FRANCESCO CIRIOLO_In prossimità del sè_ percezione arte psicologia

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Francesco Ciriolo (2008), In prossimità del sé. Campo di visione ed ottica ecologica, http://www.cinefilab.it/download/elenco_pdf.htm 1 IN PROSSIMITÀ DEL SÉ. CAMPO DI VISIONE ED OTTICA ECOLOGICA FRANCESCO CIRIOLO (…) della ricchezza di una visione creata da se stessa. (Fernando Pessoa, Fiat Lux) Tu dici: io apro gli occhi e vedo quello che c’è ecc. ecc. ad infinitum ( Hans M. Enzensberger, La vista) “La visione è una faccenda strana e meravigliosa” 1 . Queste le parole di Gibson che aprono The Ecolgical Approach to Visual Perception, nel quale traspare tutto l’interesse (e lo stupore) verso lo studio della percezione. Vedere presuppone un ambiente dato, costituito, un mondo cioè che coinvolge l’intera persona che in quello stesso mondo apprende, si muove, vive. È fondamentale notare come per Gibson, egorecezione (la percezione di sé) ed esterocezione (la percezione dell’ambiente) siano inestricabilmente legati: “Le informazioni sul sé accompagnano le informazioni sull’ambiente, e i due tipi di informazioni non possono essere separati. L’egorecezione accompagna l’esterocezione, come l’altra faccia di una moneta. (…) Si percepisce l’ambiente e ci si co-percepisce” 2 . Tuttavia, pur ammettendo un soggetto che acquisisce informazioni vedendo il (e nel) mondo, si potrebbe obiettare che la percezione sia invece un’elaborazione fisiologica derivata dagli stimoli che colpiscono la retina (deriva, questa, di matrice costruttivista). I prossimi paragrafi valgono ad evitare tali esiti. Prenderemo in esame il campo di visione in ottica ecologica con riferimento alla Relazione presentata nel marzo 2008 presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Un sincero ringraziamento è per Roberta De Monticelli non solo per i preziosi consigli, ma per avermi costantemente seguito e incoraggiato in questo studio sull’arte e la psicologia della percezione. 1 Gibson (1986), trad. it. (1999), p. 29. 2 Ivi, p. 203.

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Francesco Ciriolo (2008), In prossimità del sé. Campo di visione ed ottica ecologica, http://www.cinefilab.it/download/elenco_pdf.htm

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IN PROSSIMITÀ DEL SÉ. CAMPO DI VISIONE ED OTTICA ECOLOGICA

FRANCESCO CIRIOLO

(…) della

ricchezza di una visione creata da se stessa. (Fernando Pessoa, Fiat Lux) Tu dici: io apro gli occhi e vedo quello che c’è ecc. ecc. ad infinitum ( Hans M. Enzensberger, La vista)

“La visione è una faccenda strana e meravigliosa”1. Queste le parole di

Gibson che aprono The Ecolgical Approach to Visual Perception, nel quale

traspare tutto l’interesse (e lo stupore) verso lo studio della percezione. Vedere

presuppone un ambiente dato, costituito, un mondo cioè che coinvolge l’intera

persona che in quello stesso mondo apprende, si muove, vive. È fondamentale

notare come per Gibson, egorecezione (la percezione di sé) ed esterocezione (la

percezione dell’ambiente) siano inestricabilmente legati: “Le informazioni sul sé

accompagnano le informazioni sull’ambiente, e i due tipi di informazioni non

possono essere separati. L’egorecezione accompagna l’esterocezione, come l’altra

faccia di una moneta. (…) Si percepisce l’ambiente e ci si co-percepisce”2.

Tuttavia, pur ammettendo un soggetto che acquisisce informazioni vedendo

il (e nel) mondo, si potrebbe obiettare che la percezione sia invece

un’elaborazione fisiologica derivata dagli stimoli che colpiscono la retina (deriva,

questa, di matrice costruttivista). I prossimi paragrafi valgono ad evitare tali esiti.

Prenderemo in esame il campo di visione in ottica ecologica con riferimento alla

Relazione presentata nel marzo 2008 presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Un sincero ringraziamento è per Roberta De Monticelli non solo per i preziosi consigli, ma per avermi costantemente seguito e incoraggiato in questo studio sull’arte e la psicologia della percezione.

1 Gibson (1986), trad. it. (1999), p. 29. 2 Ivi, p. 203.

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percezione nell’arte, cercando di spiegare, incitare quantomeno, come e perché si

ha un particolare “punto di vista” sul mondo, senza affatto escludere l’unità delle

credenze che si formano percependolo e facendone parte.

1. “Necessità dell’incompletezza”. Dal rettangolo all’ovoide.

(…) Ma l’occhio in realtà non lo vedi. E nulla nel campo visivo fa concludere che esso sia visto da un occhio. (Ludwig Wittgenstein, Tractatus, 5.633)

Durante il XX secolo il dibattito contemporaneo sulla percezione ha visto

intrecciarsi due ambiti apparentemente separati: la psicologia e l’arte. Tale

interesse è testimoniato dagli studi condotti da Gombrich, Panofsky e, soprattutto,

da Rudolph Arnheim. Da parte sua, Gibson ebbe ripetute occasioni di confronto

con essi, aprendo dibattiti, più o meno accesi, durante la sua intera carriera3.

Questi incontri testimoniano una non comune abilità dello psicologo

statunitense nel proporre originali soluzioni al problema della percezione, sebbene

unita ad una mancata capacità di comprendere il fenomeno artistico. Infatti, come

riportato da Arnheim, “Un uomo come Gibson, che faceva ricerche di grande

intelligenza sulla percezione, non aveva la minima idea di cosa fosse l’arte, non

ne capiva gli elementi (…) quando parlava di arte era imbarazzante, viceversa

quando si occupava della percezione conseguiva magnifici risultati”4. Ciò non

sembra escludere alcuni rimandi che può avere l’ottica ecologica in ambito

artistico, in riferimento a quel ventaglio di posizioni sorte a cavallo fra XVIII e

XIX secolo, che hanno come problema la rappresentazione, quanto più fedele

3 Significativo è il confronto fra Gombrich e Gibson. In questa sezione non avremo modo di approfondire la disputa fra i due, soffermandoci più in particolare sull’ottica ecologica. Per chi voglia approfondire questo aspetto, l’indirizzo http://www.gombrich.co.uk/dispute.php fornisce lettere, convegni e abstract che documentano esaustivamente entrambe le posizioni e i motivi di disaccordo. 4 Pizzi Russo (2005), p. 257.

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possibile, della naturale percezione visiva, senza che si abbiano ripercussioni

sull’osservatore o sull’opera d’arte.

Guardare un’opera d’arte, fruire dei suoi particolari toni cromatici,

ammirarne le caratteristiche, presuppone un osservatore. Elementare. Non così

ovvio se il problema viene considerato dal punto di vista dell’artista. Porre

davanti all’osservatore una tela bidimensionale creando un effetto

tridimensionale, presuppone uno studio di ottica e geometria descrittiva tale da

determinare con esattezza la dimensione di profondità fra tutti gli elementi

dell’opera. Questa illusione è una vera “invenzione”5 prospettica, generalmente

fatta risalire a Brunelleschi e all’Alberti6. Dal XV secolo, seppure con notevoli

apporti, la prospettiva rimane comunque un potente strumento per ogni artista

come fonte di rappresentazione tridimensionale, fino al sistematico rifiuto dovuto

alle Avanguardie, a cominciare dal Futurismo e dal Cubismo.

Per il nostro studio basterà notare come, sia pure in misure diverse, i

principali artisti fino al XIX secolo fecero coincidere l’ottica geometrica con la

naturale percezione visiva. Un’equazione, questa, che implica un considerevole

numero di assunzioni e, in ogni caso, non priva di problematiche. Come nota

Kemp, essi

(…) condividevano nella maggior parte dei casi un’importante supposizione di base, ossia che la

scienza dell’ottica geometrica corrispondeva in modo diretto ai meccanismi fondamentali del

processo visivo. La conseguenza di questa osservazione non sempre dichiarata, era che i

procedimenti geometrici fornivano un mezzo appropriato per la rappresentazione di oggetti

tridimensionali su una superficie piana, in modo tale che la configurazione presentata all’occhio

dalla proiezione era essenzialmente la stessa osservata nell’oggetto reale.7

5 Kemp (1990), trad. it. (2005), p. 17. 6 Per un panorama dettagliato cfr. ivi, capp. I-III. 7 Ivi, p. 185 (corsivo mio).

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Sebbene con Leonardo gli studi di anatomia e di prospettiva aerea hanno

tutti i presupposti per dissipare in parte questi assunti, nondimeno anche gli studi

di Keplero che esaminavano l’occhio

come una forma di camera oscura – dove l’immagine invertita è messa a fuoco sulla retina –

lasciava la supposizione principale largamente inalterata. Il suo nuovo occhio fu concepito

interamente nel contesto dell’ottica geometrica, e le idee fondamentali sull’angolo visivo e sulla

proporzionalità tra immagine e oggetto rimasero intatte. Quei teorici che discussero le operazioni

del nuovo occhio erano facilmente in grado di farlo operare in armonia con le regole prestabilite

della prospettiva.8

Anche in psicologia, Gibson non è da meno nel notare che “confondere la

prospettiva pittorica con quella naturale è equivocare il problema della percezione

visiva sin dall’inizio”9.

Nessuna concezione dell’occhio sembrava tenere alla “geometrizzazione”

dello spazio e della percezione. Ancora maggiore è l’effetto della rivoluzione

copernicana e la messa in discussione della concezione aristotelica. L’

“operazione di alta chirurgia”10, come viene chiamata da Bozzi, fra qualità

primarie e secondarie ad opera di Galileo, non è che l’ennesima riprova della

corrispondenza fra scienza ottica e processo visivo.

Questa distinzione viene consolidata da tutta la tradizione empirista. Infatti,

è proprio all’interno dell’empirismo che nasce un nuovo modo di rapportarsi alla

percezione visiva e conseguentemente alla prospettiva stessa.

8 Ibidem (corsivo mio). 9 Gibson (1986), trad. it. (1999), pp. 130 – 131. 10 Bozzi (1998), p. 91.

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Nel monumentale Modern Painters, Ruskin (noto empirista) lascia ampio

spazio allo studio del campo naturale della visione, contrapponendolo all’artificio

della prospettiva lineare classica. Egli individua la differenza fra artisti antichi e

moderni nell’imitazione della percezione naturale dell’occhio, affermando che gli

“antichi maestri” rappresentavano “(…) non quello che vedevano, ma quel che

credevano facesse bello un quadro”11.

L’intuizione di Ruskin è la definizione dello spazio in quanto dipendente

dalla focale dell’occhio e non più dalla prospettiva geometrica dello spazio stesso.

E’ uno spazio, quindi, dal punto di vista dell’osservatore. Egli individua “due

verità” dello spazio, che hanno entrambe come presupposto l’imitazione della

percezione visiva. La prima di queste due verità è lo spazio in quanto “dipendente

dalla focale dell’occhio”12, in cui non la prospettiva aerea13, ma “il disegno degli

oggetti, cioè a dire, il grado in cui i dettagli e parti sono nitidi o sfumati, è un

ineffabile, certo criterio della loro distanza”14.

Questa strategia di Ruskin è volta a difendere l’arte del paesaggio di Turner,

al tempo accusata, secondo Rothenstein, di “mancanza di ‘finitezza

fiamminga’”15. Bisogna ricordare, inoltre, che la teoria paesaggistica ruskiniana

11 Ruskin (1856), trad. it. 1998, p. 247; le varie edizioni di Modern Painters sono reperibili in rete all’indirizzo http://www.lancs.ac.uk/fass/ruskin/empi/1stedition/1a013.htm. 12 Ivi, p. 253. Le “due verità” sono riassunte dai titoli dei capp. 4 e 5: cap. 4, parte II, sez. II, p. 253, La verità dello spazio. Primo: in quanto dipendente dalla focale dell’occhio; cap. 5, parte II, sez. II, p. 259: La verità dello spazio. Secondo: il suo aspetto dipende dal vigore dell’occhio. 13 Mentre l’arte fiamminga, ad esempio di Jan Van Eyck, definiva con massima precisione anche gli oggetti distanti, con la prospettiva aerea di Leonardo, invece, l’aumentare della distanza dal punto di osservazione era definita da contorni più sfumati, a seconda della distanza degli oggetti raffigurati. Ciò si può notare nella Gioconda o nella Vergine con Sant’Anna e il Bambino con l’agnello. 14 Ruskin (1843), trad. it. 1998, p. 253. 15 Rothenstein (1966), p. 4: “Una delle critiche che sempre venivano rivolte al giovane Turner era la mancanza di ‘finitezza fiamminga’. (…) [Egli invece] si mostra un ‘realista’ e si distingue, secondo l’opinione di Ruskin, per la sua «fedeltà alla natura»”. Per l’arte fiamminga cfr. infra, n. 14. Un’altra accusa è riportata da Sbrilli (1988), p. 308, secondo la quale le opere di Turner venivano “Accusate da Benjamin West di essere scorrette macchie informi, le sue opere vennero salutate dal critico d’arte John Ruskin come le prime espressioni di una sensibilità squisitamente moderna, nutrita di cultura letteraria, di

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trova un riscontro diretto negli incontri assidui con l’artista inglese, divenendo, in

quanto artista “moderno”, la pietra di paragone nel problema della percezione

visiva nell’arte16.

È interessante riportare alcune considerazioni addotte da Ruskin per

corroborare la propria posizione, secondo la quale è impossibile vedere con la

stessa chiarezza e nello stesso momento tutti i punti osservati:

Primo, si noti che l’occhio, come qualsiasi altra lente, deve modificare la focale per riportare

un’immagine nitida di oggetti situati a diversa distanza; di modo che è assolutamente impossibile

vedere distintamente e nello stesso momento due oggetti, uno dei quali si trovi molto più lontano

dell’altro. Di ciò, ci si può persuadere da sé in un istante. Fissate l’intelaiatura della vostra finestra

in modo da ottenere un’immagine chiara della sua forma e dei suoi contorni, e non potrete, finché

il vostro sguardo vi si posa, percepire altro che le più indistinte e nebbiose immagini di qualunque

oggetto sia visibile al di là di essa. Ma fissate lo sguardo su quegli oggetti, in modo da vederli

chiaramente, e sebbene si trovino appena oltre e apparentemente accanto all’intelaiatura della

finestra, stavolta sarà l’intelaiatura a essere vista come vaga, tremolante, opaca interruzione di

quello che si percepisce oltre a essa. Un minimo d’attenzione rivolta a questo fatto persuaderà

chiunque della sua universalità, e proverà al di là di ogni possibile discussione che gli oggetti

situati a distanza diseguale non possono essere visti insieme, non a causa dell’interposizione

dell’atmosfera o della foschia [come avveniva per la prospettiva aerea], ma dell’impossibilità che i

raggi procedenti da entrambi convergano sullo stesso fuoco, così che l’impressione suscitata o

dall’uno o dall’altro sarà necessariamente confusa, indistinta e inadeguata.17

È proprio per mezzo di questa vaghezza e opacità che Ruskin esalta le

vedute paesaggistiche di Turner perché, oltre a rispettare la messa a fuoco

dell’occhio, lascia i bordi del campo visivo indefiniti e vaghi, rispetto, invece, a

conoscenze tecniche e alchemiche, di viaggi in Italia, e capace di trasfigurare tutto ciò in un linguaggio sorprendente che prelude, per certi aspetti all’impressionismo e per altri all’informale.” 16 Cfr. Walker (1975), trad. it. (1984). 17 Ruskin (1843), trad. it. (1998), p. 254.

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quanto accade in un altro paesaggista suo contemporaneo, John Constable (fig. 1).

Durante i primi dell’Ottocento, Turner abbandona i piani rettangolari per

quelli ellittici e ovoidali, concentrando la propria attenzione sul campo visivo

nella percezione dell’ambiente circostante. I bordi, lungi dall’essere pensati in

vista di una cornice, sono volutamente ottenuti ed elaborati con immagini chiare e

nitide verso il punto di osservazione e man mano sempre più sfumate ai bordi,

sino a diventare tutt’uno con il bianco della tela o di qualsivoglia piano pittorico.

A maggior ragione, anche gran parte delle figure presenti all’interno del

campo sono indefinite e vaghe, tanto da poter rintracciare, con le parole di

Ruskin, una “necessità per quell’incompletezza”18 (fig. 2). L’occhio non è in

18 Ivi, p. 258: “(…) esistono sia un motivo che una necessità per quell’incompletezza di disegno che dà anche alle figure più prossime un tondo con quattro puntini rosa per faccia, e quattro pennellate per piedi e mani; perché è assolutamente impossibile che l’occhio, se è adattato a ricevere i raggi dalla massima distanza, e qualche impressione parziale di tutti i piani, sia in grado di percepire, nelle forme e figure più prossime, qualcosa di più di quel che Turner esegue. E quanto questa vaghezza sia assolutamente necessaria alla fedele rappresentazione dello spazio chiunque potrebbe provare con la massima facilità”; sempre Ruskin a p. 256 scrive che “Turner iniziò una nuova era della pittura di paesaggio, mostrando che si poteva sacrificare il primo piano a favore dello sfondo, e mostrando che era possibile rappresentare l’immediata possibilità dello spettatore, senza presentare nella loro interezza le forme degli oggetti vicini. Ciò che vien fatto senza tracciare contorni sfumati o indecisi (sempre sintomi di un difetto in arte) ma mediante una decisa incompletezza, una solida ma parziale resa della forma, tale che quasi l’occhio l’afferra, eppure non riesce a posarvisi, né a soffermarvisi, né a comprenderla interamente, e dalla quale viene immancabilmente distolto a beneficio delle parti di sfondo su cui posarvisi”. Numerosi sono i critici che hanno notato una propensione di Turner verso lo studio della percezione, come, ad esempio, Walker (1976), trad. it. (1984) pp. 58 e 59: “Col dileguarsi della compattezza della materia, spariscono anche i disegni vari e dal tratto deciso del Liber Studiorum e dei dipiti

(fig. 1, J. Constable, Il cavallo bianco, 1819)

(fig. 2, J. M. W. Turner, Un passo di montagna al tramonto, 1830-1833 ca.)

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(fig.4, J. Ruskin, forma ellittica del campo visivo, in H. Repton 1840, p. 35)

(fig.3, J. M. W. Turner, litografia per Campbell 1830, Lord Ullin's Daughter)

grado di rivolgere la propria attenzione su tutti i piani del disegno, né abbracciare

interamente la forma rettangolare dell’opera. Ciò si nota specialmente nelle

litografie disegnate da Turner per l’opera poetica di Campbell (fig. 3) o in

particolari acquerelli.

Ruskin in una nota aggiunta a Landscape

Gardening and Landscape Architecture di Repton,

illustra la forma del campo visivo ellittico (fig. 4). Questa

viene distinta da quella rettangolare, dimostrando una

vera e propria insistenza nella spiegazione di quei “bordi

attenuati, come immagini corrispondenti al campo

naturale della visione”19.

In conclusione, il critico inglese giustifica le scelte artistiche di Turner nel

prediligere questi “bordi attenuati”, negando ogni identità fra spazio geometrico e

spazio naturale della visione.

Un secolo e mezzo più tardi,

Gibson sarà dello stesso avviso. A proposito di una critica rivolta a Berkeley

riguardo alla percezione prospettica di oggetti posti in lontananza, egli afferma

che quest’ultima “ (…) non è una linea che va diritta all’occhio, come pensava il

vescovo Berkeley. Pensare che le cose stiano così è confondere lo spazio

giovanili, e le composizioni si riducono invece a una serie di descrizioni sommarie che ripetono la forma approssimativamente ovale del campo visivo. (…) [Turner] intrecciò a questo stile immaginativo una profonda conoscenza degli effetti visivi”. 19 Kemp (1990), trad. it. (2005), p. 269.

(J. M. W. Turner, Il campo di battaglia di Waterloo, 1832)

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geometrico astratto con lo spazio vivente dell’ambiente”20. Sempre Gibson, in

riferimento alla prospettiva, pur ammettendo che essa “costituisce una disciplina

assolutamente chiara e lineare”, ne evidenzia l’inadeguatezza per la percezione

naturale perché “l’ambiente non consiste nella sua interezza di parti o forme

geometriche nettamente differenziate. (…) Essa geometrizza l’ambiente e così lo

ipersemplifica”21.

Il motivo per cui ci siamo dilungati a spiegare la concezione turneriana del

campo visivo è la considerazione di due punti in particolare: a) il rifiuto di

considerare l’ottica geometrica come diretto equivalente della percezione visiva;

b) l’incapacità del soggetto di concentrarsi uniformemente a tutto il percetto

esistente all’interno del campo visivo. I punti a e b, infine, sono stati messi in luce

da Ruskin descrivendo l’ellittica del campo visivo.

Questi esempi non sono affatto da considerarsi come dei casi isolati, anzi,

potremmo affermare senza alcun dubbio che ciò appartiene ad un intero ambito

multidisciplinare in grado di unire arte, ottica, geometria, meccanica e fisiologia.

In riguardo a quest’ultima, Helmholtz era giunto ad interessarsi a studi analoghi

suffragati da innumerevoli esperimenti in ambito ottico, notando come

l’immagine che “riceviamo tramite l’occhio è come un dipinto rifinito in modo

minuto ed elaborato al centro ma solo approssimativamente abbozzato verso i

bordi”22. Helmholtz spiega il campo visivo in termini di nervi ottici che vengono

20 Gibson (1986), trad. it. (1999), p. 192 (corsivo mio). Molto efficacemente Farneti, Grossi (1995) spiegano che il concetto di spazio “(…) era concepito come un vuoto i cui punti luminosi, propri degli oggetti in esso contenuti, venivano a proiettarsi in corrispondenti punti dell’immagine retinica i quali, come Berkeley aveva sottolineato, rimanevano gli stessi, sia che la distanza fosse maggiore o minore”, p. 27. 21 Gibson (1986), trad. it. (1999), p. 129. 22 Helmholtz riportato in Kemp (1990), trad. it. (2005), p. 267.

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stimolati dalla luce, notando come “le immagini retiniche di oggetti posti a

diversa distanza non sono in effetti nitide alla pari”23.

Tuttavia, egli non pone l’accento sull’ambiente, sul mondo che si dispiega di

fronte al soggetto, ma sulla nozione di stimolo, dove sarebbero contenute tutte le

informazioni necessarie per il funzionamento del sistema visivo. Questa la base

del costruttivismo, dove la percezione (il come noi “vediamo il mondo”) è

essenzialmente dovuta alla “costruzione” e all’assemblaggio di elementi più

semplici elaborati dal cervello24.

È questa la posizione che viene messa in discussione da Gibson per le sue

derive riduzionistiche e introspettive.

2. Margini del sé. Ambiente, percezione, campo di visione.

Chiediamoci cos’è che ci nasconde, quando guardiamo il mondo attorno a noi – di certo, non il buio, non l’aria, nient’altro che il nostro io! (James J. Gibson, Un approccio ecologico alla percezione visiva)

“I fisiologi conoscevano le cellule nervose retiniche e il loro funzionamento,

ma ignoravano il modo in cui opera il sistema visivo. Tutte le loro conoscenze mi

apparivano prive di rilievo. Potere creare degli ologrammi, prescrivere degli

occhiali, curare malattie dell’occhio sono tutte splendide realizzazioni: tuttavia

non possono studiare il fenomeno della visione”25. Tanto basta a descrivere la

posizione di Gibson riguardo alla concezione dello stimolo, dell’immagine

retinica e di qualsivoglia interpretazione che intenda spiegare la percezione su

base prettamente costruttivista e fisiologica.

23 Helmholtz (1851), trad. it. (1996), p. 154. 24 Cfr. Paternoster (2008), p. 78. 25 Gibson (1986), trad. it. (1999), p. 29; inoltre cfr. Gibson (1960).

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Basterà citare solo un titolo, Dallo stimolo alla scienza di Quine, per capire

quanto il naturalismo sia appiattito sulla mera fisiologia, traducendo le sterminate

quantità di informazioni che riceviamo dall’ambiente esterno come “imput” a cui

faranno seguito determinati “output”26. La percezione non può essere derivata né

dalla fisiologia, né dal solo ambiente. Entrambi gli aspetti sono indissolubili,

“animale e ambiente formano una coppia inseparabile. Ogni termine implica

l’altro. Nessun animale potrebbe esistere senza un ambiente che lo circonda”27.

Secondo Gibson l’immagine retinica non è indispensabile per la visione, da un

lato perché “non è qualcosa che possa essere vista”28 e dall’altro perché le

informazioni provengono dall’ambiente, denunciando un vero e proprio “sofisma

dell’immagine nell’occhio”29, avviato da Keplero e proseguito fino alle odierne

teorie costruttiviste.

Ed è all’interno di questo dibattito che Gibson avverte l’insufficienza delle

nozioni ereditate dalla tradizione in ambito ottico e psicologico. Termini come

stimolo e campo visivo, altro non sono che gli ennesimi attributi legati

all’introspezione, in cui la percezione è delimitata da una piccola parte di mondo

che viene momentaneamente percepita.

Per capire cosa Gibson cerca di spiegare, riportiamo di seguito alcune

definizioni di campo visivo:

26 Dal nostro punto di vista è interessante notare come Quine utilizzi proprio la percezione visiva e la stimolazione dei recettori sulla retina per giustificare il suo naturalismo. Nel saggio Epistemologia naturalizzata Quine scrive: “Le nostre retine vengono irradiate in due dimensioni, tuttavia vediamo le cose come tridimensionali senza inferenza cosciente. Quale deve contare come osservazione: la ricezione bidimensionale inconscia o l’apprensione tridimensionale cosciente? Nel vecchio contesto epistemologico la forma cosciente aveva la priorità perché cercavamo di giustificare la nostra conoscenza del mondo esterno mediante la ricostruzione razionale e ciò richiede la consapevolezza. La consapevolezza cessò di essere richiesta quando smettemmo di tentare di giustificare la nostra conoscenza del mondo esterno mediante la ricostruzione razionale. Che cosa contare come osservazione può ora venir stabilito in termini di stimolazione dei ricettori sensoriali, cada la coscienza dove può”, Quine (1969), trad. it. (1986), p. 107 (corsivi miei). 27 Gibson (1986), trad. it. (1999), p. 42. 28 Ivi, p. 119. 29 Ibidem.

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Dalla Volta (1974): “[il campo visivo è] (…) l’intera superficie che può essere vista in un dato

momento quando l’occhio sia relativamente immoto”30.

Roland, Parot, Del Miglio (2001): “[il campo visivo è] (…) in visione monoculare, insieme delle

direzioni dello spazio che può abbracciare l’occhio immobile; in visione binoculare, nelle stesse

condizioni, insieme coperto dai due occhi. Il campo visivo viene di solito rappresentato da

coordinate polari i cui meridiani delimitano i settori temporale e nasale, superiore e inferiore. Per

un solo occhio si estende per circa 90° in zona temporale e 60° in zona nasale, superiore e

inferiore. In ragione della posizione degli occhi nell’essere umano, si ha una sovrapposizione

notevole dei campi visivi in visione binoculare, coprendo il campo totale approssimativamente 90°

in tutte le direzioni”31.

Galimberti (2006): “[per campo visivo si intende] (…) il limite della visione periferica e quindi

l’area all’interno della quale un oggetto può essere visto, mentre l’occhio fissa immobile un

punto”32.

“Visual fields. The field of vision represents the relative ability to detect visual stimuli at different

points”33.

Partiamo dalle prime tre. In esse si nota come l’effettiva percezione di un

oggetto si ha quando gli occhi sono immobili e fissano un punto, senza riferirsi

alla corporeità del percettore, alla locomozione e a quanto ciò possa influenzare il

modo di percepire (e concepire) l’ambiente. Tutto quello che Gibson cercherà di

sfatare ponendo l’accento sull’assetto scorrevole della percezione. Ma di ciò

parleremo più avanti.

30 Dalla Volta (1974), p. 126. 31 Doron, Parot, Del Miglio (2001), p. 120. 32 Galimberti (2006), p. 145. 33 La presente definizione è tratta dalla pagina web dedicata alla Neuro-Ophthalmology dell’Università di Toronto reperibile all’indirizzo http://eyelearn.med.utoronto.ca/Lectures04-05/NeuroOphth/03VisualField.htm .

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L’ultima definizione è molto interessante. Cosa si può intendere per “visual

stimuli”?

Paolo Bozzi nel saggio Considerazioni eccentriche sull’errore dello stimolo,

discute alcuni punti deboli in cui potrebbe imbattersi il naturalismo usando il

termine “stimolo”.

Innanzitutto, l’errore consiste nel confondere “(…) la realtà degli osservabili

in atto con le integrazioni cognitive che li riguardano”34. Bozzi critica su due

fronti la prospettiva reificante del naturalismo, ponendosi da un lato dalla parte

del soggetto sperimentale e dall’altro dal punto di vista dello sperimentatore, il

quale a sua volta cercherà di studiare e “individuare” gli stimoli del percettore.

Uno degli errori in cui il soggetto può incorrere nel descrivere direttamente la

percezione in prima persona, risiede nella sua concezione “ingenua” della visione,

concependo occhi e percezione alla stregua di sinonimi, quando, invece, l’occhio

si presenta come “una tappa perfettamente cieca del sistema fisico”35.

Il soggetto, interrogato in laboratorio, potrebbe non capire il suo compito e

qualora lo riuscisse a capire, avrebbe comunque svariate congetture sui fatti che

gli vengono esposti, magari (ipotesi quanto mai verosimile) cercando di “fregare

lo sperimentatore”36. Il percettologo crea una grande confusione concettuale

parlando impropriamente di stimolo “dovuta al fatto che ci importa di più, nelle

cose, la loro inquadrabilità pragmatica che il loro aspetto reale”37. Queste

riflessioni portano Bozzi a sostenere una posizione di dura critica, arrivando ad

34 Bozzi (1998a), p. 8. L’articolo è stato originariamente pubblicato da Bozzi nel Giornale italiano di psicologia, XXV (2), pp. 239 – 252. I numeri di pagine qui riportati sono invece riferiti alla versione reperibile in rete all’indirizzo http://ephp.dpac.univr.it/ephp_db/javapages/util/get.jsp?bibliography=2711 . 35 Ivi, p. 2. 36 Ibidem. 37 Ivi, p. 7.

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affermare che “gli stimoli non esistono”38. E questo per due fondamentali ragioni:

“1) perché ‘stimolo’ è uno pseudoconcetto, mal definibile, plurivoco e gergale, e

2) perché in più è una ipostatizzazione, una reificazione (…) la quale trova

finalmente un senso solo nelle operazioni che volta per volta vengono associate al

suo impiego gergale”39.

Tutto ciò è in accordo con Gibson che descrive la visione come parte di un

sistema visivo più ampio, allargato, dove la retina non è che un singolo

frammento, una parte di un tutto che coinvolge interamente la corporeità

dell’uomo. Ne consegue che il campo visivo è una modalità che “oltre a

rispecchiare il pattern anatomico delle eccitazioni retiniche, ci permette di vedere

un mondo in prospettiva, i binari di un treno convergere, ed in genere di avere

un’esperienza del tipo picture con pezzi di superficie colorata divisa da

contorni”40.

Come altri termini coniati all’interno dell’ottica ecologica, quali

affordances, layout, tessitura ecc., anche quello di campo visivo non è esente da

una nuova riformulazione. Per iniziare, Gibson distingue fra visual field e field of

view, dichirando che “Il campo di visione (field of view) (…) non va confuso con

il campo visivo (visual field). Per l’uso che io faccio del termine, con campo

visivo intendo un tipo di esperienza introspettiva che va posta a raffronto con

l’esperienza «ingenua» del mondo visivo (…) E’ il patcwork momentaneo delle

sensazioni visive. Ma il campo di visione è un fatto dell’ottica ecologica”41.

Più dettagliatamente, il campo di visione non cade in alcuna “esperienza

introspettiva” perché tiene conto di più fattori, fra tutti l’assetto ambiente (e la sua

campionatura) e le informazioni derivate dalla luce ambiente. Inoltre, esso è

38 Ivi, p. 5. 39 Ibidem. 40 Farneti, Grossi (1995), p. 34. 41 Gibson (1986), trad. it. (1999), p. 189.

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delimitato dai margini del sé, cioè dai limiti che sono propri della stessa

fisionomia del percettore. Infatti, il campo di visione è inestricabilmente legato

alla corporeità del sé. Non si può vedere l’ambiente in cui viviamo senza

percepire il proprio corpo. Questo influisce sulla percezione del mondo e sulla

percezione di sé, la quale non è mai uguale da individuo a individuo. Non è

possibile fornire dei parametri oggettivi sulla percezione facendo riferimento ai

soli studi di ottica, anche perché l’evoluzione biologica dello sviluppo delle

capacità oculo-motorie cambia da specie a specie. A questo proposito, spiega

Gibson, “L’apertura angolare del campo dipende dalla collocazione degli occhi

sul capo; vi sono animali che hanno occhi laterali e un campo di visione quasi

panoramico, mentre altri hanno occhi frontali, e un campo visivo

approssimativamente emisferico. In entrambi i sistemi oculari, i campi visivi

separati dei due occhi si sovrappongono frontalmente”42.

L’importanza dei margini del campo, messa insistentemente in evidenza da

Turner e Ruskin, risiede nel fatto che sono gli stessi bordi a coprire/scoprire

l’ambiente:

Un campo di visione è un ampio angolo solido visivo con un inviluppo. Il fatto importante di un

tale campo è costituito dai suoi limiti, certamente vaghi e indefiniti, ma pur sempre limiti. Si tratta

di qualcosa di simile a dei bordi occludenti, come quelli di una finestra. Essi nascondono

l’ambiente che sta al di là di loro stessi, come quelli di una finestra, e quando il campo si muove

c’è un’accrezione della struttura ottica al bordo anteriore, con sua cancellazione invece sul bordo

posteriore (…) Ma i bordi del campo di visione sono dissimili da quelli di una finestra, dato che in

quest’ultima è ciò che è in primo piano che nasconde lo sfondo, mentre nel campo di visione è la

testa dell’osservatore a nasconderlo. Chiediamoci cos’è che ci nasconde, quando guardiamo il

mondo attorno a noi – di certo, non il buio, non l’aria, nient’altro che il nostro io! (…) Tutte le

42 Ivi, pp. 185 -186.

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(fig.5, J. Gibson, il sé percepito nel campo di visione dell’occhio sinistro)

(fig.6, E. Mach, Io visivo)

volte che un punto di osservazione è occupato da un essere umano, circa la metà del mondo

circostante viene a rivelarsi agli occhi, mentre tutto ciò che resta è occultato dalla testa.43

I bordi occludenti così caratteristici del campo di visione (monoculare o

binoculare che sia), presentano altre peculiarità fondamentali che coinvolgono

gran parte delle estremità del corpo. Le più prossime al campo di visione sono ad

esempio rappresentate dal naso, dalle ciglia e dal bulbo oculare, ma anche gli arti,

le braccia, le mani e i piedi “occludono le superfici dell’ambiente «esterno»”44. I

bordi occludenti delle estremità del corpo hanno un’importanza tale da influire

sulla percezione dell’ambiente. Essi sono altresì considerati alla stregua di “semi-

oggetti”45 attaccati all’osservatore.

Nell’assetto ambiente esistono delle

informazioni che “specificano la prossimità

delle parti del sé con il punto di

osservazione”46, scandendo un “sé centrale”

(la testa e il campo di visione dei bulbi

oculari) da un “sé periferico” (cioè gli arti e le

estremità del corpo).

Quanto descritto finora è spiegato da

Gibson nella fig. 5, nella quale si rappresenta

la percezione di sé vista dall’occhio sinistro

nel temporaneo campo di visione del

percettore. Questo disegno non è che una nuova versione di ciò che Mach,

nell’opera Analisi delle sensazioni, chiamava Io visivo (fig. 6).

43 Ivi, pp. 186 -187. 44 Ivi, p. 188. 45 Ibidem. 46 Ibidem.

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(fig.7, J. Gibson, campi di visione ottenuti girando la testa a destra. Si noti come il naso e le gambe sono sempre all’interno del campo)

Ciò che viene aggiunto da Gibson alla raffigurazione di Mach, è che il

campo di visione non solo è legato alla percezione di se stessi, ma funge da

campione scorrevole dell’assetto ambiente dove il percettore, nella locomozione o

nel semplice movimento della testa, campiona le informazioni sull’ambiante

circostante (fig. 7).

Per questo motivo la campionatura dell’assetto ambiente, lungi dall’essere

una fase marginale e “passiva”, è invece una corrispondenza di segmenti

sovrapposti l’uno all’altro. In questo senso, il campo di visione è certamente

temporaneo e transitorio, ma sufficiente per campionare l’assetto ambiente nella

fase di locomozione:

Limitarsi a dire che il campo di visione si «muove» sul mondo mentre la testa si muove è inesatto

e insufficiente; quando la testa si muove, è il mondo che si nasconde e che si rivela, in modi che

specificano esattamente come la testa si muove. (…) la tessitura ottica che subisce una

cancellazione è successivamente oggetto d’accrezione. (…) Il campo di visione temporaneo di un

bulbo oculare è un campione dell’assetto ottico ambiente, e la testa opera continuamente tale

campionatura dell’assetto. Ogni campione è un segmento che si sovrappone al precedente e al

successivo. Ancor di più: esso è un segmento che cambia, con elementi che vengono

progressivamente inclusi ed esclusi ai margini.47

Non esiste, quindi, percezione che non sia al contempo co-percezione e

propriocezione. In altri termini, l’egorecezione accompagna indissolubilmente

47 Ivi, p. 194 – 195.

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l’esterocezione, divenendo sia un particolare aspetto del campo di visione sia un

elemento dominante nello studio della percezione in generale.

Si potrebbe obiettare che seguendo l’identità fra percezione di sé e

percezione dell’ambiente, si possa ricadere in una riduzione dell’ambiente esterno

alla sola visione. Ma è proprio sottolineando questo legame che Gibson riformula

il termine “senso” (percezione visiva inclusa), criticando l’accezione comune,

come l’insieme di quelle facoltà che possono essere nettamente scisse e distinte in

udire, sentire, vedere e così via. Questa separazione non ha ragion d’essere nella

misura in cui si intende la corporeità (e il modo di percepirla), come una fonte di

informazione che coinvolge ogni facoltà sensibile48. Con un esempio efficace,

Gibson spiega quanto appena detto:

Un individuo non solo si vede, ma ode i propri passi e la propria voce, tocca il pavimento e i suoi

oggetti, e quando tocca la propria pelle sente contemporaneamente sia la sua mano che la sua

pelle. Egli sente la testa che gira, i muscoli che si flettono, le articolazioni che si piegano. Ha i

propri dolori, la pressione dei vestiti che indossa, la vista dei propri occhiali: vive di fatto nella

propria pelle.49

Qualunque sia la percezione in questione, essa non può fungere da mero

canale di informazione, lasciando da parte ogni altro tipo di sensazione (olfattiva,

uditiva o visiva che sia) perché “le informazioni sul sé sono multiple, di più tipi”

da essere percepite “in modo concomitante”50.

Ancora una volta, le informazioni ottiche che abbiamo percependo il sé

(testa, arti, braccia ecc.) sono legate con quelle del mondo circostante. Con uno

48 Cfr. p. 189. 49 Ivi, p. 190. 50 Ibidem.

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slogan che rende bene l’idea: “Quando un uomo vede il mondo, nello stesso

momento vede il proprio naso”51.

Riassumendo quanto esposto finora, le informazioni sulla percezione del sé

sono accompagnate dalle informazioni che derivano dall’ambiente, senza che da

questo possa derivare un vuoto dualismo, perché l’egorecezione è indispensabile

all’esterocezione e viceversa. Dai margini del campo di visione si ha l’occlusione

dell’ambiente esterno e, poiché l’occlusione cambia ruotando la testa o

semplicemente muovendosi, il campo di visione funge da campione scorrevole

dell’assetto ambiente, raccogliendo informazioni che prima erano nascoste al

percettore e che vengono ora a rivelarsi. La percezione visiva è simultaneamente

accompagnata dagli altri tipi di informazioni derivate dall’ambiente. Scopo della

visione è campionare l’ambiente, essere consapevoli di ciò che abbiamo “davanti

agli occhi” e registrare quello che ci circonda. Per mezzo dei bordi occludenti,

Gibson spiega come mai il soggetto ha una visione unitaria e organica

dell’ambiente, pur muovendo gli occhi e ricevendo sempre nuove informazioni

dall’ambiente percepito. Il percettore, infatti, è parte di un mondo visivo, un

mondo, cioè, unitario e stabile, in cui ognuno agisce e interagisce con esso. Da qui

prende avvio il concetto di affordances, il quale non può essere compreso se non

sullo sfondo dell’unità fra egorecezione ed esterocezione, dove “Individuo e

ambiente, soggetto ed oggetto, stimoli e percettore si trovano in un rapporto di

reciprocità e simmetria, sono fatti l’uno per l’altro, si offrono e si scoprono a

vicenda, senza bisogno di alcuna elaborazione”52. Questo vuol dire che la

percezione è diretta, senza alcuna mediazione interna.

51 Ivi, p. 191. 52 Farneti, Grossi (1995), p. 14.

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Le affordances sono spesso tradotte come “caratteri d’invito”53 offerte

dall’ambiente, tramite le quali il percettore può potenzialmente comprendere tutto

ciò che proviene da esso (oggetti o superfici che siano), selezionando solo

determinate proprietà che sono state definite nel corso dell’evoluzione. Ogni

specie ha infatti selezionato dei comportamenti favorevoli per adeguarsi al suo

ambiente. In questo modo, le affordances, essendo solo allo stato potenziale,

vengono poste in atto all’interno del binomio danno/beneficio. Detto altrimenti, se

un qualsiasi oggetto ha delle affordances favorevoli per alcune specie, per altre

viene percepito come dannoso.

Dal nostro punto di vista, è interessante notare come per ogni affordances

esistono delle possibilità di azione, anzi, la stessa percezione è direttamente

coinvolta nell’atto, agendo senza alcuna mediazione con l’ambiente. Per spiegare

le innumerevoli azioni che possiamo compiere nell’ambiente, prendiamo come

esempio una mela.

Una mela è ovviamente un oggetto singolo, ma le possibilità di azione

offerte sono pressoché illimitate: è di una certa forma, di un certo colore, è

qualcosa che può essere spostata, toccata, afferrata, raccolta, tagliata e mangiata, o

semplicemente gettata. Una mela può essere scelta come soggetto di una natura

morta, oppure può essere usata per rompere un vetro54.

Queste sono solo alcune delle possibilità che vengono offerte da un singolo

oggetto, e abbiamo volontariamente tralasciato tutte le varie combinazioni

possibili che intercorrono con altri oggetti e altre possibilità di azione che può

53 Gibson cita Koffka nell’esporre l’origine del concetto affordance, facendolo però risalire a Kurt Lewin che coniò il termine Aufforderungscharakter. 54 Gibson (1986), trad. it. (1999), p. 214: “Gli oggetti possono essere fabbricati (manufactured) e possono essere manipolati (manipulated). Alcuni sono trasportabili per il fatto di costituire affordances di sollevamento e di trasporto, altri no. Alcuni sono afferrabili, altri no”.

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avere una mela per altre specie (le affordances sopra descritte cambiano

notevolmente se considerate dalla prospettiva di un bruco)55.

Un’affordance non vuol dire percepire qualcosa di fisico, neutralmente

esposto alla percezione del percettore. Che relazione fisica può palesarsi fra una

mela e le sue affordances? Essa ha una certa forma, delle proprietà chimiche e

organiche, può essere spostata con un certo grado di forza da un punto A a un

punto B. Fermandosi alle proprietà fisiche, non si potrebbe spiegare nessuna delle

azioni sopra descritte come esempi di affordances. In questo, il mondo fisico è

“tutt’altro che un insieme di frammenti neutri cui la mente dovrà assegnare un

significato (percetto). Il mondo è invece un insieme di strutture organizzate in

relazioni tali da essere immediatamente afferrate e comprese dal percettore”56.

Le affordances non possono essere inquadrabili in nessuna delle qualità

primarie o secondarie. Esse rinviano ad un altro tipo di proprietà, le qualità

terziarie. Per quanto concerne la loro spiegazione ci avvarremo del già citato

Bozzi, non solo per la sua innata capacità espositiva, ma anche perché è un tema

che pervade il carattere “ingenuo” della percezione 57.

Nelle prime pagine abbiamo messo in evidenza l’analogia fra spazio

geometrico e spazio naturale dell’ambiente, da cui l’equazione di uguaglianza fra

prospettiva lineare e processo naturale della visione. La conseguente

identificazione è stata favorita dalla rivoluzione copernicana, in particolare dalla

distinzione galileiana fra qualità primarie e secondarie.

Prima di tutto, secondo Bozzi, le qualità primarie non possono essere

separate da quelle secondarie58, in secondo luogo esse “(…) sono pure

55 Per queste considerazioni si rimanda a Farneti, Grossi (1995), pp. 74 – 81. 56 Ivi, p. 14. 57 Cfr. Bozzi (1998b), cap. 3. 58 Bozzi (1998b) a p. 93 nota che gli attributi delle qualità primarie “(…) non sono meno empiricamente dati di quanto lo siano il colore, il sapore e l’odore”. In questo modo sappiamo che

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astrazioni”59. Ma questa critica non è fine a se stessa, anche perché riconducibile

all’interno del filone empirista (non a caso Bozzi cita Berkeley). L’elemento

innovativo risiede nel fatto che anche le proprietà terziarie sono costitutive

dell’oggetto:

Se le qualità secondarie appaiono come tali per essere meno ancorate all’oggetto esterno di quanto

lo siano le primarie, e in qualche modo percettibilmente legate all’osservatore e ai suoi modi di

osservare, le qualità terziarie sembrano affondare le loro radici nelle più interne casse di risonanza

del soggetto senziente, sebbene appaiano topograficamente collocate anch’esse nelle cose esterne.

Una volta lo psicologo praghese Max Wertheimer (ma non so né dove né quando) ha detto (o

scritto): ‘Il nero è lugubre prima ancora di essere nero’. Le qualità terziarie sono prepotentemente

presenti nei pezzi di mondo con cui abbiamo a che fare (…) Se il nero è lugubre, il rosso è vivace.

L’ombra di un grande albero verde è riposante e distensiva. Un accordo di settima diminuita è

agghiacciante e teso. (…) tali ingredienti emergono dai fatti con evidenza immediata non appena i

fatti siano tolti dal limbo delle invocazioni realizzate a parole per prender corpo in carne ed ossa

nell’ambito della nostra osservazione.60

Nel brano appena riportato, Bozzi afferma il carattere delle proprietà

terziarie come “prepotentemente presenti” e inscindibili dal soggetto. Non esiste

una barriera fra oggettivo e soggettivo, perché esse si offrono spontaneamente al

soggetto, risuonando di continuo nelle sue “casse di risonanza”.

In definitiva, le cose non solo hanno dei nomi, ma richiedono degli

aggettivi e sono esse stesse a indicarci quali. In questo contesto, il campo di

visione è un continuo, diretto ricondursi alle cose, è avere, inoltre, tangibile

presenza del mondo visivo di cui siamo parte.

“(…) quella prima classe di proprietà degli oggetti è indistricabile dalla seconda: è inimmaginabile la triangolarità di un oggetto completamente spogliata dagli altri attributi o tattili o visivi, né è immaginabile la sua posizione nello spazio senza che ci siano grappoli di qualità secondarie capaci di farcelo distinguere in qualche modo dall’ambiente circostante”. 59 Ibidem. 60 Ivi, p. 100.

Francesco Ciriolo (2008), In prossimità del sé. Campo di visione ed ottica ecologica, http://www.cinefilab.it/download/elenco_pdf.htm

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