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FRANCESCA POGGI Tra il certo e l’impossibile. La probabilità nel processo ABSTRACT: Questo saggio si propone di esaminare alcuni degli errori più frequenti relativi alla comprensione dei dati probabilistici e, sulla base di tale analisi, di muovere alcune critiche nei confronti di recenti indirizzi giurisprudenziali che sembrano fondati anch’essi su erronee interpretazioni di dati o leggi espressi in termini probabilistici. In particolare, è esaminata la rilevanza dei dati probabilistici nell’ambito del c.d. test del DNA e della prova del nesso causale nei reati omissivi impropri. This essay aims to examine some of the most common mistakes related to the comprehension of probabilistic data and to move some criticisms against recent case law which seems based on similar misunderstanding. In particular, I analyse the relevance of probabilistic data with regard to the Dna Fingerprinting results and proof of causation in nonfeasance cases. KEYWORDS: probabilità, test DNA, causalità, reati omissivi impropri probability, DNA fingerprinting, causation, nonfeasance © 2010, Diritto e questioni pubbliche, Palermo. Tutti i diritti sono riservati.

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FRANCESCA POGGI Tra il certo e l’impossibile. La probabilità nel processo •

ABSTRACT: Questo saggio si propone di esaminare alcuni degli errori più frequenti relativi alla

comprensione dei dati probabilistici e, sulla base di tale analisi, di muovere alcune critiche nei confronti di recenti indirizzi giurisprudenziali che sembrano fondati anch’essi su erronee interpretazioni di dati o leggi espressi in termini probabilistici. In particolare, è esaminata la rilevanza dei dati probabilistici nell’ambito del c.d. test del DNA e della prova del nesso causale nei reati omissivi impropri.

This essay aims to examine some of the most common mistakes related to the

comprehension of probabilistic data and to move some criticisms against recent case law which seems based on similar misunderstanding. In particular, I analyse the relevance of probabilistic data with regard to the Dna Fingerprinting results and proof of causation in nonfeasance cases.

KEYWORDS: probabilità, test DNA, causalità, reati omissivi impropri

probability, DNA fingerprinting, causation, nonfeasance

© 2010, Diritto e questioni pubbliche, Palermo. Tutti i diritti sono riservati.

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FRANCESCA POGGI*

Tra il certo e l’impossibile. La probabilità nel processo

Cose che non si possono abolire col pensiero.

Il tempo li ha segnati col suo marchio, e in ceppi dimorano nel luogo delle infinite possibilità che esse hanno estromesso.

Ma possono essere state possibili dato che non furono mai? O fu possibile solo ciò che avvenne?

J. JOYCE, Ulisse

1. L’interpretazione dei dati – 1.1. La probabilità nel processo (1): il test del DNA – 1.2. La probabilità nel processo (1I): il nesso causale – 2. Al di là di ogni proba-bile dubbio.

I dati statistici e i calcoli probabilistici rivestono spesso una grande im-portanza nella fase probatoria dei processi: tuttavia, si tratta di dati che, da un lato, sono difficili da elaborare e da acquisire, e, dall’altro, sono spesso interpretati erroneamente. Questo saggio si propone di esaminare alcuni degli errori più frequenti relativi alla comprensione dei dati probabilistici e, sulla base di tale analisi, di muovere alcuni rilievi critici nei confronti di recenti indirizzi giurisprudenziali che sembrano fondati anch’essi su erro-nee interpretazioni della probabilità.

1. L’interpretazione dei dati La statistica e, in generale, lo studio delle probabilità sono discipline che hanno ad oggetto situazioni di incertezza, causate dalla mancanza di una

* Ringrazio Corrado Del Bò, Riccardo Guastini, Mario Jori, Giorgio Maniaci, Sergio Novani e Vito Velluzzi per aver letto e commentato precedenti versioni di questo lavoro. Un ringraziamento anche a Edoardo Mori e John Allen Paulos per le indicazioni bibliografiche che mi hanno gentilmente fornito.

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completa informazione: si tratta, infatti, di scienze induttive che, dallo studio della frequenza con cui un dato fenomeno si è verificato in passato o si verifica, in un dato momento, all’interno di un campione ristretto, tentano di trarre previsioni sulla sua frequenza futura e/o generalizzazioni sulla sua incidenza nell’ambito di una popolazione più ampia del cam-pione considerato. Simili previsioni possono, però, rivelarsi errate, non solo a causa di problemi relativi al modello di calcolo utilizzato, alla sele-zione del campione esaminato o all’incompletezza dei dati considerati, ma anche per il sopravvenire di eventi nuovi e imprevedibili che potrebbero alterare la frequenza del fenomeno in esame.

I dati statistici e probabilistici, inoltre, non sono affatto facili da deci-frare: spesso l’interpretazione intuitiva di tali dati, anche di quelli appa-rentemente più semplici, si rivela errata. Facciamo qualche esempio.

Tutti sappiamo che, quando si lancia in aria una moneta, vi sono il 50% delle probabilità che esca testa e il 50% delle probabilità che esca croce. Molte persone, però, sono convinte che, se per cinque volte di fila è uscita testa, al sesto lancio vi siano più del 50% di probabilità che esca croce. Questa interpretazione è errata: ad ogni lancio vi sono sempre le stesse probabilità che esca croce e le stesse probabilità che esca testa. I numeri non hanno memoria. Lo stesso vale per le estrazioni del lotto: molti giocatori sono convinti di avere più probabilità di vincere puntando sui c.d. numeri ritardatari, su numeri che da molto tempo non sono stati estratti. In realtà, ciascuno dei 90 numeri del lotto ha sempre la stessa probabilità di uscire ad ogni estrazione (e cioè 1 su 90). L’errore relativo al lancio della moneta o all’estrazione dei numeri al lotto deriva, spesso, da un’erronea interpretazione della classe di riferimento. Alcune persone sono convinte che, se per cinque volte di fila è uscita testa, al sesto lancio vi siano più del 50% di probabilità che esca croce perché interpretano il dato statistico nel senso che, ogni 100 lanci, uscirà 50 volte testa e 50 volte croce: invece, l’evento cui si riferisce la percentuale del 50% ri-guarda ogni singolo lancio, e non un insieme di 100 lanci. La specifica-zione della classe di riferimento, cioè dell’evento cui si riferisce la per-centuale è, infatti, essenziale ai fini di una corretta comprensione.

Un altro esempio, meno banale. In (quasi) tutti gli esami clinici per l’accertamento di una data patologia esiste la possibilità che risultino sia dei falsi positivi (pazienti positivi all’esame, ma che non hanno realmente la malattia) sia dei falsi negativi (pazienti negativi all’esame, ma che, invece, hanno la malattia). Nella statistica medica la percentuale di sog-getti sottoposti ad un esame correttamente classificati come positivi è detta sensibilità, mentre la percentuale di quelli correttamente valutati come negativi è detta specificità. Così, ad esempio, se la sensibilità di un esame è del 90%, ciò significa che, su 100 soggetti che hanno la malattia, in media 90 saranno correttamente classificati come positivi, mentre i

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rimanenti 10 saranno erroneamente classificati come negativi (si avrà, cioè, un 10% di falsi negativi); se, invece, è la specificità di un esame ad essere del 90%, ciò significa che, ogni 100 soggetti che non hanno la malattia, in media 90 avranno un esito negativo, mentre in 10 avranno un esito erroneamente positivo (si avrà cioè il 10% di falsi positivi). Suppo-niamo di fare il test per l’HIV, e che questo risulti positivo. Premesso che la sensibilità di questo test è 99,9% e la sua specificità è del 99,99%, il senso comune sembrerebbe suggerire che, quasi sicuramente, siamo sie-ropositivi. Supponiamo, però, che il tasso di base dell’HIV (cioè la pro-porzione delle persone affette da HIV in un dato momento) sia di 1 su 10.000 (ossia che sia affetta da tale patologia 1 persona su 10.000)1 e, per semplificare l’esposizione, immaginiamo che l’esame sia ancora più accu-rato di quello che realmente è e che la sensibilità sia del 100%, ossia che non ci siano falsi negativi. In tal caso, ogni 10.000 individui ci sarà un soggetto affetto dall’HIV il cui test risulterà positivo (avendo noi immagi-nato che l’esame abbia una sensibilità del 100%). Tra gli altri 9.999 indi-vidui non sieropositivi ce ne sarà, però, un altro che risulterà positivo all’esame, a causa della specificità del 99,99%, ossia della presenza di un falso positivo ogni 9.999 esami. Ciò significa che, ogni 10.000 esami, ci saranno, in media, due esiti positivi: quello dell’individuo effettivamente malato (dato dal tasso di base di 1 su 10.000) e un falso positivo (dato dalla specificità del 99,99%,). Ne segue che, se il nostro test è positivo, ciò non significa che abbiamo il 99,99% di probabilità di essere malati, ma molte, molte, meno, ossia il 50%, 1 su 22.

In quest’ultimo esempio l’erronea convinzione che, se il test è positivo, ci siano il 99,99% di probabilità di essere malati deriva, quindi, dalla mancata considerazione del tasso di base3 della malattia, cioè della probabilità non

1 Questo è effettivamente il tasso base dell’HIV tra i soggetti a basso rischio. L’esempio e i dati sono tratti da G. GIGERENZER, Calculated Risk, 2002, trad. it., Quando i numeri ingannano, Cortina, Milano, 2003; cfr. anche G. GIGERENZER, U. HOFFRAGE, A. EBERT, AIDS counselling for low-risk clients, in “AIDS Care” 10, 1998, pp. 197-211; F. LELLI, Rischi e probabilità: sulla asimmetria fra medico e paziente nella consulenza genetica, in “Sintesi dialettica”, http://www.sintesidialettica.it, accesso il 02.03.2010. 2 Si noti che questo risultato non è significativamente influenzato dal fatto che, nel nostro esempio, abbiamo ipotizzato che la sensibilità sia del 100% (anziché del 99,9%): anzi, secondo calcoli più precisi, che tengono conto anche delle inevitabili approssima-zioni relative alle percentuali che esprimono la sensibilità e la specificità effettive del test, le probabilità sarebbero ancora minori. Cfr. G. GIGERENZER, U. HOFFRAGE, A. EBERT, AIDS counselling for low-risk clients, cit. 3 Il tasso di base (detto anche ‘diffusione’) di un attributo in una popolazione è la proporzione delle persone che (in un momento dato) presentano quell’attributo.

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condizionale della stessa. I dati relativi alla specificità e alla sensibilità dei test ci indicano infatti la probabilità condizionale della malattia, cioè la probabilità che si verifichi un evento A, dato un evento B [in simboli: p(A/B)]. Così, ad esempio, la specificità del 99,99% del test dell’HIV significa che, se non si ha la malattia, allora vi sono il 99,99% di probabilità che il test risulti negativo [in simboli: 99,99% (Tn/non-M), dove Tn, sta per ‘risultato negativo del test’ e ‘non-M’ per ‘non malattia’]. Ciò, però, non implica che se il test è negativo allora ci sono il 99,99% di non avere la malattia [in simboli: 99,99% (non-M/Tn)]4, né, come visto, significa che se il test è positivo allora vi sono solo lo 0,01% di probabilità di non avere la malattia. I dati relativi alle probabilità condizionali non considerano il tasso di base (il procedimento è noto come ‘normalizzazione’) e, quindi, rendono molto più difficile comprendere i risultati dei test medici.

L’analfabetismo statistico, ossia l’incapacità di interpretare i dati stati-stici e, soprattutto, quelli espressi mediante percentuali, è un fenomeno molto diffuso, dovuto, probabilmente, al fatto che lo studio della probabi-lità e le scienze statistiche sono discipline piuttosto recenti e, ancora più recente, è la loro diffusione nell’ambito della comunicazione pubblica5. È, ovvio, però, che quando questi errori interpretativi sono commessi nell’ambito di un processo ciò può condurre ad una pronuncia viziata sotto il profilo probatorio. Riprendiamo l’esempio precedente, relativo al test dell’HIV: negli Stati Uniti6, come in molti altri paesi, si sono verifi-cati casi di persone che, a seguito di un esito positivo del test, non erano 4 Come reso evidente dalla traduzione in simboli l’errore che consiste nel confondere la probabilità che, se non si ha la malattia, allora il test risulti negativo [p(Tn/non-M)], con la probabilità che, se il test è negativo, allora non si abbia la malattia [p(non-M/Tn)] costituisce una variante della fallacia logica del modus ponens. 5 Se che i primi studi connessi a concetti legati alla probabilità possono essere rinvenuti già a metà del XVI secolo in Liber de ludo aleæ di Girolamo Cardano (scritto nel 1526, ma pubblicato solo nel 1663) e in Sulla scoperta dei dadi di Galileo Galilei (pubblicato nel 1656), la nascita del concetto moderno di probabilità viene generalmente attribuita a Blaise Pascal (1623-1662) e Pierre de Fermat (1601-1665). La diffusione del linguaggio probabilistico e dei dati percentuali presso il grande pubblico è poi un fenomeno estremamente recente: a quanto scrive Gigerenzer, «prima del 1965 il servizio meteorologico nazionale americano dava previsioni del tipo “tutto o niente”, come “Domani non pioverà”, al massimo premettendo un “È improbabile che..”. In Germania si è cominciato a parlare di probabilità nelle previsioni del tempo solo intorno al 1990, e in Francia si fanno ancora, in larga misura, previsioni non probabilistiche» (G. GIGERENZER, Calculated Risk, 2002, trad. it. Quando i numeri ingannano, Cortina, Milano, 2003). Anche in Italia è, tutt’oggi, raro che le previsioni del tempo siano espresse in termini probabilistici. 6 Per un elenco di alcuni casi giudiziari statunitensi cfr. G.J. STINE, AIDS Update 1999: An Annual Overview of Adquired Immune Deficiency Syndrome, Prentice-Hall, Englewood Cliffs (NJ), 1999.

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state informate dai propri medici circa la possibilità che il risultato fosse errato (ed, anzi, talvolta, l’esito del test era stato presentato come assolu-tamente certo), sicché avevano vissuto per anni nella convinzione di es-sere sieropositivi, talvolta perdendo il lavoro, la famiglia ed esponendosi a comportamenti altamente rischiosi (come avere rapporti sessuali non protetti con persone davvero sieropositive), salvo poi scoprire che si trat-tava di un falso positivo e che non erano realmente malate. Al riguardo, è ovvio che, se considerassimo solo le percentuali relative alla specificità (99,99%) e alla sensibilità (99,9%) del test dell’HIV, sarebbe difficile sostenere in giudizio la responsabilità colposa dei medici per l’omessa informazione sulla possibilità di falsi positivi: le cose cambiano, però, qualora, si consideri anche il tasso di base della malattia e si comprenda che, ogni 10.000 esami, c’è, in media, un falso positivo.

Nei prossimi paragrafi analizzeremo, a titolo di esempio, altri due am-biti in cui i dati statistici rivestono una notevole importanza processuale: la prova del DNA e la prova del nesso causale.

1.1. La probabilità nel processo (1): il test del DNA Il test del DNA è impiegato in ambito giuridico soprattutto ai fini dell’ac-certamento di paternità, dell’identificazione personale (eventualmente anche di cadavere) e nell’ambito di indagini dirette ad individuare i colpevoli di reati. In questo testo, ci limiteremo a considerare quest’ultimo ambito.

Per accertare se un individuo possa essere l’autore di un dato reato, si procede a confrontare il suo DNA con quello rinvenuto sulla scena del crimine o sul corpo della vittima, impiegando un procedimento che, per analogia con quello relativo alle impronte digitali, viene chiamato fingerprinting genetico (o DNA fingerprinting)7 e che consiste nel comparare alcune sezioni di DNA, dette loci8, quelle che, non codificando proteine, variano maggiormente da individuo ad individuo. Infatti, due soggetti, non legati da rapporti di parentela, hanno in comune circa il 99,9% di sequenza di DNA: la comparazione riguarda, pertanto, solo alcune porzioni, in particolare quelle denominate VNTR (variable number tandem repeats) che consistono in sequenze di nucleotidi ripetute in tandem. At-tualmente, in ambito forense, si analizza soprattutto la classe di VNTR nota come STRs (short tandem repeats) o microsatelliti, sequenze di DNA lunghe 2-

7 Si noti che l’analogia tra l’esame del DNA e quello delle impronte digitali è, però, imperfetta: due gemelli omozigoti hanno lo stesso DNA, ma impronte digitali diverse. 8 Più esattamente il termine ‘locus’ indica la posizione su un dato cromosoma di un particolare gene.

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6 bp e ripetute numerose volte9: il numero delle ripetizioni è ciò che varia da individuo ad individuo e che, quindi, consente di distinguere due soggetti diversi. Il fingerprinting genetico si effettua, quindi, prendendo in considerazione più STRs, da un minimo di 5 ad massimo di 15.

Con estrema semplificazione, premesso che le tecniche impiegate possono essere molto diverse e sono tutte estremamente complesse, si procede nel seguente modo: una volta estratto e purificato il DNA, si amplifica, ove necessario, il materiale genetico da esaminare attraverso un processo noto come reazione polimerasica a catena (PCR), che consente di moltiplicare le regioni di DNA target, in modo da disporre di una quantità di materiale genetico sufficiente a consentire l’esame. A questo punto i diversi frammenti di DNA ottenuti sono separati mediante elettroforesi capillare, una tecnica che sfrutta la presenza di cariche negative sui frammenti di DNA, facendoli migrare su un gel, in presenza di un campo elettrico, dal polo negativo (anodo) verso il polo positivo (catodo). In particolare, posto che la velocità è proporzionale alla massa molecolare, i frammenti di DNA di diversa lunghezza sono separati in base alla loro diversa velocità di migrazione. Mediante l’impiego di fluorocromi (molecole in grado di dare fluorescenza), la migrazione delle molecole è registrata da un rilevatore, analizzata e visualizzata in un unico grafico caratterizzato da una successione di picchi di colori diversi, corrispondenti alle emissioni fluorescenti dei vari fluorocromi. L’esito di questo procedimento è un diagramma colorato (un elettrofero-gramma)10, che rappresenta la base per determinare il profilo genetico dell’individuo. Al riguardo, occorre, infatti, precisare che, prima di procedere al confronto vero e proprio, è necessario elaborare i risultati delle elettroforesi capillari, eliminando eventuali sovrapposizioni tra gli spettri di emissione, e, soprattutto, convertendo l’informazione contenuta nei vari picchi (taglia e quantità dei frammenti di DNA) in un linguaggio comune che permetta di confrontare i dati di laboratori diversi: occorre, cioè, procedere alla de-terminazione del genotipo, dove i picchi colorati sono convertiti in un formato numerico, che indica il numero di ripetizioni in tandem presenti in ogni allele11. La conversione dell’elettroferogramma in profilo genetico è oggi effettuata tramite software, rinvenibili in commercio12, ma questi dati dovranno, poi, essere interpretati da operatori esperti in modo da individuare 9 In particolare, i marcatori genetici più utilizzati in ambito forense sono gli STRs costituiti da ripetizioni tetranucleotidiche, che creano minori problemi rispetto all’amplificazione mediante PCR (cfr. infra). 10 Nell’elettroforesi classica il risultato dell’analisi consisteva, invece, in una serie di bande colorate, simili a quelle di un codice a barre. 11 Con il termine ‘allele’ si indica una delle forme alternative di un gene. 12 I più utilizzati in ambito forense sono quelli prodotti dalla Applied Biosystems: il Data Collection, il GeneScan, il Genotyper e il GeneMapperID v.3.1.

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possibili errori causati, ad esempio, da fattori inerenti alla scarsa quantità del DNA esaminato, dal suo degrado o dalla presenza di profili misti (cioè dal fatto che è stata tipizzata una traccia in cui era presente materiale biologico appartenente a due o più soggetti)13. Una volta effettuato tale controllo, se due genotipi collimano, allora si ritiene che i DNA corrispondano14.

La Corte di Cassazione penale, a partire dal 2004, ha deciso che «Gli esiti dell’indagine genetica condotta sul DNA, atteso l’elevatissimo nu-mero delle ricorrenze statistiche confermative, tale da rendere infinitesi-male la possibilità di un errore, presentano natura di prova, e non di mero elemento indiziario ai sensi dell’art. 192 c.p.p., comma secondo». In par-ticolare, la Corte ha sottolineato che la propria decisione relativa al «va-lore probatorio dell’accertamento genetico non può considerarsi una mera affermazione in punto di fatto che in quanto tale non vincolerebbe il giu-dice di rinvio, come sostenuto dalla difesa, ma come il riconoscimento

13 Come già accennato, l’esposizione del DNA fingerprinting presentata nel testo è estremamente sommaria e superficiale: per un’analisi più dettagliata (e più complicata) rinvio a A. TAGLIABRACCI (ed.), Introduzione alla genetica forense, Springer Italia, Milano, 2010; M.M. READ (ed.), Focus on DNA fingerprinting Research, Nova, Haup-pauge (NY), 2006; S.H. JAMES, J.J. NORDBY (eds.), Forensic science: an introduction to scientific and investigative techniques, CRC Press, Boca Raton (Florida), 2003, II ed., 2005. 14 È anche possibile procedere al sequenziamento del DNA, ossia alla determinazione dell’ordine dei diversi nucleotidi: questa operazione che si effettua, prevalentemente, col metodo Sanger (dal nome del suo inventore, Frederick Sanger), detto anche metodo della terminazione della catena con dideossi. Si tratta di un metodo enzimatico che richiede l’impiego di una DNA polimerasi (un enzima in grado di sintetizzare un fila-mento di DNA, impiegando come stampo un altro filamento di DNA e generando, quindi, un filamento complementare al primo), di nucleotidi modificati, i dideossinucle-otidi (ddNTPs), e di prime (filamenti di acido nucleico che servono come punto di innesco per la replicazione del DNA e che sono necessari in quanto, a differenza del RNA, molte DNA polimerasi non sono in grado di iniziare la sintesi di un nuovo fila-mento “ex novo”, ma possono solo aggiungere nucleotidi ad un filamento pre-esistente). Con estrema approssimazione, la sintesi del DNA, ad opera della DNA polimerasi, viene avviata in una regione specifica utilizzando un oligonucleotide primer ad essa complementare, e, successivamente, si blocca per effetto dell’introduzione dei dideossi-nucleotidi, i quali, essendo privi del gruppo ossidrilico 3’, terminano la catena del DNA prima del raggiungimento della fine della sequenza di DNA stampo: si ottengono, così, una serie di frammenti di DNA di lunghezza diversa interrotti in corrispondenza dell’incorporazione del nucleotide dideossi. Tali frammenti sono poi separati tramite elettroforesi (su gel di poliacrilamide) e la sequenza può essere letta o mediante un’autoradiografica o, più spesso, rilevando (attraverso un procedimento totalmente automatizzato) l’emissione di fluorescenza dei diversi fluorocromi con cui sono stati precedentemente marcati i differenti ddNTPs.

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della natura di prova delle risultanze delle indagini genetiche sul DNA, allo stesso modo in cui in tempi ormai non più recenti, venne riconosciuto il valore probatorio delle “impronte digitali”, valore che in entrambi i casi si fonda su ricorrenze statistiche così alte, da rendere infinitesimale la possibilità di un errore»15. Ma quanto è certa la prova del DNA? E a cosa esattamente si riferisce questa supposta certezza?

Gli esiti della prova del DNA sono generalmente espressi (o, meglio, dovrebbero essere espressi) in termini di percentuali o probabilità: ad esempio, sostenendo che la probabilità di una corrispondenza tra i due DNA comparati è di 1 su 10.000 o, il che è lo stesso, dello 0,01%. Ma cosa significa questo dato? Ossia, qual è la classe di riferimento di questo dato, a cosa si riferiscono le percentuali e le probabilità di cui sopra?

Spesso il dato in esame è intuitivamente interpretato nel senso che vi è solo lo 0,01% di probabilità, ossia 1 possibilità su 10.000, che un dato soggetto (per ipotesi, l’imputato) sia innocente o, il che è lo stesso, che è vi il 99,99% delle probabilità, 9.999 possibilità su 10.000, che l’imputato sia colpevole. Questa interpretazione è, però, errata. La classe di riferimento di questo dato non è la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato, e nemmeno la probabilità che egli sia la fonte del materiale genetico rinvenuto (che il DNA ritrovato, poniamo, sulla scena del delitto, appartenga all’imputato), bensì la possibilità di una corrispondenza casuale: tale dato si riferisce, infatti, alla probabilità che un individuo preso a caso presenti la stessa corrispondenza di DNA riscontrata tra il DNA dell’imputato e quello rinvenuto sulla scena del delitto. Il fatto che vi sia una possibilità di corrispondenza su 10.000 significa che, ogni 10.000 persone, ci si può attendere che ce ne sia una che presenta quella corrispondenza e che, quindi, ogni 20.000, ce ne siano due, ogni 40.000, ce ne siano 4 e così via. Supponiamo, ora, che il reato sia stato commesso in una città di 1 milione di abitanti: in tal caso ci potrebbero essere ben 100 persone che presentano la stessa corrispondenza, ossia, oltre all’imputato, ci possono essere altri 99 individui il cui DNA corrisponde, nella misura accertata dal fingerprinting genetico, con quello rinvenuto sulla scena del crimine. Quindi, in astratto, in una città di 1 milione di abitanti, non ci saranno 9.999 probabilità su 10.000 che il campione rinvenuto sia dell’imputato (che l’imputato sia la fonte di tale campione), bensì solo 1 su 100. Ciò, però, vale solo in astratto: ovviamente non tutti i 100 soggetti in questione potrebbero (materialmente) essere la fonte della traccia16. È compito degli investigatori circoscrivere il

15 Cass. Pen., sez. I, 30 giugno 2004, sentenza n. 48349. 16 Inoltre, come mi ha fatto correttamente notare Giorgio Maniaci, non bisogna mai dimenticare che la probabilità è solo probabile: il fatto che ci sia una corrispondenza su 10.000 non assicura che, davvero, su 10.000 persone prese a caso ce ne sia sempre una

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novero dei soggetti sospettati (non solo del reato, ma anche) di essere la fonte del DNA rinvenuto sulla scena del crimine.

Si noti che il problema che consiste nel confondere la probabilità di una corrispondenza casuale con la probabilità che un dato soggetto sia la fonte del materiale genetico rinvenuto è molto simile a quello esaminato a proposito degli esami medici: anche qui la fonte dell’errore consiste nella mancata considerazione del tasso di base che, in questo caso, coincide con il numero di persone che potrebbero essere la fonte del materiale genetico. Se, per ipotesi, fossimo certi che il reato è stato commesso da uno degli abitanti di una cittadina di 10.000 persone e la corrispondenza tra il DNA ritrovato sulla scena del delitto e quella dell’imputato fosse di 1 su 10.000, allora potremmo essere abbastanza sicuri che il materiale genetico appartenga all’imputato. Se, però, il tasso di base è più elevato, se l’insieme delle persone sospette è, non di 10.000, bensì di 1 milione, la nostra certezza sfuma17.

Un errore ancor più pericoloso consiste nel confondere la probabilità di una corrispondenza casuale con la probabilità della colpevolezza o innocenza (confusione nota come ‘fallacia dell’accusatore’): questi due dati vanno tenuti ben distinti, non solo perché, nonostante un’elevata probabilità di corrispondenza casuale, l’imputato potrebbe non essere la fonte del materiale genetico, ma anche, e soprattutto, perché l’imputato potrebbe essere innocente, pur essendo la fonte del materiale genetico. Insomma, anche se il DNA rinvenuto sulla scena del reato (o sul corpo della vittima) appartenesse all’imputato, ciò non implicherebbe che egli sia colpevole, potendo ben esserci altre spiegazioni di tale rinvenimento18.

Alla luce di queste considerazioni è possibile muovere alcune critiche all’attuale indirizzo della Cassazione. La Corte, come abbiamo visto, ha ritenuto che gli esiti della perizia genetica, abbiano natura di prova e non di mero indizio: ciò significa, in sostanza, che non è necessario che tali esiti siano suffragati da altri elementi. Ai sensi dell’art. 192 c.p.p., II comma, infatti «L’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi non siano gravi, precisi e concordanti». Ciò non vale, invece, per le prove: queste non devono essere suffragate da altri elementi, gravi precisi e che corrisponde (per ipotesi: potrebbe anche non essercene nessuna). Molto dipende anche dalla distribuzione delle VNTRs tra la popolazione in esame (cfr. infra nel testo). 17 Ovviamente ha senso parlare di una corrispondenza casuale solo tra persone non imparentate. Così, G. Gigerenzer (Quando i numeri ingannano, cit., p. 209) riferisce che in «Scozia c’è stato un caso in cui un perito ha dichiarato che fra non consanguinei c’era una probabilità su 49.000 che i profili collimassero, ma questa probabilità saliva a una su 16 tra fratelli – e l’imputato di fratelli ne aveva cinque». 18 Al riguardo un fattore rilevante consiste nell’impossibilità, allo stato attuale della scienza, di datare, con un accettabile margine di approssimazione, l’età di una traccia biologica, quale, ad esempio, una macchia ematica.

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concordanti, ma, da sole, sono idonee a dimostrare la sussistenza di determinati fatti (presenti o passati). Per la Corte di Cassazione, quindi, l’esito del fingerprinting genetico costituisce da solo la prova di un determinato fatto: ma di quale fatto? Benché la massima non sia del tutto perspicua in relazione a tale questione, dal testo della sentenza si ricava che gli esiti della perizia genetica sono considerati prove dell’appartenenza del DNA. Nel caso di specie, infatti, l’imputato era stato condannato per omicidio doloso principalmente (ma non esclusivamente)19 in base al ritrovamento sulla porta di ingresso dell’abitazione della vittima di uno strofinaccio recante tracce di un mix di sangue che, secondo la perizia, apparteneva alla vittima e all’imputato. Nel testo della sentenza citata si afferma che «il mix di sangue, peritalmente accertato, ha “valore probatorio” e non di mero indizio, come sostenuto dal ricorrente, per cui non è censurabile la sentenza impugnata che ha ritenuto provato che vi è stato un “contatto tra la vittima e l’imputato”». Insomma, secondo la Corte, la perizia genetica prova che c’è stato un contatto tra vittima e imputato, ossia prova che il materiale genetico rinvenuto (il sangue, in questo caso) appartiene all’imputato, che l’imputato è la fonte di tale materiale genetico. Come abbiamo visto, però, ciò significa confondere la probabilità della corrispondenza casuale con la probabilità della fonte: la seconda non può essere identificata con, né essere desunta automaticamente dalla, prima. Per passare dalla probabilità della corrispondenza casuale alla probabilità della fonte sono necessari altri elementi che consentano di determinare, con sufficiente approssimazione, il tasso di base, cioè il numero dei soggetti che potrebbero essere la fonte di quel materiale biologico. Se, però, sono necessari altri elementi, allora si può dubitare che gli esiti del fingerprinting genetico costituiscano una prova dell’appartenenza del materiale genetico ritrovato, e non, invece, un semplice indizio.

Non solo: il fingerprinting genetico presenta almeno tre ulteriori ele-menti di incertezza.

Il primo elemento riguarda il reperimento e la raccolta del materiale genetico sulla scena del crimine (o sul corpo della vittima): si tratta di una fase particolarmente delicata, che, se non compiuta accuratamente, può

19 Ulteriori indizi (e non prove) a carico dell’imputato consistevano nella presenza di un movente (costituito dalla relazione sentimentale tra la moglie dell’imputato e la vittima), nell’assenza di un alibi per l’ora presunta del delitto, nel fatto che l’imputato non aveva fornito una valida giustificazione delle ragioni per le quali aveva fatto ritorno alla propria abitazione non indossando i pantaloni e le scarpe con le quali era uscito (indumenti, peraltro, che non erano stati più trovati), né del perché, al suo ritorno, avesse pulito delle macchie di sangue nel bagno e sulle scale e avesse lavato l’autovettura con cui, nella stessa occasione, si era allontanato da casa.

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rendere impraticabile ogni analisi o inficiarne i risultati20. Per rendersi conto di simili rischi basta considerare l’eclatante caso del c.d. Phantom vom Heilbronn. Fin dal 1993 sulle scene di quaranta diversi crimini (tra cui sei omicidi, incluso quello di una poliziotta a Heilbronn in Germania) erano state rinvenute tracce dello stesso DNA, appartenente ad una per-sona di sesso femminile. Guidati da questo dato, gli investigatori si orientarono verso la ricerca un serial killer, operante a livello internazio-nale, tralasciando ogni diversa ipotesi investigativa, finché, nel marzo 2009, si scoprì, casualmente, che i bastoncini di ovatta usati per il prelievo del DNA, forniti da un’unica ditta, erano stati tutti contaminati col mate-riale genetico della stessa operaia21.

Il secondo elemento di incertezza riguarda la possibilità di “falsi positivi”, ossia la possibilità che il giudizio di corrispondenza sia errato. Al riguardo, benché spesso i periti tendano a negarlo, il giudizio di corrispondenza può essere inficiato da problemi tecnici (quali un mal funzionamento degli enzimi o delle apparecchiature impiegate22) o da errori umani (possibili contaminazioni, ma anche erronee interpretazioni del genotipo23). Così, ad esempio, una ricerca condotta negli Stati Uniti nel 1995 ha stimato che nei profili del DNA il tasso di false positività si aggiri intorno all’1 su 10024 e, nel processo O.J. Simpson, uno dei laboratori che riscontrò una corrispondenza tra il DNA dell’imputato e quello ritrovato sulla scena del delitto dichiarò alla difesa che il suo tasso di false positività era di circa 1 su 20025. Si noti che, proprio come accade nelle analisi 20 A differenza che in altri paesi, in Italia non esiste alcuna regolamentazione o standar-dizzazione dell’attività di sopraluogo: ciascun reparto scientifico opera con proprie metodologie. Per un’analisi delle problematiche legate all’attività di reperimento, raccolta e conservazione delle tracce biologiche cfr. V. ONORI, Dalla teoria alla pratica: i reperti biologici, in A. TAGLIABRACCI, Introduzione alla genetica forense, cit., pp. 41-56. 21 Per alcuni episodi analoghi cfr. E. MORI, Validità della prova del DNA, in http://www.earmi.it/varie/dna.htm, accesso il 02.03.2010. 22 Il test del fingerprinting genetico, a cominciare dall’estrazione del DNA dai reperti biologici, è oggi in buona parte automatizzato: fatto che, se riduce il rischio di contami-nazione, non elimina quello di un mal funzionamento dei macchinari impiegati. 23 Sui problemi relativi all’interpretazione degli elettroferogrammi cfr., ad esempio, F. ALESSANDRINI, Interpretazione dei risultati, in A. TAGLIABRACCI, Introduzione alla genetica forense, cit., pp. 101ss. 24 Cfr. J.J. KOEHLER, A. CHIA, S. LINDSEY, The random match probability (RMP) in DNA evidence: Irrelevant and prejudicial?, in “Jurimetrics Journal”, 35, 1995, pp. 201-219. Sul tema cfr. anche J.J. Koehler, On conveying the probative values of DNA evidence: Frequencies, likelihood ratios, and error rates, in “University of Colorado Law Review”, 67, 1996, pp. 859-886; J.J. KOEHLER, One in millions, billions, and trillions: Lessons from People v. Collins (1968) for People v. Simpson (1995), in “Journal of Legal Education”, 47, 1997, pp. 214-223; G. GIGERENZER, Quando i numeri ingannano, cit., pp. 194ss. 25 Cfr. J.J. KOEHLER, One in millions, billions, and trillions, cit.

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mediche, anche rispetto al test del DNA, la conoscenza del tasso di false positività è essenziale per interpretarne correttamente il risultato. Riprendiamo l’esempio precedente e supponiamo che dal fingerprinting genetico risulti che vi è una probabilità di corrispondenza casuale dello 0,01% (ossia una possibilità su 10.000): come cambia questo dato se ipotizziamo che l’esame abbia una falsa positività, poniamo, di 1 su 1000? In una città di 1.000.000 di abitanti, le persone il cui profilo genetico corrisponde con quello ritrovato sulla scena del crimine sono 100 (supponendo che non esistano false negatività); tra le restanti persone, che non hanno il profilo in esame, vi sarà una corrispondenza dichiarata (un falso positivo) ogni 1000 analisi, ossia per 1.000.000 analisi vi saranno 1000 falsi positivi. Ciò significa che, in una città di 1.000.0000 di abitanti, su 1100 casi in cui è dichiarata una probabilità di corrispondenza casuale dello 0,01%, solo 100 casi presentano davvero tale corrispondenza (mentre gli altri mille sono falsi positivi): quindi vi sono solo 100 possibilità su 1.100, cioè 1 possibilità su 11, ossia, all’incirca, il 9,1% di probabilità, che il test sia corretto, che il profilo dell’imputato corrisponda davvero (nella misura dello 0,01%) a quello rinvenuto sulla scena del crimine.

Infine, un terzo elemento di incertezza riguarda il calcolo della corri-spondenza casuale. È ovvio che per giungere a stabilire che esiste una certa probabilità di corrispondenza si deve disporre di un numero signifi-cativo di dati relativi alla diffusione di certe configurazioni genetiche: non posso sapere quanto è probabile una certa corrispondenza casuale se non so con quanta frequenza ricorre nella popolazione. Questo accertamento non è affatto agevole: le VNTRs sono ereditate geneticamente e, pertanto, non risultano distribuite uniformemente tra la popolazione umana; ciò significa che una data VNTR non presenta una probabilità stabile di oc-correnza. La differenza nelle probabilità è particolarmente evidente lungo le diverse linee razziali: così, ad esempio, alcune VNTRs, che sono molto frequenti tra gli ispanici, sono estremamente rare tra i caucasici o tra gli afro-americani. Al riguardo non solo mancano ancora studi accurati sulla frequenza di distribuzione delle VNTRs all’interno dei diversi gruppi etnici, ma l’eterogeneo patrimonio genetico degli individui multirazziali, il cui numero è in continuo aumento in molte società contemporanee, rappresenta un campo di indagine finora del tutto inesplorato26. Rispetto a queste questioni, alcuni elementi utili potrebbero pervenire dalle c.d. ban-che del DNA, istituzioni che, di per sé, mirano solo ad agevolare le inda-

26 Cfr. K. BRINTON, K.-A. LIEBERMAN, Basics of DNA Fingerprinting, in http://protist.biology.washington.edu/fingerprint/dnaintro.html, accesso il 02.03.2010; per un interessante esame della questione nel dibattito statunitense cfr. A. ANDREOLI, Identità alla prova. La controversa storia del test del DNA tra crimini, misteri e batta-glie legali, Sironi editore, Milano, 2009.

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gini, stabilendo corrispondenze tra i reperti biologici ritrovati dagli inve-stigatori e i profili genetici degli individui schedati27. È, ovvio, però, che, per poter essere di una qualche utilità ai fini del calcolo della probabilità di una corrispondenza casuale, i dati raccolti nelle banche del DNA do-vrebbero essere opportunamente elaborati, anche con l’ausilio di compli-cati e affidabili software28.

Il problema maggiore posto dai fattori d’incertezza sopra elencati è che essi tendono ad essere ignorati dalla giurisprudenza, specie da quella italiana. In Italia, la maggior parte dei periti presenta gli esiti del DNA fingerprinting in termini di corrispondenza o non corrispondenza: insomma, come un giudizio tutto-o-niente29. Ciò, di per sé, non è errato, tuttavia questo dato è muto, non ci dice nulla, finché non conosciamo la probabilità della cor-rispondenza casuale (ed anche la percentuale dei falsi positivi).

27 In Italia la banca nazionale del DNA è stata istituita solo di recente, con la legge n. 85 del 30 giugno 2009, intitolata “Adesione della Repubblica italiana al Trattato con-cluso il 27 maggio 2005 tra il Regno del Belgio, la Repubblica federale di Germania, il Regno di Spagna, la Repubblica francese, il Granducato di Lussemburgo, il Regno dei Paesi Bassi e la Repubblica d’Austria, relativo all’approfondimento della cooperazione transfrontaliera, in particolare allo scopo di contrastare il terrorismo, la criminalità transfrontaliera e la migrazione illegale (Trattato di Prüm)”. 28 Negli USA l’FBI si avvale di un software chiamato ‘The Combined DNA Index System’ (CODIS) che prevede l’analisi di 13 STRs presenti su 12 delle 23 coppie di cromosomi umani. Secondo l’FBI la probabilità di una corrispondenza casuale nei 13 loci considerati è di circa una su un miliardo. Questo dato non è, però, pacifico, anche per l’insufficienza di dati relativi alla variabilità interrazione delle STRs, cui si è accennato nel testo. Al riguardo una ricerca in un database del DNA dell’Arizona, comprendente 65.000 campioni, ha rivelato che, esaminando 9 loci, si trovavano ben 122 corrispondenze, analizzandone 10, se ne riscontravano 20, ed esaminandone 11 e 12, una sola: secondo alcuni questi dati proverebbero che l’FBI ha sovrastimato la rarità delle corrispondenze casuali, mentre, secondo altri, questi risultati sono assolutamente compatibili con le stime ufficiali, almeno se si conteggia la possibilità di falsi positivi: cfr. E. MORI, Validità della prova del DNA, cit.; J. FELCH, MAURA DOLAN, FBI resists scrutiny of “matches”, in “Los Angeles Times”, 20 luglio 2008, ora in http://articles.latimes.com/2008/jul/20/local/me-dna20, accesso il 02.03.2010; S.D. LEVITT, Are the F.B.I.’s Probabilities About DNA Matches Crazy?, in “Freakonomics”, 19 agosto 2008, http://freakonomics.blogs.nytimes.com, accesso il 02.03.2010. 29 Non così negli USA, specie dopo che alcuni casi giudiziari hanno posto il test del DNA al centro di un ampio dibattito pubblico (cfr. A. ANDREOLI, Identità alla prova. La controversa storia del test del DNA tra crimini, misteri e battaglie legali, cit.). Per una comparazione tra le regole statunitensi e quelle italiane cfr. C. Sclavi, DNA-test come “scientific evidence”: poteri del giudice e validità della prova. Rilievi comparati-stici, in “Rivista italiana di medicina legale”, 3, 1997, p. 641; V. ANSANELLI, Problemi di corretta utilizzazione della prova scientifica, in “Rivista trimestrale di diritto e proce-dura civile”, 4, 2002, p. 1333.

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1.2. La probabilità nel processo (1I): il nesso causale La prova del DNA non è certo l’unico canale attraverso cui i dati proba-bilistici e statistici entrano nelle aule dei Tribunali. Talvolta questi dati sono impiegati come argomento a favore delle tesi della difesa o dell’accusa (o dell’attore o del convenuto), cioè come indizi in senso tecnico. E anche in questi casi, tali dati si prestano a facili fraintendimenti. Un esempio famoso, tratto dall’esperienza americana30.

Nel già citato processo O.J. Simpson, l’accusa portò quale indizio della colpevolezza dell’imputato (accusato di aver ucciso l’ex-moglie e un amico di lei) una lunga e provata storia di maltrattamenti coniugali. La difesa replicò che il fatto che Simpson maltrattasse la moglie non poteva essere addotto come indizio della sua colpevolezza per il reato di omici-dio, in quanto, negli Stati Uniti, circa 4 milioni di donne venivano mal-trattate ogni anno da mariti o amanti, ma, nel 1993, di queste solo 1432 erano state uccise da mariti o amanti. Insomma, non tutti i mariti che pic-chiano le mogli poi finiscono per ucciderle. Questo ragionamento è, però, fallace, in quanto la percentuale che indica quanti, tra gli uomini che pic-chiano le mogli, poi le uccidono è irrilevante nel caso di specie: nel pro-cesso Simpson, la moglie era stata effettivamente uccisa, sicché la proba-bilità da considerare era, piuttosto, quella che un uomo abbia ucciso la moglie nell’ipotesi che la picchiasse e che questa sia stata assassinata. Secondo Paulos c’è ben l’80% delle probabilità che, se una donna ha subito violenza e poi è stata assassinata, il colpevole sia il suo partner31 (secondo Good e Gigerenzer vi sono 8 possibilità su 932).

L’errore (volontario o no) commesso dalla difesa Simpson è simile a quello di chi volesse provare che il fumo non causa problemi cardiaci perché la maggior parte dei fumatori non muore d’infarto: in questo caso la probabilità rilevante non concerne quanti fumatori non muoiano di infarto, bensì quanti, tra coloro che muoiono di infarto, sono fumatori, o, meglio ancora, la maggior probabilità che un fumatore ha, rispetto ad un non fumatore, di morire d’infarto. Se, per ipotesi, il 71% delle persone che muoiono di infarto fossero fumatori, la rilevanza del fumo rispetto a tale patologia sarebbe provata anche se il 90% dei fumatori non morisse

30 Cfr. G. GIGERENZER, Quando i numeri ingannano, cit.; A. SAINI, Probably guilty: bad mathematics means rough justice, in “New Scientist”, 28 ottobre 2009; C. LUCARELLI, M. PICOZZI, Scena del crimine, Mondadori Editore, Milano, 2005. 31 J.A. PAULOS, Murder he wrote, in “The Philadelphia Inquirer”, 27 agosto 1995, ora in http://www.math.temple.edu/~paulos/oj.html, accesso il 02.03.2010. 32 I.J. GOOD, When batterer becomes murderer, in “Nature”, 381, 1996, p. 481; G. Gigerenzer, Quando i numeri ingannano, cit., p. 168.

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d’infarto. Supponiamo, infatti, di considerare un campione di 20.000 per-sone, di cui metà fumatori e metà non fumatori. Tra i 10.000 fumatori, in media, 1000 moriranno di infarto (il 10%); se il 71% di coloro che muoiono di infarto sono fumatori, ciò significa che tra i 10.000 non fu-matori solo 400, in media, moriranno di infarto: mentre un fumatore ha il 10% di probabilità di morire d’infarto, un non fumatore ne ha solo il 4%.

L’errore in esame è una classica fallacia della rilevanza, ossia un ar-gomento che «si basa su premesse che non hanno rilievo rispetto alla conclusione»33, e che, in questo caso particolare, consiste nell’addurre statistiche irrilevanti rispetto a ciò che si vorrebbe provare. L’incapacità di riconoscere una fallacia della rilevanza come tale non è che un aspetto particolare della generale difficoltà di interpretare i dati probabilistici.

Un altro ambito giuridico in cui il calcolo delle probabilità assume spesso un valore determinante riguarda l’accertamento del nesso causale. La giurisprudenza italiana (ma non solo) riconosce unanimemente che tale nesso sussista tutte le volte in cui la condotta dell’agente rientra tra quelle condotte che, in base a leggi scientifiche universali (c.d. di copertura), causano eventi del tipo di quello considerato34. Ma che dire delle leggi statistiche e probabilistiche? È ammissibile che, in base alle leggi scienti-fiche, sia solo probabile che la condotta causi l’evento? E quanto deve essere elevata questa probabilità?

Al riguardo è il caso di premettere che la rilevanza delle leggi proba-bilistiche appare diversa a seconda che si tratti di accertare un reato com-missivo o un reato omissivo improprio, il quale ultimo consiste nel non aver impedito (per dolo o per colpa) un evento che si aveva il dovere di impedire. Per renderci conto di tale differenza consideriamo due esempi. Supponiamo che vi siano il 30% di probabilità di contrarre l’HIV in un

33 I.M. COPI, C. COHEN, Introduction to Logic (1994), trad. it., Introduzione alla logica, il Mulino, Bologna, 1999, p. 169 34 Al riguardo la giurisprudenza italiana parla, invariabilmente, non di ‘causa suffi-ciente’, bensì di ‘causa necessaria’. Un simile modo di esprimersi sembra, però, censu-rabile: sparare alla testa di qualcuno da una distanza ravvicinata è causa sufficiente della sua morte, non una causa necessaria, posto che esistono molti altri modi per uccidere qualcuno. Quello che la giurisprudenza vuol dire è che, nel singolo caso concreto, la condotta deve essere stata necessaria per il prodursi dell’evento, nel senso che deve essere corretto (anzi, vero) il giudizio controfattuale secondo cui, se quella condotta non vi fosse stata, allora l’evento non si sarebbe verificato. Ciò, però, equivale a richiedere che la causa (sufficiente) in questione abbia operato nel caso concreto, ossia che l’evento non si sia prodotto a seguito del verificarsi di un’altra causa (sufficiente), di un distinto e autonomo decorso causale (ad esempio, perché la vittima è deceduta, non per il colpo d’arma da fuoco alla testa, bensì a seguito di un infarto, sopravvenuto prima che si vedesse puntare contro una pistola).

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rapporto eterosessuale non protetto con una persona infetta (percentuale che, come abbiamo visto, significa non che si è contagiati 3 volte ogni dieci rapporti e, a rigore, nemmeno che sono contagiate 30 persone ogni 100, bensì che per ogni rapporto sessuale si hanno 3 probabilità su 10 di contrarre il virus)35. Supponiamo, poi, che la persona offesa abbia con-tratto il virus, che il suo coniuge sia sieropositivo e che la persona offesa non abbia tenuto alcun altro comportamento a rischio. In tal caso, è diffi-cile non ritenere provato il nesso causale: la presenza di una causa suffi-ciente, l’assenza di altre cause alternative e l’essersi verificato l’effetto sembrano elementi più che idonei a suffragare l’esistenza del rapporto di causalità. Ma supponiamo adesso che vi siano il 30% di probabilità che qualora un determinato soggetto, ad esempio, un medico, avesse tenuto un determinato comportamento per lui doveroso (per ipotesi, se avesse ef-fettuato una certa operazione chirurgica), allora il paziente non sarebbe morto: ossia che vi fossero 3 possibilità su 10 che l’intervento salvasse la vita del paziente (o, almeno, che la prolungasse per un periodo apprezza-bile di tempo). In questo caso è più difficile, meno intuitivo, affermare la responsabilità del medico e ciò per la semplice ragione che non sappiamo, e non sapremo mai, se l’intervento avrebbe davvero impedito l’evento36.

Rispetto all’accertamento del nesso causale nel reati omissivi impropri, nella giurisprudenza italiana si è assistito in passato ad un conflitto tra un indirizzo maggioritario e risalente, che riteneva sufficienti coefficienti di probabilità seri ed apprezzabili, talvolta inferiori al 50%, ed un indirizzo minoritario, più recente, che richiedeva, invece, la prova che il com-portamento alternativo dell’agente avrebbe impedito l’evento lesivo con un grado di probabilità elevato, prossimo alla certezza, ossia al 100%. Per dirimere tale conflitto sono intervenute le Sezioni Unite che, nella nota sentenza Franzese, hanno statuito che «In ordine all’accertamento del rapporto

35 Le probabilità effettive sono, in realtà, molto più basse: la percentuale riportata nel testo costituisce l’approssimazione più alta per la tipologia di rapporti sessuali con rischio più elevato (i.e. rapporti anali passivi). 36 In sintesi, nei reati commissivi si tratta di stabilire un rapporto di causalità tra (i) una condotta C, che si è effettivamente verificata e che, in base ad una data legge di copertura, aveva una certa probabilità x di causa l’evento E, e (ii) l’evento E, anch’esso verificatosi. Per quanto sia bassa la probabilità x, il nesso causale è dimostrato se si riesce a provare che non sussistevano, nel caso di specie, altre cause alternative: l’evento E si è, infatti, verificato e, se sono escluse cause alternative, ciò significa che, per quanto la probabilità fosse bassa, esso è stato, in effetti, causato dalla condotta C, in quanto non poteva verificarsi in altro modo. Non così nei reati omissivi impropri: qui si tratta di stabilire un nesso causale tra (i) una condotta C (doverosa e impeditiva) che, in base ad una data legge di copertura, aveva una certa probabilità x di causa l’evento E, ma che non si è verificata e (ii) un evento E che non ha avuto luogo. In questo caso, se la probabilità x è molto bassa, è difficile ritenere provato il nesso causale.

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di causalità, si deve far riferimento al modello di spiegazione secondo “leggi scientifiche”. Il modello nomologico può svolgere il proprio scopo esplicativo del nesso causale tanto meglio quanto più alto è grado di probabilità su cui è fondata la legge scientifica; ma non è sostenibile che si debbano usare solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico prossimo ad 1, cioè alla certezza (da riferire nel caso dei reati omissivi impropri, all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa, e omessa, rispetto al singolo evento). In termini di “certezza” dev’essere invece ricostruito l’accertamento del nesso causale, non essendo consentito dedurre automaticamente e proporzionalmente dal coefficiente di probabilità statistica, espresso dalla legge, la conferma dell’ipotesi di esistenza del rapporto di causalità. Il giudice deve dunque svolgere una verifica ulteriore, al fine di sta-bilire se la postulata connessione nomologica, che forma la base per il libero convincimento del giudice, sia effettivamente pertinente al caso concreto e debba considerarsi razionalmente credibile (c.d. probabilità logica), nel che consiste il risultato di “certezza processuale”»37.

Per quanto riguarda le specifiche ragioni di conflitto tra le sezioni semplici, le Sezioni Unite avallano, pertanto, l’indirizzo maggioritario e più risalente, confermando che il nesso di causalità possa essere accertato anche sulla base di leggi scientifiche che esprimano coefficienti di probabilità medio-bassi (ossia addirittura inferiori al 50%)38. Secondo le Sezioni Unite, però, il giudice non deve mai limitarsi a considerare esclusivamente il dato fornito dalle leggi probabilistiche, ma deve, invece, procedere a due ulteriori verifiche relative, rispettivamente, alla pertinenza della legge invocata ed alla sua credibilità razionale nel caso concreto. Al riguardo, se il giudizio di pertinenza non crea alcun problema (essendo ovvio e ragionevole che la legge probabilistica debba essere applicabile al caso concreto, anche per non incorrere nella fallacia della rilevanza sopra considerata), il giudizio di credibilità razionale suscita non poche perplessità. In motivazione la Corte precisa che tale giudizio deve consistere nell’accertamento del «valore eziologico effettivo [della legge probabilistica], insieme con l’irrilevanza nel caso concreto di spiegazioni diverse, controllandone quindi l’attendibilità in riferimento al singolo evento e all’evidenza disponibile». Il problema, però, è che il valore eziologico effettivo della legge probabilistica può essere verificato solo verificandone la pertinenza nel caso concreto. Un esempio può chiarire questo punto.

37 Cass. Pen. Sez. Un., 11 settembre 2002, sentenza n. 27. 38 La Corte, infatti, riconosce che anche «coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequenzista […] possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessa-rio nesso di condizionamento», qualora ne sia attentamente e puntualmente verificata sia la fondatezza scientifica sia la specifica applicabilità al caso di specie.

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Supponiamo che in base ad una legge statistica vi siano il 30% di pro-babilità che, qualora un soggetto compia l’azione A, nella situazione S, allora non si verifichi l’evento E. Questa legge vale solo nella situazione S: qualora si dia una situazione diversa o ulteriore la legge non vale. Così, la stima in base alla quale, se il paziente presenta la patologia P, vi sono il 30% di probabilità che l’intervento chirurgico IC, ne eviti la morte, non implica che, qualora il paziente presenti la patologia P e la patologia P1, vi siano sempre il 30% di probabilità che l’intervento chirurgico IC ne eviti la morte. Nel calcolo della probabilità la legge logica del rinforzo dell’ante-cedente non vale: se ci sono il 30% delle probabilità che un fumatore contragga una malattia polmonare, ciò non implica che vi siano il 30% di probabilità che un fumatore, che di professione è minatore e che vive in una città altamente inquinata contragga una malattia polmonare (ve ne saranno molte di più). Lo stesso vale, del resto, per il riferimento all’irrilevanza di spiegazioni alternative: rispetto ai reati omissivi impropri, sostenere che vi possano essere spiegazioni alternative significa semplicemente sostenere che vi sono state delle circostanze in forza delle quali la legge probabilistica in questione non è applicabile, che il decesso si sarebbe (certamente o con un alto grado di probabilità) verificato comunque, a causa di altri fattori concomitanti, ossia che, in quella situazione, la legge in esame non vale, perché, in quella situazione, per il sopravvenire di determinati fattori, non vi erano il 30% di probabilità che l’intervento chirurgico IC salvasse la vita del paziente, ma molte, molte, meno.

La Corte ha certamente ragione nel sostenere che il giudizio di colpe-volezza non debba essere dedotto automaticamente dalla legge probabilistica, ma ciò equivale all’esigenza, del tutto banale, di verificare (ed adeguatamente motivare) la pertinenza, la rilevanza e, quindi, l’applicabilità della legge in questione: ossia di evitare che si applichi una legge che non è rilevante, che non è idonea a fungere da parametro di sussunzione del caso concreto. Insomma, si devono adottare solo le leggi probabilistiche che riguardano il caso concreto; le leggi di copertura adottate devono davvero “coprire” il caso di specie39. Per tali ragioni è censurabile la distinzione, operata dalla Corte, tra 39 Sull’importanza di distinguere tra informazioni probabilistiche rilevanti e non cfr., ad esempio, M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali, Giuffrè, Mi-lano, 1992, pp. 176 ss.; P. Gardenfors, Ragionamento probabilistico e valore probato-rio, in P. GARDENFORS, B. HANSSON, N.E. SAHLIN, La teoria del valore probatorio. Aspetti filosofici, giuridici e psicologici, Giuffrè, Milano, 1997; R.W. WRIGHT, Causa-tion, Responsibility, Risk, Probability, Naked Statistics, and Proof: Pruning the Bram-ble Bush by Clarifying the Concepts, in “Iowa Law Review”, 1999, pp. 1001-1077, trad. it. Causalità, responsabilità, rischio, probabilità, nude statistiche e prova: sfoltire il cespuglio di rovi chiarendo i concetti, in F. STELLA (a cura di), I saperi del giudice, Giuffrè, Milano, 2004, pp. 71 ss.; B.V. FROSINI, Le prove statistiche nel processo civile

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la probabilità statistica, espressa dalla legge di copertura, e la probabilità logica, ossia la credibilità razionale del dato statistico nel caso concreto, in quanto, da un lato, rappresenta una duplicazione non necessaria (ed espressa in maniera confusa) del requisito (ovvio) che la legge in esame sia una legge di copertura di quel caso, e, dall’altro, sostenendo che la probabilità logica debba enunciarsi in termini qualitativi, sembra aprire la strada a giudizi fondati non su dati scientifici ma, piuttosto, su luoghi comuni, massime di esperienza non comprovate o intuizioni non giustificabili.

Il vero problema, infatti, è che spesso le leggi probabilistiche di co-pertura non ci sono affatto e le stesse opinioni dei periti, più che su com-provate statistiche scientifiche, si fondano sovente sulla loro personale esperienza, su dati limitati o non accuratamente vagliati40.

2. Al di là di ogni probabile dubbio Riassumendo, l’impiego dei dati probabilistici nel processo presenta tre problemi fondamentali.

Il primo problema consiste nel fatto che, talvolta, è ignorata la stessa natura probabilistica del dato fornito: ciò accade, ad esempio, quando gli esiti del DNA fingerprinting sono presentati in termini semplice corri-spondenza, omettendo di specificare (e di quantificare) la probabilità che tale corrispondenza sia casuale (e/o la percentuale dei falsi positivi).

Il secondo problema, come visto a proposito dei dati relativi alla pro-babilità di una corrispondenza casuale tra profili del DNA e alla prova del nesso causale, è che questi dati spesso mancano o sono troppo imprecisi ed esigui per costituire un’affidabile base di calcolo.

Il terzo e più grave problema, consiste, infine, nell’incapacità dei giu-dici e delle corti popolari di interpretare correttamente i dati probabilistici forniti, spesso anche a causa delle informazioni evasive dei periti. Al riguardo, si noti che anche un dato corretto può essere comunicato in modi che producono un effetto differente sull’uditorio. Così, ad esempio, e nel processo penale, Giuffrè, Milano, 2004, pp. 73 ss.; R. EGGLESTON, Prova, conclusione probatoria e probabilità, Giuffrè, Milano, 2004, pp. 248 ss. 40 Del resto la stessa sentenza Franzese legittima ampiamente il ricorso alle c.d. mas-sime di esperienza, non richiedendo affatto che la probabilità del nesso causale sia corroborata scientificamente. In un ambito diverso da quello della colpa medica, quello delle malattie professionali, si è, invece, affermato più volte che il rapporto di causalità «non è configurabile in quei casi in cui risultino insufficienti, contraddittori e incerti gli esiti delle ricerche scientifiche e sussista, quindi, il ragionevole dubbio sulla reale effi-cacia condizionante della condotta» (Cass. pen., sez. IV, 17.05.2006, sen. n. 4675; in senso conforme Cass. pen., sez. IV, 21.06.2007, sen. n. 39594).

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l’enunciato (a), ‘La probabilità di corrispondenza casuale è dello 0,01%’, ha esattamente lo stesso significato di (b), ‘Ogni 20.000 persone ve ne sono statisticamente 2 che presentano questa corrispondenza’: eppure, molto spesso, (b) ingenera l’impressione di una maggiore diffusione della corrispondenza casuale rispetto all’impressione ingenerata da (a)41.

Un ulteriore elemento di complicazione riguarda il fatto che, quando si parla di probabilità, bisognerebbe sempre specificare a quale concetto di probabilità ci si riferisce, dato che ne esistono diversi. In particolare, possiamo distinguere almeno i seguenti tre concetti di probabilità, preci-sando, però, che ciascuno di essi presenta numerose varianti42.

Secondo la teoria classica della probabilità, formulata da Laplace, De Morgan, Keynes e altri, la probabilità è la misura del grado di credenza razionale: quando si è razionalmente certi che accadrà un dato evento gli si assegna il valore 1, mentre quando si è razionalmente certi che non accadrà gli si assegna il valore 0. Questa teoria è detta anche teoria a priori in quanto ritiene che, per stimare il grado di probabilità, non sia necessario procedere ad alcun esperimento né prendere in considerazione alcuna distribuzione: per calcolare la probabilità di un evento, in determi-nate circostanze, è sufficiente dividere il numero di modi in cui tale evento può accadere per il numero totale dei possibili risultati in quelle circostanze, posto che non ci sia motivo di credere che uno qualsiasi di quei possibili risultati sia più probabile di qualsiasi altro. Così, ad esem-pio, per sapere che, ad ogni lancio di moneta, c’è 1 probabilità su 2 che esca testa, non è necessario effettuare numerosi lanci, ma basta sapere che ci sono due risultati possibili (perché la moneta ha due facce, dovrà cadere su una di esse e non sappiamo come le caratteristiche del lancio possano influenzarne l’esito), sicché ognuno di essi ha una probabilità di 1/2.

Nella teoria frequentista la probabilità è, invece, definita come la frequenza relativa con cui gli elementi di una classe presentano una determinata proprietà. In questa teoria la probabilità di una proprietà è

41 Sugli effetti delle diverse formulazioni dei dati statistici in ambito giudiziario cfr. J.J. KOEHLER, On conveying the probative values of DNA evidence: Frequencies, likeli-hood ratios, and error rates, cit.; J.J. KOEHLER, L. MACCHI, Thinking about low prob-ability events, in “Psychological Science”, 15 (8), 2004, pp. 540-546; L. MACCHI, G. PASSERINI, La psicologia dei numeri in tribunale: gli effetti della formulazione della prova del DNA sul giudizio di colpevolezza, in “Cass. pen.”, 11, 2007, p. 4370. 42 Per un’analisi più dettagliata cfr., ad esempio, H. JEFFREYS, Theory of probability, OUP, Oxford, 1961, ried. 2003; D. COSTANTINI, L. GEYMONAT, Filosofia della proba-bilità, Feltrinelli, Milano, 1982; S.R.S. VARADHAN, Probability theory, AMS, Provi-dence, 2001; E.T. JAYNES, G.L. BRETTHORST, Probability theory: the logic of science, CUP, Cambridge, 2003; F. BIAGINI, M. CAMPANINO, Elementi di probabilità e stati-stica, Sprinter Italia, Milano, 2005.

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ottenuta dividendo per il numero degli elementi di una data classe di riferimento il numero degli elementi di quella classe che presentano la proprietà in questione. Così, ad esempio, si può sapere che l’intervento chirurgico IC ha il 30% di probabilità di salvare la vita di un paziente che presenti la patologia P, perché tra 20.000 pazienti che presentavano la patologia P e che si sono sottoposti a tale intervento (classe di riferi-mento), in 6000 non sono deceduti.

Infine, secondo la definizione soggettiva, elaborata da De Finetti e Sa-vage, la probabilità di un evento è il prezzo che un individuo coerente ritiene equo pagare per ricevere 1 se l’evento si verifica, 0 se l’evento non si verifica, purché le probabilità degli eventi siano attribuite in modo tale che non sia possibile ottenere una vincita o una perdita certa. Così, ad esempio, un medico può stimare che vi sia il 30% di probabilità che l’intervento chirurgico IC salvi la vita di un paziente affetto dalla patolo-gia P qualora sia disposto a pagare 3, se il paziente sopravvive, e a rice-vere 10, se il paziente perisce.

La distinzione tra queste teorie non deve essere sopravvalutata: esse condividono (almeno in massima parte) gli stessi assiomi e le stesse regole e, pertanto, conducono spesso agli stessi risultati; esistono, comunque, alcune differenze da non sottovalutare. Ad esempio, in base alla teoria frequentista, non ha senso parlare della probabilità di un evento singolo (e, in particolare, di un evento non ripetibile in via sperimentale più volte, idealmente, all’infinito): così, in base a questa teoria, non è possibile calcolare la probabilità di riuscita di una terapia sperimentale, mai provata prima, né, ovviamente, compararla con quella di terapie collaudate. La teoria soggettiva, invece, a differenza della teoria classica, consente di calcolare la probabilità di eventi non equiprobabili e, a differenza della teoria frequentista, è applicabile anche ad eventi singoli (a esperimenti non ripetibili): tuttavia, essa risulta fondata sull’opinione di singoli individui, che potrebbero anche presentare diverse propensioni al rischio.

In generale, se nella nostra vita quotidiana la teoria soggettiva può fungere da utile guida per alcune delle nostre scelte, sembra irragionevole affidarsi a questo concetto di probabilità anche quando siano applicabili le teorie alter-native: così, ad esempio, quando ci chiediamo quante probabilità ci siano che un intervento chirurgico salvi la vita di un paziente, non siamo interessati a conoscere la propensione al rischio di un certo soggetto, bensì la frequenza statistica di successo dell’intervento in questione. Eppure, tutte le volte in cui si ricorre a massime di esperienza non comprovate scientificamente, o, comunque, a giudizi fondati su dati limitati o non accuratamente vagliati, non si fa altro che esprimere un concetto soggettivo di probabilità: tutto ciò che si determina è la soggettiva propensione al rischio del soggetto giudicante (o del perito). La probabilità non può e non deve essere bandita dal processo, ma deve trattarsi di una probabilità fondata su dati scientifici e non su opinioni: solo così si può giustificare una condanna al di là di ogni probabile dubbio.