Fotografia stenopeica marche 2011

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ARCHIVIO NAZIONALE DI FOTOGRAFIA STENOPEICA DIRETTO DA CARLO EMANUELE BUGATTI MARCHE/STENOPEICA 2011 Mostra documentaria Palazzetto Baviera/Senigallia QUADERNI DEL MUSINF

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Mostra documentaria - Palazzetto Baviera - Senigallia

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ARCHIVIO NAZIONALE DI FOTOGRAFIA STENOPEICA DIRETTO DA CARLO EMANUELE BUGATTI

MARCHE/STENOPEICA 2011

Mostra documentaria Palazzetto Baviera/Senigallia

QUADERNI DEL MUSINF

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ARCHIVIO NAZIONALE DI FOTOGRAFIA STENOPEICA DIRETTO DA CARLO EMANUELE BUGATTI

MARCHE/STENOPEICA 2011

Mostra documentaria Palazzetto Baviera/Senigallia

QUADERNI DEL MUSINF

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La fama internazionale di Senigallia nel set-tore della fotografia si lega alla vicenda sto-rica del Gruppo Misa e alla personalità di grandi autori come Giuseppe Cavalli, Mario Giacomelli, Ferruccio Ferroni. Notevoli so-no le raccolte fotografiche conservate dal Musinf, tanto che continua è stata, negli ul-timi anni ed è nel presente la sinergia con istituzioni di grande rilievo per la realizza-zione di mostre. Sarà sufficiente ricordare l'esposizione alla Biblioteca nazionale di Francia. Continuo è anche il lavoro di con-servazione, ma anche didattico e di raccol-ta del Museo civico d'arte moderna, che ha portato a tante nuove acquisizioni ed alla creazione di un clima di diffusa attenzione intorno a quello che è stata e continua es-sere la vivacità della cultura fotografica se- nigalliese. Una cultura che continua a pro-durre nuovi giovani talenti, come è il caso anche internazionalmente riconosciuto di Lorenzo Cicconi Massi. La suite di mostre e pubblicazioni, proposte per ricordare il de-cennale della scomparsa di Mario Giaco-melli, potrà consentire a tutti di apprezzare momenti di studio e di approfondimento in atto intorno alla figura di questo indimenti-cabile artista senigalliese, che ha lasciato una traccia indelebile nella storia della foto-grafia. Utile per segnalare l'ampiezza del lavoro attuale sui vari aspetti della cultura fotografica va ritenuto anche il progressivo arricchimento degli archivi fotografici locali, con iniziative relative a settori specifici, co-me è il caso dell'archivio della fotografia stenopeica, collegato allo sviluppo della mostra nazionale stenopeica, coordinata da Massimo Marchini. Un Archivio che dall'an-no in corso registra un'apertura inter-nazionale alle esperienze creative di autori canadesi ed austriaci.

Il vasto Archivio di fotografia Stenopeica oggi conservato dal Museo comunale d’arte moderna e della fotografia di Senigallia è nato dalle iniziative della mostra nazionale di fotografia stenopeica, promossa dal Mu-sinf in diretta collaborazione con l'associa-zione Pro Loco e con il Comune di Senigal-lia e dal confronto cultuale via via; emerso negli incontri dell'Osservatorio della fotogra-fia stenopeica italiana. Un Osservatorio, cui hanno aderito personalità di rilievo del set-tore stenopeico. Nel progetto evolutivo dell'Archivio, se da un lato è andata emer-gendo la necessità di un allargamento dell'orizzonte documentario verso la dimen-sione internazionale, dall'altro lato è emer-sa un'attenzione documentaria verso la pro-duzione stenopeica regionale. Ne è dimo-strazione questo quaderno, che è dedicato agli autori marchigiani, le cui opere sono esposte, nell'ambito della mostra stenopei-ca 2011, ordinata in un apposito spazio presso il Palazzetto Baviera. In omaggio alla spinta di documentazione internaziona-le spazi specifici al palazzi Duca e al Musinf sono stati dedicati nel 2011 alla produzione di artisti canadesi ed austriaci. Si tratta del primo passo nello studio e nello scandaglio di una prospettiva vasta, che il Musinf in-tende documentare con contatti internazio-nali sempre nuovi. L'ampliamento e la spe-cializzazione dell'archivio richiederanno l'ampliamento della struttura del sito Internet museale dedicato. Va notato che ha preso corpo, accanto alla mostra di im-magini fotografiche anche l'iniziativa espo-sitiva di macchine stenopeiche, prodotte da specialisti e quella di macchine stenopeiche prodotte in collaborazione con artisti. In questo quaderno "Marche Stenopeica 2011" viene pubblicato un contributo di Vin-cenzo Marzocchini, il cui nome si lega oltre che all'attività creativa anche allo studio dell'evoluzione storica della fotografìa e del-la fotografìa stenopeica in particolare.

L’ARCHIVIO DELLA FOTOGRAFIA STENOPEICA

SENIGALLIA CITTA’ DELLA FOTOGRAFIA

Carlo Emanuele Bugatti Direttore del Musinf

Stefano Schiavoni Assessore alla Cultura del Comune di Senigallia

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PER UNA FILOSOFIA DELLA FOTOGRAFIA STENOPEICA

Le origini del fotografico e l’impronta stenopeica

Non sono pochi i collegamenti della fotogra-fia stenopeica con i processi sperimentati e attuati da William Henry Fox Talbot sia in fase di ripresa che in quella di stampa, co-me possiamo puntualmente verificare ana-lizzando la particolareggiata ricerca condot-ta da Roberto Signorini. All’inizio di ottobre del 1833, Talbot passeg-gia e prende schizzi del paesaggio sulle ri-ve del lago di Como: Fu tra questi pensieri che mi sovvenne un’idea...: come sarebbe affascinante se fosse possibile far sì che queste immagini naturali si imprimessero da sé in modo durevole, e rimanessero fissate sulla carta! [...] Nel 1835 riuscii a ottenere con una Camera Obscura delle vedute sod-disfacenti di edifici e di altri oggetti distanti, le quali produssero nella mia mente e in quella degli amici a cui la feci vedere uno stupore che non dimenticherò mai.[...]Quando nel 1834, ignaro delle ricerche di Davy, io intrapresi una serie di esperimenti col medesimo fine, non so quale buona stella abbia secondato i miei sforzi [...] Con questo procedimento è possibile distrugge-re la sensibilità della carta e renderla del tutto insensibile. Dopo tale cambiamento, essa può venire esposta con sicurezza alla luce diurna [...]Con questo tipo di carta, e-stremamente sensibile all’azione della luce e tuttavia in grado di perdere tale proprietà quando sia necessario, si possono ottenere un gran numero di singolari risultati.[...]ma uno forse più adatto a un utilizzo generaliz-zato è la possibilità di raffigurare facsimili esatti di oggetti prossimi all’operatore, come fiori, foglie, incisioni ecc., che si possono ottenere con grande facilità, e spesso con una rapidità che è quasi meravigliosa. La raffigurazione, spogliata delle idee che l’accompagnano, e considerata solo nella

sua natura essenziale, non è altro che una successione o varietà di luci più intense proiettate su una zona della carta, e di om-bre più profonde su un’altra. Ora la Luce, là dove è presente, può esercitare un’azione, e questa, in determinate circostanze, è suf-ficiente a causare delle modificazioni nei corpi materiali. [...] col nostro metodo, una volta ottenuta una raffigurazione per mezzo della Camera, le rimanenti si possono otte-nere da questa col metodo del ri-trasferimento, il quale, per una fortunata e splendida circostanza, rettifica nello stesso tempo entrambi gli errori della prima raffigu-razione, cioè l’inversione dei lati destro e sinistro e quella di luce e ombra. N.B. Ho scoperto che le raffigurazioni della Camera si trasferiscono molto bene, e l’effetto che ne risulta è proprio alla Rem-brandt. (1)

L’immagine autoprodotta

La luce fotografica produce l’immagine non per un effetto di rischiaramento ma per un effetto di oscuramento.[...]L’effetto scotofori-co va contro la metafisica della luce: esso sposta l’immagine fotografica dalla parte del deposito materiale, della bruciatura lumino-sa che rinvia l’icona all’impressore [a ciò che ha prodotto l’impronta e di cui il segno fotografico è indice; ndt], alle cose del mon-do. (2) Le tavole che compongono il volume…sono state tutte impresse dalla mano della Natu-ra e risultano dalla semplice azione della Luce su della carta sensibile. Utilizza anche a loro riguardo l’espressione sun pictures, che perdurerà a lungo-e si può evocare qui almeno David Octavius Hill il quale, poco dopo Talbot e direttamente nel suo solco, firmava i propri calotipi con la formula Sol fecit, ribadendo la caratteristica, il marchio, dell’autoproduzione… ma è nel titolo stesso del libro di Talbot che si trova depositata (dovremmo dire, tipografata)questa insi-stenza teorica sul carattere a-tecnico e non umano, naturale, della fotografia: la matita della natura è la natura che (si) traccia essa stessa, che (si) disegna. (3)

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La casualità in fotografia.

Esiste un altro concetto, meno noto perché confinato al lessico della storia o della filo-sofia della scienza, ma più appropriato, per descrivere una lunga catena di casi fortuna-ti: la serendipity. Il nome deriva da Seren-dippo, un’isola della mitologia araba. Un’isola dell’Oceano Indiano nata sotto una buona stella, visto che per quanti errori, gof-faggini e abbagli commettessero i tre princi-pi di Serendippo, questi finivano sistemati-camente per volversi a loro vantaggio. È l’inglese Horace Walpole il primo a coniare, in una lettera del 28 gennaio 1754, il termi-ne di serendipity, proprio a partire dal nome dell’isola e dalla sua leggendaria fortuna. La serendipity, detta a volte anche ‘effetto di serendipity’, descrive dunque la probabilità di vedere i propri errori trasformarsi in un successo o di trovare qualcosa senza aver-la effettivamente cercata. In due parole: la fertilità del caso. Il termine ha avuto una no-tevole fortuna in campo scientifico, dove sta a indicare un fenomeno ricorrente e ben no-to. Alcuni storici della scienza si sono diver-titi a compilare un elenco delle scoperte do-vute alla serendipity [...] Anche la fotografia sembra essere un luogo propizio per le a-stuzie della serendipity.[...]Fra i fotografi le-gati al movimento surrealista Man Ray è probabilmente quello che ha saputo meglio mettere a frutto la serendipity. Egli esplora l’intera gamma degli accidenti fotografici, riesce costantemente a mettere i casi del suo obbiettivo al servizio dell’estetica sur-realista. Si dichiara senza indugi ‘fautographe’ e, amante dei giochi di parole com’era, non si sarebbe probabilmente tira-to indietro neppure di fronte ai termini di ‘fotogaffe’ o di ‘falsa-tografia’, se fossero venuti in mente a lui e non a Raymond Queneau. [...] Nel 1943 la rivista americana View pubblicò un articolo di Man Ray intito-lato Photography Is Not Art. Egli vi com-mentava sbrigativamente alcune delle sue migliori fotografie. La sua preferita era ac-compagnata dalla seguente descrizione: ‘ 1. Un’istantanea accidentale di un’ombra fra due altre accurate pose di una ragazza in costume da bagno.’ [...] Questa immagine,

che Man Ray dichiarava come la sua mi-gliore, sembra insomma una fotografia scat-tata per caso e per errore, ovvero doppia-mente sbagliata (almeno secondo i criteri convenzionali). Questa ‘fotografia a rovescio’ - è proprio il caso di dirlo - confer-ma il gusto del fotografo per il caso e la sovversione. Forse è proprio in virtù di que-sta doppia legittimazione surrealista dell’errore che Man Ray tende a presentare la maggior parte delle proprie scoperte co-me degli incidenti tecnici. (4) Certo, il gusto del fotografo per l’errore, i suoi tentativi reiterati di far passare alcune delle sue immagini come incidenti sembra-no a prima vista un modo di mettersi in sin-tonia con il surrealismo, di far riferimento al ‘caso oggettivo’ o al ‘principio di sovversio-ne totale’ invocati da Breton. Ma al di là del-la dichiarazione di fedeltà sembra esserci qualcos’altro: la messa in discussione dell’onnipotenza dell’autore. Rivendicando costantemente l’incidente, Man Ray sembra sistematicamente voler sminuire i propri meriti. Lasciare che la fertilità del caso si sostituisca alla propria. Far sí che la seren-dipity prenda il posto della propria immagi-nazione creativa. La sua ‘migliore fotografia’ ne è una prova: ‘l’istantanea’ è ‘accidentale’, è dovuta più al caso che all’abilità del fotografo. E come se non bastasse questo ridimensio-namento dell’autore, la sua stessa presen-za nell’immagine – un’ombra – è resa quasi irriconoscibile dalla rotazione di novanta gradi. A questo riguardo c’è uno scarto radi-cale tra l’ombra portata in Man Ray e quella in Moholy-Nagy, le due ombre non ‘portano’ lo stesso significato. Mentre Moholy-Nagy usa l’ombra per indicare che dietro l’immagine c’è sempre qualcuno che regge i fili dell’intero dispositivo, Man Ray invece si premura di dissimulare la presenza dell’operatore. Come se volesse – scriveva il suo amico Max Ernst – ridurre ‘al massi-mo il ruolo attivo di colui che una volta era definito ‘l’autore dell’opera’. In un suo cele-bre testo intitolato proprio La morte dell’autore, Roland Barthes aveva notato che ‘il Surrealismo ha però contribuito a dis-sacrare l’immagine dell’autore’. (5)

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Riabilitazione del soggetto esterno e quindi della traccia: dell’impronta lascia-ta dalla luce. Secondo il principio dei vasi comunicanti, tanto caro ai surrealisti, questa messa in discussione dell’autore si accompagna alla riabilitazione del soggetto dell’immagine. Clement Greenberg descrive il surrealismo come ‘tendenza reazionaria che cerca di ripristinare il soggetto esterno. Questa su-premazia del soggetto sull’autore permette, tra l’altro, di comprendere meglio l’interesse che i surrealisti avevano portato per Atget. Tra le cose più lucide che siano mai state scritte su di lui, Rosalind Krauss nota che, nell’analisi del suo lavoro, ‘il concetto d’autore è senza oggetto’ e che al contrario ‘il soggetto è centrale’. A conclusione del suo celebre aforisma, citato nell’introduzione, secondo cui il sistema fo-tografico è l’unione di una tecnica, di un au-tore e di un soggetto, Man Ray aggiungeva sempre che, a suo avviso, ‘è il soggetto a determinare l’interesse di una fotografia.’ A differenza di altre avanguardie nelle quali l’autore veniva generalmente esautorato a favore del medium, nei surrealisti lo si è ridi-mensionato a beneficio del soggetto. Sta tutta qui la differenza tra la Nuova visione, che privilegiava la messa in questione del medium, e il surrealismo che s’interessa principalmente al soggetto. [...] Per Moholy-Nagy l’errore è un mezzo inesauribile di e-splorazione del medium e quindi di scoperta di altri modi di rappresentazione. Per Man Ray l’incidente è (sia nel discorso, sia nei fatti) una maniera di abbandonarsi al caso, di far sí che emergano forme visive inedite, nuovi soggetti. (6) Come scrisse Robert Frank nella sua richie-sta al Guggenheim ‘il progetto che ho in mente è di quelli che prendono forma nel procedere ed è essenzialmente elastico.’ Dorothea Lange credeva inoltre che ‘sapere in anticipo che cosa stai cercando significa che stai solo fotografando i tuoi preconcetti, cosa che è molto limitante.’ Secondo lei era bene che un fotografo lavorasse ‘completamente senza pianificazione’ e che fotografasse solo ‘ciò che istintivamente gli

procurava una reazione’. In qualunque direzione guardasse Kertész vedeva sempre riflessi della propria situa-zione.[...] Il cappotto scuro e il cappello fan-no sí che sovente l’uomo sia solo una silhouette. Ritorna sempre nelle immagini di Kertész.[...] Ciò che Kertész vede quando guarda fuori della finestra in strada è spes-so questa sagoma che rappresenta i suoi sentimenti, il fatto di essere a New York, sradicato e incompreso. [...] da dietro la macchina il fotografo guarda il suo surroga-to andarsene in giro nel mondo materiale. [...] e grandi fotografi sono quelli che disve-lano in forma estetica l’essenza della tecni-ca, quasi dissolvendosi in essa. (7)

L’inconscio tecnologico e l’occultamento dell’autore

Come dire che nella macchina è insita una verità che è propria della macchina e non di chi realizza la fotografia. All’inconscio ottico di Benjamin -‘ciò che sfugge al soggetto a causa dei suoi limiti, ma che si rivela al mezzo’-, alla fine degli anni 60 Franco Vac-cari oppone l’inconscio tecnologico. ‘L’inconscio tecnologico non deve essere interpretato come pura estensione e poten-ziamento di facoltà umane, ma bisogna ve-dere nello strumento una capacità di azione autonoma [...]. Ogni macchina segue delle regole che strutturano la sua produzione e l’insieme di queste regole funziona come un vero e proprio inconscio.’ La proposta di Vaccari è di ‘sostenere un radicale sposta-mento verso lo strumento che deve essere visto come dotato di una propria autonoma capacità di organizzazione delle immagini indipendentemente dall’intervento del sog-getto.’ Il processo è automatico ed autono-mo e procede senza che di volta in volta l’intervento umano debba istituire un codice. La fotografia è una scrittura automatica, in-dipendentemente dalla coscienza del sog-getto: ‘[...] è una consapevolezza che la macchina non mi appartiene, è un mezzo aggiunto di cui non si può né sopravvaluta-re né sottovalutare la portata, ma proprio per questo un mezzo che mi esclude men-tre sono più presente.’ (8)

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Insiste Luca Panaro sull’idea che Vaccari si è sempre orientato verso la ‘desoggettivazione’ e ‘de-personalizzazione’ del prodotto artistico, mirando alla ‘fine dello stile’ e alla ‘disumanizzazione dell’opera’ [...] Vaccari, non è mai stato at-tento alla qualità estetica delle forme e alla visione soggettiva della realtà; egli ha sem-pre occultato se stesso favorendo una at-tenta riflessione concettuale sulle tecnolo-gie utilizzate. Con il concetto di inconscio tecnologico – formulato sulla pratica foto-grafica – Vaccari apre la strada all’estetica della comunicazione, in quanto indica nel mezzo tecnologico uno strumento capace di una azione autonoma non più dipendente dalla volontà soggettiva dell’uomo. (9) La riflessione duchampiana sulla fotografia e ‘le conseguenze all’interno dell’ambito specifico della sua pratica’[...] nell’ossessione per le ombre portate e per le silhouettes, che evocano la preistoria del-la fotografia; nel motivo degli aloni, che per-vade i quadri realizzati nel 1910-11 e che Jean Clair associa agli effetti ricercati dalla fotografia spiritistica; nel movimento del Nu-do che scende le scale, che rinvia palese-mente alle sperimentazioni cronofotografi-che di Etienne-Jules Marey e di Albert Lon-de (con il quale Raymond Duchamp-Villon aveva lavorato alla Salpêtrière); nell’immensa lastra di vetro sensibile che costituisce La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche; nell’uso della fotografia, che interviene in tutti gli autoritratti di Marcel Du-champ; nei diversi esperimenti di ottica, in cui operano congiuntamente prospettiva, movimento, stereoscopia e ‘visione anaglifica’; nell’iperrealtà di Dati, che è una sorta di fotografia a tre dimensioni; e anche nel ready-made, che si vede presentato, nella sua ‘neutralità’ di fondo, come una manifestazione del paradigma fotografico. (10) Considerazioni estetiche sulla fotografia stenoscopica. L’ombra è bella quanto l’albero. Diego Mormorio, a commento della rifles-sione del filosofo indiano Krishnamurti,

scrive: “Quando sedevi nella veranda a guardare dall’alto la vallata, c’erano le lun-ghe ombre del mattino. L’ombra è bella quanto l’albero. Chi ha una qualche abitudi-ne con il fotografare sa di avere a che fare innanzitutto con la luce e le ombre.[...]Per tutti quelli che fotografano, la bellezza dell’ombra è la bellezza della luce. Essi sanno che tutto ciò che il sole illumina vive dell’ombra: in rapporto ad essa. Sa che l’ombra dà profondità alla luce, sottrae le cose alla piattezza e dà ad esse rilievo. Fo-tografare, infatti, significa innanzitutto saper cogliere la combinazione di luce e ombra: saper vedere la luce in rapporto all’ombra e l’ombra in rapporto alla luce. Panta rei: il gioco dell’attimo e dell’eternità. Paul Valery scrisse in L’âme e la dance: “L’istant engendre la forme, et la forme fait voir l’istant” (L’istante genere la forma e la forma fa vedere l’istante). Che cos’è infatti la bellezza se non la forma che esce dal caos? Ovvero, l’aspetto che, di istante in istante, prendono le cose, le quali, in questo processo di continua trasformazione, rendo-no visibile il tempo. Noi percepiamo quest’ultimo solo a partire dalla trasforma-zione delle cose. Per usare l’espressione di Valery: è la forma che fa vedere l’istante. Senza forma, ossia senza la continua modi-ficazione della realtà, non ci sarebbe tem-po, perché vivremmo in un mondo raggela-to, senza vita. La vita è il continuo manife-starsi della forma e del tempo. Ad ogni i-stante, le cose maturano un nuovo aspetto e danno al tempo la forma di una catena infinita. Nessuna cosa vive per essere sem-pre uguale a se stessa: tutto cambia conti-nuamente, senza inabissarsi nel nulla, ma solo mutando.[...] Nessuna arte meglio della fotografia ha mai potuto mettere in luce la transitorietà di tutte le cose: il loro essere parte indissolubile dell’eterno. A ogni suo istante, essa mostra che c’è stato un prima e che ci sarà un dopo di ogni cosa rappre-sentata; che ogni rappresentazione non è altro che un frammento dell’eterno. (11)

I riverberi, il buio, l’imbrunire, il tramonto, il grigiore, la luce fredda del mattino, il desi-derio del sole e della luce, l’atmosfera cupa e la sensazione di incertezza, di precarietà,

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di transitorietà, di incontrollabilità degli e-venti, di passaggio e mutazione continua delle cose; sono tutti elementi che caratte-rizzano alcune opere ( Spettri e L’anitra sel-vatica, Ed. Garzanti 2006) del drammaturgo Henrik Ibsen. Ancora delle interessanti affinità tra la scrit-tura fotografica e quella letteraria in relazio-ne agli effetti estetici delle immagini ottenu-te con la stetoscopia: Schopenauer Il grande filosofo del diciannovesimo secolo disse che per ottenere la giusta prospettiva di un qualsiasi problema dovremmo spo-starci di una cinquantina d’anni nel futuro, rovesciare un telescopio e guardare dall’altra estremità [...]. -Che cos’è un buco?[...] -Lei studia la filoso-fia dei buchi.[...]-Il buco è solo un concetto. (12)

Fotografia dell’intimità, quella stenoscopica, il contrario della finestra sul bordello del mondo, come riteneva Benjamin. Pessoa Gli importava soltanto diventare lo specchio nitidissimo (ma un alone avvolge da ogni lato la nitidezza) dove si riflettessero tutti i pensieri, e l’infinito labirinto di relazioni e di concatenazioni, che formano la vita segreta della mente. Leggendolo, penetriamo nel nostro spazio interiore, e ne conosciamo la trasparenza e la leggerezza: la compene-trazione del sogno, della visione, della real-tà, del pensiero, del fuori e del dentro in una sola e assoluta immagine mentale.[...]

Caeiro (uno degli eteronimi di Pessoa): L’unico senso occulto delle cose

è che esse non hanno nessun senso occul-to,

è più strano di tutte le stranezze e dei sogni di tutti i poeti

e dei pensieri di tutti i filosofi, che le cose siano veramente ciò che sem-

brano essere e non ci sia niente da capire.

Karen Blixen. Con una sapienza che non finiamo di ammi-rare, nei Racconti d’inverno (1942) stese una magica velatura virgiliana, un morbido cristallo alla Poussin o alla Gluck o persino

alla Vermeer, sopra i suoi colori oscuri di una volta. Poi ritagliò uno spazio in ognuno dei racconti: dove incideva un’immobile scena luminosa, un attimo di estasi beata e solidificata, quando “ l’universo appare co-me qualcosa di perfetto per armonia e bel-lezza, e la vita come uno sconfinato stato di grazia.” Alice Munro. La Munro ha due passioni: quella per le de-viazioni narrative e quella per gli spazi bian-chi. [...] all’improvviso, apre uno spazio bianco in un racconto. In quel bianco tra-scorrono anni, decenni: un abisso allontana il presente e il passato: il tempo passa sen-za che nessuno se ne accorga; e noi avver-tiamo, al tempo stesso, il senso della conti-nuità e quello della lacerazione che forma-no il tessuto diseguale della nostra vita. (13) Niente foto al magnesio: per rispetto alla luce, sia chiaro, anche quando non c’è. Al-trimenti il fotografo diventa qualcuno di in-sopportabile aggressività. (14) Il pittore della vita moderna [...] sempre in viaggio attraverso il gran deserto degli uo-mini, [...] cerca quell’indefinito che ci deve essere permesso di chiamare la modernità, giacché manca una parola più conveniente per esprimere l’idea a cui rimanda. [...] La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il con-tingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile. (15) In altre parole, i fondamentali strumenti au-siliari del pensiero: lo spazio, la cosa, l’ambiente, hanno il compito di rappresen-tarci una realtà dinamica e multiforme come se fosse essenzialmente formata da un ma-teriale omogeneo e immutabile.[...] se vo-gliamo essere fedeli all’esperienza reale e non limitarci a costruzioni scolastiche, an-che le configurazioni mentali – lo spazio, le cose, l’ambiente – in qualunque modo noi le costruiamo, sono valide all’interno di un de-terminato cerchio di convergenza e non al di fuori di esso. E tuttavia queste configura-zioni mentali possono essere sempre pro-lungate analiticamente ancora più oltre o condotte al di là dei confini di questo cer-chio, per mezzo di costruzioni, benché di-verse, a loro affini. [...] le cose stesse non sono altro che ‘corrugamenti’ o

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‘raggrinzamenti’ dello spazio [...]. (16) Sul discorso dei tempi lunghi di esposi-zione, i soli che permettono di registrare le tracce. Anche Evans, come Atget, usava la reces-sione prospettica in interni, utilizzando pavi-menti e finestre per suggerire che il corrido-io ripercorreva all’indietro gli anni. Nel 1931, a Saratoga Springs, scattò una fotografia che è il corrispettivo, in un interno, dell’esterno della strada principale della cit-tà intrisa di ricordi.[...] Non solo l’immagine è in grado di contenere il tempo, suggerisce anche che i luoghi hanno una loro intrinse-ca capacità di ricordare. [...] Evans riteneva che questi ricordi potessero essere manipo-lati dalla macchina fotografica. Poteva mo-strare il ricordo durante il processo di for-mazione e, nel farlo, poteva renderlo parte della nostra memoria. In questo modo per-cepiamo non solo il trascorrere, dal punto di vista cronologico, degli anni, ma del tempo psicologico. Tutto ciò non si percepisce co-me una proiezione psicologica da parte dell’osservatore, ma come la capacità di sentire qualcosa che risiede nel luogo stes-so. (17) Joel Meyerowitz: Posso dire che negli ultimi dieci anni ho imparato a fotografare senza guardare - ma non senza vedere. Cammino portando costantemente in spalla, dovun-que io sia, la macchina fotografica. Poi, in un istante, sento di essere entrato in una zona d’energia e mi fermo. Immediatamen-te perdo il mio slancio. Non v’è ragione di avanzare oltre. Non è qualcosa che posso vedere, un mazzo di fiori rossi oppure un singolo oggetto pieno di vita. È un campo di forza in cui entro, che mi impedisce di an-dare avanti. (18) [...] il tempo passa attraverso la sua mac-china fotografica. Ecco perché risulta quasi inconcepibile che una foto come questa possa essere stata scattata con una mac-china digitale. La casa ha impiegato molto tempo a raggiungere questo stato e, per quanto possibile, una sua foto necessita di prendere parte a un processo e a un tempo simili. Guardare la fotografia è come condi-

videre il punto di vista del fotografo che la vide comparire gradualmente nella vaschet-ta dello sviluppo. [...] Il presente si stava trasformando nel passa-to davanti ai suoi occhi. Ogni cosa che ve-deva era una sorta di ricordo di se stessa. (19)

Il tempo lungo è più lungo. Il doppio sen-

so epifanico

La fotografia non è un’immagine in tempo reale. Conserva il momento del negativo, la suspense del negativo. Questo leggero scarto temporale permette all’immagine di esistere in quanto tale, come illusione diffe-rente dal mondo reale. Questo leggero scarto le conferisce il fascino discreto di u-na vita anteriore, cosa che non hanno le immagini digitali o video, che si svolgono in tempo reale. Nelle immagini di sintesi, il re-ale è già scomparso. E per questo motivo, esse non sono più immagini propriamente dette. [...] Nell’illusione generica dell’immagine, il problema del reale non si pone più. È cancellato dal suo stesso movi-mento, che passa subito e spontaneamente al di là del vero e del falso, al di là del reale e dell’irreale, al di là del bene e del male. [...]Lasciare agire la complicità silenziosa tra l’oggetto e l’obiettivo, tra le apparenze e la tecnica, tra la qualità fisica della luce e la complessità metafisica dell’apparato tecni-co, senza fare intervenire né la visione né il senso. Poiché è l’oggetto a vederci, è l’oggetto a sognarci. Il mondo ci riflette, il mondo ci pensa. È questa la regola fonda-mentale. La magia della fotografia sta nel fatto che tutta l’opera la fa l’oggetto. I foto-grafi non lo ammetteranno mai, e sosterran-no che tutta l’originalità sta nella loro ispira-zione, nella loro interpretazione fotografica del mondo. In tal modo fanno brutte foto, o foto troppo belle, confondendo la loro visio-ne soggettiva con il miracolo riflesso dell’atto fotografico. (20)

Probabilmente la fotografia, con l’avvento del digitale e delle sue codificazioni, è giun-ta alla fine del suo percorso e la pratica ste-nopeica costituisce, con la sua moderna obsolescenza, l’ultima vibrazione di rappre-

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sentare un mondo che velocemente si va trasformando nella sua immagine immate-riale. In definitiva è tutta una questione di distanze. La fotografia stenopeica può dare un contributo a che la distanza tra mondo e percezione sia piccola, che ci sia ancora un contatto, una presenza. (21)

Il silenzio e l’ascolto

La predisposizione, ovvero: riprendersi i giusti ritmi di vita attraverso l’azione dei

tempi lenti

Quale che sia l’approccio, in fotografia co-me in psicanalisi, occorre sempre prelimi-narmente ‘fare silenzio’. Fare silenzio den-tro di sé per poter cogliere le sfumature di quel che c’è fuori; le sequenze, i ritmi, i bat-titi del cuore, le infinite eco che richiamano emozioni profonde e si espandono come cerchi concentrici nell’acqua di un lago. (22)

In realtà, la bellezza è la cosa che più ab-bonda nel mondo. Ci vogliono però occhi per vederla: una particolare capacità di sa-per guardare e di saper ascoltare.[...] ‘Guardare e ascoltare sono la stessa cosa’. Ed è soprattutto stando in mezzo alla natu-ra che lo si capisce chiaramente. Cammi-nando in un bosco, la forma e il colore degli alberi si fanno tutt’uno col rumore dei nostri passi e con innumerevoli altri suoni [...] La bellezza non è mai muta, presuppone sem-pre la presenza dell’udito. [...] Quello tra l’occhio e l’orecchio è il più incantevole spo-salizio che ci è dato vivere. Guardare signi-fica sentire, così come sentire significa guardare. Guardiamo profondamente solo quando riusciamo a percepire dei suoni – la musica di ciò che stiamo vedendo – e a-scoltiamo solo quando riusciamo a vedere nei suoni. È passando attraverso la porta di questo sposalizio che riusciamo a penetrare nella grandezza delle ‘piccole cose’ come l’erba, il mare, il cielo, le montagne, il silen-zio, il cinguettio degli uccelli... (23) Nella storia della fotografia la consacrazio-ne ideologica dell'atto predatorio si ha con la coniazione bressoniana della teoria del momento decisivo. Alle riprese stenopeiche meglio si addice il metodo di Paul

Strand:"Strand non persegue un istante, piuttosto incoraggia un evento a manifestar-si come si può incoraggiare una storia a raccontarsi…lavora con molta lentezza…La sua macchina fotografica non è libera di va-gabondare…Il punto in cui decide di collo-carla non è dove sta per accadere qualco-sa, ma là dove verrà riportato un certo nu-mero di avvenimenti…egli trasforma i suoi soggetti in narratori…In tutti i casi Strand, il fotografo, ha scelto il punto dove collocare la macchina fotografica per farle svolgere un ruolo di ascolto." (24)

Ma lasciamo la storia per la filosofia e riflet-tiamo sul fatto che la democraticità, il princi-pio delle pari opportunità viene garantito da un qualcosa di immateriale, di imponderabi-le: un foro, leggero quanto un'idea, un prin-cipio, appunto!, scevro da ogni tecnicismo. Ed è qui che avviene la svolta e, come ve-dremo più avanti, l'aggancio con il mondo orientale. Il tecnicismo, invece, è un prodot-to occidentale teso alla conquista del mon-do esterno; il raggiungimento della felicità e dell'equilibrio interno dipendono dal posses-so dei beni materiali, di consumo. Anche la fotografia ufficiale è inquinata da questo meccanismo di dominio ed è diventata un atto predatorio e di manipolazione più che uno strumento di visione. Tale è sempre stato, ad esempio, l'uso della camera ob-scura:"Proprio ieri, Milord, mentre giravamo attraverso il parco con la camera oscura, lei era, forse, troppo occupato nel cercare qualche pittoresca prospettiva e per questo non ha osservato con attenzione ciò che stava avvenendo." (25) La fotografia stenopeica crea le condizioni (lunghi tempi di esposizione) per un ascolto prolungato del mondo circostante stimolan-do un nostro lento ma efficace passaggio dal guardare al vedere secondo la conce-zione huxleyana per la quale l'arte del ve-dere (la visione) è data dall'insieme sensazione/selezione/percezione.

Guardare e ascoltare l’invisibile

La scomparsa delle lenti aveva trasformato il mondo intorno a lei in un pastoso mélan-ge, come se l’avessero tuffata nella bruma

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più fitta. (26) L’immagine della fotografia non è immedia-tamente la cosa rappresentata. (27) Quello che vedevamo sulle foto sviluppate sembrava venisse da una pellicola diversa. Noi sapevamo bene che aspetto avesse dal vero…(28) Ci sono effettivamente tre tipi di immagine. Le prime sono quelle che vediamo a occhi aperti alla maniera dei realisti, in arte come in letteratura, poi ci sono le immagini che vediamo a occhi chiusi…. Le immagini che Cornell mette nelle sue scatole sono tutta-via di un terzo tipo. Partecipano sia della realtà sia del sogno, e di qualche altra cosa che non ha nome. (29) È la luce, dunque, a condurre in modo su-blime le regole del gioco fotografico. Ma la maggioranza dei fotografi del bianconero, tanto in passato quanto oggi, raramente è davvero consapevole di quello che ha tra le mani, e cioè un modello simulato dell’intera-zione degli elementi all’origine della crea-zione. A saperla ben guardare questa tecni-ca niente niente ci riporta nell’alveo del mi-to....A seconda delle condizioni luminose, gli esseri, le cose possono essere percepiti nella loro tangibilità, riconosciuti nella loro sostanziale materialità e peso, oppure, al contrario, possono comunicare una sensa-zione di evanescenza. Pesanti o leggeri, i corpi possono gravare verso il basso o imu-nalzarsi. Possono apparirci sospesi dentro un fluido o sprofondare dentro una materia indistinta. (30) Certezze impossibili suggerite da immagini mosse, poco chiare, ambigue che vanno oltre, che significano altro da quel che rap-presentano, nelle quali niente si autodefinis-ce, si connota; lo sguardo dell’artista si concretizza mediante un linguaggio e una visione poetici che metaforicamente alludo-no ad una realtà caotica e sfuggente. Allora non possiamo che concordare con Robert Capa : Visto che scrivere la verità è ovviamente tanto difficile, nell’interesse del-la verità stessa mi sono permesso ogni tan-to di andare appena oltre, altre volte di fer-marmi appena al di qua. (31)

Lo specifico stenopeico

L’impiego della tecnica stenopeica (stenoscopio o sténopé) vanta un lungo percorso nel tempo che risale addirittura a qualche secolo precedente l’invenzione del-la fotografia. Dalla camera obscura dei pit-tori tra il XV ed il XVIII sec. si perviene all’unicità del mezzo per una singolare vi-sione artistica del contemporaneo; è il per-corso di uno sguardo diverso o alternativo che può essere adattato ad una specifica progettualità. Le mot sténopé designe le petit trou par le-quel passent en se croisant les rayons lumi-neux. Ils se projetten inversés dans l’obscu-rité et forment l’image. Nul besoin de lentille pour une définition optimale. Il suffit que la taille du sténopé soit proportionnelle à la distance focale. [...] Par extension, le sténo-pé désigne aujourd’hui non seulement le trou, mais aussi la boîte, la chambre, ou même l’image, et la photographie qui en est issue. [...] Cette polysémie s’apparente à la continuité que le photographe ressent au travers du sténopé. En entrant tout entier dans la chambe noire, l’esprit et le corps sont emportés dans une expérience globa-le, sans que l’on puisse être devant ou der-rière de la camera obscura. (32) L’utilizzo naturale del mezzo secondo i ca-noni della fotografia pura (traccia e spec-chio del reale, come veniva intesa dalle ori-gini alla fine dell’Ottocento) lascia lenta-mente spazio alla creazione di forme astrat-te e metaforiche (arte informale, surreale e concettuale). Il tutto comporta che nella fotografia steno-peica si possa riscontrare una sorprendente coincidenza, una tonda corrispondenza tra tecnica ed estetica espressa in termini di valori tonali chiaroscurali e di cromatismi che generano forme di matrice obbiettiva oppure indipendenti dalla realtà oggettiva: comunque in grado di suscitare emozioni e riflessioni attraverso l’uso della possibile sintassi concessa da tale mezzo e l’apporto di contingenti considerazioni estetiche: tutto a fuoco / visione naturale sfocata ai bordi / ripresa grandangolare con risultato iperboli-co / effetto mosso e registrazione dinamica

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con sfumature futuriste della realtà / accen-tuazione dei contrasti e delle ombre (reminiscenze, queste ultime, della specula-zione platonica: della grotta-camera obscu-ra, origine della conoscenza tramite il ricor-do delle forme generato dalla proiezione delle ombre sullo schermo-parete). Inoltre, può diventare uno strumento privile-giato di narrazione (racconto, diario di viag-gio e di vita quotidiana, registrazione di par-ticolari situazioni emotive) che ci offre la sensazione di sentirci immersi nella scena e non superficiali voyeurs nascosti dietro la macchina. La concezione artistica del mezzo che si sostituisce agli interventi del fotografo (gestualità) nella stenoscopia viene portata alle estreme conseguenze dalla pratica de-finita dell’occultamento dell’autore (Vaccari). In fin dei conti, dopo aver attraversato gli immensi oceani dei sofisticati meccanismi contemplati da tutte le macchine fotografi-che, come logica ed inevitabile conseguen-za dei moderni sviluppi tecnici fino al con-temporaneo digitale al servizio della filosofi-a della globalizzazione e del controllo occul-to da parte del potere totalizzante, l’approdare negli angusti fiordi dello sténo-pé o foro stretto significa senza dubbio rein-ventare il medium (Krauss – Benjamin). Seguendo tale principio, per una semplicis-sima ma incisiva didattica della comprensio-ne delle immagini, non esiste alcuna pratica più efficace della sperimentazione stenopei-ca così interpretata: lo sténopé come riap-propriazione della fotografia (Gioli). L’impiego della fotografia come eccellente ausilio didattico veniva raccomandato sin dalla fine dell’Ottocento in alcuni manuali, addirittura fotoamatoriali, come quelli di Lui-gi Gioppi del 1887 e di Giovanni Muffone del 1899. Validi percorsi didattici sono stati efficace-mente sperimentati e collaudati per anni da Dino Zanier nella Scuola Media Statale di Tolmezzo: l’esperienza ha favorito da parte degli studenti la presa di coscienza dei fe-nomeni fisico/ottico/chimici legati alla realiz-zazione di un’immagine; la costruzione da parte degli stessi alunni di un apparecchio

stenopeico ha assunto un significato peda-gogico e formativo privilegiando l’osservazione, l’analisi, le capacità critiche. Non ultima l’esperienza emotiva: i ragazzi hanno vissuto la meraviglia, il mistero, l’incredulità e la magia di realizzare con mezzi minimi una fotografia. La fotografia senza obbiettivo legittimata

come fotografia della totalità o fotografia tota-

le (piena, completa, integrale, incondizio-

nata, illimitata, assoluta, onnicomprensi-va, cosmica)

Nelle due precedenti pubblicazioni relative alla fotografia stenopeica (3), avevo insistito su alcune caratteristiche peculiari della pin-hole photography: il massimo della resa e-stetica con il minimo di impiego tecnologico (il nastro adesivo nero/otturatore anteposto al foro/obiettivo per la regolazione dell’esposizione); una pratica fotografica all’insegna dei principi ecologici e del rispar-mio energetico in quanto tutte le semplicis-sime operazioni necessarie non richiedono consumi di energia; l’affrancamento del fo-tografo-artista dal concetto di cacciatore o predatore di immagini; la meditazione, favo-rita dalla lunga esposizione stenopeica, co-me mezzo di integrazione, di unione, tra il nostro essere ed il mondo circostante. Qui riprendiamo proprio quest’ultimo aspet-to. Il tempo lungo (di esposizione), implicito nella pratica stenopeica, ci introduce al con-cetto di tempo assoluto e propedeuticamen-te ci immette nel flusso universale del tem-po cosmico. Un fenomeno che percepiamo attraverso il lento mutamento dei luoghi, del paesaggio, degli oggetti, delle persone, del-la nostra trasformazione fisica. Diego Mormorio, riprendendo il concetto di Paul Valery secondo il quale L’istante gene-ra la forma e la forma fa vedere l’istante, sostiene in Meditazione e fotografia: Che cos’è infatti la bellezza se non la forma che esce dal caos? Ovvero, l’aspetto che, di i-stante in istante, prendono le cose, le quali, in questo processo di continua trasforma-

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zione, rendono visibile il tempo. [...] Senza forma, ossia senza la continua modificazio-ne della realtà, non ci sarebbe tempo, per-ché vivremmo in un mondo raggelato, sen-za vita. La vita è il continuo manifestarsi della forma e del tempo. Ad ogni istante, le cose maturano un nuovo aspetto e danno al tempo la forma di una catena infinita. Nes-suna cosa vive per essere sempre uguale a se stessa: tutto cambia continuamente, senza inabissarsi nel nulla, ma solo mutan-do. (33) Mettersi seduti a fianco della scatola (macchina) stenopeica e potersi immergere mentalmente e fisicamente nel ritaglio spa-zio-temporale che si offre ai nostri occhi, mentre il paziente piccolo foro (sténopé) registra i non sempre visivamente percetti-bili mutamenti del reale mediante l’azione delle radiazioni luminose che li trasferisco-no sul materiale fotosensibile predisposto, significa certamente vivere un’esperienza fotografica unica e totalizzante. Dunque, è logica conseguenza l’affermazione di foto-grafia totale, che prevede la continuità e l’integrazione del tempo e dello spazio, che include presenza e assenza al pari del pri-ma e del dopo, attribuita alla ripresa steno-peica; al contrario, possiamo considerare come negazione del flusso vitale il selettivo bressoniano attimo o momento decisivo, uno scatto congelante, un clic che blocca nell’istante la continuità del fluire delle cose, delle azioni, del movimento, dei mutamenti. Seduti accanto alla scatola nera, mentre al suo interno il mondo si deposita e lenta-mente si trasforma in immagine latente, ini-ziamo un lento processo meditativo sperduti fra immagini reali e virtuali, vicine e lontane: Meditare è un vedere che rende fruttuoso il guardare. Colui che guarda, infatti, non ne-cessariamente vede. Vedere significa tra-scendere i confini fisici dello sguardo e arri-vare, con la luce della mente, a una precisa consapevolezza. [...] È una sapiente calma che ognuno di noi si porta dentro, ma che nella gran parte dell’umanità è sommersa da distrazioni, superficialità e volontà di po-tere che si agitano come una bufera. Come umani, siamo simili a un oceano in tempe-sta, dove, sotto le acque agitate, quelle pro-

fonde restano calme. Per trovare la sapien-za del vedere, ognuno deve dunque attra-versare e oltrepassare la bufera, ammae-strando la capacità di osservare. (34) Nella mia seconda pubblicazione sulla foto-grafia stenopeica (Clueb, 2006), mi ero al-tresì soffermato sull’importanza del saper vedere, operazione che è strettamente col-legata al saper ascoltare, prendendo spunto dall’omonima opera di Plutarco. In effetti, la meditazione presuppone il silenzio, come del resto lo reclama la stessa azione del vedere in profondità. Giungere all’acutezza dell’occhio significa coltivare l’ascolto ed entrare nel silenzio. In un suo famoso discorso conosciuto col tito-lo Guardate gli uccelli nel cielo; osservate il giglio nel campo il filosofo Sören Kirkegaard ha detto: ‘Solo tacendo si coglie l’istante; mentre si parla, non appena si dice una so-la parola, ci si lascia sfuggire l’istante; l’istante è solo nel silenzio’. Disponendosi a cogliere l’istante, il meditante si pone in a-scolto: sospende ogni giudizio e ogni opi-nione. Semplicemente ascolta e vede l’eternità passare da un attimo all’altro. Se-gue il continuum delle cose. E tra un istante e l’altro, sente giungere al suo orecchio un numero indicibile di suoni. Sperimenta la bellezza del proprio silenzio. (35) Seduti, in silenzio, con gli occhi e gli orecchi in tensione, cogliamo nelle azioni del quoti-diano e nell’intera natura quei lenti muta-menti spazio-temporali come unica entità alla quale apparteniamo anche noi e la no-stra camera obscura.

Sintesi conclusiva La semplicità è il modo migliore di avvici-narsi alle cose, di affrontare i problemi, di proporre soluzioni, di comunicare cogli altri; allora, sicuramente, sarà anche la metodo-logia più appropriata per prelevare immagi-ni dal mondo. La semplicità in fotografia è garantita dallo stenoscopio: dal piccolo foro, dal buco che sostituisce i complicati obiettivi. Con questa procedura, definita stenopeica, la registra-zione della luce sui materiali fotosensibili è diretta, non mediata; quindi, a seconda del-

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le teorie semiotiche a noi più congeniali, possiamo affermare di avere una maggior garanzia che la "traccia" sia portatrice di verità, oppure stabilire che la copia del rea-le risulti più fotocopia. Meno fotocopia di-venterà con il procedimento analogico tradi-zionale e ancor meno con quello digitale (dove la manipolazione può arrivare a far rima con impudenza!). Secondo la concezione sofistica non pos-siamo avere dubbi: se la semplicità (un fo-ro) ci avvicina alla verità, le complicanze, le complessità (lenti) ci allontanano da essa. Sì, è ora di speculare in profondità per dare una veste filosofica ad un inconsistente bu-co nero che si reifica mediante radiazioni luminose. Senza indugi passiamo subito ad asserire che lo stenoscopio è la sintesi (s)materializzata del pensiero occidentale ed il pertugio di collegamento con le dottrine o-rientali. Artisticamente, poi, le opere di tanti autori testimoniano come al basso tasso di tecno-logia dello stenoscopio fa fronte l'alto tasso di concettualità del prodotto finito. La foto-grafia stenopeica entra a pieno titolo nel va-sto filone dell'arte povera, ma ad alto tasso di creatività, dell'arte dai mezzi minimi ma dai contenuti profondi. I mezzi - un buco per tutti - democratizzano la produzione e la proprietà delle immagini. In particolare, proprio nella realizzazione dell'immagine, è solo con lo stenoscopio che possiamo parlare di "pari opportunità". Sì, è pur vero che il foro può essere effet-tuato su un'infinità di materiali più o meno pregiati (vedi la lamina d'oro consigliata da Ansel Adams) con notevoli differenze di co-sto, ma è pur sempre il foro e non il suddet-to materiale che convoglia le radiazioni lu-minose sulla pellicola…mentre altrettanto non si verifica nell'uso degli obiettivi: se un'ottica è costruita con materiali scadenti è certo che l'icona ne soffrirà. riflettiamo sul fatto che la democraticità, il principio delle pari opportunità viene garan-tito da un qualcosa di immateriale, di im-ponderabile: un foro, leggero quanto un'ide-a, un principio, appunto!, scevro da ogni tecnicismo.

Il tecnicismo è un prodotto occidentale teso alla conquista del mondo esterno; il rag-giungimento della felicità e dell'equilibrio interno dipendono dal possesso dei beni materiali, di consumo. Federico Rampini, giornalista e profondo osservatore della vita politica e sociale, ci ricorda come il Bhutan, piccolo paese ap-pollaiato sulle cime dell’Himalaya, abbia e-scogitato un misuratore di benessere alter-nativo rispetto al PIL, in effetti sapientemen-te da anni usa il FIL: Felicità interna lorda. (36) La fotografia stenopeica si oppone all’interpretazione dell’esistenza umana rit-mata dall’edonismo materialista. Introduce una frattura nel mondo artistico ponendosi come una valida alternativa al conformismo dell’arte attuale che prospera sull’effimero, sul contingente, sul relativismo. Ma il ri-schio, a mio avviso in parte già in atto, è che tutto venga fagocitato dal sistema, dal mercato dell’arte contemporanea e si in-stauri il solito conformismo nel nome dell’anticonformismo col marchio del post-modernismo.

Vincenzo Marzocchini

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NOTE (1) Roberto Signorini, Alle origini del fotografico Lettura di The Pencil of Nature (1844-46) di William Henry Fox Talbot, Ed. Clueb 2007, pp. 43-95. (2) Roberto Signorini, ibid. (3) Jean –Christophe Bailly, L’istante e la sua ombra, Ed. B. Mondadori 2010, pp.20-21. (4) Clément Chéroux, L’errore fotografico, Ed. Einaudi 2009, p. 86-87-88-89-91. (5) (6) Clément Chéroux, op. cit., p. 94-95. (7) Mario Costa, Della fotografia senza soggetto, Ed. Costa & Nolan 1997, p. 100. (8) Luigi Cipparrone, Meccanica, fotografia Alla ricerca di un’idea, Ed. Le Nuvole 2006, p. 41. (9) Luca Panaro, L’occultamento dell’autore La ricerca artistica di Franco Vaccari, Ed. APM 2007, p. 125. (10) Georges Didi-Huberman, La somiglianza per contatto Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta, Ed. Bollati Boringhieri 2009, p. 175. (11) Diego Mormorio, Meditazione e fotografia Vedendo e ascoltando passare l’attimo, Ed. Contrasto 2008, pp. 9-10, pp. 54-55, pp. 75-79. (12) Gerard Donovan, Il telescopio di Schopenhauer, Ed. Neri Pozza 2004, pp. 173-174-179, pp. 244. (13) Pietro Citati, La malattia dell’Infinito, Ed. A. Mondadori, pp. 69-76, p. 146, p. 458. (14) Henri Cartier-Bresson, Immagini al volo, Ed. Novecento 2002, p. 11. (15) Charles Baudelaire, Scritti sull’arte, Ed. Einaudi 1992, p. 287-288. (16) Pavel Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, Ed. Adelphi 2001, pp. 19-20-21 (17) Geoff Dyer, L’infinito istante, Ed. Einaudi 2007, p. 6, p. 135-136-137-138, p. 208-209. (18) Francesco Zanot, Il momento anticipato Joel Meyerowitz Richard Misrach, Edizioni della Meridiana 2005, p. 127. (19) Geoff Dyer, op. cit., p. 209-227. (20) Jean Baudrillard, È l’oggetto che vi pensa, Ed. Pagine d’Arte 2003, pp. 10-16. (21) Luigi Cipparrone (cura di, con Vincenzo Marzocchini), Pinhole Italia 2009. Ed. Le Nuvole 2009, p. 10. (22) Carlo Riggi, L’esuberanza dell’ombra, Ed. Le Nuvole 2008, p. 15. (23) Diego Mormorio, Meditazione e fotografia Vedendo e ascoltando passare l’attimo, Ed. Contrasto 2008, pp. 141-142. (24) John Berger, Sul guardare, Ed. B. Mondadori 2003, pp.48-49. (25) Johann Wolfang Goethe, Le affinità elettive, Ed. Biblioteca La Repubblica 2004, p.338. (26) Simon Mawer, La casa di vetro, Ed. Neri Pozza 2009, p. 16. (27) Diego Mormorio, in Alessandro Vicario, Ove dicesi a Novella sopra la montagna presso Arcegno, Ed. Le Ricerche-Ed. d’Arte Severgnini 2010, p.29. (28) Günter Grass, Camera obscura, Ed. Einaudi 2009, p. 28. (29) Charles Simic, Il cacciatore di immagini, Ed. Adelphi 2005, p. 99. (30) Roberto Salbitani, in AA.VV., Padova fotografia 2006, Ed : Il Poligrafo2006, pp. 33-41. (31) Robert Capa, Leggermente fuori fuoco, Ed. Contrasto 2002, risvolto copertina anteriore. (32) Jean Michel Galley/ Elisabeth Towns, Le Sténopé De la photographie sans obiectif, Ed. Actes Sud 2007, pp. 3-4. (33)Vincenzo Marzocchini (a cura di), La fotografia stenopeica in Italia, Ed Clueb 2006; Vincenzo Marzoc-chini, Dalla silhouette all’impronta, in Luigi Ciparrone e Vincenzo Marzocchini, La fotografia stenopeica in Italia, Ed. Le Nuvole 2008. (34) Diego Mormorio, Meditazione e fotografia, Ed. Contrasto 2008, p.54, p. 75. (35) Diego Mormorio, op. cit. p. 93. (36) Federico Rampini, Slow Economy Rinascere con saggezza, Ed. A. Mondadori 2009, p. 7.

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MARCHE/STENOPEICA 2011 AUTORI PRESENTATI

Delio Ansovini Giulia Marchi

Massimo Marchini Vincenzo Marzocchini

Marco Palmioli Enea Discepoli

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DELIO ANSOVINI

Ascoltando I suoni della natura

Di origine marchigiana, da ragazzo, durante le mie lunghe vacanze estive trascorse a Genga, ho iniziato a guardare le rocce, gli alberi contorti e le ombre lungo le cascate del fiume Sentino che fiancheggia Genga, Vallemania e Frasassi. Alla fine dell’estate gli addii ai parenti ed in particolare ai cugini, sono stati sempre difficili per tutti e la nostalgia per questo periodo della mia vita rimane, malgrado gli anni pas-ssati in Canada. Per quaranta anni la fotografia e’ sempre stata un interesse costante, coltivato anche durante il mio lavoro quotidiano come ingegnere. L’ho sempre considerato essenzial-mente un passatempo ma con l’avvicinarsi del momento della pensione e dopo, per la maggiore disponibilità di tempo, l’interesse è andato via via aumentando fino a maturare, con la fotografia stenopeica, un entusiasmo autentico, che si rinnova nel tempo. Progetto e costruisco le mie macchine fotografiche a foro stenopeico, o modifico delle fotocamere antiche. Ciò soddisfa l'impulso di ingegneria per la sperimentazione e il col-laudo, offrendomi una certa sicurezza che gli strumenti siano perfetti prima di impegnarmi alla parte creativa del processo. Il lavoro stenopeico e’ lento, lascia molto tempo alla me-ditazione, consente di vedere veramente il soggetto, la luce, le ombre, i dettagli, lascian-do al foro stenopeico il compito di stabilire un legame con il soggetto. Il resto è pura fede nella capacità di trasferire le immagini colte ad occhio nudo. Durante le diverse stagioni dell'anno mi dedico a fotografare I paesaggi, soggetti astratti e natura morta; tutto molto adatto ad esposizioni lunghe per il foro stenopeico. Fotografo il mio ambiente naturale, preferibilmente lontano dalle zone urbane. L'ambiente rurale, aspro e solitario del Canada non è così diverso dal terreno roccioso, ed impegnativo delle Marche. Durante le lunghe passeggiate sui sentieri solitari osservo la luce, le rocce, gli alberi contorti, le ombre e le cascate d’acqua. La mente mi riporta a decenni fa, tra i sassi di Frasassi.

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In ghiaccio-In Ice C50A220; 4x5S Stenopeica f250; L75mm,d=0.300mm, <90 Diag.; Natura morta; Film: Kodak TMax100; Esposto per 26 minuti; Sogget-to immerso in ghiaccio e fotografato con150W”back light”; Sviluppo del negativo: D-23+PMK 4 minuti ognu-no in un contenitore Unicolor con agitazione continua.

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Botanica invernale- Winter’s botanica C132-1 ; 4x5 VFL-Stenopeica; f175, L=35mm, <130 Diag.; Natura morta; Film: ERA100 esposto per 60 minuti; Close up Back light 150W; 5mm dal soggetto. Sviluppo del negativo: bagno d’acqua 2 min;sviluppatore R09 1+80 per 17min 30sec.”N” .

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Riva primaverile - Spring shore C138-1 ; 4x5 Stenopeica f175, L=35mm, <130 Diag. Grenadier Pond Film: ERA100 esposto per 16 sec.; Sviluppo del negativo : bagno d’acqua 2 min; sviluppatore R09 1+80 per 17min 30sec.”N”

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La corrente- tumbling water C154-3; 4x5 Stenopeica f175, L=35mm, <130 Diag. Parco Beamer; Film: ERA100 esposto per 2 minuti; Sviluppo del negativo : ba-gno d’acqua 2 min; sviluppatore R09 1+80 per 17min 30sec.”N”

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Cieli d’estate-Summer’s skies C164-1 ; 4x5 Stenopeica f175, L=35mm, <130 Diag. Bass Harbor; Film: ERA100 esposto per 4 sec.; Sviluppo del negativo : bagno d’acqua 2 min; sviluppatore R09 1+40 per 13minuti ”N+1”

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Abbraccio d’autunno- Fall’s embrace C180-3 ; 4x5 Stenopeica; f175, L=35mm, <130 Diag. Parco Beamer; Film: ERA100 esposto per 2 minuti; Sviluppo del negativo : bagno d’acqua 2 min; sviluppatore R09 1+80 per 17min 30sec.”N”

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GIULIA MARCHI

Domum Giulia Marchi nasce a Rimini nel novembre del 1976. Attratta dagli studi classici frequen-ta la facoltà di Lettere e Filosofia con indirizzo classico all’Università degli studi di Bolo-gna. La sua innata passione per le arti figurative, ed in particolare per l’arte contempora-nea , la accompagna in una sorta di percorso di crescita culturale parallelo che la dirige con fermezza al mondo della fotografia. Nel 2006 si avvicina all’utilizzo del foro stenopei-co ritrovando pienamente se stessa nelle prerogative che caratterizzano questo sempli-ce artificio , accomunandolo a qualcosa di magico. Costruisce da sola le proprie macchi-ne fotografiche rubando l’anima a scatole di carta o a piccole casse di legno. Per i suoi scatti utilizza materiali analogici in bianco e nero e pellicole polaroid. L’imprevedibilità del risultato , la purezza dell’imprecisione, lo sguardo nudo e diretto, appartenenti a questo genere fotografico le restituiscono una visione della realtà intima ed irreale. Nel 2008 si iscrive al Circolo Fotografico “Cultura e immagine “ di Savignano sul Rubicone e nel 2010 alla FIAF. Partecipa al “Premio Arte 2008” e viene selezionata per la pubblicazione del catalogo “Nuova Arte” edito da Giorgio Mondadori. Nel 2009 partecipa al premio “Arte Laguna” e nel 2010 un estratto del suo Portfolio “In ascolto dell’essere” viene pubblicato sulla rivista “Gente di Fotografia”. Sue fotografie sono conservate presso il MUSINF di Senigallia ed in importanti colle-zioni pubbliche e private.

Mostre personali Dicembre 2007 - Recondita res - Gianfranco hair expression, Bologna Febbraio 2008 - In itinere - Teatro Sociale, Novafeltria Dicembre 2008 - La lentezza dello sguardo - Galleria Arte, Rimini Febbraio 2009 - Visioni silenziose - Queen Outlet, Repubblica di San Marino Aprile 2010 – Domum – Galleria Lanterna Magica, Palermo Mostre collettive: Aprile 2009 – Lo sguardo stenopeico 2 – Ex Consorzio di Bonifica, Savignano Maggio 2009 – Diario quotidiano – Palazzo Ducale, Senigallia Aprile 2010 – Artisti contemporanei a Colonia- Istituto Italiano di Cultura, Colonia Aprile 2010 –La fotografia stenopeica tra didattica e creatività- Circolo Fotografico Carni-co, Tolmezzo Maggio 2010- Terza mostra nazionale di fotografia stenopeica- Palazzo del Duca, Seni-gallia Agosto 2010- Only polaroid- Expo-Ex Giardini Rocca Roveresca, Senigallia Settembre 2010- To reflect –Coaching Culture Gallery, Berlino Novembre 2010 – Rassegna d’Arte Contemporanea – Civica Galleria d’Arte Moderna” Giuseppe Sciortino “ Monreale

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MASSIMO MARCHINI

Nato a Senigallia nel 1957, è da sempre appassionato di fotografia ed ha maturato nel corso degli anni anche numerose esperienze nel settore professionale. E’ uno dei soci fondatori del gruppo fotografico F7 di Senigallia con il quale ha partecipa-to a mostre collettive in diverse località. Particolarmente attratto da ogni tipo di soluzione creativa, sperimenta continuamente nuove tecniche di ripresa e di stampa, riproponendo-le nei suoi lavori. Ultimamente si dedica alla ripresa con apparecchi stenopeici autoco-struiti di vari formati; utilizza le antiche tecniche (gomma bicromatata, cianotipia, carta salata, VanDyke) per la stampa delle fotografie così eseguite. Ha partecipato attivamente alla realizzazione dell’ Osservatorio Italiano per la Fotografia Stenopeica con sede al MUSINF (Museo Comunale d’Arte Moderna e della Fotografia) di Senigallia, del quale è membro del Direttivo e per il quale cura l’allestimento della Mostra Nazionale giunta quest’anno alla IV edizione.

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VINCENZO MARZOCCHINI

E’ nato ad Ancona nel 1948; nel 1971 acquisisce la laurea in Pedagogia ad Urbino. Si occupa di fotografia a partire dalla fine degli anni 1970, in particolare con programmi di educazione all’immagine come docente di materie letterarie e libere attività complemen-tari nella scuola media inferiore. In seguito i suoi interessi si rivolgono agli studi storici, di analisi e critica e soprattutto ai rapporti tra fotografia e letteratura. Successivamente la sua attenzione si focalizza sulla raccolta di immagini d’epoca seguendo il criterio delle tecniche di stampa e di riproduzione con particolare riguardo alla ritrattistica tra Ottocento e Novecento. Fa parte dello staff redazionale della rivista Gente di Fotografia per la quale scrive da diversi anni testi critici. Tra le sue pubblicazioni più importanti: - Letteratura e fotografia. Scrittori poeti fotografi., Ed. Clueb 2005; - La fotografia stenopeica in Italia. Storia tecnica estetica delle riprese stenoscopiche, Clueb 2006; - La storia della fotografia attraverso le tecniche di stampa e le attrezzature di ripresa. Progetto per il Museo storico-fotografico di Montelupone, Comune Montelupone 2006; - La fotografia negli anni ’70, Ed. Associazione Culturale Ars Oficina Artium 2007; - Nel mondo di Pessoa, in Il binomio di Newton Fernando Pessoa ed il suo mondo, Ed. Comune di Loreto 2008; - La fotografia stenopeica in Italia (con Luigi Cipparrone): vol. I- Dalla silhouette all’impronta; vol. II- Sul ‘buco’. Riflessioni e considerazioni; vol. III- Didattica della fotogra-fia stenopeica; vol. IV- Esperienze di fotografia stenopeica, Ed. Le Nuvole 2008; - Pinhole Italia 2009. Autori, notizie, curiosità sulla fotografia stenopeica in Italia, (con L. Cipparrone), Ed. Le Nuvole 2009.

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MARCO PALMIOLI Nato nel 1973, risiedo a Recanati dove lavoro nella mia azienda di infissi. Nel 2004 mi iscrivo al Fotocineclub Recanati del quale dal 2010 sono VicePresidente, nel 2006 alla FIAF e dal 2009 sono membro del Consiglio Direttivo dell’Osservatorio sulla Fotografia Stenopeica Italiana. Dal 2009 tengo degli incontri sulla fotografia stenopeica e dei corsi per le scuole medie locali. FORMAZIONE: Workshop sulla “Fotografia Stenopeica” e “Magia della Polaroid” tenuti da Beppe Bolchi Workshop sul processo di post-produzione e stampa fine art tenuti da Antonio Manta PORTFOLI: “RECANATI IN….MEMORIE ED EMOZIONI” 2008 Progetto collettivo dei circoli fotografici recanatesi 2009 Esposizione durante il 61° Congresso Nazionale FIAF a Recanati

“RECANATI DA UN FORO:” 2007 Collettiva del Fotocineclub “Obiettivo su Recanati” 2008 Pinhole Day: Mostra collettiva naz.le di fotografia stenopeica a Tolmezzo (UD) 2008 Mostra collettiva nazionale di fotografia stenopeica a Senigallia (AN) 2008 Pubblicazione sul volume “AUTORI. Esperienze di fotografia stenopeica” 2008 Segnalazione di merito alla Rassegna “ROVERETO IMMAGINI” del circuito FIAF Portfolio Italia

2008 Mostra collettiva di fotografia stenopeica e donazione al MUSEO DELLA FOTOGRAFIA di MONTELUPONE

2010 Terzo classificato al Premio Pontiggia di Castellanza (VA) e proiezio-ne durante il Festival Fotografico Europeo

“PINHOLE SOUVENIR ” 2008 Collettiva del Fotocineclub “Recanati Fotografa” 2009 Pubblicazione sulla rivista “GENTE DI FOTOGRAFIA” N. 47/2009 2009 Pubblicazione sul volume “PINHOLE ITALIA” 2009 2009 Rassegna fotografica “Foto Marche” a San Benedetto del Tronto (AP) 2010 Pinhole Day: Mostra collettiva naz.le di fotografia stenopeica a Tolmezzo (UD)

2010 Mostra collettiva nazionale di fotografia stenopeica a Senigallia (AN) e donazione al MUSINF

“LEOPARDIANE PROSPETTIVE” 2009 Pinhole Day: Mostra Personale

“DIARIO QUOTIDIANO” 2009 Mostra collettiva nazionale di fotografia stenopeica a Senigallia (AN) e

donazione al MUSINF 2010 Pinhole Day: Mostra personale con esposizione dei lavori dei ragazzi della

scuola media “Patrizi” a seguito dei corsi di fotografia stenopeica. “10 DICEMBRE 2008 – UNA GIORNATA PARTICOLARE NELLE MARCHE”

2009 Pubblicazione immagini sul volume relativo al progetto 2009 Mostra collettiva del progetto a Macerata 2010 Mostra collettiva durante la Rassegna FACE PHOTO NEWS “PENSIERI DI MADRE” 2010 Mostra collettiva e pubblicazione catalogo “Quale Madre?” 2010 Proiezione durante la Rassegna FACE PHOTO NEWS 2010 Mostra collettiva “Only Polaroid” a Senigallia “NIGHT HAPPENING”: 2010 Pubblicazione rivista “FOTOIT” n. 07/2010 2010 Rassegna di fotografia marchigiana

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ENEA DISCEPOLI

Maestro d'arte, diplomato alla Accademia di Belle Arti di Urbino, con specializzazione in Psicologia della forma e tecniche della percezione, è stato allievo del prof. Silvio Cecca-to. La sua attività in campo sociale non lo ha mai distratto dalla passione innata per i viaggi e la fotografia che spesso ha utilizzato per documentare gli aspetti più vicini alle problematiche sociali dei luoghi visitati.

Un ulteriore passo in avanti in campo fotografico è stato, nel corso della sua formazione, la conoscenza di Mario Giacomelli, con cui ha collaborato per lungo tempo. Fonda lo Studio Zelig nella seconda metà degli anni Ottanta, pioniere delle Arti-terapie, ambito in cui lavora ininterrottamente fino ad oggi con soggetti disabili fisici e psichici. L’esperienza in campo stenopeico lo vede impegnato, con la sua tenace capacità di sondare, nella co-noscenza del nuovo, la sua creatività.

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Vicolo

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La camera di mia madre

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Autoritratto

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La Simona

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