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Metalogicon (2002) XV, 2 117 Fondamento e struttura ontologica del tempo in Leibniz Giuseppe Giannetto 1. Il tema del fondamento e il diverso Per interpretare il tema del fondamento in Leibniz, è opportuno, a nostro avviso, sia tener presente che il principio assoluto è in relazione al concetto di causa, concepita nella duplice veste di causa efficiente e di causa finale, sia considerare il rapporto che lega questo principio al concetto del diverso, presente, nella filosofia leibniziana - come vedremo -, anche nello stesso fondamento assoluto che appare come identità non indeterminata e uguale a se stessa, ma internamente articolata e dotata dì complesse relazioni. Ponendo in rilievo il concetto di causa, è il caso di ricordare la Confessio philosophi, dove il teologo, indagando il principio di ragion sufficiente, alle affermazioni del filosofo sul significato del gran principio, aggiunge, chiarendo il pensiero di Leibniz: “Tutti gli uomini, allorché avvertono qualcosa, specialmente se si tratta di qualcosa di insolito, se ne chiedono il perché (cur), cioè la ragione ovvero la causa efficiente, o quando l'autore è un essere razionale, il fine. Di qui sono nate le parole “cura”, “curiosità”, come chiedere è nato da “chi” o “che cosa”. 1 Il principio di ragion sufficiente, come si vede, non rivela solo la causa efficiente, ma anche quella finale. Questa concezione è ribadita da Leibniz nella Monadologia quando afferma, riferendosi al principio di ragion sufficiente riguardante le verità contingenti: “V'è un'infinità di figure e di movimenti presenti e passati, che entrano nella causa 1 G.W. LEIBNIZ, Confessio philosophi e altri scritti, a c. F. Piro, Napoli, 1992, p.17 (G.W. LEIBNIZ, Confessio philosophi. La profession de foi du philosophe, texte, traduction et notes par Y. Belaval, Paris, 196l, pp.31-32 ) .

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Fondamento e struttura ontologica del tempo in Leibniz

Giuseppe Giannetto 1. Il tema del fondamento e il diverso

Per interpretare il tema del fondamento in Leibniz, è opportuno, a nostro avviso, sia tener presente che il principio assoluto è in relazione al concetto di causa, concepita nella duplice veste di causa efficiente e di causa finale, sia considerare il rapporto che lega questo principio al concetto del diverso, presente, nella filosofia leibniziana - come vedremo -, anche nello stesso fondamento assoluto che appare come identità non indeterminata e uguale a se stessa, ma internamente articolata e dotata dì complesse relazioni.

Ponendo in rilievo il concetto di causa, è il caso di ricordare la Confessio philosophi, dove il teologo, indagando il principio di ragion sufficiente, alle affermazioni del filosofo sul significato del gran principio, aggiunge, chiarendo il pensiero di Leibniz: “Tutti gli uomini, allorché avvertono qualcosa, specialmente se si tratta di qualcosa di insolito, se ne chiedono il perché (cur), cioè la ragione ovvero la causa efficiente, o quando l'autore è un essere razionale, il fine. Di qui sono nate le parole “cura”, “curiosità”, come chiedere è nato da “chi” o “che cosa”.1 Il principio di ragion sufficiente, come si vede, non rivela solo la causa efficiente, ma anche quella finale. Questa concezione è ribadita da Leibniz nella Monadologia quando afferma, riferendosi al principio di ragion sufficiente riguardante le verità contingenti: “V'è un'infinità di figure e di movimenti presenti e passati, che entrano nella causa 1 G.W. LEIBNIZ, Confessio philosophi e altri scritti, a c. F. Piro, Napoli, 1992, p.17 (G.W. LEIBNIZ, Confessio philosophi. La profession de foi du philosophe, texte, traduction et notes par Y. Belaval, Paris, 196l, pp.31-32 ) .

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efficiente del mio scrivere attuale e vi è un'infinità di piccole inclinazioni e di disposizioni presenti e passate del mio animo, che entrano nella causa finale”.2

Se, però, il principio leibniziano venisse inteso ponendo in luce solo il concetto di causa finale, oltre ad essere accentuata l'inevitabile visione antropomorfa sottesa all'idea di causa finale, che rinvia a un soggetto che procede intenzionalmente, mediante la rappresentazione di uno scopo, verrebbe messo sullo sfondo il tema dell'identico e del diverso, nell'ambito dell'indagine sul principio di ragion sufficiente, e si intenderebbe il significato del fondamento entro le classiche distinzioni delle cause teorizzate da Aristotele. Il fondamento, del resto, non essendo solo fondamento assoluto, in rapporto a se stesso, non può non essere in connessione con il diverso, solo che il diverso secondo Leibniz, aggiungiamo, non è fuori dell'Essere, ma anche entro l'Essere, come presenza di un ambito in qualche modo altro dal principio assoluto e con cui questo entra in un problematico rapporto.

Ci riferiamo, da questo aspetto, al tema delle verità eterne che, com'è noto, Leibniz concepisce in modo differente rispetto a Cartesio; per il filosofo francese le verità eterne valgono per l'uomo e non per Dio che può mutarle - si tenga conto, a tale proposito, delle lettere inviate da Cartesio a Mersenne nel 1630 3 -

2 G.W. LEIBNIZ, Monadologia in Saggi filosofici e lettere , a c.V. Mathieu, Bari, 1963, S 36, pp.374-375 (C.I GERHARDT, Die philosophischen Schriften, voll, 7, Berlin 1875, repr. Hildesheim, 1960 - 1961, VI, 613). 3 Cartesio, nella lettera inviata a Mersenne il 6 maggio l630, afferma: "Per quel che riguarda le verità eterne ripeto che sunt tantum verae aut possibiles, quia Deus illas veras aut possibiles cognoscit, non autem contra veras a Deo cognosci quasi indipendenter ab illo sint verae. Se gli uomini intendessero bene il senso delle loro parole non potrebbero mai dire senza bestemmiare che la verità di qualche cosa precede la conoscenza che Dio ne ha; infatti in Dio volere e conoscere non è che una (sola e medesima) cosa; così ex hoc ipso quod aliquid velit, ideo cognoscit et ideo tantum talis res est vera. Non bisogna pertanto dire: Si Deus non esset, nihilominus istae veritates essent verae: in realtà l'esistenza di Dio è la prima e la più eterna di tutte le verità che si possono dare, nonché la sola donde vengono tutte le altre. Tuttavia quel che fa che in ciò sia facile ingannarsi è che gli uomini per lo più non considerano Dio come un essere infinito incomprensibile e il solo autore da cui dipendono tutte le cose;

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e che poi non muta perché Cartesio accentua il Dio veridico sul Dio onnipotente che può tutto. Per Leibniz, invece, le verità eterne sono immutabili non solo per l'uomo, ma anche per l'Essere supremo che, anche se può combinare in infiniti modi i possibili, dando vita a molteplici mondi ideati, non può non seguire le verità eterne che sono valide in tutti i mondi rappresentati da Dio.

L'immutabilità delle verità eterne, che in tal modo rappresentano un limite all'operare divino, finisce col mostrare un'alterità entro la natura dell'Essere che, per questa via, lungi dal manifestarsi come un creatore dal nulla, appare solo come un trascendente combinatore dei possibili, in parte - salvo i possibili contingenti legati al suo operare - dati al suo intelletto in modo immodificabile. Il fondamento, da tale aspetto, appare in Leibniz internamente complesso, al di là del riferimento a ciò che pone in essere con il suo agire: il fuori dell'essere, cioè non è legato all'attività combinatoria, facendo valere il saggio sull'Origine radicale delle cose,4 o alla scelta compiuta da Dio, secondo la Causa di Dio,5 di questo mondo rispetto agli infiniti mondi ideati

essi si fermano alle sillabe del suo nome e pensano di conoscerlo a sufficienza se sanno che Dio vuol dire la stessa cosa di quel che si chiama Deus in latino e che è adorato dagli uomini ". R.DESCARTES, Opere filosofiche, a c. E. Loiacono, voll. 2, Torino, 1994, I, p. 366 (Oeuvres de Descartes, publiées par C. ADAM et P. TANNERY, voll. 12, Paris 1887 - 1913, I ,147). 4 Cf. De rerum originatione radicali: "Hinc vero manifestissime intelligitur ex infinitis possibilium combinationibus seriebusque possibilibus existere eam, per quam plurimum essentiae seu possibilitatis perducitur ad existendum. Semper scilicet est in rebus principium determinationibus quod a Maximo Minimove petendum est, ut nempe maximus praestetur effectus, minimo ut sic dicam sumtu'. Et hoc loco tempus, locus, aut ut verbo dicam, receptivitas vel capacitas mundi haberi potest pro sumtu sive terreno, in quo quam commodissime est aedificandum, formarum autem varietates respondent commoditati aedificii multitudinique et elegantiae camerarum". (GERHARDT, Phil . Schr., VII, 303). 5 Cf. Causa Dei, S 41: "Quia bonitatem Dei in creaturis sese generatim exerentem dirigit sapientia, consequens est providentiam divinam sese ostendere in tota serie universi, dicendumque Deum ex infinitis possibilibus seriebus rerum elegisse optimam, eamque adeo esse hanc ipsam quae actu existit. Omnia enim in universo sunt harmonica inter se, nec sapientissimus nisi omnibus perspectis decernit, atque adeo non nisi de toto. In partibus singulatim

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esistenti nel suo intelletto, il fuori è entro la natura dell'Essere che, in tal modo, non appare - anche se questa visione teoretica pone problemi all'interprete - in modo statico, ma in modo dinamico, come internamente complessa.

Il rapporto con l'identico diventa in Leibniz un rapporto con il diverso: il fondamento che tutto fonda e che non può essere, a sua volta, fondato non va tanto inteso come una base omogenea, quanto come una struttura composita che stimola l'interpretazione. Non va, in tale ambito, dimenticata la soluzione che Leibniz cerca di dare a questo problema, senza, a mio avviso, risolverlo, e che è connessa alla concezione che il filosofo ha dell'intelletto divino concepito in un duplice aspetto, ora come campo delle verità eterne immutabili, ora come pensiero delle stesse. Con la soluzione indicata, il diverso altro dall'Essere, che condiziona il suo operare, viene concepito come intelletto divino considerato in senso eterno e immutabile, come regione delle verità eterne, che, pur immodificabili, sono pensate da Dio - intelletto, considerato in senso non statico -, solo che pensare le verità eterne non significa crearle secondo la volontà divina.

Rimane, come è evidente, nonostante la soluzione prospettata da Leibniz, uno scarto tra intelletto, individuato in senso oggettivo come un mero contenuto, e intelletto, inteso in senso soggettivo come attività del pensare, che, però, pensa e prende consapevolezza dell'immutabile: l'intelletto caratterizzato in modo soggettivo sembra solo rispecchiare ciò che è da sempre dato, rivelandosi come capacità riproduttiva e non manifestando alcuna azione, seppure considerata in modo ideale, volta a porre in essere.

L'interpretazione leibniziana finisce col mettere sullo sfondo il rapporto con il diverso, volendo forse evitare soluzioni cartesiane che rischiano di far perdere la perfezione divina a favore di un'accentuazione dell'onnipotenza dell’Essere. Il confronto con Cartesio e la diversa soluzione data da Leibniz al tema delle verità eterne fanno emergere una diversa concezione

sumptis, Voluntas praevia esse potest, in toto decretoria intelligi debet". (GERHARDT, Phil. Schr., VI, 445).

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del fondamento in Leibniz che non appare più come l'assoluto in rapporto al relativo, l'immediato in relazione al mediato, dove l'assoluto e l'immediato rimangono inintelligibili, ma come presenza di una struttura complessa da interpretare, intessuta all'interno di relazioni, che non riduce il diverso al condizionato che rinvia all'incondizionato per diventare intelligibile: il diverso è immanente al fondamento che non è, alla luce della prospettiva emersa, come una condizione statica, sempre uguale a se stessa e priva di rapporti interni.

Questa, visione articolata del fondamento, però, in Leibniz si scontra con l'idea di un Essere perfettissimo che non ha un'alterità entro se stesso con cui entrare in un problematico rapporto, sicché il duplice modo di intendere l'intelletto è anche il segno del tentativo di affrontare l'abissalità del fondamento, pur chiaramente apparsa in Leibniz con le immutabili verità eterne di cui l'Essere non può non tenere conto.

Abbiamo detto che il fondamento si palesa in Leibniz come una dimensione non omogenea che ha il diverso entro e non fuori se stesso, questa considerazione mi pare che trovi un'ulteriore convalida quando si esamina il modo con cui Leibniz dilucida il principio assoluto nell'ambito di una teoria delle facoltà fra loro in rapporto. Si ponga attenzione, a questo proposito, alla Monadologia, dove il filosofo afferma che in Dio c'è “la potenza, che è fonte di ogni cosa, poi la conoscenza, che contiene le idee nella loro particolarità, e infine la volontà, che opera i mutamenti o le creazioni secondo il principio del meglio. Ciò corrisponde a quello che nelle monadi create costituisce il soggetto o la base, la facoltà percettiva e quella appetitiva. Ma in Dio questi attributi sono assolutamente infiniti o perfetti […]”.6

Leibniz, nonostante si riferisca anche alla potenza dell'essere, in realtà, forse per non accettare posizioni cartesiane che danno rilievo al Dio onnipotente, è portato ad intendere il fondamento assoluto come rapporto fra intelletto e volontà, dove l'accentuazione di una sola facoltà rispetto all'altra porterebbe o a

6 G. W. LEIBNIZ, Monadologia cit., in Saggi filosofici e lettere cit., S 48, pp. 376-377 (GERHARDT, Phil. Schr., VI, 615).

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una posizione meramente contemplativa - l'intelletto conosce la sua natura - o a una posizione volontaristica, secondo la quale la volontà agirebbe indipendentemente da quanto rappresentato dall'intelletto. La concezione di Leibniz, come è noto, non va verso l'unilaterale ruolo svolto da una facoltà rispetto all'altra, ma verso una teorizzazione del rapporto fra le due facoltà che evita tanto l'intellettualismo quanto l'arbitrarismo, privo della guida dell'intelletto che rappresenta i possibili. Il rapporto fra le facoltà, poi, esclude sia l'estraneità assoluta di una rispetto all'altra, sia l'identificazione di una con l'altra, sia anche la subordinazione fra esse che finirebbe col rendere una facoltà incondizionata e l'altra condizionata, mutando il principio assoluto in una dimensione più elevata che fonda quella meno elevata, che pure farebbe parte dello stesso principio.

Da quanto visto, consegue che l'essere è internamente articolato, che ha il diverso all'interno, che esclude la distinzione tra più alto e meno alto che rischierebbe di mutare il discorso sul principio in un processo infinito che mal si accorda con l'assolutezza dell'Essere.

Le due risposte date da Leibniz al significato di fondamento, cioè il diverso è entro l'intelletto divino che non può mutare la regione delle verità eterne, oppure, seconda risposta, il diverso è entro il fondamento, come alterità dell'intelletto nei confronti della volontà divina, e, inversamente, di questa rispetto a quello, che valgono a determinarlo, presentano, ad ogni modo, tanto un elemento comune, vale a dire l'affermazione dell'immanenza del diverso entro il fondamento, quanto un aspetto differente, nella misura in cui si pone in luce che, in un caso, il diverso è rappresentato dal contenuto dell'intelletto, cioè dalle immutabili verità eterne, nell'altro, dall'insieme dei due aspetti dell'intelletto che è altro dalla volontà e questa, a sua volta, altra dall'intelletto.

Come appare evidente, nel primo caso, il diverso è parte dell'intelletto divino, nel secondo, è tutto l'intelletto che entra in relazione con la volontà. Nonostante queste differenze, legate o al rapporto di una facoltà con se stessa o al rapporto di una facoltà con un'altra, cioè la volontà, dove Leibniz dà risalto, in entrambi i

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casi, al concetto del diverso come ambito non posto fuori dal fondamento - ora come nesso fra il pensiero divino e il suo contenuto altro, ora come nesso di una facoltà con un'altra in condizione di dare una rappresentazione, in qualche modo determinata e complessa dell'Essere -, il filosofo tedesco è in grado di teorizzare una concezione articolata dell'assoluto che, nelle inevitabili aporie, muta l'altro da sé entro sé in strutturazione interna propria dell'Essere. 2. L'abissalità del fondamento e l'apparire del tempo

La considerazione del fondamento in rapporto al diverso- e non esplicitamente in relazione all'opposto come negazione del fondamento - appare anche nella nota frase di Leibniz dei Principi della natura e della grazia sul gran principio7 e, precisamente, nella seconda domanda "perché le cose devono esistere così e non altrimenti?" e non nella prima, sia perché il filosofo vuole evitare visioni manicheiste che intendono l'essere e il non essere come opposti, dove la presenza dell'uno contrasta immediatamente quella dell'altro, sia perché Dio non è considerato come potenza assoluta, diversamente da ciò che afferma Cartesio nella Terza meditazione8.

7 G. W. LEIBNIZ, Principi della natura e della grazia, in Saggi filosofici e lettere cit., S 7, p.363 (GERHARDT, Phil. Schr., VI, 602). 8 R. DESCARTES, Meditationes de prima philosophia: "lmo, ut iam ante dixi, perspicuum est tantumdem ad minimum esse debere in causa quantum est in effectu; et idcirco, cum sim res cogitans, ideamque quandam Dei in me habens, qualiscumque tandem mei causa assignetur, illam etiam esse rem cogitantem, et omnium perfectionum, quas Deo tribuo, ideam habere fatendum est. Potestque de illa rursus quaeri, an sit a se, vel ab alia. Nam si a se, patet ex dictis illam ipsam Deum esse, quia nempe, cum vim habeat per se existendi, habet proculdubio etiam vim possidendi actu omnes perfectiones quarum ideam in se habet, hoc est omnes quas in Deo esse concipio. Si autem sit ab alia, rursus eodem modo de hac altera quaeretur, an sit a se, vel ab alia, donec tandem ad causam ultimam deveniatur, quae erit Deus". A.T., VII 49-50.

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Questi, infatti, fa quasi pensare a un Essere che può e vuole esistere come infinita energia produttiva, fuori da ogni intelligibile comprensione, almeno per i limitati poteri conoscitivi dell'essere finito che non pone sullo stesso piano il problema dell'esistenza dell'ente con quello dell'Essere, da sempre ritenuto esistente e fuori da ogni condizionamento.

Indagare, poi, perché esiste qualcosa anziché niente 9 - prima domanda metafisica fondamentale - potrebbe anche significare indagare perché c’è l'essere e non il nulla, visto che, secondo Leibniz, il nulla è più semplice rispetto allo stesso qualcosa10. D'altra parte le interpretazioni della prima domanda sembrano così essenzialmente individuabili: o ha un valore solo propedeutico, tale da introdurre ad altre domande cui il soggetto cerca di dare una risposta, oppure, se non ha un valore propedeutico, implica - visto che il fondamento del qualcosa è l'Essere - lo spostamento della ricerca dall'ente finito all’Essere assoluto che non sarebbe più un principio adialetticamente esistente e staticamente concepito a partire dal quale ogni cosa dipende e diventa intelligibile.

Questa interpretazione della prima domanda dà le vertigini perché interrogarsi sull'Essere e non sull'ente vuol dire in qualche modo sostenere che l’Essere poteva non esistere e si è determinato ad esistere, vincendo il nulla come altra sua scelta possibile. In tal modo, l’Essere assoluto sembra, in primo luogo, non essere da sempre esistente, in secondo luogo, avendo scelto di esistere, fa emergere il tempo come momento definito, seppure per l'uomo incomprensibile, in cui entra nell'esistenza.

Come appare, seguendo questo modo di intendere la prima domanda di Leibniz nei Principi della natura e della grazia, viene messa in questione l'eternità dell’Essere e la sua compiuta e immutabile natura che, lungi da essere sempre eguale a se stessa, dipenderebbe da una decisione originaria di essere: la stabilità del

9 (GERHARDT, Phil. Schr., VI, 47). 10 Ibid. Sull'idea del nulla in rapporto al principio di ragion sufficiente si veda L. PAREYSON, La domanda fondamentale: «Perché l'essere piuttosto che il nulla»?, in ID., Ontologia della libertà, Torino, 1995, pp.353-383.

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mondo sarebbe in funzione della scelta di un Essere che poteva non esistere, cioè la stabilità del mondo esistente, a ben intendere, sarebbe instabile alla sua origine. I1 fondamento che tutto fonda e che non può, a sua volta, essere fondato è un fondamento possibile, come apertura all’esistere o al non esistere, cioè il fondamento non è necessario, tale da escludere il suo opposto contraddittorio in modo assoluto, vale a dire il vertiginoso non essere.

Con ciò non si vuole affermare che il fondamento possibile rinvia ad un altro fondamento, cadendo in un'interrogazione che non ha fine, proiettata verso il continuo domandare, si vuole, invece, sostenere che il fondamento, almeno come dimensione non in discussione da cui tutto deriva e diventa intelligibile, è una scelta e una “vittoria” sul non essere che pure poteva rappresentare un'opzione possibile, seppure scartata o superata. L’abissalità, in questo caso, è della possibilità del fondamento che, però, - e questo è un altro aspetto problematico - richiede un Essere in grado di determinarsi all'esistenza che, in certo modo, già esiste prima di esistere, quand'anche come possibilità aperta a due scelte fra loro opposte: l'esistere e il non esistere.

La possibilità del fondamento rimanda a una scelta che, a sua volta, rinvia alla presenza di un principio in condizione di decidere, dove pare che il principio, come possibilità originaria, esiste prima della sua stessa scelta. Sennonché, come può il principio esistere prima della scelta, se l'esistenza è una sua scelta come risultato, in ogni caso, di una certa azione? Dal fondamento ritenuto possibile, come appare, si ritorna al fondamento necessario che, nondimeno, poteva contraddittoriamente, almeno per l'uomo, stabilire di non esistere.

La problematicità della posizione considerata sta, in parte, nel non poter pensare il fondamento possibile se non come necessario e nel non poter, inversamente, pensare il fondamento necessario se non come possibile, interpretando e non solo in modo propedeutico il senso della prima domanda di Leibniz; il filosofo tedesco, per aggirare questa difficile posizione, sposta il discorso sulla seconda domanda, posta nei Principi della natura e

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della grazia,11 interrogandosi, sulla ragione delle cose esistenti e non sull'Essere.

Dal fondamento possibile che porta il soggetto interpretante in una situazione vertiginosa, il filosofo passa all'ente possibile che rinvia, essendo intelligibile, a una ragione che lo fondi; il principio di ragion sufficiente, in tal modo, vale per l'ente e non per l'Essere, ponendo in rilievo, pur nelle evidenti diversità, una concezione che, poi, sarà di Schopenhauer che non attribuisce il principio di ragion sufficiente all'assoluto che è senza fondamento.12

Si può, in tale ambito, interpretare la messa sullo sfondo della prima domanda posta da Leibniz con l'interesse del filosofo che non si rivolge al problematico rapporto fra l'Essere, il nulla è l'ente, ma alla considerazione dell’esistente, concepito come determinazione parziale del possibile che prende il posto del nulla, sicché all’abissalità del nulla Leibniz contrappone la complessità dei possibili e della loro combinazione, compiuta dell'Essere supremo, che, per tale via,- e in questo caso appare un altro aspetto problematico - non segue il criterio del meglio nel possibile, ma solo nell'esistente.

11 Ibid. 12 A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. it. P. Savi-Lopez E G. De Lorenzo, voll. 2, Bari 1989, I, S 23, pp. 169-170: "Per le ragioni sopra dette, la volontà come cosa in sé sta fuori del dominio del principio di ragione in tutte le sue forme, ed è quindi assolutamente senza ragione, sebbene ogni sua manifestazione sia in tutto sottomessa al principio di ragione; sta fuori inoltre di ogni pluralità, sebbene le sue manifestazioni nel tempo e nello spazio siano innumerevoli. Ella è una, ma non com'è uno un oggetto, la cui unità può essere conosciuta solo in contrasto con la possibile pluralità; e nemmeno com'è uno un concetto, che è sorto dalla pluralità mediante astrazione; bensì è una in quanto sta fuori del tempo e dello spazio, fuori del principium individuationis, ossia della possibile pluralità. Solo quando tutto ciò sarà diventato intelligibile appieno, attraverso la seguente considerazione dei fenomeni e delle varie manifestazioni della volontà, comprenderemo interamente il senso della dottrina kantiana, per cui tempo, spazio e causalità non appartengono alla cosa in sé, ma sono semplici forme della conoscenza "(ARTHUR SCHOPENHAUER, Sämtliche Werke, a c. A. Hübscher, 7 voll., Wiesbaden, 1973, I, 179).

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Rimane, cioè in Leibniz un possibile che non segue il criterio del meglio e un esistente che, invece, lo segue, senza che tra queste due diverse posizioni sorga una manifesta aporia dipendente dalla natura dell'Essere, da un lato, assolutamente libero nel possibile e, dall'altro, in qualche modo condizionato nell'esistente, visto che, se non seguisse il criterio del meglio, non avrebbe le caratteristiche proprie di un Essere inteso in senso morale.

La difficoltà indicata, presente nel pensiero di Leibniz, e che pure può essere in parte, a nostro avviso, considerata come presenza, non in primo piano, di Cartesio nell'ambito del possibile e azione della visione cristiana di un Dio perfetto nell'esistente - dico in parte, perché Dio, secondo la teorizzazione di Leibniz, non è creatore assoluto dal nulla, ma combinatore dei possibili - manifesta, ad ogni modo, un mutamento dell'interesse leibniziano dal rapporto Essere - nulla al rapporto possibile - esistente che meglio si accorda con il pensiero del filosofo che intende l'esistente come un'attuazione del più ampio possibile, alla luce del criterio di meglio.13

Il possibile, poi, individuato anche come ente, dove l'ente è ideale o reale, secondo che si riferisce a un mondo possibile o a un mondo esistente, pone, però, in Leibniz, da un lato, il problema del tempo, visto che ogni soggetto include, per la teoria dell'inerenza, i predicati presenti, passati e futuri entro di sé, predicati che sono conosciuti in modo successivo dall'uomo che raggiunge solo una comprensione limitata di quanto indaga, dall'altro, pare escludere ogni dimensione temporale, una volta rappresentato in modo immediato dall'Essere supremo che non è

13 Si consideri l'immutabilità delle verità eterne rispetto alla volontà divina nella Monadologia: "Tuttavia non bisogna figurarsi, come fanno alcuni, che, essendo le verità eterne dipendenti da Dio, esse siano arbitrarie e soggette alla volontà di Lui, come pare abbia sostenuto Cartesio e poi il Poiret. Ciò non è vero che delle verità contingenti, il cui principio è la convenienza o scelta del meglio, non delle verità necessarie, che dipendono unicamente dall'intelletto divino, e ne sono l'oggetto interno " G. W. LEIBNIZ, Monadologia cit., in Saggi filosofici e lettere cit., S 46, p.376. (GERHARDT, Phil. Schr., VI, 614).

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limitato dalla distinzione tra prima e dopo, propria di un soggetto condizionato.

La difficoltà sta, da questo aspetto, concependo l'ente esistente come storicamente condizionato, nel far emergere il tempo che appare come una caratteristica, propria dall'essere razionale, che si rivolge ad altri enti finiti e non propria dell'Essere che, per conto suo, intuisce senza mediazione quanto all'uomo appare distinto in modo successivo secondo il processo temporale.

L’ente che fa parte del mondo passato all'esistenza è sempre rappresentato dall'Essere fuori da ogni dimensione temporale, dove, esemplificando in senso spaziale, è come un punto che include in sé la linea, solo successivamente rappresentata da chi voglia raffigurarla in modo finito. Il tempo, in tale ambito, diventa esplicitazione di ciò che è già implicito e colto dall'Essere fuori da ogni successione che, invece, richiede nell'uomo la distinzione del prima dal poi e il loro legame da parte della coscienza comprendente. Ciò significa che per l'Essere c'è solo il presente infinitamente esteso che include in sé passato e futuro, senza che vi sia un vero mutamento.14

Se la visione filosofica di Leibniz fosse individuata solo in questo modo, il tempo verrebbe inteso come esplicitazione dell'implicito, come altra manifestazione della teoria dell'inerenza - indagata da Leibniz, soprattutto, nel Discorso di metafisica e nelle Verità prime - dei predicati ai soggetti. In Leibniz, nondimeno, oltre a questa concezione analitica che, in realtà, non lascia posto al tempo, c'è, sotto l'aspetto teoretico, una chiara presenza di una dimensione temporale, come appare quando si pone attenzione all'affermazione del filosofo, nella Monadologia, in base alla quale le monadi sono fulgorazioni divine continue che trovano un limite nella ricettività della creatura alla quale è essenziale essere limitata15.

Le monadi, come fulgorazioni divine continue, comportano, oltre a un elemento di contingenza, ben lontano dalla teoria

14 Cf. G. W. LEIBNIZ, Dialogus (GERHARDT, Phil. Schr., VII, 191). 15 GERHARDT, Phil. Schr., VI, 614.

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spinoziana della sostanza,16 un aspetto temporale, espresso dall'uso del termine "continue" che non fa tanto pensare all'eternità che non lascia spazio ad ogni aspetto temporale, quanto a ciò che vale nel tempo, a ciò che dura: il tempo non rivela solo la prospettiva di un essere finito, non in grado di pervenire a una comprensione immediata di ciò che indaga quale, invece, è propria dell'Essere, in quanto fa parte della collocazione ontologica, posta all'Essere, che, pur essendo fuori del tempo, fa apparire il tempo.

Con ciò non dimentichiamo che Leibniz fa leva, in questo caso, sulla teoria della creazione continua,17 propria dell'Essere, che, con la sua azione, impedisce l'annientamento della monade, dandole persistenza e stabilità ontologica; tuttavia il filosofo tedesco finisce col far rilevare che l'esistenza delle monadi comporta aspetti diversi rispetto al1'eternità e che l'eternità dell'Essere non basta a rendere intelligibile l'ente che, sia pure in qualche modo inteso come scissione dall'Essere, richiede il tempo non solo come un principio di conoscenza, ma anche come una struttura che palesa una condizione essenziale del suo esserci.

L’esistenza delle monadi, in tal modo, è diversa dalla possibilità delle monadi: fra ente possibile ed ente esistente non c'è una mera riproduzione da parte dell'Essere, vale a dire l’esistenza ha qualche nota diversa, non contenuta nel possibile, che la individua; ciò pone in luce che il tempo appare non solo come ratio cognoscendi di un essere finito, legato a molteplici condizionamenti, ma anche come ratio essendi, elemento strutturale della sua costituzione ontologica.

16 Sul concetto leibniziano di fulgorazione in rapporto al pensiero di Spinoza, rinviamo a quanto da noi sostenuto: G. GIANNETTO, Principio di ragione e metafisica in Leibniz e Kant, Napoli, 1996. 17 Nello scritto Causa Dei Leibniz così si esprime a proposito della creazione continua: "Actualia dependent a Deo tum in existendo tum in agendo, nec tantum ab Intellectu eius, sed etiam a Voluntate. Et quidem in existendo, dum omnes res a Deo libere sunt creatae, atque etiam a Deo conservantur; neque male docetur, conservationem divinam esse continuatam creationem, ut radius continue a sole prodit, etsi creaturae neque ex Dei essentia neque necessario promanent". (GERHARDT, Phil. Schr., VI, 440).

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La struttura ontologica dell'ente è pure presente nella distinzione fatta da Leibniz, nella Monadologia, tra percezione e appetizione della monade,18 dove, se è vero che la percezione non richiede, come comprensione di un molteplice, necessariamente l'agire dell'appercezione - altrimenti Leibniz anticiperebbe l'idea kantiana dell'unità sintetica della coscienza -,19 è anche vero che l'appetizione fa emergere il mutamento e il passaggio da una percezione ad un'altra, cioè il tempo che non è più concepito come ente di ragione, ma come caratteristica essenziale della monade.

La contrapposizione tra esclusione del tempo, propria della teoria dell'inerenza dei predicati al soggetto, e presenza del tempo, tanto nella posizione delle monadi da parte di Dio, quanto nella struttura ontologica delle monadi, viene in qualche modo superata dallo stesso Leibniz nei Nuovi saggi, dove afferma che il tempo e lo spazio sono della natura delle verità eterne le quali riguardano sia il possibile che l'esistente,20 solo che - aggiungiamo -

18 GERHARDT, Phil. Schr., VI, 608-609. 19 Sull'importanza dell'unità sintetica della coscienza si tenga presente quanto Kant afferma nell'Analitica dei concetti della Critica della ragion pura: "L'unità analitica della coscienza appartiene a tutti i concetti generali, come tali; per es, se io penso al r o s s o in generale, mi rappresento una qualità che (come nota) può essere in qualche cosa, e collegata con altre rappresentazioni; così solamente mediante una possibile unità sintetica precedentemente pensata m'è dato di rappresentarmene una analitica. Una rappresentazione che deve essere pensata come comune a d i v e r s e rappresentazioni, sarà considerata come appartenente a rappresentazioni tali che abbiano in sé oltre di essa, anche alcunché di d i v e r s o ; e per conseguenza deve essere pensata in unità sintetica con altre rappresentazioni (ancorché solo possibili), prima che io possa concepire in essa l'unità della coscienza, che ne fa il conceptus communis. E dunque l'unità sintetica dell'appercezione il punto più alto, al quale si deve legare tutto l'uso dell'intelletto, tutta la logica stessa, e dopo di questa la filosofia trascendentale, anzi questa facoltà è lo stesso intelletto". E. KANT, Critica della ragion pura, tr. it. G. Gentile e G. Lombardo-Radice, ed. riv. V. Mathieu, Bari,1985, p.133, n. (Kant' s Gesammelte Schriften, herausgegeben von der Preussischen Akademie der Wissenschaften, Berlin Leipzig, l902-l978, 29 voll.,III, 109 ). 20 Nel libro I dei Nuovi saggi, Teofilo, discutendo con Filalete , fa la seguente considerazione: "Ciò è dovuto al fatto che, come ho detto adesso, il tempo e lo spazio fanno riferimento a delle possibilità al di là del presupposto delle esistenze. Il tempo e lo spazio sono della natura delle verità eterne le quali

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l'attribuzione del tempo e dello spazio che, come verità eterne, comprendono tanto il possibile, quanto l'esistente, rimane problematica ed è aperta all'indagine dell'interprete che non può non tener conto della complessità della concezione leibniziana riguardante il tempo e lo spazio. Sostenere, del resto, che lo spazio e il tempo sono della natura delle verità eterne in quanto immutabili, non risolve il problema legato alla loro interpretazione, visto che lo spazio e il tempo, nella considerazione leibniziana, vengono attribuiti sia al possibile che all'esistente, dove l'esistente è sempre diverso, pur se in rapporto con il possibile.

Per distinguere il tempo e lo spazio, attribuiti al possibile, dal tempo e dallo spazio, propri dell'esistente, è opportuno mettere in risalto che con il termine possibile Leibniz intende sia ciò che esclude ogni contraddizione e come tale è pensabile, sia ciò che ha una consistenza ontologica ed è oggetto del pensiero divino e come tale è intelligibile.

Nel primo caso, il tempo e lo spazio, a nostro avviso, vanno interpretati in un senso formale, ponendo in rilievo il concetto di ordine che, a seconda che si riferisce al tempo o allo spazio, significa ordine di ciò che è successivo e ordine di ciò che è coesistente; nel secondo caso, il tempo e lo spazio, riguardando il possibile, considerato in senso ontologico come presente alla mente divina, rinviano a ciò che è sullo sfondo del pensiero di Leibniz e che fa assumere alla nozione di ordine un significato non solamente formale.

Volendo chiarire il primo caso cui abbiamo fatto cenno, è opportuno ricordare che l'ordine di ciò che è successivo - tempo - e l'ordine di ciò che è coesistente - spazio - vanno spiegati alla luce dell'agire del principio di non contraddizione, vale a dire l'ordine di ciò che è successivo significa ordine di ciò che non può stare insieme, mentre ordine di ciò che è coesistente indica

riguardano ugualmente il possibile e l'esistente". G. W. LEIBNIZ, Nuovi saggi sull'intelletto umano, a c. M. Mugnai, Roma 1982, p.147 (GERHARDT, Phil. Schr., V, 140).

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connessione di ciò che può stare insieme, senza cadere in contraddizione.

Collegata alla teoria dell'inerenza dei predicati al soggetto, tale concezione comporta che il tempo accentua l'ordine dei predicati incompossibili, che pure possono essere attribuiti non contemporaneamente a un soggetto, e lo spazio, a sua volta, pone in rilievo l'ordine dei predicati compossibili.

Con termini diversi, ciò significa che non tutti i possibili sono compossibili - intendendo in senso metafisico e non solo logico - predicativo la considerazione sopra fatta - e che alcuni di essi possono coesistere con altri, ma non con tutti gli altri, sicché il tempo, mediante la prospettiva indicata, esprime una posizione intermedia tra l'incompossibilità assoluta e la compossibilità assoluta: solo alcuni possibili possono entrare in rapporto con altri non contemporaneamente, cioè il tempo rivela l'emergere dell'incompossibilità significativa e non priva di senso come avverrebbe, invece, nel caso in cui valesse l'alternativa o tutti i possibili sono compatibili o nessuno di essi.

Il tempo, secondo l'interpretazione proposta, mette in luce, da un lato, la presenza del principio di non contraddizione, dall'altro, il concetto di relazione, cioè il possibile va concepito o in se stesso, scomponendolo nei predicati ad esso riferibili, senza cadere in contraddizione e negare lo stesso soggetto, o in rapporto con altri possibili. In quest'ultimo caso, la visione di Leibniz rinvia al possibile, considerato in senso anche ontologico, e al concetto che, come già detto, rimane sullo sfondo del discorso del filosofo tedesco e che ci pare essere rappresentato dall'idea di mondo individuato come ordine e connessione delle cose.

Il possibile interpretato in senso ontologico, però, non ha un carattere temporale, dal momento che, essendo immutabile per lo stesso essere supremo che lo pensa, può essere inteso nell'ambito del rapporto essenza - proprietà immodificabili che non può far posto al tempo. Infatti, sia che venga pensato nel presente che nel passato o nel futuro - almeno riferendoci all'ente finito -, il possibile non muta, ma non muta anche quando è pensato da Dio perché, come già visto, la concezione che Leibniz ha di Dio accentua, soprattutto, un'attività combinatrice e non un'attività

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creatrice, come avviene con le monadi concepite come fulgorazioni continue che rinviano all'identità fra pensare e creare e dove l'Essere non ha, seppure in modo immanente alla sua natura, come, invece, appare in Leibniz con le verità eterne contenute nell'intelletto divino, l'altro da sé. 3. Tempo e mondo

Il possibile individuato in senso ontologico, nondimeno, finisce con l'assumere un significato diverso quando è concepito in rapporto al concetto di mondo che, tanto come mondo possibile, quanto come mondo esistente, richiede un insieme di relazioni fra gli enti, siano essi possibili o reali, che sono essenziali per dare stabilità ad ogni mondo e per diversificare una serie di cose dalle infinite altre serie, presenti nell'intelletto divino.

Il possibile ontologicamente inteso in connessione con il concetto di mondo, fa, in tal modo, apparire aspetti diversi dal mero rapporto fra essenza e proprietà che caratterizza solo il possibile ontologico; quello, infatti, in modo differente dal nesso essenza - proprietà che dà una rappresentazione distinta dell'essenza, rinvia al fuori dell'essenza, cioè alle relazioni, anche apparentemente accidentali, che lo legano agli altri enti.

Il mondo, da questa prospettiva, non pone in luce una somma di enti, rappresentati dalle loro proprietà interne che non entrano in relazione con gli altri enti, ma un insieme in cui tutti gli enti sono posti in connessione in un modo definito e non modificabile con eventuali sostituzioni, basate sulla costanza di relazioni, al di là delle cose che entrano in relazione. Ciò che risulta da questa concezione non è l'universale struttura di un possibile, intelligibilmente pensabile e come tale immodificabile, è, invece, una determinata struttura, posta in certi contesti, propri della individuazione di un mondo nei confronti degli altri. Dall'universalità di un possibile concepito in senso ontologico, si passa alla singolarità, intessuta di relazioni, di un possibile quando è considerato come appartenente a un mondo e non ad un altro.

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La storicità, alla luce della prospettiva indicata, è in funzione dell'immutabilità di un mondo che è diverso dagli altri, sicché, se è vero che gli enti possibili, sotto l'aspetto ontologico, valgono in tutti i mondi e rappresentano la struttura comune a tutti i mondi - diversamente dalle massime subalterne che si riferiscono a un mondo e non agli altri, in virtù del piano scelto -, è anche vero che un certo ente possibile entra in determinati rimandi in un mondo e non in un altro; ciò avviene allorché si pone in rilievo che la presenza di relazioni, apparentemente accidentali e secondarie, vale a caratterizzare un ente possibile in un mondo rispetto agli enti possibili - tenendo presente solo il nesso essenza - proprietà, indipendente da ogni mondo - intesi in modo universale fuori da ogni contesto.

Volendo esemplificare, una certa figura geometrica, pur essendo definibile in modo universale, poiché entra in determinati nessi, propri di un mondo, vale in un solo mondo e non in tutti i mondi, dal momento che le relazioni accidentali fanno parte integrante della costituzione di un mondo che, da tale aspetto, non viene compreso facendo solo agire il legame essenza - proprietà.

Il tempo, come si vede, è connesso al mondo e alle relazioni accidentali in esso caratteristiche: una figura geometrica - seguendo l'esempio fatto - disegnata in un certo contesto, non è uguale a una figura, apparentemente la stessa, disegnata in un altro contesto in cui appaiono altri rapporti. Il discorso, come è manifesto, non va tanto all'universalità della figura tracciata che vale in tutti i mondi, come verità eterna immutabile anche per lo stesso Essere supremo, quanto alle relazioni accidentali che sono poste da un Essere, ritenuto come combinatore originario dei possibili, e non sono staticamente ripetibili e costanti in tutti i mondi.

In questo ambito, ciò che è successivo rinvia a ciò che muta, ciò che muta rimanda alle relazioni accidentali, non universalmente costanti, in tutte le serie di cose, le relazioni accidentali, a loro volta, sono in funzione del piano divino scelto che si manifesta in un mondo e non negli altri che palesano altri piani fondanti. Il piano divino attuato in un mondo è, per la catena dei rimandi indicata, ciò che fonda il tempo individuato come

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ordine dei fenomeni successivi: dalla dimensione storica di un mondo, come singolarità insostituibile degli enti posti in certe relazioni con altri enti - relazioni, come visto, non mutabili -, passiamo alla determinazione, propria di un piano, nei confronti degli altri che presentano, ognuno per conto proprio, aspetti caratteristici.

La storicità, per questa via, è legata alla singolare connessione di relazioni degli enti che individua il piano di un mondo rispetto agli altri piani, propri degli altri mondi; il piano, però, una volta scelto da Dio, non è più mutato, visto che rappresenta la struttura fondante di ogni mondo, sicché si viene a manifestare, dopo quanto notato, una concezione problematica nella misura in cui il tempo, come ordine di ciò che è successivo, rimanda al mutamento, questo alle relazioni accidentali le quali, a loro volta, si basano su un piano immutabile che è la loro ragione fondante: l'immutabile - il piano ideato da Dio - spiega il tempo come ordine di ciò che muta.

Per superare l'opposizione tra mutamento, che fa emergere il tempo come successione, e immutabilità che rivela un Dio perfetto e, potremmo dire, cartesianamente veridico,21 si può far leva sulla teoria dell'inerenza dei predicati al soggetto che, in questo caso, va estesa al concetto di mondo; tale concetto, infatti, come ordine e connessione delle cose, comporta l'inerenza entro di sé di tutti i rapporti fra gli enti che ne fanno parte, inclusi i rapporti ritenuti accidentali e indipendenti dalle essenze. L'inerenza di tutti i rapporti in un mondo, che è in grado di unire l'immutabilità del piano divino con il mutamento manifestato dal tempo come

21 Sul valore del Dio veridico in Cartesio in rapporto al criterio dell'evidenza si veda la conclusione della V Meditazione sulla filosofia prima, "Postquam vero percepi Deum esse, quia simul etiam intellexi caetera omnia ab eo pendere, illumque non esse fallacem; atque inde collegi illa omnia, quae clare et distincte percipio, necessario esse vera; etiamsi non attendam amplius ad rationes propter quas istud verum esse iudicavi, modo tantum recorder me clare et distincte perspexisse, nulla ratio contraria afferri potest, quae me ad dubitandum impellat, sed veram et certam de hoc habeo scientiam. Neque de hoc tantum, sed et de reliquis omnibus quae memini me aliquando demonstrasse, ut de Geometricis et similibus". A.T. VII, 70.

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successione, finisce, nondimeno, col fare apparire un'altra distinzione tra Essere ed ente che spiega quella che, ad una prima considerazione, sembra un'unione problematica.

La distinzione, del resto, implicita nel porre insieme stabilità del piano divino e mutabilità, dipendente dalle relazioni accidentali, rinvia, a sua volta, alla diversità tra prospettiva divina e prospettiva umana: la prima vede il mondo immediatamente in tutti i suoi complessi legami, come una struttura che fa pensare al concetto di organismo quale unità articolata, dove ogni rapporto è essenziale alla stabilità del tutto, la seconda, coglie solo alcuni aspetti del tutto, che rimane in parte non conosciuto, in modo mediato e successivo.

Il tempo, da quanto detto, è legato alla seconda prospettiva, cioè a quella del soggetto finito che, non avendo l'intuizione immediata del mondo, vede nel tempo ciò che l'Essere intuisce fuori del tempo e di ogni serie successiva. Il tempo, con termini diversi, non palesa più una struttura propria del mondo, ma una limitazione dell'ente finito che intende nella successione temporale ciò che l'Essere supremo coglie nell'eternità, al di là di ogni separazione di presente, passato e futuro: il mutamento che spiega il tempo, come ordine successivo, vale, in realtà, per il soggetto finito e non per l'Essere supremo che pone e contempla l'immutabile struttura del suo piano.

Il possibile concepito in senso ontologico che, inserito in un mondo, caratterizzato al suo interno da una serie ordinata di relazioni, metteva in primo piano, per il rapporto fra enti immutabili e relazioni accidentali, la singolarità di ogni ente non solo contingente, ma anche necessario - quando presente in un determinato mondo in definiti nessi- , sembra porre in risalto, in tal modo, l'immutabilità della visione divina la quale, essendo eterna e intuitiva, non lascia spazio al susseguirsi delle vicende degli esseri finiti che, invece, sono immediatamente presenti alla sua intuizione rivelatrice, fuori da ogni successione temporale.

Sennonché, prima di escludere del tutto il tempo in rapporto all'Essere, è da tener presente che, nella già ricordata

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considerazione di Leibniz dei Nuovi saggi,22 il filosofo afferma che il tempo e lo spazio, essendo della natura delle verità eterne, riguardano sia il possibile che l'esistente, sicché, alla luce del nostro interesse interpretativo, è da indagare il tempo in relazione a ciò che esiste e a ciò che è pensabile, anche non esistendo nel mondo attuato da Dio, al fine di cogliere eventuali aspetti comuni e aspetti diversi fra il tempo, riferito al possibile, e il tempo riferito all'esistente.

Come aspetto comune, ad ogni modo, è da indicare che il tempo, tanto riguardante il possibile, quanto l'esistente, dà rilievo al concetto di ordine che va considerato in stretta connessione alla teoria dei mondi possibili e alla scelta del mondo reale da parte di Dio. Il tempo, infatti, come ordine di ciò che avviene, è caratteristico di ogni mondo, anche se poi in ogni mondo è pre-sente una determinata successione e non un'altra in grado di differenziare una serie di cose da tutte le altre.

Se, in tal modo, l'ordine di ciò che segue è tipico di ogni mondo, un certo ordine rispetto a tutti gli altri è proprio di un solo mondo che, secondo questa prospettiva, manifesta aspetti comuni - struttura temporale, anche se differentemente individuata, e verità eterne - e aspetti diversi, cioè relazioni accidentali. Il tempo, come appare evidente, è presente in ogni mondo e, allo stesso modo, è diverso in ogni mondo, posto che significa ordine di ciò che segue, ordine che, secondo la teoria dei mondi possibili, individua solo una serie di cose rispetto alle altre. Sostenere, del resto, che in Dio non si ha alcuna prospettiva temporale, essendo il tempo legato a successione e mediazione, diversamente dalla visione divina che è immediata e indipendente da ogni successione, non significa, nondimeno, escludere - e in questo modo riappare il tempo - un altro aspetto, comune ad ogni mondo, cioè che è oggetto, fuori da qualsiasi mediazione, dell'intuizione divina.

I mondi, del resto, sebbene siano oggetto della rappresentazione divina, che rivela note diverse rispetto ad ogni rappresentazione dell'ente finito, sono fra loro differenti, anche 22 GERHARDT, Phil. Schr., V, 140.

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perché ciascuno di essi presenta una diversa serie di cose nei confronti delle altre infinite serie, proprie degli altri mondi possibili. Con ciò intendiamo affermare che la distinzione tra i mondi e il loro diverso ordine temporale, se si considerasse la visione divina immediata, cioè l'atto del vedere, senza dar rilievo ai diversi oggetti rappresentati - i mondi -, che mostrano note comuni e note differenti, non diventerebbe palese: dall'intuizione divina dei mondi possibili è opportuno volgere l'attenzione all'oggetto della rappresentazione, con l'intento di porre in luce gli aspetti caratteristici di un mondo riguardo agli altri, di certo implicitamente presenti nell'adeguata visione dell'Essere che abbraccia tutti i mondi.

In base a tale prospettiva, volendo distinguere il tempo che concerne il possibile dal tempo che riguarda l'esistente, è da notare che il tempo, quando si pone attenzione al mondo esistente, oltre a manifestare, come ordine e connessione delle cose, relazioni accidentali, valide in un mondo e non negli altri, pone in risalto una nota caratteristica: l'univocità delle relazioni accidentali fra gli enti -Pompeo, ad esempio, che perde la battaglia di Farsalo è proprio, per la catena dei rimandi, solo del mondo esistente e non degli altri - .

L'univocità delle relazioni accidentali, a sua volta, richiede l'esclusione nella realtà dei mondi possibili che coesistono solo nell'intelletto divino: il mondo esistente, secondo Leibniz, è scelto mediante la volontà divina che lo pone in essere, a partire dalla rappresentazione immediata degli infiniti mondi possibili presenti nel suo intelletto.

Il mondo esistente, inoltre, è scelto e attuato dalla volontà divina in modo intelligibile, facendo agire il criterio del meglio che fonda il mondo esistente nei confronti degli infiniti altri, contemplati da Dio nel suo intelletto, ma che, ricordiamo, non seguono il criterio del meglio. Il criterio del meglio è la ragione del mondo esistente che ha una certa serie di connessioni insostituibili, ordinata in un determinato modo, dove un avvenimento segue ad altri in modo chiaro e distinto, oltre che adeguato, per Dio e parzialmente per l'uomo che non è in condizione di cogliere l'intera ragione della serie delle cose

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esistenti. Tale considerazione significa che, da una parte, l'ordine temporale è valido in tutti i mondi possibili, dall'altra, che un definito ordine temporale vale solo per questo mondo reale che diventa, escludendo il caso e l'irrazionalità, comprensibile: il tempo del mondo esistente è fondato dal criterio del meglio. 4. Dal tempo come ordine dei mondi al tempo come struttura ontologica

Questa conclusione, tuttavia, è interpretabile in un duplice modo, secondo che si ritiene che i mondi possibili sono da sempre entro l'intelletto divino, come appare nella Monadologia,23 ad esempio, o secondo che si considera che i mondi possibili, lungi dall'essere eternamente e staticamente dati all'intelletto divino, sono posti da un'attività combinatrice dell'Essere supremo - si tenga anche conto della nota in margine posta da Leibniz allo scritto indicato come Dialogus -,24 che, se non crea le verità eterne e i possibili concepiti in senso ontologico, è in grado di combinarli in infiniti modi.

Nel primo caso, Dio sceglie un mondo già dato, come ordine e connessione delle cose, nel secondo, combina i possibili che, per loro conto, non stanno da sempre in rapporti determinati che Dio sceglierebbe, limitandosi a un'attività riproduttiva, volta ai mondi possibili, e a un'attività deliberativa che ne attuerebbe uno a preferenza di tutti gli altri.

Le due concezioni del mondo, cioè o dato all'intelletto divino o posto dall'intelletto divino, tenendo presente i possibili concepiti in senso ontologico sia fuori da ogni serie, sia in serie fra loro ordinate, danno al tempo, come ordine di ciò che è successivo, una diversa accentuazione. Nella prima concezione, le serie sono già ordinate nell'intelletto divino che si limita ad attuarne una, nella seconda, le serie non sono da sempre presenti nello stesso intelletto che, invece, opera in modo combinatorio e 23 GERHARDT, Phil. Schr., VI, 615-616. 24 GERHARDT, Phil. Schr., VII, 191.

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poi - anche se il termine poi vale solo per l'essere finito - ne preferisce una fra le tante, facendola passare all'esistenza.

La diversità tra le due concezioni è evidente se si pone attenzione al fatto che, nel primo caso considerato, Dio rappresenta le infinite serie che hanno, ciascuna per proprio conto, un certo tipo di ordine che le differenzia dalle altre, cioè un certo tipo di successione di rappresentazioni, anche se viste in modo immediato dall'Essere supremo, nel secondo, Dio non si limita a riprodurre quanto è entro il suo intelletto in modo immodificabile, preferendo una serie di rappresentazioni fra le infinite date, in quanto non sceglie di attuare una serie rispetto alle altre, ma pone in essere le serie, stabilendo non solo le rappresentazioni, ma anche il loro ordine.

Ciò significa che, nella prima concezione, il tempo fa parte della struttura dei mondi che sono entro l'intelletto divino e che questi si diversificano fra loro solo per un particolare ordine che è valido in un mondo e non negli altri; nella seconda, Dio non attua una serie fra le tante contenute nel suo intelletto, perché pone lo stesso ordine delle cose, siano solo rappresentate o passate all'esistenza. Il tempo, nelle serie già date all'intelletto divino, è immanente, come legame essenziale delle cose, mentre, nella serie attuata nel reale e in quelle combinate nel possibile, è un elemento fondamentale, solo a partire dalla scelta, non meramente riproduttiva, dell'Essere supremo che, lungi dal rappresentare le diverse serie con il loro differente ordine, cioè con il loro singolare ritmo di prima e poi - anche se intuito in modo non mediato e successivo da Dio-, produce la stessa disposizione regolare, vale a dire lo stesso concetto di tempo che non preesiste come struttura immutabile nell’intelletto divino.

Si potrebbe alle considerazioni fatte obiettare che, anche seguendo la teoria di un Dio non meramente riproduttore, ma combinatore, il tempo, come ordine di ciò che segue, non emerge realmente, visto che tanto la visione riproduttiva, con cui Dio coglie in modo adeguato i mondi dati al suo intelletto, quanto la visione produttiva con cui li rappresenta, facendone passare uno all'esistenza, danno rilievo al concetto di ordine, legato, però, alla rappresentazione immediata e non successiva con cui l'Essere o

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vede e sceglie - prima concezione - o vede, combina e sceglie - seconda concezione -.

Nondimeno, se è vero che, nel caso dell'Essere supremo, il tempo assume le vesti di un ordine di rappresentazioni coesistenti nel suo intelletto, dove non c'è un prima e un dopo come successione mutabile, è anche vero che le rappresentazioni, pur intuite senza mediazione da Dio, non sono fra loro confuse, come se in una fossero contemporaneamente presenti in modo indistinto tutte le altre: la visione di un mondo da parte di Dio è immediata, ma ciò non significa che la connessione delle rappresentazioni sia disordinata o, in realtà, limitata a una sola, annullando le altre.

Che la visione divina, del resto, sia immediata non significa che non comprenda entro di sé una determinata estensione di rapporti, tipica di un mondo e non, poniamo, di un altro, quando estensione indica serie di rappresentazioni ordinate e dotate, ciascuna e tutte insieme, di una loro singolare caratteristica in grado di differenziarle dalle altre sia per la connessione con i diversi rimandi, propri di una serie, sia per il singolare ruolo svolto da una parte nell'ambito dell'insieme di un mondo.

L'intuizione divina immediata non annulla, in tal modo, l'estensione ordinata delle rappresentazioni che, sebbene colte immediatamente, manifestano una sorta di storicità, quand'anche a priori, per l'Essere supremo: Cesare, ad esempio, non può passare e non passare nello stesso tempo il Rubicone e, parimenti, non opera allo stesso modo dell'ultimo imperatore romano. Che poi Dio veda con un solo intuito tutte le rappresentazioni di ciascun mondo, ciò non toglie che i mondi sono ordinati in modo tale che l'intuizione divina lasci posto a un insieme di rappresentazioni, ciascuna diversa e collegata alle altre.

L'inerenza dei predicati ai soggetti, riferiti a un mondo, riguarda una molteplicità di rappresentazioni che sono entro uno stesso soggetto - in questo caso il mondo, che comprende la totalità dei soggetti di una serie, insieme con i loro diversi predicati - che viene inteso da Dio, al di là di ogni mediazione, nella totalità dei rimandi che, da una prospettiva finita, appare come uno sviluppo successivo, mai definitivamente compiuto.

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Dalle osservazioni fatte, il tempo, con la teoria dei mondi possibili, viene individuato come ordinamento di rappresentazioni estese e distinte che, quando si pone in risalto il mondo esistente scelto da Dio, assume il significato del migliore ordine di rappresentazioni, connesse e distinte, attuate da Dio, per il tramite del criterio del meglio, che rivela l'operare divino come intelligibile - perché segue un principio e non palesa un agire assoluto e, ad un tempo, arbitrario - e moralmente fondato.

Se, tenuto ciò presente, si da rilievo al tempo, come ordinamento di rappresentazioni distinte, intuite da Dio, si pone il problema di comprendere in che modo il tempo, proprio dei mondi dati, sia in qualche modo diverso dal tempo dei mondi posti dall'agire divino che combina i possibili. Questo problema sorge perché tanto nei mondi dati, quanto in quelli fatti, il tempo appare come estensione collegata di rappresentazioni fra loro distinte, anche se in rapporto, nella visione divina.

Per cogliere la differenza tra il tempo attribuito ai mondi dati e il tempo attribuito ai mondi posti, è il caso, a nostro avviso, di indagare il modo con cui si presentano le rappresentazioni sia nei mondi dati, sia in quelli posti.

Da tale aspetto, nel primo caso, ogni rappresentazione è entro le altre, cioè ogni rappresentazione, essendo propria di un mondo e non degli altri, è all'interno dell'insieme totale delle rappresentazioni, indicato con la nozione di mondo che le comprende senza eccezioni. Nel secondo caso, ogni rappresentazione, se fosse solo intuita insieme con le altre, farebbe pensare ai mondi dati e non a quelli prodotti, laddove, a proposito dei mondi prodotti, non vale unicamente il criterio secondo il quale ogni parte è entro il tutto, cioè il mondo, ma anche quello in base al quale ogni parte è collegata con un certo numero di altre e posta in serie ordinate che rappresentano, ciascuna per sé, una volta combinate in un determinato modo, una connessione di cose differente rispetto alle altre.

Con questa considerazione intendiamo affermare che se è vero che in ogni mondo una parte è legata alle altre, proprie di una certa serie, è anche vero che il ruolo di ogni singola parte è diverso, a seconda che poniamo in luce i mondi dati o quelli posti

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dall'operare divino. Infatti, per i mondi dati all'intelletto divino, ogni parte è da sempre insieme con le altre visto che, secondo questa concezione, Dio vede nel suo intelletto gli infiniti mondi che vengono riprodotti, senza che l'Essere compia quella operazione indicata che, invece, è propria della teoria dei mondi fatti; in questi ogni parte è combinata con una certa serie delle altre, così da costituire un mondo che, secondo tale prospettiva, non è da sempre dato all'intelletto divino che si limiterebbe a riprodurlo, senza mutare niente: il Dio combinatore non è tanto un Essere che riproduce ciò che è contenuto entro il suo intelletto dall'eternità, quanto un Essere originario che produce serie nuove di cose, non immutabilmente racchiuse nel suo intelletto in modo statico. Ogni singola rappresentazione, se ci riferiamo ai mondi posti, non è da sempre in una determinata serie con le altre, ma è da sola ed entra in serie, per il tramite dell'agire divino che la combina in infiniti modi nei diversi mondi ideati.

Da ciò emerge che se riflettiamo sui mondi dati, ogni rappresentazione è entro il tutto, se, al contrario, pensiamo ai mondi fatti, ogni rappresentazione è vista in se stessa ed entra in determinati insiemi per l'operare divino che la pone in rapporto in infiniti modi diversi: alla visione collegante, tipica di ogni mondo dato, si oppone la visione, prima separante e poi collegante, dei mondi fatti - anche se i termini prima e poi hanno un significato antropologico e manifestano i limiti dell'Essere finito che non può cogliere in modo immediato ciò che, essendo per l'uomo successivo, richiede una mediazione espressa dal ritmo di prima e dopo - .

In base alle considerazioni fatte, è anche da rilevare che, se si pone in risalto l'idea dei mondi dati all'intelletto divino che questi rappresenterebbe, non aggiungendo niente di diverso rispetto a ciò che in essi è contenuto, allora ogni possibile, rappresentato dallo stesso intelletto, è già originariamente in serie connesse, dove vale un certo tipo di temporalità come ordine, contemporaneo per Dio, successivo per l'uomo; se, invece, si pone in primo piano, l'idea dei mondi posti, allora i possibili sono intuiti separatamente dall'intelletto divino e poi - tenendo presente i limiti ricordati dai termini prima e dopo legati all'uomo e ai suoi

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criteri- in serie collegate fra loro, per mezzo di un ordine, proprio di un mondo posto e non degli altri, pur egualmente collegati da Dio.

Le due interpretazioni del mondo rinviano a due differenti idee dei possibili o ontologicamente racchiusi nell'intelletto divino, con determinati altri possibili o presenti nella mente divina in modo non collegato con gli altri; in altri termini, o i possibili sono già da sempre compossibili con altri e rivelano infiniti mondi dati, o sono in se stessi possibili e diventano compossibili per l'intervento divino che li pone in serie infinite, che sono così prodotte, e non riprodotte come avveniva nel caso dell'idea dei mondi dati. In base alle osservazioni fatte, si ha una diversa concezione dell'Essere supremo che o riproduce - prima teoria - gli infiniti mondi con chiarezza e distinzione, senza che qualche mondo riesca oscuro alla sua rappresentazione, così da manifestare un'attività visiva e abbracciante rispetto a tutte le serie date, o da un lato, produce le serie infinite - seconda teoria - che manifestano differenti combinazioni dei possibili e, dall'altro, rimanendo sempre nell'ambito di questa seconda teoria, rappresenta i possibili che stanno privi di rapporto nel suo intelletto, senza che un'attività sia successiva rispetto all'altra.

Con termini diversi, a un'idea di un Essere assoluto, che manifesta un segno della sua infinitezza nella comprensione totale di tutte le serie presenti nel suo intelletto che vengono, da tale aspetto, intuite in tutta la loro complessità, fa contrasto una teoria del divino che accentua dell'Essere supremo non solo la capacità di riprodurre in modo compiuto le serie dei possibili, ma anche la capacità di produrre, seppure non assoluta, visto che i possibili non sono creati, che finisce col caratterizzare il suo complesso agire.

Si potrebbe a ciò far notare che la produttività, svolta dall'Essere supremo, incontra limiti ben evidenti rappresentati dalla validità del principio di non contraddizione che consente che taluni possibili siano compossibili con altri possibili, pur essendo in se stessi pensabili e non contraddittori, e, parimenti, incompossibili con altri, cioè la produttività dell'Essere, in tal modo, non sarebbe assoluta, ma relativa e sottoposta a precise

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condizioni che mal si accordano con l'idea di un Dio supremo e onnipotente, quale, ad esempio, era stato teorizzato da Cartesio con la concezione delle verità eterne che sono necessarie per l'uomo e contingenti per Dio che è trascendente rispetto ad esse.25

Sennonché, anche quando si vuole far valere per il pensiero di Leibniz e non di Cartesio - che ritiene Dio non sottoposto al principio di non contraddizione - il principio di non contraddizione, è opportuno ricordare che ai mondi possibili e compossibili al loro interno, si oppongono i mondi meno complessi, per un verso, per la quantità dei possibili e delle loro relazioni, ma più elevati, per un altro, sotto l'aspetto morale. Del resto, una determinata serie di cose fra loro compatibili in un mondo non si identifica con la più elevata serie di cose compossibili nello stesso mondo, dal momento che a una minore quantità di possibili fra loro in rapporto può corrispondere un maggiore valore morale che, per conto suo, segue non un criterio logico, ma un criterio assiologico, dove vale la distinzione e la contrapposizione fra ciò che è maggiormente elevato e ciò che lo è in modo minore, fra più alto e meno alto in senso morale.

Da ciò appare che il principio di non contraddizione non pone limiti assoluti alla produttività, propria dell'Essere, di combinare infinite serie, in quanto sono pensabili serie diverse per elevazione morale e pur fra loro compatibili che coesistono nella visione divina. La possibilità di mondi con diverso valore morale rende meno condizionante il principio di non contraddizione e quello della compossibilità dei possibili che, da una certa 25 Nella lettera a Mersenne del 27 maggio 1630 Cartesio sostiene chiaramente la contingenza delle verità eterne rispetto a Dio: "Mi chiedete anche chi ha posto Dio nella necessità di creare queste verità. Rispondo che è stato tanto libero di far si che non fosse vero che tutte le linee tracciate dal centro alla circonferenza fossero uguali, quanto è stato di non creare il mondo. E' certo poi che queste verità non sono congiunte alla sua essenza più necessariamente delle altre creature. Domandate quel che Dio ha fatto per produrle. Rispondo che ex hoc ipso quod illas ab aeterno esse voluerit intellexerit, illas creavit oppure - se non attribuite la parola creavit che alla esistenza delle cose, - illas disposuit et fecit. Infatti in Dio volere concepire e creare sono la stessa cosa, senza che l'una, ne quidem ratione, preceda l'altra ". R. DESCARTES, Opere filosofiche, cit., I pp.367-368 (A.T., I, 147).

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prospettiva, sembrano guidare o meglio limitare la scelta divina del mondo migliore o, con termini diversi, mostra il principio di non contraddizione e quello della compossibilità come condizioni necessarie - perché nessun mondo palesa qualche aspetto che va contro il principio di non contraddizione e quello della compossibilità e, nondimeno, è pensabile da Dio-, ma non sufficienti all'esserci dei mondi che palesano, a ben intendere, l'emergere di un altro criterio che fa leva sull'altezza assiologica di un mondo rispetto agli altri.

Nell'ambito di questo discorso, si ha che il tempo appare strutturalmente connesso ai mondi dati entro l'intelletto divino e a quelli posti da Dio; oltre a ciò, il tempo è una dimensione essenziale del mondo passato all'esistenza. Il tempo, come si vede sembra presente in entrambe le concezioni del mondo, come connessione ordinata delle rappresentazioni, solo che è opportuno chiedersi che cosa differenzia il tempo nelle concezioni ricordate, cioè in cosa consiste, una volta trovato l'aspetto comune, l'aspetto in grado di far distinguere il tempo del mondo dato - che in realtà si rivelerà, come vedremo, come eternità statica - da quello del mondo posto da Dio con il suo piano ordinatore. Affermare, infatti, che il tempo, nel senso di ordine e connessione delle cose, è una struttura essenziale di ogni mondo non è sufficiente a farci cogliere l'elemento differenziante che vale nei mondi dati e non in quelli fatti, oltre che nel mondo scelto che ha caratteristiche differenti rispetto ai mondi combinati dall'Essere, che, tuttavia, rimangono su un piano di mera rappresentazione ideale nei confronti di quello attuato.

Il tempo, del resto, come ordine delle cose, successivo per l'uomo e non per l'Essere che intuisce tutto immediatamente, si riferisce sia ai mondi dati che a quelli posti in relazione da Dio, con la distinzione che il mondo attuato da Dio è in rapporto al criterio del meglio,26 se vale una visione assiologica, o al criterio

26 Sul criterio del meglio cf. l'Epistolario Leibniz - Clarke e in particolare il quinto scritto di risposta di Leibniz a Clarke, dove: "dire che Dio non può che scegliere il meglio e volerne inferire che quello che egli non sceglie sia impossibile, è confondere i termini: potenza e volontà, necessità metafisica e

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della compossibilità,27 se vale un criterio logico che è diverso da quello morale. Ciò significa che il tempo, da solo, non è in grado di spiegare la varietà dei mondi possibili che, oltre a una struttura comune, palesano un'essenziale diversità legata ai possibili, propri di un insieme e non degli altri.

Il tempo, in tal modo, rinvia o al criterio del meglio o al criterio della compossibilità, visto che questi due criteri rendono intelligibile la diversità tra i tempi, a seconda dei mondi cui si riferiscono: il tempo, nondimeno come principio in grado di individuare un insieme di possibili rispetto agli altri, non si autofonda e trova in questi due criteri che non hanno alcuna nota temporale, il fondamento.

L'aporia di un fondamento, non essenzialmente temporale che fonda il tempo, si spiega con lo stato ontologico dei possibili che, come notato, o stanno da soli, senza rapporto con gli altri, o sono in determinati rapporti con altri possibili entro l’intelletto divino, o sono posti in serie dall'Essere supremo: il passaggio dalla “solitudine dei possibili” alla combinazione con altri comporta l'agire, ad ogni modo, del criterio del meglio o di quello della compossibilità che consentono il sorgere delle serie dei possibili - oltre che dell'insieme scelto e attuato - le quali sono il necessità morale, essenze ed esistenze. Infatti, ciò che è necessario è tale per sua essenza, poiché l'opposto implica contraddizione; ma il contingente che esiste deve la sua esistenza al principio del meglio, ragion sufficiente delle cose. Perciò io dico che i motivi inclinano senza necessitare, e che v'è una certezza ed infallibilità, ma non una necessità assoluta nelle cose contingenti". G. W. LEIBNIZ, Saggi filosofici e lettere cit., p.431 (GERHARDT, Phil. Schr., VII, 390). 27 Sul concetto di compossibilità cf. la concezione leibniziana dell'Appendice alle Verità eterne: "Ne viene che sempre esiste quella combinazione di cose per cui ne esiste il massimo numero possibile. Poniamo, ad es., che A.B.C.D. siano eguali quanto ad essenza, ossia parimenti perfetti e parimenti esigenti l'esistenza, ma che D sia incompatibile con A e con B, A sia compatibile con tutti, eccetto D, e così pure B e C: ne viene che esisterà la combinazione A e C, con esclusione di D. Infatti, volendo far esistere D, solo C potrebbe coesistere, quindi esisterebbe la combinazione C D, senz'altro più imperfetta della combinazione ABC. Si scorge dunque di qui che le cose esistono nel modo più perfetto". G. W. LEIBNIZ, Appendice alle Verità eterne, in Saggi filosofici e lettere cit., pp. 75-76 (GERHARDT, Phil. Schr., VII, 194).

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risultato non di un operare arbitrario dell'Essere supremo, che non segue alcun principio, ma di un operare che rimane, seppure in modo parziale, comprensibile per il soggetto finito.

Il tempo, da quanto visto, come ordine, fa leva su un ordinatore che procede rappresentando e ordinando i possibili in serie compiute. Lo spostamento dall'ordine, proprio anche del tempo, all'ordinatore consente che a base di quel concetto, proprio dei diversi mondi possibili, sia dati che posti, vi sia un Essere indipendente dal tempo che va oltre la "solitudine" dei possibili, facendoli entrare in relazione nelle differenti serie.

Secondo le considerazioni fatte, l'affermazione che Leibniz fa nei Nuovi saggi, a proposito del tempo e dello spazio: “il tempo e lo spazio sono della natura delle verità eterne le quali riguardano egualmente il possibile e l'esistente”,28 assume, a nostro avviso, un significato più complesso se per il possibile e l'esistente, si intendono anche i mondi possibili e il mondo esistente che sono dotati, ognuno per conto proprio, di una singolare temporalità. Ma ciò è comprensibile se i possibili non rimangono isolati e privi di relazione, vale a dire se questi fanno parte di insiemi che contengono, al loro interno, molti altri possibili.

Tenendo presente la distinzione tra mondi dati e posti da Dio, è da considerare che - rispondendo anche alla domanda posta riguardante la distinzione tra il tempo dei mondi dati e quello dei mondi composti - all'eternità statica dei possibili, isolati e non in connessione con altri possibili, e ai mondi, immutabilmente contenuti nell'intelletto divino, si oppone una diversa concezione, che interpreta il tempo non solo come ordine dei possibili, successivo per l'uomo e immediato per Dio, ma anche - riferendomi alla seconda teoria, in base alla quale i mondi sono fatti da Dio che non li ha nel suo intelletto come verità eterne - come uscita dell'isolamento dei possibili ad opera di Dio che pone le serie, mediante il criterio del meglio e quello della compossibilità.

28 G. W. LEIBNIZ, Nuovi saggi sull'intelletto umano cit., p.l47 (GERHARDT, Phil. Schr., V, 140).

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Il tempo, alla luce di questa prospettiva, appare come rottura e superamento dell'eternità, sempre eguale a se stessa, dei possibili che stanno da soli, privi di relazioni, e dei possibili presenti in serie immutabili nell'intelletto divino - tipico della prima teoria, già considerata - e posizione di una eternità in certo modo dinamica che non lascia posto solo all'identità di un possibile con se stesso, che escluda il riferimento agli altri possibili, o alla riproduzione di serie eterne da parte di Dio, che tutt'al più le contempla: il tempo delle serie, fondandosi sull'Essere e sul suo agire, diventa, come visione comprensiva ed esaustiva di tutti i possibili rappresentati da Dio, eterno in un modo diverso rispetto all'eternità solo riproduttiva.

La concezione sostenuta da Leibniz nei Nuovi saggi, secondo la quale il tempo e lo spazio sono della natura delle verità eterne, finisce, così, a nostro avviso, col diventare - sebbene il tempo e lo spazio non siano essenze metafisiche, essenze matematiche o principi immutabili - più chiara a condizione, però, limitandoci al tempo, che questo, come ordine di ogni mondo, sia collegato al suo fondamento: l'Essere eterno e fuori dal tempo fonda il tempo come struttura in grado di collegare i possibili in precise e determinate maniere.

Il tempo, come si vede, non è soltanto in relazione al soggetto condizionato perché, per essere compreso, secondo la concezione considerata, richiede un legame originario con il principio assoluto che non rende, in tal modo, solo intelligibile i mondi possibili dati, ma anche i mondi possibili posti e le loro diverse connessioni che, individuando un mondo dagli altri, sono proprie delle serie ideate. L'eternità dell'Essere non esclude che sia anche l'origine del tempo, ma questo perché il tempo - oltre allo spazio - 29 appare in Leibniz non solo come ordine ideale posto 29 Sullo spazio come operazione del soggetto finito, Leibniz, nella Quarta lettera di risposta a Clarke dell'agosto l716, scrive: "Ecco come gli uomini giungono a formarsi il concetto dello spazio. Essi considerano che più cose esistono insieme e trovano tra esse un ordine di coesistenza, secondo cui il rapporto delle une e delle altre è più o meno semplice: è la loro situazione o distanza. Quando avviene che uno di quei coesistenti muti il suo rapporto con più altri, senza che questi mutino il rapporto tra loro, se un nuovo venuto

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dall'Essere finito30, ma anche come legame originario con l'Essere, cioè come dimensione ontologica degli infiniti mondi rappresentati da Dio.

acquista lo stesso rapporto che il primo aveva avuto con altri si dice che quello è venuto al posto di questo; un tal cangiamento vien chiamato movimento, ed è attribuito a quello in cui risiede la causa immediata del cangiamento. […]. E supponendo o fingendo che tra tali coesistenti ve ne sia un numero sufficiente che non abbia subito alcun mutamento, si dirà che i coesistenti che hanno con tali esistenti fissi un rapporto eguale a quello che altri avevano avuto rispetto ad essi, hanno occupato lo stesso posto dei precedenti. Ciò che comprende tutti questi posti viene chiamato spazio. Il che mostra che, per avere l'idea del posto e quindi dello spazio, basta considerare quei rapporti e le regole del loro mutamento, senza bisogno di immaginare alcuna realtà assoluta, all'infuori delle cose delle quali si considera la situazione". G. W. LEIBNIZ, Epistolario Leibniz - Clarke, in Saggi filosofici e lettere cit., pp.441-442 (GERHARDT, Phil. Schr., VII, 400). Sulla polemica Leibniz -Clarke cf: G. V. LEROY, Die philosophischen Probleme in Briefwechsel zwischen Leibniz und Clarke, Mainz, 1893; PERL MARGULA R., Physics and Methaphysics in Newton, Leibniz and Clarke, in "Jornal of the history of ideas" 30, l969, pp.507-526; C.B. BROAD, Leibniz's last Controversy with newtonians, in "Teoria", 12 ,1946, pp.143-l68. 30 In una lettera al Bourget Leibniz sostiene che ciò che vale per lo spazio vale anche per il tempo: "le temps separé des choses n'est pas un être absolu, mais une chose ideale" (GERHARDT, Phil. Schr., III, 595). Su questa concezione del tempo in Leibniz cf: H. POSER, Dalla durata alla forma dell'intuizione. Il concetto di tempo nel XVII e XVIII secolo, in AA.VV., Filosofia del tempo, a c. L Ruggiu, Milano, 1998, pp. 113-128; ID Zur Theorie der Modalbegriffe bei G. W. Leibniz, Wiesbaden, 1969; MUGNAI, Astrazione e realtà, Milano, 1976.