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Nelly Arcan Folle romanzo Traduzione dal francese di Micol Bertolazzi GREMESE

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«Quella sera in rue Saint-Dominique, ti ho amato subito senza riflettere sulla mia fine programmata dal giorno del mio quindicesimo compleanno, senza pensare che non solo saresti stato l'ultimo uomo della mia vita, ma che probabilmente non ci saresti stato a vedermi morire... Dopo un mese, la mia vita era solo un'attesa: aspettavo tutto il giorno, e la sera, e anche la notte la comparsa del tuo numero sul display del telefono, aspettavo che mi mandassi una parola come buongiorno o nemmeno, un rumore, un colpo di tosse, aspettavo la tua decisione di dove e quando ci saremmo visti... Così, spinta dalla follia, quella sera sono venuta da te.»

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Nelly Arcan

Folleromanzo

Traduzione dal francese diMicol Bertolazzi

GREMESE

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Titolo originale: Folle© Editions du Seuil, 2004

Stampa: Tipografica Artigiana s.r.l. – Roma

Copyright edizione italiana:2013 © GREMESENew Books s.r.l. – Romawww.gremese.com

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essereriprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo o conqualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore.

ISBN 978-88-8440-758-0

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A l Nova, in rue Saint-Dominique, dove ci siamo vi-sti per la prima volta, non avremmo potuto fare

niente per evitare il disastro di quell’incontro. Sel’avessi saputo – come si dice di solito senza specifica-re quello che si sarebbe dovuto sapere con esattezza,e senza capire che saperlo prima genera il peggio –,se avessimo potuto leggere nei tarocchi di mia zia adesempio il colore dei capelli delle rivali che mi aspet-tavano dietro l’angolo e se dal mio anno di nascitaavessimo potuto calcolare che non te ne saresti maipiù andato dai miei pensieri dopo il Nova… Quellasera, in rue Saint-Dominique, ti ho amato subito sen-za riflettere sulla mia fine programmata dal giornodel mio quindicesimo compleanno, senza pensareche non solo saresti stato l’ultimo uomo della mia vi-ta, ma che probabilmente non ci saresti stato a veder-mi morire. Quando ci siamo conosciuti meglio, èdiventato un problema; tra noi, c’era l’ingiustizia deltuo futuro.Oggi so che ti ho amato per il tuo accento da fran-

cese in cui si coglieva la razza dei poeti e dei pensato-ri venuti dall’altra parte del mondo per riempirci le

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scuole; quell’accento così particolare modificato daituoi anni vissuti in Québec, quell’accento che ti sepa-rava dal resto del mondo, dai quebecchesi come daifrancesi, quell’accento che faceva di te un portatoredella Parola, come diceva mio nonno a proposito deisuoi profeti. D’altronde, se mio nonno fosse stato là,al Nova, in rue Saint-Dominique, mi avrebbe spintotra le tue braccia per dare più vigore al disastro; miononno credeva nella bellezza delle disgrazie. Ha sem-pre convissuto con la resistenza della terra e la minac-cia dei cattivi raccolti; mio nonno è nato nel 1902 edera un contadino, aveva bisogno del cielo sopra la te-sta per nutrire la propria famiglia e tuttavia attendevaimmobile l’apocalisse, era il suo grande paradosso.Il tuo accento donava un valore particolare al no-

stro incontro. Quando ero piccola, mio padre leggevasempre due volte lo stesso libro; la seconda volta, loleggeva ad alta voce. Quella seconda volta, la storiaguadagnava spessore, gli sembrava che la voce soppe-sasse le parole, gli sembrava anche di ricevere un mes-saggio dall’esterno. Quando mio padre leggeva ad altavoce camminando senza sosta per la sala, con il librotenuto lontano come fosse un avversario, era comemio nonno, cercava il testo fra le righe, trovava Dio.L’accento con cui mi parlasti quella sera significa-

va che prima di morire qualcuno mi avrebbe parlatocome mai prima di allora; significava che sulle tuelabbra la vita aveva un altro senso. In quel momento,non sapevo che dall’inizio alla fine della nostra storiami avresti davvero parlato come nessun uomo mi ave-va mai parlato, ma non come mi sarei aspettata, nonin quel modo che si aspettano le donne innamorate einsaziabili che vogliono sentirsi sulla bocca dei lorouomini. Non sapevo neppure che anch’io ti avrei

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ininterrottamente parlato in un modo che non avevimai sentito, e che per quel mio accanimento nel dirtitutto, nel farti portare sulle spalle il peso del mondocercando di intrappolarti, mi avresti lasciata.Al tuo accento si è aggiunto dell’altro, sicuramen-

te la tua altezza, le tue mani da gigante e quegli occhicosì neri che non si riuscivano a distinguere le pupil-le. Da piccola, mi sono innamorata di un ragazzo per-ché aveva un nome insolito, si chiamava SébastienSébapcédis. In tutta la mia vita non ho mai più senti-to quel nome. Mio nonno mi ha sempre detto che leragioni per cui si ama sono puerili e senza fondamen-to e che, esattamente come per l’instabilità dei senti-menti verso Dio, bisogna avere fede.La nostra storia è nata nell’equivoco del particola-

re e ha conosciuto una fine tragica, ma in passato eragià successo ad altri. Ad esempio, c’è stato il principedi Cenerentola che l’ha inseguita per tutto il regnocon una scarpa e che, una volta trovata, le ha confes-sato che ballare il valzer con lei fino al rintocco dellamezzanotte non era bastato a svelargli il suo volto. Vo-glio dire che con quell’unica informazione nessunoavrebbe potuto prevedere che la storia sarebbe arriva-ta da qualche parte.Quando i genitori avranno imparato a essere onesti

con i propri figli, potranno spiegare loro che dall’in-contro tra un principe e i piedi di Cenerentola alla fi-ne di buono sono usciti soltanto i numerosi bambini,e che la tragicità della loro storia deriva dal fatto chelei si è fermata lì, ai numerosi bambini. Quando i ge-nitori saranno onesti, potranno dire ai loro figli chele favole mascherano la noia della vita e non vannooltre la procreazione.

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Anche tu mi hai amato, ma non subito, perché perte l’amore viene dopo una scopata o resta per semprelà dove si è fermato la volta precedente, per esempiotra le mani di Nadine, che sapeva istintivamente co-me masturbarti, o tra le sue cosce di bruna sicura disé e molto più calda di una bionda, come hai dettoun giorno senza renderti conto che non ero né bru-na né bionda. Qualcuno ha detto che bisogna andarea letto con una ragazza almeno dieci volte per esser-ne innamorati e molte di più per chiamarla “tesoro”in pubblico; di frasi così sono piene le riviste di modaogni settimana, che è il sesso che fa la coppia. Hai co-minciato ad amarmi dopo un mese o due, e quandomi sono fatta bionda per avere un posto nei tuoi di-scorsi sulle donne, ero contenta che venissi ancora aletto con me.È vero che alla fine mi hai amato, ma la differenza

fra il tuo amore e il mio già dall’inizio era che per tesembrava un lavoro; per amarmi hai dovuto mettercidel tuo, hai dovuto convincertene. Bisogna dire cheper te il lavoro ha sempre avuto una grande importan-za, nell’amore come in tutto il resto, me l’hai detto tustesso quando ci siamo lasciati. Quella sera mi hai det-to che da quel momento volevi dedicarti alla carrierae che quindi dovevi concentrarti e risparmiarti la pe-santezza della mia presenza nella tua vita; pensavi allecose in termini energetici, dicevi che ti esaurivo.Non sei il primo ad avermelo detto. Mi è già stato

detto in passato che non sono una ragazza facile e misono sempre chiesta cosa potesse significare non esse-re facile. Sapevo che non si trattava di un complimen-to, che non lasciava ben sperare, anche se dicevanoche dietro il baluardo del mio atteggiamento si intra-vedeva il fascino del mistero. Per me non essere facile

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erano parole d’addio, era un modo per dire che il mi-stero sarebbe rimasto un mistero, per me era una ri-nuncia. Quando oggi ripenso alla mia vita, sonoconvinta che è per essere più facile che sono diventa-ta una puttana; è vero che questo mestiere esigeun’apertura immediata, del resto in passato l’hannoscritto spesso in rete, che sono aperta. Tante volte mihanno attribuito l’aggettivo open minded: in questomestiere, la mente deve aprirsi prima di tutto il resto.

Insieme abbiamo però vissuto dei bei momenti.Un mese o due dopo il nostro primo incontro al No-va, ci siamo amati reciprocamente. Tra di noi ci sonostati attimi magnetici in cui non ci preoccupavamo diterminare le frasi, tanto uno sapeva dove l’altra volevaarrivare: era lo stadio della contemplazione di sénell’altro. Tra di noi c’è stato un breve periodo in cuieravamo d’accordo su tutto e anche sul fatto che gliuomini e le donne non possono capirsi. Mi ricordoquel libro che avevi letto in cui gli uomini venivanoda Marte e le donne da Venere, mi ricordo che l’in-comprensione veniva spiegata in lungo e in largo eche secondo te quelle spiegazioni avevano fatto di noiuna coppia tipica; uno di fronte all’altra, i nostri sessireagivano come previsto.Poi ci è accaduto qualcosa che non è stato casuale,

ma il risultato di una serie di eventi, credo che po-tremmo chiamarla usura. Un po’ prima che mi lascias-si sono rimasta incinta senza dirtelo e ho abortito; erala prima volta che ti nascondevo i miei pensieri. Pri-ma che mi lasciassi, ho voluto fare qualcosa da sola.Credo che nel panico dopo la tua partenza avessi di-menticato il misero finale delle favole che si conclu-dono con i bambini, avessi dimenticato anche che mi

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restava poco da vivere. Suppongo anche che per spiri-to di vendetta, tu dovessi ripagarmi con quel bambi-no o sarei rimasta per sempre incollata a te. Mio Dio,quanto detesto la forza degli uomini nel restare di-staccati, mio Dio quanto vorrei essere un uomo pernon dover dire certe cose.

Qualcosa in me non c’è mai stato. Lo dico perchémia zia non è mai riuscita a leggere il mio futuro neitarocchi, non è mai riuscita a dirmi una qualsiasi cosasul mio avvenire, nemmeno quando ero una bambinanon ancora devastata dalla pubertà. Penso che per al-cuni il futuro non inizi mai, o solo dopo una certaetà. Ogni volta che andavo da lei, le carte non le dice-vano niente. Davanti a me, le carte erano solo carte,la mia presenza aveva il potere di smascherarle. Perdelicatezza mia zia non me l’ha mai confessato, ma soche pensava che davanti a me le sue carte perdesserola terza dimensione, so che all’improvviso vedeva sol-tanto il sudiciume del cartone plastificato e il profilostampato delle figure, vedeva solo un insieme mutodi linee e colori. Ne osservava la grandezza e non tro-vava più alcuna differenza tra esse e il calendario sulmuro, le sue carte e il calendario ormai le davano so-lo informazioni sullo spazio e il tempo a cui non sipoteva aggiungere altro. Per lei non era la mia vita aperdere senso, ma la materia stessa di ogni futuro. Soanche che la mia esistenza le faceva mettere in discus-sione tutto quanto; sicuramente, le dispiaceva che itarocchi non sapessero rappresentare il dubbio,l’inerzia o il tempo immobile di chi attende la morte.Quando ho compiuto quindici anni, ho preso la

decisione di uccidermi il giorno del mio trentesimocompleanno, e forse alla fine questa decisione si è op-

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posta alle sue carte non armate contro l’autodetermi-nazione delle persone.Con gli anni, la paura di non vedere niente turba-

va mia zia e le impediva di concentrarsi. Si reputava laresponsabile principale, forse con me ha compreso losmarrimento degli uomini che non si eccitano a letto.Era molto imbarazzante per lei e per me, ovviamente;significava che in tutta la mia vita c’era un errore chemi riguardava, significava che alla mia nascita dovevaessere successo qualcosa, ad esempio che secondo ladichiarazione medica ufficiale, mia madre aspettavaun maschio e una volta tra le sue braccia, mentre ur-lavo a più non posso verso di lei perché non mi faces-se cadere, non ha creduto al mio sesso. Forse è perquesto motivo che i miei primi ricordi sono legatiall’azzurro; d’altronde, come si vede in certe foto del-l’album di famiglia, le pareti della mia camera eranoricoperte da tappezzeria azzurra, e mi sembra ancheche in altre foto le bambole che ho in braccio abbia-no un’aria strana.Quando ci siamo incontrati per la prima volta al

Nova, avrei compiuto ventinove anni un minuto do-po. Il problema tra di noi riguardava me, era la datadel mio suicidio fissato per il giorno del mio trentesi-mo compleanno. Immagino che se non mi avessi la-sciata, che se mi avessi amata fino alla vigilia dei mieitrent’anni, la mia morte ti avrebbe segnato a vita, enon perché la solitudine del giorno dopo ti avrebbedilaniato, e neppure perché in futuro non avresti po-tuto amare altre donne senza temere di ucciderle an-cora con il tuo amore, ma perché nello shock dellamia scomparsa avresti capito che ero appena fuggitacon tutte le risposte, e anche perché in ogni ricordoche avresti conservato di me ti saresti imbattuto nel

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mio cadavere. Se ce la prendiamo con le persone chesi suicidano è perché hanno sempre l’ultima parola.Non abbiamo mai parlato della mia morte immi-

nente. Con te, ho imparato che ci sono cose moltopiù intime del sesso; ho imparato che nella vita cosecome la disperazione non si condividono, è un fardel-lo che ci si tiene per sé. Durante la nostra storia mihai parlato molto delle tue ex e io ti ho parlato po-chissimo dei miei; quando conosciamo un uomo, do-vremmo pretendere da lui che le sue ex restino fuori,dovremmo avere la massima libertà di bruciare gli al-bum fotografici e le lettere, dovremmo anche poterripulire il suo sistema informatico da ogni traccia del-le altre. Non c’è mai stato nessun problema di questogenere tra noi, sulla via d’uscita dei miei trent’anni;eri sano, e le persone sane lo sono troppo per capireche si possa pianificare la propria morte, le personesane non rincorrono qualcosa che prima o poi, anchesenza richiederla, arriverà.

In ogni caso, parlarne finisce per mobilitare trop-pa gente; lo so perché quando a quindici anni ho af-frontato l’argomento con i miei genitori mi sonoritrovata immediatamente in ospedale. In camera conme c’erano altre ragazze che ne avevano parlato, ri-cordo che una di loro aveva anche provato a farlo,aveva ingoiato cento aspirine. Che ancora vivesse misembrava miracoloso, probabilmente perché era ilnumero cento ad avermi impressionato; mi sembravache quello fosse il numero esatto della dose mortale,era il punto di non ritorno verso il niente, mi ricordoche aveva suscitato l’invidia di molte.In ospedale, si diceva che tra le adolescenti malate

nel mondo occidentale ci fossero quelle che volevano

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uccidersi con un’overdose di aspirine e quelle cheperdevano peso fino a scomparire. Secondo le statisti-che, quelle che si lasciavano morire di fame ci mette-vano più tempo ma avevano più successo, ciòsignificava che morire poco a poco pagava sul lungotermine. Si diceva anche che morire di fame davamolta visibilità all’interno della famiglia, costretta ariorganizzarsi per non essere trascinata nel buco ne-ro. Dopo essere uscita dall’ospedale sono diventataanoressica.In ospedale, dicevano anche che i ragazzi riusciva-

no a uccidersi in modo più efficace delle ragazze, lequali raramente raggiungevano lo scopo perché ave-vano una concezione troppo romantica del suicidio.Spesso, il giorno stabilito, indossavano i loro vestitipiù belli e decidevano prima la posizione in cui vole-vano essere ritrovate. Si diceva che ne parlassero trop-po e che quindi le si riconoscesse da lontano. Sidiceva che la maggior parte di loro scriveva lettereche impiegavano una settimana a comporre e checambiavano idea in corso d’opera, l’impulso passava;si diceva che scrivere servisse a informare i familiari,del resto nelle scuole superiori del Québec si metto-no in guardia i genitori sul piacere delle loro figlieper la scrittura. Si dice loro che è strano scrivere inun’età in cui si dovrebbe ascoltare musica leggendoriviste di moda; si dice anche che scrivere può essereuna richiesta d’aiuto, che in fondo scrivere significaavere cose da dire senza dirle e quindi nasconde unproblema di comunicazione. Quando mi hanno rico-verata, ero in pediatria. Sembrava che tutti, i medici,la famiglia, i vicini, gli amici e tutta la scuola avesserouna parola per me, ma non ho mai saputo quale fosseperché nessuno ha mai detto niente. Quella parola

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poteva essere “povera”, a significare “povera ragazza”;o “povera” poteva voler dire “deficit”, “bisognosa”,“handicap mentale”. Con l’avvento della modernità,il suicidio ha perso il suo lato eroico. Se mio nonnofosse ancora vivo, direbbe che ormai uccidersi non èpiù un oltraggio a Dio ma una sorta di fuga; direbbeche senza più la minaccia della condanna eterna infondo alla strada, il suicidio è diventato un’opzione.

Mia zia mi voleva molto bene nonostante i nostrimancati appuntamenti con il futuro. Io e lei avevamolo stesso naso, grande e perfettamente dritto, ci pia-ceva anche l’idea che i morti avessero abbastanza in-fluenza sulla materia per vendicarsi dei vivi. Quandole hanno comunicato la notizia del mio ricovero, è ve-nuta in ospedale con i tarocchi. Davanti a me è indie-treggiata, all’improvviso si è ricordata che avevo volutomorire e che fallire ancora una volta nel tentativo divedere il mio futuro nelle carte non poteva che farmidel male. Ha preferito parlarmi con il cuore, mi hadetto che mi amava come una figlia e che ero un caso;non ho mai saputo se volesse dire unico o senza spe-ranza. Poi ha voluto fare le carte a qualcuno, non po-teva essere venuta per niente con i suoi tarocchiquando attorno a lei c’era tanta gente in difficoltà; inun moto di compassione, ha scelto la ragazza dellecento aspirine. Mia zia, illuminata all’improvviso daitarocchi disposti a croce in cui la Luna e il Sole siconfrontavano, le disse che il fatto di essersi salvataavrebbe segnato una svolta nella sua vita; essere so-pravvissuta era un segno di grandi realizzazioni, daquel momento in poi, per lei, ci sarebbero stati moltacalma e amore; sarebbe stata circondata dal bianco,da pareti bianche e grembiuli bianchi, senza dubbio

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il bianco avrebbe dominato la sua vita. Mia zia le disseche l’attendeva una professione di dedizione e cheavrebbe vissuto una vita lunghissima durante la qualeavrebbe certamente lavorato in ambiente ospedalie-ro; le disse che probabilmente sarebbe diventata me-dico o forse anche ostetrica, che avrebbe salvato dellevite o che le avrebbe portate dal ventre delle madriverso la luce, insomma che in ogni caso, la vita sareb-be stata una scommessa. Mentre mia zia le dicevaqueste cose, la ragazza piangeva come una bambinae, attraverso le lacrime, confessò che ci aveva già pen-sato, da piccola, a diventare infermiera come sua ma-dre. Un mese più tardi abbiamo saputo che, dopoessere uscita dall’ospedale, aveva tentato ancora il sui-cidio usando delle lamette sui polsi. Quando l’hannotrovata, indossava un vestito bianco e aveva una lette-ra accanto.

Quando quella sera mi hai visto al Nova, partivo invantaggio perché sapevi già chi ero, conoscevi la miareputazione. Sapevi che in passato avevo fatto la put-tana, sapevi anche che avevo scritto un libro che ave-va venduto e per questo pensavi che fossi ambiziosa.La prima volta che mi hai visto è stato da ChristianeCharette dov’ero l’ospite d’onore. Accanto a me c’eraCatherine Millet e dietro, su uno schermo, scorreva-no delle foto di lei nuda. Seduto nel tuo salotto, haivisto in me quel qualcosa di inafferrabile che tenevale distanze e che stonava nel contesto di una trasmis-sione televisiva in cui avrei dovuto essere entusiasta diconfessarmi davanti a un pubblico; hai visto il mio at-teggiamento di reticenza e che invece avrebbe dovutoessere di gratitudine, consenso e collaborazione. Haipensato che fossi una snob, che dovevo passarmela

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bene per respingere le domande con quell’aria irrita-ta e che mai una donna come me si sarebbe interessa-ta a un uomo come te; avevo avuto il riconoscimentodei francesi e tu non avevi ancora pubblicato, per teero sicuramente una donna intelligente. Dal tuo sa-lotto ero una conquistatrice, durante la trasmissionehai anche dimenticato Nadine.Conoscermi prima di conoscermi ti ha indotto in

errore. Per esempio, la prima volta che mi hai visto intelevisione non hai pensato che la telecamera ingran-disce le persone dando loro la capacità di saturare lospazio, non hai pensato che così le persone diventanoil centro del mondo e di tutti gli sguardi come le stel-le all’estremità del telescopio di tuo padre; tuo padreera appassionato di astronomia e ogni sera andava alsuo punto di osservazione sul tetto di casa vostra percontemplare stelle di cui cercava di cogliere il mo-mento finale dell’esplosione, lasciandoti solo con ituoi giocattoli e il tuo bisogno di stupirlo. Non haipensato che sullo schermo di una televisione si oltre-passa di molto la propria grandezza reale e che l’az-zurro degli occhi sembra sempre più azzurro; chesotto le luci del set, la pelle riveste all’improvviso ilbagliore dorato del successo. Mio Dio, cosa darei percontinuare a vivere sotto questa forma nella tua men-te, mio Dio quanto avrei voluto non esserci mai in-contrati al Nova, in rue Saint-Dominique. Un giornomio nonno mi ha detto che c’è uno stretto legame tral’amore e la distanza; mi ha anche detto che il giornodopo la creazione dell’uomo, Dio si è ritirato lontanonel cielo.

Quando ti ho conosciuto, ho conosciuto anche letue tre ex: Nadine, Annie e Annick. Ho anche cono-

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sciuto le ragazze della rete ammassate nel tuo compu-ter e che avevano i nomi raggruppati in grandi cate-gorie: le Schoolgirls, le College Girls e le GirlsNextdoor, le Wild Girlfriends e quelle che portavanogli stivali che ti facevano sempre perdere la testa, leFuckmeboots. Grazie a te ho imparato che in retec’erano poche Women.Oggi so che tra noi c’è sempre stata troppa gente,

so che l’essere stata una puttana in passato ti ha con-vinto di molte cose, ad esempio che avrei accettatotutto, mi ci dovevo solo abituare. Hai pensato, nelletue manie da cliente, di avere già ottenuto la miacomplicità. Sul tema dello squilibrio tra il sesso ma-schile e il sesso femminile, avevo parecchie teorie cheti facevano ridere. Tra le tante, dicevo che l’equilibriotra gli uomini e le donne sarebbe potuto esistere seDio avesse permesso che l’ovulazione si producessecon l’orgasmo e non con l’autonomia di un sistemache non tiene in considerazione il piacere né la ne-cessità di svuotarsi e nemmeno gli stati d’animo chepotrebbero ostacolare la liberazione dell’ovulo. Aquesto aggiungevo che se le donne avessero potutoscaricare la loro fertilità come gli uomini, gli uominiavrebbero perso i loro mezzi per eccitarsi e che quellaquestione della scarica delle donne li avrebbe assorbi-ti completamente, ne avrebbero parlato per ore al te-lefono con gli amici e avrebbero speso un capitaleper essere sexy. Dicevo che la bipolarità che reggel’universo organizzando tutti gli atomi e facendo ca-povolgere i poli sud e nord ogni tot milioni di anni,avrebbe conferito agli uomini una natura da donna.Se mio nonno mi avesse sentito, si sarebbe sconvolto;mio nonno non credeva nell’evoluzione della specieumana, credeva solo nella sua scomparsa.

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Prima di me, avevi conosciuto solo more. All’inizionon ne ero sicura, ma adesso so che il mio biondospalmato ciclicamente sui capelli castani ha avuto unruolo nel tuo amore che non sapeva più dove andaredopo soli otto mesi di storia e che è tornato alle don-ne dei tuoi sogni. Dico questo perché ci sono dellecostanti nelle tue ex, come i capelli scuri e i nomi chesi assomigliano per la sonorità infantile della N e del-la I: Nadine, Annie e Annick. Nella vita ho avuto al-meno dieci nomi ma tu mi hai conosciuta comeNelly; è strana questa ripetizione che tende verso unnome supremo come Nannie, la donna delle donneperché vera madre nel senso di seni da cui attingere ebraccia tra cui dormire al principio dei tempi del tuomondo, dopotutto perché la chiave del tuo cazzo nonpotrebbe trovarsi nel più piccolo significato di unalettera e un colore come il bruno non potrebbe esse-re la risposta a tutte le tue domande. Mi sono chiestase dietro ai nomi degli uomini che ho amato ce nefosse un altro, un nome da patriarca per esempio, unnome fatto per il mio nome, opposto al nome sceltoda mio padre e capace di farmi superare i miei peg-giori incubi; il nome del grande amore per il qualedarei la vita, come si dice quando si vuole spiegare aibambini che l’amore si paga a caro prezzo. Non hotrovato niente e forse è meglio, vedere il proprio de-stino nel nome degli altri può obbligare a vivere. Alpunto in cui mi trovo, preferisco che i tarocchi di miazia non si mettano a parlare.

Al Nova usavo il mio vero nome con gli amici eNelly con gli altri. È dunque legandomi ai nomi deltuo passato che sono arrivata a te. Ma resta il mistero

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del tuo amore perché io non ero mora e quindi il co-lore dei miei capelli non faceva parte dei tuoi piani.Tutti pensano che mi racconto delle storie perché esi-stono bionde focose e more brutte di cui non si parla,ma dimenticano che la bellezza di una donna nonserve a niente se non piace a chi le interessa, e cheuna bionda non regge il confronto agli occhi di unuomo che ha bisogno del calore generalmente rico-nosciuto all’amore di una mora. Se non avessi presola decisione di uccidermi dopo aver finito di scriverti,avrei potuto provare con te l’esperienza di farmi mo-ra per vedere se mi avresti voluto ancora, ma a qualescopo permetterti di intravvedere, con la ricrescita, ilmio vero colore sotto la tinta, ne ho abbastanza diqueste tecniche di seduzione da laboratorio che trop-po spesso mi hanno fatto male.Tu mi dirai che le more non meritano tutta questa

attenzione perché al Bily Kun dove andavamo ognivenerdì, guardavi le bionde proprio quanto le altre,soprattutto perché le loro teste chiare erano punti diriferimento nell’oscurità del bar. Mi hai detto di unvenerdì in cui, dall’alto del tuo metro e ottanta, pote-vi vedere che le bionde rimanevano immobili mentrele more non stavano ferme; mi hai detto che era per-ché le bionde non avevano bisogno di agitarsi per es-sere viste mentre le more dovevano sgomitare perattirare l’attenzione degli uomini. Grazie alle biondebiondissime, hai detto quel venerdì appoggiandomila tua mano da gigante sulla testa, la tua mano enor-me che sapeva toccarmi senza farmi male, che il barsembrava un cielo stellato. Quel commento avrebbepotuto essere un complimento, uno vero, di quelliche fanno capire ai bambini quanto vale l’amore, senon avessi subito aggiunto che il tuo odio per l’Orsa

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Maggiore e Minore e per le vacanze in campeggio do-ve ciascuno racconta la propria filosofia spicciolasull’universo veniva dall’amore di tuo padre perl’astronomia.Tuo padre cercava in cielo delle novæ che avessero

liberato, in una sinfonia di colori, tutto il loro gas o,meglio ancora, delle supernovæ esplose violentemen-te sotto la pressione atomica e talmente grosse da po-terle osservare a occhio nudo; tuo padre amava nellestelle il risultato spettacolare della loro morte. Spessoti facevo notare che il nome delle sue amate stelle eraanche il nome dell’after hour del nostro primo in-contro e questo ti tormentava, ti sembrava che i fattisignificativi della tua vita non potessero, anche meta-foricamente, riallacciarsi a una dimensione spazialené essere calcolati in anni luce. Ogni volta che si pre-sentava l’occasione, e anche quando non si presenta-va, dicevi che l’universo era perso nelle sue eccessivedimensioni e che quindi non valeva la pena studiarnela geografia. Dicevi anche che per strappare tuo pa-dre dalla distrazione avevi scelto di disinteressarti allecose lontane per dedicarti a quelle vicine. Spesso misono chiesta se le ragazze della rete con cui ti piacevamasturbarti facessero parte del lontano o del vicino.

Quando ci siamo lasciati definitivamente, il giornoin cui ho capito che dovevo morire per mia volontà enon schiacciata dalla tua forza troppo grande, erava-mo d’accordo sul fatto che il Bily Kun ti spettasse didiritto, perché ci andavi prima che ci venissi anche io,e che a me toccava il Laïka, che tu detestavi. Quellasera ci siamo divisi i bar di Montréal per evitare di in-contrarci dimenticandoci che Freddy, qualche giornoprima, aveva detto, parlando delle coppie che si sepa-

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rano, che vietare all’altro dei luoghi precisi della cittàera un modo per dargli un appuntamento.Oggi, il Bily Kun non fa più per me, né gli after

hour organizzati dall’Orion, il raduno dei DJ di cui tipiacevano le serate ma con cui non volevi socializza-re, forse perché molti erano ex di Nadine, ma soprat-tutto perché il vocabolario che li caratterizzava tiricordava tuo padre. Purtroppo, tuo padre non per-deva mai occasione di portare in tavola, a cena, il no-me di tutti i fenomeni cosmici pensati in funzionedelle loro forme, come la miriade di nebulose del-l’Elica, dell’Aquila, dell’Uovo, della Clessidra e del-l’Occhio di Gatto. Tuo padre non perdeva occasioneper intrattenervi, te e tua madre, con i venti stellariche facevano deviare gli astri dal loro corso oppurecon le stelle blu il cui calore superava di molto quellodelle stelle rosse o gialle.Ogni anno, l’Orion organizzava, in un immenso

loft in rue Saint-Dominique, quattro grandi after hourin corrispondenza del primo giorno di ogni stagione:Gigante Blu il primo giorno di primavera, Nova il pri-mo giorno d’estate, Buco Nero il primo giorno d’au-tunno e Big Bang il primo giorno d’inverno. C’eraanche Pulsar per il nuovo anno, durante il quale unafolla di persone, eccitate dall’anfetamina, solitamenterichiamava le forze dell’ordine che temevano il crollodel pavimento sulla testa di quelli di sotto. Dopo i de-butti dell’Orion, non eravamo mai mancati alle loroserate che erano le più belle della scena techno diMontréal; è strano pensare che in questi ultimi treanni in cui, almeno dieci volte, siamo stati nello stes-so luogo, non ci siamo mai incontrati. In questi treanni non hai mai notato nell’oscurità del loft il mioprofilo da bambola, e nel rumore della musica te-

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chno la tua voce non mi è arrivata. Il primo giorno diprimavera di quest’anno non sono andata al GiganteBlu e il primo giorno d’estate che si avvicina a grandipassi come la mia deadline non andrò al Nova. Nonvoglio partecipare a una festa dove possa trionfare ilmio dolore nel vederti con un’altra, non voglio tener-ti d’occhio tutta la sera per rendermi conto che nonmi guardi. A ogni modo, tutti sanno che la separazio-ne di una coppia infetta i luoghi che prima frequen-tava e che il contagio può estendersi anche ai postidelle rivali capaci di cattiveria. Di rivali ne ho avutemolte con te, come Nadine passata in ogni posto eanche in quelli meno frequentabili, Nadine conosciu-ta da tutti e che viene chiamata La Nadine, Nadineche è ovunque e che ci si aspetta sempre di veder ar-rivare durante la serata, Nadine che ha il dono di far-si amare da tutti e soprattutto quello di non amarenessuno, Nadine che ti ha tradito, che ti ha lasciato eda cui, forse, sei tornato.Chiunque può immaginare che una nullità come

me abbia paura della propria ombra, si può anche ca-pire che abbia paura di riconoscere in tutti i mori diMontréal la tua figura immensa che si fa strada tra lafolla di pedoni che non hanno altra scelta se nonquella di lasciar passare la tua massa scendendo dalmarciapiede e proteggendosi il viso dalle raffiche divento che si sollevano al tuo passaggio. Tutti capisco-no il bisogno che ha questa donna di evitarti, limitan-dosi a frequentare le quattro strade del QuartiereLatino, per la paura di sentire su di sé il peso dellapropria piccolezza.

La nostra storia aveva i suoi luoghi che non eranosolo dei bar. Non molto lontano dal Bily Kun c’è il

Nelly Arcan

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