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FORMARE, CONNETTERE, INNOVARE Come consolidare il cluster ICT pratese Rapporto di ricerca Marco Betti Alberto Gherardini ù

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FORMARE, CONNETTERE, INNOVARE

Come consolidare il cluster ICT pratese

Rapporto di ricerca

Marco Betti

Alberto Gherardini

ù

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Introduzione. La prima candelina del cluster pratese dell’Ict

Il secondo report sul cluster Ict pratese si pone inevitabilmente in stretta continuità con

il rapporto redatto lo scorso anno. Quella ricerca permise infatti di gettare luce su un

fenomeno allora poco conosciuto: la presenza a Prato di un grappolo di imprese

afferenti al cosiddetto settore dell’information e communication technology.

Nel descrivere il fenomeno, sul piano della sua consistenza numerica e su quello delle

caratteristiche delle imprese e degli imprenditori, quel rapporto aveva messo in

evidenza l’evolversi di una trasformazione significativa per la città ma non certo insolita

per un sistema economico avanzato come quello pratese. L’Italia, la Toscana e Prato

hanno partecipato al cambiamento radicale che, a partire dagli anni ’80, ha condotto

alla smaterializzazione e alla digitalizzazione delle attività produttive, nonché

dall’orientalizzazione della value chain. In questo scenario, meccanismi spontanei di

competizione e adattamento, presenza di fattori contestuali che hanno agevolato la

localizzazione, come la disponibilità di immobili a basso costo e centralità rispetto

all’area metropolitana, oltre a fenomeni di costruzione comunitaria delle competenze

specifiche e imprenditoriali, hanno condotto alla gemmazione di una molteplicità di

imprese specializzate nella produzione e fornitura di prodotti e servizi come quelli Ict,

potenzialmente in grado di innescare il cambiamento nei sistemi produttivi locali.

In un contesto come quello pratese, riconosciuto per la densità di attività produttive e

per il suo tasso di imprenditorialità, la nascita di imprese dell’Ict non poteva che

prodursi a un ritmo intenso. Nel 2009 si contavano a Prato 2.100 addetti a unità locali

afferenti a settori che possono essere inclusi nel così detto global digital market, un

aggregato di specializzazioni composto da attività manifatturiere, di servizio e di

produzione di contenuti legate a stretto giro con le tecnologie dell’informazione e della

comunicazione. Il cluster di 821 unità locali censite dall’Istat nel 2009 era evoluto

seguendo alcuni trend internazionali tipici di questi settori: iniziale nascita di imprese

dedicate alla costruzione di hardware; graduale smaterializzazione del settore, con

conseguente specializzazione nei servizi informatici e nella programmazione di software

e, infine, con l’avvento dell’economia internet-based, progressiva compenetrazione delle

imprese del settore Ict da parte dei portatori di competenze specialisticiche, come

video-maker, professionisti nel multimedia, ma anche copy writer o altre figure di

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esperti, in grado di riempire le pagine web di contenuti appetibili a consumatori

telematici onnivori.

Nel 2009, l’80,5% dei 2.100 addetti pratesi era impiegato nei servizi Ict, sia in segmenti a

più scarso valore aggiunto – come l’elaborazione dei dati, le attività di hosting o la

realizzazione di portali web – sia in una fascia più alta della catena del valore – come nel

caso della produzione di software. Rispetto all’area metropolitana, la specializzazione

pratese risultava dunque meno legata alle attività dell’Ict manifatturiero (es.

fabbricazione di apparecchiature di telecomunicazione) e, allo stesso tempo, meno

esposta all’integrazione tra consulenti informatici, programmatori, ottimizzatori di

ricerche web e produttori di contenuti. In particolare, il sistema locale del lavoro di

Firenze non solo contava 10 volte gli addetti pratesi, ma la loro distribuzione era più

spalmata nel sottogruppo manifatturiero e in quello dei contenuti da digitalizzare.

D’altra parte, se la maggiore attrattività del capoluogo toscano per redattori di contenuti

non rappresentava una novità (vista anche la nota presenza di un cluster di attività

editoriali e l’attrattività che le città d’arte e quelle di scala metropolitana esercitano su

questo tipo di figure professionali e sui creativi), un’analisi georeferenziata l’Ict

manifatturiero metteva in luce la sua collocazione nell’area del sistema locale del lavoro

fiorentino confinante con quella pratese. In altre parole, se visto da più lontano il cluster

pratese, specializzato prevalentemente nei servizi informatici, può trovare

specializzazioni complementari nell’area vasta della Toscana centrale.

A partire da questo quadro abbiamo anzitutto cercato di valutare la consistenza del

cluster utilizzando i dati del Censimento dell’industria e dei servizi del 2011. Per quanto

concerne le imprese, nel 2011 si contavano 728 aziende, principalmente legate alla

fornitura dei servizi e, con una distanza maggiore, dei contenuti; marginale risultava

invece la manifattura. Spostando l’attenzione agli addetti la situazione non cambia: il

cluster occupava poco meno di 1.800 lavoratori, l’81% dei quali veniva impiegato nei

servizi. Si tratta di una situazione in linea con quella del 2009 che sembra mostrare

come, durante la crisi economica, nonostante la contrazione del numero di imprese, il

sistema locale non abbia modificato la propria struttura produttiva.

Tabella 1 - Imprese e addetti dell'ecosistema digitale

Sll FI Sll PO Sll PT

Imprese Addetti Imprese Addetti Imprese Addetti

Contenuti 758 1.892 144 270 69 149

Manifattura 95 3.646 21 70 4 24

Servizi 1.572 6.325 563 1.457 206 571

Totale 2.425 11.863 728 1.797 279 744

Fonte: Istat, Censimento Industria e Servizi 2011

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Utilizzando una stima1 dei dati Istat del 2009 possiamo inoltre descrivere la recente

evoluzione delle imprese e degli occupati all’interno dei singoli settori2. Rispetto al 2009,

infatti, si osserva una contrazione delle attività a minor valore aggiunto (come

l’elaborazione di dati, la fornitura di portali web e le attività di hosting) che, come

abbiamo visto, caratterizzavano il sistema locale di Prato, mentre crescono le attività più

pregiate, come la produzione di software o la consulenza informatica. Con le dovute

cautele possiamo quindi osservare un consolidamento delle attività a maggior valore

aggiunto.

Fig. 1 – Ecosistema digitale, addetti alle imprese del SLL di Prato. Confronto 2009-2011

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat, Censimento Industria e Servizi 2011 - Asia

A questo proposito, dobbiamo mettere in evidenza due elementi rilevanti. Il primo, di

natura quantitativa, si concentra sul numero di imprese e di occupati nei tre territori

presi in esame. Come possiamo notare, nel contesto metropolitano, il ruolo di vertice è

1 I dati Asia 2009 erano infatti riferiti alle unità locali. Così, per poter confrontare i dati sulle unità locali del

2009 con quelli sulle aziende del Censimento 2011, abbiamo ipotizzato una sostanziale stabilità del rapporto tra unità locali e imprese a partire dai dati Asia 2006. Nonostante il confronto non permetta una comparazione completa delle aziende presenti, esso può comunque rappresentare una stima utile per comprendere le trasformazioni intervenute nel biennio 2009-2011. 2 Concentrandosi solamente su 2 settori (62: produzione di software, consulenza informatica e attività

connesse; 63 elaborazione dei dati, hosting e attività connesse, portali web), un andamento simile può essere riscontrato anche a partire dai dati della Camera di Commercio.

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occupato dal sistema locale del lavoro (Sll) di Firenze. Questo risultato non deve tuttavia

trarre in inganno. Abbiamo prima anticipato come tra le città di Prato e Firenze esista

uno spazio intermedio dove si concentrano numerose imprese (soprattutto della

manifattura3) che, pur appartenendo dal punto di vista statistico al Sll fiorentino, sono

localizzate in una posizione intermedia. Ciò significa che per indagare il fenomeno

dell’ecosistema digitale, le lenti amministrative non sembrano le più adeguate in quanto

incapaci di cogliere le dinamiche metropolitane. Il secondo punto, invece, ha una natura

prevalentemente qualitativa: in altre parole, oltre al numero delle imprese contano

anche le loro caratteristiche in termini di ampiezza dei mercati, specializzazione e

innovatività. In questa prospettiva, non potendo limitarci ai soli valori assoluti, abbiamo

cercato di mettere in evidenza alcuni dati sulle prospettive di bilancio e sulle proprietà

delle reti – formali e informali – che le aziende strutturano tra loro. Queste analisi

mostrano come, tutto sommato, le imprese che affollano i segmenti di maggiore qualità

dei servizi Ict siano riuscite, meglio delle altre, a superare la crisi economica recente.

Le indicazioni del censimento trovano conferma anche nei risultati della survey

somministrata lo scorso anno alle aziende Ict dell’area metropolitana Firenze-Prato-

Pistoia, in cui risultava che più della metà delle imprese pratesi coinvolte mostrava

fatturati crescenti rispetto a quelli pre-2007, anno a cui convenzionalmente è fatta

risalire la crisi economica, e che le stesse avevano floride prospettive di crescita. D’altra

parte, il saldo mostrato dai dati Istat tra il 2009 e il 2011 è negativo. Circa il 5% delle

imprese del cluster pratese hanno infatti cessato la loro attività, specialmente nei servizi

informatici a minor valore aggiunto. In questo caso, il combinato disposto di contrazione

della domanda locale e aumento della concorrenza, tipico dei periodi di crisi economica,

ha prodotto una selezione tra imprese più forti e competitive e imprese meno

dinamiche e quindi più esposte alla concorrenza. Del resto, questa “doppia velocità” non

ci stupisce particolarmente. Già con la distinzione tra imprese imbrigliate e imprese

predatrici, utilizzata nello scorso rapporto, si voleva distinguere tra aziende con una

spiccata dipendenza dalla domanda locale e aziende più indipendenti, più connesse con

settori dinamici (come la meccatronica o le telecomunicazioni) e, di conseguenza, meno

suscettibili alla grave crisi economica della città. I dati 2011 mostrano dunque che

all’interno del cluster Ict le imprese viaggiano a due velocità differenti: quelle che sono

riuscite a specializzarsi in nicchie di mercato hanno saputo trovare sbocchi nazionali e

internazionali mentre le altre hanno perso posizioni di mercato.

3 Per fare un esempio, il dato sulla manifattura nel SLL di Firenze comprende una grande azienda nel comune

di Campi Bisenzio che occupa buona parte dei soggetti operanti nel settore.

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Il tema delle politiche, tra passato e futuro.

Il rapporto del 2011 aveva messo in evidenza come il cluster Ict fosse cresciuto in

assenza di una guida istituzionale, capace di rappresentare e sostenere le nuove aziende

del settore. A questo proposito, gli imprenditori lamentavano la scarsa attenzione che gli

attori collettivi (associazioni di categoria e governi locali) avevano dedicato a questo

nuovo tipo di imprese. Ciò non significa tuttavia che nel tempo non siano state

sperimentate politiche pubbliche innovative, volte a sostenere la trasformazione del

sistema locale. Il tema del cambiamento tecnologico non è infatti nuovo per le aree di

piccola impresa come quella di Prato. Già negli anni settanta, con la nascita di

Tecnotessile e del Consorzio Centro Studi, e nei decenni successive, con le riflessioni

sulle politiche per l’innovazione4, si erano accesi i riflettori sulle trasformazioni del

distretto e, in particolare, sulle strategie di riaggiustamento e sulla diffusione delle

tecnologie informatiche all’interno dell’industria tessile5. I limiti più rilevanti delle

politiche locali derivavano però dal fatto che ogni intervento aveva come principale

interlocutore le aziende tessili del territorio, ponendosi quindi in una posizione di

strumentalità rispetto alla specializzazione tradizionale. In altre parole, le politiche

pubbliche, seppur di ampio respiro, non sono state focalizzate sulla promozione di un

settore autonomo e in parte scollegato da quello tessile, ma hanno favorito azioni

congiunte che nel tempo hanno legato le aziende Ict locali agli andamenti del comparto

manifatturiero.

Tra gli interventi di maggiore interesse, sia per il respiro strategico che in termini di

innovazione istituzionale, il progetto Sprint (Sistema Prato Innovazione Tecnologica),

promosso da Enea, UIP, CNA e Associazione mandamentale dell’artigianato pratese, ha

rappresentato un caso di assoluta rilevanza. Il progetto nasce nel 1983 con lo scopo di

“favorire l’innovazione tecnologica e organizzativa del sistema economico e produttivo

dell’area”. Tre sono le linee di intervento. La prima, definita “Progetto telematica”,

intendeva dotare Prato di “una rete di servizi telematici per facilitare la circolazione delle

informazioni tra gli operatori locali e fra questi e alcuni interlocutori esterni”. Gli esiti,

anche a causa dei conflitti tra i soggetti operanti nel sistema locale, non sono stati

tuttavia soddisfacenti. La seconda linea di intervento riguardava invece il “Progetto

Infratecnologia”. In questo caso, l’obiettivo era quello “di introdurre nel sistema

produttivo pratese soluzioni avanzate […] sviluppate anche in ambiti diversi dal tessile”.

Infine, per quanto concerne le iniziative promosse nel campo della R&S, possiamo

4 Isfol (1988), Le relazioni industriali nelle aree innovative in Italia. I casi di Tecnocity, Tecnopolis e Sprint,

Roma, Franco Angeli. 5 Bellandi M. e Trigilia C. (1991), Come cambia un distretti industriale: Strategie di riaggiustamento e

tecnologie informatiche nell'industria tessile di Prato, In “Economia e Politica Industriale”, vol. 70, pp. 121-

152, Roma, Franco Angeli.

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menzionare il Progetto Cad, la robotica, il Progetto Tintoria e quello Energia-Ambiente.

L’avvio delle attività previste è stato tuttavia molto più lento di quanto ipotizzato,

ottenendo scarsi risultati dal punto di vista concreto6.

Poiché i contributi precedenti hanno messo in evidenza alcune criticità riconducibili a

situazioni di stallo e di lock-in del sistema locale, nello scorso rapporto, a partire dalla

letteratura sul settore, avevamo indicato alcuni suggerimenti di policy utili per

consolidare il cluster pratese e favorire la crescita di quello metropolitano. Tra gli

interventi presentati, avevamo richiamato la necessità di consolidare il tessuto

produttivo esistente, anche valorizzando le risorse economiche locali non utilizzate. Il

passo successivo è stato quello di provare a discutere tali suggerimenti coinvolgendo

direttamente gli imprenditori all’interno di focus group. L’obiettivo di questo rapporto,

infatti, è quello di fornire un quadro di interventi che, a partire dalle analisi di contesto,

risulti coerente con le aspettative delle imprese. Agli incontri hanno quindi partecipato

imprenditori differenti ma riconducibili ai due tipi di imprese prima richiamati: da lato

troviamo le imprese “predatrici” (descritte nel primo capitolo), ovvero aziende con reti

più lunghe e con una minore dipendenza dalle specializzazioni locali e, dall’altro, le

imprese “imbrigliate” (presentante nel secondo capitolo) che mostrano invece una

maggiore simbiosi con il territorio. Si tratta, in questo caso, di aziende più dipendenti dal

tessuto produttivo locale e quindi più soggette alle evoluzioni della congiuntura

economica.

I temi affrontati nei confronti sono stati principalmente tre. Il primo, che ha messo al

centro la dimensione territoriale, aveva l'obiettivo di sviluppare un ragionamento sui

punti di forza e debolezza del territorio a partire dalle caratteristiche delle singole

imprese. Il secondo, invece, ha cercato di descrivere le criticità del mercato del lavoro

locale affrontando, più in generale, il tema della formazione (sia secondaria che

universitaria). Il terzo tema, infine, si è focalizzato sulle innovazioni non realizzate. In

altre parole, abbiamo chiesto agli imprenditori di parlare dei progetti ritenuti meritevoli

ma che, per cause interne, legate alla struttura e l'organizzazione aziendale, o esterne,

connesse con le caratteristiche del territorio, non sono stati portati a termine. Ragionare

sull'innovazione non realizzata consente infatti di affrontare il tema delle politiche per il

consolidamento del cluster. L'ultimo focus group, integrato da una serie di interviste in

profondità, ha infine riguardato il tema delle competenze degli studenti e, più in

generale, della formazione (capitolo tre). Il confronto con gli imprenditori ha infatti

confermato alcune criticità già emerse nel precedente rapporto a proposito delle

caratteristiche delle risorse umane presenti sul territorio. In questa prospettiva, la

presenza di competenze (sia di base che trasversali) non adeguate e il fragile legame con

il mondo delle imprese degli istituti superiori e dell’università, compromettono da un

6 Isfol op. cit., pp. 130-156

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lato, il consolidamento e la crescita del settore e, dall'altro, ridimensionano le chance

occupazionali e la propensione all'imprenditorialità degli studenti. Il rapporto si

conclude con alcuni suggerimenti di policy che, a partire dalle caratteristiche istituzionali

del contesto, si sviluppano lungo tre assi di intervento: formazione, connessione,

innovazione.

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1. Un ecosistema per le imprese predatrici

Le imprese dell’information e communication technology del contesto pratese possono

essere classificate in quattro tipi ideali a seconda del loro posizionamento lungo due

assi: da un lato, la quota di mercato extralocale posseduta in confronto alla quota locale,

dimensione questa evidentemente condizionata dall’esposizione dell’azienda rispetto al

settore tessile-abbigliamento; l’altra dimensione polarizza invece l’età dell’impresa e

dell’imprenditore. Questo secondo indicatore aiuta non soltanto ad approssimare la

solidità economico-finanziaria dell’azienda, ma anche l’appartenenza cognitiva degli

imprenditori a mondi tecnologici in continua evoluzione, da approcci hardware based,

ad altri software based, per arrivare a quelli internet and mobile based. Già nel

precedente rapporto, due dei quattro tipi costruiti con l’esercizio tipologico accennato,

quelli delle imprese con quote di mercato extralocale superiori alle quote locali, sono

stati etichettati come imprese predatrici, locuzione che evoca la propensione di queste

imprese alla crescita e alla conquista di nuovi mercati. All’interno di questo gruppo,

seguendo la seconda dimensione proposta, si può poi distinguere tra un binomio di

imprese meno recenti, che negli anni hanno saputo crescere fino a divenire player

nazionali, e una nuvola di altre imprese, anch’esse fortemente competitive anche al di

fuori del contesto pratese, ma di più recente costituzione.

Le imprese predatrici sono pertanto caratterizzate da una maggiore propensione

all’innovazione, da una forte specializzazione in nicchie di mercato, dall’impiego di forza

lavoro qualificata, da un’organizzazione aziendale più terziarizzata, ovvero più attenta

alla ricerca e sviluppo, al marketing e alla distribuzione di prodotti e servizi. Queste

attività imprenditoriali hanno subito meno di altre la crisi economico-finanziaria e,

seppur in un quadro di minore espansione rispetto al passato, manifestano prospettive

di crescita nel medio periodo. Le imprese meno giovani, fondate negli anni ’80, sono

quelle più consolidate, tanto da avere un numero di dipendenti superiore alle 100 unità

e un fatturato di una decina di milioni di euro. Una delle due imprese che fanno parte di

questo gruppo ha meritato in passato premi nazionali per l’innovazione, che ha

riconosciuto la trentennale attività di distribuzione e assemblamento di hardware e

soluzioni sistemiche complesse. L’altra è un’impresa localizzatasi solo di recente a Prato,

è quotata in borsa, vanta un’intensa attività di ricerca e sviluppo, molteplici

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collaborazioni con centri di ricerca regionali e extraregionali e, infine, dispone di

collaborazioni privilegiate con grandi clienti nazionali e internazionali. Le imprese più

giovani sono ovviamente più piccole, sia come personale che come fatturato,

nonostante questo sia in molti casi consistente e in forte crescita. Si tratta di leader

nazionali nei linguaggi di programmazione, di imprese di sviluppo di software e firmware

open source per grandi imprese italiane, di imprese leader nell’informatica applicata ai

beni culturali, di aziende strategicamente specializzate nelle applicazioni mobili e nello

sviluppo di gestionali per imprese del settore finanziario. Non mancano infine

webdesigner che, sfruttando la loro vena creativa e le loro relazioni, estendono la loro

presenza anche su mercati nazionali ed esteri.

Per quanto diverse, specialmente sul piano delle disponibilità finanziarie e della capacità

di investire in attività di ricerca, queste imprese hanno molti aspetti in comune: dalla

necessità di beni collettivi che possano accrescerne la competitività al bisogno di un

sistema formativo che sappia adattarsi progressivamente all’evoluzione tecnologica.

Inoltre, le aziende mostrano una forte esigenza di competere attraverso processi

innovativi che passano sia da vie interne e che da vie esterne.

Di seguito riporteremo i risultati di un focus group realizzato con 7 imprenditori afferenti

a questo idealtipo di imprese e di 10 interviste in profondità realizzate con gli

imprenditori tra il 2012 e il 2013.

1.1. Forza e limiti della città degli stracci

Gli imprenditori danno un giudizio positivo del contesto industriale pratese:

estremamente flessibile, con un’elevata cultura imprenditoriale, dotato di buoni servizi,

facilmente accessibile da tutta l’area metropolitana, con disponibilità di spazi industriali

a costi ridotti. Alcune delle imprese più innovative si sono localizzate nell’area pratese

per poter sfuggire ai costi di congestione di Firenze (es. traffico, costo degli affitti e degli

immobili industriali). Inoltre, contrariamente alla sua dimensione effettiva, Prato è

percepita come una città piccola, dove le persone si conoscono e le relazioni tra

imprenditori sono strette. Questa percezione, sicuramente riconducibile all’intensità di

relazioni tra la moltitudine di imprenditori che hanno da sempre costituito l’elemento

distintivo della storia distrettuale della città, innesca, tuttavia, delle attese relazionali

che non trovano riscontro nella realtà. Le collaborazioni effettive tra le aziende del

cluster Ict, e tra queste e le altre aziende nel contesto pratese, non sono infatti intense.

Le aziende più isolate, ma estremamente connesse sul piano regionale e nazionale, sono

soprattutto quelle che si sono localizzate solo di recente nell’area pratese. Il carattere

intangibile dei servizi Ict permette infatti loro di servirsi del territorio come di una

piattaforma per la conquista del mercato metropolitano e nazionale. Viceversa, le

imprese fondate dagli imprenditori locali gestiscono reticoli densi, sia sul piano locale

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che su quello extra-locale. Tuttavia, difficilmente le reti sociali corte, generatesi per

appartenenza ad una comunità distrettuale, si sono fino ad oggi trasformati in occasioni

di collaborazione industriale fattiva.

“Io è tanti anni che conosco Riccardo, ogni volta che ci si vede si dice

facciamo qualcosa insieme, ma ogni volta non si riesce, perché ognuno è

concentrato sul suo.” [imprenditore 5].

“Che ci conosciamo è vero ma da lì a fare collaborazione è un altro discorso.

Che esista la relazione non significa che ci sia collaborazione” [imprenditore

1].

“La conoscenza personale è elevata, ma vi è poi difficoltà a condividere i

progetti di business quindi a fare sinergie qui all’interno del territorio

pratese” [imprenditore 2].

La scarsa capacità di mettersi in relazioni di mercato non è tuttavia dovuta alla chiusura

aprioristica delle imprese a collaborazioni esterne. Solo in un caso abbiamo riscontrato

una strategia di autosufficienza e autopoiesi, ovvero un affidamento esclusivo sulla

capacità delle risorse interne nel rinnovare le sfide provenienti da commesse esterne di

imprese esigenti. Al contrario, le imprese predatrici sperimentano continuamente

collaborazioni con altre imprese. Gli esempi nel contesto pratese sono molteplici: si ha il

caso della collaborazione sistematica tipica di chi costruisce regolarmente partenariati

per rispondere a bandi pubblici nazionali per la valorizzazione di plessi museali; relazioni

più strutturate tra imprese che appartengono alla stessa holding , collaborazioni tra

imprese e professionisti del settore – locali e extra-locali – volti a soddisfare i picchi del

mercato e la carenza di competenze non disponibili.

Si possono poi elencare le relazioni tra il contesto produttivo le università e i centri di

ricerca che riguardano sia la formazione e il reclutamento di giovani qualificati sia le

attività di ricerca e sviluppo congiunta. Date le caratteristiche delle politiche pubbliche

regionali in materia di innovazione, che recentemente hanno finanziato

sistematicamente la costituzione di partenariati di impresa e università, in questi ambiti

la dimensione relazionale è spesso mediata dalla disponibilità di finanziamenti pubblici.

In proposito, alcuni degli attori ascoltati mettono in luce che questi progetti hanno

spesso il limite intrinseco del carattere strumentale delle collaborazioni:

“Io ho partecipato [a un bando], c’è un obiettivo e richiede competenze

diverse, finito il bando si torna a casa. […] Si fa squadra, ma il progetto viene

segmentato da A a Z, ma poi io faccio da A a B e le mie competenze

rimangono lì. Te ti agganci con i tuoi fili al mio output e poi si va avanti:

questa non è collaborazione, non crea sinergia, si spezzetta un progetto, è

una logica di messa a sistema di un progetto, ma è una collaborazione

strumentale” [imprenditore 7].

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O, in alternativa, manifestano apertamente la tipica difficoltà a conciliare le diverse

esigenze degli attori che partecipano al finanziamento:

“Il problema dei progetti congiunti è che sono sempre un compromesso, è

questo il limite vero, non è uno strumento che per tutti è chiaro che deve

portare a supportare qualcosa che va sul mercato. I compromessi sono tra le

esigenze aziendali e quelle di ricerca delle università […]. Tante volte questi

progetti rappresentano per l'università, che in questo momento sta

passando una situazione difficile, delle occasioni per finanziare assegni di

ricerca, che va anche bene, l'azienda è disposta a investire, ma poi dipende

da quel è il risultato. A noi interessa il time to market” [imprenditore 5].

Le imprese confermano, tutto sommato la loro natura di attori relazionali, ma hanno

ben chiaro che il capitale sociale che detengono, così denso in una realtà distrettuale

come Prato, potrebbe fare da leva per opportunità più ampie, in grado di superare le

collaborazioni ordinarie. Per tale ragione, le imprese predatrici esprimono

esplicitamente l’esigenza di un soggetto esterno che sappia orchestrare queste reti,

possa dare loro continuità agli accordi presi e, infine, che abbia una funzione di

forecasting tecnolgico.

“Serve qualcuno che dia continuità, che sia incentivato a coinvolgere le

aziende a proporre progetti e non che si fermi a una collaborazione come

adesso, che sento Riccardo alle 7 di mattina e mi dice: proprio te, c’ho un

progetto che ti può coinvolgere. Serve un esterno che dia una certa

continuità” [imprenditore 1 ].

“La relazionalità personale va bene, proviamoci, andiamo a cena insieme, è

comunque importante perché ci da credibilità e autorevolezza, ma quello

che serve è una relazionalità a livello di impresa, che serve a collaborare

verso un obiettivo che qualcuno ci dice sia quello giusto” [imprenditore 5].

Le potenzialità per l’attivazione di queste relazioni sono poi elevate nella misura in cui il

timore di comportamenti opportunistici non scoraggia la propensione alla

collaborazione di queste aziende. Trattandosi di imprese molto specializzate

(verticalizzate nel linguaggio degli intervistati) non sembrano avere preoccupazione nel

svelare le proprie capacità:

“Noi non abbiamo segreto industriale, anzi, da un lato facciamo R&S per

altre aziende, dall’altro adottiamo la logica dell’open source formando

centinaia di persone all’utilizzo di alcuni linguaggi” [imprenditore 3].

“Noi abbiamo competenze verticali, confrontarci con altre competenze

potrebbe essere utile per avviare nuove collaborazioni” [imprenditore 4].

“Se io devo condividere con un competitor i miei asset a maggior valore

aggiunto certamente ho timore, non lo faccio […]. Se poi i devo condividere

con qualcuno con cui non ho niente da spartire allora ho timore. Ma se si ha

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un obiettivo comune nel quale il gioco non è a somma zero allora va bene

[…].Gli obiettivi e i mercati sono talmente vasti che la paura della

competizione è veramente stupida” [imprenditore 5].

Viceversa il problema del free riding sembra porsi maggiormente per le imprese meno

mature. In particolare, queste sembrano maggiormente esposte al timore che altri

possano defraudarle della loro idea. Questo atteggiamento di chiusura da parte delle

imprese più giovani alle collaborazione strategiche è amplificato quando si tratta di

collaborare con imprese più grandi, non percepite come pari. Questo tipo di

collaborazioni sono invece fortemente cercate da imprese consolidate, che vedono nella

collaborazione per vie esterne con giovani imprese innovative una strada per accrescere

la loro competitività:

“Per noi è davvero difficile mettersi si in partnership con molte startup,

piccole imprese che fanno ricerca all’interno dei poli o degli incubatori. Anzi

di solito queste imprese sono chiuse nel mettere sul tavolo le loro

competenze, proprio per paura della grande impresa possa sfruttarle. La

difficoltà della relazione con queste strutture è questa: i piccoli hanno un

tasso di innovazione elevato ma hanno paura, le grandi hanno grandi

competenze commerciali ma magari una carenza nell’innovazione nella

capacità di fare ricerca e sviluppo che tanto costa all’imprenditore”

[imprenditore 2].

Anche in questo caso appare dunque centrale la presenza di un mediatore che sappia

generare fiducia tra imprese di diversa dimensione. Tuttavia, le imprese oggi non

riescono a individuare nel contesto degli attori pubblici locali dei soggetti in grado di

svolgere questo ruolo. Già nel rapporto 2012 si era più volte messo in una sfiducia

generalizzata verso le istituzione locali. Da un lato, alle associazioni di categoria non è

quasi mai riconosciuta la capacità di aggiungere fattori di competitività al settore.

Dall’altro, gli attori del governo locale sono tacciati di eccessivo conformismo rispetto

all’identità tessile della città o, nel caso in cui questi effettuino cambi di passo nella

promozione dell’innovatività, le loro iniziative sono giudicate scarsamente efficaci.

“C’è un progetto per un laboratorio tecnologico nel Creaf. Ma c’è una

polemica politica incredibile, destra contro sinistra, che a noi non interessa.

Abbiamo mandato una proposta concreta scritta, su richiesta del Creaf,

dicendo che siamo disponibili a prendere in affitto 500 metri quadrati per

occuparlo con le nostre strutture; eravamo disponibili ad usare aule e

auditorium, fare eventi. Insomma, animare un carrozzone con un servizio

utile. Ma non ci hanno nemmeno risposto alla mail e adesso, a distanza di

mesi, continuo a leggere sul giornale che la struttura non è pronta

[imprenditore 3].

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16

Alla sfiducia nei confronti dei governi locali si aggiunge una diffusa percezione di

inadeguatezza delle istituzioni formative, sia secondarie che terziarie, oggetto specifico

del prossimo paragrafo.

1.2. Un’offerta formativa che guarda al passato

Quando le imprese sono messe a confronto con il tema delle organizzazione formative il

giudizio di inadeguatezza sulla loro attività è unanime. Il primo degli aspetti a essere

criticato è la capacità delle scuole e delle università di ridefinire i programmi didattici per

adeguarsi ai mutamenti del mercato.

“Il Buzzi c’è sempre stato e rimarrà quello. Sforna periti tessili su un mercato

in cui di periti tessili non se ne riesce più a inglobarne. Ci vorrebbero

veramente scuole flessibili, che si adattano. Che cosa chiede oggi il mercato?

Meno periti tessili e più periti informatici” [imprenditore 6].

“Se a Prato si palesa un settore come l’Ict, in modo naturale dovrebbero

ridursi, per esempio al Buzzi, le sezioni del tessile tradizionale e aumentare

naturalmente quelle dedicate all’informatica” [imprenditore 7].

Il secondo punto di critica è invece specificamente collegato al tipo di competenze

impartite agli studenti di medie superiori e università, queste sono infatti ritenute poco

attinenti a quanto oggi è richiesto nelle aziende.

“Noi abbiamo fatto fare stage a studenti del Dagomari, sono arrivati con

conoscenze completamente da resettare. Sapevano il web perché vanno su

facebook ma non conoscono cosa vuol dire fare il web. Gli ho chiesto dove

erano arrivati a scuola, mi hanno detto Access, un database. Se gli fai

vedere un telefono lo sanno usare perché hanno lo smartphone, ma non

sanno di programmazione. Escono di lì ed è come se non avessero fatto

nulla. Da un Dagomari, io l’ho fatto vent’anni fa, mi aspetto che insegnino

quello che viene utilizzato fuori, la parte mobile, ma anche lo stesso web, in

ogni caso qualcosa che poi fuori trovano. [imprenditore 1].

“Il problema è trovare risorse qualificate. Le università italiane sono ottime

ma non molto pratiche. Quando uno esce, se non si è dedicato per conto suo

allo studio di altre cose, non sa fare niente. Alcune volte prendiamo stagisti,

anche molto ben laureati, con l’intento di formali e assumerli, ma dopo 3-6

mesi, quando escono dallo stage sono ancora molto acerbi” [imprenditore

3].

“Il problema è che oggi non sono assolutamente preparati sul modello, sono

magari preparati su Java ma non hanno fatto il Cloud, che è una modalità

diversa, che è un paradigma diverso, non hanno sicuramente l’orientamento

al tipo di mercato che dobbiamo seguire oggi. Poi certe volte manca proprio

la conoscenza della tecnologia in sé” [imprenditore 5].

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17

“Noi puntiamo più su laureati con competenze diverse in campo umanistico:

storici dell’arte, gente che sa scrivere, ci servono grafici, sviluppatori

software. Ci servono anche figure molto specializzate, come l’exibit designer,

ma quelle si trovano soltanto all’uscita da un master che forma 40 persone

l’anno in Italia [imprenditore 6].

Gli imprenditori che hanno partecipato al focus group delle imprese predatrici

segnalano poi che la distanza tra ciò che è impartito a scuola e quanto invece serve nel

mercato del lavoro cresce più che progressivamente. Ritengono infatti che

l’avanzamento tecnologico repentino che caratterizza il settore Ict crei un abisso tra un

corpo insegnante poco propenso all’aggiornamento auto-formativo e imprese che per,

mantenere la propria posizione di leader tecnologici, adottano prontamente i nuovi

linguaggi e le nuove tecnologie.

“Non è soltanto questione di non insegnare esclusivamente la teoria, ma

anche di formare rispetto alle applicazioni di tecnologie moderne. Se oggi gli

facessi un corso di programmazione mobile uno studente sarebbe

all’avanguardia, ma magari tra due anni non lo sarebbe più. I professori

devono stare dietro a queste tecnologie. L’industria del software vuole

questo. A me non serve a niente se sai un po’ di Java, andava bene 10 anni

fa, a me serve che tu sappia fare altre cose più moderne” [imprenditore 3].

“Il comitato d’indirizzo presente nelle università è fallito. […] Non mi serve a

niente il Fortress o il Pascal, e nemmeno il Java o il Phyton, se non gli insegni

il modello di funzionamento della rete. Prima dobbiamo vedere se i

professori sono preparati, se non lo sono dovremmo preparare prima loro.

Facciamoli venire in azienda […]. Noi siamo disposti a fare un investimento

sui professori, basta che insegnino bene” [imprenditore 5].

La selezione del personale è dunque meno basata sulla presenza di competenze

acquisite durante l’università o la scuola superiore, quanto per le competenze trasversali

che i candidati mostrano. Prima tra tutti la passione e la capacità di imparare.

“Noi notiamo una scarsa preparazione a livello di base, sulle tematiche.

Quello a cui puntiamo è la curiosità rispetto all’argomento, ma anche altre

attitudini, come lavorare in team, essere orientati agli obiettivi, lavorare in

termini di business. Al di là dell’eccellenza e del genio, che è difficile da

trovare, cerchiamo persone che abbiano voglia di imparare” [imprenditore

2].

“Io assimilo scuole e università, che hanno pregi e difetti comuni. Sono

convinto che la persone che escono dall’università o dalle superiori non sono

in grado di lavorare. Non valgono né i 40mila né i 20mila euro che li

paghiamo, non producono davvero la cifra che costano. Chi ha la

preparazione opportuna è chi ha la passione personale, che fa cose in più,

dove le cose in più non sono la teoria ma la pratica, conoscere gli strumenti,

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i metodi di sviluppo e soprattutto le tecnologie moderne, sa fare una app

mobile, eccetera. Queste cose qui non vengono insegnate […]. Per cui

nessuno che sia uscito da ingegneria o da un ITI è stato in grado di essere

assunto dalla nostra azienda a meno che non avesse la passione personale”

[imprenditore 3].

“Quindi è importante che lo studente abbia le basi generali, che poi io

formo. Il vero problema è portare una persona in azienda che costa 40mila

euro l’anno. Io gradirei una persona che arriva neutra con i rudimenti di

base e con una grossa capacità di apprendere, che abbia un costo al primo

anno che gli permetta di farsi il suo progetto di vita […], ma senza il costo

così importante per il conto economico [imprenditore 7].

Le imprese predatrici impiegano dunque molte risorse per la formazione del loro

personale. Per questa ragione, alcune di loro hanno anche contribuito ad avviare

percorsi di formazione associata: un’impresa ha svolto corsi all’interno del Master in

Multimedia dell’Università di Firenze attraverso cui ha potuto selezionare alcuni dei

migliori studenti per posizioni di stageur; un’altra ha trovato il proprio personale dopo

essere stata coinvolta nelle attività formative della Scuola Superiore di Tecnologie

Industriali di Firenze, una terza sta invece cercando di sopperire alla carenza di personale

qualificato facendosi capofila di una cordata di imprese da coinvolgere, su iniziativa della

Cna locale, in un corso di alta formazione finanziato dalla Provincia e organizzato dal

Polo universitario di Prato.

Anche il tema strettamente connesso con il reclutamento rappresenta una criticità per le

imprese ascoltate. I centri per l’impiego e le agenzie interinali non rappresentano infatti

degli interlocutori adeguati per la selezione di personale qualificato. Le assunzioni

avvengono prevalentemente attraverso selezioni di personale che invia il proprio

curriculum direttamente sul sito dell’azienda o attraverso annunci che l’azienda stessa

inserisce su portali specializzati. In altri casi, il personale è messo alla prova con

attraverso stage concordati con istituzioni formative. Per quanto riguarda gli strumenti

di incontro tra domanda e offerta organizzati dalle università (es. Career day), le imprese

dell’Ict che li utilizzano considerano queste occasioni come delle modalità discrete per

concentrare gli sforzi di selezione di nuovo personale. D’altra parte, un’impresa che vi

partecipa con regolarità, lamenta una scarsa efficacia dello strumento in termini

capacità di selezionare personale adeguato. Se l’intermediazione formale tra università e

imprese manifesta molti limiti, lo scambio sembra funzionare in misura maggiore a

livello informale. Gli imprenditori che hanno mantenuto contatti con le università in cui

si sono formati hanno nel tempo consolidato un legame diretto con i ricercatori che

permette loro di entrare in contatto con gli studenti migliori. Anche nel caso in cui gli

imprenditori siano privi di reticoli con gli accademici, cosa molto frequente tra

imprenditori che non sempre sono laureati, i canali informali sono preferiti a quelli

formali. Si tratta sempre di canali comunitari che, a differenza di quelli basati sulle

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comunità professionali universitarie, non promuovono mercati del lavoro localizzati, ma

passando spesso per portali web, alimentano un’offerta di lavoro extra-locale. Il limite di

questi canali, e da qui lo shortage di competenze palesato dalle imprese, è che la

collaborazione continuativa con questi soggetti è soggetta alla disponibilità di trasferirsi

a Prato, città che, secondo gli intervistati, è poco attraente per queste professionalità. Vi

è dunque richiesta di una strategia di rafforzamento del cluster Ict, anche in termini di

visibilità nazionale, che abbia anche l’effetto indiretto di rendere maggiormente

appetibile lo spostamento di forza lavoro qualificata.

1.3. L’innovazione nel cassetto

La modalità attraverso cui le imprese predatrici perseguono attivamente la generazione

di prodotti e processi innovativi ha consistenti elementi di variabilità. Una prima frattura

all’interno di questo gruppo di imprese passa ovviamente per la dimensione di impresa.

Le imprese più grandi e strutturate hanno la possibilità di avviare una varietà maggiore e

un numero più consistente di linee di ricerca e sviluppo.

“Noi siamo quei pazzi con la ‘p’ maiuscola che spendono tantissimo in

ricerca e sviluppo. Noi abbiamo investito in ricerca e sviluppo la maggior

parte delle risorse delle marginalità che abbiamo avuto la fortuna e la

bravura di fare. Lo facciamo attraverso laboratori interni, collaborazione

esterne, anche con un dottore di ricerca fisso al Cnr e progetti con varie

università” [imprenditore 5].

“Noi spendiamo tanto in ricerca e sviluppo, oggi abbiamo cinque progetti di

ricerca a livello di Ministero delle Attività Produttive e Ministero dello

Sviluppo Economico, oltre ad altri progetti internazionali. […] Siamo sempre

stati visionari […] un po’ per genesi, perché siamo nati da progetti di ricerca

che hanno creato dei prodotti che poi hanno trovato mercato. […] Nel nostro

settore non ci si può fermare” [imprenditore 6].

Al contrario le imprese più piccole manifestano un’enorme difficoltà a investire in

progetti innovativi che non corrispondono alle esigenze strette delle richieste di breve

periodo dei clienti.

“La nostra azienda è una start up avviata in un momento economico

difficilissimo. Per mancanza di liquidità e di fondi e mancanza di personale al

momento non riusciamo a sviluppare nuove idee. Il problema è essere

piccoli” [imprenditore 7].

“Noi abbiamo dei progetti che riteniamo innovativi nel cassetto, non siamo

riusciti a realizzarli perché siamo una piccola azienda, ci mancano le risorse

economiche” [imprenditore 1].

“Di idee ce ne vengono tante […] purtroppo dobbiamo occuparci delle cose

che ci sono attualmente, quelle per cui abbiamo dei clienti attivi. Creare

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nuove soluzioni di prodotti, o nuovi progetti, richiede uno sforzo economico

non indifferente e io devo far quadrare i conti” [imprenditore 4].

Un’altra dimensione che permette di distinguere tra i possibili approcci all’innovazione

riguarda il grado di specializzazione dell’impresa in nicchie di mercato. Un’elevata

specializzazione permette ad alcune di queste di padroneggiare, o addirittura

determinare lei stessa, gli avanzamenti tecnologici e, di conseguenza, l’innovazione

incrementale di prodotti o servizi maturi. Infine, una terza dimensione riguarda

l’adesione a forme di innovazione chiuse o aperte. Come abbiamo già descritto, alcune

imprese hanno rapporti privilegiati con università e centri di ricerca toscani, che

utilizzano per svolgere progetti di ricerca congiunti o presidiare alcune specializzazioni

tecnologiche. In altre circostanze l’innovazione è comunque collaborativa, ma prescinde

dai centri di ricerca. Da un lato, è l’innovazione orientata al cliente che genera prodotti e

servizi taylored. In questo caso l’abilità sta nel saper ingegnerizzare richieste che

provengono da grandi clienti esterni, siano essi Telecom, BTicino o il Ministero

dell’Istruzione Università e Ricerca o altre grandi imprese extra-locali. Dall’altro, si tratta

di un’innovazione che matura nelle comunità informatiche internazionali, composte da

sviluppatori che collaborano in modalità open source.

Le difficoltà che queste imprese incontrano sono pertanto legate a fattori di diversa

natura. Le imprese che non hanno difficoltà a investire somme ingenti in R&S

individuano quale principale ostacolo all’innovatività l’imprevedibilità delle traiettorie di

mercato.

“Anche nel nostro caso abbiamo un reparto di innovazione e tecnologia che

è addetto a pensare idee innovative, ma abbiamo la difficoltà sia dovuta

all’investimento economico da fare e anche alla mancanza di un’analisi a

priori sul posizionamento nel mercato dell’innovazione, a volte si lascia

spazio all’impulso, e poi non ci chiediamo se serve al mercato” [imprenditore

2].

“Noi abbiamo un’innovazione fortissima nell’ambito dell’Internet of things,

sul quale lavoriamo da tempo, che comincia anche a essere

commercialmente valida. Abbiamo provato […] a introdurla a livello di

Telecom come piattaforma per i loro utenti. E’ piaciuta tantissimo ma

troviamo le resistenze nel far capire la tecnologia. Lo scoglio più grande per

un’innovazione tecnologia che interessa al mercato e farla capire al

mercato. Spesso siamo troppo avanti rispetto alla cultura dei decision maker

che la devono adottare, non rispetto al mercato, ma rispetto a chi la deve

adottare […]. E’ un problema culturale” [imprenditore 5].

Il tema della presenza di una domanda poco sensibile all’evoluzione tecnologica e alle

potenzialità dell’introduzione delle nuove tecnologie all’interno dei processi produttivi

riguarda anche la domanda pubblica:

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“Questo è un paese bloccato, nel nostro settore, la cultura, se ci sono da fare

dei tagli lì fanno lì, [… è un] paese che non investe in cultura e beni culturali,

quando invece dovrebbe essere il primo settore nazionale” [imprenditore 6].

Al contrario, le imprese più piccole ritengono che il loro potenziale innovativo potrebbe

essere accresciuto con un più semplice accesso al credito.

“La città è piena di imprenditori, e sappiamo che questi hanno molte risorse,

magari messe lì da una parte perché stanno aspettando non si sa cosa. Ho

provato a presentare loro la mia idea loro ma la prima cosa che mi hanno

chiesto è dopo quanti mesi sarebbero rientrati, non sanno neanche di quello

che si parla. Ho provato anche il crowdfunding […] ma il progetto è ancora

nel cassetto” [imprenditore 1].

“Insieme a una cinquantina di persone abbiamo fato partire l’iniziativa per

riportare una banca nella città di Prato, che non si chiama Fatebenefratelli,

ma che sarà un istituto che crederà nelle persone, nei progetti, nei giovani e

nelle start up e adotterà un modello di business per ridurre le sofferenze e

dare modo ai progetti innovativi e interessanti di partire” [imprenditore 7].

Nonostante queste diverse esigenze da parte dei differenti tipi di impresa, la discussione

interna al focus group ha fatto emergere come la questione del credito sia secondaria

rispetto a quella della cultura aziendale che può agevolare, o meno, l’accesso al credito

e, in ultima istanza, il successo di progetti di innovazione. Buona parte degli imprenditori

sono infatti convenuti sull’idea che la disponibilità di credito, seppur rilevante in un

paese in cui le istituzioni di venture capital sono rare, è un fattore secondario rispetto

alla capacità di individuare idee effettivamente in grado di trovare mercato e,

soprattutto, alla capacità dell’imprenditore di presentare a possibili investitore un’idea

declinata in modo tale da mettere in luce l’effettività del potenziale successo

commerciale.

“Io credo che il problema non sia l’accesso al credito […]. Primo non c’è una

visione, per cui tutte le innovazioni che vengono proposte non si capisce

dove possono andare a finire. […] Da me arrivano [delle persone] con delle

idee che per loro sono eccezionali ma io […] chiedo subito il business plan.

Perché questo dimostra come hai pensato l’idea e come il mercato la possa

ricevere, perché dal punto di vista dei costi è molto facile, ma spiegarlo sul

versante dei ricavi è difficile. […] Allora cosa ci vuole: […] ci vuole

sicuramente un’idea tecnologica, ma serve anche dargli un minimo di

struttura, servono degli step di produzione, marketing, ma c’è anche la parte

del personale e dell’organizzazione che non sono banali […]. Il credito non è

un problema” [imprenditore 5].

La messa in produzione di nuove idee attraverso il ricorso al finanziamenti esterni è

complicata dalla cultura imprenditoriale che, anche per le imprese più piccole del

settore Ict, biasima la cessione della quota di maggioranza della propria impresa. Alcuni

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di questi imprenditori chiedono infatti l’intervento di fondi di venture capital o di

business angel senza però essere disposti ad accettare che agli investimenti effettuati da

queste società corrispondano quote della società su cui la società di venture intende

scommettere.

[imprenditore 7]: “Io ho partecipato ad un progetto di consulenza di

business angel […] per rilevare un’azienda. In un processo di questo tipo a

quello che ti ascolta cosa gli rimane in mano?”

[imprenditore 5]: “Una percentuale della start up. Una quota che può

variare dal 30 al 40 o al 60%. Dipende dallo stadio di avanzamento dell’idea

[…].”

[imprenditore 7]: “[…] entrare in una logica di start up vuol dire togliere un

po’ dell’amore che hai nel tuo progetto e vederla in un’ottica business. […]

per iniziare questo percorso serve fare una riflessione personale e culturale

che ti porta a dire che l’azienda non è un fine ma un mezzo […].”

[imprenditore 5]: “Oggi è difficile pensare che un’idea la si può portare

avanti da solo. Io ho un’azienda, che l’ho fondata io, ma oggi ho però altri

soci con cui ho condiviso il capitale. Oggi io ho solo un quarto del capitale

[…] L’azienda che ho fondato 15 anni fa era di dimensioni minimali, eravamo

3-4 persone, cento per cento mia, oggi ho una società quotata che ha

potenzialità di diventare leader di mercato. Se la vivi in modo padronale non

andiamo da nessuna parte, serve una logica imprenditoriale.

[imprenditore 1]: ”Se non si ragiona in termini imprenditoriali non si

collabora!”

Questo stralcio di dibattito serve a mettere in luce la complementarietà tra di imprese

che, pur accomunate da una spiccata propensione all’innovazione, subiscono l’effetto

della differenza dimensionale. La grande impresa, che ha le risorse finanziarie per

effettuare attività di ricerca per vie interne e che collabora con altre grandi aziende –

con il ruolo di clienti, fornitori o collaboratori di fase – o con università e centri di ricerca,

ha tutto l’interesse a entrare in contatto con giovani imprese innovative, che grazie alla

loro freschezza hanno maggiore propensione a sviluppare idee nuove. D’altra parte

quello che serve a queste imprese più giovani è proprio la possibilità di sviluppare l’idea

in tempi utili affinché una competizione internazionale piuttosto serrata non bruci sul

tempo la sua immissione sul mercato. In questa fase la collaborazione di una grande

impresa, interessata a esplorare nuovi segmenti di mercato, può senz’altro

rappresentare una risorsa sia in termini di risorse finanziare - la cui contropartita è

inevitabilmente la cessione di alcuni asset – ma anche da risorse immateriali, come i

suggerimenti da parte di chi conosce più da vicino le caratteristiche dei clienti e, più in

generale, dei mercati e le modalità attraverso cui un’idea può percorrere la strada fino

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all’industrializzazione senza perire nel tratto di percorso intermedio, per l’appunto

conosciuto come death valley dei progetti imprenditoriali.

1.4. Conclusioni: il fabbisogno delle imprese predatrici

Il panorama Ict pratese è molto frastagliato, anche all’interno del gruppo delle imprese

predatrici si sono riscontrate differenze relative prevalentemente legate alla dimensione

d’impresa e alla specifica nicchia in cui le imprese si sono specializzate. Nonostante ciò

sono emerse delle indicazioni chiare da parte delle imprese sui fattori che potrebbero

accrescere la competitività particolare, come quella dell’intero cluster.

In primo luogo, appare evidente la difficoltà dell’agglomerazione locale di creare

sinergie. Le attività collaborative sono infatti prevalentemente di natura extra-locale e

basate sulle catene di clienti e fornitori. Manca invece quell’ibridazione territoriale di

natura intersettoriale che potrebbe sviluppare innovazioni al margine e fare da leva per

l’attivazione nel mercato del capitale sociale già disponibile degli imprenditori locali.

Tuttavia, per dare continuità e garanzie alle imprese preoccupate da possibili

comportamenti opportunistici è espressa la richiesta per un soggetto terzo, legittimato

nella sua capacità di indirizzo tecnologico e nella possibilità di dare valore a risorse

relazionali prodotte all’interno del cluster e tra questo e altri contesi vicini.

In maniera complementare è inoltre emersa l’esigenza di uno o più soggetti, che aiutino

le start up o le imprese più piccole a trovare la strada per l’accesso al credito. Si tratta di

ruolo da broker che svolga la funzione di acceleratore d’impresa. Diversamente dalla

funzione di mediazione delle relazioni questa funzione non dovrebbe essere

necessariamente svolta da un soggetto terzo. Da questo punto di vista è infatti emersa la

possibilità di una forte integrazione tra il ruolo delle imprese predatrici più grandi e

quello delle start up, già costituite o di possibile nuova costituzione.

Infine, è incontrovertibile l’insoddisfazione delle imprese per le competenze

attualmente disponibili sul mercato del lavoro specializzato. Tra le indicazioni più

condivise troviamo sicuramente una maggiore sintonia tra percorsi formativi secondari e

terziari ed esigenze delle imprese e la formazione continua dei formatori rispetto

all’evoluzione tecnologica.

Si tratta di tre tipi di fabbisogni distinti che possono essere perseguiti con un ventaglio di

strumenti molto ampio il cui approfondimento è riservato al quarto capitolo.

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2. Le imprese imbrigliate. Tra radicamento e competitività

Come abbiamo anticipato nel capitolo precedente, con aziende “imbrigliate” ci riferiamo

alle imprese che presentano un maggiore legame con il contesto locale sia per quanto

concerne la percentuale di fatturato riconducibile al settore del tessile-abbigliamento sia

rispetto alla quota di clienti localizzati all’interno del territorio provinciale o

metropolitano. In questa prospettiva, la forte vicinanza al contesto locale e il numero

ristretto di reti “lunghe” rende queste aziende più dipendenti tanto dalle dinamiche

congiunturali quanto dai limiti strutturali delle imprese del distretto. All’interno di

questo insieme possiamo inoltre distinguere le imprese sulla base dell’anno di

fondazione e dell’età dell’imprenditore. Sono infatti presenti aziende storicamente

radicate, o comunque legate a precedenti esperienze riconosciute nel contesto locale, e

imprese più recenti.

Il richiamo ai rischi del territorio non deve tuttavia trarre in inganno. Molte di queste

imprese hanno infatti maturato legami fiduciari e competenze specifiche che le rendono

leader in precise nicchie di mercato. Tuttavia, il forte legame con un preciso settore o la

vicinanza con le aziende locali condiziona in maniera peculiare le strategie aziendali, le

dinamiche innovative e le modalità di finanziamento.

Tali limiti siano stati nel tempo affrontati ricorrendo a strumenti ad hoc (come nel caso

del progetto SPRINT), volti a incrementare il know how informatico delle imprese e delle

pubbliche amministrazioni. Nonostante ciò, in presenza di risultati non in linea con le

aspettative, gli imprenditori sono stati costretti ad affrontare i rischi legati alla

dipendenza dal territorio in maniera autonoma. In altre parole, in assenza di una precisa

regia istituzionale, le innovazioni organizzative sono state prevalentemente di tipo

incrementale, piuttosto che sistemico, con riadattamenti in prevalenza guidati dalla

domanda.

“Siamo cresciuti in maniera esponenziale fino a qualche anno fa ma non

avevamo una forza commerciale. Fino a ieri abbiamo, fortunatamente,

subito la domanda, ci venivano a cercare […] È stato un bene ma anche una

colpa, perché potevamo fare investimenti diversi e governare e non subire la

crescita” [imprenditore 11].

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Sebbene di fronte al continuo mutamento delle esigenze delle imprese locali una simile

evoluzione abbia sicuramente consentito lo sviluppo di risposte eterogenee e flessibili,

consentendo così la sopravvivenza e la specializzazione delle aziende informatiche,

queste “strategie adattive” sembrano oggi rappresentare un limite esplicito. È tuttavia

interessante notare come, anche per aziende così radicate, le strategie organizzative

abbiamo comunque reso le imprese informatiche sempre più autonome, consentendo

così la nascita di un settore che, seppur in parte ancora strumentale al settore tessile-

abbigliamento, presenta oggi una maggiore autonomia.

Le debolezze delle imprese che emergono dai focus group sono per lo più legate a un

mercato ristretto e popolato da aziende di piccole dimensioni che richiedono risposte

dinamiche e flessibili. In altre parole, per quanto concerne le difficoltà interne, queste

aziende ripropongono i limiti tipici dei sistemi basati sulle PMI, dove l’estrema

dinamicità si associa alle criticità dimensionali e all’incapacità di raggiungere quella

massa critica necessaria per fare “un salto di qualità”.

L’obiettivo del focus, che nel complesso ha coinvolto sei imprese, non era tuttavia quello

di confermare alcuni elementi già emersi nel precedente rapporto, quanto piuttosto di

mettere in evidenza le debolezze del contesto locale e i possibili interventi per

migliorare la competitività e l’attrattività del territorio. A questo proposito, le difficoltà

incontrate dai partecipanti possono essere così sintetizzate:

• scarsa visione dei soggetti locali, imprese e amministratori, sul settore. Con

ripercussioni negative sugli investimenti (per quanto concerne le imprese) e, più in

generale, sul rinnovamento imprenditoriale;

• Collegamenti limitati tra i diversi operatori del settore, che ridimensionano la

possibilità di collaborazioni tra imprese ICT operanti in specializzazioni differenti ma

integrabili, e tra queste e le aziende manifatturiere, sia locali che metropolitane;

• mancanza di infrastrutture telematiche adeguate;

• assenza di credito finalizzato;

• capitale umano e mercato del lavoro locale.

Questi elementi di staticità vengono gradualmente ridimensionanti quando dalle criticità

si passa al confronto sui punti di forza.

La discussione ha infatti consentito di evidenziare le potenzialità latenti del territorio,

favorendo l’acquisizione di una maggiore consapevolezza da parte dei partecipanti

rispetto alle prospettive di crescita. Così, dopo un iniziale pessimismo connaturato con la

crisi economica globale, le difficoltà strutturali delle imprese distrettuali e gli

investimenti decrescenti nel tempo da parte delle pubbliche amministrazioni, è

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maturata la consapevolezza delle opportunità collegate al settore in sé e delle

potenzialità di crescita nel rapporto con le imprese locali.

Allargando lo sguardo al contesto metropolitano, infatti, gli imprenditori hanno

sottolineato come la presenza di una potenziale domanda, che supera i confini del

tessile, possa rappresentare un bacino interessante per sopperire alla chiusura di alcuni

segmenti di mercato nel sistema locale.

Come discuteremo meglio nelle prossime pagine, simili considerazioni richiamano

interventi differenti. Da un lato, emerge la richiesta di strategie che consentano di

allargare il bacino dei potenziali clienti, aumentando l’autonomia delle imprese dal

tessuto produttivo tradizionale, dall’altro, vengono sottolineate le opportunità inerenti

ad una maggiore integrazione con il tessile-abbigliamento. Si tratta, in altre parole, di

strategie che potrebbero consentire di allungare le reti a livello metropolitano e

rinforzare le interdipendenze a livello locale, migliorando così la competitività delle

imprese manifatturiere pratesi.

Per quanto concerne gli elementi di criticità, il focus group evidenzia come l’attuale

costruzione degli strumenti di incentivazione e, più in generale, dei bandi pubblici, sia

spesso inadatta per risolvere le esigenze delle imprese. Anche il sistema della

formazione e il funzionamento del mercato del lavoro vengono percepiti come punti

deboli. Questi temi, sui quali torneremo successivamente, anticipano una necessità che

diventerà manifesta nel confronto: per queste imprese, infatti, più che la questione dei

clienti è fondamentale il ruolo della forza lavoro.

Le criticità del mercato del lavoro locale ne influenzano anche la fluidità: l’elevato costo

del lavoro ridimensiona infatti la possibilità delle imprese di investire in formazione,

mentre l’assenza di figure con solide competenze di base tende a irrigidirne la

circolazione.

“Le persone le abbiamo create negli anni e questo costa. Se uno va via, c’è

da spararsi” [imprenditore 12].

Così, nonostante le opportunità di mercato, il binomio alto costo del lavoro/scarsa

preparazione produce effetti perversi tanto per i lavoratori quanto per le imprese,

diminuendone le prospettive di crescita. Ma il tema della qualità della forza lavoro non

riguarda solo le competenze di base. Dal confronto emerge come molti giovani che

escono dalle scuole superiori non siano in grado di rapportarsi con le imprese. Manca, in

altre parole, un set di competenze trasversali che stimoli gli imprenditori a immaginare

progetti di investimento in giovani neo-diplomati. In ogni caso, il rapporto tra istruzione

e imprese - coinvolgendo anche soggetti come le università - si configura come una

questione di portata più generale.

Anche spostando l’attenzione sulla dotazione infrastrutturale, emerge un giudizio meno

roseo sulla qualità delle infrastrutture. Nel precedente rapporto avevamo messo in

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evidenza come la ricchezza delle connessioni telematiche, in particolare la presenza

della banda larga, fosse una delle ragioni che potevano spiegare la presenza di imprese

ICT. Il confronto tra imprenditori richiama invece il tema della centralità urbana. Per

molti soggetti, infatti, la copertura – una volta usciti dal perimetro della città - risulta

spesso carente con conseguenze negative soprattutto per le esigenze dei clienti. Emerge

comunque la consapevolezza che la questione della connettività, qui intesa in senso

ampio, rappresenta un tema di rilevanza nazionale. In assenza di interventi specifici,

quindi, il vantaggio competitivo del tessuto pratese sembra essere destinato ad erodersi

nel tempo, con ripercussioni negative in termini di fatturato (riducendo le opportunità di

mercato) e di competitività del territorio (aumentando le barriere all’ingresso).

I temi della formazione e della dotazione infrastrutturale diventano quindi cruciali per

consentire alle aziende ICT di sfruttare a pieno le opportunità derivanti dalla

localizzazione all’interno di un contesto - come quello metropolitano - che si

contraddistingue per elementi di vantaggio come la diffusa imprenditorialità e

l’eterogeneità settoriale.

Ciò solleva due questioni rilevanti. Anzitutto, come noto, l’ecosistema digitale riguarda

imprese che operano in quasi tutti i segmenti produttivi, spaziando dalla produzione di

software, hardware e contenuti7, alla fornitura di servizi. In questo quadro, il contesto

metropolitano rappresenta un’area particolarmente attraente8. In secondo luogo, la

diffusa imprenditorialità rappresenta un fattore di vantaggio ben noto tra gli operatori

del settore.

7 Come illustrato nel precedente rapporto, le recente riflessioni sui confini dell’ICT hanno portato ad

estenderne la definizione oltre le classiche ripartizioni tra manifattura e servizi, includendo così anche le

attività di produzione e comunicazione dei contenuti dell'informazione (es. video, testi, fotografie, musica,

giochi, ecc) [Ocse 2011, OECD Guide to Measuring the Information Society 2011,

www.oecd.org/publishing/corrigenda]. In quest'ottica, una crescente enfasi è posta sulla filiera del prodotto

digitale, creato e diffuso da imprese di servizi che precedentemente non erano formalmente inserite nel

comparto Ict, siano esse produttrici di e-content o di pubblicità on-line [Agcom 2011, Autorità per le garanzie

nelle comunicazioni (2011), Relazione annuale 2011 sull'attività svola e sui programmi di lavoro,

www.agcom.it ; Assinform 2012, Dall'Ict al global digital market. Rapporto Assinform 2012,

www.assinform.it]. 8 La georeferenziazione delle unità locali attive nel settore dell'Ict nei comuni più centrali dell'area

metropolitana ha infatti consentito di rappresentare in maniera distinta la manifattura, i servizi e i contenuti

Ict, mostando la presenza di un "centro tecnologico", che è Firenze, e di una periferia, rappresentata dal

territorio pistoiese. In questo scenario Prato assume una posizione intermedia, risultando debole per attività

manifatturiere e forte per servizi Ict. [Betti, Gherardini, Manzo, 2012, Il cluster ICT pratese. Rapporto di

ricerca.

http://marketing.provincia.prato.it/wp-content/uploads/2013/10/ICT-a-Prato-rapporto-ricerca.pdf, 12].

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“A un occhio più attento, le potenzialità di intervento di chi fa il nostro

mestiere sono di più di quelle che si pensa che ci siano. Non è solo il tessile

come possibile settore ma è molto più variegato. Basta muoversi, conoscere

per trovare spiragli dove fare investimenti. Per me, che ho iniziato a farlo in

proprio, è stata una sorpresa. Non me l’aspettavo. È una cosa che deve essere

considerata” [imprenditore 10].

Più in generale, la questione dell’imprenditorialità richiama le caratteristiche del

contesto istituzionale.

“Ho notato la grande imprenditorialità, anche in senso negativo, dei pratesi.

Il saper fare impresa. C’è un grosso potenziale che può svilupparsi. […] Il

pratese è un imprenditore nato. Ha voglia di fare impresa” [imprenditore

12].

È inoltre interessante osservare come il tema della concorrenza non venga percepito

come un pericolo. Analogamente a quanto sottolineato a proposito dell’utilità delle reti

di connessione come strumento per allargare il mercato, la competizione tra le imprese

viene percepita come sostanzialmente positiva.

Si tratta di un risultato singolare. Spesso, infatti, la nascita di nuove imprese è

considerata un fattore di rischio che potrebbe generare una competizione di costo, con

effetti negativi sullo sviluppo del settore. Tuttavia, in questo caso, la competizione, oltre

ad allargare il mercato, sembra influenzare le aspettative delle aziende, favorendo

l’adozione di scelte strategiche.

[imprenditore 9]: “(La concorrenza) ci spinge ad investire in altri ambiti. A

differenziarci”.

[imprenditore 11]: “Oppure a non investire, specializzandoci”.

Regolare la concorrenza significa anzitutto ridurre le asimmetrie informative e i

comportamenti opportunistici, favorendo l’integrazione tra specializzazioni. In questa

prospettiva, le opportunità derivanti dall’elevata densità ed eterogeneità

imprenditoriale, rendono le imprese più consce del ruolo che la concorrenza, se ben

regolata, può offrire per migliorare l’efficienza e favorire la specializzazione,

ridimensionando così le posizioni di rendita.

Di conseguenza, tra gli elementi più richiamati emergono le esigenze di “connessione”

tra le imprese. I partecipanti, infatti, sottolineano la necessità di interventi per favorire

conoscenza tra le diverse specializzazioni. Si tratta spesso di strumenti soft che,

sfruttando le caratteristiche “abilitanti” delle tecnologie ICT, possono favorire la

diffusione delle informazioni rispetto al core business delle singole realtà imprenditoriali

e quindi lo sviluppo di nuove partnership.

“Spesso il difetto non è la dimensione ma la non conoscenza. […] sono venuto

a conoscenza di realtà vicine e questo ha creato non delle concorrenze ma

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delle sinergie. […] ho scoperto che sono molti di più i casi di specializzazione

(qualcosa di analogo ma direzionato in campi diversi) che di concorrenza e

quindi è difficile che ci si pesti i piedi. Si crea una concorrenza per noi e per il

mercato. Le imprese possono scegliere tra eccellenze senza affidarsi a

tuttologi” [imprenditore 10].

A differenza di molte specializzazioni tradizionali, infatti, le aziende presenti richiamano

la necessità sinergie dal basso senza un diretto riferimento al ruolo degli incentivi,

spesso percepiti in maniera negativa.

“Faccio parte di una rete di imprese. Siamo 6 aziende dislocate in Toscana. Il

principio di base è stato questo: mettiamoci insieme con competenze diverse

per vincere bandi pubblici” [imprenditore 8].

Pare quindi emergere un effetto distorto nell’utilizzo dei fondi, dove il finanziamento,

più che favorire la realizzazione di progetti innovativi, sembra finalizzato a

ridimensionare i gap di conoscenza, richiamando così la necessità “di politiche per

connettere”. A questo proposito, un intervento che spesso viene proposto, anche

attraverso l’utilizzo di finanziamenti pubblici, è quello dell’incentivazione delle reti di

impresa.

“La rete di imprese è primo un bisogno di conoscenza tra le aziende. […] Se ci

si conosce si collabora, se non ci si conosce non si collabora. I rappresentanti

delle categorie dovrebbero lavorare a questo” [imprenditore 8].

Più in generale, è il tema della formulazione dei bandi per i finanziamenti pubblici che

sembra essere inadeguata.

“I finanziamenti pubblici creano problemi e drogano il mercato. Francamente

ho avuto più esperienze di inquinamento che vantaggi” [imprenditore 10].

“Questo meccanismo del ‘io sono io e lui è lui e facciamo la cosa insieme.

Quanto ci guadagno io? Oggi non esiste collaborazione, ogni industriale è lui.

Deve essere superata l’aggregazione strumentale” [imprenditore 8].

Inoltre, la presenza di incentivi distorti, genera effetti perversi, dirottando le risorse

verso investimenti poco remunerativi in termini di competitività e crescita delle imprese.

“Magari per il bando fai di tutto per entrare a pedate nel progetto quanto in

realtà ti serve solo un pezzettino. Ti vai a infilare in consorzi di imprese dove

ognuno vuole fare qualcos'altro. La forzatura nasce lì. Il finanziamento

servirebbe dopo: ci si incontra, metto l’idea, associamo le competenze e le

tecnologie, troviamo il finanziamento e poi facciamo la start up. Andare nel

senso contrario a volte è una forzatura. Aziende che partecipano a bandi mi

hanno detto devi fare questo e quest'altro e ti infilano in delle cose”

[imprenditore 11].

Tale consapevolezza emerge anche dall’osservazione delle reazioni dei partecipanti. Il

giudizio, che pare essere unanime, riflette l’elevata specializzazione dei soggetti.

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Ciò consente di chiarire meglio un aspetto che abbiamo introdotto nella parte iniziale.

Con imprese “imbrigliate” non si intendendo infatti aziende meno competitive ma

piuttosto realtà imprenditoriali dipendenti in misura maggiore dal contesto locale. Così,

nonostante il legame con sistema economico locale possa rendere le imprese più

influenzate dalla congiuntura economica, la vicinanza al sistema produttivo ha permesso

loro di maturare una specializzazione tale da ricavare delle piccole nicchie in specifici

segmenti di mercato.

Così, proprio perché l’innovazione viene interpretata come un processo di costruzione

sociale, “accanto alle necessarie politiche per slegare le imprese da lacci e laccioli,

occorre pensare anche a politiche per connettere, per promuovere la mobilitazione e la

cooperazione efficace tra i soggetti locali: la formazione di buone reti per l’innovazione”9

. Una prima implicazione di policy viene quindi individuata nella presenza di un

“soggetto terzo” capace di favorire la creazione di reti tra imprese dal basso. È in questo

ambito che il set di interventi soft può integrarsi con scelte più complesse, come la

definizione di spazi fisici dedicati alle imprese.

“Senza nessun soggetto terzo non è possibile. Nessuna azienda andrà mai di

sua spontanea volontà a cercare dei colleghi” [imprenditore 10].

“Servirebbe un incontro dove non c’è un tema di fondo, come oggi, una

riunione dove le attività ICT si trovano, in tutte le loro forme, vedi chi

partecipa, selezioni chi ti interessa e ti incontri senza nessun obbligo. Ma se

non c’è un catalizzatore non funziona” [imprenditore 11].

Naturalmente le modalità di connessione e la definizione dei soggetti interessati variano

a seconda delle aziende e del tipo di relazione che esse intrattengono con i diversi

soggetti, pubblici e privati. Una sostanziale convergenza emerge però rispetto al ruolo

delle associazioni di categoria.

“Le associazioni di categoria dovrebbe favorire lo scambio dei contatti e

creare un evento per favorire liberi scambi” [imprenditore 11].

“Quando si parlava di enti terzi ho in testa due soggetti. Le associazioni di

categoria, se ben guidate, potrebbero essere l'attore principale. Altro ente

terzo, che dovrebbe farne la propria bandiera, è la parte formativa, università

e mondo della scuola. Dovrebbe essere un vanto associare il mondo delle

imprese con la formazione. Sarebbero gli attori ideali” [imprenditore 10].

In conclusione, quello che il confronto guidato sembra far emergere è la presenza di una

serie di opportunità latenti legate al contesto locale. Oltre agli interventi strutturali,

9 Trigilia C. (2007), La costruzione sociale dell’innovazione : economia, società e territorio, Firenze, Firenze

University Press.

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inerenti al costo del lavoro, alla qualità e alla manutenzione delle infrastrutture e alla

questione della burocrazia, i partecipanti sottolineano la necessità di superare un

approccio tradizionale all’incentivazione delle aggregazioni per puntare su interventi più

leggeri legati alla diffusione della conoscenza rispetto alle caratteristiche e alle

competenze delle singole imprese. Ciò consentirebbe di realizzare nuove sinergie dal

basso, non distorte dal sistema degli incentivi pubblici, che consentano di sfruttare a

pieno le opportunità di mercato derivanti da un contesto come quello metropolitano,

dove convive un insieme eterogeneo di imprese e dove forte è l’attitudine

imprenditoriale.

Tali opportunità possono però essere colte soltanto se, assieme alle esigenze di

conoscenza e connessione, vengono affrontate le questioni degli investimenti in capitale

umano, del mercato del lavoro e della formazione, discusse nel prossimo paragrafo.

2.1. Formare professionisti per formare nuovi imprenditori

Nel primo paragrafo abbiamo visto come il coinvolgimento di alcune figura professionali,

quando presenti, rappresenti per le imprese un vero e proprio investimento, con rischi e

ritorni spesso non calcolabili a priori.

Il confronto ha inoltre messo in evidenza come le competenze, sia tecniche che

trasversali, siano spesso inadeguate comportando una riqualificazione consistente dei

nuovi assunti. Parliamo, in questo caso, soprattutto di neodiplomati ma molte delle

conclusioni sul rapporto tra formazione e impresa possono essere estese anche ad altri

soggetti, come le università e i centri di ricerca. L’ultima dimensione indagata ha infine

riguardato il metodo di reclutamento e, in particolare, il ruolo delle agenzie interinale

come soggetti di mediazione.

Per quanto concerne le competenze di base, anche nei confronti degli studenti più

motivati, i giudizi sono spesso molto negativi. Nella maggioranza dei casi le imprese

osservano infatti uno scarto marcato tra le competenze richieste e la preparazione, cui si

affianca un uso spesso inconsapevole degli strumenti informatici che limita fortemente

la collocabilità dei soggetti.

“Non c'è una formazione di base” [imprenditore 12].

“Mi servirebbe personale con una formazione minima di base […] con costi

accessibili e che potrei formare. Se partissero da uno è un conto, potrei

pensarci, ma oggi partono da meno due” [imprenditore 13].

Anche la carenza di competenze trasversali viene ritenuta un limite significativo. Molti

dei diplomati (ma un discorso simile potrebbe essere esteso anche ai laureati) non

hanno precedenti esperienze - più o meno strutturare - di lavoro e ciò influisce

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negativamente sulla loro attitudine non soltanto a lavorare in gruppo oppure a ragionare

per obiettivi ma anche a gestire i tempi e i modi dello stare in azienda.

Naturalmente le questioni legate al rapporto tra scuola e impresa sono note e dibattute.

Tuttavia, quello che qui preme sottolineare è il fatto che sembra sussistere uno spazio di

sperimentazione per interventi volti a ridurre la distanza tra le richieste specifiche delle

imprese e la formazione delle scuole.

Approfondiremo il tema nei prossimi capitoli, quando esporremo i risultati di un focus

group con gli istituti superiori dell’area pratese. Conviene comunque anticipare alcuni

elementi che riteniamo particolarmente rilevanti per migliorare alcuni aspetti della

formazione.

Le considerazioni degli imprenditori mettono infatti in evidenza tre dimensioni peculiari.

La prima riguarda la forma mentis degli studenti. Spesso infatti quello che viene

evidenziato è l’assenza di una concezione di fondo rispetto alle esigenze e le potenzialità

del settore.

“Non si tratta di conoscere un linguaggio ma di imparare a programmare”

[imprenditore 10].

“Nell’informatica non importa il linguaggio, conta la forma mentis. Serve una

preparazione specifica per il settore […]. L’informatica è talmente ampia e

sfaccettata che servono competenze ampie” [imprenditore 11].

Ciò ha effetti negativi non soltanto sulle possibilità di formazione durante i percorsi di

alternanza scuola/lavoro o sulle chance occupazionali, ma impatta anche sullo sviluppo

delle autonome capacità di immaginare propri percorsi di imprenditorialità. Il ruolo della

forma mentis e, più in generale, dell’impostazione rispetto al mondo dell’ICT, diventa

ancora più evidente se pensiamo al fatto che uno dei meccanismi che contribuisce a

spiegare le ragioni della localizzazione delle imprese nell’area pratese era legato alla

presenza di una comunità open source, a partire dalla quale sono nate alcune delle

aziende più innovative.

In questa prospettiva, stimolare la creatività e la curiosità degli studenti, valorizzandone

le attitudini, può essere utile per ricreare quelle condizioni che negli anni passati hanno

portato alla creazione della comunità open source pratese10. A differenza del passato,

però, tali spinte creative possono oggi essere raccolte e valorizzate da un tessuto di

imprese locali, rendendo così spendibile quella che spesso viene considerata solamente

una passione. Agire sulla forma mentis, valorizzando le attitudini degli studenti, significa

10

Come già emerso nello scorso rapporto, il ruolo della comunità open source è stato determinante nel creare quel clima di apertura favorevole all’innovazione: “Il movimento nacque negli anni ’90 con Linux che per noi rappresentò una forza di liberazione” [Impresa predatrice].

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quindi stimolare l’imprenditorialità, con conseguenze rilevanti per la crescita e la

competitività dell’intero cluster.

La seconda dimensione, strettamente connessa con la precedente, riguarda invece

l’abilità e l’utilizzo dei nuovi prodotti hardware e software. A questo proposito, gli

intervistati sottolineano una scarsa consapevolezza nell’utilizzo degli strumenti, con

effetti negativi sulla capacità di modificare gli stessi per adattarli alle proprie esigenze. Si

tratta, in altre parole, di un “irrigidimento cognitivo” che consente un utilizzo soltanto

passivo o statico delle nuove tecnologie.

“Spesso ho parlato con dei ragazzi che mi hanno detto: caspita, io so

programmare, conosco il linguaggio. Questa era la loro visione del mondo

della programmazione. Quindi inculchi un concetto anche sbagliato, che quel

lavoro si fa sapendo quella cosa e basta. L'idea che abbraccio un settore, e

quindi mi devo tenere aperto, e imparare ogni giorno cose nuove, non passa.

E secondo me è fondamentale per qualsiasi mestiere” [imprenditore 10].

Analogamente a quanto ipotizzato in precedenza, una possibile soluzione potrebbe

essere legata alla valorizzazione della creatività degli studenti attraverso appositi

strumenti hardware, contest o luoghi dedicati alla sperimentazione, oltreché con una

differente strutturazione del rapporto tra docenti e imprese.

L’ultima dimensione riguarda infine il tema delle competenze “di ingresso”. Gli

intervistati, infatti, oltre all’approccio cognitivo e alla disponibilità a rimettere in

discussione i propri schemi di riferimento, richiamano la necessità di una formazione ad

hoc per rapportarsi con il mondo dell’impresa. Non si tratta in questo caso di formazione

di base in senso stretto ma di un set di competenze che consenta di essere subito

operativi in azienda.

“Ho avuto dei ragazzi che a livello creativo, per il lavoro che faccio io,

avevano doti e idee chiare. Ma magari le facevano a lapis. Uno che esce dalla

scuola superiore che entra nel mondo del lavoro deve saper lavorare al

computer. Magari le idee ci sono e anche la predisposizione, ma che esca

fuori un creativo che sappia lavorare solo sulla carta non mi serve nulla

perché ovviamente il primo passo nel mondo del lavoro è impaginare, fare un

ritaglio. Sono competenze tecniche, di creativo non c'è niente. Ma per entrare

nel mondo del lavoro serve questo” [imprenditore 13].

Come emerso, l’assenza di strumenti “di ingresso” ridimensiona in maniera consistente

sia la capacità degli studenti di esprimere le loro potenzialità sia la possibilità delle

imprese di fare un investimento nella formazione di un nuovo lavoratore.

“Sarei molto contento di dedicare una parte del tempo alla formazione di

altre persone altre a quelle che già ci sono. È impossibile pensare di vivere sui

concetti che ho imparato, serve anche per apprendere” [imprenditore 10].

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Per quanto riguarda il reclutamento, infine, emerge come la dicotomia pubblico-privato

sia in parte fuorviante. Se è vero che nessuno dei soggetti partecipanti ha intrattenuto

rapporti o utilizzato le strutture dei centri per l’impiego, sancendo di fatto l’incapacità

del settore pubblico di fare matching per queste realtà produttive, allo stesso tempo

emerge la difficoltà delle agenzie di lavoro interinale nel reclutare e formare i profili più

adatti.

“Il problema principale è che non sanno minimamente di cosa si tratta, [per

loro] l’informatico, che ripari un pc o sviluppi un programma è lo stesso. E

invece no. È come un ingegnere meccanico messo a saldare un componente

elettronico. C’è troppa approssimazione” [imprenditore 10].

“Non hanno personale interno preparato per fare selezione, non solo

nell’informatico. Raccolgono curriculum e ti spediscono. Fine, questo è il loro

lavoro” [imprenditore 9].

Si tratta di limiti rilevanti, che impediscono di usufruire di personale adeguato durante i

picchi produttivi e per lo sviluppo di progetti specifici. Inoltre, come già emerso nel

precedente rapporto, i canali di reclutamento sono diversi, basati principalmente su

annunci on line e approfondite selezioni, piuttosto che su tradizionali forme di

intermediazione.

Anche in questo caso sembra emergere la necessità di un soggetto terzo che si occupi di

valorizzare i curriculum e che intervenga per soddisfare le competenze più richieste dalle

imprese. Come emerge dalla letteratura, infatti, la disponibilità di manodopera

qualificata si caratterizza per essere un bene collettivo locale11.

Dal confronto emergono inoltre due criticità: la prima chiama in causa il costo elevato

dei c.d. “cacciatori di teste”, specializzati nel reclutamento di particolari figure, mentre la

seconda ha a che fare con l’assenza o l’opacità di reti di freelance o consulenti. In questo

caso, infatti, il rischio è quello di una concorrenza al ribasso tra professionisti, con effetti

negativi sulla struttura delle imprese. A tal proposito, analogamente a quando

evidenziato in precedenza, la presenza di un luogo dedicato, rinforzando la dimensione

relazionale e la diffusione delle informazioni, potrebbe contribuire a evitare una

competizione di costo e comportamenti opportunistici.

Il richiamo ad un luogo istituzionalizzato di confronto potrebbe poi sopperire alla

debolezza identitaria della categoria. Dal confronto emerge in maniera palpabile il senso

11

Si tratta di beni che le singole aziende non sono in grado di produrre (o non hanno interesse a farlo) in

maniera adeguata ma dai quali dipende la competitività di ciascuna di esse. Alla categoria dei beni collettivi in

senso stretto, oltre alla disponibilità di manodopera qualificata, possiamo anche la presenza di infrastrutture

logistiche e di comunicazione [Trigilia, 2005, Sviluppo locale. Un progetto per l'Italia, Bari-Roma, Laterza, pp.

12-13]

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di frustrazione derivante da una rappresentanza parziale del settore sui tavoli

istituzionali.

“Noi non siamo esistiti, fino a poco tempo fa, non c’era rappresentanza”

[imprenditore 8].

“Concordo pienamente. Manca il riconoscimento del nostro settore, non

siamo né carne né pesce, siamo gli operai del 2000, quelli che fanno. I

commercianti e gli industriali hanno la loro rappresentanza. Manca un

legame importante che siamo noi informatici che alla fine non abbiamo

rappresentanza, contratto nazionale di lavoro, una rappresentanza che dica

cosa ci serve” [imprenditore 11].

A questo proposito, una maggiore consapevolezza delle imprese, unita alle politiche

“per connettere” prima richiamate, potrebbe favorire il consolidamento di una

regolazione comunitaria, basata sulle competenze e sulla reputazione, utile per

migliorare la circolazione di informazioni e fiducia12.

L’ultimo elemento del sistema formativo chiama in causa le istituzioni universitarie e i

centri di ricerca. In questo caso, però, il giudizio rimane “sospeso”. Da un lato, infatti,

molti dei partecipanti hanno avuto rapporti diretti con entrambe le istituzioni o le

percepiscono come potenziali interlocutori privilegiati, dall’altro, però, gli imprenditori

rilevano un certo disinteresse da parte del mondo accademico e, talvolta, una sorta di

concorrenza che, posizionandosi a monte del processo innovativo e sfruttando una

posizione di vantaggio in termini di riconoscimento, viene percepita come rischiosa.

Torna dunque con forza, almeno per quanto concerne il secondo punto, il tema della

rappresentanza e dell’identità: in assenza di un riconoscimento istituzionale, infatti, le

singole imprese corrono il rischio di sentirsi abbandonate nel confronto con i centri di

produzione e diffusione del sapere. In questi casi, inoltre, il ruolo delle università e del

Pin può trasformarsi da partner a concorrente.

“Spesso le università con molta volontà vanno per la loro strada. Tirano fuori i

loro spin off, le loro aziende - che conosco - anche fatte da professori, che

però hanno difficoltà a entrare nel mercato, perché l’idea è buonissima, il

software eccezionale, ma quando vai ad applicarlo nel mondo realtà ti

manda un aggancio, un pezzettino o tutto il resto. […] Questo è il problema. È

vero che (a Pisa) è nato tutto dall’Università […] Ma non basta. Altrimenti è

12

Tra i diversi modelli regolativi, infatti, oltre al ruolo dello stato e del mercato, possiamo individuare quello

delle associazioni e della comunità. Naturalmente il mix regolativo varia a seconda dei concreti contesti

istituzionali, tuttavia, per questo tipo di aziende - e di fronte alla difficoltà di regolare il settore attraverso il

binomio stato/mercato e alle necessità di rappresentanza e condivisione -, il ruolo della regolazione

associativa e di quella comunitaria potrebbe integrare il tradizionale schema incentivi/intervento pubblico.

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l’università che si arrocca e si convince di detenere il sapere. Servirebbe un

collante tra la ricerca, che in Italia c’è e siamo bravi, e l’impresa. Manca una

relazione stretta con l’impresa. Siamo su mondi diversi. Il Pin è nato con

questo obiettivo, un’associazione tra università e imprenditori che doveva

intervenire nel tessuto” [imprenditore 11].

“Sul mondo Ict non c’è stato l’influenza del Pin, si è messo in concorrenza con

noi, concentrandosi sulle aziende finali. Ci hanno saltati. Noi non siamo

esistiti, fino a poco tempo fa, non c’era rappresentanza” [imprenditore 8].

“Concordo pienamente. […] Altrimenti IT for Fashion diventa un mio

concorrente perché ha dei legami diretti con le aziende, ha un marchio e

viene ascoltato. […] Serve una rappresentanza che unisca coloro che per i

propri scopi utilizzano la tecnologia e che ci rappresenti a pieno”

[imprenditore 11].

Nonostante ciò, emerge la consapevolezza della necessità di instaurare rapporti più

continui con tali strutture.

“L'idea è quella di ricominciare a prendere contatti con il Pin […]. I tempi sono

cambiati, non puoi crescere e mantenere 40 (dipendenti) se hai una

proposizione esterna […] L'idea è quella di riprendere contatto sia con le

istituzioni universitarie sia con altre aziende e quindi cominciare a vedere se

sono possibili collaborazioni o richiedere formazione di un certo tipo (il pin è

nato per soddisfare richieste specifiche). E quindi chiedere formazione per un

settore che si sta allargando molto” [imprenditore 11].

“La nostra azienda non lo può fare, per questo servono i centri di ricerca”

[imprenditore 8].

“Oggi è impensabile che le imprese facciano R&S, per questo sono nate le

start up, per sopperire e trovare qualche sovvenzione. Potrebbe esserci

l’opportunità che l’università sia più attiva e propositiva nei confronti delle

aziende per forme di collaborazione. Non il contrario” [imprenditore 11].

Anche in questo caso, però, riemerge il tema della formazione e la necessità di un

ambito concreto di confronto. Per queste aziende, infatti, il ruolo dell’Università non è

soltanto connesso con la produzione di ricerca. La realizzazione di partnership

strutturate passa infatti dall’integrazione tra ricerca, trasferimento tecnologico e

formazione, anche a partire da concrete esperienze di collaborazione che, negli anni

passati, hanno prodotto buoni risultati.

2.2. Innovazione e sviluppo: vorrei ma non posso

L’ultima dimensione indagata riguarda la “mancata innovazione”; ci siamo chiesti cioè

per quali ragioni le aziende partecipanti non siano state in grado di portare a

compimento alcuni progetti. Interrogarsi sui limiti – aziendali o del territorio – alla base

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dei prodotti non ultimati significa, in altre parole, immaginare un set di interventi che

consentano di mettere in produzione alcune idee già selezionate.

Dal confronto emergono tre questioni rilevanti. Anzitutto, il tempo da dedicare ai nuovi

prodotti, che si configura come una risorsa scarsa, con effetti negativi sulla competitività

complessiva del territorio.

“Il tempo, il lavoro corrente ti occupa talmente tanto per fare le cose bene””

[imprenditore 9].

“Le idee ci sarebbero, ma il tempo….ho sempre più lavoro ma meno pagato”

[imprenditore 13].

“Il tempo è un mancato guadagno” [imprenditore 12].

Tutto ciò costringe le aziende a ragionare secondo un calcolo costi/benefici di breve

periodo, evitando quindi di seguire alcune produzioni potenzialmente innovative ma

non immediatamente applicabili.

“Poi gli investimenti dipendono da quanto posso raccogliere. Pensa a Skype.

Se ho un prodotto che costa zero e dico che tra tre anni lo vendo a tot non è

possibile” [imprenditore 11].

Possiamo così introdurre il secondo elemento: la scarsità di risorse umane adeguate. In

questo caso, però, ci riferiamo soprattutto all'assenza di ”mediatori” per il reclutamento

di tecnici e professionisti. È interessante notare come i partecipanti sottolineino come le

esternalizzazioni non si realizzino non per la mancanza di fiducia tra soggetti, quanto

piuttosto per limiti aziendali che potrebbero essere ridimensionati dalla fornitura dei

c.d. “beni di club”13.

Infine, viene evidenziato il problema del credito. A questo proposito dobbiamo

sottolineare come la questione del finanziamento venga ritenuta rilevante ma non

preminente. Ciò può essere interpretato ricorrendo ad alcuni elementi già emersi: da un

lato, esiste la consapevolezza delle numerose opportunità dei mercato mentre,

dall’altro, proprio perché i progetti da portare avanti sono scelti a partire dai limiti

descritti – e quindi dalla scarsa possibilità di ricorrere a collaborazioni esterne per

sopperire alla mancanza di tempo – la dimensione finanziaria non sembra centrale fino a

quando non si introduce il tema di ciò che non si è riusciti a produrre.

“L’innovazione possiamo farla se troviamo un progetto o una necessità […]

(poi) facciamo rete, perché tanto le banche i soldi non ce li danno […].

13

I beni di club o categoriali sono beni il cui utilizzo è limitato ad alcuni gruppi. Tali beni, come nel caso dei servizi alle imprese o servizi per lo smaltimento di rifiuti per un settore produttivo particolarmente inquinante, possono essere il frutto della cooperazione tra soggetti economici ed estendersi, come nel caso della formazione, anche al mondo del lavoro.

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39

Dobbiamo guardare al contrario, se guardiamo l’accesso al credito non

faremo mai innovazione forte” [imprenditore 11].

Come avevamo già messo in evidenza nel precedente rapporto, i limiti collegati con il

finanziamento bancario potrebbero essere superati ricorrendo a nuovi strumenti, come

il crowdfunding. Si tratta tuttavia di pratiche recenti e ancora poco diffuse in Italia.

“L’equity sta nascendo ora. Ed è l’unico modo, io ci credo. […] Per ora il

crowdfunfing è stato per cose molto artistiche, dal film, al video, al sociale,

non è ancora coniugato all’attività di produzione. Noi ci stiamo lavorando,

vorremmo qualcosa che colleghi, il crowdfunding per alle attività produttive”

[imprenditore 11].

In conclusione, quello che emerge dai focus grup è la presenza di un insieme di imprese

dinamiche e con buone prospettive di crescita. A differenza delle PMI manifatturiere

queste aziende mostrano una maggiore sensibilità nei confronti sia della necessità di

promuovere strategie collaborative sia rispetto al rapporto con le università e i centri di

ricerca, percepiti come soggetti chiave per consentire il consolidamento e la crescita del

cluster ICT. Tale collaborazione, favorita dal particolare settore di riferimento, potrebbe

consolidarsi soltanto attraverso un’azione sistemica che consentisse ai soggetti di

conoscersi tra loro e che incentivasse la creazione dal basso nuovi progetti.

Come abbiamo sottolineato nel precedente rapporto, il cluster pratese è cresciuto in

autonomia, all’ombra della crisi del distretto e senza una precisa “guida” istituzionale.

Tutto ciò, rappresenta oggi un problema. Il tessuto imprenditoriale locale mostra infatti

segnali di vitalità che devono essere sostenuti per favorirne il consolidamento e la

crescita, attraverso azioni di marketing territoriale, la produzione di beni collettivi e lo

stimolo di una nuova imprenditorialità. Tutto ciò richiede un impegno consapevole degli

attori collettivi locali nonché risorse adeguate. In altre parole, via via che lo sviluppo

procede, diventa più importante la “capacità di coordinamento consapevole e

intenzionale tra i diversi soggetti, e in particolare l’interazione tra attori collettivi

(governi locali, organizzazioni di rappresentanza degli interessi, associazioni)14”.

14

Trigilia (2005), op. cit, p. 21

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3. Consolidare il cluster Ict: formare, connettere, innovare

Nei capitoli precedenti abbiamo descritto i due mondi dell’Ict pratese: quello delle

imprese predatrici, competitive su mercati extralocali, e quello delle imprese imbrigliate

in strategie di sopravvivenza al declino del distretto tessile. Per quanto diversi, questi

due mondi hanno molti punti di contatto. In questo capitolo si farà riferimento alle loro

somiglianze e differenze al fine di declinare un percorso di fertilizzazione dell’ecosistema

digitale pratese. Coerentemente con l’impianto di questa ricerca, la strategia qui

proposta è il risultato del confronto tra gli imprenditori e di discussioni con le scuole

secondarie pratesi, con rappresentanti di agenzie formative e dell’università. Tale

strategia può essere declinata in assi di intervento che, se resi operativi, potrebbero

contribuire ad eliminare le strozzature che impediscono al cluster Ict locale di decollare

definitivamente e, più in generale, aggiungere un altro tassello alla strategia di

diversificazione della specializzazione produttiva del contesto pratese. Gli assi individuati

sono tre: l’asse del formare, l’asse del connettere e l’asse dell’innovare. Per quanto il

perseguimento degli obiettivi di ciascun asse possa avvenire indipendentemente dalla

realizzazione degli altri due, la natura strettamente interrelata delle differenti

dimensioni fa sì che un intervento integrato sulle tre misure potrebbe creare delle

sinergie sul versante degli output e risparmio di risorse sul versante degli input. Per

rendere intellegibili le misure contenute in ciascun asse nel testo si farà ricorso ad

alcune buone pratiche nazionali e internazionali che, da tempo, si stanno

sperimentando nei paesi economicamente più sviluppati.

3.1. L’asse del formare

3.1.1 Il possibile contributo delle scuole al cluster Ict

Per comprendere il ruolo dell’istruzione secondaria nel formare competenze per il

settore Ict, alcuni rappresentanti di sei scuole superiori15 pratesi sono stati messi a

confronto sulle impressioni che gli imprenditori hanno dei giovani diplomati e degli

15 Le scuole che hanno partecipato sono l’ITIS Tullio Buzzi, l’IPSIA G. Marconi, l’ISIS Gramsci-Keynes, l’ITES P.

Dagomari, il Liceo Livi-Brunelleschi, e l’ISISS Cigognini-Rodari.

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strumenti di alternanza tra scuola e lavoro. Gli imprenditori, infatti, da un lato, ritengono

le scuole corresponsabili dello scarso livello della formazione dei diplomati, sia di base

che specifica (ovvero quell’insieme di competenze a loro avviso necessarie per iniziare

da subito un percorso di collaborazione); dall'altro, evidenziano la carenza di

“competenze trasversali”, come l'autonomia decisionale e il rispetto dei tempi e dei

modi dello stare in azienda.

Il confronto è avvenuto attraverso la tecnica del focus group che, in questo caso, aveva

un duplice obiettivo. Anzitutto, si voleva corroborare e dare maggiore corpo all’ipotesi

della distanza tra scuola e impresa, al fine di migliorare, anche attraverso la

sperimentazione di nuovi percorsi di alternanza, le competenze degli studenti. Il

secondo obiettivo, invece, voleva interrogare i docenti sugli spazi di autonomia che i

differenti istituti hanno per valorizzare le attitudini e le passioni degli studenti, anche

attraverso un maggiore coinvolgimento di imprese e associazioni di categoria.

3.1.1.1. Migliorare le competenze degli studenti

Il focus group sulle scuole ha messo in evidenza come i docenti siano pienamente

consapevoli dei cambiamenti, sociali e antropologici, che le tecnologie informatiche e di

comunicazione producono negli studenti e di come queste trasformazioni influenzino in

maniera significativa tanto le modalità di apprendimento degli studenti quanto la

distanza cognitiva che separa docente e discente.

“Hanno una dimestichezza che noi non abbiamo. Hanno un’altra confidenza,

un altro modo. Vanno d’istinto non leggono” [insegnante scuola 2].

“Anche con gli schemi più lunghi alla lavagna funziona così, ascoltano e poi

fanno la foto. Loro sono tranquillamente abituati ad usare i computer, hanno

un altro rapporto con la tecnologia” [insegnante scuola 1].

“C’è il superamento della lingua, è una lingua diversa” [insegnante scuola 4].

Così, nonostante emerga la necessità di una solida formazione di base, sia matematica

che umanistica, i docenti percepiscono pienamente la profondità del cambiamento in

atto.

“Spesso il nostro metodo è obsoleto, non siamo più adatti, gli ultimi anni

dovremmo fare qualcos’altro” [insegnante scuola 3].

D’altra parte i docenti ascoltati tengono a introdurre delle distinzioni che superano il

semplice approccio anagrafico, individuando responsabilità ascrivibili ad alcuni

professori che, a loro avviso, influenzano in maniera negativa il livello di competenze

potenzialmente raggiungibile e la capacità di stimolare gli studenti più reattivi.

“Facciamo la nostra parte in base a come ci poniamo: possiamo essere più

vicini alla realtà o ai libri di testo. […]. Io vedo che gli ingegneri che fanno la

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43

libertà professione e vengono ad insegnare a scuola con esempi pratici, cose

attuali, suscitano un certo interesse. […] Se non stimoli i ragazzi e gli fai capire

anche la soddisfazione nel superare un problema, i ragazzi preferiscono

abbandonare. Noi facciamo una bella differenza” [insegnante scuola 1].

“Poi anche noi dobbiamo auto-criticarci. Ci sono colleghi che non che non

vogliono cambiare nemmeno libro di testo. Insomma, questo è un nostro

limite” [insegnante scuola 6].

Allo stesso tempo, però, emerge anche la consapevolezza di come la scuola occupi un

ruolo di rilievo nella valorizzazione degli studenti più motivati:

“Io insegno corsi programmatori, ci sono ragazzi che hanno passione e vanno

oltre il corso e ti stupiscono. Ci sono ragazzi svegli, ma dipende dalla passione

e sono pochissimi e sempre meno” [insegnante scuola 2].

“Se ce ne sono 4-5 in una classe di 30 sono tanti. Poi dipende tanto dai

professori. I ragazzi rispondono agli stessi argomenti in maniera differente,

come resa e attenzione” [insegnante scuola 1].

Come possiamo notare, si tratta di ragionamenti già emersi nel confronto tra

imprenditori, che segnalano come i tempi siano oggi maturi per una nuova integrazione

tra scuola e impresa. Lo scarto che emerge tra le considerazioni degli imprenditori e il

confronto con i docenti è infatti più contenuto di quanto si creda: spesso, infatti, le due

realtà non conoscendosi sono esposte al rischio del pregiudizio. Analogamente a quanto

osservato in precedenza, se l'obiettivo è quello di un creare un ambiente più favorevole

al dialogo tra scuola e impresa, si palesa la necessità di un soggetto terzo, capace di

connettere mondi diversi.

A tal proposito, due sono le questioni rilevanti. Da un lato, è emersa la consapevolezza di

come la nozione allargata di ecosistema digitale possa rappresentare un nuovo terreno

di crescita anche per quelle scuole che, a causa del carattere prevalentemente

manifatturiero delle produzioni locali, sono rimaste negli anni meno recenti ai margini

della formazione. In questa prospettiva, la crescita del settore dei contenuti può

valorizzare le competenze di studenti con una formazione umanistica, letteraria o

alberghiera, come ad esempio avviene nel caso delle guide multimediali per i musei o

dei food blogger.

“Tante cose sono legate all’apparato moda, che era la nostra scuola prima.

Adesso ci stiamo formando su grafica, moda, architettura e ambiente. Chi fa

moda fa stage di 2-3 settimane e molti vengono assunti. In più noi abbiamo

un contatto continuo con le aziende […]. C’è una rete (di imprese) che deve

essere consolidata e ampliata, perché (le specializzazioni in) grafica e

ambiente (sono recenti), settori nuovi non ancora consolidati” [insegnante

scuola 4].

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Dall’altro, viene evidenziato il ruolo delle imprese nel valorizzare le competenze e le

passioni degli studenti, anche al fine di promuovere una nuova imprenditorialità.

“C’è un diverso grado di coinvolgimento tra realtà lavorative e insegnamento

e i ragazzi vengono influenzati in maniera positiva” [insegnante scuola 1].

Si tratta quindi di potenziare le esperienze superando il generico rapporto tra scuola e

mondo del lavoro, anche attraverso l'utilizzo di un sistema strutturato di monitoraggio,

valutazione e diffusione di buone pratiche. Le imprese, infatti, hanno espresso esigenze

precise rispetto alle competenze di base, di ingresso e a quelle trasversali. Dal canto

loro, le scuole sono consapevoli dei limiti di un approccio “tradizionale” tanto

nell’insegnamento quanto nel rapporto con le aziende del territorio. A questo proposito,

una rilettura critica del tema dell’alternanza scuola/lavoro potrebbe favorire il matching

nel mercato del lavoro, aumentando così l’occupabilità dei soggetti e la soddisfazione

delle imprese. Si tratta di suggerimenti che la stessa Unione europea ha messo al centro

delle proprie riflessioni, affinché “la cultura del lavoro abbia più spazio in tutti i percorsi

di istruzione e formazione”16. L'alternanza viene quindi vista come uno strumento utile

per consentire l'acquisizione di competenze spendibili nel mercato del lavoro, per

valorizzare le vocazioni personali, gli interessi e gli stili di apprendimento e per correlare

l'offerta formativa allo sviluppo culturale, sociale ed economico del territorio (D. Lgs. n.

77/2005). In questa prospettiva, è stata oltretutto prevista la costruzione di poli tecnico-

professionali attraverso accordi di rete tra istituti tecnici, istituti professionali, centri di

formazione professionale accreditati e imprese (D. Lgs. n. 13/2013).

Ma ripensare al ruolo dell'alternanza significa anche mettere in discussione delle

pratiche consolidate nei rapporti tra singoli docenti e imprenditori. A questo proposito,

potrebbe essere interessante ragionare su una prospettiva micro che metta al centro i

singoli studenti come agenti di cambiamento. In un simile approccio, il monitoraggio e la

valutazione dei percorsi dei alternanza dovrebbe partire dai singoli studenti,

consentendo così di valutare, da un lato, lo scarto tra la preparazione fornita dalle scuole

e quella richiesta dalle imprese – con meccanismi di feedback sui programmi dei docenti

– e, dall'altro, le aspettative e le competenze trasversali apprese durante il percorso.

3.1.1.2. Ripensare l’alternanza scuola/lavoro per agire sull’imprenditorialità

Favorire la partecipazione degli imprenditori alle lezioni può essere utile per avvicinare

gli insegnamenti ai nuovi linguaggi e contenuti, per stimolare gli studenti e quindi, in

maniera indiretta, per agire sull’imprenditorialità. A questo proposito i docenti mettono

16

Indire (2013), Costruire insieme l’alternanza scuola-lavoro, pag. 4.

http://www.indire.it/scuolavoro/consultazione/?page_id=48

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in evidenza come, la vicinanza del mondo delle imprese, anche durante i periodi di

stage, risulti rilevante.

“Con gli stage abbiamo risultati positivi. I ragazzi rispondono in maniera

migliore che in classe. Ragazzi annoiati che fanno il minimo indispensabile in

azienda fanno bene, la scuola di ora è un po’ lontana dalle esigenze dei

ragazzi di oggi che sono bloccati in aula mentre in azienda si muovono,

cambiano” [insegnante scuola 2].

“Probabilmente sentono l’importanza del periodo, perché è breve,

l’importanza dell’esperienza, la novità con persone che non conoscono. La

vivono come una nuova esperienza” [insegnante scuola 1].

Nonostante ciò, tale consapevolezza si scontra con due limiti. Il primo, di natura

organizzativa, riguarda le scuole; il secondo, di natura relazionale, si riferisce al rapporto

con le imprese. Quanto al primo punto, dal confronto tra i docenti emergono limiti

connessi con le risorse, sia economiche che organizzative:

“Mercato è flessibilità e innovazione, le scuole devono adattarsi: io vedo che

a scuola ci mancano sempre, per essere flessibili e innovativi, i soldi”

[insegnante scuola 6].

“C’è da parte dei docenti una mentalità chiusa, questo sicuramente”

[insegnante scuola 5].

“La scuola non è pronta. C’è un blocco di persone con una predisposte a non

cambiare. […] è mancata la continuità ed i nostri insegnanti non hanno

neanche cercato…si sono adeguati” [insegnante scuola 3].

“Ho visto anche un’altra cosa, tante iniziative, tante cose nuove sono sulle

spalle di pochi e spesso precari. […] Ma anche noi docenti, dobbiamo sapere

come funziona e bisogna essere formati. Spesso queste cose che sono a costo

zero vengono messe sulle spalle di chi ha voglia. Voglio essere un po’ cattivo,

chi ha le spalle coperte e sta tranquillo dice io ho il mio libro non mi rompete

le scatole e le spese le fanno i ragazzi” [insegnante scuola 1].

Tuttavia, nonostante i docenti siano ben consapevoli delle insufficienze delle strutture

scolastiche, il ridimensionamento della distanza dagli imprenditori e la creazione di un

raccordo sistemico tra mondo del lavoro e scuola, che eviti una concorrenza tra gli

istituti per stringere accordi con le imprese, pare essere oramai un'esigenza

inderogabile.

“Un po’ questo ma dall’altra parte, anche le aziende ci hanno un po’

abbandonato, sì noi li mandiamo a fare gli stage, ma ripeto, finisce lì”

[insegnante scuola 1].

“Questa flessibilità ce la deve dare anche il mondo dell’impresa […] in modo

che anche i ragazzi sentano questa vicinanza dell’impresa, dell’industria e del

mondo artigianale. Per ora siamo due cose staccate” [insegnante scuola 6].

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Emergono allora degli spazi di collaborazione che possono avvantaggiarsi degli strumenti

dell’alternanza scuola/lavoro per sperimentare percorsi triennali di formazione. A questo

proposito, tanto le imprese quanto le scuole hanno mostrato segnali di disponibilità.

Tutto ciò potrebbe inoltre stimolare la creatività e l’intraprendenza degli studenti più

interessati. Dal confronto emergono infatti due strategie differenti ma integrabili. La

prima, ha l’obiettivo di portare l’impresa dentro le classi – e non solamente nelle scuole

- mentre la seconda, attraverso azioni specifiche, vuole valorizzare le competenze dei

singoli studenti.

“(Gli imprenditori vengono) in aula magna, con una decina di classi davanti,

quindi non c’è un rapporto più vicino, con domande, scambi. Fanno il loro

intervento, magari di 2 ore, ma molto distante” [insegnante scuola 2].

“Sì è vero, ma qualche volta l’ho pensato anche io. Li portano in aula magna,

sono 200, non sono preparati per l’intervento. Se le cose fossero fatte bene, e

anche l’intervento fosse mirato….”[insegnante scuola 3].

“Mi sembra che questo concetto dell’alternanza scuola lavoro non è stato

capito bene, anche dagli insegnanti. E quindi questi interventi di preparazione

vengono visti come una cosa remota. E questo è anche colpa della scuola che

deve innovare da questo punto di vista. Non ce l’abbiamo ancora fatta”

[insegnante scuola 6].

“C’è un lavoro di preparazione da fare che è piuttosto grosso. Se un

imprenditore viene e ci parla anche più di una volta … mi piacerebbe un

percorso più continuativo, ma va inserito in un contesto di preparazione.

Perché sennò rimane sempre fine a se stesso. Qui siamo noi scuola, ed è forse

il nostro punto debole: non siamo ancora pronti a questo” [insegnante scuola

3].

Si tratta quindi di ripensare i percorsi di incontro, con docenze specifiche e riservate ad

alcune classi, agendo allo stesso tempo, anche grazie al coinvolgimento dei docenti più

motivati, sulla valorizzazione delle attitudini degli studenti.

“Lo scorso anno hanno vinto il primo premio per la costruzione di una

bicicletta servoassistita in un contest regionale. Dietro però c’era un

ingegnere che faceva la libera professione. Sono figure che hanno

un’esperienza extrascolastica” [insegnante scuola 1].

In seconda battuta, avvicinare l’impresa alle classi può agire a livello di competenze

trasversali e di ingresso.

“Comunque i ragazzi hanno bisogno di sentir parlare persone non tanto sulla

tecnologia e i nuovi software, anche, ma hanno bisogno di capire

l’organizzazione dell’ufficio, come si fanno le cose, se la busta paga è

veramente così come hanno insegnato, le piccolezze, l’organizzazione”

[insegnante scuola 3].

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Da un lato, infatti, anche gli studenti meno inclini al settore, possono venire stimolati

dalla presenza di imprenditori – spesso giovani – nelle classi; dall’altro, quegli stessi

imprenditori possono ridurre le asimmetrie informative con gli insegnanti, migliorando

le competenze necessarie per entrare subito in azienda.

In conclusione, dal confronto emerge la disponibilità delle scuole a intraprendere nuove

relazioni con le imprese. Così, sebbene permangano limiti organizzativi e resistenze

prevenienti da alcune figure interne, la necessità di instaurare un nuovo rapporto con le

aziende pare essere una questione inderogabile. Tale prospettiva, anche al fine di

migliorare la qualità del mercato del lavoro locale, sembra incontrare anche il favore

degli imprenditori.

Nonostante ciò, emergono, seppur in maniera indiretta, alcune criticità rilevanti. Pur

evidenziando la necessità di un soggetto di mediazione, capace di mettere in contatto

sfere diverse facendo circolare informazioni e fiducia, nessuno dei gruppi di partecipanti

ha infatti chiamato in causa i governi locali o gli attori collettivi – associazioni di

categoria e sindacati -. Si tratta di un tema rilevante perché una nuova strategia

finalizzata alla promozione di nuovi percorsi di alternanza, al monitoraggio e alla

valutazione degli esiti formativi, alla diffusione di buone pratiche e al coinvolgimento

sistemico di studenti, docenti e nuovi imprenditori non può basarsi su decisioni

individuali ma deve essere sostenuta da un approccio sistemico che coinvolga le

istituzioni nel loro complesso. In altre parole, oltre a un maggiore dialogo tra mondo

della formazione e imprese, ciò che sembra mancare è un ruolo più attivo delle

organizzazioni collettive pubbliche e private.

Infine, come abbiamo anticipato nel secondo capitolo, in una prospettiva di

consolidamento e crescita del cluster, il ruolo degli studenti può essere cruciale.

Avvicinare il mondo dell'impresa a quello della scuola e dell'università non significa

infatti favorire soltanto la diffusione di nuovi linguaggi e contenuti ma permette anche

agli studenti di intravedere una prospettiva diversa: quella dell'impresa. In altre parole,

un ripensamento dei percorsi di alternanza scuola/lavoro, la maggiore presenza di

imprenditori – sia nelle classi sia in altri ambiti dedicati a valorizzare le caratteristiche dei

soggetti più motivati -, unita alla consulenza e al sostegno – anche finanziario – di un

soggetto terzo, può stimolare la nascita di nuove aziende agendo sulla leva

dell'imprenditorialità. Si tratta quindi non soltanto di ampliare il bacino di soggetti

specializzati ma anche di immaginare come formare nuovi imprenditori.

3.1.2 La formazione professionale come vettore di innovazione

Il tema del mercato del lavoro locale non riguarda solamente i diplomati e i laureati. In

un’ottica di consolidamento del cluster e di trasferimento delle conoscenze Ict alle

imprese manifatturiere o di servizi, anche la manodopera meno qualificata, che

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fuoriesce dal mercato del lavoro, potrebbe diventare un vettore di innovazione

attraverso percorsi formativi dedicati e focalizzati sui temi dell’Ict.

“La cosa che ci ha reso la vita difficile è che la Regione Toscana, e poi anche le

province, per la precedente fase di programmazione e quella in corso, non

hanno dato priorità al settore Ict. Passava avanti tutta la progettazione di

tipo artigianale: pasticceri, fornai, estetisti, parrucchieri e così via. Questo

anche perché c’è l’idea di fondo che chi è uscito dal mondo della produzione

tessile abbia una bassa scolarizzazione e capacità solo manuali e quindi non

possa fare un’attività concettuale come l’informatica. Abbiamo sofferto

questa mancanza di risorse e non è stato possibile crescere, rimanendo con le

relazioni all’interno del territorio e con la piccola parte di risorse dedicate

abbiamo potuto fare corsi finanziati sull’Ict” [responsabile agenzia

formativa].

In questa prospettiva, anche i soggetti attualmente al di fuori del mercato del lavoro

potrebbero trasformarsi in “promotori” capaci di trasferire nuove conoscenze a imprese

tradizionali o di piccole e piccolissime dimensioni. Tutto ciò consentirebbe di agire sul

miglioramento della competitività delle imprese locali e sull'allargamento del mercato

per lo sviluppo e la diffusione di tecnologie Ict.

“Questo perché c’è il mito che l’informatica non dia un lavoro subito, ma non

c’è solo l’informatica di base. Ci sono figure professionali che magari non

serve un corso di 40 ore ma magari un corso di qualifica di un anno. E lì si che

ci sono richieste” [responsabile agenzia formativa].

La predisposizione di bandi che possano consentire a soggetti fuoriusciti dal mercato del

lavoro di ritrovare un’occupazione e, attraverso le competenze acquisite durante i

percorsi di formazione, contribuire all’incremento della competitività delle imprese

locali richiede necessariamente un cambio di prospettiva. In questa logica, due sono gli

elementi chiave. Anzitutto, come osservato in precedenza, una simile strategia richiede

la definizione di percorsi chiari e la valutazione degli interventi da parte degli attori

collettivi. In secondo luogo, accanto agli investimenti in infrastrutture, l’intervento

pubblico può avvenire anche attraverso la programmazione di una formazione specifica

che accanto al tema dell’occupabilità affianchi quello della crescita delle imprese locali

attraverso investimenti adeguati in capitale umano.

3.1.3. I laureati in informatica: pochi quanto preziosi

Anche nell’evenienza in cui la formazione scolastica e professionale si perfezionasse

nella direzione di una maggiore focalizzazione rispetto all’ecosistema digitale pratese,

per completare e risolvere il problema della carenza di risorse umane si dovrebbe

affrontare il tema della formazione universitaria. Su questo versante si può innanzi tutto

sostenere che, attualmente, la domanda di laureati da parte delle imprese del cluster Ict

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pratese è inferiore a quella dei diplomati e, allo stesso tempo, prevalentemente

riconducibile alle imprese predatrici. Queste ultime imputano al sistema formativo

universitario due tipi di criticità. In primo luogo, tali aziende ritengono che i programmi

universitari non siano adatti alle esigenze del mercato.

“Il problema è trovare risorse qualificate. Le università italiane sono ottime

ma non molto pratiche. Quando uno esce, se non si è dedicato per conto suo

allo studio di altre cose, non sa fare niente. Alcune volte prendiamo stagisti,

anche molto ben laureati, con l’intento di formali e assumerli, ma dopo 3-6

mesi, quando escono dallo stage sono ancora molto acerbi” [imprenditore 3].

In secondo luogo, pongono il problema della scarsità delle risorse umane. I laureati in

ingegneria informatica sono pochi, così come scarse sono le altre figure richieste da

imprese dell’Ict che non fanno riferimento alla semplici programmazione informatica.

“Noi puntiamo più su laureati con competenze diverse in campo umanistico:

storici dell’arte, gente che sa scrivere, ci servono grafici, sviluppatori

software. Ci servono anche figure molto specializzate, come l’exibit designer,

ma quelle si trovano soltanto all’uscita da un master che forma 40 persone

l’anno in Italia” [imprenditore 6].

Il primo problema entra nel merito del tipo di formazione che un’università deve fornire.

In proposito, le imprese e docenti condividono l’opinione che l’università italiana ha un

livello di professionalizzazione più basso rispetto ad altri istituti stranieri. Tuttavia, il

carattere generale e teorico della formazione universitaria, tanto criticato dalle imprese,

è difeso dai docenti perché, a loro avviso, ha l’obiettivo di fornire agli studenti quelle

basi che permettano loro di tenersi costantemente aggiornati in un panorama

tecnologico molto vasto e in continua evoluzione.

“Noi facciamo il nostro meglio, ma quello che uno studente laureato sa, a

distanza di due anni, è inevitabilmente inutilizzabile. Io ogni anno cambio il

10-20% del mio programma per andare incontro alle evoluzioni della

tecnologia, ma è una battaglia persa, sarà sempre una battaglia persa, l'Ict

va talmente veloce che anche noi si rimane indietro. L'università non deve

dunque insegnare solo il java o il nuovo java, deve insegnare a studiare bene,

da solo, è questo che sanno fare i nostri studenti, che poi si devono tenere

aggiornati da soli, leggendosi i manuali che servono. Si devono insegnare i

paradigmi, poi ogni posto di lavoro ha bisogno di linguaggi diversi”[docente

universitario].

D’altra parte, sia l’ateneo che i singoli docenti riconoscono l’insufficienza di relazioni con

le imprese, sia sul fronte della declinazione dei programmi che per migliorare

l’articolazione dei tirocini, degli stage o delle tesi di laurea. Questo problema era stato in

passato risolto attraverso l’istituzione di una Commissione di indirizzo aperta alle

imprese che aveva il compito di accrescere l’aderenza tra le esigenze del sistema

produttivo e i corsi universitari. D’altra parte, questa sperimentazione non ha avuto

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molta “fortuna”, dato che la Commissione del corso di laurea in Ingegneria informatica

dell’Università di Firenze è stata riunita una sola volta dalla sua costituzione. Anche un

secondo strumento, di diversa natura, adottato dall’ateneo fiorentino per incrociare la

domanda con l’offerta di lavoro a valle del processo formativo, non ha manifestato

l’efficacia attesa. Si tratta del servizio di incontro tra laureati e imprese, conosciuto a

Firenze come Career Day, molto gradito dal punto di vista dei partecipanti ma

scarsamente efficace sul versante dell’Ict. Basti pensare che dei 1.544 iscritti all’evento

del 2013 soltanto 17 studenti erano laureati in ingegneria informatica o in ingegneria

dell’informazione.

Per quanto queste due criticità siano rilevanti, il problema effettivo della forza lavoro

qualificata sembra essere un altro. Dai colloqui con i docenti universitari e dai dati sugli

iscritti e gli occupati disponibili emerge infatti è una situazione di carenza strutturale

dell’offerta. Ogni anno in Toscana si iscrivono ai corsi di laurea di ingegneria informatica

circa mille studenti, di cui più della metà risultano immatricolati nell’ateneo pisano, uno

su cinque in quello fiorentino e poco più di uno su 10 a Siena. Si tratta di un bacino

piuttosto importante che, tuttavia, si esaurisce rapidamente. I dati AlmaLaurea sulla

condizione occupazionale dei laureati in Ingegneria dell’Informazione segnalano infatti

uno scenario netto quanto insolito per i laureati italiani. Nel 2011 l’Università di Firenze

ha laureato 34 studenti magistrali e 143 triennali (il 78% dei quali ha continuato il

percorso specialistico). Di questi 177 giovani, il 30% già lavorava durante i corsi

universitari, spesso svolgendo piccoli lavori utilizzando la partita iva, mentre buona

parte di quelli laureati ha trovato lavoro poco dopo la conclusione del percorso di studi.

Tra i laureati triennali, il tempo medio che intercorre tra la ricerca del lavoro e

l’assunzione è di 1,6 mesi, mentre tra i laureati specialistici questo periodo di tempo si

riduce ulteriormente a 0,9 mesi. Nel 2012, a un anno di distanza dalla laurea, solo 3 dei

34 laureati magistrali stava ancora cercando lavoro (tab 2).

I numeri presentati mostrano chiaramente che le competenze qualificate in ambito

informatico sono scarse quanto preziose. Ciò accresce la forza contrattuale dei laureati e

la competizione tra le imprese per aggiudicarsi gli studenti migliori. Gli effetti di questa

condizione insolita di questo tipo di laureati ha un duplice effetto. Da un lato, squalifica

alcuni strumenti di matching domanda/offerta di lavoro utilizzati dalla Regione Toscana,

nello specifico i tirocini retribuiti, che offrono un compenso troppo basso perché possa

essere preso in considerazione da questi neodottori. Dall’altro, fa sì che le imprese più

grandi e prestigiose, che intrattengono relazioni dirette con i docenti universitari,

precettino gli studenti migliori, offrendo loro una tesi di laurea in azienda e,

successivamente, proponendo loro un impiego retribuito. Questa condizione spiega

anche la scarsa qualità che alcuni imprenditori riscontrano nei laureati: i laureati ancora

sul mercato risultano infatti mediamente meno qualificati di quelli che lo hanno già

trovato attraverso contatti diretti o che sono attirati dalle posizioni di prestigio offerte

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dalla grandi imprese locali e extralocali; gli strumenti di matching tra domanda e offerta

di lavoro successivi alla laurea organizzati dalle università sono strumenti spuntati in un

mercato dinamico come quello dei programmatori.

Tabella 2 - Condizione occupazionale dei laureati di Ingegneria dell'informazione dell'Università di Firenze (2011)

Laureati corso triennale (n = 143) Laureati corso specialistico (n = 34)

Lavora e non è iscritto alla specialistica 18,7% Lavora 77,4%

Lavora ed è iscritto alla specialistica 23,1% Non lavora e non

cerca

12,9%

Non lavora ed è iscritto alla specialistica 55,2% Non lavora ma cerca 9,7%

Non è iscritto alla specialistica e cerca

lavoro

3,0%

Tempo dalla ricerca al lavoro (in mesi) 1,6 0,9

Fonte: AlmaLaurea

La carenza di offerta di lavoro introduce dunque il problema di come riuscire ad attirare

laureati altre parti della Toscana o da altre regioni e, di conseguenza, apre al tema

dell’attrattività del contesto pratese per figure professionali che, anche fuori dall’area

metropolitana, riescono facilmente a trovare un’occupazione sia vicino ai contesti dove

abitano che in città più attrattive per l’Ict, come Milano, Torino, Pisa e la stessa Firenze.

Sul piano delle politiche appaiono pertanto rilevanti due tipi di misure:

tentare di accrescere il numero di iscritti alla facoltà di ingegneria dell’informazione

sensibilizzando quanto possibile gli studenti medi pratesi al settore e facendo leva

sui rendimenti occupazionali del titolo di studio;

connettere le imprese del territorio con i docenti universitari e i dipartimenti per

creare quei legami che potrebbero condurre a veicolare verso il territorio la prima

scelta dei laureati;

rendere più attrattivo il territorio, in modo tale che i giovani dell’area metropolitana

non se ne vadano altrove e che, a parità di offerta di compenso, i giovani che vivono

lontano trovino stimolante scegliere Prato come città in cui lavorare.

Per quanto riguarda invece il tema dell’inadeguatezza delle competenze dei laureati alle

richieste degli imprenditori sarebbe opportuno, da un lato, che si agisse per una

maggiore integrazione tra mondo accademico e imprese sul piano dei programmi,

azione che può passare da una maggiore pressione di quest’ultime o dei loro

rappresentanti direttamente sui dipartimenti universitari; dall’altro, per un’azione

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congiunta delle imprese, in accordo con le università o altre istituzioni preposte, per

formare i laureati sulle tecnologie e i linguaggi programmatori più recenti e più utilizzati.

In quest’ultimo ambito si segnala l’efficacia di alcune esperienze di master universitario

(es. il Master in Multimedia proprio dell’Università di Firenze) che, anche grazie al

coinvolgimento diretto delle imprese nei corsi e negli stage, sta soddisfacendo

egregiamente le esigenze di alcune imprese pratesi più vicine questo specifico ambito

dell’Ict.

3.2. L’asse del connettere

Tra le molte cose che sappiamo delle imprese predatrici e delle imprese imbrigliate una

distinzione centrale riguarda le loro reti di relazione e la loro propensione alla

collaborazione. Per definizione, le seconde detengono una prevalenza di reti corte

mentre le prime dispongono di una mix di reti corte e lunghe e, allo stesso tempo, non

sembrano distinguere il confine tra il mercato locale e il mercato metropolitano. In ogni

caso, se pur con livelli diversi, entrambi i due tipi di impresa registrano scarsi livelli di

collaborazione all’interno del cluster.

Il grafo sotto riportato rappresenta l’insieme di collaborazione formali (archi rossi) e

informali (archi neri) che le imprese pratesi (nodi in rosso) intrattengono con altre

imprese dell’area metropolitana (rosso chiaro), regionali (giallo), nazionali (celeste) o

internazionali (blu). Anzitutto, il grafo mostra la presenza di un gruppo di imprese

isolate, ovvero aziende di piccola dimensione, con fatturati modesti, che competono sul

mercato locale facendo affidamento prevalentemente a risorse esterne. A questo primo

idealtipo di impresa se ne aggiunge un secondo, contraddistinto da aziende di piccole

dimensioni con collaborazioni di corto raggio con altre imprese prevalentemente locali,

relazioni diadiche limitate e occasionali che si compongono e scompongono a seconda

dei clienti da servire. Un terzo tipo di reticoli sociali presenti sul territorio riguarda

invece quelle imprese che hanno reti prevalentemente metropolitane composte da

imprese esterne al settore Ict; in questi casi, si tratta spesso di clienti con cui le aziende

del cluster collaborano per lo sviluppo di prodotti o servizi. Un quarto tipo di reticolo è

quello di due imprese che bypassano completamente il territorio, caratterizzandosi

esclusivamente per reti nazionali o internazionale. Infine, i reticoli più complessi sono

addensati alle imprese relazionalmente più strutturate e a cui è riconosciuta anche una

leadership tecnologica. In questo caso due delle quattro reti più articolate, localizzate al

centro del grafo, riguardano le software house tradizionalmente legate a doppio filo al

tessile pratese che, evidentemente, mutuando una modalità di funzionamento

distrettuale, possono disporre di un capitale relazionale denso e composito.

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Figura 2 - Le reti formali e informali delle imprese del cluster pratese dell'Ict

La rete più grande è tuttavia quella che ruota attorno ad alcune imprese predatrici, che

coltivano molte relazioni informali con altre imprese locali dell’Ict, oltre che con player

di spessore nazionale. L’ultimo dei network più strutturati include infine un’impresa

locale di telecomunicazioni, che beneficia di legami lunghi con altri operatori del settore.

Sebbene le imprese isolate siano una minoranza rispetto a quelle che invece

intrattengono relazioni con altre imprese ciò che il primo grafo restituisce è un reticolo

molto frammentato. Spesso le imprese dell’Ict locale non si conoscono o, nel caso in cui

la relazione sussista, essa non compenetra la dimensione di mercato, dando vita a

relazioni commerciali, ma rimane soltanto a livello informale e limitata al “semplice”

scambio di informazioni.

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Figura 3 - Il network formale del cluster pratese delle Ict

D’altra parte, il secondo grafo mostra come, se si prendono in considerazione i soli

legami formali, ovvero quelli che hanno dato luogo a una collaborazione fattiva tra

imprese, i network delle imprese si restringono ulteriormente (Fig. 3). In particolare,

escludendo le relazioni formali, acquista un forte valore simbolico soprattutto la

frammentazione del network delle imprese predatrici in cinque componenti (Fig. 4,

grafo di destra).

Figura 4 – La sconnessione della componente delle imprese predatrici.

Come abbiamo mostrato anche nei capitoli precedenti, la difficoltà di sfruttare

economicamente la buona dose di capitale sociale di cui i singoli imprenditori

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dispongono è compresente a una spiccata predisposizione alla cooperazione. Si tratta di

un paradosso che, col passare del tempo, è diventato sempre più marcato. Da una parte,

la velocità crescente e costante con cui le tecnologie e i mercati dell’Ict variano nel

tempo genera uno scenario di incertezza. Un esempio delle sfide a cui le imprese di

questo settore sono costantemente esposte è facilmente rintracciabile nella celerità con

cui le interfacce touch e le applicazioni per tablet e smarthpohone si sono affermate sui

mercati internazionali. La conseguenza di questa rivoluzione continua è che, in un lasso

di tempo ristretto, ogni impresa dell’Ict ha avuto l’esigenza di aggiornare le proprie

competenze per offrire ai propri clienti una versione rinnovata dei servizi forniti. Le

imprese che hanno saputo anticipare tale capacità hanno potuto beneficiare di un

vantaggio competitivo iniziale, che però si è eroso rapidamente nel tempo. Per

affrontare l’incertezza derivante dal ritmo incalzante della tecnologia informatica le

imprese hanno pertanto bisogno di costanti aggiornamenti, ma soprattutto di flussi

informativi che anticipino le tendenze in atto. L’esigenza di connessione matura dunque

dalla volontà di agganciare ancor meglio le reti lunghe che possono veicolare

informazioni non ridondanti rispetto agli andamenti del mercato e delle tecnologie. Ma

in un contesto frammentato come quello del cluster pratese, in cui le imprese adottano

strategie di specializzazione in nicchie di mercato, connettere potrebbe anche significare

la creazione di nuove opportunità di collaborazione tra aziende che dominano segmenti

tecnologici differenti.

Un secondo fattore, che spinge gli imprenditori a propendere maggiormente per la

collaborazione più di quanto abbiano fatto in passato, riguarda una nuova percezione

del mercato che, per alcuni servizi Ict, appare potenzialmente illimitato. La facilità con

cui si possono penetrare i mercati finali fa sì che, oggi più che mai, gli imprenditori

percepiscano che l’introduzione di un’innovazione nel mercato potrebbe condurli

all’idea giusta per la conquista di nuove fette di mercato nazionali e internazionali. Nel

settore Ict, la fluidità non caratterizza infatti soltanto le tecnologie, ma anche gli attori

che via via si presentano sulla scena nazionale o internazionale e che conquistano, per

un periodo più o meno limitato, la scena internazionale. Su questo versante basti

pensare al settore del gaming, poco sviluppato a Prato, ma in grado meglio di altri di

rappresentare il fenomeno delle “montagne russe” tra le imprese informatiche. Ogni

pochi mesi folle di consumatori cercano nuovi giochi con cui sfidarsi e, in poco tempo,

giovani startupper riescono a prendersi la ribalta internazionale e costruirsi una

reputazione milionaria grazie a un’idea creativa applicata alla sfera ludica. L’ultimo caso

è quello dell’italiano Riccardo Zacconi, che sta per quotare la sua società localizzata a

Londra presso la borsa di New York, grazie al successo del suo applicativo giocato ogni

giorno da circa 9,7 milioni di utenti in tutto il mondo. La storia di Zacconi, come quella

degli inventori di giochi come Ruzzle o Angry Bird, è destinata ad essere soppiantata a

breve sulla scena mediatica da quella di altre società. L’effetto “montagne russe” non

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significa tuttavia che l’impresa di Zacconi (King.com), così come quelle che hanno

realizzato gli altri giochi citati (MAG Interactive e Rovio), sia destinata a scomparire dalla

scena economica, si tratta infatti di imprese che potranno valorizzare la loro reputazione

con altri lanci di mercato. L’estrema dinamicità del mondo digitale, descritta attraverso

l’esempio del settore del gaming, fa sì che gli imprenditori percepiscano la domanda

potenziale pressoché come infinità. Di conseguenza la propensione alla collaborazione

rispetto a un obiettivo comune orientato alla creazione di un’innovazione di prodotto

capace di conquistare mercati fluidi non può che far gola a molti. In altre parole, il mito

del miliardario che avvia la propria attività nel garage di casa, facilita la propensione alla

ricerca dell’innovazione dirompente e, nel caso in cui non si trovino le forze all’interno

della propria impresa, alla collaborazione.

Tuttavia, quanto abbiamo riscontrato nel contesto pratese è che questo stimolo

culturale non è di per sé sufficiente a generare collaborazioni effettive. In primo luogo, le

imprese più piccole hanno difficoltà a distogliere il fuoco delle proprie attività dalle

mansione ordinarie, quelle che sono generalmente svolte con un personale

sottodimensionato per il carico di lavoro richiesto. In secondo luogo, quando le

collaborazioni si sono effettivamente realizzate esse hanno generalmente avuto natura

occasionale. Inoltre, affinché collaborazione su fattori strategici possa avvenire, la

preoccupazione di eventuali comportamenti opportunistici richiede l’intervento di

istituzioni o attori volti a generare fiducia.

Questi tre fattori (carenza di risorse, occasionalità e rischio di comportamenti

opportunistici) hanno fino a oggi scoraggiato l’instaurarsi di effettive esperienze di

collaborazione e rafforzato il paradosso sopra delineato. Questa condizione porta le

imprese alla richiesta generalizzata di un intervento di un soggetto terzo, che abbia il

compito di promuovere nuove relazioni, dare continuità alle stesse e rendersi garante di

rapporti fiduciari. Per soggetto terzo gli attori ascoltati hanno inteso soggetti differenti:

un’organizzazione costruita specificamente, un professionista della mediazione e

dell’attivazione di reti o associazioni di categoria capaci di conciliare le esigenze delle

grandi con quelle delle piccole imprese.

Oltre al ruolo di mediatore, un soggetto di questo tipo avrebbe anche il compito di

connettere le imprese Ict con altri tipi di soggetti. Come mostrano alcune buone

pratiche sulla gestione di strutture di intermediazione, questi broker di relazioni

avrebbero infatti il compito di collegare le imprese con i centri di ricerca e con aziende di

altri settori, anche tradizionali, per le quali l’Ict potrebbe funzionare da tecnologia

abilitante. La connessione con i centri di ricerca e con le imprese tradizionali non deve

essere però considerata ancillare rispetto al lavoro di networking delle sole imprese Ict.

Se sapientemente orchestrati, i legami con i centri di ricerca potrebbero alimentare i

flussi informativi, lo scambio di risorse umane e il trasferimento di tecnologie sia dalle

università alle imprese che da queste ultime verso i centri di ricerca. La creazione di

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partenariati con aziende tradizionali avrebbe poi l’importante obiettivo di accrescere la

produttività e l’innovazione in settori che attualmente incorporano scarsi livelli di

tecnologia. In quest’ultimo caso, il mediatore assumerebbe un ruolo simile a quello del

converter, molto conosciuto anche nel distretto tessile; avrebbe cioè il compito di

convertire un’idea, sua o del committente, in un prodotto coinvolgendo una rete di

subfornitori di fiducia ed organizzando la produzione del prodotto o del servizio dalle

prime fasi di ricerca e sviluppo fino al prodotto finito.

Quanto richiesto dalle imprese è dunque un’attività di clustering che sappia trasformare

il grappolo sconnesso di imprese attualmente presenti nel contesto pratese in una rete

densa di relazioni che costituiscano l’humus per la generazione di nuove idee e la

composizione e scomposizione di partnership tra aziende differenti per specializzazione,

dimensione e settore di appartenenza. E’ evidente che i principali beneficiari di attività

di questo tipo sarebbero le imprese più piccole, per l’appunto poco capaci di impegnarsi

per strutturare meglio la loro organizzazione.

Impegni di questo tipo non sono cosa nuova per le politiche toscane. In effetti, le misure

della Regione per costruire reti di ricerca e sviluppo, da un lato, e la creazione di

centri/poli di competenza, dall’altro, sono due delle iniziative che già tentano di mettere

in rete le imprese regionali. Tuttavia, tali interventi hanno, fino ad oggi, coinvolto

scarsamente il territorio pratese, ancora focalizzato a difendere e risollevare le sorti del

proprio settore tradizionale. Nel caso delle politiche di rete poi, queste hanno

sicuramente avvantaggiato alcune imprese, anche dell’Ict pratese, che grazie ai fondi per

ricerca collaborativa hanno potuto realizzare progetti di ricerca e sviluppo altrimenti non

finanziabili. Ma l’opinione diffusa tra gli imprenditori più coinvolti è che le

collaborazione incentivate dalle politiche siano state essenzialmente strumentali al

reperimento dei fondi. L’impressione è che, specialmente per le imprese più piccole, la

partecipazione alla compagine non garantisca necessariamente un arricchimento in

termini di nuove idee, competenze o generazione di output effettivamente condivisi. Al

contrario, la costruzione di partenariati tra imprese dell’Ict, e tra queste e imprese di

altri settori produttivi, attorno a esigenze comuni e, soprattutto, l’orchestrazione di un

progetto prima di un eventuale finanziamento ex-post potrebbe scardinare la scarsa

efficacia delle politiche riscontrata dagli imprenditori. In questo caso, il contributo

pubblico potrebbe servire a finanziare in minima parte le attività di scouting da parte del

“soggetto terzo” e, semmai, a irrobustire i programmi di public procurement, volti

all’acquisto selettivo dei prodotti o servizi sviluppati da questi partenariati al fine di

agevolarne l’accompagnamento al mercato. Tale politica, oltre a sostenere la domanda

di prodotti, avrebbe anche il beneficio di accrescere la produttività e la qualità dei servizi

del settore pubblico.

Nell’ottica di una politica di clustering dal basso e finanziata prevalentemente ex-post,

particolare attenzione dovrebbe essere prestata all’organizzazione dell’intermediazione;

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questa dovrebbe avere caratteristiche professionali specificamente connesse con la

mediazione e lo scouting, ma anche con la padronanza del settore di riferimento, cosa

che potrebbe permettergli di riconoscere, prima di altri, le potenzialità della

connessione di due attori della rete al momento non connessi.

Le buone pratiche sul tema delle attività di networking sono molteplici. Tra queste, uno

degli interventi più rilevanti dal punto di vista sistemico è quello inserito nel polo di

competitività francese Cap Digital, che aggrega le numerose imprese, grandi e piccole, e

le università della regione parigina17. Questo polo, inevitabilmente di grandi dimensioni,

persegue una specifica funzione di networking che si espleta in una molteplicità di azioni

che vanno dalla costruzione di partenariati con le università per azioni congiunte di

ricerca e sviluppo a politiche più strettamente relazionali. Queste seconde sono

perseguite attraverso un programma specifico del polo, chiamato Think Tank, che mira a

creare scambi tra le imprese in maniera trasversale rispetto alle appartenenze settoriali.

Ciò avviene attraverso vari appuntamenti: il primo è il DigiBreakfast, una discussione

animata tra attori istituzionali e industriali con frequenza bimestrale; il secondo è il

DigiEvenings, ovvero delle conferenze serali, anch’esse con cadenza bimestrale,

organizzate dal polo su un tema specifico; il terzo appuntamento è invece basato su

gruppi di discussione sulle prospettive tecnologiche (come l’internet delle cose, il

pensare transmediale, il design dell’educazione, ecc.). Infine, CapDigital organizza anche

eventi aperti ad altre imprese e si impegna a far fluire informazioni sulle tecnologie e i

mercati attraverso delle riviste generaliste e specifiche (es. e-healt, tv interattiva, ecc.) a

cui le aziende del polo possono abbonarsi a prezzi agevolati.

L’esempio sopra riportato sulle buone pratiche di connessione ha senz’altro il vantaggio

della dimensione territoriale, di scala regionale, su cui il polo opera che permette di fare

massa critica rispetto alle competenze industriali e di ricerca. Più alto il numero di

aderenti, più diversificate le imprese che vi partecipano, più estesa la rete dei contatti

con i centri di ricerca, maggiore sarà la possibilità di far veicolare all’interno della rete

informazioni e contatti non ridondanti. Per tale ragione, questo tipo di attività potrebbe

essere realizzata su scala più ampia rispetto al solo territorio pratese, ma con specifica

attenzione alle esigenze delle sue imprese che, finora, sono state invece al margine della

politica regionale dei centri di competenza.

17

Per maggiori informazioni sul polo Cap Digital e sulle sue attività si veda il sito www.capdigital.com. Per una più generale comprensione del fenomeno dei pôles de compétitivité francesi e per una loro prima valutazione si veda Duranton G., Martin P., Mayer T., Mayneris F., (2008), Les pôles de compétitivité. Que peut-on en attendre?, Éditions Rue d’Ulm/Presses de l’École normale supérieure, Paris e BearingPoint France SAS, Erdyn, Technopolis Group-ITD (2012), Etude portant sur l’évaluation des pôles de compétitivité..

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3.3. L’asse dell’innovare

La propensione all’innovazione è sicuramente una delle dimensioni che più spiegano la

differenza tra imprese predatrici e imprese imbrigliate. Le prime hanno più chiaro

l’ambito e le opportunità per introdurre nuovi prodotti e nuovi servizi sul mercato,

anche se, come abbiamo visto poco sopra e nel primo capitolo, possono incontrare

problemi di altra natura: come la difficoltà di confrontarsi con una domanda non

preparata a recepire tali nuovi prodotti o come il disorientamento rispetto a tecnologie

che cambiano rapidamente, che cela il rischio di investire troppo, o troppo poco, in un

ambito che potrà o meno beneficiare delle “montagne russe” a cui il mercato dell’Ict ci

ha abituati negli anni più recenti. I problemi riguardano dunque l’incertezza che ruota

attorno all’investimento in innovazione. Se questo vale per le imprese più grandi, le

imprese più piccole manifestano una più consistente difficoltà a trovare risorse,

finanziarie e umane, da poter impegnare in attività di progettazione e di ricerca e

sviluppo.

Le imprese predatrici hanno ben chiaro cosa manca al contesto cittadino:

“Il problema è creare un contesto adeguato […]. Per esempio un polo

tecnologico entro cui le aziende più piccole possono essere incubate e

possono crescere poi con le aziende più grandi, con una visione di mercato.

Serve un contesto per far crescere imprese innovative, con osservatori che

indicano alle imprese dove investire. […] Dove crescere a fianco a fianco, dove

c’è un humus o una cultura comune […]. Perché oggi le occasioni non

mancano, anche remunerative, se uno non le conosce e non sa cosa fare non

le coglie e magari si mette a fare anche cose molto difficili, ma che non

portano a niente. […] Io lo farei volentieri un polo con osservatorio e venture

capital, comitato scientifico, gente matta. Se l’ambito pubblico ci mette a

disposizione gli ambienti, parlo a titolo personale, glielo offriamo noi il polo

tecnologico“ [imprenditore 5]

L’idea di uno spazio fisico che faccia da ecosistema per l’invigorimento del settore,

caratterizzato dalla presenza di servizi dedicati all’Ict, da un osservatorio sulle tecnologie

e da strutture di incubazione per giovani startup, è giudicata positivamente dalla

maggior parte degli imprenditori intervenuti, specialmente se predatori. Ciascuno dà poi

la propria interpretazione delle caratteristiche specifiche e le funzioni che questo polo

dovrebbe avere:

“Sul polo tecnologico, ognuno può avere la sua opinione, la mia è molto

rivolta alle startup […]. Per una città e per un ecosistema penso sia utile

sviluppare aziende giovani e innovative. […] Quindi non per noi ma per le

imprese più giovani. Un incentivo a quel tipo di aziende anche se non è un

incentivo diretto per le nostre imprese è un incentivo per l’ecosistema, serve a

far avere maggiore cultura informatica, incentivare la formazione di nuove

competenze, anche perché noi recentemente abbiamo assunto anche persone

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che vengono da fuori Italia perché ci sembrava di aver esaurito il bacino di

competenze disponibili. Ma uno che deve muoversi da Roma o da Milano è

più probabile che vada a Pisa, perché c’è un polo riconosciuto, di competenze,

o verso Firenze, che è il capoluogo, ma non viene certo a Prato. Mentre

magari con un polo tecnologico che dimostri di portare innovazione, di

portare aziende interessanti, dove si fanno attività sia di business che senza

scopo di lucro, allora potrebbe essere un attrattore. Io il polo lo intendo così,

dove fare conoscenze, generare, capace di generare marketing territoriale,

che attiri competenze e denaro. Magari potrebbe essere anche un luogo che

può catalizzare le risorse private che sono state risparmiate dagli imprenditori

prima delle crisi del tessile e che potrebbero essere oggi reinvestite in

tecnologia” [imprenditore 3].

“Riguardo all’incubatore/polo tecnologico, per noi oggi è davvero difficile

mettersi in partnership con molte startup, piccole imprese che fanno ricerca

all’interno dei poli o degli incubatori. Anzi di solito queste imprese sono chiuse

nel mettere sul tavolo le loro competenze, proprio per paura della grande

impresa possa sfruttarle. La difficoltà della relazione con queste strutture è

questa: i piccoli hanno un tasso di innovazione elevato ma hanno paura, le

grandi hanno grandi competenze commerciali ma magari una carenza

nell’innovazione nella capacità di fare ricerca e sviluppo che tanto costa

all’imprenditore. Pensare a un’entità super partes che permetta di conoscere

gli skills di ciascuno di noi sarebbe importante, noi conosciamo

superficialmente le imprese del territorio ma non sappiamo come utilizzarle”

[imprenditore 2].

“Sul polo, credo che serva qualcosa, chiamatelo polo tecnologico, chiamatelo

allenatore, ma serve qualcuno che dia continuità, che sia incentivato a

coinvolgere le aziende a proporre progetti e non che si fermi a una

collaborazione come adesso” [imprenditore 1].

“Non ho rapporto con l’università, ma lo riterrei basilare per la promozione di

strumenti, miglioramenti dei processi e dei rapporti tra le aziende […], ma

progetti sostanziosi. E applicati, poi, dalle aziende che ci sono sul territorio. Se

uno chiudesse il ciclo: uno pone le esigenze e le strategie, uno propone il

progetto vedendo quello che nel mondo c’è di meglio. La nostra azienda non

lo può fare, per questo servono i centri di ricerca. Se l’università prende i soldi

per un progetto e si ferma lì, senza riportarlo sulle imprese del territorio come

attuatori o sviluppatori non c’è prospettiva. Questa catena si crea in centri

appositi. L’incubatore doveva servire a questo. Mi dispiace che un centro

come Navacchio non sia nato qui, nella più grande realtà industriale della

toscana [imprenditore 8].

“Ho conosciuto aziende che partecipano all’incubatore di Navacchio, per

quello che ho visto mi sembra un’ottima iniziativa per creare sinergie e creare

competenze e risorse tecnologiche. Noi abbiamo competenze verticali,

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confrontarci con altre competenze potrebbe essere utile, per nuove

collaborazioni” [imprenditore 4].

In altre parole, le imprese si rendono conto che la presenza di un polo in un territorio

può avere sia effetti diretti sull’innovatività delle singole imprese che effetti indiretti, con

la creazione di un ecosistema che alimenti identità locale e, a cascata, promuova la

cultura informatica, competenze imprenditoriale, preveda spazi per il coworking e faciliti

l’attrazione di risorse umane qualificata dall’esterno. Il riferimento al polo di Navacchio è

pervadente nell’esperienza e nell’immaginario degli imprenditori, tracciando così un

termine di confronto che deve inevitabilmente essere preso in considerazione. Ma a

Prato serve davvero replicare l’esperienza dell’incubatore di Navacchio?

Oltra a veicolare e rinnovare l’immagine della tradizione pisana su scala nazionale, il

polo di Navacchio offre servizi avanzati alle imprese tecnologiche, sia incubandole e

accompagnandole per tre anni di vita, sia ospitandone di già consolidate. Offre loro

l’accesso al network interno e esterno di relazioni, a specifiche fonti di finanziamento,

forma gli imprenditori e lo staff a tecniche di marketing, comunicazione e gestione delle

imprese, ha la possibilità di fornire servizi di asilo nido, mensa, foresteria. Si tratta di una

delle esperienze più avanzate in Italia, la cui crescita è stata negli anni fortemente

sostenuta da Regione Toscana, Provincia di Pisa e Comune di Cascina, nonché dal

radicamento nel territorio di un reticolo di relazioni intense tra mondo della ricerca e

imprese prima grandi e, successivamente, di più piccola dimensione. Si tratta dunque di

una buona pratica nazionale, che affonda la sua efficacia nella specializzazione

dell’incubatore e nella sua sostanziale pubblicità. L’accordo per la realizzazione del primo

lotto (6.700 mq) è stato sottoscritto nel 1996 e ha avuto un costo di 6,46 milioni di euro

(quasi equamente diviso tra i tre partner progettuali)18. Nei successivi diciassette anni

sono stati costruiti altri due lotti, mentre l’ultimo è in fase di realizzazione. In tutti i casi

si tratta di finanziamenti regionali integrati significativamente dall’esposizione creditizia

del Polo Navacchio Spa, società per azioni con un capitale sociali di circa 10milioni di

euro suddiviso tra Provincia di Pisa (46,75%), Comune di Cascina (46,01%), BCC di

Fornacette (6,23%) e Fidi Toscana (1,01%). Siamo quindi in presenza di un’iniziativa

finanziariamente significativa caratterizzata da un’esposizione rilevante degli enti locali e

che, per consolidarsi nel tempo, ha beneficiato di tre cicli di finanziamenti dei fondi

strutturali.

Volendo classificare questa esperienza, la si può definire come un incubatore di sviluppo

economico, ovvero una dei quattro tipi definiti da Barbero et al. 19 : incubatori

universitari, orientati alla ricerca di base e privati (corporate o indipendenti). Il primo

18

Cavallo C. (2002), Il polo scientifico e tecnologico di Navacchio. www.osservatoriossup.it/ 19

Barbero J.L., Casillas J.C., Wright M., Ramos Garcia A. (2013), Do different types of incubators produce different types of innovations?, in Journal of Technology Transfer, DOI 10.1007/s10961-013-9308-9 .

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vantaggio di un incubatore orientato allo sviluppo economico è la pazienza

dell’investitore. In altre parole, si possono investire decine di milioni di euro senza avere

la pretesa che in pochi anni l’investimento debba essere ripianato. Il secondo vantaggio

è che l’interesse perseguito dall’investimento è di natura collettiva. Nel caso di

Navacchio, i fondi investiti hanno infatti generato un ecosistema innovativo che attira

imprese, talenti e promuove l’imprenditorialità, in un contesto dove la specializzazione

produttiva tradizionale era nel settore dell’arredamento per la casa. Oltre alla pingue

disponibilità finanziaria alla base di strutture come queste, che in Italia e all’estero

godono di specifici finanziamenti nazionali, questo tipo di investimenti sconta altre due

criticità. La prima riguarda la necessità di una governance istituzionale coesa che sappia

affezionarsi e vincolarsi a un progetto di lungo periodo, sul modello di quanto hanno

fatto, nel caso pisano, dal Comune di Cascina e dalla Provincia di Pisa. In secondo luogo,

è importante che la gestione del polo sia affidata a dei professionisti del settore,

persone capaci di intravedere le traiettorie di sviluppo tecnologico, ma soprattutto abili

a creare le condizioni e le relazioni per il consolidamento delle imprese insediate e

incubate.

La domanda è se un’esperienza simile sia oggi replicabile a Prato, una città che

attualmente sconta gli effetti dell’incertezza delle politica locale, dell’incertezza

istituzionale, dovuta all’imminente riforma delle province, dell’incertezza finanziaria,

dovuta ai ritardi nella programmazione dei fondi comunitari e, infine, dell’intenzione

manifestata dalla Regione di razionalizzare i centri regionali di trasferimento tecnologico.

La somma di questi fattori porterebbe a sostenere che l’idea di un polo tecnologico

sull’Ict a Prato sia scarsamente fattibile. Per tale ragione sembra opportuno avanzare

anche delle indicazioni di policy che, per quanto second best, possano garantire

maggiori livelli di fattibilità. Questa scelta implica, innanzi tutto, la necessità di

contenere quanto possibile l’investimento immobiliare iniziale e, in secondo luogo, di

trovare delle strutture di gestione meno vincolate all’impegno finanziario delle politiche

pubbliche. La necessità di contenere l’investimento iniziale potrebbe combinarsi con lo

stallo dell’iniziativa sul Creaf di Prato, immobile ristrutturato dalle istituzioni pubbliche

con fondi europei per ospitare il polo dell’innovazione nel settore tessile. In questo caso,

se la parte della struttura di oltre 11mila metri quadri che è oggi già disponibile ma

ancora non utilizzata potesse essere dedicata al settore Ict, la prospettiva della

realizzazione del polo tecnologico potrebbe, a nostro avviso, essere realisticamente

perseguita.

Per quanto riguarda il modello organizzativo, invece, assumendo che l’interesse

mostrato dalle imprese coinvolte nei focus group sia effettivo, allora potrebbe essere

preso in considerazione un altro modello di incubazione: quello privatistico

indipendente. Gli incubatori indipendenti privati sono un tipo di incubatori solitamente

creati da gruppi di individui o imprese il cui obiettivo è, anzitutto, quello di accrescere il

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loro giro d’affari20. In questo caso, la compagine imprenditoriale che guida le imprese

investe direttamente il proprio denaro nelle startup e ne rileva una quota di

partecipazione. Per quanto adottino un modello gestionale simile, gli incubatori

indipendenti privati si distinguono dagli incubatori strettamente privati (cosiddetti

corporate) nella misura in cui i soggetti promotori possono essere molteplici. La ratio

dell’autosostentamento di tale modello organizzativo ha a che fare con la riscossione di

contributi di servizio o con il trattenimento di una percentuale dei ricavi da imprese

incubate o parte delle loro azioni. Lo scopo degli incubatori for-profit è dunque quello di

facilitare la rapida nascita di nuove imprese attraverso la condivisione dell’esperienza

delle imprese madri con le imprese incubate. Le prime possono infatti fornire alle

seconde consulenze di mercato, validazione e partnership tecnologica, accesso a reti di

contatti, credito e garanzie, ma anche servizi che sfruttano economie di scala, come nel

caso della gestione delle risorse umane o dei compiti amministrativi.

Un esempio molto conosciuto di incubatore di questo tipo è H-Farm. Si tratta di una

struttura che ha sede nel trevigiano, in una tenuta di 1100 ettari di proprietà della

Cassamarca e che accelera imprese nell’ambito del global digital market (Web, Digital e

New Media). In coerenza con il modello appena descritto, H-Farm si propone nel doppio

ruolo di incubatore e di investitore nei progetti incubati. In altre parole, l’incubatore

fondato dall’imprenditore seriale Riccardo Donadon, oggi partecipato, tra gli altri, da

Diesel e Riello, fornisce alla startup il capitale necessario al loro avvio e, allo stesso

tempo, le affianca offrendo servizi di consulenza. Dal 2005 ad oggi H-Farm è cresciuta

incubando diverse realtà imprenditoriali, chiamate H-Companies, imprese controllate

per una parte consistente da H-Farm, ma con quote di minoranza detenute da altri

partner industriali, investitori privati ed istituzionali e i manager dell’azienda. Si tratta

dunque di un sistema di stock-option che ridistribuisce i rischi e i profitti tra gli azionisti,

al quale l’incubatore aggiunge una dimensione comunitaria e partecipativa delle

imprese basata su un approccio umanistico al fare impresa21.

I due modelli di gestione proposti, quello di sviluppo economico, simile al caso di

Navacchio, e quello privato, simile alla fattispecie H-Farm, sarebbero entrambi

applicabili al caso pratese. Tuttavia, mentre il primo modello implica un forte

investimento pubblico sia nella gestione che nella struttura in cui insediare la realtà, il

secondo modello necessita, eventualmente, solo della predisposizione di una struttura

adeguata. Si potrebbe obiettare che nel primo caso i benefici dell’operazione sarebbero

20

Grimaldi R. e Grandi a. (2005), Business incubators and new venture creation: An assessmnent of incubating models, in Technovation, n. 25 (2), pp. 111-121. 21

Sedita S.R., Pilotti L., Valentini N. (2008), Strategie e pratiche ecologiche per apprendere ad apprendere in contesti complessi e innovativi. Il matching tra cultura e comunità di pratica nel caso H-Farm. Tra meta-corporation emergente ed ecologie del valore, Working Paper n. 33 del Dipartimento di Scienze Economiche, Aziendali e Statistiche dell’Università degli Studi di Milano.

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pubblici, mentre nel secondo solo privati. In realtà, entrambi i casi sarebbero propensi a

perseguire l’obiettivo ultimo della politica: creare un ecosistema fertile alla crescita di

nuove imprese e a dare una nuova sfaccettatura all’immagine oggi un po’ consunta della

città. E’ poi evidente che un incubatore privato, ma non di proprietà di una sola impresa,

potrebbe poi essere affiancato da un’altra struttura, che però non si dovrebbe occupare

di incubazione, ma potrebbe svolgere un insieme di altre funzioni - come la formazione

professionale e imprenditoriale, la connessione delle imprese del cluster, la

progettazione - che, come abbiamo visto, giocano un ruolo cruciale.

3.4. Conclusioni

L’obiettivo del rapporto era la raccolta e la sistematizzazione delle esigenze delle

imprese del cluster Ict di Prato, al fine di delineare una strategia di lungo periodo in

grado di consolidare il tessuto produttivo esistente, aumentandone la competitività.

L’ascolto degli stakeholder del territorio ci ha condotto a declinare la strategia di

intervento lungo tre assi: formare, connettere, innovare.

Formare. Le imprese soffrono di scarsa offerta e scarsa preparazione della forza lavoro

locale. In primo luogo, le scuole appaiono ancora poco in grado di preparare giovani

adatti al mondo Ict. Si tratta di considerazioni che trovano concordi anche docenti delle

scuole superiori, che ritengono necessario un adeguamento dei contenuti e dei metodi

di insegnamento per consentire un avvicinamento con il mondo del lavoro.

In termini di policy ciò significa agire su quattro misure:

Migliorare la qualità e la quantità dei percorsi di alternanza scuola/lavoro;

Contaminare la didattica attraverso il coinvolgimento degli imprenditori nell’attività

di insegnamento e promuovere la formazione continua portando i docenti

all’interno delle imprese;

Formare all’imprenditorialità gli studenti;

Riqualificare i disoccupati con competenze Ict.

Viceversa, per quanto riguarda i laureati, l’offerta di competenze specializzate è

decisamente inferiore alla domanda. E’ quindi necessario creare le condizioni per un

aumento dell’offerta (nel lungo periodo) e per l’attrazione di giovani da altre regioni (nel

breve periodo). Da questo punto di vista, le imprese ritengono opportuno:

Sensibilizzare gli studenti alla scelta di corsi di laurea affini all’Ict;

Connettere le imprese con i docenti al fine di influenzare i programmi di

insegnamento, alimentare legami informali per la segnalazione delle figure

più brillanti, valorizzando le esperienze di stage e tesi di laurea;

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Promuovere alta formazione congiunta (es. Master).

Connettere. Il network del settore Ict risulta piuttosto sconnesso. Le imprese tendono

infatti a specializzarsi in nicchie di mercato e non riescono a sfruttare il capitale

relazionale di cui già dispongono per costruire possibili sinergie, utili ad affrontare il

rapido mutamento tecnologico. Paradossalmente, nonostante il numero contenuto di

legami formali, si registra oggi un’elevata propensione a nuove occasioni di

collaborazione. Per migliorare la frequenza e la qualità delle relazioni si propone:

La creazione di una figura di intermediazione terza rispetto alle imprese, in

grado di stimolare e dare continuità alle relazioni e favorire la circolazione di

informazioni e fiducia tra: imprese del cluster, imprese e centri di ricerca,

imprese del cluster e imprese tradizionali;

Di ripensare l’allocazione di parte dei finanziamenti pubblici per la creazione

di reti, in maniera tale da ridimensionare i comportamenti opportunistici. A

questo proposito, sarebbero opportune azioni di public procurement volte

cioè a trasformare il finanziamento ex-ante in acquisto ex-post dei prodotti

innovativi realizzati dalla collaborazioni tra aziende, al fine di rendere

sostenibile l’investimento privato compatibilmente con le esigenze della P.A.

Innovare. Il repentino avanzamento tecnologico non permette alle imprese più grandi di

costruirsi traiettorie lineari di sviluppo. Allo stesso tempo le aziende più piccole e le

startup hanno difficoltà a trovare risorse finanziarie per promuovere le loro idee

innovative. In questa prospettiva, viene richiamata la necessità di realizzare a Prato un

polo gestito da una compagine pubblico/privata che:

Sappia orientare le imprese rispetto allo sviluppo tecnologico e alle occasioni

di mercato;

Faccia crescere nuove startup e integri le loro tecnologie con quelle delle

imprese già esistenti;

Diventi un fattore per l’attrazione di risorse umane, imprenditoriali,

economiche dall’esterno;

Si ponga come punto di riferimento a livello metropolitano per i soggetti

interessati al settore, anche grazie alla presenza di spazi di incontro e

collaborazione, animati da figure professionalmente specializzate.

Le misure contenute nei tre assi, pur potendo essere promosse in tempi e da attori differenti,

hanno una natura integrata. Ciò fa sì che una programmazione congiunta degli interventi

potrebbe creare delle sinergie sul versante degli output consentendo, allo stesso tempo, il

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risparmio di risorse sul versante degli input. Ciò potrebbe essere reso difficile dalla

separazione che, fino ad adesso, ha caratterizzato le linee di finanziamento dei fondi

strutturali. Considerata la scarsità delle risorse sarebbe pertanto opportuno utilizzare

sinergicamente le risorse comunitarie. In particolare, ci riferiamo alla possibile integrazione

strategica degli interventi supportabili dal Fondo Sociale Europeo (come la formazione) con

quelli promossi dal Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (come le politiche di connessione e

per l’innovazione).

Un ostacolo alla possibile implementazione della strategia qui proposta è riconducibile alla

presenza di un clima di debolezza che affligge la governance locale. Come abbiamo già

argomentato, Prato è una città che deve confrontarsi con l’incertezza della politica locale,

con livelli di governo che potrebbero presto scomparire, con l’austerità e con fondi europei

ancora da definire. Per tutte queste ragioni le forze che oggi si adoperano per consolidare

questo settore devono fare i conti con un impegno di lungo periodo, ma con interventi la cui

scelta deve essere guidata dal criterio di fattibilità e sostenibilità nel breve periodo. Tali

implicazioni ci hanno spinto ad avanzare delle proposte di policy che, per quanto possano

essere considerate delle second best, a nostro parere risultano più coerenti con le

caratteristiche istituzionali del contesto locale. In un contesto di risorse scarse, e vista

l’impossibilità di accedere a risorse straordinarie, sembra pertanto opportuno:

Evitare la duplicazione di strutture di trasferimento tecnologico, ottimizzando

così gli spazi esistenti. Il riferimento esplicito è all’utilizzo di una parte del

Creaf quale possibile contenitore del Polo tecnologico dell’Ict;

Valutare modalità di gestione dell’incubatore di imprese alternative al classico

modello di sviluppo economico, ben esemplificato dal polo di Navacchio. A

questo proposito, potrebbe essere preferito un modello privatistico-

indipendente, ovvero un’organizzazione che, sull’esempio di H-Farm, sia in

grado di canalizzare le numerose risorse economiche private presenti sul

territorio verso l’obiettivo pubblico della fertilizzazione dell’ecosistema

digitale.

Distinguere tra la funzione di incubazione, orientata al sostegno delle startup

e dell’integrazione di queste con le esigenze innovative delle imprese

predatrici, da quella di animazione/brokerage del cluster, che si configura

invece come un funzione prettamente pubblica e da esprimere possibilmente

su scala sovralocale.