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FONDAMENTI DI ILLUMINOTECNICA VANTAGGI DELL’ILLUMINAZIONE A LED Palazzoli Academy

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FONDAMENTI DI ILLUMINOTECNICAVANTAGGI DELL’ILLUMINAZIONE A LED

Palazzoli Academy

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SOMMARIO

PREMESSA

LA LUCE Descrizione del fenomeno Onde elettromagnetiche

Propagazione della luce

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VISIONE Fisiologia dell’occhio

- Adattamento - Accomodamento - ConvergenzaProcesso percettivo

Prestazione visiva

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GRANDEZZE FONDAMENTALIFlusso IntensitàIlluminamento

Luminanza

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LEGGI FONDAMENTALI DEL CALCOLO ILLUMINOTECNICOLegge dell’inverso del quadrato

Legge fondamentale dell’illuminotecnica per apparecchi ad altezza costante Tabella comparativa delle grandezze radiometriche e fotometriche

Fenomeni di riflessione

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FOTOMETRIALuxmetri GoniofometriSistemi di misura Tecniche di misuraLa sfera integratrice o di Ulbricht

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SPETTROMETRIA Misure spettrali Il corpo nero

Temperatura di colore correlata delle sorgenti

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COLORE Sintesi Additiva e Sottrattiva La percezione dei colori Misura del colore

- Tinta - Luminosità - Saturazione Indici di resa cromatica Indici CRI e TM30

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4142424344

SORGENTI LUMINOSE Tecnologie e tipi di sorgente

- Incandescenza - Alogene - Fluorescenti - Lampade a scarica - Lampade a scarica agli ioduri metallici - Lampade a scarica a vapori di sodio - LED Efficacia luminosa

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4949505051515256

APPARECCHI DI ILLUMINAZIONE Apparecchi tradizionali Apparecchi LED Binning File di intercambio

Vita media di un apparecchio LED

Metodo di classificazione della vita media degli apparecchi LED

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ILLUMINAZIONE LEDE RISPARMIO ENERGETICO Illuminazione degli ambienti industriali Metodo del flusso totale Relampimg e retrofit Risparmio energetico Payback time Vantaggi dell’illuminazione LED

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77 78 79

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LA LUCE È VITA.

Quando nasce un bambino si dice che è venuto alla luce, indicando con questa espressione che una nuova vita è iniziata; nella Bibbia, Dio, dopo aver creato il cielo e la terra, disse “sia la luce” e così tutto cominciò.I bambini, e spesso anche gli adulti, hanno paura del buio e sono subito rassicurati dall’accensione di una lucina: solo con la luce si scacciano le paure, perché prendiamo consapevolezza di noi stessi e dell’ambiente intorno a noi e possiamo intervenire per modificare ciò che ci circonda. Se non vediamo dobbiamo muoverci a tastoni, non riusciamo a prevenire i pericoli, perché non li avvertiamo in anticipo e, in sostanza, abbiamo un sacco di difficoltà a proseguire le nostre normali attività.Il buio ci induce al riposo e al sonno, mentre la luce ci sveglia e ci rende attivi.

L’uomo ha sempre seguito il ritmo della luce e del buio, del giorno e della notte, dell’attività e del riposo, ma ha anche sempre tentato di prolungare le ore di luce, le ore attive, le ore

in cui fare delle cose, eseguire dei compiti: insomma si è sempre ingegnato per riuscire a proseguire le sue normali attività anche quando la luce naturale, la luce del sole, non ci riscalda più, oppure quando è oscurata dai fenomeni naturali.La luce artificiale ha una storia antichissima, è connaturata con le attività umane, perché l’uomo ha sempre tentato di rimanere attivo, di continuare a fare cose, vedere gente anche quando il sole è ormai tramontato, ma gli rimane la voglia di proseguire quello che sta facendo, oppure perché vuole operare dove la luce del sole non arriva. Nel sito di Abri Castanet, in Francia, ci sono immagini incise su un blocco calcareo che risalgono a circa 37000 anni fa in una grotta in cui difficilmente filtra la luce del giorno: il nostro progenitore artista doveva, per forza, disporre di luce artificiale, che gli permettesse di incidere e dipingere le pareti e la volta della caverna.Lo stesso devono aver fatto gli artisti della grotta di Magura, in Bulgaria, circa 8000 anni fa oppure gli artisti sudamericani della Cuevas de las Manos, in Patagonia.

PREMESSA

Grotta di Magura4

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E tanti altri nostri antichi progenitori.Tutto questo testimonia una volontà di svolgere le attività umane anche dove non arrivava la luce del sole o dopo che il sole era tramontato: testimonia la necessità di luce artificiale, che naturalmente, a quei tempi, non era sicuramente luce elettrica.

Da poco più di cento anni noi tendiamo ad identificare la luce artificiale con la luce elettrica, ma se pensiamo alle grandi città Europee della metà del diciannovesimo secolo ci vengono subito in mente bellissimi pali in ghisa finemente decorati che servivano per l’illuminazione pubblica a gas. A Milano per tutto il ‘700 l’illuminazione pubblica era quasi

solamente quella dei ceri accesi davanti ai tabernacoli e alle immagini sacre agli angoli delle strade. Nel 1788 però in tutta la città c’erano già 1200 lampioni di vari tipi: lumi ad olio e in un secondo tempo a petrolio. All’imbrunire arrivavano i Lampedée (coloro che si occupano delle lampade) con la scala, la perteghetta (la pertica) e la scatola contenente il bricco dell’olio e accendevano i lampioni. Poi al mattino facevano di nuovo il giro per spegnerli. Nel 1820 i ceri furono sostituiti dalle lampade Argant. Dal 1843 vennero introdotte le lampade a gas gestite da una società belga che aveva il suo gasometro vicino all’attuale Università Bocconi.

Cuevas de las Manos

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DESCRIZIONE DEL FENOMENO

Per muoverci sicuri di notte, per svolgere le nostre attività quotidiane, per continuare a produrre nelle fabbriche abbiamo sempre cercato di illuminare la nostra vita anche dopo il tramonto del sole o dove la luce del sole non poteva arrivare, con il risultato aggiuntivo di scacciare la paura del buio.

Ora noi identifichiamo la luce artificiale con la luce elettrica, ma basta citare il nome della “nostra” unità di misura fondamentale per renderci conto che non sempre è stato così: la candela.

Il nostro lavoro consiste nel permettere agli altri uomini di proseguire le loro attività anche in assenza di luce naturale: l’oggetto del nostro lavoro è l’uomo, a cui dobbiamo permettere di continuare a vedere anche dove il sole non arriva o quando sta illuminando la vita di altri uomini: i robot non hanno bisogno di vedere per lavorare o fare le altre cose per cui sono programmati.

Al centro del nostro lavoro c’è l’uomo, fin dalla definizione stessa di luce.

Chiamiamo luce la porzione dello spettro elettromagnetico compresa tra 380 nm e 780 nm, cioè la zona compresa tra le frequenze che sono in grado di stimolare il sistema visivo umano: lo spettro visibile.

LA LUCE

Spettro visibile a lunghezza d’onda crescente e frequenza decrescenteSono indicate anche oggetti di dimensione paragonabile alla lunghezza d’onda

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ONDE ELETTROMAGNETICHE

Le frequenze comprese nell’intervallo citato stimolano, con efficacia diversa in funzione della frequenza, i recettori presenti all’interno dell’occhio umano, i coni ed i bastoncelli, e permettono la visione. La relazione tra la velocità della luce nel vuoto c, che è una costante universale, la lunghezza d’onda λ e la frequenza f risulta:

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Lunghezza d’onda e frequenza sono inversamente proporzionali.

Se teniamo conto anche del mezzo in cui si propaga la luce, indichiamo con n l’indice di rifrazione del mezzo e con v la velocità effettiva di propagazione della luce, la relazione sopra esposta diventa:

Lunghezze d’onda più elevata corrispondono a frequenze più basse (meno energia).

PROPAGAZIONE DELLA LUCE

E noto sperimentalmente fino dall’antichità che la luce si propaga secondo traiettorie rettilinee per portarsi da un punto A ad un punto B immersi nello stesso mezzo otticamente omogeneo.

L’analisi della propagazione della luce si complica considerando la natura quantistica della luce che le attribuisce contemporaneamente proprietà ondulatorie e corpuscolari: se il raggio che si propaga interagisce con elementi che hanno dimensioni paragonabili alla lunghezza d’onda del raggio in esame la descrizione si complica notevolmente.

Se poi si utilizzasse un approccio relativistico le complicazioni aumenterebbero notevolmente.Ma per i nostri scopi illuminotecnici possiamo considerare che la luce si propaghi su traiettorie rettilinee e valgano in ogni caso le leggi dell’ottica geometrica.

Si tratta evidentemente di una semplificazione che è pienamente giustificata dalla natura dei fenomeni che stiamo studiando, che sono limitati nello spazio e nel tempo, e non invalida i risultati che otterremo.

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Va sottolineato che noi non vediamo con gli occhi, ma con il lavoro congiunto di occhi e cervello: gli occhi sono i sensori, ma è il cervello che ricostruisce le immagini e le interpreta, in funzione degli stimoli trasmessi dagli occhi tramite il nervo ottico, delle precedenti esperienze e delle conoscenze acquisite.Tutti hanno familiarità con le illusioni ottiche, casi in cui la ricostruzione operata dal cervello può trarci in inganno. Dobbiamo pertanto partire dall’analisi dell’occhio umano per capire meglio come funziona il processo di visione.

FISIOLOGIA DELL’OCCHIO

Tutti sanno fin da bambini che nell’occhio sono presenti due tipi di recettori: i coni ed i bastoncelli.

Coni: sono i fotoricettori responsabili della visione dei colori. Si trovano quasi esclusivamente nella fovea, che rappresenta un avvallamento di forma circolare nella parte centrale della retina.Esistono tre tipi di coni, sensibili a tre specifiche

lunghezze d’onda. Tale sensibilità è dovuta alla presenza all’interno di ogni cono di particolari proteine, in grado di percepire singole lunghezze d’onda.

Bastoncelli: sono fotoricettori responsabili della visione in bassa luminosità. Sono molto sensibili alla luce, ma non hanno sensibilità al coloreSi trovano in tutta la retina, più diradati nella fovea.

I coni, come detto, sono responsabili della visione a colori ma sono sensibili solo a luci piuttosto intense; i bastoncelli sono particolarmente sensibili a basse intensità di luce, ma non ai colori.

Se il livello di illuminamento è sufficiente prevale l’informazione generata dai coni, che è più ricca, comprendendo anche l’informazione sul colore, mentre a bassi livelli di luce continuiamo a vedere grazie alle informazioni prodotte dai bastoncelli, e quindi non distinguiamo più i colori.

VISIONE

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Di giorno vediamo a colori, utilizziamo la visione fotopica, in cui prevalgono gli stimoli inviati dai coni, di notte vediamo in bianco e nero, visione scotopica, visione regolata dai bastoncelli.

In generale, per quanto possibile, entrambi i recettori lavorano insieme ma prevale di volta in volta l’informazione più opportuna. Naturalmente, nel passaggio da livelli elevati di luminanza a livelli via via più bassi (o viceversa) si passerà da un tipo di visione all’altro, perdendo (o acquistando) progressivamente la capacità di distinguere i colori: siamo in visione mesopica, quando i due meccanismi di funzionamento operano insieme, senza che nessuno dei due prevalga.

La rètina è la membrana più interna del bulbo oculare ed è una componente fondamentale per la visione umana essendo formata dalle cellule recettoriali, i coni e i bastoncelli, responsabili di trasformare l’energia luminosa in potenziale elettrico, informazione che poi viene inviata – tramite il nervo ottico – al cervello e più in particolare alla corteccia visiva primaria e secondaria, responsabili della visione e della interpretazione della visione.

La retina presenta uno spessore variabile da 0,4 mm a 0,1 mm.

Nel complesso forma tutto il rivestimento interno del bulbo oculare, dal punto di entrata del nervo ottico al margine pupillare dell’iride.

Occhio Umano 9

Eritopsina: Sensibile a 650 nm (Rosso)coni-L con un picco di assorbimento intorno ai 570 nm sensibilità per la gamma dei rossi.

Cloropsina: Sensibile a 530 nm (Verde)coni-M con un picco di assorbimento intorno ai 530 nm sensibilità per il colore verde.

Ciinopsina: Sensibile a 430 nm (Blu)coni-S con un picco di assorbimento intorno ai 430 nm sensibilità per il colore blu-violet-to.

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Nella retina sono distinguibili tre regioni:

l’ora serrata: è il limite fra la parte ottica e ciliare della retina localizzata 6–7 mm dietro la cornea;

la papilla ottica: è il punto di convergenza delle fibre nervose per la formazione del nervo ottico ed anche il punto di emergenza dei vasi retinici;

la macula lutea: è una regione leggermente ellittica nel polo posteriore dell’occhio per il cui centro passa l’asse visivo dell’occhio stesso (cioè la direzione dei raggi luminosi); tale centro è noto come fovea, o fovea centralis, ed è la regione della visione distinta. Lo strato dei fotorecettori è costituito da una parte delle cellule recettoriali presenti nell’occhio e sensibili alle radiazioni luminose: i coni e i bastoncelli. La principale differenza che si ripercuote su una diversa capacità funzionale è la presenza di rodopsina nei bastoncelli e di pigmenti sensibili a tre diverse frequenze di onde elettromagnetiche (rosso, blu e verde) nei coni.

Nel complesso i bastoncelli sono circa 110 milioni, mentre i coni 7 milioni circa. I bastoncelli sono disposti a piccoli gruppi separati da un cono nella maggior parte della retina. Nelle vicinanze dell’ora serrata si assiste ad una diminuzione del numero di bastoncelli, mentre nella fovea si ha una disposizione particolare: fino a 0,25 mm dal suo centro sono presenti solo coni; più ci si allontana, più i bastoncelli si fanno via via più numerosi (fino anche ad essere 20 volte i coni) a 3–4 mm dal centro.

Gli occhi sono governati da un complesso sistema neuromuscolare che permette la sincronizzazione dei movimenti durante la visione e una serie di funzioni visive per ottimizzare l’interazione con il mondo circostante.

Adattamento: attraverso la variazione dimensionale della pupilla, regola la quantità di luce che arriva al cristallino. L’adattamento continuo a diverse condizioni di luce comporta affaticamento. Richiede un tempo minore passando da una condizione di buio ad una di luce rispetto al passaggio contrario.

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Accomodamento: grazie all’azione dei muscoli ciliari viene modificata la forma del cristallino per permettere la messa a fuoco a distanze diverse in un tempo medio di circa 0,7s. I bambini riescono a mettere a fuoco oggetti distanti anche meno di 10 cm. A 45 anni la capacità di adattamento si riduce ed è spesso necessario l’uso di occhiali per vedere a brevi distanze, per esempio durante la lettura.

Convergenza: noi utilizziamo entrambi gli occhi per vedere lo stesso oggetto; se si trova a grande distanza le due direzioni di osservazione saranno quasi parallele, mentre se l’oggetto è vicino gli occhi ruotano verso l’interno e le due direzioni si intersecano sull’oggetto stesso. Il cervello, sintetizzando le due immagini in un’unica visione tridimensionale (visione stereoscopica), è in grado di valutare la distanza tra osservatore ed oggetto ed in genere di percepire la profondità della scena osservata.

Struttura della retina

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PROCESSO PERCETTIVO

Naturalmente ciascuno di noi ha una diversa sensibilità e capacità visiva, quindi occorre riferirsi ad un modello condiviso per poter generalizzare i risultati e dare prescrizioni di validità generale.

Nel 1924 a Parigi, furono condotti una serie di esperimenti per valutare la sensibilità dell’occhio umano alle varie frequenze e fu determinato l’occhio umano medio.

Il campione era composto da persone giovani, tra i 23 ed i 24 anni, cioè nell’età corrispondente alla massima acuità visiva, perché si voleva valutare la rispondenza di un occhio sano ed in perfetta efficienza, senza inquinare i dati con le risposte di persone invecchiate o affette da patologie.

Inoltre nel campione c’era una leggera prevalenza femminile. Trattandosi di esperimenti condotti in Europa, ed in particolare in Francia, il campione era costituito sostanzialmente da Europei. Quindi, quello che noi chiamiamo occhio umano medio è in realtà l’occhio medio di una giovane Europea.

Non sappiamo se altre popolazioni vedano allo stesso modo, ma alcuni esperimenti condotti soprattutto in Asia confermano i dati ottenuti quasi un secolo fa su un campione limitato.

I risultati indicano che la massima sensibilità spettrale si ha in corrispondenza di una lunghezza d’onda di 555 nm, corrispondente al giallo verde, decrescendo fino a raggiungere la completa insensibilità sia diminuendo sia aumentando la lunghezza d’onda.

Curva di visibilità fotopica diurna

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La curva è stata normalizzata in modo che il coefficiente di visibilità sia 1 a 555 nm e poi decresca fino a zero al di fuori del convenzionale intervallo che va da 380 nm a 780 nm.

L’esperimento è stato condotto con livelli di luce che permettevano la visione diurna, o fotopica, cioè con livelli di illuminamento (meglio di luminanza) ai quali prevale la funzionalità dei coni e possiamo vedere a colori.

Quella presentata è la curva di visibilità fotopica, diurna, stabilita da Gibson e Tyndall a Parigi negli anni venti del secolo scorso e adottata nel 1924 dalla CIE (Commission Internationale de l’Eclairage) che è l’organismo scientifico internazionale che regola le questioni concernenti la luce.

Normalmente la curva fotopica viene rappresentata come indicato nella figura seguente, normalizzata a 1:

Successivamente è stata determinata anche la curva di visibilità notturna (scotopica), adottata dalla CIE nel 1955.

Bisogna tener presente che tutti i nostri strumenti sono tarati sulla curva fotopica (diurna) e tutte le misure che facciamo hanno come riferimento quella curva.

Riassumendo, la presenza contemporanea dei due recettori all’interno dell’occhio ci consente sostanzialmente due tipi di visione, in funzione dei livelli di luce, o meglio, della luminanza presente nella scena che stiamo guadando.

Con elevati livelli di luminanza prevale l’informazione proveniente dai coni e siamo in presenza della visione fotopica, a colori, tipica del giorno, mentre a bassi livelli di luminanza abbiamo una visione scotopica, in bianco e nero, notturna.

Nel passaggio tra una modalità e l’altra operiamo una visione intermedia (mesopica) che miscela le due modalità fondamentali a causa della progressiva insensibilità ai vari colori (effetto Purkinije, detto anche effetto campo di girasoli).

Curva fotopica

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fotopica: diurna: superiore a 50 lx o a 2 cd/m2

mesopica: transizione: tra 0,005 e 10 lux o tra 0,001 e 2 cd/m2

scotopica:notturna: inferiore a 0,005 lx o a 0,001 cd/m2

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PRESTAZIONE VISIVA

Il compito visivo è la richiesta al sistema visivo di avere una visione adeguata degli oggetti su cui si opera e della scena immediatamente circostante compresa nel campo visivo.

In fase di progettazione dell’illuminazione il compito visivo da svolgere viene determinato a priori in base alla destinazione d’uso dell’ambiente in cui si opera.

La CIE (Pubblicazione n.19/2.1, 1981) definisce la prestazione visiva come “la velocità e la precisione con cui viene eseguito un dato compito visivo” e fornisce metodi per quantizzare tale parametro in funzione di alcune variabili. Si tratta dell’attitudine che una persona manifesta nel reagire quando i dettagli dell’oggetto della visione (compito visivo) entrano nello spazio di osservazione. Ciò dipende essenzialmente dalle capacità visive del soggetto, (intese come acuità

visiva, accomodazione, regolazione della luce incidente, convergenza dell’asse visivo, motilità oculare, senso cromatico, presenza di difetti visivi, adattamento), dalle caratteristiche del compito visivo e dalle caratteristiche dell’ambiente.

Per poter svolgere un compito visivo con la corretta efficienza funzionale è necessario rispettare delle condizioni che garantiscano il dovuto comfort.

Affinché ogni oggetto coinvolto nell’osservazione sia percepito con sufficiente dettaglio dall’osservatore, occorre un livello adeguato di illuminamento, una sufficiente uniformità di illuminamento, una buona distribuzione delle luminanze, l’assenza di abbagliamento, una corretta direzionalità della luce ed una buona resa cromatica delle sorgenti e degli ambienti.

Curva scotopica (nero) a confronto con la curva fotopica (bianco)

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Dopo aver indagato la fisiologia dell’occhio possiamo comprendere meglio le grandezze fondamentali dell’illuminotecnica.

FLUSSO

Chiamiamo flusso luminoso la somma dei prodotti della potenza trasportata dalla radiazione elettromagnetica per ciascuna lunghezza d’onda per il corrispondente valore di visibilità relativa.

In termini matematici:

Dove:

Φ = flusso luminosoK = coefficiente di proporzionalità. Nel SI vale683 lm/WP(λ) = potenza spettrale in WV(λ) = coefficiente di visibilitàλ = lunghezza d’onda in nm

In sostanza moltiplichiamo la potenza spettrale per la funzione di sensibilità spettrale dell’occhio umano medio e sommiamo i contributi di tutte le frequenze a cui siamo sensibili.

Quello che stiamo facendo è di valutare la capacità della radiazione elettromagnetica con cui interagiamo di stimolare il nostro sistema visivo. Il flusso luminoso rappresenta una misura di quanto la radiazione elettromagnetica che ci colpisce sia in grado di essere vista.

Tramite il coefficiente di visibilità trasformiamo una grandezza fisica come la potenza spettrale, la potenza trasportata da una radiazione elettromagnetica di determinata frequenza, in una grandezza che dipende dal recettore, dipende dalla capacità dell’uomo di ricevere uno stimolo da quella potenza.

Stiamo mediando una grandezza fisica con la capacità umana di recepirla tramite il senso della vista.

Se ci colpisce una radiazione ultravioletta o un raggio X, possiamo ammalarci di cancro, ma non vediamo niente.

Se ci colpisce una radiazione infrarossa di adeguata lunghezza d’onda avvertiamo un senso di caldo, viene stimolato un altro senso, ma comunque non vediamo niente.

Noi siamo interessati solo alla parte di spettro elettromagnetico in grado di stimolare la nostra vista, e teniamo conto della reazione umana alla stimolazione nella definizione del flusso luminoso. Al centro del nostro lavoro c’è l’uomo, che percepisce la radiazione, la trasforma in segnali elettrici e ricostruisce immagini che ci guidano nelle nostre comuni, quotidiane attività.

Il flusso luminoso si misura in lumen [simbolo lm].

Il valore di K (coefficiente di proporzionalità) presente nella formula esposta è 683 lm/W.Il valore 683 è stato scelto in modo che le definizioni oggi in uso rimangano coerenti con le definizioni date in passato quando le conoscenze scientifiche erano più primitive delle nostre; tuttavia sono secoli che l’uomo studia la luce e occorreva non contraddire le vecchie definizioni.

GRANDEZZE FONDAMENTALI

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Come detto ancora oggi la grandezza fondamentale inserita nel Sistema Internazionale è la candela [cd], che già nel nome richiama metodi e costumi di altri secoli.

683 rappresenta un importante limite teorico per l’illuminotecnica: immaginiamo di avere una radiazione monofrequenza a 555 nm che trasporti un W di potenza.

Poiché il coefficiente di visibilità a 555 nm è pari a 1, ed immaginando di riuscire a trasformare tutta la potenza in flusso luminoso, otteniamo 683 lm.

La nostra lampadina, cioè l’oggetto in grado di trasformare una potenza, per esempio una potenza elettrica, in luce avrà una efficacia di 683 lm/W;per efficacia, in illuminotecnica, si intende la capacità di trasformare potenza in potenza luminosa e si misura il lm/W.

In genere con efficacia si intende il rapporto tra due grandezze omologhe ma non identiche, in questo caso la potenza luminosa (cioè la potenza modulata dal coefficiente di visibilità) rapportata alla potenza fornita al sistema, mentre con efficienza si intende il rapporto tra due grandezze identiche, che risulterà quindi un numero adimensionale; caso classico di efficienza è il rendimento, che è il rapporto tra potenza utilizzata e potenza fornita al sistema.

È facile vedere che 683 è la massima efficacia teorica possibile: qualunque altra onda monocromatica (composta da una sola frequenza) avrà efficacia minore, mentre se utilizziamo onde con spettro esteso, che contengano quindi più frequenze, la somma dei vari contributi sarà sempre minore di 683 lm/W.Per esempio la luce del sole varia tra i 175 lm/W e i 207 lm/W, in funzione delle diverse ore del giorno, mentre uno spettro in cui tutte le frequenze veicolano la stessa potenza ha circa 182 lm/W.

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Data una sorgente stiamo identificando e seguendo un singolo raggio che esce dalla sorgente stessa.

Abbiamo definito la candela partendo dal flusso luminoso; in realtà, come abbiamo detto, nel Sistema Internazionale la candela è la grandezza fondamentale per l’illuminotecnica ed è definita nel seguente modo:

candéla (derivato del latino candela, da candere “essere bianco, splendere”) Unità di misura fotometrica dell’intensità luminosa, pari all’intensità luminosa, in una data direzione, di una sorgente che emette una radiazione monocromatica di frequenza 5.40 1014 Hz, la cui intensità radiante nella stessa direzione è

1/683 W/sr simbolo cd

è fra le unità fondamentali SI e il suo campione italiano è conservato presso INRIM (Istituto Nazionale di RIcerca Metrologica) di Torino.

Questa definizione, introdotta nel 1979 dalla XVI Conferenza Generale dei Pesi e Misure, ha sostituito quella precedente SI del 1948, secondo la quale la c. era l’intensità luminosa di 1/60 di cm2 del corpo nero alla temperatura di solidificazione del platino (2042 K), misurata perpendicolarmente alla superficie radiante in aria a pressione normale.

L’unita illuminotecnica fondamentale è la candela e non il flusso; questa scelta è stata fatta per ragioni pratiche, di riproducibilità in laboratorio. In ogni caso resta valida la relazione tra intensità e flusso che abbiamo descritto precedentemente.

INTENSITÀ

Chiamiamo candela l’unità di misura dell’intensità luminosa, cioè, scelta una direzione nello spazio, deriviamo il flusso luminoso Φ rispetto all’angolo solido W centrato su quella direzione.

In sostanza, data una sorgente ed una semiretta che parte dalla sorgente, misuriamo il flusso contenuto in un cono centrato su quella semiretta e facciamo il rapporto tra il flusso e l’angolo solido stesso. Stringendo sempre più il cono identifichiamo l’intensità luminosa nella direzione dell’asse del cono.

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L’unità di misura dell’illuminamento è il lux [lx].

ILLUMINAMENTO

Definiamo ora l’illuminamento prodotto da una sorgente puntiforme su un punto di una superficie.

Consideriamo puntiforme una sorgente di dimensioni trascurabili rispetto alla distanza tra la sorgente stessa e la superficie da illuminare: una lampadina appesa al soffitto ha dimensioni trascurabili rispetto al pavimento, considerando la distanza tra pavimento e soffitto.

Definiamo illuminamento su di una superficie prodotto da una sorgente il rapporto tra il flusso proveniente dalla sorgente e la superficie stessa.

Se la sorgente è puntiforme il flusso è contenuto in un angolo solido centrato sulla sorgente; restringendo sempre più la superficie fino a farla collassare in un punto otteniamo l’illuminamento prodotto da una sorgente puntiforme su un punto di una superficie. In formule:

LUMINANZA

La luminanza rappresenta la sensazione visiva percepita dall’occhio umano se colpito dalla luce direttamente prodotta da una sorgente luminosa o riflessa da una superficie; è perciò definibile come l’intensità luminosa riferibile ad una superficie.

Definizione: La luminanza di una superficie è data dal rapporto tra l’intensità luminosa I emessa, riflessa o trasmessa dalla superficie A secondo la direzione di osservazione e l’area apparente della superficie stessa.

L’area apparente è la proiezione della superficie A sul piano normale alla direzione dell’intensità.

La luminanza dipende dalla posizione dell’osservatore.

Se l’osservatore si sposta verrà raggiunto da una intensità diversa da quella che lo raggiungeva nella posizione precedente e vedrà la superficie emittente sotto un angolo diverso: quindi complessivamente la luminanza percepita dall’osservatore cambierà.

La luminanza si misura in candele al metro quadro [cd/m2].

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LEGGI FONDAMENTALI DEL CALCOLO ILLUMINOTECNICO

LEGGE DELL’INVERSO DEL QUADRATO

Per sorgenti puntiformi che illuminano punti perpendicolari alla sorgente stessa possiamo scrivere che:

LEGGE FONDAMENTALE DELL’ ILLUMINOTECNICA PER APPARECCHI AD ALTEZZA COSTANTE

Se il punto non è perpendicolare alla sorgente ma il raggio incide sulla superficie da illuminare con un angolo α, allora la formula diventa:

Cioè per una sorgente puntiforme che illumina un punto perpendicolare alla sorgente l’illuminamento è pari alla intensità emessa dalla sorgente in direzione del punto divisa per l’inverso del quadrato della distanza tra punto e sorgente.

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Se la o le sorgenti sono tutte alla stessa distanza (h) dalla superficie da illuminare allora la distanza tra punto e sorgente è pari a

Si veda lo schema seguente, che illustra i calcoli sopra esposti:

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GRANDEZZA RADIOMETRICA FOTOMETRICA

Potenza W lumen [lm]

Potenza su Superficie W/ m2 lm/m2 = lux [lx]

Potenza su Angolo Solido W/sr lm/sr = candela [cd]

Potenza su Superficie per Angolo Solido W/(m2*sr) lm/(m2*sr) =

lm/sr*1/m2 = cd/m2 [cd/m2]

TABELLA COMPARATIVA DELLE GRANDEZZE RADIOMETRICHEE FOTOMETRICHE

È possibile comparare le grandezze radiometriche, che esprimono quantità fisiche, con le grandezze fotometriche, che rappresentano le stesse grandezze mediate dal sistema sensoriale umano.

Le prime descrivono fenomeni fisici, le seconde descrivono gli stessi fenomeni per come sono percepiti dall’uomo.

Posso essere investito da una grande quantità di radiazioni, ma se non sono delle frequenze adeguate non vedrò nulla.

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È possibile instaurare una analogia tra le grandezze fotometriche e le grandezze idriche:

Flusso luminoso

L’equivalente idrico del flusso luminoso è dato dalla quantità totale di acqua emessa da una doccia in tutte le direzioni nell’unità di tempo ed è misurata in litri al secondo.

Legge dell’inverso del quadrato

Nel caso di una sorgente puntiforme la diminuzione del livello di illuminamento su una superficie varia in relazione al quadrato della distanza dalla fonte: raddoppiando la distanza dalla fonte la superficie investita quadruplica ed il livello di illuminamento diviene quindi un quarto.

Il livello d’illuminamento su di una superficie è massimo quando i raggi luminosi giungono perpendicolari ad essa e diminuisce proporzionalmente al loro angolo d’incidenza.Si ha cioè una diminuzione della capacità di raccolta della radiazione al variare dell’inclinazione della superficie.

Al cinema riusciamo a vedere il film perché lo schermo è perpendicolare ai raggi che arrivano dal proiettore. Se lo schermo fosse parallelo ai raggi la luce scorrerebbe sullo schermo senza esserne intercettata e illuminerebbe la parete di fondo.

Allo stesso modo se innaffiassi il giardino tenendo il getto parallelo al terreno, l’acqua scorrerebbe sul suolo senza bagnarlo e senza penetrare in profondità con la conseguenza che le piante morirebbero.

Intensità luminosa

L’analogia idrica è data dalla quantità di acqua emessa da un singolo ugello della doccia, in un cono angolare di dimensione infinitesima.

Illuminamento

L’equivalente idrico è dato dalla quantità di acqua che cade sulla superficie in esame nell’unità di tempo ed è misurata in litri al secondo al metro quadro.

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FENOMENI DI RIFLESSIONE

Quando una superficie è illuminata da un fascio di luce, rifletterà parzialmente la luce che la investe secondo regole che dipendono dal materiale che la costituisce. Possiamo classificare le superfici in quattro grandi categorie in relazione alle caratteristiche di riflessione:

Superfici con riflessione speculare.

L’angolo di incidenza è uguale all’angolo di riflessione. Tipico comportamento degli specchi.

Superfici con riflessione diffusa.

La luce incidente viene riflessa in tutte le direzioni in modo uniforme indipendentemente dall’angolo di incidenza del raggio in arrivo.Tipico comportamento delle superfici amorfe.

Superfici con semispeculari.

La luce incidente viene riflessa principalmente in modo speculare ma il raggio riflesso non è ben definito e si manifesta una certa diffusione intorno alla direzione di riflessione principale.Tipico comportamento delle superfici metalliche lucidate.

Superfici con semidiffuse.

La luce incidente viene riflessa in tutte le direzioni in modo quasi uniforme perché esiste un angolo prioritario di riflessione in funzione dell’angolo di incidenza del raggio in arrivo.Tipico comportamento degli asfalti.

Se la superficie è diffusiva, vuol dire che segue la legge di Lambert (superfici Lambertiane).Nel modello Lambertiano la luce riflessa varia in funzione del coseno dell’angolo di emissione rispetto alla normale al piano, indipendentemente dal piano di riemissione.

Supponendo che la massima riemissione sia I, in direzione perpendicolare alla superficie riflettente, allora in tutte le altre direzioni

Iθ = I * cos(θ)

ed il solido di riemissione è una sfera – vedi esempio b della tabella precedente.

Si dimostra che se vale la legge di Lambert la luminanza della superficie non dipende dalla posizione dell’osservatore che percepisce una luminanza costante.

In sostanza se guardo uno specchio, ciò che vedo dipende in maniera essenziale dalla mia posizione, ma se guardo un muro imbiancato a calce, quello che vedo non dipende dalla mia posizione, ed anche se mi sposto vedo sempre la stessa cosa.

Se la superficie non è perfettamente Lambertiana la luminanza comunque cambia cambiando punto di osservazione.

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Con fotometria indichiamo l’insieme delle tecniche di misurazione delle grandezze (grandezze fotometriche) che caratterizzano la luce: flusso, intensità nelle varie direzioni dello spazio, luminanza, etc.

LUXMETRI

Il luxmetro è lo strumento di misura dell’ illuminamento. È composto di solito da una parte fissa (corpo strumento) e una mobile che contiene il sensore vero e proprio costituito generalmente da un trasduttore che sotto l’effetto dell’energia luminosa reagisce provocando una corrente elettrica che viene rilevata da un galvanometro la cui scala è tarata in lux.

Il parametro più importante per valutare la precisione dello strumento è la rispondenza alla curva di visibilità e di conseguenza la sensibilità del sensore.

FOTOMETRIA

Il luxmetro deve avere una risposta all’energia luminosa quanto più vicina alla curva fotopica di sensibilità relativa V(λ), cioè deve simulare il più possibile l’occhio umano normalizzato dal punto di vista fotometrico.

Questo si realizza impiegando dei filtri in modo tale da ottenere una risposta spettrale il più possibile vicina alla curva V(λ).

L’esposimetro utilizzato in fotografia è un dispositivo analogo al luxmetro e misura l’illuminamento della superficie o oggetto che si intende fotografare rispetto alle caratteristiche della pellicola e non alla curva di visibilità umana.

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GONIOFOTOMETRI

Il goniofotometro è lo strumento usato per la misurazione delle intensità luminose emesse da un apparecchio o da una sorgente luminosa nelle diverse direzioni dello spazio.

Esistono vari tipi di goniofotometro, ciascuno impiegato in diverse configurazioni per rispondere ad esigenze specifiche.

I goniofotometri che ruotano l’apparecchio intorno a due assi perpendicolari tra loro modificano la normale posizione di funzionamento dell’apparecchio durante la misura.

Per cercare di mantenere nella posizione di normale funzionamento l’apparecchio durante la misura sono state sviluppate macchine e tecniche di misura specifiche.

Il modo più semplice è di posizionare l’apparecchio di illuminazione e far ruotare la fotocellula intorno ad esso; si realizza così il goniofotometro a testina rotante, che però richiede spazi enormi per funzionare correttamente se l’apparecchio ha dimensioni elevate.

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Negli anni settanta del secolo scorso è stata sviluppata la tecnica di misurare l’immagine dell’apparecchio riflessa in uno specchio: questo permette di mantenere l’apparecchio nella normale posizione di funzionamento durante la misura sfruttando il movimento relativo tra apparecchio e specchio.

L’apparecchio trasla in direzione verticale e può ruotare intorno al proprio asse, ma resta comunque nella normale posizione di funzionamento durante tutta la misura, anche se ad altezze diverse;

in particolare resta costante la sua posizione rispetto alla gravità, garantendo la corretta dissipazione termica.

Un’altra possibilità è di tenere l’apparecchio al centro e far ruotare lo specchio intorno all’apparecchio che rimane sostanzialmente fermo, semplicemente ruota intorno al proprio asse.

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Questo tipo di goniofotometro è indicato esplicitamente nella norma LM-79 della IES (Illuminating Engineering Society), che è l’ente normatore Americano, come uno dei due soli tipo di goniofotometro utilizzabile per le misure su apparecchi LED, insieme ai goniofotometri a testina mobile che abbiamo descritto sopra.

Questa prescrizione ha naturalmente dato grande popolarità a questo tipo di strumento, anche se è stato poi chiarito che anche i goniofotometri a specchio centrale soddisfano le specifiche LM-79.

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L’immagine seguente illustra il principio di funzionamento di questo tipo di goniofotometro.

Il sensore vede l’immagine nello specchio dell’apparecchio e non deve invece ricevere luce direttamente dall’apparecchio stesso.

Da notare il setto rotante con foro eccentrico sincrono con i movimenti dello specchio che scherma la luce proveniente dall’apparecchio e la luce parassita che può essere presente nell’ambiente a causa delle residue riflessioni di soffitto, pareti e pavimento.

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SISTEMI DI MISURA

Nella fotometria esistono due sistemi di coordinate sferiche normalmente usati nella pratica, che coprono campi applicativi complementari.

Il primo sistema, indicato come C-γ (C-gamma), viene usato per gli apparecchi per interni e per gli apparecchi stradali e corrisponde al sistema di meridiani e paralleli che troviamo su un normale mappamondo.

L’apparecchio da misurare viene posto al centro di una sfera ideale di raggio molto più grande delle dimensioni dell’apparecchio

stesso, si individua un asse polo Nord, polo Sud che corrisponde all’asse perpendicolare alla superficie emittente dell’apparecchio e si genera un sistema di meridiani, che sono le intersezioni tra i piani passanti per l’asse Nord-Sud e la superficie della sfera, e di paralleli che indicano diversi gradi di elevazione rispetto all’asse centrale.

Per ogni intersezione tra meridiani e paralleli si effettua una misura. La scelta dei meridiani e dei paralleli determina la maggiore o minore densità dei punti di misura.

Naturalmente occorre scegliere un meridiano di riferimento, indicato come C0.

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Il secondo sistema, indicato come V-H, oppure come B-β (B-beta), viene usato per gli apparecchi da proiezione stradali e corrisponde ad un sistema di coordinate sferiche con asse orizzontale (Est-Ovest).

L’apparecchio è posto al centro di una sfera ideale di raggio molto più grande delle dimensioni dell’apparecchio stesso, ma si individua un asse Est-Ovest che determina un sistema di meridiani e paralleli ruotati di novanta gradi rispetto al mappamondo.

Per ogni intersezione tra meridiani e paralleli si effettua una misura.

La scelta dei meridiani e dei paralleli determina la maggiore o minore densità dei punti di misura.

Il meridiano di riferimento è generalmente perpendicolare alla superficie emittente.

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TECNICHE DI MISURA

Quando si misura l’emissione di un apparecchio o di una sorgente i dati possono essere esposti in maniera assoluta o relativa.Fino a pochi anni fa la normale tecnica di laboratorio prevedeva di fornire i dati normalizzati a 1000 lm, cioè si fornivano i risultati di misura in candele per ogni 1000 lm di emissione della lampada contenuta nell’apparecchio. Si fornivano i dati, cioè, come se la lampada fornisse sempre 1000 lm di flusso, più propriamente diremo che i dati erano normalizzati a 1000 lm.

La fotometria relativa ha il vantaggio che è possibile cambiare lampada semplicemente indicando il flusso della nuova lampada, perché si da per scontato che meccanicamente ed otticamente le lampade che possono essere montate nell’apparecchio si comportano allo stesso modo.

Il parametro che può cambiare è il flusso, ma la fotometria è normalizzata a 1000 lm, per cui basta moltiplicare le candele normalizzate per i kilolumen emessi dalla lampada inserita per ottenere la fotometria assoluta, cioè le candele realmente emesse dall’apparecchio in quella configurazione.

Per effettuare una fotometria relativa si misura il flusso emesso dalla sorgente, si misura la fotometria dell’apparecchio e si normalizzano i dati rendendo la misura indipendente dalla lampada specifica utilizzata.

La tecnica complementare prevede di misurare semplicemente le candele uscenti dall’apparecchio che contiene quella specifica sorgente. Si dice che è stata effettuata una fotometria assoluta; in questo caso non è possibile cambiare la lampada, a meno di non conoscere esattamente il flusso della lampada stessa e con tale valore normalizzare la fotometria rendendola relativa.

Nel caso di fotometria relativa, conoscendo esattamente il flusso uscente dalla lampada e quello uscente dall’apparecchio è possibile calcolare il rendimento dell’apparecchio stesso come rapporto tra i due flussi.

Dove:

η = rendimento luminosoφA = flusso uscente dall’apparecchioφL = flusso uscente dalla lampada

Il rendimento è un numero adimensionale.In sostanza il rendimento indica quanta parte del flusso fornito dalla lampada riesce ad uscire dall’apparecchio, misura l’efficienza dell’apparecchio.

Con l’avvento dei LED (Light Emitting Diode) diventa problematico cambiare le sorgenti all’interno dell’apparecchio, perché se anche fosse possibile sostituire i singoli LED o le matrici di LED che costituiscono il motore luminoso dell’apparato, la sostituzione influirebbe sui meccanismi di dissipazione del calore, quindi sull’equilibrio termico dell’apparecchio, variandone l’emissione.

Per questa ragione le norme di settore che regolano le misure sugli apparecchi LED richiedono fotometrie assolute, in cui non ha più senso parlare di rendimento luminoso, perché l’apparecchio influisce in modo sostanziale sull’emissione della sorgente, cambiandone le condizioni termiche.

Diventa quindi importante misurare l’efficacia dell’apparecchio cioè il rapporto tra il flusso emesso dall’apparecchio e la potenza (elettrica, trattandosi di luce elettrica) fornita.

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Le norme specificano che occorre valutare la potenza complessiva fornita all’apparato di illuminazione, tenendo in considerazione anche le perdite all’interno dell’alimentatore o qualunque altra dispersione all’interno dell’apparecchio.

L’efficacia mette in relazione il flusso emesso dall’apparecchio con la potenza complessiva fornita dalla rete elettrica.

Dove:

ξ = efficacia luminosaφA = flusso uscente dall’apparecchioW = potenza fornita complessivamente all’apparecchio

L’efficacia si misura in lm/W.

LA SFERA INTEGRATRICE O DI ULBRICHT

l flusso luminoso di una sorgente può essere calcolato (per integrazione) dalle intensità luminose misurate secondo le diverse direzioni, oppure misurato direttamente attraverso la sfera integratrice o di Ulbricht.

Si tratta di una sfera la cui superficie interna è verniciata con vernice bianca opaca diffondente e non selettiva, che significa che riflette allo stesso modo tutte le frequenze che compongono lo spettro da misurare.

La sorgente viene sospesa al centro della sfera. A causa delle continue riflessioni l’illuminamento di ogni punto della superficie interna della sfera è costante e proporzionale al flusso totale emesso dalla lampada.

La misurazione viene effettuata per mezzo di una cellula fotovoltaica posta dietro una piccola fessura praticata sulla superficie della sfera.

Per evitare che la cellula riceva direttamente i raggi luminosi emessi dalla sorgente, la fotocellula è schermata in modo che non veda direttamente la sorgente.

L’illuminamento E sul sensore è direttamente proporzionale al flusso totale emesso dalla lampada.

Dove K è una costante che dipende dalle caratteristiche del sistema e che si determina per taratura, misurando una sorgente campione che abbia caratteristiche simili alla sorgente in esame e flusso luminoso noto.

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Con il termine spettrometria indichiamo una serie di tecniche per misurare lo spettro della luce emesse da una sorgente o riflessa da una superficie.

Lo strumento usato è lo spettroradiometro, che può essere usato direttamente oppure come elemento sensibile di una sfera integratrice o di un goniofotometro.

SPETTROMETRIA

MISURE SPETTRALI

Lo spettro di emissione di una sorgente è la distribuzione di energia in funzione della frequenza (o della lunghezza d’onda) e rappresenta l’emissione di una sorgente; lo spettro può limitarsi al campo del visibile o estendersi anche alle altre frequenze.

Valutare lo spettro di emissione di una lampada all’interno di un progetto permette di verificare in modo adeguato la qualità della luce prodotta.

Gli spettri possono essere continui, composti da una sequenza ininterrotta di frequenze, oppure a righe, se vengono emesse solo alcune frequenze o solo alcuni campi di frequenza.

I LED normalmente usati per l’illuminazione hanno uno spettro continuo caratterizzato da un picco nel blu, un avvallamento tra blu e verde e da basse emissioni nel rosso.

Il tipo di spettro rappresentato per i LED è quello più comunemente usato, e le differenze si giocano normalmente sull’altezza del picco blu, in funzione del quale varia la temperatura di colore del LED stesso.

Naturalmente si trovano sul mercato anche molte altre soluzioni, corrispondenti a diverse tecnologie per produrre luce.

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IL CORPO NERO

In fisica un corpo nero è un oggetto ideale che assorbe tutta la radiazione elettromagnetica incidente senza rifletterla, ed è perciò detto “nero” secondo l’interpretazione classica del colore dei corpi.

Assorbendo tutta l’energia incidente, per la legge di conservazione dell’energia il corpo nero re-irradia tutta l’energia assorbita. Si tratta di una idealizzazione fisica, dal momento che in natura non esistono corpi che soddisfano perfettamente tale caratteristica.

La radiazione emessa da un corpo nero viene detta radiazione del corpo nero.

Lo spettro di un corpo nero è uno spettro dalla caratteristica forma a campana, dipendente unicamente dalla sua temperatura T e non dalla materia che lo compone.

Negli esperimenti in laboratorio un corpo nero è costituito da un oggetto cavo mantenuto a temperatura costante le cui pareti emettono e assorbono continuamente radiazioni su tutte le possibili lunghezze d’onda dello spettro elettromagnetico.

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TEMPERATURA DI COLORE CORRELATA DELLE SORGENTI

Dato lo spettro di emissione di una sorgente, o di un corpo che emetta luce o di una superficie riflettente, è possibile elaborare i dati spettrali per rappresentare il colore della luce tramite le coordinate cromatiche x,y nel diagramma CIE 1931.

Il bordo a ferro di cavallo del diagramma rappresenta i colori puri, spettrali, associati ad una singola frequenza; la linea di chiusura inferiore è la cosiddetta linea delle porpore, colori non spettrali, perché non associati a nessuna frequenza monocromatica, malgrado siano sul bordo, mentre l’interno del diagramma rappresenta i colori dati dalla miscelazione dei contributi dei colori primari; le porpore sono ottenuti dalla miscelazione del rosso e del violetto spettrale.

Siamo in presenza di una sintesi additiva: per creare nuovi colori si mescolano, si sommano, altri colori, preferibilmente i colori scelti come primari.

Sul diagramma è anche indicato il Locus Planckiano, la linea su cui giacciono le coordinate cromatiche degli spettri di emissione del corpo nero a varie temperature.

Se una sorgente emette uno spettro con coordinate cromatiche che giacciono sul Locus Planckiano possiamo specificare la sua cromaticità mediante la temperatura del corpo nero che emette uno spettro con le stesse coordinate cromatiche, indicandola come Temperatura di colore. Se invece le coordinate della sorgente sono in prossimità della Planckiana, ma non esattamente sovrapposte, specifichiamo una Temperatura di Colore Correlata (in Inglese Correlated Color Temperature – CCT) cioè la temperatura del punto più vicino del Locus.

Nella figura seguente sono indicati i segmenti che individuano le Temperature di Colore Correlate o, in Italiano, isoprossimali.

Nel caso si usi una temperatura correlata è buona pratica indicare anche la distanza dal locus, per dare una indicazione di quanto ci scostiamo dall’emissione del corpo nero.

In realtà la temperatura di colore correlata si misura in uno spazio che costituisce una trasformazione dello spazio colore CIE del 1931, adottato dalla CIE nel 1960 e ormai abbandonato.

Per questa ragione la distanza dello spettro in esame dalla Planckiana viene indicata con duv.

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La Temperatura di Colore o la Temperatura di Colore Correlata (CCT), espressa in Kelvin [K], è una caratteristica dell’emissione di una sorgente, che viene classificata come fredda o calda in funzione della sua CCT: più la CCT aumenta più la sorgente è considerata fredda, perché la classificazione come fredda o calda di una sorgente si riferisce alla sensazione prodotta nell’osservatore e non alla temperatura del corpo nero.

Più aumenta la temperatura del corpo nero più aumenta la componente blu nello spettro, generando una sensazione di freddezza nell’osservatore.

Ha senso parlare di Temperatura di Colore Correlata (CCT) solo in una fascia ristretta

intorno al Locus Planckiano, dove l’emissione è paragonabile a quella del corpo nero alle varie temperature, o, vedendo la questione da un altro punto di vista, se siamo in presenza di una luce che sia simile ad una emissione nel visibile che contenga tutte le frequenze, variamente miscelate: ad una temperatura di colore di 2000 K corrisponde una prevalenza dell’arancione, a valori di temperatura inferiori corrispondono il rosso e, ancora più in basso, l’infrarosso, non più visibile; mentre a temperature superiori ai 2000 K la luce è dapprima gialla, poi bianca, azzurra, violetta e ultravioletta.

In pratica usiamo la Temperatura di Colore (eventualmente Correlata) per distinguere le varie tonalità della luce “bianca”.

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Il colore è un mezzo che consente di esercitare un influsso diretto sull’anima. Il colore è il tasto, l’occhio il martelletto, l’anima è il pianoforte dalle molte corde.

da Dello spirituale nell’arte, Vassilij Kandinskj

Noi, normalmente, vediamo il mondo a colori ed associamo questa sensazione multiforme ai nostri sentimenti: vedere il mondo in bianco e nero significa non apprezzare le sfumature, dividere ciò che ci circonda in categorie nette, non distinguere le gradazioni.

Il colore è gioia, pienezza di vita, completezza di informazione.

È possibile dare una misura oggettiva del colore?

COLORE

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Ricondurre ciò che sperimentiamo con i nostri sensi a qualcosa di oggettivo, misurabile e sul quale tutti concordano?

Sappiamo rispondere alla domanda di ogni bambino: “il mio amico vede il rosso come lo vedo io?”.

Non abbiamo tutte le risposte a queste domande, vediamo quello che sappiamo finora.

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SINTESI ADDITIVA E SOTTRATTIVA

Nell’ambito della sintesi dei colori si deve evidenziare la distinzione tra il caso in cui si sommano luci e quello in cui si mescolano pigmenti colorati.

Nel primo caso il numero delle componenti cromatiche che raggiungono l’occhio aumenta, e si parla di sintesi additiva; nel secondo caso, essendo i pigmenti sostanze assorbenti, il numero delle componenti cromatiche che raggiungono l’occhio diminuisce, e si parla di sintesi sottrattiva.

Il modo più semplice per sperimentare la sintesi additiva consiste nell’avvicinare l’occhio allo schermo di una TV a colori sino a distinguere gli elementi emittenti dello schermo; si potrà notare così come attraverso diverse combinazioni di blu, verde e rosso si ottengano, alla dovuta distanza, gli altri colori visualizzabili.

Viene riportato uno schema di base per la sintesi additiva; si noti come la somma dei tre colori fondamentali generi il bianco.

Definendo colore complementare quello che si ottiene sottraendo dal bianco il colore dato, si può constatare che i rispettivi colori complementari di rosso, verde e blu, e cioè ciano, magenta e giallo, costituiscono una base per la sintesi sottrattiva dei colori.

È riportato uno schema di base per la sintesi sottrattiva; si noti come la somma dei tre colori di base generi il nero.

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LA PERCEZIONE DEI COLORI

Il meccanismo tramite il quale percepiamo i colori è schematizzato di seguito:

un oggetto è illuminato da una luce con un proprio spettro, ne riflette una parte che viene percepita dal nostro sistema visivo, in particolare eccita i recettori presenti nell’occhio che inviano l’informazione al cervello il quale ricostruisce l’immagine, determinando forma, posizione, stato di movimento ed anche colore dell’oggetto che stiamo osservando.

Come abbiamo già affermato noi non vediamo con gli occhi, ma tramite il lavoro congiunto di occhi e cervello.

Dal punto di vista fisico possiamo schematizzare il processo in questo modo: sono gli stessi passi evidenziati sopra, ma in questo secondo schema sono più evidenti le caratteristiche fisiche, oggettive, che entrano in gioco, e che ci permettono di riprendere una scena con una fotocamera e trasmetterle in televisione.

Nel 1942 David MacAdam eseguì un famoso esperimento, indagando quali fossero i limiti entro i quali due colori simili venivano distinti da un osservatore. Individuato un punto sul diagramma CIE 1931, e quindi un colore, l’osservatore vedeva un cerchio diviso a metà: una metà aveva il colore scelto, nell’altra si poteva variare il colore fino a che l’osservatore vedeva un intero cerchio dello stesso colore.

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L’esperimento era ripetuto cambiando il punto di partenza del colore variabile, in modo da raggiungere il colore obiettivo partendo da colori diversi.

Egli raccolse una mole enorme di dati e pubblicò i suoi risultati riferiti a 25 punti sul diagramma CIE 1931 intorno ai quali individuò delle ellissi all’interno delle quali il colore era indistinguibile.

Più precisamente egli riuscì a dare una elegante formulazione matematica ai suoi risultati: le ellissi rappresentavano l’intervallo corrispondente ad una deviazione standard dei dati sperimentali raccolti e la loro interpretazione afferma semplicemente che il 68% della popolazione normovedente, non distingue il punto centrale dell’ellissi da tutti gli altri punti.

Se tracciassimo l’ellissi corrispondente a 2 deviazioni standard (a due step di MacAdam, come si dice normalmente) attorno allo stesso punto, allora solo il 5% della popolazione non distinguerebbe il punto centrale da tutti gli altri punti e così via. Il punto da sottolineare è che non si distingue il punto centrale da tutti gli altri punti dell’ellisse

(nel caso di 1 step), ma due punto opposti sul confine dell’ellissi distano in realtà 2 step di MacAdam e sono dunque distinguibili: non vediamo la differenza di tutti i punti dell’ellisse dal suo centro, ma vediamo la differenza tra due punti periferici opposti.

Nella figura, come nell’articolo originale, le ellissi sono ingrandite di 10 volte.

Quello che si nota subito è che le ellissi differiscono per dimensione ed orientamento nelle varie regioni del diagramma: lo spazio colore CIE 1931 non è uniforme, le differenze percettive dipendono dalla posizione in cui siamo, ed anche l’orientazione delle ellissi non è costante. Se lo spazio fosse uniforme otterremmo dei cerchi, non delle ellissi, e tutti della stessa dimensione.Proprio per tentare di rendere uniforme lo spazio colore sono state proposte varie trasformazioni del diagramma CIE 1931, ma finora il problema dell’uniformità non è stato risolto.

Invece studi successivi al primo articolo di MacAdam hanno generalizzato i suoi risultati, ed oggi noi possiamo calcolare orientazione e diametri delle ellissi per ogni punto dello spazio colore.

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MISURA DEL COLORE

I tre attributi che normalmente diamo al colore degli oggetti sono la tinta (Hue), la luminosità (Lightness) e la saturazione (Chroma); tra parentesi sono riportati i termini inglesi perché la traduzione può variare tra un autore e l’altro, generando confusione.

Questo sistema è stato messo a punto dal professor Munsell all’inizio del XX secolo e adottato negli anni trenta dal Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti d’America come sistema di colori ufficiale per le ricerche sul suolo.

Comunemente ci riferiamo ad esso come sistema Munsell, implementato nell’atlante Munsell.

Tinta

Munsell divise ogni cerchio orizzontale in cinque colori principali: rosso, giallo, verde,blu e violetto, indicati con le loro iniziali in inglese: R (red), Y (yellow), G (green), B (blue) e P (purple), e in altri cinque colori intermedi adiacenti ad essi. Ognuna di queste dieci suddivisioni è ulteriormente suddivisa in 10 sotto divisioni in modo da contare cento tinte diverse.

Due colori, di uguale luminosità e saturazione, che si trovano agli estremi opposti di un diametro della circonferenza delle tinte sono detti colori complementari e la loro mescolanza additiva genera il grigio della stessa luminosità.

Hue: The perception of relative redness, blueness, greenness, or yellowness of a stimulus.

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Saturazione

La saturazione è misurata radialmente dal centro di ogni settore circolare del sistema di coordinate cilindriche e rappresenta il grado di “purezza” del colore, dove valori più bassi corrispondono a colori più tenui e tendenti al grigio.

Nel tempo sono stati messi a punto molti sistemi per descrivere e misurare le caratteristiche cromatiche di una sorgente o di un oggetto, cioè esistono diversi spazi colore che tentano di rendere oggettivo, indipendente dall’osservatore specifico, il dato colorimetrico, in sostanza che tentano di misurare il colore.

Tutti questi sistemi si basano sui meccanismi descritti sopra e la loro evoluzione corrisponde all’approfondimento delle nostre conoscenze.

Luminosità

La luminosità varia verticalmente lungo l’asse verticale delle coordinate cilindriche da un valore minimo di 0 (corrispondente al nero) fino al valore massimo di 10 (corrispondente al bianco).

Tra questi due estremi si trovano tutte le tonalità di grigio.

Si noti che non esiste nel sistema Munsell un limite intrinseco al valore di saturazione, aree differenti dello spazio dei colori hanno diverse coordinate di saturazione massima.

Ad esempio i colori gialli chiari hanno valori potenziali di saturazione più alti ad esempio dei violetti chiari, questo a causa della natura dell’occhio umano e della fisica degli stimoli ottici.

Lightness: The attribute by which a perceived color is judged to be closer to white than black.

Saturation or Chroma: degree of departure from a gray of equal lightness (or natural gray).

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INDICI DI RESA CROMATICA

Finora abbiamo discusso del colore della luce, della sua Temperatura di Colore Correlata, del colore degli oggetti e dei meccanismi percettivi del colore: ora dobbiamo mettere in relazione tra loro tutti questi aspetti del problema.

Sappiamo che con poca luce non distinguiamo i colori, mentre se aumentiamo la luminosità i grigi tendono al bianco come, in realtà, fanno anche gli altri colori.

Ma come varia la nostra percezione dei colori cambiando la luce che illumina la scena da indagare? L’illuminante influenza la nostra percezione?

Intuitivamente la risposta è positiva: tutti abbiamo scelto un maglione all’interno del negozio per scoprire un colore diverso quando l’abbiamo indossato all’aperto, alla luce del sole.

L’immagine illustra la situazione:quello che vediamo come a destra alla luce di un illuminante campione (per esempio la luce del sole o un illuminante codificato) appare come a sinistra sotto un’altra luce.

La variazione avviene per il singolo colore, nell’immagine il singolo quadratino, ma noi abbiamo bisogno anche di indici generali che possano rendere ragione complessivamente del fenomeno.

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INDICI CRI E TM30

Il primo indice sviluppato a questo scopo, per rendere ragione di come una luce (un illuminante) fa percepire i colori ad un osservatore medio, è il CRI (Color Rendering Index).

Nella sua prima versione l’indice si basava su otto colori non saturi per ciascuno dei quali veniva determinato un indice di resa cromatica: la media aritmetica degli otto indici base è Ra, o indice medio (in Inglese average).

Questo metodo è stato sviluppato per essere usato con le lampade fluorescenti, ed è stato calibrato in modo che una particolare lampada avesse indice 50.

Indice 100 significa che il colore è riconosciuto perfettamente, indici più bassi indicano difficoltà crescenti nel riconoscere quel particolare colore; questo indice da indicazione solo della capacità di riconoscere il colore, in particolare l’indice riferito ad un singolo campione (R1, R9 etc.) indica la capacità dell’illuminante di rendere quel colore, mentre Ra dà una indicazione media sull’intera gamma di colori.

Nel tempo i colori sono poi stati estesi a 14, ed i Giapponesi utilizzano anche un quindicesimo campione che è il colore della pelle media giapponese; va sottolineato che Ra indica sempre la media dei primi otto campioni.

Questo indice da solo una idea sulla capacità di riconoscere i colori e non risponde a tante altre domande che possiamo farci: per esempio se il colore, pur riconosciuto, ci appare naturale, cioè lo vediamo come lo vedremmo alla luce del sole, oppure se ci appare più carico o meno saturo di come lo vedremmo sotto altri illuminanti. Inoltre l’indice, per come è costruito, soffre di alcune anomalie, la più evidente delle quali è che può diventare negativo e nessuno sa interpretare un valore negativo di tale indice.

Per questa ragione sono stati sviluppati molti altri indici di resa colore, ciascuno dei quali risponde ad una specifica domanda.

Per esempio esiste anche un indice che si base sul ricordo che noi abbiamo dei colori di 10 oggetti di uso familiare, che quindi non ha bisogno di un illuminante campione (il campione è la nostra memoria) e sostanzialmente risponde alla domanda se gli oggetti appaiono con colori naturali.

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Risulta evidente che un solo indice non è sufficiente per caratterizzare completamente la resa del colore di una sorgente: in funzione della domanda a cui risponde lo specifico indice otteniamo risultati più o meno buoni, ma per tener conto di tutti gli aspetti della percezione occorre farsi più domande, avere più indici.

In conclusione appare evidente che la definizione di un solo indice di resa cromatica sia una soluzione troppo semplicistica per un problema assai complicato; ogni applicazione per cui il progettista individua un attributo predominante nell’ambito della “resa cromatica” esige il una metrica appropriata per essere valutato e considerato al meglio nell’ambito del progetto.

La pubblicazione IES TM-30 ha introdotto un metodo per la valutazione della resa cromatica

in cui si raggruppano sistemi di valutazione già noti, ma organizzati in modo sistematico.

L’assunto base è che un solo indice è insufficiente, quindi si richiedono almeno due indici diversi, il Fidelity Index Rf e il Gamut Index Rg. In più è richiesto di accompagnare i due indici base con almeno una forma di rappresentazione grafica.

Il Fidelity Index, indica la fedeltà della resa del colore, la capacità di riconoscere il colore, mentre il Gamut Index valuta come viene variata l’area coperta dai colori campione illuminandoli con la lampada in esame rispetto all’illuminante di riferimento.

TM-30 si basa su 99 campioni e propone anche una grande varietà di indici che possono rispondere a domande specifiche.

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Fidelity e Gamut Index vengono rappresentati sullo stesso grafico e restano, normalmente, all’interno del triangolo indicato in figura.

Le rappresentazioni grafiche aiutano a capire come è stata modificata la percezione dall’illuminante.

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Eccone un esempio, in cui è indicato anche il corrispondente valore CRI.

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Esistono molte tecnologie per produrre luce tramite conversione di potenza elettrica.Esaminiamo le più diffuse

TECNOLOGIE E TIPI DI SORGENTE

Incandescenza

Un filamento metallico, avvolto di solito a spirale, è posto all’interno di un’ampolla di vetro nella quale è praticato il vuoto oppure è immesso un gas, che mescolandosi con il tungsteno evita l’annerimento del bulbo.

Per abbassare la sublimazione inoltre vengono aggiunti altri gas (azoto o argon) che hanno la funzione di diminuire il distacco delle particelle di tungsteno aumentando la durata.

Applicando agli estremi del filamento una differenza di potenziale, si genera un campo elettrico e si ha un passaggio di corrente attraverso il filamento, che dà luogo ad un incremento di temperatura del filamento stesso; esso si comporta come un corpo nero ad alta temperatura ed emette energia raggiante secondo uno spettro di emissione continuo, una porzione del quale nel campo del visibile.

La temperatura di colore è di circa 2900K, il valore dell’indice di resa cromatica è 100. L’efficienza luminosa oscilla tra 9 e 20 lm/W. La durata è di circa 1000 ore.

SORGENTI LUMINOSE

Alogene

Le lampade ad alogeni sono caratterizzate dalla presenza nel bulbo, oltre che del gas inerte, di un alogeno (iodio o bromo) per dar luogo al ciclo rigenerativo del tungsteno.

Le particelle di tungsteno, provenienti dal filamento interno, si combinano con gli elementi alogeni presenti nel bulbo dando origine agli alogenuri di tungsteno, gas trasparenti che non aderiscono alle pareti interne della sorgente, grazie a dei moti convettivi che tendono a far tornare questi gas nella regione prossima al filamento.

Poiché gli alogenuri di tungsteno sono composti stabili entro un dato intervallo di temperature, spegnendo la lampada avviene la dissociazione.

Il tungsteno ritorna libero depositandosi nuovamente sul filamento e lasciando liberi gli elementi alogeni pronti a riprendere il ciclo ad ogni accensione.

Il primo alogeno ad essere utilizzato è stato lo iodio; attualmente si usa spesso un composto del bromo.

La temperatura di colore varia da 2800 a 3100K, il valore dell’indice di resa cromatica è 100. L’efficienza luminosa oscilla tra 20 e 25 lm/W. La durata varia da 2000 a 5000 ore.

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Fluorescenti

Sono costituite da un tubo riempito con mercurio e con polveri fluorescenti in grado di convertire l’emissione del mercurio (253 nm) nel campo del visibile.

Il materiale fluorescente è caratterizzato da un forte assorbimento degli ultravioletti (dipendente dalle dimensioni delle particelle) e da un’elevata efficienza di trasformazione (dipendente dalla purezza).

La temperatura di colore subisce variazioni che vanno da 2700 a 6500K, il valore dell’indice di resa cromatica varia tra 60 a 90.

L’efficienza luminosa oscilla tra gli 50 e 90 lm/W. La durata dipende dalla tipologia e varia da 6000 a 12000 ore.

Lampade a scarica

Una lampada a scarica in gas è costituita da un tubo ermeticamente chiuso. In corrispondenza delle estremità sono posizionati due elettrodi, l’anodo (positivo) e il catodo (negativo). Il tubo contiene un gas che vaporizza quando fra gli elettrodi si innesca il passaggio di corrente. Il processo che porta all’emissione dipende dall’energia che colpisce gli elettroni del gas.Una volta eccitati, gli elettroni cambiano orbita, ma tendono a tornare alla posizione originaria emettendo onde nel visibile (spettro a righe).

Nel tornare allo stato originario l’elettrone può fermarsi a stati metastabili, dove produce il maggior numero di onde luminose. L’elettrone espulso dall’atomo contribuisce al mantenimento della scarica urtando altri elettroni nei vari passaggi.

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Lampade a scarica a vapori di sodio

Sono costituite da un tubo di scarica in materiale ceramico trasparente, resistente alle alte temperature e alla aggressività del sodio racchiuso al proprio interno.

La scarica avviene in vapori ad alta temperatura e pressione con una conseguente emissione di luce bianco dorata.

Una volta accesa raggiunge il regime normale di funzionamento dopo circa 5 minuti. Grazie all’elevata efficienza luminosa viene abbondantemente utilizzata per illuminare esterni e locali industriali.

La temperatura di colore subisce variazioni che vanno da 2000 a 2500K, il valore dell’indice di resa cromatica varia tra 20 e 80. I valori dell’efficienza luminosa possono superare i 120 lm/W e crescono con la potenza della lampada. La durata può raggiungere le 30000 ore.

Lampade a scarica agli ioduri metallici

Il tubo di scarica contiene al proprio interno, oltre al mercurio, ioduri di sodio, di tallio e di indio. Nelle lampade di recente produzione vengono inserite anche terre rare come il disprosio, l’olmio, il tulio e il cesio, che permettono una migliore distribuzione spettrale ed efficienze luminose più elevate.

Le lampade ad alogenuri hanno dei tempi di accensione e riaccensione piuttosto lunghi. Un’evoluzione importante riguarda l’introduzione nelle lampade del bruciatore ceramico, che ha notevolmente migliorato le rese cromatiche.La temperatura di colore subisce variazioni che vanno da 2700 a 6000K, il valore dell’indice di resa cromatica varia tra 65 a 95.

L’efficienza luminosa oscilla tra gli 80 e gli oltre 95 lm/W al variare della potenza e della tipologia della lampada. La durata è di circa 12000 ore.

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LED

SIl LED è un componente elettronico allo stato solido, come un normale transistor o come un circuito integrato. Lo scopo di questo componente elettronico è emettere luce. Essendo un componente allo stato solido, per funzionare deve far parte di un circuito elettronico. L’acronimo LED significa Light Emitting Diode, in Italiano diodo che emette Luce.

Il diodo è un componente elettronico unidirezionale, all’interno del quale la corrente elettrica può muoversi solamente dall’anodo verso il catodo, mentre viene bloccato il flusso di corrente inversa dal catodo all’anodo; è un semiconduttore.

I LED sono stati sviluppati da Nick Holonyak nel 1962, sono costituiti da materiali semiconduttori, con specifiche proprietà tali da permettere la conversione dell’energia elettrica in luce (fotoni), e drogati per modificare il bilanciamento tra le cariche positive e quelle negative.

Alla base del loro funzionamento c’è una giunzione P-N, composta da due zone accostate (una con eccesso di lacune, l’altra con eccesso di elettroni).

Il termine giunzione fa riferimento alla sottile area di confine tra le due zone.

Ai due lati di essa vi è una differenza di potenziale;

se non è applicata nessuna tensione le cariche positive e quelle negative tenderanno a mischiarsi nella zona confinante per raggiungere l’equilibrio, creando una sottile barriera, impedendo così la circolazione di cariche tra una regione e l’altra.

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La tabella seguente illustra le componenti di emissione tra vari tipi di sorgente luminosa. La tabella è stata pubblicata dal DOE, Department Of Energy del governo degli Stati Uniti, e illustra pienamente l’efficacia luminosa delle varie tecnologie.

Le lampade incandescenti sono sostanzialmente delle stufette, perché convertono il 92% della potenza fornita in calore, sia direttamente che sotto forma di radiazione infrarossa.

Va meglio con le fluorescenti, che comunque presentano ancora un elevato calore residuo.

Le lampade a ioduri metallici sono più efficaci nella conversione, ma al prezzo di produrre pericolose componenti ultraviolette.

Nei LED non abbiamo normalmente né infrarosso né ultravioletto e l’efficacia è ormai attestata sul 25%.

Resta un 75% di calore dissipato, ma la tecnologia è ancora in grande sviluppo e si verificano miglioramenti continui, che permettono di prevedere prestazioni sempre migliori nel breve e nel lungo periodo. Riportiamo la previsione del DOE per i prossimi anni.

INCANDESCENT60W

FLUORESCENTtypical linear CW

METAL HALIDE

LED

visible light 8% 21% 27% 15-25%

IR 73% 37% 17% 0%

UV 0% 0% 0% 0%

TOTAL RADIANT ENERGY 81% 58% 63% 15-25%

heat (conduction + convection) 19% 42% 37% 75-85%

TOTAL 100% 100% 100% 100%

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Come si vede i LED hanno ormai raggiunto e presto supereranno l’efficacia delle lampade al sodio, che hanno efficacia altissima perché sostanzialmente emettono luce monocromatica, centrata sulle frequenze con i più alti fattori di visibilità.

I LED invece presentano spettri continui diffusi in quasi tutte le regioni dello spettro visibile, permettendo quindi una resa dei colori molto elevata, mentre le lampade al sodio sotto questo aspetto hanno prestazioni largamente insufficienti.

Inoltre le sodio emettono in tutte le direzioni, per cui l’efficacia complessiva dell’apparecchio scende, dovendo scontare anche le perdite dovute ai sistemi ottici (riflettori) che indirizzano verso l’esterno dell’apparecchio la luce emessa dalla lampadina verso l’interno.

Nei LED l’emissione di luce avviene normalmente nel semispazio frontale e quindi ci sono meno perdite all’interno dell’apparecchio la cui efficacia cresce rispetto ai modelli che montano lampade tradizionali.

Ciò che conta realmente per il risparmio energetico è la luce utile che arriva sul piano da illuminare, sia il tavolo da lavoro negli ambienti interni, il manto stradale nell’illuminazione pubblica o il campo da gioco in quella sportiva, per cui il valore da prendere in considerazione non è semplicemente l’efficacia della sorgente, della lampadina, ma l’efficacia dell’apparecchio, che con sorgenti LED aumenta.

Di seguito un’altra tabella previsionale del DOE, che risale a qualche tempo fa, in cui sono indicate le efficacie misurate e gli obiettivi di efficacia futura dei vari tipi di LED; finora è stata sostanzialmente rispettata.

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Va notato che gli obiettivi dichiarati per il 2020 e quelli finali sono largamente al di sopra dell’efficacia della luce solare o dell’emissione del corpo nero.

Per ottenere questo risultato occorre concentrare l’emissione nella parte centrale dello spettro visibile, quindi non partire da 380 nm e non arrivare a 780 nm, perché le frequenze più basse e quelle più alte hanno coefficienti di visibilità molto bassi che penalizzano l’efficacia. L’unica soluzione è quindi quella di tagliare le ali, cioè non emettere nel blu profondo e nel rosso profondo.

La maggior parte dei LED che usiamo in illuminazione hanno una forte componente blu, mentre normalmente faticano ad avere la componente spettrale rossa.Tagliando le ali potremo avere efficacie maggiori, ma non sappiamo bene con quali effetti sulla naturalezza della luce: la luce naturale, a cui siamo adattati da millenni, ha uno spettro in cui sono presenti tutte le frequenze. Abbiamo usato per decenni le lampade fluorescenti che hanno tipici spettri a righe, quindi non spettri continui, ma sappiamo quanto queste lampade possano penalizzare la resa dei colori.

In situazioni particolari abbiamo addirittura usato lampade quasi monofrequenza, come le sodio per l’illuminazione pubblica, ma l’attenzione era rivolta alla sicurezza della circolazione e nessuno si preoccupava di distinguere il colore dell’auto che ci precedeva.

I LED ci hanno dato grossi vantaggi e grosse possibilità nella resa dei colori, con la possibilità aggiuntiva di poter controllare il colore della luce emessa: occorre considerare bene in quali applicazioni possiamo rinunciare ad una parte del comfort visivo per aumentare l’efficacia energetica.

Purtroppo non abbiamo ancora una definizione condivisa e consolidata di naturalezza della luce, anche se sono all’opera alcuni comitati scientifici coordinati dalla CIE, ma sicuramente è un parametro di cui tener conto nelle nostre future valutazioni. La luce artificiale deve avvicinarsi il più possibile alla luce solare, che è il nostro ambiente luminoso naturale.

In alcune situazioni le considerazioni di risparmio energetico possono prevalere sulla naturalezza dell’illuminazione, ma occorre che sia una scelta consapevole del progettista e non una costrizione tecnologica o politica.

Metric 2011 2013 2015 2020 Goal

Cool White(Color-mixed)

135 164 190 235 266

Cool White(Phosphor)

135 157 173 192 199

Warm White(Color-mixed)

97 129 162 224 266

Warm White(Phosphor)

98 126 150 185 199

Notes: 1. Projections for cool white packages assume CCT=4746-7040K, while projections for warm white packages

assume CCT=2580-3710K and CRI=80-90. All efficacy projections assume that packages are measured at 25°C with a drive current density of 35 A/cm2

2. Asymptote for color mixed is 266 lm/W, and for phosphor-converted is 199 lm/W

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EFFICACIA LUMINOSA

Tabella riassuntiva delle efficacie luminose di varie sorgenti:

E della loro vita media:

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Gli apparecchi di illuminazione sono lo strumento con cui illuminiamo gli ambiti in cui dobbiamo svolgere le nostre attività e rappresentano il prodotto tecnologico nel quale mettiamo in pratica le conoscenze che abbiamo sulla visione e sulle nostre funzioni percettive.

Scopo di un apparecchio di illuminazione è fornire la luce sufficiente per il compito visivo, in modo che tale luce sia fruibile e garantisca il miglior comfort possibile durante lo svolgimento dell’attività a cui l’ambiente è preposto.

Se fornisco molta luce ma la indirizzo in modo errato rischio di abbagliare l’utente, sparandogli raggi luminosi negli occhi e facendolo colpire da fastidiosi riflessi, con il risultato di impedirgli o rendergli difficoltoso il lavoro; se non posso distinguere correttamente i colori o li vedo alterati, patirò una sensazione di disagio che diminuisce il mio livello di benessere o, addirittura, mi obbliga a sforzi altrimenti non necessari per svolgere il compito visivo.

A parità di prestazione è preferibile l’apparecchio che consuma meno, cioè che è più efficace nella conversione della potenza a flusso luminoso: il risparmio energetico non salvaguarda solo il portafoglio ma anche il pianeta su cui viviamo, preservando risorse per le generazioni future.

APPARECCHI TRADIZIONALI

Gli apparecchi tradizionali sono costituiti da una carcassa strutturale che alloggia le varie parti, tra cui gli apparati elettrici necessari al suo funzionamento, da un’ottica per indirizzare la luce e da una sorgente luminosa (lampadina) che fornisce il flusso di luce ed è sostituibile, perché la sua durata è limitata nel tempo.

La lampadina si brucia molto prima che l’apparecchio invecchi in modo irreparabile, quindi è quasi sempre prevista, salvo giustificate e rare eccezioni, la possibilità di cambiarla.

APPARECCHI DI ILLUMINAZIONE

Inoltre la sorgente, per sua natura, emette in tutte le direzioni, non solo verso la parte frontale dell’apparecchio, dove normalmente esce la luce; quindi gli apparecchi sono costruiti in modo da recuperare la luce indirizzata verso l’interno dell’apparecchio stesso per rimandarla (rifletterla) dove serve.

Quindi non tutta la luce uscente dalla lampadina riuscirà ad uscire dall’apparecchio, una parte di essa rimarrà intrappolata e si disperderà sotto forma di calore, dopo essere stata assorbita dalle varie superfici che compongono l’apparecchio.

Anche le dicroiche, che sono lampade direzionali, emettono luce in un solo semispazio, in realtà raggiungono questo scopo incorporando nella lampadina un riflettore, cioè una parte di apparecchio.

Negli apparecchi tradizionali un parametro importante è quindi l’efficienza, talora indicata anche come rendimento luminoso oppure ottico dell’apparecchio, che indica quale percentuale del flusso fornito dalla lampadina riesce ad uscire dall’apparecchio.

È chiaro che questo parametro influenza anche l’efficacia dell’apparecchio, perché determina il flusso uscente dal sistema.

Il flusso uscente dalla lampadina è quindi un buon parametro di prestazione, ma non è sufficiente per caratterizzare l’apparecchio che contiene quella lampadina, perché va pesato con il rendimento.

Se una lampadina emette 1000 lm e l’apparecchio che la contiene ha un rendimento del 65%, facendo una semplice moltiplicazione calcoliamo che dall’apparecchio escono solo 650 lm.

Quindi il flusso utile per il calcolo dell’efficacia è 650 lm, non i 1000 lm della lampadina.

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Negli apparecchi LED attualmente non è pratica comune il cambio delle sorgenti, perché le sorgenti hanno vite molto lunghe, ma soprattutto perché il cambio di sorgente richiede la compatibilità elettrica, meccanica e termica con la sorgente (modulo) da sostituire, e tale compatibilità non è assolutamente garantita, anche a causa della velocissima evoluzione dei LED, che migliorano rapidamente le prestazioni ma richiedono anche dissipatori sempre più efficienti ed alimentatori sempre più performanti.L’emissione dei LED è solo nel semispazio frontale: non viene emessa luce verso l’interno dell’apparecchio, per cui tutta la luce emessa può raggiungere le superfici da illuminare, le zone dove svolgere il compito visivo.

Eventualmente la luce emessa va indirizzata tramite sistemi ottici come lenti o parabole, che non devono però recuperare la luce emessa nell’emisfero opposto e dunque ne assorbono molto meno. La parte di luce assorbita dalle ottiche negli apparecchi LED è molto minore che negli apparecchi tradizionali.

Piuttosto è molto importante una corretta dissipazione dei moduli all’interno dell’apparecchio: se i LED non lavorano alla corretta temperatura la loro efficacia si riduce drasticamente ed anche la loro vita media si accorcia.

Questa, come detto, è la maggiore difficoltà alla possibilità di sostituzione dei moduli LED negli apparecchi: il nuovo modulo è probabilmente molto più efficace del vecchio, data la rapidissima evoluzione tecnologica, ma richiede una dissipazione più efficiente, che il vecchio apparecchio non può garantire.

D’altra parte i vecchi LED, sui quali era stato progettato l’apparecchio, non sono più sul mercato e quindi l’unica possibilità per recuperare il vecchio apparecchio è di cambiare modulo, dissipatore ed alimentatore: sto assemblando un apparecchio nuovo!

APPARECCHI LED

Gli apparecchi tradizionali sono costituiti da Negli apparecchi LED risulta spesso difficile e sovente impossibile sostituire le sorgenti.

Anche fossero accessibili, non sempre è possibile in pratica la sostituzione, perché occorre che il modulo LED sostitutivo abbia un comportamento termico compatibile con il modulo da sostituire, in modo che funzioni correttamente all’interno dell’apparecchio, che è stato progettato per dissipare una certa quantità di calore.

Naturalmente diamo per scontata la compatibilità elettrica.

Le vite medie dei moduli LED, che ormai comunemente superano le 60000 ore, suggeriscono l’inutilità della sostituzione.

Ammesso che un apparecchio funzioni mediamente sull’anno 12 ore al giorno, il che vuol dire che in estate resterà acceso un po’ meno e d’inverno un po’ di più, per 300 giorni all’anno, domeniche e ferie escluse, otteniamo 300*12 = 3600 ore/anno di funzionamento: il modulo andrà sostituito dopo 60000/3600 = 16,6 anni.

A quel punto vale la pena di cambiare l’intero apparecchio, perché anche le altre parti si saranno usurate.

Per completezza di informazione va sottolineato che probabilmente ben prima che il modulo abbia problemi, o si spenga proprio, dovremo cambiare l’alimentatore, perché difficilmente gli alimentatori raggiungono durate paragonabili ai LED.

Per gli apparecchi casalinghi, che hanno tempi di accensione intorno alle 4 ore giornaliere, si calcolano vite medie di 40 anni, che giustificano il cambio di apparecchio allo spegnimento dei LED.

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Tecnologicamente non vale la pena di cambiare solo alcune parti dell’apparecchio; è la stessa cosa che succedeva fino a pochissimi anni fa con i computer e succede sempre con le tecnologie non ancora mature: l’aggiornamento di una parte del sistema non è tecnicamente sostenibile e spesso non è sostenibile neanche da un punto di vista economico; è più conveniente la sostituzione.

Quando la tecnologia LED per l’illuminazione sarà matura, ma nessuno sa quando questo avverrà, avrà senso anche pensare alla “lampadina” LED, che possa esseresostituita all’interno dell’apparecchio, insieme all’alimentatore e al dissipatore: per arrivare a questo risultato occorre definire standard meccanici, elettrici e per i dissipatori termici che garantiscano la piena compatibilità tra il pezzo da sostituire ed il sostituto.

Se si arriverà a questo risultato avrà, forse, senso riconsiderare il rendimento dell’apparecchio LED, inteso come rapporto tra il flusso emesso dall’apparecchio ed il flusso emesso dal modulo LED a cui sono garantite le condizioni di funzionamento all’interno dell’apparato, soprattutto le condizioni termiche.

Allo stato attuale parliamo solo di efficacia degli apparecchi LED, intesa come rapporto tra il flusso emesso dall’apparecchio e la potenza complessiva assorbita per il suo funzionamento; naturalmente la valutazione energetica degli apparecchi, ormai imposta non solo dalle leggi ma anche dalla attenzione crescente ai temi del risparmio dell’energia e della preservazione delle risorse, ci obbliga a calcolare l’efficacia anche per gli apparecchi tradizionali.

È chiaro che anche in futuro non sarà possibile prescindere da questo tipo di valutazione: anche fossimo in condizione di calcolare il rendimento degli apparecchi LED, dovremo sempre calcolare l’efficacia di qualunque tipo di apparecchio, perché questo è il parametro corretto per valutare l’utilizzo delle risorse

energetiche, per valutare quanta energia viene consumata per illuminare. L’efficacia dei LED è molto alta se paragonata agli altri tipi di sorgente, ma sale molto considerando la direzionalità dell’emissione e le limitate perdite all’interno dell’apparecchio; gli apparecchi LED hanno un’efficacia molto superiore agli apparecchi tradizionali, anche se paragonati con gli apparecchi con lampade al sodio, che però sono molto penalizzati dalla bassa resa cromatica.

Ormai gli apparecchi LED raggiungono una efficacia che può raggiungere e superare i 130 lm/W; anche supponendo che la lampada sodio arrivi a 160 lm/W, considerando il rendimento e le perdite nell’alimentatore l’efficacia dell’apparecchio risulta essere: 160*0.7/1.10 = 102 lm/W considerando un rendimento del 70% e un 10% di perdite nell’alimentatore. Quindi risultano circa 102 lm/W a fronte di 130 lm/W per gli apparecchi LED.

Negli apparecchi LED posso scegliere sia la temperatura di colore, anche se per raggiungere temperature di colore basse si penalizza leggermente l’efficacia, e soprattutto posso ottenere indici di resa cromatica altissimi: questo è il secondo grande vantaggio della tecnologia LED rispetto alle altre.

Una volta scelta la tipologia di lampada e costruitole intorno l’apparecchio, con le tecnologie tradizionali si aveva a disposizione una scelta limitata di possibilità per variare la CCT o gli indici di resa cromatica; con alcune tecnologie, per esempio le lampade al sodio, non c’era possibilità di scelta, gli indici di resa cromatica erano penalizzanti.

Con i LED possiamo realizzare qualunque combinazione di flusso, CCT e resa cromatica, ottenendo spesso soluzioni ottime per l’applicazione di interesse, senza penalizzare nessun aspetto della visione.

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Ultimo ma non meno importante vantaggio dei LED rispetto alle altre tecnologie è la facilità di regolazione dell’emissione in modo continuo ed efficace. È possibile regolare il flusso in uscita dagli apparecchi LED praticamente da zero al massimo disponibile realizzando al contempo un reale risparmio energetico, perché dimmerando gli apparecchi il consumo diminuisce.

Non tutti gli altri tipi di apparecchio possono essere regolati, e la regolazione può influire sulla durata della lampada e non sempre garantisce un corrispondente risparmio di energia; quindi spesso si ricorreva a complicati schemi di accensioni separate per garantire i vari livelli di illuminamento richiesti, penalizzando talvolta le uniformità: ora è possibile regolare l’emissione dell’intero impianto, garantendo uniformità e risparmio energetico.

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BINNING

I LED vengono prodotti in grandi quantità e ci sono inevitabili piccole differenze nella cromaticità dell’emissione dei singoli LED, seppure appartenenti allo stesso lotto di produzione.

Quindi vengono selezionati in base alla loro CCT e divisi in gruppi, come vengono divisi i frutti posti in cestini (bin) diversi.

All’interno di ogni cestino i LED avranno caratteristiche simili, in modo che utilizzandoli sullo stesso modulo, all’interno dello stesso apparecchio, non siano evidenti le differenze di colore tra i singoli LED.

I criteri usati per la selezione delle sorgenti sono codificati nella norma ANSI C78.377, che ha subito l’ultima revisione nel 2017.

Il meccanismo è semplice: si sceglie una temperatura di colore, ci si posiziona sul punto della Planckiana corrispondente e si sceglie quanti step di MacAdam sono tollerabili per la nostra applicazione; più step si utilizzano, quindi più grandi sono le ellissi corrispondenti, più i LED saranno distinguibili.

Tracciata l’ellissi, nel punto scelto, si tracciano le linee isoprossimali tangenti all’ellissi stessa e si completa il quadrangolo con le linee a distanza costante dalla Planckiana sopra e sotto il locus.

Tutti i led che ricadono nel quadrangolo appartengono alla stessa selezione.

La norma citata da indicazioni su come scegliere le temperature di colore e la distanza (duv) dal locus Planckiano, ma ogni produttore di LED affina poi il meccanismo con suddivisioni più raffinate e puntuali.

Naturalmente più la selezione è stringente, più aumenta il costo del prodotto, esattamente come avviene per la frutta o le uova.

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FILE DI INTERSCAMBIO

Per l’interscambio dei dati fotometrici, i dati che descrivono come un apparecchio di illuminazione distribuisce la luce nello spazio, sono utilizzati correntemente solo due formati, entrambi sviluppati alla fine degli anni 80 del secolo scorso:il formato Eulumdat ed il formato IESNA LM63.

Il formato Eulumdat (estensione dei files .ldt), che è il più utilizzato in Europa, è stato sviluppato dal professor Axel Stockmar per alimentare i suoi programmi di calcolo illuminotecnico e fu proposto pubblicamente nel 1990.

Si tratta di un formato ASCII, scritto secondo le regole del sistema operativo DOS.

Non ha mai avuto evoluzioni dalla sua nascita ed è ancora usato nella sua forma originale, anche se è stato proposto un formato Eulumdat/2, che non ha avuto alcuna fortuna, ed è stato fatto, nel 2009, un tentativo per renderlo compatibile con la fotometria assoluta; le due evoluzioni proposte non modificavano né la struttura del file né la quantità di informazioni contenute, e non hanno riscosso alcun seguito.

Il formato Eulumdat permette di descrivere solo fotometrie misurate secondo il sistema C-γ e non è possibile utilizzare il sistema V-H; è stato proposto e gestito direttamente dal professor Stockmar, senza l’intervento di nessun Ente normatore o di qualunque altra organizzazione.

Il formato Iesna LM63 (estensione dei files .ies) è stato sviluppato dal sottocomitato Fotometria e dal comitato Computer della Illuminating Engineering Society of North America (IESNA) nel 1986, ed è stato revisionato nel 1991, nel 1995 e nel 2002.

Anche in questo caso si tratta di un formato ASCII e non ci sono regole chiare per gestire le informazioni in lingue con alfabeti diversi dall’alfabeto latino.

Nel formato IESNA è possibile gestire sia le fotometrie relative sia le fotometrie assolute e sono ammessi sia i sistemi di misura C-γ che V-H.

In entrambi i formati – Eulumdat e IESNA - c’è una sommaria descrizione della “figura luminosa” cioè del volume che emette luce all’interno dell’apparecchio di illuminazione o della lampada di cui si comunicano i dati.

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Nel tempo sono stati codificati anche altri file format, come quello sviluppato dalla CIE o dal CEN, ma il meccanismo di costruzione è sempre simile al formato IESNA, con l’aggiunta di informazioni più dettagliate o di maggior precisione nella descrizione di alcune caratteristiche dell’apparecchio. In ogni caso nessuno di questi formati è stato usato estesamente dall’industria.

Tutti questi formati contengono solo i dati di intensità luminosa dell’emissione dell’apparecchio o della lampada, con piccole differenze, che abbiamo descritto, sul formato della misura o sul formato dei dati, scarne informazioni sul volume emittente e alcune semplici informazioni sul consumo energetico e sulle eventuali lampade presenti nell’apparecchio.

La gestione delle lampade all’interno dell’apparecchio presenta molti problemi sia nell’Eulumdat, che non prevede lampade di tipo diverso all’interno dello stesso apparecchio, sia nello IESNA, che non permette di indicare i flussi esatti in caso di lampade diverse.

In entrambi i casi nessuna informazione dettagliata sui consumi, sull’impegno energetico, né alcuna informazione sullo spettro di emissione, sulla colorimetria, sulle caratteristiche meccaniche o funzionali dell’apparecchio.

Come abbiamo visto per gli apparecchi LED occorre utilizzare fotometrie assolute, come prescrivono anche le norme di settore, ma il formato Eulumdat non prevede questa possibilità: se si vuole utilizzare il formato Eulumdat per gli apparecchi LED occorre fare in modo che il rendimento dell’apparecchio sia 100% e si utilizza come flusso di lampada il flusso uscente dall’apparecchio stesso.

Se invece si utilizza il formato IESNA non ci sono particolari problemi, perché la fotometria assoluta è prevista fin dalla prima versione del formato e il flusso si calcola per integrazione della matrice.

Nell’Eulumdat è possibile schematizzare l’area luminosa come un rettangolo o come un cerchio, mentre se si tratta di un volume e non di un’area si schematizza con un parallelepipedo e con un cilindro; inoltre sono presenti le proiezioni del volume luminoso nelle direzioni principali (in direzione dell’asse X positiva, dell’asse X negativa e così via).

Nelle varie evoluzioni del formato IESNA la figura luminosa è stata descritta via via sempre meglio, fino a raggiungere un buon grado di sofisticazione. Nel formato Americano non ci sono le dimensioni fisiche dell’apparecchio, invece presenti, seppure schematicamente, nell’Eulumdat: solo che nell’Eulumdat non sono riportate le posizioni relative del volume che emette luce rispetto al baricentro dell’apparecchio, e l’area luminosa è normalmente considerata baricentrica rispetto all’apparecchio stesso.

Nel caso dei bollard, per esempio, l’area luminosa dista da terra la metà dell’altezza del paletto, e questo è chiaramente sbagliato.

Nel formato Eulumdat le informazioni si susseguono in modo rigido ed ogni riga ha un preciso significato e deve contenere specifiche informazioni.

Non è possibile saltare alcuna riga, e quindi la quantità di informazioni presenti è rigidamente indicata ed immodificabile; non ci sono etichette che identifichino i campi e solo la posizione all’interno del file permette l’interpretazione del dato.

Nei file IESNA di ultima versione, esistono etichette <Label> che identificano alcuni campi ed è quindi possibile invertire alcune righe o aggiungere o togliere qualche informazione, ma il grosso del file è interpretato tramite la posizione del dato all’interno del file, come per l’Eulumdat.

In sostanza, in entrambi i casi, c’è un set minimo ed un set massimo di informazioni (nell’Eulumdat massimo e minimo coincidono) e non è possibile in nessun modo modificare questa struttura.

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VITA MEDIA DI UN APPARECCHIO LED

Tutte le lampade subiscono una diminuzione del flusso nel corso della loro vita.

Spesso la riduzione è significativa, ed anche se la lampada si accende ancora non è detto che svolga appieno a sua funzione, perché il flusso emesso è minore del flusso che emetteva all’inizio della sua vita, dopo un breve periodo di adattamento.

Per molti tipi di lampada è ragionevole misurare il flusso iniziale dopo un periodo variabile tra le cento e le duecento ore di funzionamento, intervallate da cicli di accensione e spegnimento per stabilizzare l’emissione.

Succede che dopo un considerevole periodo di funzionamento le lampade emettano una percentuale piuttosto basse del loro flusso iniziale, senza tuttavia bruciare.

Quando si scende sotto una percentuale prefissata si ritiene conclusa la vita funzionale della lampada, anche se emette ancora luce.

Nel tempo questa percentuale, che inizialmente era fissata al 50% è stata innalzata fino al 70%.

Il che vuol dire che riteniamo esaurita una lampada che emette meno del 70% del suo flusso iniziale, misurato dopo un periodo di adattamento.

Questo meccanismo non vale per tutte le tipologie: le lampade incandescenti, per esempio, aumentano l’emissione nel tempo, fino a bruciarsi.

Anche i LED, intesi come sorgente, hanno un comportamento analogo: dopo un brevissimo

Sono allo studio altri formati di interscambio dati che possano superare i limiti dei formati descritti e, soprattutto, che siano formati globali, accettati e usati in tutti i paesi, ma, al momento, non è stato pubblicato alcun nuovo protocollo.

periodo di adattamento (normalmente si accendono per un’ora, salvo diversa prescrizione del fabbricante, per verificarne il funzionamento e lasciar morire quelli difettosi, che sono generalmente in percentuale irrisoria) viene misurato il flusso iniziale, per poi tenerlo sotto controllo nel tempo.

Succede però che qualche LED muoia prematuramente e quindi occorre formalizzare un metodo che tenga conto della riduzione di flusso e della mortalità dei singoli LED.

Nell’analisi occorre considerare che normalmente il motore luminoso degli apparecchi è costituito da moduli LED composti da più LED singoli: nella valutazione del modulo occorre distinguere se il flusso è diminuito perché è diminuita l’emissione complessiva oppure perché si sono spenti dei singoli diodi.

Inoltre sappiamo che per i LED il parametro più importante è la temperatura di funzionamento: quindi la vita va valutata alla reale temperatura di funzionamento all’interno dell’apparecchio.

Se poi l’apparecchio costringe i moduli a funzionare a temperature più alte, la vita si accorcerà.

La IESNA ha definito nel 2008 uno standard per misurare il decadimento del flusso delle sorgenti luminose LED (IESNA LM-80) e nel 2011 un memorandum con un modello matematico previsionale per estrapolare dai test i dati di decadimento (IESNA TM-21).

Lo standard LM-80 richiede almeno 6000 ore di test e vale per i chip e moduli LED ma esclude gli apparecchi.

Secondo LM-80 si misura il flusso luminoso, tensione e corrente ogni 1000 ore almeno, e si effettuano almeno tre diversi set di misure a tre temperature diverse, 55°C, 85°C ed una terza a scelta del produttore.

È importante che la terza temperatura sia significative per il funzionamento dei LED.

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Spieghiamo in breve come funziona l’algoritmo TM-21:

• Il dato medio di flusso a zero ore viene normalizzato a 1.

• Per il calcolo su misure fino a 6000 ore:

dai dati raccolti da 1000 a 6000 ore si estrapola una curva esponenziale col metodo dei minimi quadrati.

• Per il calcolo su misure fino a 10000 ore: si usano i dati delle ultime 5000 ore per l’estrapolazione.

• Per il calcolo su misure superiori a 10000 ore: si usa l’ultimo 50% dei dati raccolti.

• Per la definizione della vita del LED non si può dichiarare oltre sei volte la durata dei test, ovvero 36000 ore di vita media per 6000 ore di test e 60000 ore per test di 10000 ore, perché l’algoritmo perde di validità.

I dati raccolti mediante lo standard LM-80 vengono poi inseriti nel modello matematico definito dal memorandum TM-21 che è stato scritto da 6 produttori mondiali di LED (Philips Lumileds, Osram, Nichia, Illumitex, GE, and Cree) e 2 laboratori governativi americani (PNNL, NIST).

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Con questi dati è possibile fare previsioni sulla vita media dei LED, indicando il momento in cui il flusso scenderà sotto una certa percentuale:

L70 indica una vita (Life) media calcolato con il limite del 70% di flusso residuo, mentre L90 indicherebbe che il flusso residuo al momento considerato fine vita sia ancora il 90% del flusso iniziale.

Va sottolineato che tutte le previsioni non possono superare un tempo pari a sei volte il tempo di prova: se le prove sono state effettuate per 6000 ora al massimo possiamo fare previsioni per 36000 ore, se il tempo di prova arriva a 10000 ora possiamo spingerci a 60000 ore con la previsione.

Purtroppo nell’ultimo periodo è invalsa l’abitudine di estendere oltre questi limiti le previsioni e si danno vite medie oltre le 100000 ore.

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utile (o vita “By”) ed è espresso come LxBy.

L’emissione luminosa inferiore al fattore di mantenimento del flusso luminoso x è definita errore graduale perché il prodotto produce meno luce ma funziona ancora.

La vita “B10” è il tempo dopo il quale il 10% dei prodotti sono scesi gradualmente sotto la soglia prefissata. Il tempo in cui il 50% dei moduli LED è sotto soglia, la “vita B50”, è chiamata vita utile mediana.

La popolazione include solo i moduli LED funzionanti; i moduli non funzionanti sono esclusi.

Esempio: L70B10 è inteso come il periodo di tempo durante il quale il 10% (B10) di una popolazione di moduli LED dello stesso tipo è sceso (gradualmente) sotto il 70% del loro flusso luminoso iniziale.

Sono normati metodi anche per i guasti improvvisi, ma è richiesto di fornire questi dati a parte, con una metrica separata – la vita “Cz”.

Normalmente le prove vengono effettuate su una popolazione di almeno venti singoli LED; si ammette che i risultati vengano trasferiti al modulo e poi anche all’apparecchio, se l’apparecchio garantisce che i LED, o meglio i moduli LED, funzioneranno alla temperatura a cui sono state effettuate le prove.

In sostanza vengono provati i LED ed i risultati delle prove vengono ereditati dai moduli e dagli apparecchi, purché le temperature di funzionamento siano quelle delle prove iniziali.

METODO DI CLASSIFICAZIONE DELLA VITA MEDIA DEGLI APPARECCHI LED

La norma IEC 62717 specifica i requisiti prestazionali per i moduli e LED e chiarisce come misurare ed interpretare i dati sulla vita dei moduli stessi.

La vita di un singolo modulo LED è il periodo di tempo durante il quale un modulo LED fornisce almeno una percentuale prefissata x del flusso luminoso iniziale, in condizioni di prova standard.

La fine della vita di un singolo modulo LED può essere raggiunta sia in conseguenza di guasti graduali che improvvisi.

Un brusco spegnimento di un modulo LED è un guasto dell’intero modulo e non necessariamente un guasto di singoli pacchetti LED. Un guasto di un singolo pacchetto LED in un modulo LED con più pacchetti di solito contribuisce alla degradazione generale graduale dell’emissione luminosa di quel modulo.

Il momento in cui l’emissione luminosa del modulo LED diventa inferiore alla percentuale prefissata x è considerato il momento di fine vita graduale del modulo LED.

La figura illustra le modalità di guasto graduale e brusco in un apparecchio di illuminazione composto da un singolo modulo LED.

L’intervallo di tempo dopo il quale la porzione percentuale y di una popolazione di moduli LED raggiunge la graduale riduzione della resa luminosa fino ad una percentuale x è detta vita

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Gli apparecchi LED sono più efficaci nella conversione di potenza in flusso luminoso; utilizzandoli possiamo controllare sia la CCT che le rese cromatiche ed inoltre possiamo regolare l’emissione con relativa facilità, adattando l’impianto alle reali esigenze di illuminazione, integrando la luce naturale con accensioni regolate ai livelli minimi necessari per garantire il comfort visivo, senza spreco di energia.

Ci sono tutte le premesse affinché i LED garantiscano una migliore illuminazione associata ad un reale risparmio energetico rispetto alle precedenti soluzioni. Facciamo qualche calcolo.

ILLUMINAZIONE DEGLI AMBIENTI INDUSTRIALI

Gli ambienti industriali sono un caso semplice di calcolo illuminotecnico; occorre garantire una illuminazione sufficientemente uniforme con livelli adatti al compito visivo da svolgere, controllando l’abbagliamento, ma normalmente gli ambienti sono regolari, senza particolari complicazioni costruttive e sono spesso assimilabili a parallelepipedi, eventualmente affiancati.

Spesso è presente una illuminazione di fondo diffusa garantita dagli high bay sodio o ioduri, con apparecchi aggiuntivi direttamente montati sulle macchine o in prossimità dei centri di lavoro, per garantire livelli di illuminazione e rese dei colori più alte in corrispondenza di compiti visivi specifici.

ILLUMINAZIONE LED E RISPARMIO ENERGETICO

La serie di norme EN 12464 specifica i requisiti per queste installazioni, distinguendo tra ambienti di lavoro al chiuso o all’aperto.

Per le varie tipologie di ambiente sono indicati i livelli medi di illuminamento, le uniformità, gli indici di abbagliamento, l’indice di resa del colore, ed altre prescrizioni particolari, se necessarie.

In queste situazioni l’impianto è dimensionato per fornire una certa potenza e sono normalmente previste accensioni differenziate per modulare l’impegno di energia in funzione delle ore del giorno e delle stagioni.

L’illuminazione generale, o di fondo, è solitamente impiegata per molte ore al giorno ed il cambio lampada è una operazione onerosa, che richiede l’intervento di scale, trabattelli o altro, perché normalmente gli apparecchi sono montati molto in alto per non intralciare il lavoro sottostante.

La manutenzione, anche il semplice cambio lampada, richiede un impegno economico significativo, tenendo conto del tempo necessario per l’intervento e per la sua preparazione:

sono consigliati cicli di manutenzione programmata, in modo da minimizzare tempi e costi, anche considerando che dopo un certo tempo di accensione le lampade non garantiscono più i livelli di emissione sufficienti all’illuminazione, anche se non sono bruciate.

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È importante conoscere anche i coefficienti di riflessione delle pareti del soffitto e del pavimento per calcolare anche il contributo di luce riflessa che incrementa significativamente i livelli di illuminamento sia sui piani dove si svolge l’attività principale, sia sulle superfici circostanti che compongono il campo visivo in cui si opera.

Per una buona visione è indispensabile avere un adeguato livello di illuminamento, il controllo degli abbagliamenti e una buona percezione dei colori ma sono importanti anche l’equilibrio delle luminanze all’interno del campo visivo e il controllo delle ombre.

Se nel campo visivo sono presenti forti differenze di luminanza l’occhio, cambiando linea di vista, anche semplicemente muovendo la testa, deve adattarsi continuamente a luminanze diverse, rendendo faticoso il compito visivo:

è importante prevedere passaggi graduali tra aree più illuminate, perché sono le aree in cui si svolge il compito, ed aree meno illuminate, perché di passaggio tra un ambiente e l’altro o perché adibite a lavori meno gravosi.

Chi sta su un palco non riesce a vedere in platea, a causa della differenza di illuminamento tra le due zone; ma l’attore svolge il suo compito visivo guardando sempre sul palco:

sarebbe veramente faticoso se dovesse guardare alternativamente sul palco ed in platea, come sarebbe faticoso per lo spettatore guardare il palco e l’ingresso del teatro, a meno di non illuminare uniformemente sia il palco che la platea.

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METODO DEL FLUSSO TOTALE

Ipotizziamo di dover illuminare un locale di forma regolare, assimilabile ad un parallelepipedo, le cui superfici, che sono le pareti, il soffitto ed il pavimento, siano diffusive, cioè seguano la legge di Lambert: la luce viene assorbita e riemessa in modo regolare.

Questo è il comportamento tipico delle murature finite a calce o gesso, se non lucidate a specchio, ed è il comportamento normale dei materiali da costruzione: non c’è forzatura nel considerare lambertiane le superfici di un insediamento industriale.

Consideriamo una disposizione regolare degli apparecchi di illuminazione, tutti alla stessa altezza dal pavimento e con fasci non particolarmente stretti, come avviene regolarmente negli stabilimenti industriali.

In una situazione del genere possiamo pensare che l’illuminazione su un piano di lavoro sia determinata da una parte di luce proveniente direttamente dalla lampada e da una parte riflessa dalle pareti e dal soffitto, anche dopo più di un rimbalzo; se dopo la prima riflessione la luce non raggiunge il piano di lavoro potrebbe raggiungerlo dopo una seconda o terza o successiva riflessione.

Dobbiamo calcolare il flusso circolante all’interno del locale una volta raggiunto l’equilibrio tra il flusso immesso dall’apparecchio e quello assorbito dalle varie superfici: dobbiamo calcolare il flusso totale all’interno dell’ambiente.

Il rapporto tra la componente diretta e la componente riflessa che raggiunge il piano di lavoro dipende dalla percentuale di luce riflessa dalle varie superfici (coefficienti di riflessione di pareti, soffitto, pavimento), dalla forma dell’emissione, perché un fascio stretto manderà una elevata percentuale di luce direttamente sul piano di interesse, mentre un fascio largo illuminerà maggiormente le pareti, e dalla forma del locale.

Se immaginiamo un supermercato, un grande spazio relativamente basso, illuminato da una disposizione regolare di apparecchi, possiamo ritenere che la maggior parte della luce uscente dalle lampade arrivi direttamente sul piano di lavoro, perché la maggioranza degli apparecchi è lontana dalle pareti e le sole riflessioni utili sono quelle che si innescano tra pavimento e soffitto, mentre se illuminiamo una torre, cioè un locale alto e stretto, la maggior parte della luce arriverà prima sulle pareti che sul piano.

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Quindi dobbiamo introdurre un indice di locale, che renda in qualche modo ragione del rapporto tra volume e superficie utile del locale; a seconda che si intenda realizzare un tipo di illuminamento diretto o indiretto, l’indice del locale k si calcola con una delle equazioni di seguito riportate:

Illuminamento diretto

Illuminamento indiretto

Dove:

a = lunghezza del locale da illuminare;b = larghezza del locale da illuminare;h = altezza del punto luce rispetto al piano di lavoro;H = altezza del soffitto rispetto al piano di lavoro.

Tenendo conto della forma dell’emissione dell’apparecchio, quindi della sua fotometria, e in dipendenza dall’indice del locale e dei coefficienti di riflessione delle varie superfici, possiamo calcolare quale percentuale di luce raggiungerà il piano di lavoro una volta stabilito l’equilibrio tra flusso emesso dagli apparecchi e flusso assorbito.

Chiamiamo coefficiente di utilizzazione dell’apparecchio il numero così ottenuto.

L’illuminamento previsto sul piano di lavoro sarà quindi pari a:

Dove:

a = lunghezza del locale da illuminare;b = larghezza del locale da illuminare;n = numero di apparecchi;φ = flusso dell’apparecchio;cu = coefficiente di utilizzazione;cm = coefficiente di manutenzione.

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Si è introdotto anche un coefficiente di manutenzione per tener conto del deprezzamento dell’emissione e della sporcizia che si deposita sulle parti trasparenti dell’apparecchio diminuendo il flusso utile.

Se valgono le ipotesi iniziali, questo metodo permette di calcolare l’illuminamento medio sul piano di lavoro esaminando semplicemente la fotometria dell’apparecchio e tenendo conto dell’indice di locale e dei coefficienti di riflessione delle pareti.

Utilizzando le formule inverse possiamo calcolare quanti apparecchi servono per raggiungere un illuminamento prefissato, oppure quale deve essere il flusso di un apparecchio affinché con un determinato numero di apparecchi si raggiunga un dato livello di illuminamento.

Il metodo risulta abbastanza preciso se utilizzato correttamente, mentre i risultati si discostano dal reale se l’ambiente è fortemente irregolare, se gli apparecchi hanno emissioni nettamente asimmetriche o se producono fasci molto concentrati;

in tutti gli altri casi i risultati sono affidabili e possono essere usati per un dimensionamento di massima degli impianti.

Il metodo risulta abbastanza preciso se utilizzato correttamente, mentre i risultati si discostano dal reale se l’ambiente è fortemente irregolare, se gli apparecchi hanno emissioni nettamente asimmetriche o se producono fasci molto concentrati; in tutti gli altri casi i risultati sono affidabili e possono essere usati per un dimensionamento di massima degli impianti.

Di seguito un esempio di tabelle di coefficienti di utilizzazione, con indicazione dei coefficienti di manutenzione consigliati e con gli indici di locale indicati per classi.

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RELAMPIMG E RETROFIT

In molte situazioni esiste già un impianto di illuminazione realizzato con vecchie tecnologie, ma ancora funzionante.

È ragionevole domandarsi se sia possibile sostituire gli apparecchi, o almeno le lampade, con apparati di nuova tecnologia per realizzare un risparmio e contestualmente migliorare la prestazione dell’impianto.

Volendo utilizzare i LED si presentano due possibilità:

• cambiare le lampadine con nuove lampadine LED meccanicamente ed elettricamente compatibili con le vecchie;

• cambiare gli apparecchi con nuovi apparecchi LED

Nel primo caso si parla di relamping, sostituzione della vecchia lampadina con una LED che ha una efficacia più alta, quindi consuma meno ed ha una durata nel tempo maggiore.

Qualche volta occorre intervenire marginalmente sull’apparecchio, per effettuare semplici modifiche al cablaggio, necessarie per poter utilizzare i LED.

Con questa soluzione si ottiene un limitato risparmio, dovuto all’aumento di flusso e di vita media delle nuove lampadine, ma l’impianto resta sostanzialmente lo stesso.

Il relamping è sempre possibile perché la lampadina LED sostitutiva consuma meno dell’originale, quindi l’impianto è sicuramente dimensionato per una potenza maggiore di quella a cui sarà fatto funzionare dopo la sostituzione.

Le stesse considerazioni valgono nel secondo caso (pratica detta retrofit), se si decide il cambio degli apparecchi, perché gli apparecchi sostitutivi sono più efficienti dei vecchi, quindi l’impegno complessivo di potenza sarà inferiore a parità di prestazione.

Se poi si decidesse di aumentare i livelli di illuminamento forniti dall’impianto, per esempio per ottemperare nuove disposizioni normative che garantiscono maggior sicurezza ai lavoratori, basterà accertarsi che la potenza dei nuovi apparecchi non superi quella dei vecchi.

Effettuare un retrofit, cioè sostituire gli apparecchi vecchi senza modificare l’impianto, porta senz’altro ad un risparmio energetico, ma permette anche di utilizzare apparecchi con fasci più adatti all’applicazione o il miglioramento della resa dei colori o, come abbiamo visto, può consentire anche l’adeguamento normativo dell’impianto, rinunciando ad una parte del risparmio in favore di una maggior sicurezza.

Spesso i produttori forniscono soluzioni che facilitano il cambio degli apparecchi, come speciali staffe di aggancio che rendono i nuovi apparecchi anche meccanicamente compatibili con i vecchi, oppure sistemi semplificati per elettrificare i nuovi apparecchi.

Normalmente gli apparecchi LED sono più compatti dei vecchi apparecchi, permettendo di aumentare lo spazio utile per le aree di lavoro.

Sia con il relamping che con il retrofit occorre considerare anche il risparmio economico derivante dall’allungamento o dalla scomparsa degli interventi di manutenzione: non sarà più necessario cambiare le lampadine (retrofit), o gli intervalli tra un cambio e l’altro saranno molto più lunghi (relamping), con risparmi evidenti.

Nel caso di retrofit la vita dei nuovi apparecchi è normalmente superiore alle 60000 ore, quindi dopo tale tempo val la pena di sostituire l’apparecchio, anche perché, come abbiamo visto, la sostituzione del modulo LED risulta problematica.

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Nella pratica quotidiana è consigliabile prevedere interventi di manutenzione programmata, almeno per verificare lo stato degli apparecchi e per realizzare la pulizia dei medesimi, in modo da mantenere in buona efficienza l’impianto.

Naturalmente questo diminuisce leggermente il risparmio immediato, ma garantisce il buon funzionamento dell’installazione e la sua sicurezza di esercizio.

I calcoli per effettuare il retrofit vengono spesso effettuati con il metodo del flusso totale, perché si tratta di installazioni regolari, con disposizione regolare degli apparecchi, tutti alla stessa altezza, e di cui conosciamo già il numero: dobbiamo solo determinare quale sia il flusso dei nuovi apparecchi per garantire la prestazione che si vuole ottenere.

Si veda il paragrafo precedente. In base a questo dato si sceglie l’apparecchio più adatto e si procede alla sostituzione.

RISPARMIO ENERGETICO

Come abbiamo visto gli apparecchi LED consumano meno degli apparecchi tradizionali a parità di prestazione, hanno bisogno di minor manutenzione, e non richiedono cambi lampada.

Possiamo facilmente calcolare il risparmio energetico che si realizza con un intervento di retrofit: basta moltiplicare la differenza di potenza installata per il numero di ore di funzionamento annuali dell’impianto per determinare il risparmio in kiloWattora per ciascun anno.

Se si conoscono le tecnologie usate per la produzione di energia nel Paese di installazione dell’impianto, possiamo calcolare il risparmio in tonnellate di CO2 equivalente.

Per esempio in Islanda, dove l’energia elettrica è prodotta quasi interamente da centrali geotermiche, che non bruciano combustibili fossili ma utilizzano l’energia dei geyser, un risparmio energetico non porta ad una minore emissione di CO2 nell’atmosfera, perché la produzione non comporta emissioni.

Lo stesso vale se l’energia è prodotta da cellule fotovoltaiche o con qualunque altro metodo che non bruci combustibili fossili, nucleare compreso.

Sostituire gli apparecchi di vecchia tecnologia con i nuovi LED comporta dei costi, quantificabili con il prezzo dei nuovi apparecchi, con il costo dell’intervento di sostituzione e lo smaltimento dei vecchi apparecchi.

Nel periodo di vita dell’impianto diminuiranno, e in qualche caso si annulleranno, i costi di manutenzione, prima presenti, e senz’altro diminuiranno i costi per l’energia.

E’ lecito domandarsi in quanto tempo i risparmi ottenuti ripagano la spesa sostenuta per la sostituzione degli apparecchi.

Questo è il metodo più semplice per calcolare il Payback time.

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PAYBACK TIME

Se visualizziamo su un grafico le spese per il nuovo impianto otterremo una linea che parte con il costo iniziale di impianto e poi sale con una pendenza che rappresenta le spese per l’energia e la manutenzione del nuovo impianto.

Se sullo stesso grafico disegniamo le spese che avrebbe comportato il mantenimento del vecchio impianto avremo una linea che parte da zero, il vecchio impianto era già funzionante e non richiede spese, ma con una pendenza maggiore, per i maggiori costi dell’energia e della manutenzione maggiori.

Nel punto in cui le due linee si incontrano abbiamo il cosiddetto payback time,

cioè il momento in cui il risparmio dovuto al nuovo impianto rispetto alle spese del vecchio pareggia le spese sostenute per il cambio apparecchi.

Da quel momento in avanti si otterrà un risparmio netto, rimarranno in cassa dei soldi che altrimenti avremmo speso.

Ecco un esempio di calcolo del payback time.

Questo metodo di calcolo rappresenta un approccio elementare al problema: sono possibili approcci molto più sofisticati, che tengono conto delle attualizzazioni dei capitali investiti, dei tassi di sconto etc., ma queste considerazioni vanno al di là degli argomenti qui trattati.

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Anche l’approccio semplificato qui presentato rende ragione del risparmio che si può realizzare con il retrofit LED, in termini economici ed ambientali.

VANTAGGI DELL’ILLUMINAZIONE LED

In conclusione sintetizziamo i vantaggi dell’uso dei LED per illuminazione:

• Maggior efficaciaa parità di potenza impiegata si ottiene un maggior flusso;

• Maggior durata vita media dei moduli 4-5 volte superiore alle precedenti migliori lampadine, che si traduce anche in una minor produzione di rifiuti, non dovendo smaltire le lampadine;

• Possibilità di regolazioneè possibile con grande facilità regolare gli impianti, ottenendo un reale risparmio energetico;

• Diminuzione della manutenzionegli apparecchi LED non richiedono cambio lampada e necessitano di interventi di manutenzione limitati;

• Assenza di UV e IRnella maggior parte dei casi gli apparecchi LED non emettono UV, dannosi per la salute, e non emettono nell’infrarosso, diminuendo il calore irradiato;

• Possibilità di scegliere la CCTè possibile scegliere la CCT degli apparecchi con facilità e senza troppo penalizzare l’efficacia;

• Alti indici di resa cromaticaè facile ottenere negli apparecchi alti indici di resa cromatica, benché risulti ancora penalizzato il colore rosso;

• Minor impatto ambientalea causa della maggior efficacia;

• Assenza di mercurio e ioduriche comporta di nuovo un minor impatto ambientale ed uno smaltimento più sicuro;

• Riciclabilità molto elevata dei componentiche sono trattati come rifiuti elettronici.

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