazio allo studio del campo naturale della visione, contrapponendolo all’artificio
della prospettiva lineare classica. Egli individua la differenza fra artisti antichi e
moderni nell’imitazione della percezione naturale dell’occhio, affermando che gli
“antichi maestri” rappresentavano “(…) non quello che vedevano, ma quel che
credevano facesse bello un quadro”11.
L’intuizione di Ruskin è la definizione dello spazio in quanto dipendente
dalla focale dell’occhio e non più dalla prospettiva geometrica dello spazio stesso.
E’ uno spazio, quindi, dal punto di vista dell’osservatore. Egli individua “due
verità” dello spazio, che hanno entrambe come presupposto l’imitazione della
percezione visiva. La prima di queste due verità è lo spazio in quanto “dipendente
dalla focale dell’occhio”12, in cui non la prospettiva aerea13, ma “il disegno degli
oggetti, cioè a dire, il grado in cui i dettagli e parti sono nitidi o sfumati, è un
ineffabile, certo criterio della loro distanza”14.
Questa strategia di Ruskin è volta a difendere l’arte del paesaggio di Turner,
al tempo accusata, secondo Rothenstein, di “mancanza di ‘finitezza
fiamminga’”15. Bisogna ricordare, inoltre, che la teoria paesaggistica ruskiniana
11 Ruskin (1856), trad. it. 1998, p. 247; le varie edizioni di Modern Painters sono reperibili in rete all’indirizzo http://www.lancs.ac.uk/fass/ruskin/empi/1stedition/1a013.htm. 12 Ivi, p. 253. Le “due verità” sono riassunte dai titoli dei capp. 4 e 5: cap. 4, parte II, sez. II, p. 253, La verità dello spazio. Primo: in quanto dipendente dalla focale dell’occhio; cap. 5, parte II, sez. II, p. 259: La verità dello spazio. Secondo: il suo aspetto dipende dal vigore dell’occhio. 13 Mentre l’arte fiamminga, ad esempio di Jan Van Eyck, definiva con massima precisione anche gli oggetti distanti, con la prospettiva aerea di Leonardo, invece, l’aumentare della distanza dal punto di osservazione era definita da contorni più sfumati, a seconda della distanza degli oggetti raffigurati. Ciò si può notare nella Gioconda o nella Vergine con Sant’Anna e il Bambino con l’agnello. 14 Ruskin (1843), trad. it. 1998, p. 253. 15 Rothenstein (1966), p. 4: “Una delle critiche che sempre venivano rivolte al giovane Turner era la mancanza di ‘finitezza fiamminga’. (…) [Egli invece] si mostra un ‘realista’ e si distingue, secondo l’opinione di Ruskin, per la sua «fedeltà alla natura»”. Per l’arte fiamminga cfr. infra, n. 14. Un’altra accusa è riportata da Sbrilli (1988), p. 308, secondo la quale le opere di Turner venivano “Accusate da Benjamin West di essere scorrette macchie informi, le sue opere vennero salutate dal critico d’arte John Ruskin come le prime espressioni di una sensibilità squisitamente moderna, nutrita di cultura letteraria, di
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trova un riscontro diretto negli incontri assidui con l’artista inglese, divenendo, in
quanto artista “moderno”, la pietra di paragone nel problema della percezione
visiva nell’arte16.
È interessante riportare alcune considerazioni addotte da Ruskin per
corroborare la propria posizione, secondo la quale è impossibile vedere con la
stessa chiarezza e nello stesso momento tutti i punti osservati:
Primo, si noti che l’occhio, come qualsiasi altra lente, deve modificare la focale per riportare
un’immagine nitida di oggetti situati a diversa distanza; di modo che è assolutamente impossibile
vedere distintamente e nello stesso momento due oggetti, uno dei quali si trovi molto più lontano
dell’altro. Di ciò, ci si può persuadere da sé in un istante. Fissate l’intelaiatura della vostra finestra
in modo da ottenere un’immagine chiara della sua forma e dei suoi contorni, e non potrete, finché
il vostro sguardo vi si posa, percepire altro che le più indistinte e nebbiose immagini di qualunque
oggetto sia visibile al di là di essa. Ma fissate lo sguardo su quegli oggetti, in modo da vederli
chiaramente, e sebbene si trovino appena oltre e apparentemente accanto all’intelaiatura della
finestra, stavolta sarà l’intelaiatura a essere vista come vaga, tremolante, opaca interruzione di
quello che si percepisce oltre a essa. Un minimo d’attenzione rivolta a questo fatto persuaderà
chiunque della sua universalità, e proverà al di là di ogni possibile discussione che gli oggetti
situati a distanza diseguale non possono essere visti insieme, non a causa dell’interposizione
dell’atmosfera o della foschia [come avveniva per la prospettiva aerea], ma dell’impossibilità che i
raggi procedenti da entrambi convergano sullo stesso fuoco, così che l’impressione suscitata o
dall’uno o dall’altro sarà necessariamente confusa, indistinta e inadeguata.17
È proprio per mezzo di questa vaghezza e opacità che Ruskin esalta le
vedute paesaggistiche di Turner perché, oltre a rispettare la messa a fuoco
dell’occhio, lascia i bordi del campo visivo indefiniti e vaghi, rispetto, invece, a
conoscenze tecniche e alchemiche, di viaggi in Italia, e capace di trasfigurare tutto ciò in un linguaggio sorprendente che prelude, per certi aspetti all’impressionismo e per altri all’informale.” 16 Cfr. Walker (1975), trad. it. (1984). 17 Ruskin (1843), trad. it. (1998), p. 254.
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quanto accade in un altro paesaggista suo contemporaneo, John Constable (fig. 1).
Durante i primi dell’Ottocento, Turner abbandona i piani rettangolari per
quelli ellittici e ovoidali, concentrando la propria attenzione sul campo visivo
nella percezione dell’ambiente circostante. I bordi, lungi dall’essere pensati in
vista di una cornice, sono volutamente ottenuti ed elaborati con immagini chiare e
nitide verso il punto di osservazione e man mano sempre più sfumate ai bordi,
sino a diventare tutt’uno con il bianco della tela o di qualsivoglia piano pittorico.
A maggior ragione, anche gran parte delle figure presenti all’interno del
campo sono indefinite e vaghe, tanto da poter rintracciare, con le parole di
Ruskin, una “necessità per quell’incompletezza”18 (fig. 2). L’occhio non è in
18 Ivi, p. 258: “(…) esistono sia un motivo che una necessità per quell’incompletezza di disegno che dà anche alle figure più prossime un tondo con quattro puntini rosa per faccia, e quattro pennellate per piedi e mani; perché è assolutamente impossibile che l’occhio, se è adattato a ricevere i raggi dalla massima distanza, e qualche impressione parziale di tutti i piani, sia in grado di percepire, nelle forme e figure più prossime, qualcosa di più di quel che Turner esegue. E quanto questa vaghezza sia assolutamente necessaria alla fedele rappresentazione dello spazio chiunque potrebbe provare con la massima facilità”; sempre Ruskin a p. 256 scrive che “Turner iniziò una nuova era della pittura di paesaggio, mostrando che si poteva sacrificare il primo piano a favore dello sfondo, e mostrando che era possibile rappresentare l’immediata possibilità dello spettatore, senza presentare nella loro interezza le forme degli oggetti vicini. Ciò che vien fatto senza tracciare contorni sfumati o indecisi (sempre sintomi di un difetto in arte) ma mediante una decisa incompletezza, una solida ma parziale resa della forma, tale che quasi l’occhio l’afferra, eppure non riesce a posarvisi, né a soffermarvisi, né a comprenderla interamente, e dalla quale viene immancabilmente distolto a beneficio delle parti di sfondo su cui posarvisi”. Numerosi sono i critici che hanno notato una propensione di Turner verso lo studio della percezione, come, ad esempio, Walker (1976), trad. it. (1984) pp. 58 e 59: “Col dileguarsi della compattezza della materia, spariscono anche i disegni vari e dal tratto deciso del Liber Studiorum e dei dipiti
(fig. 1, J. Constable, Il cavallo bianco, 1819)
(fig. 2, J. M. W. Turner, Un passo di montagna al tramonto, 1830-1833 ca.)
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(fig.4, J. Ruskin, forma ellittica del campo visivo, in H. Repton 1840, p. 35)
(fig.3, J. M. W. Turner, litografia per Campbell 1830, Lord Ullin's Daughter)
grado di rivolgere la propria attenzione su tutti i piani del disegno, né abbracciare
interamente la forma rettangolare dell’opera. Ciò si nota specialmente nelle
litografie disegnate da Turner per l’opera poetica di Campbell (fig. 3) o in
particolari acquerelli.
Ruskin in una nota aggiunta a Landscape
Gardening and Landscape Architecture di Repton,
illustra la forma del campo visivo ellittico (fig. 4). Questa
viene distinta da quella rettangolare, dimostrando una
vera e propria insistenza nella spiegazione di quei “bordi
attenuati, come immagini corrispondenti al campo
naturale della visione”19.
In conclusione, il critico inglese giustifica le scelte artistiche di Turner nel
prediligere questi “bordi attenuati”, negando ogni identità fra spazio geometrico e
spazio naturale della visione.
Un secolo e mezzo più tardi,
Gibson sarà dello stesso avviso. A proposito di una critica rivolta a Berkeley
riguardo alla percezione prospettica di oggetti posti in lontananza, egli afferma
che quest’ultima “ (…) non è una linea che va diritta all’occhio, come pensava il
vescovo Berkeley. Pensare che le cose stiano così è confondere lo spazio
giovanili, e le composizioni si riducono invece a una serie di descrizioni sommarie che ripetono la forma approssimativamente ovale del campo visivo. (…) [Turner] intrecciò a questo stile immaginativo una profonda conoscenza degli effetti visivi”. 19 Kemp (1990), trad. it. (2005), p. 269.
(J. M. W. Turner, Il campo di battaglia di Waterloo, 1832)
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geometrico astratto con lo spazio vivente dell’ambiente”20. Sempre Gibson, in
riferimento alla prospettiva, pur ammettendo che essa “costituisce una disciplina
assolutamente chiara e lineare”, ne evidenzia l’inadeguatezza per la percezione
naturale perché “l’ambiente non consiste nella sua interezza di parti o forme
geometriche nettamente differenziate. (…) Essa geometrizza l’ambiente e così lo
ipersemplifica”21.
Il motivo per cui ci siamo dilungati a spiegare la concezione turneriana del
campo visivo è la considerazione di due punti in particolare: a) il rifiuto di
considerare l’ottica geometrica come diretto equivalente della percezione visiva;
b) l’incapacità del soggetto di concentrarsi uniformemente a tutto il percetto
esistente all’interno del campo visivo. I punti a e b, infine, sono stati messi in luce
da Ruskin descrivendo l’ellittica del campo visivo.
Questi esempi non sono affatto da considerarsi come dei casi isolati, anzi,
potremmo affermare senza alcun dubbio che ciò appartiene ad un intero ambito
multidisciplinare in grado di unire arte, ottica, geometria, meccanica e fisiologia.
In riguardo a quest’ultima, Helmholtz era giunto ad interessarsi a studi analoghi
suffragati da innumerevoli esperimenti in ambito ottico, notando come
l’immagine che “riceviamo tramite l’occhio è come un dipinto rifinito in modo
minuto ed elaborato al centro ma solo approssimativamente abbozzato verso i
bordi”22. Helmholtz spiega il campo visivo in termini di nervi ottici che vengono
20 Gibson (1986), trad. it. (1999), p. 192 (corsivo mio). Molto efficacemente Farneti, Grossi (1995) spiegano che il concetto di spazio “(…) era concepito come un vuoto i cui punti luminosi, propri degli oggetti in esso contenuti, venivano a proiettarsi in corrispondenti punti dell’immagine retinica i quali, come Berkeley aveva sottolineato, rimanevano gli stessi, sia che la distanza fosse maggiore o minore”, p. 27. 21 Gibson (1986), trad. it. (1999), p. 129. 22 Helmholtz riportato in Kemp (1990), trad. it. (2005), p. 267.
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stimolati dalla luce, notando come “le immagini retiniche di oggetti posti a
diversa distanza non sono in effetti nitide alla pari”23.
Tuttavia, egli non pone l’accento sull’ambiente, sul mondo che si dispiega di
fronte al soggetto, ma sulla nozione di stimolo, dove sarebbero contenute tutte le
informazioni necessarie per il funzionamento del sistema visivo. Questa la base
del costruttivismo, dove la percezione (il come noi “vediamo il mondo”) è
essenzialmente dovuta alla “costruzione” e all’assemblaggio di elementi più
semplici elaborati dal cervello24.
È questa la posizione che viene messa in discussione da Gibson per le sue
derive riduzionistiche e introspettive.
2. Margini del sé. Ambiente, percezione, campo di visione.
Chiediamoci cos’è che ci nasconde, quando guardiamo il mondo attorno a noi – di certo, non il buio, non l’aria, nient’altro che il nostro io! (James J. Gibson, Un approccio ecologico alla percezione visiva)
“I fisiologi conoscevano le cellule nervose retiniche e il loro funzionamento,
ma ignoravano il modo in cui opera il sistema visivo. Tutte le loro conoscenze mi
apparivano prive di rilievo. Potere creare degli ologrammi, prescrivere degli
occhiali, curare malattie dell’occhio sono tutte splendide realizzazioni: tuttavia
non possono studiare il fenomeno della visione”25. Tanto basta a descrivere la
posizione di Gibson riguardo alla concezione dello stimolo, dell’immagine
retinica e di qualsivoglia interpretazione che intenda spiegare la percezione su
base prettamente costruttivista e fisiologica.
23 Helmholtz (1851), trad. it. (1996), p. 154. 24 Cfr. Paternoster (2008), p. 78. 25 Gibson (1986), trad. it. (1999), p. 29; inoltre cfr. Gibson (1960).
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Basterà citare solo un titolo, Dallo stimolo alla scienza di Quine, per capire
quanto il naturalismo sia appiattito sulla mera fisiologia, traducendo le sterminate
quantità di informazioni che riceviamo dall’ambiente esterno come “imput” a cui
faranno seguito determinati “output”26. La percezione non può essere derivata né
dalla fisiologia, né dal solo ambiente. Entrambi gli aspetti sono indissolubili,
“animale e ambiente formano una coppia inseparabile. Ogni termine implica
l’altro. Nessun animale potrebbe esistere senza un ambiente che lo circonda”27.
Secondo Gibson l’immagine retinica non è indispensabile per la visione, da un
lato perché “non è qualcosa che possa essere vista”28 e dall’altro perché le
informazioni provengono dall’ambiente, denunciando un vero e proprio “sofisma
dell’immagine nell’occhio”29, avviato da Keplero e proseguito fino alle odierne
teorie costruttiviste.
Ed è all’interno di questo dibattito che Gibson avverte l’insufficienza delle
nozioni ereditate dalla tradizione in ambito ottico e psicologico. Termini come
stimolo e campo visivo, altro non sono che gli ennesimi attributi legati
all’introspezione, in cui la percezione è delimitata da una piccola parte di mondo
che viene momentaneamente percepita.
Per capire cosa Gibson cerca di spiegare, riportiamo di seguito alcune
definizioni di campo visivo:
26 Dal nostro punto di vista è interessante notare come Quine utilizzi proprio la percezione visiva e la stimolazione dei recettori sulla retina per giustificare il suo naturalismo. Nel saggio Epistemologia naturalizzata Quine scrive: “Le nostre retine vengono irradiate in due dimensioni, tuttavia vediamo le cose come tridimensionali senza inferenza cosciente. Quale deve contare come osservazione: la ricezione bidimensionale inconscia o l’apprensione tridimensionale cosciente? Nel vecchio contesto epistemologico la forma cosciente aveva la priorità perché cercavamo di giustificare la nostra conoscenza del mondo esterno mediante la ricostruzione razionale e ciò richiede la consapevolezza. La consapevolezza cessò di essere richiesta quando smettemmo di tentare di giustificare la nostra conoscenza del mondo esterno mediante la ricostruzione razionale. Che cosa contare come osservazione può ora venir stabilito in termini di stimolazione dei ricettori sensoriali, cada la coscienza dove può”, Quine (1969), trad. it. (1986), p. 107 (corsivi miei). 27 Gibson (1986), trad. it. (1999), p. 42. 28 Ivi, p. 119. 29 Ibidem.
Francesco Ciriolo (2008), In prossimità del sé. Campo di visione ed ottica ecologica, http://www.cinefilab.it/download/elenco_pdf.htm
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Dalla Volta (1974): “[il campo visivo è] (…) l’intera superficie che può essere vista in un dato
momento quando l’occhio sia relativamente immoto”30.
Roland, Parot, Del Miglio (2001): “[il campo visivo è] (…) in visione monoculare, insieme delle
direzioni dello spazio che può abbracciare l’occhio immobile; in visione binoculare, nelle stesse
condizioni, insieme coperto dai due occhi. Il campo visivo viene di solito rappresentato da
coordinate polari i cui meridiani delimitano i settori temporale e nasale, superiore e inferiore. Per
un solo occhio si estende per circa 90° in zona temporale e 60° in zona nasale, superiore e
inferiore. In ragione della posizione degli occhi nell’essere umano, si ha una sovrapposizione
notevole dei campi visivi in visione binoculare, coprendo il campo totale approssimativamente 90°
in tutte le direzioni”31.
Galimberti (2006): “[per campo visivo si intende] (…) il limite della visione periferica e quindi
l’area all’interno della quale un oggetto può essere visto, mentre l’occhio fissa immobile un
punto”32.
“Visual fields. The field of vision represents the relative ability to detect visual stimuli at different
points”33.
Partiamo dalle prime tre. In esse si nota come l’effettiva percezione di un
oggetto si ha quando gli occhi sono immobili e fissano un punto, senza riferirsi
alla corporeità del percettore, alla locomozione e a quanto ciò possa influenzare il
modo di percepire (e concepire) l’ambiente. Tutto quello che Gibson cercherà di
sfatare ponendo l’accento sull’assetto scorrevole della percezione. Ma di ciò
parleremo più avanti.
30 Dalla Volta (1974), p. 126. 31 Doron, Parot, Del Miglio (2001), p. 120. 32 Galimberti (2006), p. 145. 33 La presente definizione è tratta dalla pagina web dedicata alla Neuro-Ophthalmology dell’Università di Toronto reperibile all’indirizzo http://eyelearn.med.utoronto.ca/Lectures04-05/NeuroOphth/03VisualField.htm .
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L’ultima definizione è molto interessante. Cosa si può intendere per “visual
stimuli”?
Paolo Bozzi nel saggio Considerazioni eccentriche sull’errore dello stimolo,
discute alcuni punti deboli in cui potrebbe imbattersi il naturalismo usando il
termine “stimolo”.
Innanzitutto, l’errore consiste nel confondere “(…) la realtà degli osservabili
in atto con le integrazioni cognitive che li riguardano”34. Bozzi critica su due
fronti la prospettiva reificante del naturalismo, ponendosi da un lato dalla parte
del soggetto sperimentale e dall’altro dal punto di vista dello sperimentatore, il
quale a sua volta cercherà di studiare e “individuare” gli stimoli del percettore.
Uno degli errori in cui il soggetto può incorrere nel descrivere direttamente la
percezione in prima persona, risiede nella sua concezione “ingenua” della visione,
concependo occhi e percezione alla stregua di sinonimi, quando, invece, l’occhio
si presenta come “una tappa perfettamente cieca del sistema fisico”35.
Il soggetto, interrogato in laboratorio, potrebbe non capire il suo compito e
qualora lo riuscisse a capire, avrebbe comunque svariate congetture sui fatti che
gli vengono esposti, magari (ipotesi quanto mai verosimile) cercando di “fregare
lo sperimentatore”36. Il percettologo crea una grande confusione concettuale
parlando impropriamente di stimolo “dovuta al fatto che ci importa di più, nelle
cose, la loro inquadrabilità pragmatica che il loro aspetto reale”37. Queste
riflessioni portano Bozzi a sostenere una posizione di dura critica, arrivando ad
34 Bozzi (1998a), p. 8. L’articolo è stato originariamente pubblicato da Bozzi nel Giornale italiano di psicologia, XXV (2), pp. 239 – 252. I numeri di pagine qui riportati sono invece riferiti alla versione reperibile in rete all’indirizzo http://ephp.dpac.univr.it/ephp_db/javapages/util/get.jsp?bibliography=2711 . 35 Ivi, p. 2. 36 Ibidem. 37 Ivi, p. 7.
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affermare che “gli stimoli non esistono”38. E questo per due fondamentali ragioni:
“1) perché ‘stimolo’ è uno pseudoconcetto, mal definibile, plurivoco e gergale, e
2) perché in più è una ipostatizzazione, una reificazione (…) la quale trova
finalmente un senso solo nelle operazioni che volta per volta vengono associate al
suo impiego gergale”39.
Tutto ciò è in accordo con Gibson che descrive la visione come parte di un
sistema visivo più ampio, allargato, dove la retina non è che un singolo
frammento, una parte di un tutto che coinvolge interamente la corporeità
dell’uomo. Ne consegue che il campo visivo è una modalità che “oltre a
rispecchiare il pattern anatomico delle eccitazioni retiniche, ci permette di vedere
un mondo in prospettiva, i binari di un treno convergere, ed in genere di avere
un’esperienza del tipo picture con pezzi di superficie colorata divisa da
contorni”40.
Come altri termini coniati all’interno dell’ottica ecologica, quali
affordances, layout, tessitura ecc., anche quello di campo visivo non è esente da
una nuova riformulazione. Per iniziare, Gibson distingue fra visual field e field of
view, dichirando che “Il campo di visione (field of view) (…) non va confuso con
il campo visivo (visual field). Per l’uso che io faccio del termine, con campo
visivo intendo un tipo di esperienza introspettiva che va posta a raffronto con
l’esperienza «ingenua» del mondo visivo (…) E’ il patcwork momentaneo delle
sensazioni visive. Ma il campo di visione è un fatto dell’ottica ecologica”41.
Più dettagliatamente, il campo di visione non cade in alcuna “esperienza
introspettiva” perché tiene conto di più fattori, fra tutti l’assetto ambiente (e la sua
campionatura) e le informazioni derivate dalla luce ambiente. Inoltre, esso è
38 Ivi, p. 5. 39 Ibidem. 40 Farneti, Grossi (1995), p. 34. 41 Gibson (1986), trad. it. (1999), p. 189.
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delimitato dai margini del sé, cioè dai limiti che sono propri della stessa
fisionomia del percettore. Infatti, il campo di visione è inestricabilmente legato
alla corporeità del sé. Non si può vedere l’ambiente in cui viviamo senza
percepire il proprio corpo. Questo influisce sulla percezione del mondo e sulla
percezione di sé, la quale non è mai uguale da individuo a individuo. Non è
possibile fornire dei parametri oggettivi sulla percezione facendo riferimento ai
soli studi di ottica, anche perché l’evoluzione biologica dello sviluppo delle
capacità oculo-motorie cambia da specie a specie. A questo proposito, spiega
Gibson, “L’apertura angolare del campo dipende dalla collocazione degli occhi
sul capo; vi sono animali che hanno occhi laterali e un campo di visione quasi
panoramico, mentre altri hanno occhi frontali, e un campo visivo
approssimativamente emisferico. In entrambi i sistemi oculari, i campi visivi
separati dei due occhi si sovrappongono frontalmente”42.
L’importanza dei margini del campo, messa insistentemente in evidenza da
Turner e Ruskin, risiede nel fatto che sono gli stessi bordi a coprire/scoprire
l’ambiente:
Un campo di visione è un ampio angolo solido visivo con un inviluppo. Il fatto importante di un
tale campo è costituito dai suoi limiti, certamente vaghi e indefiniti, ma pur sempre limiti. Si tratta
di qualcosa di simile a dei bordi occludenti, come quelli di una finestra. Essi nascondono
l’ambiente che sta al di là di loro stessi, come quelli di una finestra, e quando il campo si muove
c’è un’accrezione della struttura ottica al bordo anteriore, con sua cancellazione invece sul bordo
posteriore (…) Ma i bordi del campo di visione sono dissimili da quelli di una finestra, dato che in
quest’ultima è ciò che è in primo piano che nasconde lo sfondo, mentre nel campo di visione è la
testa dell’osservatore a nasconderlo. Chiediamoci cos’è che ci nasconde, quando guardiamo il
mondo attorno a noi – di certo, non il buio, non l’aria, nient’altro che il nostro io! (…) Tutte le
42 Ivi, pp. 185 -186.
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(fig.5, J. Gibson, il sé percepito nel campo di visione dell’occhio sinistro)
(fig.6, E. Mach, Io visivo)
volte che un punto di osservazione è occupato da un essere umano, circa la metà del mondo
circostante viene a rivelarsi agli occhi, mentre tutto ciò che resta è occultato dalla testa.43
I bordi occludenti così caratteristici del campo di visione (monoculare o
binoculare che sia), presentano altre peculiarità fondamentali che coinvolgono
gran parte delle estremità del corpo. Le più prossime al campo di visione sono ad
esempio rappresentate dal naso, dalle ciglia e dal bulbo oculare, ma anche gli arti,
le braccia, le mani e i piedi “occludono le superfici dell’ambiente «esterno»”44. I
bordi occludenti delle estremità del corpo hanno un’importanza tale da influire
sulla percezione dell’ambiente. Essi sono altresì considerati alla stregua di “semi-
oggetti”45 attaccati all’osservatore.
Nell’assetto ambiente esistono delle
informazioni che “specificano la prossimità
delle parti del sé con il punto di
osservazione”46, scandendo un “sé centrale”
(la testa e il campo di visione dei bulbi
oculari) da un “sé periferico” (cioè gli arti e le
estremità del corpo).
Quanto descritto finora è spiegato da
Gibson nella fig. 5, nella quale si rappresenta
la percezione di sé vista dall’occhio sinistro
nel temporaneo campo di visione del
percettore. Questo disegno non è che una nuova versione di ciò che Mach,
nell’opera Analisi delle sensazioni, chiamava Io visivo (fig. 6).
43 Ivi, pp. 186 -187. 44 Ivi, p. 188. 45 Ibidem. 46 Ibidem.
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(fig.7, J. Gibson, campi di visione ottenuti girando la testa a destra. Si noti come il naso e le gambe sono sempre all’interno del campo)
Ciò che viene aggiunto da Gibson alla raffigurazione di Mach, è che il
campo di visione non solo è legato alla percezione di se stessi, ma funge da
campione scorrevole dell’assetto ambiente dove il percettore, nella locomozione o
nel semplice movimento della testa, campiona le informazioni sull’ambiante
circostante (fig. 7).
Per questo motivo la campionatura dell’assetto ambiente, lungi dall’essere
una fase marginale e “passiva”, è invece una corrispondenza di segmenti
sovrapposti l’uno all’altro. In questo senso, il campo di visione è certamente
temporaneo e transitorio, ma sufficiente per campionare l’assetto ambiente nella
fase di locomozione:
Limitarsi a dire che il campo di visione si «muove» sul mondo mentre la testa si muove è inesatto
e insufficiente; quando la testa si muove, è il mondo che si nasconde e che si rivela, in modi che
specificano esattamente come la testa si muove. (…) la tessitura ottica che subisce una
cancellazione è successivamente oggetto d’accrezione. (…) Il campo di visione temporaneo di un
bulbo oculare è un campione dell’assetto ottico ambiente, e la testa opera continuamente tale
campionatura dell’assetto. Ogni campione è un segmento che si sovrappone al precedente e al
successivo. Ancor di più: esso è un segmento che cambia, con elementi che vengono
progressivamente inclusi ed esclusi ai margini.47
Non esiste, quindi, percezione che non sia al contempo co-percezione e
propriocezione. In altri termini, l’egorecezione accompagna indissolubilmente
47 Ivi, p. 194 – 195.
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l’esterocezione, divenendo sia un particolare aspetto del campo di visione sia un
elemento dominante nello studio della percezione in generale.
Si potrebbe obiettare che seguendo l’identità fra percezione di sé e
percezione dell’ambiente, si possa ricadere in una riduzione dell’ambiente esterno
alla sola visione. Ma è proprio sottolineando questo legame che Gibson riformula
il termine “senso” (percezione visiva inclusa), criticando l’accezione comune,
come l’insieme di quelle facoltà che possono essere nettamente scisse e distinte in
udire, sentire, vedere e così via. Questa separazione non ha ragion d’essere nella
misura in cui si intende la corporeità (e il modo di percepirla), come una fonte di
informazione che coinvolge ogni facoltà sensibile48. Con un esempio efficace,
Gibson spiega quanto appena detto:
Un individuo non solo si vede, ma ode i propri passi e la propria voce, tocca il pavimento e i suoi
oggetti, e quando tocca la propria pelle sente contemporaneamente sia la sua mano che la sua
pelle. Egli sente la testa che gira, i muscoli che si flettono, le articolazioni che si piegano. Ha i
propri dolori, la pressione dei vestiti che indossa, la vista dei propri occhiali: vive di fatto nella
propria pelle.49
Qualunque sia la percezione in questione, essa non può fungere da mero
canale di informazione, lasciando da parte ogni altro tipo di sensazione (olfattiva,
uditiva o visiva che sia) perché “le informazioni sul sé sono multiple, di più tipi”
da essere percepite “in modo concomitante”50.
Ancora una volta, le informazioni ottiche che abbiamo percependo il sé
(testa, arti, braccia ecc.) sono legate con quelle del mondo circostante. Con uno
48 Cfr. p. 189. 49 Ivi, p. 190. 50 Ibidem.
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slogan che rende bene l’idea: “Quando un uomo vede il mondo, nello stesso
momento vede il proprio naso”51.
Riassumendo quanto esposto finora, le informazioni sulla percezione del sé
sono accompagnate dalle informazioni che derivano dall’ambiente, senza che da
questo possa derivare un vuoto dualismo, perché l’egorecezione è indispensabile
all’esterocezione e viceversa. Dai margini del campo di visione si ha l’occlusione
dell’ambiente esterno e, poiché l’occlusione cambia ruotando la testa o
semplicemente muovendosi, il campo di visione funge da campione scorrevole
dell’assetto ambiente, raccogliendo informazioni che prima erano nascoste al
percettore e che vengono ora a rivelarsi. La percezione visiva è simultaneamente
accompagnata dagli altri tipi di informazioni derivate dall’ambiente. Scopo della
visione è campionare l’ambiente, essere consapevoli di ciò che abbiamo “davanti
agli occhi” e registrare quello che ci circonda. Per mezzo dei bordi occludenti,
Gibson spiega come mai il soggetto ha una visione unitaria e organica
dell’ambiente, pur muovendo gli occhi e ricevendo sempre nuove informazioni
dall’ambiente percepito. Il percettore, infatti, è parte di un mondo visivo, un
mondo, cioè, unitario e stabile, in cui ognuno agisce e interagisce con esso. Da qui
prende avvio il concetto di affordances, il quale non può essere compreso se non
sullo sfondo dell’unità fra egorecezione ed esterocezione, dove “Individuo e
ambiente, soggetto ed oggetto, stimoli e percettore si trovano in un rapporto di
reciprocità e simmetria, sono fatti l’uno per l’altro, si offrono e si scoprono a
vicenda, senza bisogno di alcuna elaborazione”52. Questo vuol dire che la
percezione è diretta, senza alcuna mediazione interna.
51 Ivi, p. 191. 52 Farneti, Grossi (1995), p. 14.
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Le affordances sono spesso tradotte come “caratteri d’invito”53 offerte
dall’ambiente, tramite le quali il percettore può potenzialmente comprendere tutto
ciò che proviene da esso (oggetti o superfici che siano), selezionando solo
determinate proprietà che sono state definite nel corso dell’evoluzione. Ogni
specie ha infatti selezionato dei comportamenti favorevoli per adeguarsi al suo
ambiente. In questo modo, le affordances, essendo solo allo stato potenziale,
vengono poste in atto all’interno del binomio danno/beneficio. Detto altrimenti, se
un qualsiasi oggetto ha delle affordances favorevoli per alcune specie, per altre
viene percepito come dannoso.
Dal nostro punto di vista, è interessante notare come per ogni affordances
esistono delle possibilità di azione, anzi, la stessa percezione è direttamente
coinvolta nell’atto, agendo senza alcuna mediazione con l’ambiente. Per spiegare
le innumerevoli azioni che possiamo compiere nell’ambiente, prendiamo come
esempio una mela.
Una mela è ovviamente un oggetto singolo, ma le possibilità di azione
offerte sono pressoché illimitate: è di una certa forma, di un certo colore, è
qualcosa che può essere spostata, toccata, afferrata, raccolta, tagliata e mangiata, o
semplicemente gettata. Una mela può essere scelta come soggetto di una natura
morta, oppure può essere usata per rompere un vetro54.
Queste sono solo alcune delle possibilità che vengono offerte da un singolo
oggetto, e abbiamo volontariamente tralasciato tutte le varie combinazioni
possibili che intercorrono con altri oggetti e altre possibilità di azione che può
53 Gibson cita Koffka nell’esporre l’origine del concetto affordance, facendolo però risalire a Kurt Lewin che coniò il termine Aufforderungscharakter. 54 Gibson (1986), trad. it. (1999), p. 214: “Gli oggetti possono essere fabbricati (manufactured) e possono essere manipolati (manipulated). Alcuni sono trasportabili per il fatto di costituire affordances di sollevamento e di trasporto, altri no. Alcuni sono afferrabili, altri no”.
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avere una mela per altre specie (le affordances sopra descritte cambiano
notevolmente se considerate dalla prospettiva di un bruco)55.
Un’affordance non vuol dire percepire qualcosa di fisico, neutralmente
esposto alla percezione del percettore. Che relazione fisica può palesarsi fra una
mela e le sue affordances? Essa ha una certa forma, delle proprietà chimiche e
organiche, può essere spostata con un certo grado di forza da un punto A a un
punto B. Fermandosi alle proprietà fisiche, non si potrebbe spiegare nessuna delle
azioni sopra descritte come esempi di affordances. In questo, il mondo fisico è
“tutt’altro che un insieme di frammenti neutri cui la mente dovrà assegnare un
significato (percetto). Il mondo è invece un insieme di strutture organizzate in
relazioni tali da essere immediatamente afferrate e comprese dal percettore”56.
Le affordances non possono essere inquadrabili in nessuna delle qualità
primarie o secondarie. Esse rinviano ad un altro tipo di proprietà, le qualità
terziarie. Per quanto concerne la loro spiegazione ci avvarremo del già citato
Bozzi, non solo per la sua innata capacità espositiva, ma anche perché è un tema
che pervade il carattere “ingenuo” della percezione 57.
Nelle prime pagine abbiamo messo in evidenza l’analogia fra spazio
geometrico e spazio naturale dell’ambiente, da cui l’equazione di uguaglianza fra
prospettiva lineare e processo naturale della visione. La conseguente
identificazione è stata favorita dalla rivoluzione copernicana, in particolare dalla
distinzione galileiana fra qualità primarie e secondarie.
Prima di tutto, secondo Bozzi, le qualità primarie non possono essere
separate da quelle secondarie58, in secondo luogo esse “(…) sono pure
55 Per queste considerazioni si rimanda a Farneti, Grossi (1995), pp. 74 – 81. 56 Ivi, p. 14. 57 Cfr. Bozzi (1998b), cap. 3. 58 Bozzi (1998b) a p. 93 nota che gli attributi delle qualità primarie “(…) non sono meno empiricamente dati di quanto lo siano il colore, il sapore e l’odore”. In questo modo sappiamo che
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astrazioni”59. Ma questa critica non è fine a se stessa, anche perché riconducibile
all’interno del filone empirista (non a caso Bozzi cita Berkeley). L’elemento
innovativo risiede nel fatto che anche le proprietà terziarie sono costitutive
dell’oggetto:
Se le qualità secondarie appaiono come tali per essere meno ancorate all’oggetto esterno di quanto
lo siano le primarie, e in qualche modo percettibilmente legate all’osservatore e ai suoi modi di
osservare, le qualità terziarie sembrano affondare le loro radici nelle più interne casse di risonanza
del soggetto senziente, sebbene appaiano topograficamente collocate anch’esse nelle cose esterne.
Una volta lo psicologo praghese Max Wertheimer (ma non so né dove né quando) ha detto (o
scritto): ‘Il nero è lugubre prima ancora di essere nero’. Le qualità terziarie sono prepotentemente
presenti nei pezzi di mondo con cui abbiamo a che fare (…) Se il nero è lugubre, il rosso è vivace.
L’ombra di un grande albero verde è riposante e distensiva. Un accordo di settima diminuita è
agghiacciante e teso. (…) tali ingredienti emergono dai fatti con evidenza immediata non appena i
fatti siano tolti dal limbo delle invocazioni realizzate a parole per prender corpo in carne ed ossa
nell’ambito della nostra osservazione.60
Nel brano appena riportato, Bozzi afferma il carattere delle proprietà
terziarie come “prepotentemente presenti” e inscindibili dal soggetto. Non esiste
una barriera fra oggettivo e soggettivo, perché esse si offrono spontaneamente al
soggetto, risuonando di continuo nelle sue “casse di risonanza”.
In definitiva, le cose non solo hanno dei nomi, ma richiedono degli
aggettivi e sono esse stesse a indicarci quali. In questo contesto, il campo di
visione è un continuo, diretto ricondursi alle cose, è avere, inoltre, tangibile
presenza del mondo visivo di cui siamo parte.
“(…) quella prima classe di proprietà degli oggetti è indistricabile dalla seconda: è inimmaginabile la triangolarità di un oggetto completamente spogliata dagli altri attributi o tattili o visivi, né è immaginabile la sua posizione nello spazio senza che ci siano grappoli di qualità secondarie capaci di farcelo distinguere in qualche modo dall’ambiente circostante”. 59 Ibidem. 60 Ivi, p. 100.
Francesco Ciriolo (2008), In prossimità del sé. Campo di visione ed ottica ecologica, http://www.cinefilab.it/download/elenco_pdf.htm
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