Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, 2010 · Jean Antoine Watteau dipinge L’imbarco per Citera...

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Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, 2010A cura dell’Ufficio stampa, comunicazione e promozioneCoincidenze e citazioni a cura di Giulia BassiFonti delle citazioni: Théodor W. Adorno, Beethoven, Einaudi, Torino 2001; Thomas Mann, Doctor Faustus, Mondadori, Milano 1978; Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori 1999; Enzo Siciliano, Carta per musica, Mondadori, Milano 2004; “Amadeus” numeo speciale, febbraio 1995, De Agostani Milano.

L’editore si dichiara pienamente disponibile a regolare le eventuali spettanze relative a diritti di riproduzione per le immagini e i testi di cui non sia stato possibile reperire la fonte.

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Teatro Municipale Valli

15 febbraio 2010 ore 20,30

Johann Sebastian BachSuites per violoncello solo

Suite n. 3 in do maggiore, BWV 1009Prélude, Allemande, Courante, Sarabande, Bourrée I e II, Gigue

Suite n. 2 in re minore BWV 1008Prélude, Allemande, Courante, Sarabande, Menuet I e II, Gigue

Suite n. 6 in re maggiore BWV 1012Prélude, Allemande, Courante, Sarabande, Gavotte I e II, Gigue

16 febbraio 2010 ore 20,30

Johann Sebastian BachSuites per violoncello solo

Suite n. 1 in sol maggiore BWV 1007Prélude, Allemande, Courante, Sarabande, Menuet I e II, Gigue

Suite n. 4 in mi bemolle maggiore BWV 1010Prélude, Allemande, Courante, Sarabande, Bourrée I e II, Gigue

Suite n. 5 in do minore BWV 1011Prélude, Allemande, Courante, Sarabande, Gavotte I e II, Gigue

Natalia Gutman violoncello

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L’inizio della Suite per violoncello n. 1, manoscritto di Anna Magdalena Bach.

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Bach

Bach è il genio musicale per eccellenza. Sono giunto a questa conclusione, così sempli-ce da enunciarsi e dal significato così totale: quest’uomo, che tutto sa e che tutto sente, non può scrivere una sola nota, per quanto insignificante essa possa sembrare, senza che questa nota sia trascendentale. Bach è arrivato sino al fondo di tutti i sentimenti più nobili e vi è giunto nella forma più perfetta.Pablo Casals

Scrisse Leopardi che la bellezza della musica consiste nell’esprimere il “Sentimento in persona” che “trae da se stessa e non dalla natura”. L’esemplificazione o la conferma di questo pensiero è per intero contenuta nelle pagine strumentali di Bach. Pare lo strumento ragionare sulle proprie possibilità tecniche oltrepassandole.Enzo Siciliano

Bach era quasi cancellato dalla memoria dei contemporanei, e Vienna in particolare non voleva sapere di musica protestante. Per Beethoven, il re dei re era stato Haendel, e una grande predilezione aveva avuto il maestro per Cherubini. Tutto ciò è molto interessante e anche paradossale: infatti si può ben dire che se, a quell’epoca avesse avuto maggior familiarità con Bach, la musa beethoveniana avrebbe incontrato più facilmente la comprensione dei contemporanei.Thomas Mann

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Le sei suites per violoncello danno un’idea della visione che Bach aveva delle possibilità di questo strumento, possibilità che a quell’epoca non erano ancora state tutte esplorate. Qui, come in molte altre occasioni, il maestro precorreva il tempo…..Pablo Casals

Bach ricercò l’insieme di regole che potessero governare la progressione dei suoni, il loro intrecciarsi, variandosi frammentandosi e ricomponendosi su piani sempre più ardui e stupefacenti.Enzo Siciliano

Bach non ha crisi. La sua opera è tutta ad una medesima altezza e il suo unico pericolo è l’aridità… La sua aridità, se talvolta c’è stata, era semplicemente tecnica: era un ba-chismo come c’è stato un petrarchismo. Pier Paolo Pasolini

L’inizio della Suite per violoncello n. 2, manoscritto di Anna Magdalena Bach.

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Il fatto che Bach intorno al 1800 fosse del tutto dimenticato, è una delle circostanze più ricche di conseguenze della storia della musica. Altrimenti tutto, anche la “classici-tà” sarebbe andata diversamente. Egli però non era antiquato, bensì troppo difficile. Il presupposto di tutta la civiltà è la vittoria del “galante” sull’erudito.Théodor W.Adorno

Ma la qualità, angelica e sulfurea, dell’ingegno musicale bachiano si rivela nel flusso che vivifica, poiché se non ci si allontana dal clima mondano che comunque una danza suggerisce, ecco il pretesto divorato da un moto ulteriore, dalla necessità di esprimere il farsi stesso della musica. Enzo Siciliano

Per valutare la forza d’un conoscitore di musica, non c’è miglior modo che indagare fino a qual punto egli apprezzi le opere di Bach.Thomas Mann

Bach

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Coincidenze

1717-1723 Bach, Suites per violoncello solo

Bach, Concerti Brandeburghesi, Suites Inglesi; Ouvertures per orchestra; Concerti per violino; Sonate e Partite per violino, per flauto e viola da gamba; Fantasia cromatica e fuga (1720); Clavicembalo ben temperato (libro I) e Suites francesi (1722);Passione Secondo Giovanni (1723).

MusicaNasce Stamitz.Muore Pachelbel.Couperin, Composizioni per clavicembalo (libro II) (1717) e Libro III dei Concerti reali (1722).Vivaldi, Tieteberga (1717); Scanderbeg (1718); La verità in cimento (1720); Silvia (1721); L’adorazione dei Tre Re Magi, oratorio (1722).Alessandro Scarlatti, Telemaco, Il trionfo dell’amore (1718); Marco Attilio Regolo (1719); Tito o Sempronio Gracco (1720); Griselda (1721).Telemann, Sei Trii per due violini, violoncello e basso continuo (1718).Domenico Scarlatti, Berenice (1718).Porpora, Temistocle (1718); Faramondo (1719); Il martirio di Santa Eugenia, oratorio (1721); Adelaide (1723) .Handel, The Chandos Anthems; Otto Suite per clavicembalo; Acis and Galatea; Radamisto (1720); Floridante (1721); Ottone (1723).Albinoni, Dodici concerti a cinque (1722).

Filosofia, arti, letteraturaJean Antoine Watteau dipinge L’imbarco per Citera (1717).Benedetto Marcello, Il teatro alla moda (1720).A Parigi apre il “Café della Régence” ritrovo per intellettuali e politici (1718).Voltaire compone la prima tragedia Oedipe (1718).Daniel Defoe, The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe, che dopo la Bibbia ha avuto il maggior numero di edizioni (1719).Gian Battista Vico, De uno universi iuris principio ed fine uno (1720).

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Filippo Juvarra termina la facciata di palazzo Madama a Torino (1721).Viene terminato a Dresda il castello dello Zwingler, esempio di barocco (1722).Daniel Defoe scrive Le avventure di Moll Flanders e un resoconto sulla Peste di Londra.Francesco de Sanctis inizia a costruire la scalinata di Trinità dei Monti (1723).Pietro Giannone, Istoria civile del regno di Napoli (1723).Ludovico Antonio Muratori inizia la sua monumentale opera: Rerum Italicarum Scriptores (1723).

StoriaTriplice alleanza tra Francia, Gran Bretagna e Olanda per contrastare la politica spagnola guidata dal primo ministro, il cardinale italiano Giulio Alberoni (1717).La truppe spagnole attaccano la Sicilia e la occupano, si costituisce la lega antispagnola che sconfigge gli spagnoli a Capopassero (1718).La pace di Passarowitz pone fine alla guerra contro i Turchi sconfitti nella battaglia di Belgrado; l’Austria occupa la Serbia (1718).L’armata austriaca sconfigge gli spagnoli in Sicilia e occupa l’isola (1719).Nasce il principato indipendente del Liechtenstein (1719).Con la pace dell’Aia si conclude la guerra contro la Spagna che rinuncia alle sue pretese in Italia; Vittorio Amedeo di Savoia cede la Sicilia all’Austria in cambio della Sardegna (1720).L’imperatore cinse K’ang Nsi conquista il Tibet che diviene protettorato cinese (1720).Col trattato di Nystad termina la Seconda guerra del Nord (iniziata nel 1700): la Svezia cede la Livonia, Estonia, Ingoia e parte della Camelia alla Russia che deve ritirarsi dalla Finlandia (1721).Trattato di Charlottemburg tra Gran Bretagna e Prussia.

Scoperte e invenzioniIl navigatore olandese Jacob Roggeveen scopre l’Isola di Pasqua (1722).Il naturalista Jean-Andrè Peyssonel scopre che il corallo è un organismo vivente (1723).

Fonti: Cronologia universale, Roma, Newton Compton, 1996. Dizionario della musica e dei musicisti, Utet, 1994. www.musicweb-international.com/Classpedia/A-Zindex.htm

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L’inizio della Suite per violoncello n. 3, manoscritto di Anna Magdalena Bach.

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Le trentasei visioni del Monte Analogodi Guido Barbieri

Nella vita so fare soltanto due cose: correre e suonare. E basta. A correre ho imparato da ragazzino, cercando di stare dietro a mio padre che faceva il ciclista. Il cicloamatore. La domenica mattina si metteva addosso una maglia stretta, con la scritta Molteni sul davanti, come quella di Gianni Motta, alla televisione, saliva in bicicletta e scappava via verso la ferrovia. E io gli correvo dietro, cercando di non lasciarmi superare dal copertone della ruota poste-riore. Ma perdevo sempre. Ogni domenica però riuscivo ad arrivare sempre un po’ più lontano. All’inizio mi fermavo, senza fiato, alla fine della stradina, appena fuori casa. Poi, dopo qualche settimana, papà lo salutavo, anche se lui non se ne accorgeva, all’angolo con Viale Oberdan, alla fine del campo da cal-cio. E un giorno non l’ho mollato fino al passaggio al livello, quasi all’entrata del dopolavoro ferroviario. È lì che ho imparato a respirare senza aprire mai la bocca, a cercare di fare andare re insieme le gambe e il cuore, ad andar via regolare, senza farmi prendere dalla tentazione di accelerare, di mangiare la strada, di andar dietro a tutti i costi alla bici di mio padre. Adesso corro tutti giorni, cinque chilometri in salita e cinque in discesa, da poco fuori casa fino ai Santi Angeli e ritorno. E chissà che un giorno o l’altro non riesca a farla davvero la Stramontana, l’anello intorno alle Tre Cime di Lavaredo. Perché a me non piace la strada dritta, quella della maratona, a me piace correre in montagna, dove ad ogni passo devi scegliere tra l’erba e i sassi, dove la strada te la devi inventare da solo e il ritmo della corsa cambia ad ogni curva.

A suonare invece ho cominciato più tardi, per caso, in terza media, quan-do hanno aperto i corsi di musica, al pomeriggio. Io non ci volevo nemmeno andare, ma mia madre mi ripeteva ogni giorno sempre la solita litania: “Non vorrai mica andare in giro a correre tutti i pomeriggi! E per arrivare dove, poi? Cerca di imparare a fare qualche cosa di serio, invece, vai dal professor Lovato che almeno lui ti insegna a tenere in mano uno strumento”. Le diceva così perché da ragazza aveva studiato pianoforte, ma durante la guerra il pianofor-te lo avevano dovuto vendere, perché non avevano più niente da mangiare, a casa… E così dal professor Lovato, ci sono andato, ad un certo punto. “Sai che sei l’ultimo?”, mi aveva detto, abbassando gli occhiali sul naso. “Non c’è rimasto quasi niente, qui: i flauti se li sono già presi, i violini pure, la tastiera l’ha scelta il figlio del preside, la batteria l’abbiamo data a Luca, che è l’unica cosa che può suonare. C’è rimasto solo questo, lo conosci, ne hai mai visto uno, prima?”. Io una cosa come quella non l’avevo mai vista, prima, nemme-no in televisione: una specie di chitarra, ma messa in piedi, con uno strano

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pungiglione sotto, un ricciolino in cima e quattro corde d’acciaio tese dalla testa ai piedi. “Si chiama violoncello – aveva sibilato il professor Lovato – se ti piace possiamo cominciare a metterci le mani sopra, se no torni l’anno pros-simo”. La tentazione di voltare le spalle sia al professore che a quel pezzo di legno era stata in quel momento, me lo ricordo bene, più grande di quella di S.Girolamo. Ma poi mia madre chi l’avrebbe sentita… E così mi sono ritro-vato, da un momento all’altro, seduto su una sedia di plastica, con la chitarra col pungiglione stretta tra le cosce e una specie di spadino appuntito nella mano destra… Oggi Mr. Cello, come lo chiama mia nipote, ché anche lei sta provando e metterci la sella sopra, e a domarlo, è la cosa che mi da da vivere. Che mi da persino uno stipendio, un posto fisso.. Intendiamoci non sono mica bravo come Mario, come Mario Brunello, voglio dire, che mi ha dato una paio di lezioni, e neanche come Giovanni Sollima. Altri mondi, pianeti. Io faccio il violoncello di fila alla Fenice, niente di ché, ma insomma ho un mestiere e qualche volta, quando c’è un direttore bravo, riesco persino a diver-tirmi, dentro quella buca dove nessuno mi vede, e dove nessuno mi sente…

Fino a qualche giorno fa non avevo mai pensato che correre e suonare avessero qualche cosa in comune. La mattina correvo e il pomeriggio suona-vo. All’alba la tuta e al tramonto lo smoking. In mezzo la doccia, la macchina da Giavera a Treviso, il treno fino a Santa Lucia e il 52 fino a Calle Vallaresso. Un muro, una parete di roccia, tirati su in modo che correre e suonare non si potessero mai incontrare, conoscere, fare amicizia. Del resto una cosa si fa con i piedi e l’altra con le mani: niente conflitti, niente litigi, niente contatti. E invece ieri notte ho fatto un sogno: io che non sogno mai, o che non mi ricordo mai i sogni che faccio, questo non riesco a cacciarmelo dalla testa. Neanche con le cannonate. E allora lo scrivo, io che a scrivere proprio non sono abituato, così forse mi aiuta a dimenticarlo…

Allora, ve lo racconto: sono sul palcoscenico della Fenice, ma senza tutta l’orchestra, come succede quando ci tirano su dalla buca, ogni tanto, e ci met-tono a fare i concerti. Questa volta sono da solo: ho una luce puntata in faccia e quindi non capisco se il teatro è pieno o è vuoto. Davanti a me c’è un leggio, niente di strano, ma sul leggio c’è uno spartito che all’inizio faccio fatica a mettere e fuoco. Poco a poco il titolo si fa più nitido e chiaro e quando capi-sco che cosa c’è scritto sopra il cuore mi sale in gola: Johann Sebastian Bach: Suites per violoncello solo. Suites, capite, non Suite: mica una sola, no, tutte e sei, anzi sei per sei, sei Suites e sei pezzi ciascuna, che fa trentasei. Trentasei vie crucis, tutte insieme, una dopo l’altra, sul mio leggio. Figuriamoci, le Suites di Bach. Io non avrei coraggio di farle sentire neanche al parroco di Giavera, in confessionale, neanche a mia madre, neanche a me stesso. Quelle sono cose da Brunello, da Sollima, da Dindo. Non è roba per me. Mentre penso queste

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cose, però, la luce che mi trapanava gli occhi lentamente si abbassa, fino a spe-gnersi. E dalla voragine scura della platea cominciano a spuntare, una dopo l’altra, tante piccole teste nere. Prima una fila, poi l’altra, poi un mare di facce. E anche dal soffitto dei palchi pendono grappoli di uomini vestiti di grigio, e di donne con le spalle scoperte. In un lampo capisco che aspettano me, che sono lì per ascoltare me, che puntano lo sguardo verso il punto in cui sono seduto, che qualche sortilegio malefico mi ha trasformato, senza avvisarmi, in un violoncellista. O meglio, siccome violoncellista, violoncellista di fila, lo sono anche da sveglio, in un solista. Devo anche essere uno importante, uno famoso se tutta quella gente è venuta a sentirmi. Ma io di farmi sentire, in quel momento non ne voglio sapere: ho le gambe dure, le braccia rigide, le mani pesanti come due mattoni, il cuore al posto del fegato e il fegato in fondo alla pancia.

Mentre il mio io che sogna si racconta queste cose, io avverto però die-tro di me, con una strana chiarezza, qualche che cosa o qualcuno che pulsa. Come un grande cuore, fuori dal corpo, o forse una figura nera, una massa densa, un muro di forza. Lo sento, o la sento, talmente vicina, la cosa, che sembra quasi aderire alla pelle della schiena, come se volesse traspirare dentro di me. E ad un certo punto capisco che la forza si sta muovendo, anzi che sta muovendo qualche cosa di me. Avverto con chiarezza una presa dura, forte che mi afferra la spalla destra e che poi si innerva, come una scossa, lungo il braccio, attraversa in un lampo l’avambraccio, stringe le ossa del polso e si irradia lungo le vene della mano destra, quella che stringe, ancora, lo spadino di legno e di seta del maestro Lovato. L’archetto si alza, rimane qualche se-condo sospeso in aria ria e poi si abbassa con un tonfo sordo sulle corde del violoncello. Ma qualcosa afferra anche la mia mano sinistra, la allarga come un ragno sulla cordiera, mette ogni dito sulla corda giusta e si arresta, come se stese aspettando un ordine. Che infatti arriva, un istante più tardi. La forza si impossessa, simultaneamente della mia mano destra e di quella sinistra, le accorda, le affianca, impone loro una sincronia perfetta, muove lentamente la destra sulla corda acuta mentre alla sinistra fa alzare e abbassare le dita facen-dole camminare sulla tastiera. Quasi non me ne accorgo, ma in questo stesso istante io sto suonando. E sto suonando qualche cosa che conosco, che ho già sentito decine di volte: è l’attacco, non posso sbagliare, del Preludio della prima Suite. Sol maggiore. La cosa strana è che non sto ascoltando qualcuno che suona, sto ascoltando me stesso, io che suono. E sotto le mie dita si forma all’improvviso un rivolo leggero di semicrome, che però ogni otto note, esat-tamente ogni otto note, ricade, inesorabilmente, sempre sullo stesso suono: un sol grave, profondo, che trascina verso terra l’arco delle altre note. Mi arresto, all’improvviso, su una pausa che sembra durare all’infinito, ma dopo

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una piccola esitazione le dita si mettono nuovamente a correre, disegnano una curva ascendente, fitta di diesis e di bemolle, che si inarca fino a toccare il punto culminante del finale. A questo punto, stacco leggermente l’arco dalle corde, chiedendomi se quella mano che suonava fosse proprio la mia, sollevo gli occhi verso il buco scuro della platea, per afferrare uno sguardo di approva-zione, un segno di incoraggiamento, ma al posto dell’alveare dei palchi vedo, come se uno schermo fosse sceso all’improvviso dal cielo del teatro, di nuovo me stesso. Sono io, sempre io, ma mi vedo in una strada che conosco bene, dalle parti di casa mia: ho una tutta addosso, i capelli sudati, la faccia rossa. E sto correndo. Una corsa leggera, senza sforzo, e infatti sto imboccando la discesa di Ca’ Sugana, quella che porta alla salita più dura, “A Dogana Vecia”, come la chiamano dalle mie parti. Mi accorgo però che adesso ho lasciato il mio io che suono e sono dentro il mio io che corre . Infatti se guardo fisso davanti a me, se lascio sfilare, a destra e a sinistra, le linee diritte dei pioppi che costeggiano la strada, riesco a vedermi, riesco a capire che sul palcoscenico della Fenice ci sono proprio io, io che ho appena finito di suonare il Preludio della Prima Suite di Bach. Il mio io che corre, insomma, riesce a vedere il mio io che suona e il mio io che suona, viceversa, riesce a vedere il mio io corre. E io che sogno, invece, li vedo tutti e due, insieme, l’uno dentro l’altro, l’uno perfettamente sovrapposto all’altro.

Ho la netta sensazione che l’apparizione del mio io corrente sia durata un’eternità. Invece si è insinuata in quell’ istante breve e carico di tensione che separa la fine di una danza e l’inizio di quella successiva. Infatti il mio io che suona attacca, con un gesto nervoso, quasi stizzito, dell’arco, l’Allemanda. È una corsa più lenta del Preludio, un incedere più solenne, quasi un tempo di marcia anche se quello che corre sotto le dita è un fiume di suoni corti, una cascata di semicrome che una mano, o un ostacolo invisibile, ha improvvisa-mente rallentato, come succede al corteo funebre di quel film di René Clair, mi sembra, che il parroco ci ha fatto vedere una volta, al cineforum. Una specie di parodia rallentata, insomma, del Preludio. E infatti anche il mio io che corre si trova in una strada larga, diritta, la terra battuta di fresco, niente pietre sotto i piedi, solo un nastro soffice che accompagna il rintocco regolare della corsa. Il ritmo del cuore è tranquillo, nessuna aritmia, nessun “rubato”. Ma adesso attacco la Corrente e il mondo cambia. Il metro del suono da bina-rio diventa ternario, il passo si allunga, ma soprattutto si appoggia sul tempo forte della misura e diventa un poco zoppo, irregolare, obliquo. L’aria della danza rimane leggera, ma basta che io allunghi un po’ il primo quarto oppure che ritardi impercettibilmente, neanche il tempo di un sospiro, il secondo quarto che l’incedere della Corrente si fa vagamente ansioso, incerto. Strana-mente, il passo dell’io che corre se ne accorge subito e all’improvviso cambia

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il senso della marcia. La strada si fa un po’ più angusta, senza alberi e segnali stradali, piega lievemente sulla destra, verso il colle, e accenna appena il moto della salita. E io cerco di assecondare, come sempre, le intenzioni della strada: accorcio di un sospiro la lunghezza del passo, rallento il battito del cuore, il tempo di alternanza tra i due piedi, ma soprattutto appoggio sul terreno con più forza il piede destro, per sollevare il sinistro dallo sforzo. E così la corsa diventa impercettibilmente zoppa, sghemba, un po’ più dura e rigida. Ma prima della svolta a gomito che porta verso il poggio l’io che suona fa scendere l’archetto sull’incipit della Sarabanda: il metro rimane costante, fisso sul tre quarti, ma la frase ritrova la quadratura simmetrica, la continuità di periodo che la corrente aveva interrotto: quattro frasi, di quattro battute ciascuna, che imprimono alla danza una strana austerità, un carattere processionale, elegante e distaccato. Anche la strada sotto i miei piedi, per un momento, si allarga in una specie di ansa, come di un fiume: fa un giro largo per evitare la secca di un vecchio stagno e si prende qualche metro di riposo, prima di affrontare la salita. I miei piedi riconoscono a memoria il percorso del sentiero e ritrovano, per qualche secondo, la parità di tempo tra il destro e il sinistro. Quattro passi regolari per percorrere quattro metri di terra battuta, altri quat-tro e poi di nuovo quattro più quattro, per aggirare lo stagno e riprendere la direzione della collina. Ma intanto io, o meglio l’altro io, quello che suona, si trova quasi senza accorgersene, nel vivo del Minuetto I e II: due danze con lo stesso nome che però non sembrano affatto gemelle: la prima è piuttosto severa e posata, nel modo maggiore, la seconda tende invece la corda del canto e si adagia nel modo minore: le due strade parallele del sol, apparentemente lontane, e invece vicine come i due solchi di un carro. E anche i miei piedi affrontano il dorso della collina cercando di rimanere perfettamente paralleli l’uno all’altro: la strada fa uno scarto netto, verso destra, e comincia a tagliare il dorso della collina come la buccia di un’arancia. Dalla superficie della terra, appena un po’ più rossa, emergono le lame taglienti delle pietre. E le radici degli alberi si irradiano a terra come le vene di una mano. E devi stare attento a trovare un quadrato di terra liscio e spianato dove posare il piede senza ri-schiare di cadere. Ma la corsa non si può fermare e il mio archetto si ritrova a disegnare all’improvviso il profilo seghettato della Giga, l’ultima danza della Suite. Il metro raddoppia, i tre quarti diventano sei ottavi e il tempo si fa più eccitato e brillante. Ma incontro uno strano ostacolo che non avevo previsto. Nella misura iniziale, me ne accorgo gettando uno sguardo, da lontano, sullo spartito, la seconda e la terza nota delle due terzine recano il segno del legato. Quindi vanno eseguite con un piccolo portamento che cancella la pausa tra i due suoni. È una sciocchezza, un esercizio di tecnica elementare che avrò fatto mille volte. Eppure adesso non mi riesce. Sento che il legato è sporco, che

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perdo l’assetto del ritmo e rischio di far naufragare la Giga. Allora, alla ripresa del tema mi aggrappo ad un piccolo trucco innocente: inserisco tra la prima e la seconda nota un ritardo impercettibile, ma sensibile, in modo da far respi-rare un po’ di più il suono sul tempo forte e da avvicinare tra loro i suoni sui due tempi deboli. È strano, ma in questo modo il legato diventa più pulito, più rotondo e la danza marcia più spedita e fluida. Anche il mio io corrente sbatte addosso al primo muro della sua corsa. Uno strappo violento, un’erta scoscesa, improvvisa, durissima, a più del quindici per cento. I piedi perdono contatto con la terra, la punta delle scarpe si conficca nel terriccio misto di sassi e erba secca per trovare un appoggio, i talloni non riescono nemmeno a toccare il suolo e le gambe disegnano un cerchio stretto, dal raggio sempre più corto. Il fiato si rompe in gola e il ritmo del respiro accelera ogni secondo di più. Ma non mi voglio fermare, devo mantenere a tutti i coti il passo della corsa e allora c’è una sola soluzione: rendere il passo meno secco e spigoloso, appoggiare la pianta dei piedi sul terreno, indugiare un poco prima di staccare la suola dal sentiero, ritardare di un niente l’alternanza regolare tra il destro e il sinistro. E infatti la fine della salita, in questo modo, si accorcia fino ad essere cancellata. Le prime sei stazioni della Suites sono alle spalle, il primo colle è stato spianato.

Ma ci sono altri trenta piccole visioni dell’infinito, altre trenta candele da bruciare lungo la strada, prima di arrivare alla luce della fine. E adesso la sequenza, al principio della Seconda Suite, re minore, si ripete, identica a se stessa, ma profondamente diversa. Attacco il Preludio, ma senza la leggerezza sorgiva del Preludio in sol maggiore. La linea del canto è meno mossa, più regolare e segue l’alternanza canonica tra una sequenza discendente e la rela-tiva sequenza ascendente: una specie di prevedibile gioco di onde che però ben presto si increspano e vanno a sbattere contro la barriera di una tonalità vicina, ma imprevista, il fa maggiore. Il destino del mio io sonante, però, non si può separare, nel sonno di questa notte lunga, da quello del mio io corrente. E allora anche nell’altra metà del sogno accade qualche cosa di imprevisto: il sentiero inciso sul dorso della collina improvvisamente si interrompe: una piccola voragine, un vuoto creato della pioggia che divide la strada in due metà. Mi fermo sul bordo del piccolo abisso, indeciso se tentare il salto op-pure cercare una via dentro il bosco che mi faccia ritornare lungo il percorso primitivo. Ma mentre il pensiero del mio io che corre rimane sospeso, attacca-to ai fili invisibili dell’indecisione, il mio io che suona attacca senza aspettare l’incipit maestoso della Allemanda, che sembra conservare per qualche misura la memoria dell’espressione tesa, quasi dolorosa del Preludio. E poi ancora la Corrente, trascinata via dall’impeto travolgente delle semicrome, e di nuovo la marcia solenne della Sarabanda, che riunisce, da vera regina, il tono grave

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del passo con la serena e distaccata degnazione dello sguardo. A questo punto il mio io che corre non può che sciogliere il dubbio: il piede destro si ap-poggia, tremando, al bordo estremo della voragine, i muscoli della gamba si tendono come la corda di un arco, il busto si piega in avanti e il piede sinistro si lancia nel vuoto: un volo breve e senza vertigine che va a riposare sul bordo opposto del crepaccio. Ora la strada sembra più dolce, il pendio meno aspro e la corsa può riprendere il suo ritmo, evitando le pietre più dure e le radici più carnose. E difatti anche la corsa del mio che suona si placa nelle armonie morbide, nei timbri rotondi, nella giocosa galanterie del Minuetto I e II. Ma prima di compiere la dodicesima stazione, prima di chiudere la pagina della dodicesima visione, c’è ancora l’ostacolo della Giga: il tempo si affretta, il me-tro si accorcia a tre ottavi, e il ritmo diventa irregolare: misura dopo misura la corsa del tema è sempre più concitata e affannosa, ma stranamente il colore del suono rimane ombroso, scuro, attraversato da onde di nero e di grigio: è l’effetto forse degli intervalli ampi e dissonanti, di quinta e poi di settima di-minuita, che disegnano il carattere della melodia. Poche volte, come in questo caso, una “discesa”, per quanto tumultuosa, invece di dare sollievo al corpo stanco sembra al contrario accentuare il dolore che si attacca ai muscoli, ai nervi, alle vene ingrossate dallo sforzo. È quello che sente, con l’acutezza di una fitta al cuore, anche il mio io che corre: la strada adesso picchia violen-temente verso il basso, dal costato del colle si getta senza curve ed ostacoli verso il fondo della valle, ma rimane stretta, angusta, pietrosa. I muscoli delle cosce si irrigidiscono, i talloni premono sul terriccio smosso, il corpo si tende all’indietro, come un arco rovesciato, per opporre la forza del proprio peso alla inerzia della caduta. E una discesa apparentemente dolce diventa assai più dolorosa e ingrata di una qualsiasi, cruda salita…

Delle sei stazioni successive toccate dal sogno la mia memoria trattiene una traccia sempre più debole e smarrita. Ricordo di aver attaccato la terza Suite, do maggiore, pesando con precisione, come se fossero, tutte, pietre preziose, le singole note del grande arpeggio discendente della prima misura. E poi di aver quasi scavato in profondità con l’archetto lungo la cordiera per dare suono e corpo ai passaggi in corde doppie che, nella coda, fanno riappa-rire il tema principale. Da qui in poi i ricordi si fanno confusi e incerti: solo dettagli, particolari, suoni isolati. Attacco l’Allemanda ad un tempo troppo veloce, ingannato dalle sequenze turbinose delle biscrome, e inciampo col piede destro sul corpo nascosto di una radice, mi lascio trasportare dal gioco leggere delle crome che imprime alla Corrente una specie di moto perpetuo e sento per la prima volta, sulla pelle del viso, il vento fresco della collina, mi arresto, impietrito sugli accordi gravi, profondi della Sarabanda e una nuova salita torce i muscoli dei polpacci fino a renderli duri, dolenti, sfiniti. Mi

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getto lungo il precipizio delle Bourées I e II, cercando di rendere il fraseggio morbido, nitido flessibile, ma scivolo su un piccolo cumulo di foglie umide, i piedi si incrociano, perdo aderenza e scivolo via verso la valle come spinto dal vento e alla fine della diciottesima stazione, dopo aver preso di slancio, senza freni, il tumulto della Giga, mi siedo esausto sul bordo del sentiero e riesco a sentire, nel silenzio del mio respiro, il ritmo zoppo del sangue che circola dentro di me.

Le altre diciotto stazioni, le altre diciotto candele, le altre diciotto visioni, le altre diciotto ore del mio sogno sono adesso sepolte nell’oblio. Non riesco a ricordare nemmeno un dettaglio, un particolare del lungo itinerario compiu-to dal mio io che suona e dal mio che corre. Coltivo ancora però, una visione ultima che forse mi ha colto mentre attraversavo, a ritroso, le porte regali che separano il sonno dalla veglia. Forse mi trovavo sulla soglia, forse ciò che ho visto appartiene in ugual misura all’universo del sogno e a quello del risveglio, ma ricordo perfettamente che dopo aver percorso la trentaseiesima e ultima stazione, dopo aver salito tutti i trentasei gradini che mi hanno portato sul colle di Santi Angeli, ho sentito un’aria stranamente gelida e dura, ho chiuso il bavero della giacca a vento, mi sono infilato i guanti che tenevo in tasca e mi sono chiesto perché mai facesse così tanto freddo sulla cima di quella collina che non era più alta di un cavalcavia. E perché mai mi sentissi così leggero, così euforico, così senza peso. E perché la luce fosse così trasparente, così bril-lante come non l’avevo mai vista, da quelle parti. E come mai, in lontananza, non vedessi più il campanile di Giavera, le collinette di Soligo, la chiesetta di Santa Fosca, ma solo la cornice incerta e frastagliata di un nuvola bianca, lat-tea e senza forma. Non me lo sapevo spiegare e non lo sono spiegato. Ho solo sentito, in lontananza, il richiamo di caccia dell’ultima Giga e a quel punto, credo, ho attraversato davvero la porta regale.

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Interpreti

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La crescita artistica di Natalia Gutman è stata determinata soprattutto da due personalità musicali in Russia: suo non-no Anisim Berlin, violinista e allievo del leggendario Leopold Auer e Galina Ko-zolupova sua insegnante per ben quin-dici anni. Altri tre grandi musicisti han-no avuto un ruolo essenziale nella vita

privata e musicale di Natalia Gutman: Svjatoslav Richter, morto nel 1997, suo marito Oleg Kagan, morto nel 1990 e Mstislav Rostropovitch. S. Richter dice-va di lei “Natalia Gutman è l’incarnazio-ne dell’onestà nell’arte”.Nata a Kazan in Russia, ha iniziato lo studio del violoncello all’età di cinque

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anni e all’età di 9 anni eseguiva il suo primo concerto. Allieva prediletta di Mstislav Rostropovich al Conservatorio di Mosca dal 1964, nel 1967 ha vinto il Concorso della ARD di Monaco di Baviera. Da allora ha avuto inizio la sua brillante carriera internazionale che l’ha vista ospite delle più famose sale europee e delle più prestigiose orchestre: Berliner Philharmoniker, Wiener Philharmo-niker, London Symphony Orchestra, Münchner Philharmoniker, Filarmonica di San Pietroburgo e l’Orchestre Natio-nal de France. Ospite regolare dei più prestigiosi Festival (Salzburger Sommer-festspiele, Berliner Festspiele, Wiener Fe-stwochen) ha collaborato e collabora con i più grandi direttori d’orchestra quali Claudio Abbado, Wolfgang Sawallisch, Riccardo Muti, Bernard Haitink, Gen-nady Rozhdestvensky, Yuri Temirkanov, Kurt Masur e Sergiu Celibidache.Gran parte dell’attività concertistica di Natalia Gutman è dedicata alla musica da camera: tra i suoi partner usuali ri-cordiamo Svjatoslav Richter, Isaac Stern, Martha Argerich, Yuri Bashmet, Elisso Virsaladze. Con suo marito, il compian-to violinista Oleg Kagan, ha suonato dal 1969 al 1990.Natalia ha eseguito l’integrale delle sui-tes di Bach per violoncello solo a Mosca, Berlino, Monaco, Madrid, Barcellona, Francia, Italia, Olanda e Svizzera.Natalia Gutman è inoltre impegnata in master-classes organizzate in tutto il mondo – ha insegnato per molti anni presso la Musikhochschule di Stuttgart e attualmente insegna a Mosca. A maggio del 2005 il presidente Köhler ha conferi-to all’artista la più alta onoreficenza tede-sca, il “Bundesverdienstkreuz 1. Klasse” e nel 2006 Natalia Gutman è stata nomi-nata membro del Royal College of Music di Londra. Oltre al repertorio bachiano,

classico e romantico Natalia Gutman è anche attenta interprete della musica contemporanea eseguendo brani di Sofia Gubaidulina, di Edison Denisov, di Ti-gran Mansurian e di Vassily Lobanov. Al-fred Schnittke le ha dedicato una sonata e il suo primo concerto per violoncello. Con la Royal Philharmonic Orchestra e Yuri Temirkanov ha inciso i due con-certi di Shostakovich per la RCA/BMG Ariola. Con la Philadelphia Orchestra e Sawallisch ha inciso il concerto per violoncello di Dvorák e con la London Philharmonic diretta da Kurt Masur i concerti per violoncello di Schumann e di Schnittke, entrambi su etichetta EMI. Sempre per la EMI ha recentemente inciso le composizioni cameristiche di Schumann con partners del calibro di Martha Argerich e Mischa Maisky. Ogni anno all’inizio di luglio Natalia Gutman invita i suoi amici musicisti all’Interna-tionaler Musikfest a Kreuth / Tegernsee in Baviera, fondato nel 1990 insieme al marito Oleg Kagan, ora a lui dedicato, scomparso poco dopo la prima edizione del Festival il 15 luglio 1990. Natalia Gutman suona un prezioso Guarneri del Gesù datato 1731 generosamente affidatole da Seacross Management Ltd. Strings Unlimited.

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Gianni Borghi, Vanna Lisa Coli, Andrea Corradini, Ennio Ferrarini, Milva Fornaciari, Giovanni Fracasso, Silvia Grandi, Claudio Iemmi, Franca Manenti Valli, Ramona Perrone, Viviana Sassi, Alberto Vaccari

Le attività di spettacolo e tutte le iniziative per i giovani e le scuole sono realizzate con il contributo e la collaborazione della Fondazione Manodori

Giuliana Allegri, Paola Benedetti Spaggiari, Enea Bergianti, Franco Boni, Gemma Siria Bottazzi, Gabriella Catellani Lusetti, Achille Corradini, Donata Davoli Barbieri, Anna Fontana Boni, Mirella Gualerzi, Grande Ufficiale Gr. Croce llario Amhos Pagani, Comm. Donatella Tringale Moscato Grazia Maria di Mascalucia Pagani, Ivan Sacchetti, Paola Scaltriti, Mauro Severi, Corrado Spaggiari,

Deanna Ferretti Veroni, Vando Veroni, Gigliola Zecchi Balsamo

Annalisa Pellini