FISICA/ MENTE · FISICA/MENTE INTRODUZIONE Come per molte altre cose, le origini delle teorie della...

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FISICA/MENTE FISICA/ MENTE LA LUCE Roberto Renzetti _______________________ Gen 1:1 Nel principio Dio creò i cieli e la terra. 2 La terra era informe e vuota, le tenebre coprivano la faccia dell'abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque. 3 Dio disse: «Sia luce!» E luce fu. 4 Dio vide che la luce era buona; e Dio separò la luce dalle tenebre. 5 Dio chiamò la luce «giorno» e le tenebre «notte». Fu sera, poi fu mattina: primo giorno. _____________________________ CAPITOLO 1 file:///C|/$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (1 of 215)28/02/2009 15.12.20

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LA LUCERoberto Renzetti

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Gen 1:1 Nel principio Dio creò i cieli e la terra. 2 La terra era informe e vuota, le tenebre coprivano

la faccia dell'abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque.

3 Dio disse: «Sia luce!» E luce fu. 4 Dio vide che la luce era buona;

e Dio separò la luce dalle tenebre. 5 Dio chiamò la luce «giorno» e le tenebre «notte».

Fu sera, poi fu mattina: primo giorno.

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CAPITOLO 1

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INTRODUZIONE

Come per molte altre cose, le origini delle teorie della visione e della luce, di quanto cercherò cioè di studiare e raccontare, si perdono nei meandri più reconditi della storia. La cosa si potrebbe indagare fin dove vi sono documenti ma non credo ne tireremmo fuori altro che miscugli di magia e superstizione, insieme a molta metafisica.

E' invece certo, per quanto si può supporre, che l'argomento luce deve essere stato molto complesso per l'uomo di ogni cultura. Riuscire ad individuare il fenomeno illuminazione come sovrapposto ai fatti naturali, dai quali si può separare e comprendere, non è semplice. Così come deve essere stato complesso capire come scindere la luce dall'organo della visione. Detto con parole di oggi, per comprendere di cosa parlo, si potrebbe dire che se lancio un sasso contro una pietra in mezzo al prato, e voglio studiare il fenomeno, sono meglio in grado di comprendere gli oggetti che devo capire separatamente per poi ricomporre in una spiegazione fisica. Vi è una mano che lancia un qualcosa, vi è un oggetto che viaggia, vi è una certa traiettoria disegnata dal sasso in moto, vi è il sasso che colpisce la pietra, vi sono gli effetti sulla pietra colpita e sul sasso che ha colpito. Ma la luce, ancora detto con le nostre conoscenze, cos'è ? essa è sfuggente in più modi. Se accendiamo una lampadina tutta la stanza si illumina simultaneamente, almeno così appare con evidenza. Ma poi, di che natura è ? Scalda, permette la visione, parte da un luogo mentre arriva in un altro luogo ... E' un oggetto materiale ? Insomma è decisamente ostica. Tanto ostica che la Bibbia la separa dalla sua fonte: nella Genesi prima si crea la luce e poi il Sole ... E nella comprensione posteriore gli studi sulla luce in connessione con i corpi che la emettevano (lanterne) non ha mai comportato le condanne che aveva la discussione di chi ruota intorno a chi tra Terra e Sole. Anche qui vi era discordanza tra Bibbia e una qualche teoria fisica. Ma la cosa era ben capita: era chiaro cosa fosse il copernicanesimo nella sua affermazione contrastante con la Bibbia. Nel caso della luce che, nella creazione, viene prima del Sole, anche se la luce era chiaramente studiata in connessione con i corpi emittenti e si sapeva bene che il giorno e la notte si hanno nell'apparire e scomparire del Sole, ebbene qui a nessuno venne in mente di porre la questione di un altro non accordo con la Bibbia. Ma perché la luce è, ripeto molto più complessa, più sfuggente, meno localizzabile, più metafisica.

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Ed allora cercherò di risalire a qualche questione relativa alla luce che si cominciò a porre, in ambito eminentemente filosofico, nell'antichità classica, per seguire rapidamente le varie concezioni che si ebbero di essa fino ad arrivare a quando i problemi vengono riproposti in ambito scientifico a partire dalla metà del Seicento.

In tutto ciò che dirò è necessario tener presente che le motivazioni che spingevano a capire la luce e la visione discendevano anche da esigenze pratiche. L'osservazione astronomica, lo sviluppo dell'arte e dei colori erano elementi di grande rilievo ai quali presto si sommerà quello della prospettiva che avrà la sua esplosione nel Rinascimento italiano. Una motivazione presente era anche quella di tipo psicologico ben riassunta (sembra) da Epicuro di Samo (IV, III sec. a. C.) e successivamente ripresa da Lucrezio:

"L'inganno e l'errore è nell'opinione, che si aggiunge in seguito ad un'azione che avviene entro di noi e che si unisce alle nozioni fornite dalla vista. Bisogna dunque frenare l'opinione, e impedire che il suo intervento guasti tutto" [scritto di Epicuro, riprodotto nel libro X di Diogene Laerzio (III sec. d.C.)].

Per questa prima parte del lavoro sulla luce è infine utile tener presente la seguente carta geografica che situa i vari luoghi della Grecia classica in cui furono sviluppate le prime teorie sulla visione(*).

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Tratta da Farrington

LE PRIME TEORIE SULLA NATURA DELLA LUCE

Per quanto ne sappiamo(1) le prime cose sulla natura della luce, che poi volevano essere soprattutto ipotesi sui meccanismi della visione, le leggiamo nel VI secolo a.C. nella scuola pitagorica (Archita di Taranto) che si sviluppò nella Magna Grecia, a Crotone. Sono i nostri occhi che emettono

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un qualcosa che può assomigliare ad un fluido (un fuoco invisibile). Tale fluido va a colpire gli oggetti circostanti per poi ritornare all'occhio. E questa teoria poteva essere sostenuta dall'osservazione della luminescenza degli occhi degli animali notturni. La teoria aveva una facile obiezione. Nel caso fosse stata certa come mai per vedere non erano sufficienti gli occhi e gli oggetti da vedere ? Perché occorreva, almeno agli umani, anche la luce ? Le obiezioni non impedirono comunque che, con varianti, la teoria continuasse ad essere sostenuta restando quella di maggior successo, insieme a quella della scuola democritea che vedremo subito dopo. L'idea che dall'occhio si diparte una qualche sostanza (teoria emissionistica dall'occhio) fu una delle teorie che si svilupparono in Grecia. Probabilmente l'osservazione delle scintille scagliate dal fuoco fecero pensare all'occhio come ad una lanterna dalla quale vengono emessi i raggi di luce che ci permettono di vedere. In ogni caso questa fu la scuola di pensiero più feconda (i concetti base li ritroviamo in Euclide, quindi in Tolomeo ed infine in Eliodoro, in un arco cioè di 700 anni).

A lato di teorie emissioniste dall'occhio ve ne furono anche di quelle che pensavano l'emissione dall'oggetto guardato: un flusso di corpuscoli che si stacca dai corpi conservandone la forma investe gli occhi determinando la visione. E' il caso delle teorie sviluppate dalla scuola democritea (Leucippo di Mileto, V sec. a.C.). La nostra anima non esce dal nostro interno per andare a toccare gli oggetti, sono gli oggetti che vengono a toccare la nostra anima passando attraverso i sensi, ma noi non vediamo gli oggetti avvicinarsi: bisogna che essi mandino alla nostra anima delle immagini, specie di ombre o simulacri materiali che rivestono i corpi, si agitano sulla loro superficie e possono staccarsene, per portare alle nostre anime le forme, i colori e tutte le altre qualità degli oggetti(2). Democrito di Abdera (V sec. a.C.), secondo ciò che ci racconta Teofrasto di Efeso, insieme a cose che non hanno più molto significato, dice una cosa di interesse, e cioè che l'aria interposta tra l'occhio e l'oggetto riceve l'impronta come conseguenza della compressione esercitata su di lei dall'occhio e dall'oggetto. Egli introduce quindi una entità che trasporta le informazioni dagli oggetti all'occhio ed assegna alla luce una natura meccanica più che materiale. Democrito inoltre attribuisce il colore degli oggetti al cambiamento di direzione degli atomi. In questo contesto teorico si sviluppa la grande opera poetico-filosofica di Lucrezio.

A questi due tipi di spiegazione si aggiunge anche quella che vuole l'emissione di un qualcosa file:///C|/$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (5 of 215)28/02/2009 15.12.20

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dall'occhio verso l'oggetto e quella di un altro qualcosa dall'oggetto verso l'occhio. Empedocle di Agrigento nel IV sec. a.C. sostiene che i due flussi sono uno esterno e di natura corpuscolare (da tutti gli oggetti fuoriescono degli effluvi), che porta tutte le informazioni sull'oggetto (ordine, forma, colore); l'altro emesso dall'occhio per mezzo di un "fuoco" (non nel senso che noi diamo a questa parola ma come spirito o simile entità). E la luce è appunto un fuoco che s'incontra con un altro fuoco: la fine e dolce fiamma che l'Amore ha captato entro l'acqua dell'occhio e che esce dai piccoli fori della pupilla(3). A questo doppio flusso aveva aderito anche Platone ma naturalmente in modo del tutto differente in quanto Platone detestava i corpuscoli democritei. Si trattava di un qualcosa che doveva soprattutto riguardare la psicologia della visione.

Vi è poi la posizione di Aristotele di Stagira (IV sec. a.C.) poco presa in considerazione perché profondamente oscura (come del resto molte delle teorie già viste - e che vedremo - anche perché disponiamo di frammenti e spesso le cose che sappiamo provengono da citazione di altri autori). Egli rifiuta l'ipotesi di Empedocle e Platone dell'emissione della luce dall'occhio (a motivo, argomenta, dell'impenetrabilità dei corpi) e sembra avanzare l'idea di un movimento che si propaga tra l'oggetto e l'occhio e che modifica lo stato dei corpi diafani (trasparenti). Il corpo diafano al buio è in una condizione potenziale, è diafano in potenza. Lo stesso corpo si dice che è in luce, quando è diafano in atto. La luce è l'attività di ciò che è trasparente. Di modo che l'aria e l'acqua non sono trasparenti di per sé ma solo quando la luce eccita la sua trasparenza. Essa non è una sostanza in quanto due raggi possono incrociarsi senza scontrarsi come invece farebbero le sostanze materiali. La sorgente di fuoco modifica il mezzo, riusciamo a vedere perché c'è o un moto o un'alterazione del mezzo(4) il quale, se diafano, contiene già in sé le immagini dell'oggetto osservato, non in moto ma semplicemente lì.. L'idea principale consiste allora nel considerare la luce che si propaga in analogia con il suono, attraverso un mezzo interposto. Non è quindi qualcosa di corporeo a entrare nell'occhio, ma è l'occhio a percepire le «vibrazioni» del mezzo diafano. Il diafano grazie all'azione del fuoco passa dalla potenza all'atto, cioè alla luce, così come una percussione che dà luogo a una vibrazione mette in movimento il mezzo intermedio, cioè l'aria. La luce è dunque lo stato di perfezione, di completamento del mezzo. Infine i colori sono per Aristotele una mescolanza a diverse proporzioni di luce ed oscurità: c'è più ombra nel viola che nel rosso ed a partire da

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questi due colori fondamentali si ottengono gli altri come mescolamento (questa teoria sarà ripresa da Goethe nell'Ottocento). Si deve notare che l'assunzione aristotelica che la luce, come qualunque altro evento naturale, è una modificazione di una qualità porta a includere i fenomeni ottici in uno schema interpretativo più vasto, diretto essenzialmente allo studio dei moti.

EUCLIDE

A cavallo tra il IV ed il III secolo a. C. abbiamo qualche documento più consistente: due opere di ottica attribuite ad Euclide (non si sa se siciliano o alessandrino), una delle quali, Euclidis Optica, si è stabilito essere proprio sua, l'altra, la Catottrica (che vuol dire, etimologicamente: studio dei fenomeni di riflessione della luce), con vari dubbi. Si tratta di una specie di divulgazione delle idee di Platone di Atene (V, IV sec. a.C.)(5), chiarite e ampliate, sull'argomento, idee alle quali Euclide aderisce. Come fa un buon matematico, Euclide inizia con il mettere sul tappeto tutte le ipotesi su cui baserà i suoi ragionamenti. Si tratta, come fa un matematico, di 12 postulati dell'Ottica e di 7 nella Catottrica, postulati, è meglio subito dire, che non si sa bene da dove provengano(6):

Ottica:

1°) I raggi emessi dall'occhio procedono per via diritta.

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I raggi visivi inviati dall'occhio

2°) La figura compresa dai raggi visivi è un cono che ha il vertice all'occhio, e la base al margine dell'oggetto guardato. 3°) Si vedono quegli oggetti a cui arrivano i raggi visivi.

Un oggetto lontano, che non sia intersecato dai raggi visivi non è visto.

4°) Non si vedono quegli oggetti ai quali i raggi visivi non arrivano. 5°) Gli oggetti che si vedono sotto angoli maggiori, si giudicano maggiori. 6°) Gli oggetti che si vedono sotto angoli minori, si giudicano minori. 7°) Gli oggetti che si vedono sotto angoli uguali, si giudicano uguali. 8°) Gli oggetti che si vedono con raggi più alti, si giudicano più alti.

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9°) Gli oggetti che si vedono con raggi più bassi, si giudicano più bassi. 10°) Gli oggetti che si vedono con raggi diretti a destra, si giudicano a destra. 11°) Gli oggetti che si vedono con raggi diretti a sinistra, si giudicano a sinistra. 12°) Gli oggetti che si vedono con più angoli, si distinguono più chiaramente. 13°) Tutti i raggi hanno la stessa velocità. 14°) Non si possono vedere gli oggetti sotto qualsiasi angolo.

Catottrica:

1°) Il raggio è una linea retta di cui i mezzi toccano le estremità. 2°) Tutto ciò che si vede, si vede secondo una direzione rettilinea. 3°) Se lo specchio sta su di un piano, e su questo stai un'altezza qualsiasi elevata ad angoli retti, la retta interposta tra lo spettatore e lo specchio ha la stessa ragione con la retta interposta tra lo specchio e l'altezza considerata, che l'altezza dello spettatore con l'altezza presa in considerazione. 4°) Negli specchi piani l'occhio posto sulla perpendicolare condotta dall'oggetto allo specchio, non vede l'oggetto. 5°) Negli specchi convessi, l'occhio posto sulla retta condotta dall'oggetto al centro della sfera, di cui lo specchio è una porzione, non vede l'oggetto. 6°) Lo stesso accade per gli specchi concavi. 7°) Se si pone un oggetto qualunque al fondo di un vaso, e si allontana il vaso dall'occhio, finché l'oggetto non si vede più, l'oggetto torna visibile a quella distanza se si versa dell'acqua nel vaso.

Per ciò che interessa al fine degli ulteriori sviluppi si può dire che qui vi è l'affermazione della propagazione rettilinea(7) della luce, l'introduzione del concetto di raggio inteso come direzione di propagazione della luce, come filetto elementare di luce, che la luce che si propaga attraverso quel raggio è emessa dall'occhio. Il resto è quanto si deve essere ricavato da esperienze elementari di carattere empirico, particolarmente dall'osservazione delle ombre e delle loro dimensioni in relazione alla sorgente luminosa. Inoltre, questa impostazione geometrica getta le basi per la possibilità di

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studiare scientificamente i fenomeni luminosi.

Le idee di Euclide ebbero un seguito, come accennato, in Ipparco di Nicea (II sec. a.C.) e, soprattutto, in Claudio Tolomeo (II sec. d.C.) a cui seguirà Eliodoro di Larissa.

CLAUDIO TOLOMEO ED ELIODORO DI LARISSA

Dobbiamo fare un salto di oltre sei secoli per trovare un altro lavoro ottico di interesse, si tratta dell'Ottica dell'alessandrino Claudio Tolomeo. Insisto ancora su quanto già accennato: abbiamo perso una enorme quantità di opere dello splendido periodo classico. Opere che furono bruciate e distrutte dal fondamentalismo cristiano, come ad esempio nella biblioteca di Alessandria che fu incendiata non prima di vedere orrendamente assassinata la sua direttrice, la matematica e filosofa Ipazia (IV, V sec. d. C.), dall'incitamento alla folla, di monaci ed analfabeti arruolati allo scopo, del patriarca-episcopo Cirillo (era l'anno 415, appena 24 anni dopo il 391, quando Teodosio aveva decretato il cristianesimo religione di Stato). Perdite immense, in tutti i campi del sapere, perdite per le quali non smetterò di lamentarmi. E tra queste perdite vi è anche l'Ottica di Tolomeo. Ne conosciamo solo una parte (manca il libro I e si interrompe al libro V) in traduzione latina (fatta dall'ammiraglio Eugenio Siculo nel XII secolo) da una traduzione araba (dal greco) incompleta e che neppure sappiamo bene se è proprio del Tolomeo autore dell'imponente opera astronomica Almagesto, opera che comunque ci è pervenuta proprio per merito degli arabi. Sembra non all'altezza del Tolomeo astronomo ma è molto probabile che successive traduzioni l'abbiano resa tale con successive semplificazioni e interpolazioni.

La novità che si apprezza in questa opera è, dopo quello della riflessione,

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lo studio della rifrazione (forse iniziato da Ipparco in opera persa). E la cosa è perfettamente comprensibile se si pensa che la rifrazione della luce gioca un ruolo fondamentale nelle osservazioni astronomiche in quanto, ad effetto della rifrazione dell'atmosfera vediamo le stelle in posizioni diverse da quelle occupate. Egli quindi studia il fenomeno seguendo il cammino della luce quando passa da sostanze trasparenti di diversa densità (aria-acqua, aria-vetro,

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acqua-vetro). Nel passaggio da un mezzo più denso ad uno meno denso (acqua-aria) trova il valore dell'angolo limite. Questo studio origina delle tabelle che sono abbastanza corrispondenti a quelle che possediamo oggi e che gli servirono soprattutto per avere una prova di regolarità di comportamento del fenomeno (per trovare la legge che regola la rifrazione occorrerà attendere i lavori di Snellius del XVI secolo). Riesce poi a stabilire che il raggio incidente e quello riflesso giacciono in uno stesso piano normale alla superficie riflettente. Ed occorre anche ricordare che Tolomeo tentò di spiegare il potere di ingrandimento delle sfere di vetro riempite d’acqua, probabilmente al fine di capire se il fenomeno potesse essere utilizzato in astronomia. Tal cosa diventa sempre più probabile alla luce di scoperte archeologiche: si stanno trovando lenti molto ben lavorate e quindi non più da considerare

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solo come monili (così si erano interpretati i ritrovamenti di Pompei). Per altri versi sembrerebbe (con tutti i soliti dubbi dovuti alla perdita di lavori ed alla conoscenza di essi attraverso frammenti di citazioni da altri autori) che Tolomeo abbia misurato il diametro di Venere e la cosa sembra impossibile da farsi ad occhio nudo.

Dal punto di vista più strettamente ottico, Tolomeo aderisce alla teoria emissionista (emissione di raggi da parte dell’occhio) di Euclide, con ampio uso della geometria, modificandola ampiamente. Intanto sostituisce ai coni che hanno vertice nell'occhio, delle piramidi, quindi contesta al modello di Euclide, inteso come visione per raggi discreti, di portare a un assurdo: non si potrebbero infatti vedere cose colpite da singoli raggi visivi perché singoli raggi incidono in singoli punti, ed essendo il punto senza dimensione, nulla si potrebbe vedere. Il suo studio riguardò anche la visione binoculare e lo sdoppiamento delle immagini quando le due piramidi con vertici nei due occhi non si combinano opportunamente. I colori furono considerati come proprietà superficiali dei corpi ed infine passò alla determinazione della grandezza degli oggetti osservati mediante costruzioni geometriche che mettevano in relazione l'altezza della piramide con la sua base.

Sarà Eliodoro di Larissa, ne La prospettiva(8), che farà un piccolo ma importante cambiamento alla piramide di Tolomeo: sposterà il vertice della piramide dalla superficie dell'occhio al suo centro geometrico. Ma altre cose si devono a questo personaggio di cui non sappiamo quasi nulla, tra l'altro un qualcosa che sembra anticipare quanto farà Fermat 14 secoli dopo: egli afferma che il tragitto rettilineo per la luce è il più naturale in quanto richiede il minor tempo ad essere percorso

«perché se la vista debbe andare quanto più presto sia possibile alla cosa da vedersi, è necessario che vadia per linea retta? essendo, che questa è la minore di tutte le linee che hanno i medesimi termini; .... ».(9)

Riferendosi poi alla riflessione e riportando cose di Erone alessandrino (del I sec. a. C. la cui opera è giunta a noi solo in una versione latina) dice:

« Essendo che ha dimostrato il Mecanico Herone, nel libro degli specchi, che quelle

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rettilinee, che ad angoli uguali si rompono, sono minori di tutte le altre, che dalle medesime simili parti vengono, e si rompono alle parti medesime ad angoli ineguali. Il che havendo dimostrato disse: Se la natura non ha in darno operato intorno al veder nostro, il rompimento del vedere si fa con angoli pari. Et questo si vede chiaro, poiché i raggi del Sole si rompono ad angoli pari.... ».(9)

Cosa resta alla fine di tutte queste cose ? Di Eliodoro, di Tolomeo, di Euclide e degli altri, intendo? Molto poco ma certamente il fatto che la luce è geometrizzabile con la scoperta dei raggi che si propagano in modo rettilineo. E la cosa, che discende dalla grandezza dei greci in geometria, non è da poco. A parte il lavoro di Eliodoro, restava comunque una importante confusione, un mescolamento di ottica geometrica, fisica, psicologica, fisiologica. Occorreranno una dozzina di secoli per iniziare a sbrogliare il tutto, secoli in cui i contributi più importanti provengono da studiosi arabi(10). Prima Al Kindi (XI sec. d.C.), che seguì la teoria della visione di Pitagora; successivamente Al Hazen affermò che i raggi luminosi partono dall’oggetto e penetrano nell’occhio, che da ogni punto dell’oggetto si distacca un fascio di raggi, il quale ha il punto per vertice e la pupilla dell’occhio per vaso. Cercò inoltre di dimostrare la legge della propagazione rettilinea e della riflessione della luce. Al Hazen trovò che il teorema di Tolomeo che affermava una sorta di costanza fra l’angolo d’incidenza e quello di riflessione non vale per tutto il quadrante; si occupò anche della rifrazione astronomica.

Almeno un cenno infine ai contributi del polacco Witelo (che studiò tra Parigi e Padova nel XIII sec. a.C.) il quale conobbe Guglielmo di Moerbecke al quale dedicò l'importante opera di ottica Perspectivorum libri, relativa alla diffrazione e ad altri fenomeni fisici della luce. Egli osservò che non tutta la luce si rifrange nel momento in cui incontra un oggetto, ma una parte si riflette e che perciò nella rifrazione ed anche nella riflessione vi è sempre perdita di luce. Egli negò che i raggi uscissero dall’occhio, come sosteneva Platone: perché se questi raggi sono corporei, come può essere che l’occhio li scagli fino alle stelle più lontane?

A questo punto è inutile andare a fare operazioni pignole di ricerca di contributi particolari. La mano passa decisamente al Rinascimento(11) ed al Barocco. Nel primo periodo con i contributi di artigiani, artisti ed architetti, e nel secondo con quelli, successivamente di

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Kepler (1571-1630)

Galileo (1564-1642)

Snell (1581-1626)

Cartesio (1596-1650)

Fermat (1601-65)

Grimaldi (1618-1663)

Huygens (1629-1695)

Hooke (1635-1702)

Romer (1644-1710)

Newton (1643-1727)

Studierò, con dettagli, l'opera di questi scienziati nei capitoli seguenti.

CAPITOLO II

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CARATTERI SALIENTI DEL PERIODO CHE VA DAL RINASCIMENTO AL BAROCCO(1)

Tutti gli autori concordano nel ritenere che, a partire da un certo momento storico (tra il Quattrocento ed il Cinquecento), i portati della tecnica nei campi della meccanica e dell'architettura civile e militare fecero riconoscere nella matematica uno strumento indispensabile. Particolarmente in Italia, dove meccanica, architettura ed arte avevano uno sviluppo clamoroso, si ponevano i problemi di misurazioni sempre più accurate di lunghezze, angoli, aree. Occorreva calcolare i volumi, fare degli studi prospettici, di simmetria. Si passò così dalle cose realizzate per mera intuizione alle cose progettate razionalmente con l'uso di proporzioni, simmetrie ed armonie. Fu nel Quattrocento, in Italia, che si iniziò la pubblicazione di svariate opere che facevano largo uso della matematica: opere di Brunelleschi, di Leon Battista Alberti, di Piero della Francesca (che ci fornì la "divina proporzione", la sezione aurea, e ci fornì importanti studi di prospettiva, ora nel senso moderno), di Giorgio Martini, di Luca Pacioli. Come si vede si tratta (a parte Pacioli) di architetti ed artisti di varia natura che per la prima volta ci offrono opere che nascono ampiamente studiate e progettate con l'ausilio della matematica. È chiaro che la ricerca era delle migliori proporzioni, dell'armonia; è quindi evidente che sullo sfondo campeggia l'immagine del platonismo, sia nella sua veste pitagorica che in quella eudossiana. Elemento di grande importanza è che svariati autori iniziano a pubblicare trattati di matematica scritti in modo divulgativo, molto chiaro, accessibile a molti. La matematica inizia anche ad entrare come insegnamento impartito nelle Università, anche se non allo stesso rango di logica e dialettica (si pensi che come "matematico" Galileo guadagnava dalle cinque alle dieci volte meno dei suoi colleghi filosofi che insegnavano nella stessa Università). Gli studenti cominciano a diventare curiosi ed esigenti. Prima ci si accontentava dell'esposizione degli "Elementi" di Euclide, ora si volevano conoscere tutte le applicazioni pratiche della matematica, si volevano apprendere cose che poi, appena terminati gli studi, sarebbero state di immediata utilità. La domanda era così grande che addirittura sorse la professione di matematico pratico (il primo manuale di matematica pratica è

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l'Aritmetica di Treviso del 1478 in cui compare la prima chiara spiegazione della moltiplicazione e della divisione!). E nel frattempo venivano pubblicate, in traduzione latina, opere di classici greci fino ad allora sconosciute. La prima edizione latina a stampa di Euclide vide la luce a Venezia nel 1482. Nella prima metà del Cinquecento vennero pubblicate da F. Maurolico, monaco siciliano, traduzioni latine di Archimede, Apollonio e Diofanto e da F. Commandino (intorno al 1560) traduzioni di Euclide, Apollonio, Pappo, Erone, Archimede ed Aristarco. Pian piano i seguaci di Archimede crebbero. Ed ecco Niccolò Tartaglia, Guidobaldo dal Monte, Giambattista Benedetti, Giambattista Della Porta, Gerolamo Cardano. Sono tutti grandi matematici che porteranno l'algebra, la geometria e l'aritmetica a risultati del tutto insospettabili solo qualche decennio prima ed anche nel periodo più fulgido dei matematici greci. Si realizzò anche una svolta decisiva che vide l'algebra assumere il primato sulla geometria, a seguito proprio dei suoi più recenti successi (Tartaglia ci terrà a sottolineare che le sue elaborazioni non sono tratte né da Platone né da Plotino). Ed ecco ancora Bombelli, insieme all'intera scuola dei matematici bolognesi, che riesce ad affrancare la matematica dal suo uso pratico ed a farla marciare per sue linee di sviluppo totalmente indifferenti ad ogni applicazione pratica.

Come osserva Federico Enriques, l'abito scientifico sorge nel comune italiano come era sorto nella città greca, dalla contemplazione della natura, concepita come una grande opera d'arte. E questo è il motivo per cui è inscindibile il momento della crescita della scienza da quello della produzione artistica nell'Italia del Rinascimento e del Barocco. La natura: con numeri, proporzioni ed armonia. È ciò che ritroviamo in tutti i grandi artisti dell'epoca che, insieme, furono matematici e scienziati. Quindi progresso tecnico, nascita della borghesia, disponibilità economiche, riconquista della natura e studio di essa. Da tutto ciò anche la città riceve grossi impulsi e cresce non solo in bellezza ma anche come motore di progresso. Come ormai concordano quasi tutti gli autori, il Rinascimento è possibile più per la miriade di artigiani, medici, architetti, costruttori, inventori che si sono succeduti negli ultimi tre o quattro secoli che non dalla pur importante riscoperta dei classici.

Due aspetti peculiari caratterizzavano la rivoluzione del Cinquecento e del Seicento: da una parte il riconoscimento della necessità di sporcarsi le mani, di toccare la natura, magari attraverso la tecnica,

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di misurare, di ripetere i procedimenti che non fanno più parte di un gioco ma servono per sopravvivere, dall'altra parte, proprio questo approccio più metodico richiedeva metodi quantitativi più precisi ed affidabili, insomma serviva una matematica a lato di una strumentazione più affidabile e precisa. Tutto questo rappresenta, visto con i nostri occhi, il bisogno di saldare le due principali tradizioni, l'aristotelica e la platonica. La difficoltà nasceva però non già dai procedimenti eventualmente scelti come approccio ai fatti naturali, ma nel fatto che dietro l'aristotelismo od il platonismo, le due principali scuole di pensiero ereditate dall'antichità classica, non vi erano né Aristotele né Platone ma la metafisica, il dogma, le guerre di religione, il mantenimento di privilegi e, in definitiva, il potere. Si capisce quindi che i rami della scienza che ebbero gli sviluppi più clamorosi furono proprio quelli in cui i processi di misura entrarono più massicciamente. Insomma i dati osservativi di Aristotele, di Platone o di Galileo sono gli stessi. Cambia il modo di interpretare le stesse cose. Occorre ora andare oltre la spiegazione ingenua, nasce l'uomo teorico. Da questo momento non è più il dato osservativo in sé che gioca un ruolo importante ma è l'interpretazione non ingenua della realtà che fa nascere e crescere il nuovo mondo. Mondo che è in marcia, che inizia ad affrancarsi dalla statica per costruire una dinamica, che inizia a comprendere che è possibile studiare la natura e descriverla con leggi sempre più affidabili. E sarà proprio del Seicento lo svincolare le leggi naturali dalle leggi divine, il rendere naturale il soprannaturale, il sostituire la fisica alla metafisica o alla magia per la descrizione del mondo naturale(2).

KEPLERO

La ripresa dei temi ottici che, come abbiamo visto nel Capitolo 1, erano molto oscuri, non poteva che essere fatta da parte di astronomi. E questi avevano ben poco da riprendere dal passato se non quella parte d'interesse che oggi chiamiamo ottica geometrica (la luce che viaggia in modo rettilineo, il raggio di luce, la legge della riflessione, un poco di rifrazione).

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Keplero, probabilmente per risolvere alcune questioni legate ai problemi osservativi derivanti dalla rifrazione, scrisse un trattatello di ottica che fece il punto su quanto si sapeva con notevoli perfezionamenti. La sua opera Ad Vitellionem(3) paralipomena (Aggiunte a Witelo, un titolo che vorrebbe minimizzare il suo contributo) del 1604 fu molto importante, perché con essa Keplero gettò le fondamenta della moderna ottica geometrica. Tra le altre cose, egli analizzò la struttura dell'occhio umano e fornì la prima esposizione corretta del suo funzionamento integrando il tutto con le correzioni dei difetti della vista mediante l'uso appropriato di lenti. Kepler riprese la tradizione prospettivistica che era stata di Alhazen ed alla quale Bacone aveva dato un qualche contributo. Egli analizza la natura e il comportamento della luce (da ogni punto dell'oggetto osservato partono raggi di luce in ogni direzione) e i processi di formazione e di localizzazione delle immagini. Secondo Keplero

"i corpi esterni [sono] costituiti da un complesso di punti ciascuno dei quali emette raggi in tutte le direzioni, raggi infiniti ed infinitamente estesi finché non incontrano un ostacolo. Quindi un punto isolato è come una stella che emette raggi in tutte le direzioni; se di fronte ad essa si trova un occhio, in esso penetreranno tutti i raggi che costituiscono un cono col vertice nella stella e con la base nella pupilla. Essi si rifrangono sia attraverso la cornea, sia attraverso le parti interne dell’occhio andando a formare un nuovo cono che ha per base la pupilla e per vertice un punto della retina”.

Keplero arriva a questa conclusione studiando la rifrazione per mezzo di una sfera di acqua. E continuerà questo studio fino a dare una corretta descrizione del funzionamento dell'occhio superando in particolare il problema del capovolgimento delle immagini (che era sorto in connessione ai primi studi di Leonardo e Maurolico sulla camera oscura): la retina (o la psiche) ha la facoltà di interpretarle correttamente.

Altri contributi di Keplero riguardano l’individuazione della regola secondo la quale viene determinata la posizione dell’oggetto osservato nello spazio, attraverso la direzione lungo la quale si trova l'oggetto e la sua distanza dall'occhio. Tale regola detta del triangolo distanziometrico, triangolo che ha per vertice il punto-oggetto e per base la pupilla, consisteva nella capacità dell’occhio di

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eseguire la misura dell’angolo acuto del suddetto triangolo e la determinazione dell’orientamento del suo asse (in pratica, l'occhio «sente» la divergenza dei raggi in arrivo emessi da un singolo punto e può quindi ricostruire la distanza del punto emettente).

Dopo aver risposto affermativamente a chi gli chiedeva della bontà del cannocchiale di Galileo, Keplero scrisse la Dioptrice (1611), nella quale espone una teoria delle lenti che entrano finalmente nel mondo accademico come oggetti di studio. La cosa è importante soprattutto per il fatto che si fornisce una base scientifica a quanti avevano sollevato dubbi sull'attendibilità delle cose che aveva visto Galileo (erano illusioni ? erano fenomeni che stavano dentro il cannocchiale ? ...). Ora l'intero strumento di Galileo ha una teoria che, tra l'altro, ne permette la riproducibilità. E viene messa sul tappeto quella cosa che sempre più si verificherà in futuro: la dialettica tra lo strumento e l'esperimento, la comprensione dell'interazione tra i due soggetti per validarne l'attendibilità reciproca. In questo modo anche lo strumento esce fuori da un'operazione meramente tecnica per diventare esso stesso oggetto di elaborazione teorica.

Per Keplero la luce viaggia dalla sorgente a distanze infinite, viaggia in linea retta (si muove secondo un infinito numero di linee rette che si chiamano raggi) con velocità infinita (essa non si muove nel tempo ma all'istante) e viene immaginata come una superficie di inviluppo delle estremità dei singoli raggi (una sorta di prefigurazione del fronte d'onda) che in se stessi non hanno consistenza fisica e quindi sono analoghi a traiettorie di corpi in movimento. La luce si muove lungo i singoli raggi ma questi non si muovono e neppure sono luce ma solo linee rette nello spazio comode per la nostra descrizione del fenomeno. Ciò che si muove sono delle superfici perpendicolari ai raggi come mostrato in figura. E la figura mostra anche la legge dell'inverso del quadrato, il fatto cioè che, al raddoppiare la distanza da una fonte di luce, la sua intensità diventa un quarto di quella che si aveva a distanza uno (proprio perché tutta la

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Tratta da Park

luce di cui disponevamo si deve ora distribuire su una superficie 4 volte più grande). Luce e colore hanno la stessa natura, non è la luce che ha colore. Esso viene acquisito, liberato, nella riflessione della luce su corpi colorati. Keplero inoltre unifica e risolve il problema della visione con quello della riflessione e rifrazione. L'immagine di un oggetto si crea nella mente che la colloca nel punto di convergenza dei raggi che partono dai due occhi e ciò vale anche per raggi riflessi, nel qual caso l'oggetto lo vediamo dietro la superficie riflettente, come mostrato in figura. Per quel che riguarda i fenomeni ottici Keplero, mentre riesce

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a dare una spiegazione completa della riflessione su specchi piani, non riesce a formulare la legge della rifrazione che pure era la cosa che a lui interessava di più.

A questo punto, dopo questo lavoro di Keplero, in accordo con Ronchi, il problema non è più quello di definire la luce in relazione alla nostra capacità di «vedere» gli oggetti «esterni». Il problema diventa piuttosto quello di definire più specificamente la luce in sé, in particolare se sia materia o movimento, luce di cui si dà per certo che sia un qualcosa esterno all'osservatore,

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che si propaga in linea retta, si riflette, «estrae colore» dai corpi, si rifrange, trasporta calore, forma immagini attraverso le lenti e stimola la retina. In definitiva gli aspetti fisiologici e psicologici del processo della visione cedono il posto ad una raffinata analisi degli aspetti fisici. In questo scenario si inserisce un altro contributo galileiano di rilievo: il tentativo di misurare la velocità della luce.

GALILEO

Galileo, nella Giornata Prima dei Discorsi e dimostrazioni matematiche (1638), ci racconta di un suo esperimento per misurare la velocità della luce(4). Il problema era evidentemente nell'aria e già si era compreso che, contrariamente a Keplero e vari altri, la luce è una entità che parte da una sorgente, si propaga ed arriva sugli oggetti non in tempo zero ma occupando tempo. L'esperimento proposto da Galileo è il seguente. Due persone si dispongono ad una data distanza (due colline contrapposte più o meno alla distanza di un paio di chilometri) l'una di fronte all'altra munite di due lanterne. La prima persona scopre la propria lanterna, la seconda esegue la medesima operazione non appena scorge il segnale proveniente dalla prima. In tal modo la prima persona avrebbe dovuto avere la possibilità di misurare il tempo necessario alla luce per compiere il percorso di andata e ritorno. L'esperimento è semplice ma non poteva che dare risultato nullo, infatti la velocità della luce è veramente troppo grande per essere misurata su tragitti così brevi e, per di più, con il battito del polso come misuratore del tempo.

Si può osservare che la cosa è di rilievo come è di rilievo il fatto che l'esperienza sia stata nulla. A questo proposito vi sono due osservazioni da fare. La prima è relativa al fatto che Galileo non trae una conclusione definitiva, non dice cioè che poiché non è riuscito a trovare una velocità finita per la luce essa deve essere infinita. Si rende invece conto che la sua è una strumentazione insufficiente per lo scopo che si è prefisso. La seconda osservazione riguarda il risultato nullo di una esperienza. Credo sia

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indispensabile sottolineare che esperienza di questo tipo, per tutte le implicazioni che hanno e le strade che aprono, siano altrettanto significative di quelle che forniscono dei risultati.

In ogni caso, questa misura di Galileo insieme ai suoi contributi nell'ottica pratica (telescopio e microscopio) sono gli unici passi che Galileo fa in questo campo che invece, all'epoca, inizia ad essere dissodato a dovere.

SNELL

La legge della riflessione, l'uguaglianza dell'angolo di incidenza di un raggio luminoso con quello di riflessione era nota fin dai tempi di Euclide. Già da

allora si conosceva il fenomeno della rifrazione, il cambiamento di direzione che subiscono dei raggi

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luminosi nel passaggio attraverso la superficie che separa due mezzi di diversa densità. Ma non si era stati in grado di trovare una legge che descrivesse il fenomeno. Si sapeva che nel passaggio da un mezzo meno denso ad uno più denso il raggio rifratto si avvicina alla perpendicolare n tracciata alla superficie di separazione dei due mezzi e che nel passaggio inverso il raggio rifratto si allontanava da tale perpendicolare. Il fenomeno era stato

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Nel passaggio da un mezzo più denso ad uno meno denso il raggio rifratto si allontana dalla perpendicolare (r<i). Occorre comunque osservare che vi è sempre un raggio riflesso che si accompagna a quello rifratto. Per un dato angolo di incidenza (angolo limite) il raggio non passa più nell'altro mezzo ma resta intrappolato nel primo: è il fenomeno della

riflessione totale.

studiato da Tolomeo che aveva trovato una certa regolarità nel rapporto tra angolo di incidenza ed angolo di rifrazione, che risultava quasi costante per una data coppia di mezzi. Vari studiosi avevano tentato una qualche relazione che descrivesse il fenomeno. Niente. Fu l'olandese Willebrord Snell nel 1621 che risolse il problema pur senza pubblicarlo ma solo comunicandolo ai suoi corrispondenti(5).

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Riferendoci alla figura, Snell si accorse che la relazione cercata dipendeva certamente dagli angoli i ed r ma attraverso delle loro funzioni. Data una coppia di sostanze attraverso le quali si realizza la rifrazione, per qualsiasi angolo i di incidenza, si ha un angolo r di rifrazione che soddisfa alla seguente relazione

dove di e dr sono i due segmenti di figura che hanno una precisa relazione con, rispettivamente, il seno

dell'angolo di incidenza e quello dell'angolo di rifrazione, mentre n è una costante che conosciamo oggi come indice di rifrazione relativo ai due mezzi (rappresentati dai subindici 1 e 2). Poiché, con linguaggio di oggi, di = cosec r e dr = cosec i, la relazione vista diventa:

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CARTESIO

Il primo studioso che fece conoscere, pubblicandola, la legge di Snell fu Cartesio nella sua Dioptrique del 1637. Egli la scrisse come oggi la conosciamo, introducendo il rapporto tra i seni degli angoli di incidenza e rifrazione. Ancora riferendoci all'ultima figura, si ha:

ed ora l'indice di rifrazione n acquista un significato più pregnante. E' sempre l'indice di rifrazione ma risulta legato alla velocità della luce nei differenti mezzi in cui si propaga. Più precisamente è il rapporto tra la velocità della luce nel mezzo più denso e la stessa velocità nell'aria (come vedremo tra un poco, rapporto tra una velocità maggiore ed una velocità minore).

Ma il contributo di Cartesio fu più articolato, anche se confuso e molto poco innovativo, per cui file:///C|/$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (28 of 215)28/02/2009 15.12.20

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vale la pena discuterlo, a partire dalle sue concezioni relative alla luce, ormai divenuta un oggetto fisico.

Per Cartesio la luce ha una velocità infinita (siamo nel 1637), la sua propagazione doveva essere istantanea (questa è la parola usata da Cartesio. Dioptrique pag. 101) e ciò vuol dire che non si ha propagazione. La cosa veniva ricavata da Cartesio dall'ombra della Terra, immaginata nella situazione astronomica aristotelica, proiettata sulla Luna in una eclisse. Se la luce del Sole che ci viene riflessa dalla Luna durante la durata di una eclisse marciasse con una velocità infinita noi vedremmo, come vediamo, l'eclisse quando Sole, Terra e Luna sono allineati. Se invece la luce avesse una velocità finita (e qui Cartesio ha il pregiudizio di una velocità relativamente piccola), essa, quando dal Sole ha superato la Terra per raggiungere la Luna, impiegherà del tempo per percorrere il tragitto fino alla Luna e del tempo per tornare sulla Terra di modo che noi possiamo vedere il fenomeno. Cartesio fa l'ipotesi che il tempo necessario alla luce per fare il tragitto Terra-Luna-Terra sia di una ora. Ciò vuol dire che noi vedremmo l'eclissi un'ora dopo che la luce ha lasciato la Terra per andare sulla Luna ed allora Cartesio si chiede cosa accade nel frattempo del Sole. L'astro avrebbe percorso un'ora della sua traiettoria, tempo che farebbe si che non vi sarebbe più allineamento tra i tre corpi celesti. Poiché da sempre quei tre corpi risultano allineati, Cartesio conclude che la la luce ha velocità infinita.

Vi è qui da osservare che il pregiudizio è sempre stato di grave ostacolo alla ricerca(6). E Cartesio si chiude una strada che poteva essere fertile, a seguito del suo metodo che prevedeva delle regole per fare filosofia che non andavano d'accordo con il metodo sperimentale. Vi era anche il fatto che Cartesio aveva in odio il solo nome di Galileo. Egli probabilmente seppe da Marsenne che Galileo sperimentava sulla velocità della luce e questo fatto gli fece affermare qualcosa che contrastava con le ipotesi del pisano(7). In ogni caso il ragionamento di Cartesio che ho riportato verrà confutato da Huygens nel suo Trattato sulla luce (scritto nel 1678 e pubblicato nel 1690) proprio sul terreno che Cartesio amava poco, quello sperimentale con misure di distanze e di velocità.

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La luce è conseguenza della teoria del mondo considerato come un tutto pieno eternamente in moto a vortici (una specie di maionese). La materia è estensione e l'estensione deve essere materia. Conseguenza di queste assunzioni a priori è che la luce diventa un oggetto materiale, fisico e quindi studiabile. La trasmissione istantanea della luce, di cui ho detto, è pensata come una pressione esercitata dalle particelle di una materia sottile che riempie l'universo, l'etere (ecco che questa entità metafisica entra nella fisica e la tormenterà per oltre 250 anni). E l'etere è inteso come un corpo rigido ideale. La prima particella preme sulla seconda che preme sulla successiva e così via (resta aperto il problema dell'origine del moto). L'intero discorso di Cartesio sembra voler non considerare la luce come entità a sé ma solo in quanto gli permetterà poi di studiare gli strumenti ottici. Così egli ci dice le cose sulla luce servendosi di analogie. Inizia con una analogia che era già stata fatta 2000 anni prima, quella della luce come un bastone nelle mani di un cieco: l'azione vivace che passa attraverso l'aria ed arriva ai nostri occhi agisce nello stesso modo che la resistenza fatta da un bastone di un cieco quando incontra dei corpi. In questa visione i colori non sono propri dei corpi ma del diverso modo in cui i corpi riflettono il movimento della luce per rinviarcelo agli occhi. E questa cosa, ancora con l'analogia del bastone, corrisponde al fatto che il bastone si accorge di toccare un albero, una pietra, dell'acqua, ...(8) La luce è per Cartesio un qualcosa che ha anche una qualche analogia (un'altra) con una palla da tennis (in ogni figura della Dioptrique vi è un omino con una racchetta che scaglia una palla in modo che la sua traiettoria sostituisca quella della luce) e, contemporaneamente, non è corpuscolare (senza

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essere ondulatoria). Da una parte, cioè, la sua vorrebbe essere una teoria emissionistica, dall'altra il modello esplicativo della luce di Cartesio implicava che la luce si propagasse tramite il mezzo. Data la sua teoria dell'universo tutto pieno, sarebbe stata impensabile una eventuale propagazione di corpuscoli nel vuoto. Vedremo subito a quale contraddizione porterà la sua teoria a proposito di velocità di propagazione della luce in differenti mezzi, Cartesio afferma che la luce viaggia più velocemente nell'acqua e nel vetro che non nell'aria, viaggia cioè più velocemente nei mezzi più densi. Ma prima di discutere questa vicenda, descrivo meglio le teorie di Cartesio sulla luce. Ogni qualcosa che si trova sulla Terra è permeata da questo etere che entra nei meandri più reconditi, nei suoi pori, come dice Cartesio. All'interno di questi pori le particelle di etere non stanno ferme ma ruotano e deviano, con alcune regole. Quando si muovono di moto rettilineo, la loro velocità propria di rotazione è all'incirca uguale a quella di rotazione. Ma quando ci si trova sulla superficie di separazione tra i

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corpi in considerazione ed il loro esterno allora le particelle di etere, che si trovano nella condizione di non avere loro simili nelle vicinanze, a seconda del verso di rotazione che si trovano ad avere, avranno una velocità di traslazione che diventerà più o meno grande di quella di traslazione. Da queste variazioni di velocità vengono fuori i differenti colori (e questo è il modo con cui vengono spiegati i colori con la seconda analogia). Il colore è quindi una conseguenza della condizione del moto. Con un disegno di D'Agostino è possibile avvicinarsi a comprendere l'argomento: le situazioni del primo e del secondo disegno sono

identiche, cambia solo il verso di rotazione della particella ma, a questo cambiamento di verso, corrisponde un cambiamento sostanziale nel moto finale della particella medesima.

Il discorso della Dioptrique prosegue ma le cose si fanno confuse. In un primo tempo Cartesio sembra aderire alle concezioni dei pitagorici: qualcosa fuoriesce dai nostri occhi, colpisce gli oggetti e, tornando indietro, ci annuncia gli oggetti medesimi. Più oltre però egli sembra virare verso le concezioni platoniche, quando dice:

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«gli oggetti della vista possono essere sentiti non soltanto per mezzo dell'azione che, essendo in essi, tende verso gli occhi, ma anche per mezzo di quella che, essendo negli occhi, tende verso essi. Tuttavia, poiché quest'azione non è altro che la luce, bisogna notare che si trova soltanto negli occhi di coloro che possono vedere nelle tenebre della notte, come i gatti; e che gli uomini ordinarii non vedono che per l'azione che viene dagli oggetti, ..... ».

Prima di passare all'occhio ed alle lenti, cose delle quali non mi occuperò, Cartesio discute la riflessione, la rifrazione e la riflessione totale(10) (ma, come osserva Ronchi, non della luce ma delle palle da tennis che, alla fine del discorso, ritornano luce senza tener conto di quella sciocchezza che è la gravità). Per la prima la cosa era semplice ed era stata trovata e confermata più volte in passato. Per la rifrazione egli fa tutta una serie di costruzioni geometriche fino ad arrivare ad una che può essere riassunta con la seguente(11) (Cartesio disegna due circonferenze affiancate e con raggi diversi):

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Tale figura è la stessa di quella precedente con la semicirconferenza in basso a raggio maggiorato rispetto a quella in alto. E la cosa risponde ad un preciso ragionamento, al solito, tutto a priori. Consideriamo un tempo molto breve, tempo nel quale avviene il fenomeno (e qui sarebbe d'interesse capire l'istantaneo come si coniuga con un tempo piccolo ma finito anche perché non abbiamo ancora a disposizione gli infinitesimi e comunque Cartesio non ne fa cenno). Dividiamo questo tempo in due parti uguali. Nella prima parte di tempo la luce si propaga da A a B. Nella seconda parte di tempo, da B a C. E perché accade questo ? Perché cioè il tragitto BC è maggiore di quello AB ? Perché c'è l'ammissione a priori che la luce cammini a velocità maggiore nei mezzi più densi (più veloce nel

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vetro o acqua che non nell'aria)(12). E quanto più veloce ? Proprio la quantità necessaria per fare sì che il segmento AP sia uguale a PQ ! E perché ? Ma perché la componente orizzontale di tale velocità (vocabolario di oggi), cioè AP e QC , si è conservata (infatti AP = QC). Girando il discorso per far si che AP sia uguale a PC è necessario che risulti BC > AB. E quella costante n1,2 che c'era nella legge di

Snell, che cosa vuol dire ora ? Essa misura la maggiore velocità della luce nei mezzi più densi. La cosa non è da poco perché permette di avere la possibilità di sottoporre ad esperienza l'intera legge ed i presupposti teorici che erano dietro di essa. Si tratterà di capire la correttezza dell'ipotesi di luce più veloce nei mezzi più densi.

Per quel che riguarda la legge della rifrazione essa si ricava riportando la figura ad un'unica circonferenza. Dice Cartesio (quasi letteralmente) che, poiché la palla va da A a B ed arrivata in B prende la direzione I, vuol dire che la forza

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con cui entra nel mezzo più denso (quello che si trova al di sotto della linea CBE), sta a quella con cui la palla esce dal corpo meno denso (quello che è al di sopra della suddetta linea), come la distanza che c'è tra AC ed HB sta a quella che c'è tra HB ed FI, cioè come la linea CB sta a BE. Ora, poiché AH = CB ed EB = IG, il rapporto CB/BE equivale, in linguaggio moderno, al rapporto tra i seni rispettivamente degli angoli di incidenza ABH e di rifrazione GBI. E la legge della rifrazione esprime proprio, come già detto, la costanza di questo rapporto per una data coppia di mezzi.

In una opera finita di scrivere posteriormente alla Dioptrique, e cioè Il mondo o Trattato sulla luce (composta tra il 1629 ed una data non precisata ma posteriore al 1637 in quanto si fa qui riferimento alla Dioptrique che è del 1637, e non pubblicata in vita), Cartesio non aggiunge

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praticamente nulla a ciò che aveva scritto nella Dioptrique(13).

FERMAT

La Dioptrique, quando fu pubblicata, conteneva una specie di invito ai lettori a scrivere all'autore per chiedere spiegazioni sui punti ritenuti oscuri. Per capire ancora di più di che pasta era fatto Cartesio, ricordiamo che egli ricevette almeno due lettere, una di Hobbes e l'altra di Fermat. Come considerò tali lettere. Lo sappiamo da una lettera che Cartesio scrisse a Marsenne nella quale dice che Hobbes era un individuo disprezzabile e che gli argomenti di Fermat erano sterco.

Tralasciando Hobbes(13 bis), elenco in breve le obiezioni del grandissimo matematico Fermat. Egli osserva che non si può trattare la luce come una palla e che non riesce a capire come sia possibile che la luce aumenti la sua velocità in un mezzo più denso. Dopodiché pone la questione: visto che la legge della rifrazione è ormai nota, non la si può ricavare matematicamente in qualche modo? Con Cartesio vi fu un qualche scambio di lettere che Fermat interruppe quando capì che aveva a che fare con una persona intrattabile. Ma Fermat continuò a tentare di capire come fare fino a che, nel 1662, non trovò la soluzione per via completamente geometrica, introducendo segmenti che dovevano rappresentare la resistenza del mezzo. Dette le cose come faremmo oggi, il ragionamento di Fermat era il seguente. La luce viaggia con una data velocità ed in linea retta in un mezzo omogeneo e la sua velocità diminuisce all'aumentare la densità del mezzo. Per fare un determinato percorso, tra un punto A ed un punto B, la luce sceglie il cammino che richiede minor tempo (che non è necessariamente la linea retta ma, come nel caso della rifrazione, è una spezzata). In questo modo si ritrova senza difficoltà la legge di Snell con una differenza sostanziale: ora l'indice di rifrazione n è il rapporto tra la velocità della luce

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nell'aria e quella nel mezzo più denso, esattamente l'inverso che era stato fornito da Cartesio (il rapporto era sempre tra una velocità maggiore ed una minore, solo che erano invertiti i ruoli della velocità maggiore e minore). In quanto dico si deve tener conto del fatto che n è un numero e che era stato misurato. Esso era sempre un numero maggiore di 1. Conseguentemente, rendendo n un rapporto tra velocità, la velocità maggiore doveva stare al numeratore e la minore al denominatore della frazione. Si può intuire che si inizia a prospettare la possibilità di un experimentum crucis: se si riesce a misurare la velocità della luce in differenti mezzi si può stabilire chi ha ragione tra Cartesio e Fermat. Disgraziatamente occorreranno circa 200 anni perché tale misura sia possibile.

PADRE GRIMALDI

Nel 1665 a Bologna vide la luce un libro di Padre Francesco Maria Grimaldi, Physico-mathesis de Lumine, coloribus et iride (Una teoria fisico matematica sulla luce, i colori e l'arcobaleno). L'autore conosce le vicende di Galileo e sa che la Chiesa è attenta a ciò che accade in campo scientifico. Non dà quaindi una teoria della luce ma oscilla tra due perché non può dispiacere ad Aristotele e San Tommaso e quindi deve tener conto di quella oscura teoria di Aristotele che vuole la luce come accidente e non come sostanza. L'opera di Grimaldi sembra un dialogo in cui le due teorie sulla luce (sostanza o accidente?) si debbono confrontare, senza nessun Simplicio. Le novità che introduce sono diverse e si nota che lo deve fare in modo circospetto:

«non intendiamo confutare l'opinione aristotelica riguardo alla natura della luce partendo dai suoi principi primi, ma solo liberarla dalle obiezioni che molti nuovi esperimenti sembrano in un primo momento sollevare contro di essa. Che il nostro libro

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contribuisca o meno a tale fine, lasciamo che sia il giudizio prudente e benevolo del lettore a stabilirlo».

Nella prima parte del suo lavoro Padre Grimaldi ci informa subito di una importante scoperta da lui fatta, quella della diffrazione della luce. Quando della luce entra in una stanza buia attraverso un piccolo foro ed incontra dei piccoli ostacoli, sulla parete bianca in cui va a finire, non vi è solo l'immagine del foro, più o meno grande a seconda della distanza della parete dal foro, ma anche delle frange luminose che invadono la zona che dovrebbe essere in ombra e delle frange oscure che invadono la zona illuminata. Riferendoci alla figura di seguente, vediamo meglio in cosa consiste il fenomeno scoperto da Grimaldi:

I punti A e B rappresentano due punti sul bordo di un piccolo forellino fatto su una parete, foro dal quale entra della luce in una stanza buia. Invece FE rappresenta un piccolo oggetto che si trova nella

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traiettoria dei raggi luminosi provenienti dal forellino. CD è invece il pavimento bianco della stanza oscura. Se non vi fosse FE, su CD vedremmo l'immagine del foro deformata in una circonferenza più o meno schiacciata. Intorno a questa immagine illuminata vi sarebbe una zona di penombra. Ora Grimaldi fa una interessante discussione nella quale sostiene (non è una cosa da poco, come vedremo in Huygens) che ogni punto del bordo del foro deve essere considerato come emettente luce. In particolare la luce viene emessa sia da A che da B. Quindi, se non vi fosse FE, la luce proveniente da A costruirebbe un cono di luce ACL e la luce proveniente da B un cono BID. Quando inseriamo il piccolo oggetto FE, poiché i raggi di luce viaggiano in linea retta, la luce proveniente da A deve provocare l'ombra GL e quella proveniente da B un'ombra IH. In definitiva si dovrebbe avere una zona in ombra GL con una zona più scura GH al centro della prima. L'esperienza non dà questo risultato:

«L'intervallo IL è significativamente più ampio di come dovrebbe essere se tutta la luce si muovesse per linee rette dentro a un cono, interrotta dall'oggetto opaco EF. Inoltre, nelle zone intensamente illuminate CM e ND ci sono bande di luce colorata tali che il centro di ognuna è bianco puro, mentre ai bordi c'è il colore, sempre blu sul bordo più vicino all'ombra MN e rosso sul lato più lontano. Queste bande dipendono dalle dimensioni del foro AB, e non appaiono se esso è troppo grande».

Ciò che si vede sul pavimento è illustrato da Grimaldi nel modo seguente:

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a lato dell'oggetto opaco X (il bordo di un ostacolo) vi sono una serie di bande luminose (frange) che vanno stringendosi e perdendo luminosità man mano che ci si sposta verso l'esterno. La cosa più interessante e che Grimaldi nota è che i bordi di tali frange sono colorati! sono di un colore tendente all'azzurro verso l'interno dell'ombra e di un colore rossastro verso l'esterno dell'ombra. Nella figura seguente è mostrata una figura di diffrazione alla Grimaldi: un filo metallico illuminato (la striscia bianca centrale) da un tenue raggio di luce origina le frange di diffrazione a destra e (maggiormente visibili) a sinistra del filo.

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Tratta da Parker

Uno spillo di 0,o5 mm di diametro fotografato a 35 cm di distanza. Lo spillo è chiaramente visibile al centro mentre alla sua destra e sinistra vi sono simmetricamente delle frange di diffrazione.

E Grimaldi esegue una gran quantità di esperienze in condizioni diverse ed in particolare trova che la luce subisce una sorta di deviazione quando incontra un ostacolo, tale che essa riesce a penetrare anche in zone dove non dovrebbe andare se vi fosse una mera propagazione rettilinea. Nella figura seguente è

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mostrato che la luce che arriva ad un forellino, dal lato opposto fuoriesce "aprendosi", fatto non comprensibile con la sola propagazione rettilinea a meno di ammettere ipotesi aggiuntive (in pratica l'immagine raccolta su uno schermo di un fascetto di luce che passa attraverso un forellino non è un'ombra netta meramente geometrica: si ha una immagine più chiara al centro con gli orli costituiti da cerchi concentrici che acquistano colorazioni rossastre).

Questa importante scoperta si accompagna alla netta ammissione di Grimaldi dei colori che fanno parte della luce ed in nessun modo possono essere pensati al di fuori di essa. La cosa gli proveniva proprio dalle colorazione delle frange alla quale abbiamo accennato. Inoltre, nella trattazione dei vari fenomeni luminosi, ad un certo punto vi è l'ammissione di luce intesa come una vibrazione (ondulatio) dell'elemento luminoso sottile che per di più deve essere trasversale. Questa cosa solleverà, più avanti e non a seguito del lavoro di

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Le vibrazioni trasversali della luce come disegnate da Grimaldi

Grimaldi, vari e scandalizzati commenti. Studiò anche la diffrazione dovuta alla sovrapposizione delle immagini di due forellini su uno schermo, anticipando di oltre cento anni la scoperta dell'interferenza di Young.

Il lavoro di Grimaldi è molto ampio ed articolato ma il suo studio completo esula dalle intenzioni di questo lavoro(14).

HOOKEfile:///C|/$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (44 of 215)28/02/2009 15.12.20

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Nel frattempo, a seguito delle vicende di Galileo, la ricerca scientifica si spostava sempre più a Nord. Dalla Francia di Cartesio passiamo all'Inghilterra che presto sarà di Newton. E per iniziare a parlare delle concezioni di Newton sulla luce è utile dare un cenno ad un lavoro di Hooke, la Micrographia del 1665.

Il libro di Hooke riporta in modo sistematico tutte le sue osservazioni con un microscopio del tipo di Galileo, che si era costruito, attraverso disegni fatti da un artista. Nel descrivere le sue scoperte microscopiche, Hooke espone in poche pagine le sue teorie sulla luce con particolare attenzione ai colori, ricavandone molte interessanti conclusioni. Egli era stato richiamato a questo dall'aver osservato, nel corso delle sue ricerche, delle colorazioni particolari di lamine sottili di mica, di bolle di sapone, di vetri in foglie sottilissime, di cui però non era riuscito a stabilirne lo spessore. Hooke riuscì comunque a stabilire molte condizioni in corrispondenza delle quali tali colorazioni divenivano evidenti Dalla presenza di queste colorazioni, delle quali Hooke fornisce una descrizione dettagliata, egli si convince dell'erroneità delle teorie di Cartesio ed in particolare del fatto che le colorazioni non possono essere originate da quelle rotazioni di particolari particelle delle quali ho discusso. Infatti Cartesio sosteneva che il colore nasceva in corrispondenza di una rifrazione ed invece spariva quando la luce subiva una doppia rifrazione (la prima in un senso e la seconda in senso contrario) ed Hooke mostra che le sue colorazioni nascono proprio in corrispondenza di questa doppia rifrazione.

Demolita la teoria di Cartesio (escluso il fatto di maggiore velocità di propagazione della luce in mezzi più densi, sul quale vi è accordo) Hooke propone la sua teoria che prevede la luce come un moto vibratorio della materia (anche se non parla di etere). Essa si propagherebbe in linea retta come raggi di sfere (si pensi al moto di onde generate da un sasso che entra in acqua) con velocità elevatissima ma non infinita. La luce è costituita da impulsi che viaggiano lungo questi raggi, tali impulsi saranno trasversali per la luce bianca e diversamente obliqui per la luce colorata ( dopo la eventuale dispersione dovuta a rifrazione la vibrazione diventerebbe obliqua rispetto al raggio):

«Il blu è un'impressione sulla rètina di un impulso di luce obliquo e complesso, in cui la file:///C|/$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (45 of 215)28/02/2009 15.12.20

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parte più debole precede e la più forte segue. Il rosso è un'impressione sulla rètina di un impulso di luce obliquo e complesso, in cui la parte più forte precede e la più debole segue ».

Quindi per Hooke i colori sono della luce e non proprietà esterne ad essa. La teoria è di grande interesse anche se un poco oscura. Varie cose saranno chiarite in una corrispondenza polemica che dopo il 1672 ebbe con Newton. In queste lettere affinò la sua teoria della vibrazione ondulatoria della "perturbazione luminosa " tanto da poter essere considerato un precursore della teoria ondulatoria della luce. Ma, nonostante le lodi di Huygens, non ebbe un gran seguito.

Quattro anni dopo la comparsa della Micrographia una nuova scoperta venne a complicare grandemente il problema della propagazione delle radiazioni luminose. Nel 1669 il medico e matematico danese Erasmus Bartholin pubblicò un lavoro (Erasmi Bartholinis experimenta crystalli islandici disdiaclastici, quibus mira et insolita refractio detegitur) .in cui è riportata una scoperta che avrà notevole importanza nell'interpretazione dei fenomeni luminosi: la birifrazione presentata dallo spato d'Islanda. Bartholin si rende ben conto dell’importanza dell’effetto da lui scoperto che cerca di spiegare, senza successo, con ipotesi corpuscolari.

RÖEMER

Sempre in quegli anni, nel 1676, si ebbe un’altra svolta fondamentale: l’astronomo danese Olaf Röemer provò sperimentalmente che la luce si propaga a velocità finita e ne fornì un primo valore. La determinazione di Röemer si basò sullo studio delle eclissi del satellite Io di Giove che si verifica ad intervalli regolari (in media ogni 42h 30'), però più lunghi nella metà dell’anno in cui la Terra si

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allontana da Giove. I ritardi erano stati osservati da Giovan Domenico Cassini direttore dell'Osservatorio astronomico di Parigi(15). Seguiamo la misura fatta da Röemer.

La situazione astronomica alla base della sua esperienza è illustrata, in figura (dove T1 , T2, ...,

sono successive posizioni della Terra nella sua orbita intorno al Sole cui competono, rispettivamente, le velocità v1,v2, ...; analogamente G1,G2, ...sono successive posizioni di Giove nella sua orbita

intorno al Sole cui competono le velocità vg, infine I rappresenta il satellite di Giove, Io). La prima

cosa da dire è che il piano dell'orbita di Io intorno a Giove coincide con quello dell'orbita di Giove e della Terra intorno al Sole. Stando

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così le cose, Io si eclissa ad ogni sua rivoluzione intorno a Giove, cioè ad ogni tempo T che teoricamente dovrebbe essere costante (e certamente lo è se le osservazioni le eseguiamo da Giove).

Dallo studio delle innumerevoli precedenti osservazioni eseguite insieme a Cassini e da una idea che era stata dello stesso Cassini (1675), Röemer avanzò l'ipotesi che la luce avesse una velocità finita. Questa sembrava essere l'unica spiegazione che egli riusciva a trovare per le strane irregolarità nelle eclissi di Io. Cerchiamo di capire di cosa si tratta.

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Ci sono dei periodi dell'anno in cui la Terra si trova più vicina a Giove, mentre in altri periodi la Terra si trova più lontana da questo pianeta. Tra queste due posizioni estreme della Terra rispetto a Giove vi sono, evidentemente, tutte le altre che la Terra occupa o in allontanamento o in avvicinamento a Giove. Ebbene, le osservazioni di Röemer e Cassini mostravano che, tra le due posizioni estreme della Terra rispetto a Giove (T1e T3 di figura), quando la Terra risultava in

allontanamento da Giove (ad esempio: posizione T2 di figura) le eclissi di Io diventavano via via più

lunghe; quando invece la Terra risultava in avvicinamento a Giove (ad esempio: posizione T4 di

figura) le eclissi di Io diventavano via via più brevi. Questo fenomeno fu interpretato da Röemer come originato dal fatto che, durante l'allontanamento della Terra da Giove, ogni sparizione di Io nell'ombra di Giove ha luogo quando la Terra è più distante da Giove di quanto non lo fosse alla sparizione precedente e ciò significa che la luce per giungere sulla Terra deve percorrere una distanza maggiore.

Seguiamo il ragionamento di Röemer dalle sue stesse parole servendoci della figura seguente. Dice Röemer:

"Supponiamo che A rappresenti il Sole , B Giove, C il primo satellite quando entra nell'orbita di Giove, per uscire

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nuovamente in D, e che EFGHLK rappresentino la Terra a differenti distanze da Giove.

Supponiamo ora che quando la Terra sta in L ... il primo satellite si veda emergere in D; e che circa 42 ore e mezza più tardi, cioè dopo una rivoluzione di questo satellite, stando la Terra in K, si

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veda di nuovo il satellite tornare in D. E' chiaro allora che se la luce richiede tempo per percorrere la distanza LK, il satellite sembrerà tornare in D più tardi di quanto non avrebbe fatto se la Terra fosse rimasta in K; in questo modo la rivoluzione del satellite, determinata dalle sue emersioni, sarà più lunga di tanto tempo quanto quello impiegato dalla luce per andare da L a K, e, al contrario, nelle altre posizioni FG, nelle quali la Terra va incontro alla luce, le rivoluzioni determinate mediante le immersioni [nelle zone d'ombra] sembreranno diminuite di tanto quanto le altre, determinate mediante le emersioni, sembravano aumentate.....

Questa differenza [del periodo di rivoluzione del satellite] che non è apprezzabile in due rivoluzioni, risulta molto considerevole quando se ne considerano varie insieme e, per esempio, quaranta rivoluzioni osservate dalla parte di F, sono sensibilmente più brevi di quaranta osservate dall'altro lato, qualunque sia la posizione in cui Giove si trovi; questa differenza vale 22 minuti per tutta la distanza HE, che è due volte la distanza della Terra dal Sole".

I dati che Röemer aveva a disposizione erano quindi:

- il tempo (t = 22 minuti) che la luce impiega a percorrere il diametro dell'orbita della Terra intorno al Sole;

- il diametro (d = 28.1010 m) di questa orbita.

Il primo dato era stato ricavato dalle sue misure (il dato oggi più attendibile è t = 16 minuti e 36 secondi) mentre il secondo dato proveniva da osservazioni d'altro tipo che all'epoca si erano fatte (ad opera di Cassini e Richer si era trovato - 1673 - per d il valore d ≈ 280.000.000 Km; mentre il valore oggi comunemente accettato è d ≈ 299.000.000 Km).

La velocità della luce era quindi data da:

c = d/t = 28.1010 m/22.60 sec = 2,1.108 m/sec = 210.000 Km/sec

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valore molto distante da quello che oggi si ritiene più vicino corretto (c = 2,997925.108 m/sec) ma molto vicino come ordine di grandezza.

A questo punto abbiamo tutta una serie di informazioni importanti provenienti da esperienze nei più vari campi. Gli studi sulla luce divengono sempre più articolati e siamo pronti per teorie complessive.

Vedremo nel prossimo capitolo i fondamentali lavori e di Newton e di Huygens.

CAPITOLO III

NEWTON

Newton opera e scrive in gran parte nell'ultimo quarto del Seicento. E' un periodo particolarmente intenso e fecondo per tutti i problemi di ottica e quindi legati alla luce. Come visto e vedremo vi saranno moltissimi lavori che si susseguiranno ed in parte accavalleranno. Evidentemente i tempi erano maturi per arrivare ad una più organica comprensione dei fenomeni luminosi. Tra l'altro, con Newton, assistiamo al passaggio della ricerca scientifica in Inghilterra. Ora è a tutti noto che Newton sia stato uno dei più grandi fisici della storia, tanto grande che oscurò almeno i successivi 100 anni (si aveva paura di fare ricerca: sembrava che tutto lo avesse fatto Newton e comunque sembrava impossibile aggiungere delle novità o peggio criticare i suoi lavori). Per l'economia del mio lavoro mi occuperò solo di questioni ottiche rimandando per tutto il resto ai molteplici studi su Newton, in parte riportati nella bibliografia.

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Newton si occupò di ottica lungo tutto l'arco della sua vita. I suoi primi scritti in proposito sono nel primo volume delle trascrizioni delle lezioni che egli tenne a Cambridge dal 1669 al 1672(1) . Le lezioni in oggetto hanno carattere eminentemente tecnico. In esse si studiano le lenti ed i loro difetti, soprattutto aberrazioni cromatica (sulla sferica non seppe o non volle risolvere il problema in quanto non era di natura geometrica ma strettamente tecnica, legato alla molatura dei cristalli). Studiò obiettivi e modi per perfezionare gli strumenti ottici e fece il passaggio alla tecnica catottrica per la costruzione di telescopi (telescopio a riflessione e non più a visione diretta) perché con esso era possibile appunto eliminare l'aberrazione cromatica. Risulta chiaro che per

In questo telescopio, che migliora di gran lunga le prestazioni di un telescopio ordinario, la radiazione proveniente, ad esempio, da un pianeta entra da S e, dopo essersi riflessa sullo specchio concavo M, si focalizza sullo specchio R disposto a 45°, per poi essere definitivamente inviata all'occhio dell'osservatore O.

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Disegno del telescopio catottrico di Newton fatto da Oldenburg, segretario della Royal Society con cui Newton era in

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corrispondenza (da Mamiani).

capire ed eliminare l'aberrazione cromatica occorreva sapere bene il ruolo svolto dai colori ed il loro comportamento nei punti di curvatura della lente nel telescopio a visione diretta (soprattutto ai suoi bordi), dove tende ad assomigliare ad un prisma. In particolare occorre aver capito il rapporto esistente tra la diversa rifrangibilità dei raggi ed i colori. E Newton aveva studiato l'aberrazione cromatica in una memoria del 1671-72 (New Theory about Light and Colors) in cui descrive gli esperimenti fatti con luce, prisma e dispersione dei colori (già nota da molto tempo) attraverso di esso. Da tali studi aveva capito che tale aberrazione non era eliminabile

«non solo perché di fatto mancavano quelle lenti dotate di quelle figure quali erano state prescritte dagli ottici (il che finora tutti hanno creduto), ma anche perché la luce stessa è una certa mistura eterogenea di raggi diversamente rifrangibili, in modo che, anche se si avesse una lente con una figura giusta, sì da raccogliere qualsiasi genere di raggi in un unico e identico punto, non potrebbe mai costringere in quell'identico punto quei raggi che, pur cadendo nello stesso mezzo con il medesimo angolo di incidenza, tuttavia sono disposti a subire una diversa rifrangibilità».

Nella memoria citata vi è il resoconto di importanti esperienze che Newton ha fatto con i prismi ed uno dei primi experimentum crucis che si propongono in problemi di ottica. In apertura della memoria, Newton, rivolgendosi ai membri della Royal Society, dice:

«Per mantenere la mia promessa, vi metterò al corrente senza ulteriori indugi, che all'inizio dell'anno 1666 (nel periodo in cui mi sono applicato alla molatura di vetri ottici di forme diverse da quella sferica) mi sono procurato un prisma triangolare di vetro, con cui tentare il celebrato Fenomeno dei colori. A questo fine ho oscurato la stanza, e fatto un piccolo buco nella persiana della mia finestra per lasciar entrare solo una conveniente quantità di luce solare, ho posto il prisma all'entrata della luce, in modo che essa potesse essere rifratta sul muro opposto. Era dapprima un divertimento molto piacevole vedere i colori vividi e intensi prodotti in tale maniera; ma poco dopo, sforzandomi di considerarli

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con più circospezione, restai sorpreso nello scoprirli di forma oblunga; forma che, in accordo con le leggi della rifrazione ricevute, mi aspettavo fosse circolare».

E la cosa viene illustrata così da Newton(2):

L'illustrazione proviene dall'Optiks di Newton.

Il fatto che l'immagine del forellino da cui entrava la luce fosse obliqua e costituita da differenti colori, contrariamente a quanto ammetteva Cartesio (con la sua idiosincrasia per l'esperienza) che affermava dovesse essere circolare, spinse Newton ad approfondire lo studio del fenomeno. E trovò che il prisma deflette la luce, nelle più diverse disposizioni sperimentali, e l'immagine che si ottiene della luce bianca del Sole è una scomposizione della medesima luce, a seconda dei differenti colori della stessa, con il colore blu rifratto di più del colore rosso. Se lo schermo dove si raccoglieva l'immagine del Sole era vicino al prisma, si vedeva soprattutto una luce bianca deviata con i bordi vagamente colorati. Ma se si allontanava lo schermo sempre più si evidenziava lo spettro colorato della luce bianca. A questo punto si pone con forza il problema di capire come sono legati i colori con la luce bianca. E' il prisma che colora la luce (come sosteneva Cartesio) oppure esso serve solo a separare ciò che nella luce già c'è ? E' qui che nasce l'annunciato experimentum crucis(3) che illustrerò riferendomi alla figura che

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Newton ci fornisce (ma solo successivamente, nell'Optiks, e non nella New Theory). La luce solare S entra nel foro F dentro un ambiente buio dove incontra il prisma ABC che la scompone sullo

L'illustrazione proviene dall'Optiks di Newton.

tavoletta DE (funzionante da diaframma), nella quale è praticato il foro G. La strumentazione era sistemata in modo che, muovendo opportunamente il prisma, fosse possibile indirizzare su G il gruppo ristretto di colori che si voleva (prodotto dalla dispersione della luce bianca). Quindi attraverso G passava un pezzetto di spettro colorato che era inviato su una seconda tavoletta de sulla quale era fatto il forellino g. In questo modo g diventava una nuova sorgente di luce, sorgente quasi monocromatica che inviava la luce su un secondo prisma che li rifrangeva definitivamente sulla parete (in M se era rossa ed in N se era blu) questa volta in modo non più allungato ma circolare. Qui non vi era più dispersione della luce ma solo rifrazione nel prisma. Quindi si dimostrava che non era il prisma a colorare la luce (nonostante avesse sperimentato in più modi questa possibilità), che il prisma è un semplice analizzatore dei colori, un filtro e che la deviazione dipendeva dal colore della componente della luce. In definitiva Newton può concludere che la luce consiste di raggi differentemente rifratti e la rifrangibilità è la misura del colore. A questo punto egli realizza varie altre esperienze combinando colori dalla sovrapposizione di altri e definendo il bianco un non colore, un qualcosa cioè che è somma

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di tutti gli altri colori (i colori primari, quelli che ci fornisce il prisma, sovrapposti in qualunque combinazione ci danno i colori secondari e l'occhio ci inganna perché non è in grado di capire se un colore è primario o secondario: se si vuole oggettivare l'ottica occorre mettere da parte gli occhi ed affidarsi a strumenti(4)). Questa cosa viene dimostrata da Newton per sovrapposizione dei vari colori, ad esempio, mediante una lente come nella figura seguente (che corrisponde, semplificata, alla figura 6 riportata nella tavola che segue). Un raggio di luce bianca proviene da S, passa nel forellino F e quindi nel prisma ABC. Il prisma scompone la luce e lo spettro va a finire nella lente MN. La lente fa convergere i colori dello spettro verso q dove si ricompongono in luce bianca. L'esperienza di figura 6 permetteva a Newton non solo di ricomporre la luce bianca ma anche di comporre i colori a suo piacimento mediante lo schermo sagomato XY che gli permetteva di intercettare colori non contigui. Inoltre, muovendo in alto ed in basso tale schermo in q si aveva una successione di colori composti ma se tale movimento era rapido, in q si aveva ancora luce bianca (persistenza delle immagini sopra la retina).

La stessa cosa si può ottenere mediante due prismi sistemati in modo opportuno, come mostrato nella figura 7 della tavola seguente (la luce entra dalla destra, va sul prisma ABC che la scompone; da qui lo

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spettro va sui due prismi HIK ed LMN che ricompongono lo spettro in modo da riavere, in G, luce bianca.

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Alcuni degli esperimenti di Newton per ricomporre la luce precedentemente separata nei suoi diversi colori. L'illustrazione proviene dall'Optiks.

Oltre a ciò, Newton inizia a capire in cosa consiste il colore degli oggetti illuminandoli con luce monocromatica: in queste condizioni gli oggetti perdono il loro colore e diventano oscuri. Solo quando sono illuminati dal particolare colore che non assorbono, allora manifestano il loro colore. Cerchiamo di capire: un oggetto è giallo perché assorbe tutti i colori meno il giallo che viene riflesso verso i nostri occhi. Se in una stanza buia illuminiamo questo oggetto con il blu, lo assorbe e noi vediamo l'oggetto scuro perché non abbiamo luce che dall'oggetto ci viene riflessa verso gli occhi. Solo quando inviamo del giallo sull'oggetto che normalmente vediamo giallo, poiché tale oggetto non assorbe questo colore ma lo riflette, noi lo vediamo e lo vediamo giallo.

L'intera teoria dei colori di Newton viene così riassunta dallo stesso Newton, nella New Theory about Light and Colors, in 13 punti:

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1.I raggi di luce differiscono tra di loro sia per gradi di rifrangibilità sia per la loro disposizione a mostrare questo o quel colore. I colori non sono né qualità dei corpi né modificazioni della luce, prodotte dalla rifrazione o riflessione, ma proprietà originarie e innate, diverse per ogni raggio diverso. 2. Allo stesso grado di rifrangibilità appartiene sempre lo stesso colore, e viceversa. Ad esempio, i raggi meno rifrangibili appaiono rossi, e i raggi che appaiono rossi sono tutti meno rifrangibili. La stessa cosa si dica per i più rifrangibili, che appaiono violetti, e per tutti gli altri gradi intermedi. 3. La specie del colore e il grado di rifrangibilità propri di un particolare genere di raggi non mutano né per rifrazione, né per riflessione. 4. Tuttavia mutazioni apparenti di colore si possono produrre quando esista una mescolanza qualsiasi di raggi di diverso genere. Infatti in queste mescolanze non appaiono i colori componenti, ma un colore intermedio. Perciò se per rifrazione o qualche altra causa i raggi difformi, latenti in tale mescolanza, fossero separati, emergerebbero colori differenti dal colore del composto. Questi colori non sono generati, ma resi manifesti dalla separazione, poiché se fossero di nuovo mescolati, comporrebbero quel colore che esibivano prima della separazione. Perciò i colori così composti non sono reali. Allo stesso modo, le polveri azzurre e gialle, finemente mescolate, appaiono a occhio nudo verdi, e tuttavia i colori dei corpuscoli componenti non sono realmente trasmutati, ma solo combinati. Infatti, osservati con un buon microscopio, appaiono ancora azzurri e gialli. 5. Esistono due generi di colori: gli uni, originati e semplici, gli altri composti di questi. I colori originar! o primari sono: il rosso, il giallo, il verde, l'azzurro e il violetto-porpora, insieme con l'arancione, l'indaco e un'indefinita varietà di gradazioni intermedie. 6. Per composizione si possono produrre anche colori con la stessa apparenza di quelli primari: infatti una mescolanza del giallo e dell'azzurro da il verde; del rosso e del giallo, l'arancione; dell'arancione e del giallo-verde, il giallo. 7. La composizione più sorprendente e meravigliosa è il bianco. Non c'è alcun genere di

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raggi che da solo lo possa mostrare. Esso è sempre composto, e per la sua composizione sono richiesti tutti i colori primari, mescolati in una proporzione data. 8. Il bianco è il colore consueto della luce, che è un confuso aggregato di raggi di ogni genere di colore. Se gli ingredienti si trovano nella proporzione corretta, è generato il bianco; ma se uno di essi predomina, la luce tende verso quel colore, come accade nella fiamma azzurra dello zolfo, in quella gialla della candela e nei vari colori delle stelle fisse. 9. Considerate queste cose, risulta evidente il modo in cui i colori sono prodotti dal prisma. Poiché i raggi della luce incidente differiscono nel colore in proporzione al loro grado di rifrangibilità, essi, sottoposti a rifrazioni differenti, sono separati e dispersi secondo una successione ordinata dallo scarlatto, il meno rifratto, al violetto, il più rifratto. 10. Risulta anche evidente perché appaiano i colori dell'arcobaleno nelle gocce cadenti di pioggia. 11. Non sono più enigmi gli strani fenomeni di certi corpi trasparenti che appaiono in una posizione di un colore diverso che in un'altra. Infatti queste sostanze sono atte a riflettere un genere di luce e a trasmetterne un altro. 12. Risulta anche manifesta la ragione di un altro esperimento sorprendente, riferito da Hooke. Due vaschette trasparenti, riempite l'una di un liquido azzurro e l'altra di uno rosso, poste una di fronte all'altra, diventano opache. Infatti se la prima trasmette solo il rosso, e l'altra solo l'azzurro, nessun raggio può attraversare entrambe. 13. [...] I colori di tutti i corpi naturali non hanno altra origine che la loro differente capacità di riflettere un genere di raggi in maggiore quantità di un altro.

Dopo questo lavoro che, come ho detto, si sovrapponeva alle Lectiones Opticae, Newton scrisse (1676) un'altra breve memoria sulla luce, divisa in due parti, An Hypothesis Explaining the Properties of Light Discoursed of in my Severall Papers (Un'ipotesi che spiega le proprietà della luce discusse in altri miei scritti). Questo lavoro nasceva per fermare un poco le violente critiche alla teoria

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emissionista che gli erano piovute da ogni ambiente scientifico (particolarmente da Hooke che riconosceva l'accuratezza ed eleganza degli esperimenti di Newton ma non condivideva il fatto che le conclusioni sulla luce dovessero essere tratte da tali esperimenti poiché la luce, per Hooke, restava un fenomeno ondulatorio). Egli tenta qui una via di compromesso tra emissione corpuscolare e vibrazione di un dato mezzo. La seconda parte della memoria, in cui discute argomenti che saranno inseriti nell'Optiks, non verrà pubblicata. Nella prima parte tratta invece di quel tormento che aveva introdotto Cartesio, l'etere. L'etere, a cui Newton ricorre malvolentieri, doveva avere essere della medesima costituzione dell'aria ma più rarefatto, sottile, elastico e con caratteristiche di non uniformità. Egli immagina dei corpuscoli in moto in un mare d'etere. Questi corpuscoli, come i sassi nell'acqua, devono provocare delle vibrazioni nell'etere quando si ha a che fare con i fenomeni di riflessione o rifrazione. Non vi è altro modo, secondo Newton, per spiegare quel fenomeno scoperto da Hooke e noto con il nome di anelli di Newton (facendo riflettere

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La lente AQ è poggiata sul vetro AR. Premendo la lente contro il vetro e guardando perpendicolarmente dall'alto si osservano degli anelli colorati alternati ad anelli scuri.

della luce bianca su di una lastra di vetro posta a contatto con una lente convessa di grande raggio di curvatura si originano degli anelli colorati, dovuti alla formazione di - come sappiamo oggi - frange di interferenza sulla lamina d'aria compresa fra lente e lastra di vetro). Sugli anelli Newton ritornerà nell'Optiks con la volontà di spiegare il fenomeno solo mediante riflessioni e rifrazioni. Nell'Optiks presenterà una figura come la seguente dalla quale sembra

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chiara la spiegazione che dà del fenomeno: tutti i raggi di luce AB attraversano la lastra di vetro NN', alcuni di essi (e ciò dipende dalla distanza esistente tra vetro e lente MM') riescono a passare indisturbati, con il normale processo di rifrazione, attraverso la lente, altri vengono invece riflessi dalla lente stessa e fuoriescono di nuovo dalla lastra di vetro. In definitiva, guardando dall'alto, si osserveranno sulla lastra di vetro gli anelli chiari (con vari colori) e scuri alternati.

Ma da dove era venuta a Newton l'idea di luce costituita da corpuscoli ? Proprio dal fatto che essa è scomponibile, cioè divisibile con un processo assimilabile alla materia che si divide e ci porta fino ai suoi ultimi costituenti, gli atomi (ed anche all'evoluzione del calcolo sublime, che iniziava proprio con Newton e Leibniz, basato sugli infinitesimi). Cosicché la luce è (almeno fino a questo momento) corporea e composta da particelle. Era un atteggiamento molto diffuso questo. Sullo sfondo vi era sempre l'aristotelismo con le sue qualità occulte e sembrava quasi che mettersi sulla strada dei componenti materiali salvaguardasse dal cadere in possibili confusioni. Inoltre le particelle permettevano di passare ad uno studio riduzionista dei fenomeni: si studiavano corpuscoli, i loro movimenti, si applicavano ad essi leggi meccaniche (la differenza di colore viene assegnata alla differenza di massa o dimensione tra i corpuscoli) e, da tutto questo, si risaliva alle proprietà di entità come la luce ma anche degli stessi corpi di cui sono intesi come costituenti. Si cercava, soprattutto da parte di Newton, di costringere la luce al calcolo e sembrava molto poca cosa l'applicazione della sola geometria ai raggi rettilinei. Newton doveva sentire molto questo problema se esplicitamente nelle Lectiones Opticae dice:

«Affinché non sembri che abbia oltrepassato i limiti del dovuto mentre mi accingo a trattare la natura dei colori, i quali si possono ritenere non attinenti per nulla alla

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matematica, non sarà inutile se ricorderò di nuovo la ragione di questo intento. Senza dubbio l'affinità tra le proprietà delle rifrazioni e quelle dei colori è così grande, che non si possono spiegare isolatamente. Chi voglia conoscere nel debito modo le 'une, è necessario che conosca le altre. E se non trattassi d'ora in poi delle rifrazioni, e la ricerca su di esse non fosse motivo per intraprendere insieme una spiegazione dei colori, tuttavia la generazione dei colori contiene tanta geometria, e la loro conoscenza è confermata con tanta evidenza, che proprio grazie ad essi potrei accingermi ad ampliare un poco i confini della matematica. Infatti allo stesso modo che l'Astronomia, la Geografia, la Navigazione, l'Ottica e la Meccanica sono ritenute scienze matematiche quantunque in esse si tratti di cose fisiche - ciclo, terra, navi, luce e moto locale - così anche se i colori appartengono alla fisica, tuttavia la loro scienza deve essere ritenuta matematica in quanto ricevono una spiegazione matematica. Anzi, poiché la scienza accurata di questi sembra essere tra le più difficili che un filosofo possa desiderare spero, quasi ad esempio, di mostrare quanto la matematica valga in filosofia naturale; e quindi di esortare i geometri ad accingersi ad un più stretto esame della natura, e gli amanti della scienza naturale ad appropriarsi prima della geometria: affinché i primi non sprechino totalmente il loro tempo in speculazioni in alcun modo utili alla vita umana, e i secondi, a lungo impegnati con un metodo inadeguato, non perdano ogni loro speranza per sempre: ma affinché filosofando i geometri ed esercitando la geometria i filosofi, otteniamo, al posto di congetture e cose probabili, che si smerciano ovunque, una scienza della natura finalmente confermata con la più alta evidenza».

E questo argomentare, ripreso anche alla fine dell'ultima memoria citata, è comprensibile se si pensa che dall'epoca di Galileo era stato fatto ben poco per ricondurre i diversi fenomeni fisici al calcolo e la luce, particolarmente, sembrava sfuggirvi.

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Newton comunque non sembra considerasse i corpuscoli come vere entità materiali ma solo delle ipotesi su cui esercitare la matematica. Egli è considerato corpuscolarista in quanto passò dalle entità geometriche raggi ad entità fisiche che si muovono lungo traiettorie ben definite, che possono essere chiamate corpuscoli (egli prima spezza il raggio di luce in tanti raggi paralleli e poi spezza ogni raggio così ottenuto in tanti segmentini). Già nel 1672 sosteneva:

«Ritengo che la luce sia una qualche entità o potere di un'entità (sia essa sostanza, o una qualche forza, azione, o qualità di essa) che procede direttamente da un corpo luminoso e che è capace di eccitare la vista: e ritengo che i raggi del sole ne siano la parte più piccola, o almeno le indefinitamente piccole parti di essa, che sono reciprocamente indipendenti, come sono tutti i raggi che i corpi luminosi emettono lungo linee rette, successivamente o contemporaneamente».

e sembra qui che le linee rette dei raggi siano in realtà le traiettorie lungo cui camminano i corpuscoli (nell'Optiks modificherà questa impostazione) anche perché le rette non camminano e Röemer ha mostrato che la luce invece lo fa. E' l'impatto di questi corpuscoli su delle superfici che provoca delle onde sia negli oggetti materiali che nell'etere (in analogia con il sasso nello stagno)

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Newton torna a parlare di fenomeni luminosi in alcune pagine dei Principi matematici di filosofia naturale (1687). Nello Scolio che segue la sezione XIV del Libro Primo, in cui ha trattato de Il moto dei corpi piccolissimi che sono mossi con forze centripete che tendono verso le diverse parti di un qualche corpo grande, ha trattato cioè di corpuscoli in moto che subiscono fenomeni di riflessione e rifrazione con i suoi metodi geometrici, egli riporta i discorsi meccanici che ha fatto, al problema della luce. Dice:

«Queste attrazioni non sono molto dissimili dalle riflessioni e rifrazioni della luce, effettuate secondo una data ragione delle secanti, come trovò Snell, e per conseguenza secondo una data ragione dei seni, come venne esposto da Cartesio. Infatti, che la luce sia propagata in tempi successivi e che per venire dal sole alla terra impieghi quasi sette od otto minuti primi, risulta ora dai fenomeni dei satelliti di Giove, ed è confermato dalle osservazioni di diversi astronomi Ma i raggi che sono nell'aria (come non da molto scoprì Grimaldi, fatta passare la luce attraverso un foro entro una camera scura, il che io stesso ho sperimentato) nel proprio passaggio accanto agli angoli di corpi od opachi o trasparenti (come sono gli orli rettangolari e circolari delle monete d'oro, d'argento e di ottone, e il filo dei coltelli, delle pietre o di vetri infranti) sono incurvati intorno ai corpi, come se ne fossero attratti; e quei raggi, che durante quel passaggio si accostano di più ai corpi vengono maggiormente incurvati, quasi fossero attratti di più, come io stesso ho accuratamente osservato. E quelli che passano a distanze maggiori sono meno incurvati e a distanze ancora maggiori sono alquanto incurvati verso parti opposte, e formano tre fasce di colori».

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Seguono qui due brevissime dimostrazioni e l'argomento luce ritorna solo nello Scolio della Sezione VIII del Libro II. Si parla in questa parte dei Principi di Propagazione del moto attraverso i fluidi e Newton offre subito la figura seguente:

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è un disegno relativo allo studio che Newton sta facendo di propagazione delle onde in relazione al loro periodo, alla loro lunghezza d'onda, alla loro velocità, all'elasticità e densità del mezzo in cui si

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propagano (tra l'altro, quando Newton scrive i Principi, già conosceva la trattazione ondulatoria della luce fatta da Huygens). Il fine della figura è mostrare l'impossibilità di ombre in una propagazione di tipo ondulatorio (ciò vuol dire che l'onda proveniente da A, dopo essere passata attraverso l'apertura BC fatta sull'ostacolo NK, va ad illuminare anche le zone che sono dietro l'ostacolo!). Ebbene dopo vari teoremi e conti in proposito, relativi a fenomeni macroscopici e meccanici, come nell'altro caso, nello Scolio finale Newton dice:

«Queste ultimissime proposizioni riguardano il moto della luce e dei suoni. Infatti, poiché la luce è propagata secondo linee rette, non può consistere di sola azione»

per il fatto che

«una pressione non si propaga in un fluido secondo linee rette, se non dove le particelle del fluido sono allineate»

e per il fatto che

«ogni movimento propagato in un fluido, diverge dalla traiettoria rettilinea verso le regioni immobili».

Insomma, sembra che Newton abbia in mano la teoria ondulatoria ... Ma vi è una cosa che va sottolineata negli scritti che ho riportato. Newton conosce la diffrazione di Grimaldi anche se non la chiama con il nome che lo stesso Grimaldi gli aveva dato (ed avrà sempre difficoltà a farlo, come dirò

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più oltre). Riconosce quindi la curvatura che i raggi subiscono nel passare vicino a degli ostacoli ma tale curvatura la assegnerà successivamente all'attrazione gravitazionale tra i corpuscoli di luce e la materia che costituisce l'ostacolo: la luce che passa nella parte centrale di un foro subisce uguale attrazione dai due bordi del foro e quindi mantiene immutato il suo cammino, quella che passa più vicina ad un bordo viene da esso deviata. E l'attrazione gioca in Newton un altro ruolo che lo porterà ad un altro errore: la luce viaggia più velocemente nei mezzi materiali perché occorre sommare alla sua velocità nel vuoto quella dovuta all'attrazione della massa materiale.

E veniamo ora all'opera in cui Newton raccoglie tutte le sue ricerche di ottica, l'Optiks del 1704. L'opera è d'interesse perché essa viene redatta quando già si conoscevano tutti i principali lavori di ottica che abbiamo citato e quello di Huygens che vedremo. E' quindi un'opera che afferma delle posizioni in alternativa a delle altre, anche se, in gran parte, raccoglie tutti i suoi scritti di ottica. Prima di iniziare a discutere di questo lavoro, accenno al fatto che Newton si serve qui di queries (questioni) che vanno distinte dalle ipotesi. Una query rappresentava un problema posto che sarebbe stato sottoposto a verifica sperimentale mentre un'ipotesi rappresentava la caratteristica di quel modo di fare filosofia che si accontentava di spiegazioni possibili. E l'opera va avanti proprio per questioni che poi si risolvono in esperimenti ed in elaborazioni matematiche o questioni che restano aperte per successive sperimentazioni.

La struttura dell'opera è simile a quella dei Principi. E' divisa in tre Libri: il primo si occupa della teoria della rifrazione e dei colori; il secondo alle osservazioni sulle riflessioni, le rifrazioni ed i colori dei corpi trasparenti sottili; il terzo alla diffrazione scoperta da Grimaldi (che Newton non chiama così ma "inflessione dei raggi" perché non vuole ampliare il numero dei modi possibili di trasmissione

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della luce oltre ai tre noti: direttamente, per riflessione, per rifrazione). Si inizia con delle definizioni alle quali seguono gli assiomi che rappresentano solo un riassunto di quanto si conosce sull'argomento e già acquisito. Vengono infine le proposizioni che vorrebbero essere delle affermazioni con carattere di osservazioni sperimentali alle quali, infatti, seguono vari esperimenti che Newton ha realizzato. Infine, dai risultati di tali esperienze vengono ricavate delle conclusioni di carattere generale che abbisognano a loro volta di verifica sperimentale. Per i quesiti in sospeso vi sono le questioni alle quali ho accennato.

La prima definizione è la seguente:

«Per raggi di luce intendo le sue parti minime, così quelle successive nelle medesime linee, come quelle contemporanee in linee diverse. Infatti la luce può esser composta di parti sia successive, sia contemporanee; in quanto che si può intercettare in un medesimo luogo quel tanto di luce che in un momento vi arriva, e lasciar passare quello che arriva nel momento successivo; analogamente in uno stesso istante si può intercettare della luce in un luogo qualunque e lasciarla passare in un altro luogo qualunque. Infatti quella parte di luce che viene intercettata non può essere quella stessa che puoi lasciar passare. La minima luce o la minima parte di luce, che da sola, senza la luce restante o può essere intercettata o da sola può propagarsi; o che può esercitare o subire qualche azione, che il resto della luce nello stesso tempo non esercita o non subisce; questa è quella che chiamo raggio di luce».

Newton dice qui che il raggio di luce non è la traiettoria della luce ma la minima parte di luce, una file:///C|/$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (73 of 215)28/02/2009 15.12.20

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specie di quanto come diremmo oggi.

La seconda definizione recita:

«La rifrangibilità dei raggi di luce è quella disposizione, per la quale sono atti, nel passare da un corpo trasparente, o mezzo, in un altro, a essere rifratti, ossia a essere deviati. E la maggior o minor rifrangibilità dei raggi è quella disposizione per cui sono atti a parità di incidenza sopra uno stesso mezzo, ad essere deviati più o meno. I matematici in generale si rappresentano essere i raggi di luce delle linee condotte dal corpo luminoso al corpo illuminato, e la rifrazione di questi raggi essere una flessione o una rottura di queste rette, nel passaggio da un mezzo ad un altro. Anche a proposito dei raggi e delle rifrazioni (come intese sopra) ciò si potrebbe dire, se la luce si propagasse in un istante. Però siccome dalle equazioni dei tempi delle ecclissi dei satelliti di Giove sembra doversi concludere che la luce si propaga in un certo intervallo di tempo, cosicché impiega circa sette minuti a venire dal Sole alla Terra; preferii definire così vagamente i raggi e le rifrazioni, affinché qualunque cosa si concludesse a proposito della propagazione della luce, tuttavia queste definizioni fossero vere e sicure da una parte o dall'altra».

Qui dice Newton che è proprio il fatto che la luce si propaga con un tempo definito a non farla più pensare con la continuità delle rette. Una cosa che viaggia deve avere un inizio ed una fine e non deve essere continuamente presente.

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La terza definizione è:

«La riflessibilità dei raggi è quella disposizione per cui sono atti, quando incidono sopra un mezzo qualunque, a essere rimandati dalla superficie del medesimo nuovamente nello stesso mezzo da cui provenivano. E sono raggi più o meno riflessibili quelli che sono riflessi più facilmente o più difficilmente. ...».

e qui ci si chiede il perché Newton assegni la proprietà della riflessione alla luce e non agli oggetti che la provocano. Comunque, a queste prime tre definizioni, ne seguono altre 5 piuttosto banali su angoli d'incidenza, di riflessione, di rifrazione, i loro seni, e il significato di alcune espressioni come "luce omogenea", "colori primari", "omogenei", "semplici". Seguono poi gli assiomi che, come accennato, elencano le conoscenze di ottica all'epoca. Su queste basi Newton inizia la sua trattazione di ottica che, in gran parte, è quella che abbiamo già discussa (solo che qui le esperienze e le misure sono molto più raffinate ed accurate). Si può riassumere il primo libro dell'Optiks con le parole di Ronchi:

«Progresso sperimentale definito e magnifico. I colori definitivamente strappati alla filosofia del vecchio stampo, oggettivati, definiti, ordinati, analizzati, sintetizzati; teoretizzati col modello della luce corspuscolare, gravitazionale, attribuendo massa diversa ai diversi colori.

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Il progresso sarebbe stato meraviglioso se non avesse lasciato alle spalle due posizioni pericolosissime; la maggior velocità della luce nei mezzi più densi [che Newton già aveva ammesso nelle sue dimostrazioni ottiche nei Principi, ndr]; la proporzionalità tra rifrangenza e dispersione».

Il libro secondo dell'Optiks mostra gravi difficoltà di Newton nello spiegare dei fenomeni mantenendo la sua concezione corpuscolare. Egli nel discutere gli anelli e quindi di problemi di diffrazione e di doppia rifrazione non è esauriente nel rispondere ai quesiti che via via sorgono e fa delle affermazioni che non vengono verificate sperimentalmente dando la netta sensazione di essere ipotesi ad hoc. Ad un certo punto afferma che i corpi riflettono e rifrangono in un certo modo eccetto i corpi grassi e solforosi: cosa sono e perché si comportano diversamente ? In altro punto afferma che i corpi più rifrangenti, esposti al Sole, si riscaldano di più di quelli meno rifrangenti. Dove lo ha provato ed a quali corpi si riferisce ? Newton, in altro luogo, esclude che la particella di luce abbia un'azione diretta nell'urto sulla materia, azione che invece è assegnata al corpo nella sua totalità, ed allora come mai la particella subisce a volta riflessioni ed a volta rifrazioni ? Sembrerebbe che sia la particella a scegliere (ogni raggio di luce acquista una certa costituzione o disposizione transitoria, Libro II, Parte III, Proposizione XII) ... ma se così fosse l'intero meccanismo costruito da Newton dove va a finire ? Insomma, da questo punto pare che l'intera teoria che Newton ha costruito gli stia sfuggendo di mano e Newton deve inventare ipotesi su ipotesi per andare avanti nelle spiegazioni dei fenomeni. Dice Ronchi:

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In tutte queste pagine si sente il ripiego, l'insufficienza, l'insoddisfazione dello stesso Autore. Se egli fosse stato schietto, avrebbe dovuto limitarsi a dire: Gli anelli impongono una periodicità; esiste la riflessione parziale della luce sulle superfìcie trasparenti; questo dice l'esperienza, ma la teoria corpuscolare non può spiegare tutto ciò con azioni ragionevoli tra la materia e i corpuscoli luminosi. Invece egli volle tentare un primo passo verso la teoria: quello del battesimo del fenomeno e di alcuni suoi elementi; così definì le «vices» e l'«intervallum vicium».

ed aggiunge che Newton fu anche sfortunato. Così come Grimaldi si era imbattuto nella diffrazione mentre cercava la luce materiale, ora Newton si trova a studiare l'interferenza mentre sta sistemando i suoi corpuscoli nella cornice riduzionista della gravitazione universale. E questo secondo libro chiude con una specie di compromesso che Newton fa tra la sua teoria corpuscolare ed una qualche teoria ondulatoria, particelle precedute da onde che predeterminano il futuro comportamento delle particelle stesse

«I raggi di luce incidendo su una superficie riflettente o rifrangente, eccitano vibrazioni nel mezzo riflettente o rifrangente ... le vibrazioni così eccitate si propagano nel mezzo riflettente o rifrangente, in modo analogo alle vibrazioni del suono nell'aria ... ; quando ciascun raggio è in quella parte della vibrazione che è favorevole al suo moto, si fa strada attraverso una superficie rifrangente, ma quando si trova nella parte contraria della vibrazione che impedisce il moto, è facilmente riflesso ...»

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ed anche, quando parla degli anelli che già ho discusso:

«...i raggi di luce sono, per una ragione o per l'altra, disposti alternativamente ad essere riflessi o rifratti per molte volte di seguito periodicamente ...».

E veniamo al libro terzo nel quale con alcuni esperimenti si tenta di spiegare la diffrazione di Grimaldi. Nella trattazione hanno ampio spazio le questioni alle quali ho accennato: appunti, domande ed osservazioni all'apparenza senza organicità in gran parte senza sperimentazioni, con risposte aperte, con molte contraddizioni, con incompiutezze ed affermazioni volutamente provvisorie. Sembra un catalogo o un promemoria per cose da fare, da studiare, da sperimentare. Viene fuori anche un Newton che, se con argomentazioni corrette aveva respinto la teoria ondulatoria di Hooke ed Huygens (in mancanza del concetto di interferenza la teoria ondulatoria era profondamente incompleta), allo stesso modo avanza una sorta di teoria delle ondulazioni (è difficile sapere se la luce è un'emissione di corpuscoli o se è solo un movimento astratto, una certa forza che si propaga da sé). E non si tratta di contraddizione ma di evoluzione di un pensiero che si scontra su fatti sperimentali che non rientrano più nel precedente quadro esplicativo. E Newton non abbandona una teoria esplicativa per un'altra ma semplicemente, di fronte all'indeterminatezza formale e logica delle teorie disponibili, accetta ciò che gli occorre da una teoria o da un'altra, a seconda di cosa gli serve ed ha davanti. Da qui discendono le

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presunte oscillazioni esplicative del nostro che mostrano, semmai, la sua apertura e spregiudicatezza. E proprio quest'ultima osservazione ci fa stupire del fatto che Newton, nella trattazione della diffrazione di Grimaldi (citato e quindi conosciuto) tenta la spiegazione con riflessioni e rifrazioni dimenticando quante esperienze proprio Grimaldi aveva dedicato al mostrare che non si poteva trattare di nessuno dei due fenomeni citati. E Newton ammette il suo fallimento quando dice:

«Facendo le osservazioni premesse, mi ero prefisso di ripeterne la maggior parte con maggior cura e di aggiungerne alcune altre in più; per esplorare infine in qual modo e con quale legge i raggi di luce si inflettono nel passare vicino agli orli di tutti i corpi, per formare quelle frange con delle linee nere intramezzate. Ma da questi studi allora per caso venni distratto; e ora non mi posso convincere a riprendere questi studi interrotti. Per cui, non avendo assolto questa parte del mio programma, concluderò soltanto proponendo alcuni Quesiti, coi quali altri, in seguito, possano venire indirizzati nel continuare questi studi»

dovranno essere cioè altri a cercare soluzioni e le questioni sono proprio una specie di testamento sul cosa studiare, sul cosa cercare, a quali questioni rispondere.

E' solo nella parte finale dell' Optiks, nelle Questioni 28, 29 e 30, che Newton avanza in forma completa, come ipotesi da investigare, la teoria corpuscolare della luce. E' superfluo notare che ogni ipotesi di Newton è legata ad una possibile, ma non definitiva e neanche tanto importante, spiegazione

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dei fatti sperimentali noti e via via osservati. Così, mentre l'ipotesi onda-particella, vista qualche riga più su, serviva a Newton per rendere conto e della colorazione delle lamine sottili e del fenomeno degli anelli, la teoria corpuscolare discendeva da una spiegazione che Newton tentava di dare della diffrazione. L'inflessione che un raggio di luce subisce quando passa, ad esempio, al di là di un forellino è interpretata (come già accennato) come risultato di forze attrattive o repulsive tra la materia costituente il corpo diffrangente ed il raggio luminoso (che per questo è pensato costituito da corpuscoli che, in quanto dotati di massa, subiscono l'azione delle forze attrattive o repulsive).

Quindi, il tentativo di spiegazione dei fenomeni di diffrazione unito al fatto che, secondo Newton, è impensabile una teoria che voglia la luce fatta di onde ("di pressioni") perché le onde ("le pressioni") " non possono propagarsi in un fluido in linea retta" poiché hanno la tendenza a sparpagliarsi dappertutto, porta il nostro alla formulazione (dubitativa) della teoria corpuscolare che si trova nella Questione 29 dell'Ottica, introdotta con queste parole;

«Non sono i raggi di luce corpuscoli molto piccoli emessi dagli oggetti luminosi ? Infatti questi corpuscoli passeranno attraverso i mezzi omogenei in linea retta senza essere piegati nelle zone d'ombra, com'è nella natura dei raggi di luce».

Newton passava quindi ad illustrare alcune proprietà degli ipotetici corpuscoli materiali affermando che essi agirebbero a distanza allo stesso modo dell'attrazione reciproca tra i corpi. I colori della luce ed i diversi gradi di rifrangibilità sono poi spiegati con l'ammissione che la luce bianca sia formata da corpuscoli di diversa grandezza (i più piccoli producono il viola ... e gli altri facendosi sempre più grandi, producono via via gli altri colori fino al rosso). Infine, con questa teoria, è possibile spiegare il fenomeno della doppia rifrazione che, come vedremo, Huygens non era riuscito a spiegare con la teoria ondulatoria (la spiegazione definitiva verrà con la scoperta di Fresnel della polarizzazione). In definitiva, in questo modo, la teoria della luce veniva ricondotta alla più vasta spiegazione che la gravitazione universale doveva fornire.

Una sola considerazione, prima di chiudere con Newton. E la traggo insieme a D'Agostino con le parole di Ronchi:

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A rigor di termini non si sa veramente dove e per merito di chi sia sorta quella teoria corpuscolare che per tutto il secolo decimottavo fu reputata soddisfacente ed anzi gloriosa. Forse perché la semplicità con cui il modello di Newton rendeva conto dei fenomeni elementari della luce (riflessione e rifrazione) che sono i più comuni e i più noti, nonché della genesi dei colori, deve aver conquistato la enorme maggioranza delle menti facendo restare nell'ombra le pericolose complicazioni della diffrazione e della doppia rifrazione, e confidando con serena aspettativa in un contributo successivo degli studiosi per trovare l'inquadratura anche di questi fenomeni nella teoria così gradita e accessibile.

Insomma la storia di Newton corpuscolarista è una leggenda alimentata dai newtoniani che come tutti i seguaci di grandi ingegni, li hanno sempre capiti molto poco.

HUYGENS

Nel 1691 vide la luce il Traitè de la lumière di Huygens(5). Ma l'opera era già stata fatta conoscere al momento della sua definitiva redazione, nel 1678. Nella Prefazione Huygens spiega il motivo dei 12 anni di ritardo nella pubblicazione: il breve trattato lo aveva scritto in un cattivo francese ed egli lo avrebbe voluto in un buon latino per poi inserirlo in una opera più completa (verrà pubblicato in latino nel 1728 con il titolo Tractatus de Lumine). Ci informa poi che il lavoro è rimasto lo stesso di quando lo ha scritto salvo alcune aggiunte: l’ipotesi sulla struttura dello spato d’Islanda e la scoperta della birifrangenza del quarzo.

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L'opera è ampiamente incompleta e lo stesso Huygens ce lo dice. Manca ogni discussione sui colori della luce e sugli oggetti colorati e, soprattutto, non si entra a discutere la natura della luce. Gli argomenti trattati sono: la propagazione della luce, la riflessione, la rifrazione, la rifrazione da parte dell'atmosfera, la rifrazione dello spato d'Islanda, questioni di ottica geometrica. Egli si mostra insoddisfatto di tutte le teorie sulla luce fino ad allora costruite soprattutto perché sono poco chiare su questioni come il cammino rettilineo della luce e sul fatto che raggi di supposte particelle non si disturbano incrociandosi.

Per Huygens la luce è movimento, solo un movimento può eccitare la visione. E poiché l'incontro tra due raggi di luce non origina disturbi, non è pensabile che la luce sia costituita da particelle. Piuttosto deve trattarsi di vibrazioni, allo stesso modo del suono. Quindi vibrazioni nel mezzo che sta in mezzo tra sorgente e ricevente e, ancora come nel suono, senza trasporto del mezzo interposto. E' allora ad onde longitudinali, quelle caratteristiche del suono (la vibrazione si ha nella direzione di propagazione dell'onda), che pensa Huygens. Il suono poi cammina con velocità finita nell'aria, allo stesso modo della luce, come ha mostrato Röemer. Ma in quegli anni si era scoperto anche che, mentre la luce continua a muoversi in un ambiente in cui si era fatto il vuoto, lo stesso non accade per il suono (Boyle, 1660). E' qui che subentra l'etere, questa sostanza che deve riempire l'intero universo, compenetrare di sé ogni sostanza ed essere tanto sottile da sfuggire all'aspirazione della pompa da vuoto. Ma, contemporaneamente ed ancora in analogia con il suono che si propaga meglio in mezzi più densi, l'etere deve essere uniformemente molto elastico e quindi ad elevatissima durezza per permettere le elevate velocità della luce(6), e la cosa non è ulteriormente indagata anche se misteriosa.

Huygens passa quindi a discutere delle sorgenti di luce (radiazione) e del modo di propagazione della medesima. Inizia con un disegno famoso che riporto:

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Secondo Huygens da ogni punto di una sorgente luminosa si dipartono delle onde sferiche longitudinali:

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«Ogni punto di un corpo luminoso, come il Sole, una candela o un carbone ardente, emette onde il cui centro è proprio quel punto ...; i cerchi concentrici descritti intorno ad ognuno di questi punti rappresentano le onde che si generano da essi ... Quello che a prima vista può sembrare molto strano e addirittura incredibile è che le onde prodotte mediante movimenti e corpuscoli cosi piccoli possano estendersi a distanze tanto grandi, come, per esempio, dal Sole o dalle stelle fino a noi ...».

Come è allora possibile che avvenga ciò ?

«Cessiamo però di meravigliarci se teniamo conto che ad una grande distanza dal corpo luminoso una infinità di onde, comunque originate da differenti punti di questo corpo, si uniscono in modo da formare macroscopicamente una sola onda che, conseguentemente, deve avere abbastanza forza, per farsi sentire».

Possiamo riconoscere in queste poche righe la formulazione della teoria ondulatoria fino al principio di Huygens o dell'inviluppo delle onde elementari. Lo stesso Huygens illustra questo principio con la figura seguente:

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e dice:

«se DCEF è una onda emessa dal punto luminoso A, che è il suo centro, la particella B, una di quelle che si trovano all'interno della sfera delimitata da DCEF, avrà fatto la sua onda elementare KCL che toccherà l'onda DCEF in C, allo stesso momento in cui l'onda principale, emessa da A, raggiunge DCEF; è chiaro che l'unico punto dell'onda KCL che toccherà l'onda DCEF è C che si trova sulla retta passante per AB. Allo stesso modo le altre particelle che si trovano all'interno della sfera delimitata da DCEF, come quelle indicate con b e con d, avranno fatto ciascuna una propria onda. Ognuna di queste onde potrà però essere solo infinitamente debole rispetto all'onda DCEF, alla cui composizione contribuiscono tutte le altre con la parte della loro superficie che è più distante dal centro A».

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Quanto ora detto può essere riassunto da quanto già sappiamo e cioè che ogni punto in cui arriva una vibrazione diventa esso stesso centro di nuove vibrazioni (onde sferiche); l'inviluppo di un gran numero di onde elementari, originate in questo modo, origina un nuovo fronte d'onda, con centro la sorgente, molto più intensa, delle onde elementari che la compongono (principio di sovrapposizione o di Huygens). Huygens proseguiva affermando che con questo modo di intendere le cose, e con l'ammissione di minore velocità della luce nei mezzi più densi, si spiegherebbero tutti i fenomeni ottici conosciuti passando poi a dare le dimostrazioni delle leggi della riflessione, della rifrazione, della doppia rifrazione e della propagazione rettilinea della luce.

Huygens inizia con la riflessione offrendoci questo disegno:

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La radiazione luminosa proviene dalla sinistra ed è rappresentata dal fronte d'onda AHHHC, che è una parte di retta, in quanto la curvatura di un'onda sferica con raggio infinito è nulla. L'onda va ad

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incidere sulla superficie AKKKB. Il primo punto dell'onda che si riflette è A e via via lo fanno tutti gli altri (ogni punto del fronte d'onda, al momento della riflessione, diventa sorgente di una onda elementare). In figura è riportata solo la riflessione di A che, da quel punto, ritorna ad essere un'onda sferica. Ciò vale per tutti gli altri punti del fronte d'onda che, dopo essersi riflessi (ed essere tornati onde sferiche) ricostituiscono l'inviluppo che origina il fronte d'onda BN.

Il disegno per la rifrazione è invece il seguente:

e, con ragionamento analogo a quello di prima, il fronte AHHHC, proveniente dalla sinistra, inizia a rifrangersi prima con il punto A e via via con tutti gli altri, finché non si ricostituisce il fronte d'onda BN.

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Le leggi che vengono trovate sono le stesse che si avevano nel caso corpuscolare, come dimostrerò con linguaggio moderno nel paragrafo seguente. Ora basta dire che Huygens dimostra, alla fine del capitolo dedicato alla rifrazione, che il principio di Fermat (la luce impiega il tempo più breve per andare da un punto ad un altro) è in accordo con la sua rifrazione di onde.

Quando passava però a dare una spiegazione dei fenomeni che oggi si spiegano con la polarizzazione egli, molto semplicemente, affermava che non gli era stato possibile trovare nulla che lo soddisfacesse. Riguardo poi alla natura di queste onde ed al loro modo di propagazione, Huygens diceva:

«Nella propagazione di queste onde bisogna considerare ancora che ogni particella di materia da cui un'onda si diparte, deve comunicare il suo movimento non solo alla particella vicina ..., ma lo trasmette anche a tutte quelle altre che la toccano e si oppongono al suo moto».

E questa è una chiara enunciazione di quella che sarà la più grande difficoltà dell'ottica ondulatoria fino a Maxwell: il fatto che le onde luminose risultavano onde di pressione e quindi longitudinali. L'ammissione, inevitabile, di onde longitudinali e non trasversali impediva di pensare a qualsiasi fenomeno di polarizzazione (e quindi questa difficoltà era alla base di quanto Huygens confessava di non saper spiegare). Questo punto era ben presente a Newton che nell'Optiks lo cita e ne tenta una spiegazione ammettendo che i raggi di luce abbiano dei «lati» ciascuno dei quali dotato di particolari proprietà. Se infatti si va ad interpretare un fenomeno di polarizzazione mediante onde longitudinali, non se ne cava nulla poiché "queste onde sono uguali da tutte le parti". E' necessario dunque ammettere che ci sia una "differenza ... nella posizione dei lati della luce rispetto ai piani di rifrazione perpendicolare." Come già accennato solo la natura trasversale delle onde elettromagnetiche avrebbe potuto rendere conto, fino in fondo, dei fenomeni di polarizzazione.

C'è un altro aspetto che differenzia radicalmente la teoria ondulatoria da quella corpuscolare e riguarda la spiegazione del fenomeno di rifrazione (nel passaggio, ad esempio, da un

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mezzo meno ad uno più denso): come accennato, nella teoria ondulatoria occorre ammettere che la velocità della luce sia minore nei mezzi più densi.

Anche questo quindi diventava un elemento cruciale per decidere sulla maggiore o minore falsicabilità di una teoria. Se si fosse riusciti a determinare la velocità della luce in mezzi di diversa densità si sarebbe stati in grado di decidere quale teoria fosse più vera.

Huygens offre certamente molte novità ed lacune di estremo interesse passibili di grandi sviluppi nell'Ottocento. Ma tutta la costruzione resta deludente. Si tratta di mere deduzioni, non c'è l'accuratezza di Newton nel fare esperienze su esperienze. Non si capisce poi perché ci si fermi proprio dove la teoria ondulatoria avrebbe potuto dare il meglio di sé, nella diffrazione che non viene toccata.

LE DUE TEORIE DELLA LUCE NELLA SPIEGAZIONE DI RIFLESSIONE E RIFRAZIONE

Usciamo ora da ricostruzioni con attinenze alla storia e diamo una derivazione analitica dei fenomeni di riflessione e rifrazione nelle due teorie. Farò una trattazione matematica a livello liceale, senza introduzione dell'analisi.

Teoria corpuscolare: Riflessione

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Riferiamoci alla figura. Consideriamo nel punto A un corpuscolo di luce, emesso dalla sorgente S, di massa m e velocità v. Il corpuscolo andrà ad urtare, con un angolo i di incidenza, lo specchio NN' in C, dove si rifletterà verso D. Le particelle di luce vengono deviate dal loro moto rettilineo uniforme quando urtano elasticamente contro lo specchio; come conseguenza del principio d'inerzia, alla superficie dello specchio deve agire una forza che provoca tale deviazione e questa forza deve essere diretta secondo la perpendicolare n a tale superficie (ha quindi solo una componente verticale, mancando quella tangenziale alla superficie). Ricordando che la quantità di moto si conserva quando la risultante delle forze esterne è nulla, solo la componente orizzontale della quantità di moto dovrà conservarsi. Dovrà cioè risultare:

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poiché m è la stessa in ambedue i membri e che la luce in uno stesso mezzo viaggia sempre alla stessa velocità, di modo che:

si dovrà avere:

da cui la legge della riflessione:

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Teoria corpuscolare: Rifrazione

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Anche qui riferiamoci alla figura. Siamo nelle ipotesi della teoria corpuscolare, per cui alla velocità v1

del corpuscolo incidente occorre sommare la velocità v che il corpuscolo acquisisce per l'accelerazione che gli dà l'attrazione del mezzo più denso. In definitiva la velocità risultante del corpuscolo nel mezzo più denso (quello sotto la linea di separazione NN') è vettorialmente:

Tenendo ora presente che l'angolo formato tra i vettori v e v1 è uguale all'angolo di incidenza i,

applicando il teorema dei seni al triangolo OAB, si trova:

Ora, sperimentalmente, risulta che l'indice di rifrazione nel passaggio da un mezzo meno ad uno più denso è sempre maggiore di 1. Ciò vuol dire che nel rapporto tra velocità che abbiamo trovato, quella che compare al numeratore deve essere maggiore di quella del denominatore, cioè che v2 > v1, cioè

che la velocità della luce in un mezzo più denso è maggiore, in accordo con le premesse teoriche.

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Teoria ondulatoria: Riflessione

Questa, come la prossima, sono figure semplificate rispetto a quelle proposte da Huygens. Vediamo cosa accade.

Il punto A del fronte d'onda inizia ad emettere onde riflesse mentre B continua ad andare verso

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B1. Quando B giunge a B1 , il punto A sarà arrivato in A1. Si avrà quindi BB1 = AA1 (la luce si

propaga nello stesso mezzo e quindi mantiene la stessa velocità). Lo stesso avviene per gli altri raggi ed in particolare sarà C'C1 = B'B1 .

In definitiva A1B1C1 costituisce il fronte d'onda riflessa ricostituitosi.

Consideriamo ora i due triangoli AB1B ed A1AB1. Essi sono uguali per il primo criterio poiché

hanno due lati e l'angolo compreso uguale (l'angolo in B uguale all'angolo in A perché retti; il lato AB1 in comune; AA1 = BB1). Segue allora che l'angolo A1AB1 = BB1A e ciò vuol dire che fascio

incidente e fascio riflesso sono ugualmente inclinati su LM. E ciò vuol dire che gli angoli i ed r sono uguali, che era ciò che volevamo dimostrare.

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Teoria ondulatoria: Rifrazione

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Quando il fronte d'onda ACB giunge in A, il punto A comincia a rifrangere emettendo un'onda sferica, mentre B continua indisturbato a viaggiare versoB1. Il raggio dell'onda sferica emessa da A cresce per

tutto il tempo che impiega B per andare a B1, tempo dato da:

Passato questo tempo il raggio dell'onda emesso da A sarà diventato:

Il punto C del fronte d'onda arriverà in C' nel tempo:

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allora, mentre A giunge in A1, l'onda sferica elementare emessa da C' avrà un raggio dato da:

Dalla similitudine dei triangoli ABB1 e ACC' si ricava:

Da questa proporzione, applicando la regola dello scomponendo, si trova:

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Ritornando ora alle (1) e (2) e mettendole a sistema, si trova:

Basta confrontare le (3) e (4) per ricavare:

E questa relazione significa che i triangoli AA1B1 e C'C1B1 sono simili. Di conseguenza, in figura, i

punti A1, C1 e B1 sono allineati. Quindi l'onda rifratta è ancora un'onda piana.

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Osservando la figura e ricordando le relazioni sui triangoli rettangoli, risulta:

da cui si ricava:

Ricordando ora la (1):

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ma poiché n1,2 è sperimentalmente maggiore di 1, dovrà risultare che v1 è maggiore di v2, cioè che la

velocità della luce è minore nei mezzi più densi.

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A questo punto, anche analiticamente si vede che le due teorie della luce, la corpuscolare l'ondulatoria, forniscono le stesse leggi per la riflessione e la rifrazione. La differenza sostanziale è che nella teoria corpuscolare si deve ammettere la luce viaggiare più velocemente nei mezzi più densi, contrariamente alla teoria ondulatoria.

Vi è ancora l'opportunità di una esperienza cruciale: misurando la velocità della luce in mezzi densi si potrà stabilire quale tra le due teorie è più corretta.

Ma, oltre a ciò, rimanevano scoperte le spiegazioni di molti e più vari fenomeni come quelli di tipo diffrazione, come la doppia rifrazione dello spato d'Islanda ed altri ancora da scoprire (interferenza). Vedremo come sono andate le cose nel prossimo capitolo.

CAPITOLO IV

DA FRESNEL A MAXWELLfile:///C|/$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (102 of 215)28/02/2009 15.12.20

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Il Settecento è un secolo di esaltazione della scienza ed è il secolo in cui si fa di meno in campo scientifico. Tutti gli storici concordano sul fatto che la perfezione e l'apparente esaustività dei lavori di Newton avevano creato una sorta di soggezione che impediva l'avvicinamento alla ricerca e produzione scientifica. Ciò mostra quanto siano più utili lavori che abbiano dentro di sé importanti indeterminatezze logiche come, ad esempio, quelli di Maxwell.

Durante la prima metà del secolo vi fu un notevole calo di sforzi e di interesse per la scienza pura ed applicata; il periodo che va dalla fine del Seicento alla prima metà del Settecento, al confronto con quelli immediatamente precedente e seguente, risultò particolarmente sterile. Fu proprio la ripresa della borghesia, dopo la stasi che si ebbe agli inizi del '700 in seguito a grossi crolli economici e successive risistemazioni sia in campo agricolo che industriale, che ridette, a partire appunto dalla metà del secolo, nuovo slancio alla ricerca scientifica. In tale periodo la scienza visse di rendita, organizzando, sistemando ed elaborando quanto era stato precedentemente sviluppato, senza avere alcun legame con il mondo della produzione (al contrario di quanto era accaduto nel secolo precedente in cui qualche legame vi era pur stato). In questo senso Newton fu una miniera inesauribile cui attingere ma, per altri versi, la sua grandezza risultò un 'handicap': il suo sistema risultava cosi apparentemente perfetto da scoraggiare i più a criticarlo ed a superarlo (i progressi che nella ricerca si fecero durante il '700 furono in gran parte in settori che Newton aveva appena toccato o non aveva trattato per niente). Il successivo balzo in avanti della borghesia dette nuovo slancio alla ricerca scientifica che, viste le peculiari situazioni politico-economiche, particolarmente della Gran Bretagna in confronto al continente, si sviluppò su strade e metodologie di carattere nazionale.

In Inghilterra presto si impose la fisica newtoniana che, in connessione con la filosofia di Locke, rappresentò un notevole avanzamento rispetto al razionalismo cartesiano e all' induttivismo baconiano. L'esigenza costante era quella di fondare ogni conoscenza scientifica su una solida base sperimentale

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ed i filosofi naturali a questo si dedicarono tralasciando per lungo tempo ogni aspetto immediatamente applicativo della ricerca scientifica. In ogni caso l'attività pratica dell'uomo veniva tenuta in grande considerazione, fatto che è proprio dell'ideologia borghese. Ci si liberò subito dei residui metafisici presenti nell'opera di Newton del quale si prende a modello essenzialmente l'Optiks per lo sviluppo di modelli meccanici basati su corpuscoli o su fluidi meccanici. Il processo di 'laicizzazione' della scienza si portava a compimento con la scomparsa di Dio dalla spiegazione dei fatti naturali.

Ben diversa è la situazione nel resto dell'Europa continentale.

In Francia i filosofi naturali si occupavano essenzialmente di scienza pura. Soprattutto nella prima metà del secolo, l'eredità del razionalismo cartesiano, faceva discutere della concezione del mondo, delle dottrine della Chiesa e della struttura dello Stato. Nel clima politico che ho precedentemente delineato ed in questa prospettiva culturale si inseriva la diffusione dell'Illuminismo.

La nuova e grande fiducia nelle possibilità dell'uomo nasceva certamente dai grandi successi che, nel secolo precedente, la filosofia naturale aveva conseguito. Ed il massimo sintetizzatore di quei successi e di quella filosofia naturale era proprio Newton che ora si ergeva a modello da imitare. Per quel che riguarda la luce, in linea con tutti gli altri campi della ricerca fisica, i newtoniani decidono che Newton era un corpuscolarista e pertanto è la teoria corpuscolare della luce che trionfa (anche se coloro che portarono avanti queste idee abbandonarono l'altro punto che qualificava la teoria corpuscolare di Newton: il fatto cioè che il moto dei corpuscoli costituenti la luce originasse vibrazioni di un ipotetico etere). Questa scelta ha anche una giustificazione pratica di primo piano ed è che la teoria corpuscolare spiegava più cose di quella ondulatoria; in particolare era molto più immediato con la prima teoria intendere la propagazione rettilinea della luce che con la seconda risultava piuttosto confusa (e, come abbiamo visto, non soddisfaceva neppure Huygens).

Con l'uso dei metodi scientifici indicati da Newton sarebbe stato possibile sbarazzarsi dei residui scolastici e metafisici presenti in Descartes ed in Leibniz. D'altra parte le filosofie cartesiana e leibniziana rispondevano bene agli interessi di chi manteneva vecchi privilegi e pertanto, da questi ultimi, erano state accettate e rese funzionali al loro sistema di potere. La lotta quindi contro il

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cartesianesimo ed il leibnizianesimo, per l'affermazione della filosofia di Newton, aveva in sé una grande carica rivoluzionaria e si configurava come lotta di potere con l’illusione che, di per sé, l'affermazione del newtonianesimo avrebbe comportato quella di nuove classi sociali (la borghesia).

Per quanto ci occupa occorre dire che non vi furono progressi di rilievo se non il perfezionamento degli strumenti ottici (introduzione di lenti acromatiche, telescopi più grandi, fotometri, ...). Per gran parte del secolo si svilupperà la polemica tra i sostenitori della teoria ondulatoria e della teoria corpuscolare elaborata. In particolare Euler criticherà la posizione newtoniana (1762) contrariamente a Priestley che invece la difenderà (l772) sostenendo che le particelle di luce sono tanto piccole da poter penetrare la materia.

Euler dimostra che rifrangenza e dispersione non sono proporzionali e che pertanto era possibile acromatizzare gli obiettivi mediante opportuna combinazione di due lenti di vetro diverso.

Quell'inconveniente dovuto alla diversa natura dei raggi che anche al sommo Newton sembrò così grave da giudicare impossibile assolutamente il liberarne gli strumenti diottrici, ormai è certo che si può facilmente eliminare, almeno per quanto riguarda il margine iridato, cui specialmente Newton si riferiva; cosicché almeno per questa causa non vi è più ragione di ricorrere ai telescopi catottrici". (Euler, Diopticae, 1769)

Euler aveva ripreso anche la teoria ondulatoria e vi aveva inserito il concetto di Grimaldi che i colori fossero dovuti alla diversa lunghezza d'onda delle ondulazioni.

Effettivamente il fatto che la dispersione non era proporzionale alla rifrangenza, ossia che la variazione dell'attrazione dei raggi di vario colore non era una funzione caratteristica dei raggi stessi, ma era anche una funzione complicata della composizione chimica (e non della sola massa) della materia attraente, metteva sul tappeto un'altra difficoltà grave per la teoria corpuscolare. Ma questo argomento era troppo sottile per il grosso pubblico.

Anche se non strettamente pertinente merita di essere trattata una grande scoperta astronomica

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che fece Bradley perché da essa prese spunto poi una possibile idea per misurare la velocità della luce in mezzi diversi, fatto che, come si ricorderà, sarebbe stato di grande interesse per dirimere quale teoria della luce fosse più corretta.

L'ABERRAZIONE STELLARE (BRADLEY 1728)

Bradley, osservando la stella 'gamma del Dragone' in differenti periodi dell'anno, notò strane ed inspiegabili variazioni nella posizione dell'astro. Successivamente indirizzò la sua attenzione su altre stelle e sempre poté osservare variazioni di posizione della stessa stella in differenti periodi dell'anno; qualunque stella si osservasse, soprattutto se in posizione sensibilmente perpendicolare al piano dell'eclittica, sembrava descrivere sulla volta celeste una specie di piccola ellissi come mostrato in figura.

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In figura è rappresentato il Sole S con l'orbita della Terra (due posizioni diametralmente opposte di essa sono indicate con T1 e T2). Nella circonferenza grande sono riportate delle stelle che fanno da sfondo ad una qualunque osservazione

di un'altra stella.

La prima cosa che poteva venire in mente era che si trattasse di un fenomeno di parallasse stellare. Tale fenomeno si ha quando, osservando le stelle da posizioni diametralmente opposte dell'orbita della Terra intorno al Sole, si vedono proiettate sulla volta celeste in posizioni, anche se di poco, diverse. L'angolo sotto cui si vede la stella, a sei mesi di distanza, è l'angolo P di parallasse . E' evidente che P varia al variare della distanza della stella dalla

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Terra. Si noti che le osservazioni delle stelle venivano fatte, all'epoca, proprio per trovare la parallasse stellare da cui dedurre il moto della Terra intorno al Sole.

Bradley notò che la modificazione delle posizioni apparenti riguarda tutte le stelle; quando è trascorso un anno tutte le stelle vengono osservate di nuovo nella posizione che occupavano un anno prima; l'ampiezza degli spostamenti di tutte le stelle è la stessa (fatto in contrasto con la spiegazione mediante la parallasse poiché, in questo caso, si dovrebbe concludere che tutte le stelle si trovano alla stessa distanza dalla Terra); il fenomeno è analogo alla parallasse ma, rispetto a quello, è in ritardo di sei mesi; gli spostamenti osservati hanno direzioni diverse da quelle che in caso di parallasse si

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sarebbero dovute avere (nella direzione della congiungente Sole-Terra) e cioè gli spostamenti osservati risultano nella direzione del moto della Terra (che è perpendicolare alla congiungente Sole-Terra).

Bradley riuscì a dare una spiegazione di ciò risalendo alla composizione della velocità della Terra nella sua orbita con quella della luce proveniente dalla stella osservata. Si osservi che alla base di questa spiegazione vi sono due ipotesi fondamentali: a) la Terra si muove intorno al Sole; b) la luce si muove con velocità c finita. Cerchiamo di capire il fenomeno riferendoci ad una immagine che certamente tutti conosciamo. Quando piove (in una giornata senza vento) la pioggia cade perpendicolarmente al suolo. Se aspettiamo un autobus terremo l'ombrello in modo che la sua asta rimanga ben parallela al nostro corpo. Quando quest'asta risulta inclinata ci bagniamo. Supponiamo ora di dover correre per prendere l'autobus. Come disponiamo l'ombrello ? Certamente tutti, per esperienza, sapranno che, rispetto al nostro corpo, l'ombrello deve essere inclinato nella direzione del moto; e questo perché a chi corre sembra che la pioggia non cada più perpendicolarmente sulla Terra ma obliquamente, come se arrivasse sul suo corpo partendo da una posizione situata davanti a lui. In questo caso si compongono la velocità della pioggia e la nostra, ed essendo queste l'una perpendicolare all'altra, la risultante è obliqua (l'inclinazione della risultante dipende evidentemente dalle velocità relative della pioggia e nostre: più corriamo e più dobbiamo inclinare l'ombrello).

Nel caso dell'aberrazione stellare si hanno attori diversi ma la rappresentazione è la stessa; in questo caso scambiamo la velocità di caduta della pioggia con la velocità della luce e la nostra velocità con la velocità della Terra intorno al Sole.

Ed allora supponiamo di voler osservare una stella (che per semplicità supponiamo in direzione perpendicolare al piano dell'eclittica). Se la Terra fosse ferma dovremmo puntare il telescopio verso l'alto, sulla stella, proprio in direzione parallela alla congiungente la stella con noi (figura a). Viceversa,

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Figura 16

considerando la Terra in moto, se mantenessimo il telescopio in direzione verticale accadrebbe che un raggio di luce , arrivato all'obiettivo A del telescopio, non riuscirebbe a raggiungere l'oculare O dello stesso poiché, nel tempo che la luce impiegherebbe a percorrere il tratto AO, la Terra si e' spostata (nella sua orbita intorno al Sole) di un tratto ∆s. In questo modo la luce proveniente dalla stella, entrata in A, andrebbe a finire su una parete laterale del telescopio, senza raggiungere O, poiché O, nell'istante in cui il raggio sarebbe dovuto giungervi, si trova in O' (figura b).

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In definitiva il telescopio deve essere posto in modo da formare un (piccolo) angolo α con la perpendicolare alla direzione lungo cui cammina la Terra (figura c); ed in questo modo la stella ci apparirà nella direzione OS', pur trovandosi nella direzione OS (il fenomeno dell'aberrazione stellare consiste proprio in una deviazione apparente della posizione delle stelle dal lato verso cui marcia la Terra). La situazione all'interno del telescopio è descritta dalla figura d. Se chiamiamo con c la velocità della luce, con v la velocità della Terra (nella sua orbita intorno al Sole), con ∆t il tempo impiegato dalla luce a percorrere il tratto d di figura (lunghezza del telescopio), avremo che d = c.∆t e ∆s = v.∆t (nello stesso tempo impiegato dalla luce a percorrere il tratto d, la Terra ha percorso il tratto ∆s).

In definitiva, mediante una nota relazione trigonometrica, si trova:

tg α = ∆s/d = v.∆t/c.∆t = v/c

Data allora v = 30 Km/sec e ricavato sperimentalmente d ≈ 20'', si risale facilmente a c:

c = v/tg α

Ad un valore di α molto piccolo corrisponde un valore molto piccolo di tg α e, conseguentemente un valore di c molto grande. Dato che tg 20 '' ≈ 1/10000, si trova:

c = 300 .000 Km/sec.

A questo punto Bradley, scoperta l'aberrazione, pensò di separarne l'effetto dalle successive osservazioni per cercare di trovare quella prova che accora mancava del moto della Terra intorno al Sole, la famosa parallasse. Niente da fare, la parallasse non si osservava. Oggi sappiamo che l'impresa era impossibile nel 1727: gli strumenti a disposizione di Bradley permettevano di apprezzare il secondo di grado e ciò non bastava. Solo nel 1838 fu possibile osservare la parallasse stellare ad opera, indipendentemente, di F. W. Bessel e di F. W. Struve, che risultò dell'ordine di un secondo di grado su una distanza di circa tre anni e mezzo luce.

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Veniamo a questo punto all'interesse di questa scoperta di Brtadley per quel che riguarda le teorie della luce che avevo annunciato. Nel 1766 Boscovich, in una lettera a Lalande, sostenne che usando il metodo di Bradley sarebbe stato possibile misurare la velocità della luce nell'acqua semplicemente riempiendo il telescopio d'acqua.

Fresnel, studiata l'esperienza, ne predisse l'impossibilità a seguito del fatto che l'angolo che il telescopio forma con la normale al punto d'osservazione è indipendente dal fluido contenuto in esso a causa della rifrazione della luce al suo entrare in questo fluido. Ciò significa che l'aberrazione è indipendente dalla natura del mezzo rifrangente contenuto nel telescopio e che la rifrazione della luce non e' modificata in un movimento rispetto all'etere.

L'esperienza proposta da Boscovich fu poi eseguita, con grande precisione da G.B. Airy tra il 1871 ed il 1872. I risultati furono sempre negativi confermando le previsioni di Fresnel.

L'INTERFERENZA (YOUNG 1802)

Proprio agli inizi dell'Ottocento un giovane medico britannico scoprì un fenomeno incredibile; luce sommata a luce, in alcune circostanze, origina buio! E' il fenomeno dell'interferenza che fu scoperto nel 1802 da Thomas Young. Egli dice che il modo più semplice di provocare interferenza è

" quando un raggio di luce omogenea [oggi diremmo: monocromatica, ndr] cade sopra uno schermo su cui sono stati praticati due piccoli fori o fenditure, che si possono considerare come centri di divergenza, dai quali la luce è diffratta in tutte le direzioni. In questo caso, quando i due raggi, nuovamente formatisi, vanno ad essere intercettati su una superficie interposta lungo il loro cammino, la loro luce risulterà suddivisa da bande scure in porzioni approssimatamente uguali."

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Anche Young si serviva di modelli meccanici e quello a cui egli si rifaceva, per dar ragione di quanto avviene nell'ipotesi ondulatoria, è quello delle onde di acqua in uno stagno. Se due serie uguali di onde, provocate sulla superficie dell'acqua in punti a distanza opportuna, si incontrano, accadrà, egli osservava, che andranno a combinarsi in qualche modo. In ogni punto della superficie dell'acqua lo stato vibratorio risultante dipenderà dal modo in cui vanno a sommarsi o a sottrarsi gli effetti delle onde sovrapposte. E così, se le onde andranno a sommarsi, sovrapponendosi in concordanza di fase esse origineranno un'onda più grande delle due componenti prese separatamente; al contrario, se esse andranno ad incontrarsi in opposizione di fase, si distruggeranno l'un l'altra in modo da originare un'onda nulla (acqua immobile).

Conseguentemente, il principio d'interferenza per la luce era così enunciato:

"Quando due parti di una stessa luce raggiungono l'occhio seguendo due diversi percorsi di direzioni molto vicine, l'intensità è massima quando la differenza dei cammini percorsi è un multiplo di una certa lunghezza; essa è minima per lo stato intermedio."

La figura che segue fa vedere il modo con cui Young ottenne interferenza con luce rossa:

Un fascio di file:///C|/$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (113 of 215)28/02/2009 15.12.20

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luce monocromatica rossa (resa tale da un filtro di vetro rubino) attraversa un primo diaframma con una sottile fenditura ed un secondo diaframma con due sottili, vicine e parallele fenditure che si comportano come due sorgenti.

Sullo schermo si producono bande illuminate chiare alternate da bande oscure. Figura tratta da A. De Marco - Fisica 2 - Poseidonia 1977.

A questo punto Young passava, a calcolarsi la lunghezza d'onda dei vari colori costituenti la luce(2) ed a spiegare con la teoria ondulatoria i diversi fenomeni ottici conosciuti.

Anche qui egli incontrò grande difficoltà a rendere conto della propagazione rettilinea della luce: ma la difficoltà insormontabile restava sempre quella della spiegazione tramite la teoria ondulatoria ed usando di onde longitudinali (che anche Young, in analogia con il suono, riteneva essere caratteristiche della luce) dei fenomeni che oggi chiamiamo di polarizzazione.

Proprio in quegli stessi anni, nel 1808, il fisico francese E.M. Malus riuscì a mettere in evidenza l'esistenza della polarizzazione attraverso fenomeni di riflessione: un raggio di luce riflesso si comporta come uno dei raggi birifratti dallo spato d'Islanda e cioè non subisce più la doppia rifrazione se fatto passare di nuovo attraverso un cristallo dello stesso tipo.La spiegazione che Malus dava del fenomeno è riconducibile a quella newtoniana dei lati delle particelle, infatti egli pensava che i corpuscoli luminosi fossero asimmetrici e si orientassero sia durante la riflessione, sia durante una birifrazione, in modo da non potersi più orientare per successive riflessioni o birifrazioni.

La teoria corpuscolare era sostenuta da gran parte della scuola dei fisici-matematici francesi tra cui Biot e Poisson (che tenteranno in tutti i modi, senza però riuscirvi, di ricondurre i fenomeni di interferenza alla teoria corpuscolare), Laplace e, per un certo tempo, Arago. E fu proprio quest'ultimo che, in un ambiente generalmente ostile, dette un importante sostegno al fisico che doveva dare nuovo impulso alla teoria ondulatoria fino a portarla al suo trionfo: Augustin Fresnel.

Venuto a conoscenza dell'esperimento di Young proprio da Arago, questo fisico profondamente meccanicista, si propose di indagarlo meglio. Poteva sorgere il dubbio, infatti, che le frange d'interferenza osservate non fossero altro che fenomeni di diffrazione provocati dal passaggio della luce nei piccoli forellini. Egli trovò così un altro modo di produrre interferenza che non poteva far

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sorgere dubbi. Anziché usare i forellini di Young fece riflettere (1816) un raggio di luce, proveniente da una sorgente puntiforme, su due specchi consecutivi formanti tra loro un angolo prossimo a 180° nel modo indicato nelle figure (a) e (b).

Riferendoci alla figura (a), un raggio (onda) luminoso a emesso dalla sorgente puntiforme S, si riflette sullo specchio M1 e si dirige verso il punto P dello schermo C. Analogamente esisterà un altro

raggio (onda) b, proveniente da S che si dirigerà verso P. Poiché i cammini dei due raggi sono differenti, i due raggi, in generale, risulteranno sfasati tra loro. Nel caso in cui vi sia concordanza di fase tra le due onde, P sarà un punto in cui si avrà un massimo di illuminazione; nel caso in cui le

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due onde siano in opposizione di fase, in P vi sarà buio; nel caso di sfasature diverse vi sarà una variazione dell' intensità dell'illuminazione dal buio al massimo di cui dicevamo. L'effetto complessivo sarà un fenomeno d'interferenza, analogo a quello che sarebbe generato da due sorgenti puntiformi S1 ed S2, che si osserverà sullo schermo C.

La figura (b) mostra invece più onde che vanno ad interferire in diverso modo sullo schermo C. A seconda del tipo di interferenza, e quindi di sfasatura, tra le onde interessate, i punti P, Q, R saranno bui o illuminati a varie intensità (vedi figura seguente).

Esperienza di interferenza con specchi di Fresnel. Ora con luce gialla da una lampada monocromatica che, prima di andare ad interferire sugli specchi, passa attraverso il diafrmma A. Sullo schermo, anche ora, si producono bande

illuminate chiare alternate da bande oscure. Figura tratta da A. De Marco - Fisica 2 - Poseidonia 1977.

Con questa esperienza Fresnel sgombrò contemporaneamente il campo sia dall'interpretazione erronea del fenomeno dovuta ai corpuscolaristi (le frange non hanno nulla a che vedere con l'interazione di tipo gravitazionale tra le pretese particelle di luce ed i bordi delle fenditure) sia da quella altrettanto erronea di Young (le frange non sono generate dall'interferenza delle onde dirette con

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quelle riflesse dai bordi delle fenditure). La chiave della corretta interpretazione di Fresnel fu proprio la ripresa del principio di Huygens: ogni punto di una superficie di un'onda può diventare fonte di onde secondarie. Ebbene, nel fenomeno d'interferenza creata con due forellini, ciascun forellino diventa sorgente di onde; sono le onde che provengono da un forellino che interferiscono con quelle che si dipartono dall'altro. Nella figura seguente

Figura tratta da A. De Marco - Fisica 2 - Poseidonia 1977.

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vi è la ricostruzione della spiegazione mediante le onde dell'interferenza di Young (due forellini): le due fenditure O1 ed O2 del secondo diaframma B formano due sorgenti (principio di Huygens) che

vanno ad illuminare lo schermo C. Nel tragitto tra B e C le onde provenienti dalle due sorgenti interferiscono tra loro. Nei punti M le onde arrivano in fase e si hanno massimi di illuminazione. Nei punti N si ha invece interferenza distruttiva (onde controfase) e si hanno punti di minima illuminazione.

Vale la pena spiegare meglio quanto detto. Intanto riporto i disegni della sezione di onde: (a) due onde in fase e la loro somma, (b) due onde sfasate e la loro somma, (c) onde in controfase e la loro somma.

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Si può osservare che la somma delle due onde in (a) fornisce un'onda con massimi e minimi somma delle onde che la originano (questa situazione corrisponde al massimo di illuminazione); in (c) si ha un'onda risultante nulla (buio); in (b) una situazione intermedia (penombra). Resta ora da vedere qual è il meccanismo analitico che, sullo schermo origina una situazione di luce o di buio. Per farlo serviamoci della figura seguente e riferiamoci a due figure indietro (spiegazione visiva mediante le onde dell'interferenza).

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I due fori che avevamo prima (O ed O') sono ora A e B. Il punto M che avevamo prima è ora O. Lo schermo C di prima è ora OP. Supponiamo di lavorare con luce monocromatica, con luce costituita da una sola lunghezza d'onda.

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I due raggi che da A e B arrivano in O percorrono un cammino di uguale lunghezza e quindi, essendo partiti in fase dato che fanno parte di una stessa onda (che ne origina due da A e B per il principio di Huygens), sono ancora in fase e vanno a sommarsi in O. Ciò origina in O una maggiore illuminazione. Le onde che invece arrivano in un punto qualsiasi P dello schermo avranno percorsi diversi, PA e PB la cui differenza sarà PA - PB. Ora vi sono due possibilità: o PA - PB è uguale ad un multiplo intero della lunghezza d'onda, cioè nλ con n = numero intero; o PA - PB è uguale ad un multiplo semintero della lunghezza d'onda (n + 1/2) λ. Nel primo caso, l'onda che parte da A arriva in H in modo da riavere la stressa fase dell'onda che sta uscendo da B ed allora da questo punto in poi le due onde viaggiano in fase ed in P si avrà luce. Nel secondo caso, l'onda che parte da A arriva in H in modo da essere in controfase con l'onda che sta partendo da B ed allora da questo punto viaggeranno in controfase ed in P si avrà buio.

Ma fin qui le onde luminose pensate da Fresnel erano longitudinali. Egli, nella sua memoria del 1816, diceva: "in ogni punto dello spazio dove sta condensato, l'etere è compresso e tende ad espandersi in tutte le direzioni", e queste non sono altro che onde longitudinali.

Proprio nel 1816, però, lo stesso Fresnel, insieme ad Arago, scopre che due raggi polarizzati sullo stesso piano interferiscono, mentre se sono polarizzati su piani tra loro perpendicolari non interferiscono più. Il risultato di questa esperienza fu conosciuto da Young il quale, in una lettera ad Arago (1817), avanzò l'ipotesi che le onde luminose fossero onde di tipo trasversale. Arago ne informò Fresnel il quale fece sua l'ipotesi e cominciò a lavorarvi con gran lena. Tra il 1821 ed il 1823 egli riuscì a dimostrare che, con questa ipotesi, era possibile spiegare tutti i fenomeni ottici conosciuti(3). La stessa propagazione rettilinea poi, che era stata sempre un grosso problema per la teoria ondulatoria, interpretata correttamente mediante i fenomeni d'interferenza (il movimento che un'onda sferica trasmette si distrugge in parte per interferenza), non rappresentava più un problema per questa teoria.

Di problema, semmai, ne nasceva un altro e fu lo stesso Fresnel a prospettarlo nel l821. Ammesse le onde trasversali che così bene spiegavano tutti i fenomeni ottici, che caratteristiche avrebbe

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dovuto avere l'etere per permettere il loro passaggio ? Le onde longitudinali marciano bene in un fluido, ma per le onde trasversali occorre un solido e neppure un solido qualunque. Questo solido dovrebbe avere una rigidità teoricamente infinita (vista l'enorme velocità di propagazione della luce), quindi più elevata di quella dell'acciaio, e nel contempo deve essere più evanescente di ogni gas conosciuto per non offrire resistenza ai corpi celesti che da secoli vediamo muoversi nel cielo senza apprezzabili rallentamenti(4). Fresnel comunque non ebbe modo di seguire il corso degli eventi: nel 1827, a soli 39 anni, morì. Ma la strada ad una gran mole di ricerche sia teoriche che sperimentali era aperta. In particolare l'analogia tra onde luminose ed onde elastiche, che scaturiva dalla teoria di Fresnel, apriva un vasto campo di ricerche sui fenomeni dell'elasticità.

All'obiezione, prima vista, di quella strana doppia natura dell'etere, cercò di rispondere G. Stokes nel 1845, Secondo Stokes la rigidità è relativa e vi sono solidi, come il gesso e la ceralacca, che se da una parte sono rigidi tanto da trasmettere vibrazioni trasversali, dall'altra sono compressibili ed estensibili (risultando molto fragili all'urto meccanico). Si tratta solo di combinare opportunamente le caratteristiche che l'etere solido deve avere per far si che abbia la rigidità richiesta unitamente all'estrema sottigliezza.

Di questi tentativi ne furono fatti tanti(5) e dal corpo della loro elaborazione analitica, con la matematica sviluppata dalla scuola francese nel '700, con quella sviluppata dai Green e dagli Stokes in Gran Bretagna e con altra che via via veniva ideata allo scopo, scaturirono moltissimi teoremi che furono poi di grande utilità per gli sviluppi ulteriori della fisica (particolarmente Maxwell).

Altro campo di ricerche aperto dalla polemica onde o corpuscoli era quello relativo alla velocità della luce. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, la spiegazione della rifrazione mediante la teoria corpuscolare prevede che la velocità della luce sia più grande nei mezzi più densi, esattamente il contrario di quanto previsto dalla teoria ondulatoria. C'è l'opportunità di un esperimento cruciale che possa decidere quale teoria descrive meglio i fatti sperimentali osservati(6). Fino a circa la metà dell''800 però le uniche misure della velocità della luce (che da ora indicherò direttamente con c) erano state eseguite su fenomeni astronomici (Röemer e Bradley), non si era ancora trovato il modo di misurare c sulla Terra: il suo elevato valore fa sì che la luce percorre tragitti lunghissimi in tempi

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brevissimi e tragitti di tale lunghezza non esistono in natura sulla Terra (296) a meno di realizzarli con particolari artifici.

Il primo strumento in grado ai permettere misure di c sulla Terra, che appunto si serviva degli artifici suddetti, fu ideato dal fisico francese H. Fizeau nel 1849. L'esperienza di Fizeau permise la misura di c nell'aria ma fu impossibile realizzarla in un altro mezzo perché la distanza su cui Fizeau aveva operato in questa sua prima esperienza, era di circa 9.000 metri(7).

Chi riuscì ad effettuare la misura di c, non solo sulla Terra, ma nei limiti ristretti di una stanza di laboratorio, fu l'altro fisico francese, L. Foucault, nel 1850(8). L'essere riusciti a portare questa misura in laboratorio apriva la strada, immediatamente percorsa, alla misura di c in diversi mezzi ed in particolare nell'acqua.

L'esperienza fu eseguita prima in aria, poi in acqua, sia da Foucault(9) che da Fizeau, ed il risultato comparativo della velocità c dava ragione alla teoria ondulatoria: la luce viaggiava, con una velocità minore nei mezzi più densi ed in particolare nell'acqua risultava essere circa i 3/4 di quanto non fosse nell'aria.

LA MISURA DELLA VELOCITA' DELLA LUCE IN ACQUA (FOUCAULT 1862)

La figura seguente mostra lo schema di principio dell'esperienza di Foucault per misurare la velocità della luce in acqua.

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La radiazione luminosa emessa da A, passa attraverso lo specchio semitrasparente VV', quindi attraverso la lente convergente C prima di andarsi a riflettere sullo specchio piano RS. Il raggio così riflesso forma una immagine reale del punto A sulla superficie B dello specchio concavo di figura (che ha il suo centro di curvatura in R. Su B il raggio di luce si riflette, torna sullo specchio RS, si riflette ancora, passa di nuovo attraverso la lente C, per arrivare su VV'. Qui il raggio si divide in due: parte torna alla sorgente A e parte si riflette e va a finire in a su un vetro graduato che si osserva dall'oculare O. Tutto questo quando lo specchio RS è fermo. Ora tale specchio si mette a ruotare velocissimamente intorno al suo asse perpendicolare al piano di figura e passante per R. In queste condizioni, in generale, la luce che da B torna indietro non trova lo specchio RS nella stessa posizione in cui stava nel viaggio d'andata, ma spostato di un piccolo angolo IRH (l'angolo è sempre piccolo perché lo spazio da percorrere dalla luce - andata e ritorno da R a B - è inferiore a 10 metri e la luce viaggia all'enorme velocità che già conosciamo). A causa di tale spostamento angolare dello specchio, l'osservatore O vedrà l'immagine sul vetro graduato, spostato in a'. Si misurava la distanza AR, la distanza aa' = AA',

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si calcolava l'angolo IRH di rotazione dello specchio nel tempo che impiegava la luce a percorrere due volte il percorso RB e, trovata la velocità angolare dello specchio RS, si deduceva il tempo che impiegava a descrivere detto angolo. Per far ruotare lo specchietto ad elevata velocità, si usava una piccola macchina a vapore come quella di figura (M è lo specchietto rotante ed il cilindretto situato in alto, coassiale allo specchietto, è una sirena che dà note diverse a seconda della velocità di rotazione; per mezzo di un conta giri ed il tono della nota(10) si poteva misurare il tempo T necessario allo specchietto a fare un giro completo.

Facciamoci dei conti.

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Chiamiamo ω l'angolo IRH che ci dà lo spostamento dello specchio ruotante; se per un giro completo impiega il tempo T, per percorrere l'angolo ω impiegherà un tempo t dato dalla proporzione:

2π : T = ω : t => t = ωT/2π

e, se n è il numero di giri al minuto, poiché T = 1/n, si avrà anche:

t = ω/2πn

Chiamando ora D la distanza RB, la velocità della luce sarà:

(1) c = 2D/t = 4πnD/ω

Noi sappiamo però che l'angolo descritto dall'immagine è il doppio di quello descritto dallo specchio, cioè:

ARA' = 2ω

e posto che l'angolo ARA' è molto piccolo, AA' si può confondere con un arco di centro R. In tal modo si ottiene:

2ω = AA'/AR = aa'/AR = s/L

dove s è l'arco aa' descritto dall'immagine sul vetrino graduato, ed L è la distanza AR.

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Sostituendo il valore di dedotto da questa ultima uguaglianza nella (1) si ha:

c = 8πnLD/s.

Come si vede, in questa uguaglianza la velocità della luce è determinata in funzione di grandezze che si possono misurare con precisione. Sostituendo tutti i valori noti e misurati nel secondo membro dell'ultima relazione, per la velocità della luce nell'aria si trova c ~ 298.000 Km/sec.

A questo punto Foucault passa a misurare la velocità della luce in acqua (o in altre sostanze) servendosi, invece del tragitto RB ora visto, del tragitto RD che passa attraverso il tubo TT' (di circa 3 metri di lunghezza) pieno d'acqua. Tutto resta uguale, cambia solo quel tragitto. Con la luce che passa attraverso l'acqua, l'immagine che prima andava in a', ora va in un punto che rappresenta una maggiore deviazione (si ha ora un angolo ω' > ω), e ciò vuol dire che la luce si propaga in acqua con minore velocità. Nell'acqua ω' = 4/3 ω e ciò vuol dire che la velocità della luce nell'acqua è i 3/4 della velocità nell'aria, cioè v ~ 223000 Km/sec.

L'ETERE

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Questo argomento, la scoperta cioè che la luce ha velocità minore nei mezzi più densi, sembrò decisivo: la teoria corpuscolare (od emissiva) non sembrava più conciliabile con la realtà dei fatti sperimentali.

L'ammissione della nuova teoria comportava però nuove difficoltà. Già abbiamo visto le strane proprietà di cui doveva essere dotato questo etere, contemporaneamente estremamente rigido e sottile, e già abbiamo detto che sulla strada del tentar di risolvere questi problemi si erano mossi una gran quantità di fisici-matematici, elaborando la cosiddetta teoria, elastica dell'ottica. L'altro problema che si apriva fu individuato dallo stesso Fresnel in collaborazione con Arago, in una corrispondenza che si scambiarono nel 1818. Avverto subito che è una questione di estrema importanza e quindi merita di essere seguita con particolare attenzione anche perché l'argomento è delicato.

L'origine di quanto ora proverò a raccontare è ancora da ricercarsi in quell'etere, indispensabile supporto per la teoria ondulatoria di Fresnel: per permettere la propagazione delle onde luminose esso deve riempire tutto lo spazio e permeare tutti i corpi(11). La meccanica può fare a meno di questa sostanza ed il principio di relatività di Galileo è stato ricavato completamente nell'ambito della meccanica: quel principio non aveva relazione con nessun etere ma solo con lo spazio ed il tempo assoluti di Newton. Ora i fenomeni ottici propongono alla teoria di riempire tutto lo spazio di etere e le onde luminose si propagano in questo spazio e quindi in questo etere. Che relazione ci può essere tra etere, presente dappertutto, e spazio assoluto ? I due concetti non possono essere due modi diversi di indicare la stessa cosa ? Il riferimento assoluto, tanto sospirato, potremmo averlo individuato nell'etere ? Certo è che le onde luminose si muovono nell'etere. Che tipo di relazione c'è tra etere e moto delle onde luminose ? L'etere può essere considerato immobile e le onde in moto rispetto ad esso ? O semplicemente dobbiamo considerare un moto relativo tra etere ed onde ? In definitiva: l'etere è immobile o in moto ? Se è immobile che tipo di modificazioni comportano gli spostamenti dei corpi celesti - e, più in generale, della materia - in esso ?

Cercando di mettere ordine fra le domande fatte, cominciamo con il dare alcune possibili conseguenze di alcune possibili risposte.

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La prima cosa che va osservata, con Born, è che

secondo il principio di relatività della meccanica newtoniana, lo spazio assoluto esiste solo in un senso molto ristretto, in quanto tutti i sistemi inerziali in moto rettilineo ed uniforme rispetto ad un altro sistema possono essere considerati fermi nello spazio. [Di conseguenza si può] immediatamente fare l'ipotesi che: l'etere astronomico, molto distante dai corpi materiali, è, in ogni sistema inerziale, in uno stato di quiete. Se cosi non fosse, alcune parti dell'etere sarebbero accelerate, e dovremmo pensare all'esistenza di forze centrifughe tali da produrre variazioni di densità ed elasticità; le nostre osservazioni sulla luce proveniente dalle stelle non ci danno però alcuna indicazione in questo senso.

Quindi, scartate le accelerazioni dell'etere, sia che esso giaccia in quiete sia che esso stia in moto con velocità costante, le cose si possono trattare allo stesso modo, in base al principio di relatività. Ed allora il tutto può essere considerato come se l'etere sia immobile ed i corpi materiali si muovano in esso con determinate velocità relative a questo riferimento. Così qualsiasi oggetto materiale, in fin dei conti, o si troverà in quiete o in moto relativi rispetto a quest'etere supposto immobile.

Era evidente l'opportunità che si presentava: riuscire a stabilire un moto traslatorio assoluto della Terra rispetto a questo riferimento che sembrava coincidere con il famoso spazio assoluto definito da Newton.

Questo etere, che sembrava essere una sostanza materiale, non si riusciva però ad individuarlo e quindi sembrava impensabile una misura diretta dello stato di moto o di quiete della Terra rispetto ad esso.

Ci si può servire di misure indirette passando attraverso lo studio di fenomeni in condizioni che sfruttino il diverso moto della Terra rispetto all'etere. E l'ottica fornisce tutta una serie di fenomeni studiabili in queste circostanze e basati, in definitiva, su misure di velocità della luce. Ma agli inizi dell'Ottocento le cose non si presentavano così semplici e lineari. I problemi non erano di questa

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natura, anche se probabilmente molti sarebbero stati felici di individuare il sospirato spazio assoluto di Newton; il principale problema che allora si poneva riguardava la natura della luce, come del resto abbiamo già visto nelle pagine precedenti.

Quando nel 1802 Young scoprì il fenomeno dell'interferenza, la teoria corpuscolare subì un duro colpo ed i fisici di formazione meccanicista si misero subito al lavoro nel tentativo, almeno, di dirimere la questione sperimentalmente. In questo contesto, tra il 1809 ed il 1810, il già menzionato Arago ideò e realizzò un'esperienza i risultati della quale avrebbero dovuto, almeno nelle intenzioni, dare una risposta definitiva sulla natura corpuscolare od ondulatoria della luce.

Era noto che la luce ha velocità diverse in mezzi diversi e questo fatto doveva essere ammesso dalle due teorie per rendere conto del fenomeno della rifrazione. Ma, come abbiamo visto, mentre la teoria corpuscolare assegnava alla luce una maggiore velocità quando essa passava da un mezzo meno ad uno più denso, la teoria ondulatoria doveva prevedere un rallentamento della luce nel passaggio a mezzi più densi. Arago pensò quindi di utilizzare il fenomeno della, rifrazione per tentare di dirimere la controversia. La sua idea era di far esperienze di rifrazione "al contrario" e cioè, anziché cambiare i vari mezzi per studiare, a parità di velocità della luce incidente, le diverse rifrazioni in esse, si poteva mantenere sempre lo stesso mezzo e sfruttare la variazione ai velocità della luce, proveniente da una stella, che sulla Terra deve risultare, in diversi periodi dell'anno, a seguito del principio classico di relatività. Infatti, ammesso il principio di relatività ed il moto della Terra intorno al Sole, a sei mesi di distanza, quando la Terra ha percorso metà della sua orbita, la luce proveniente da una fissata stella comporrà diversamente la sua velocità con quella orbitale della Terra (vedi figura seguente). In un dato periodo dell'anno (punto A di figura) la luce proveniente dalla stella cadrà sulla Terra che si

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Si noti che, data l'enorme distanza della stella dalla Terra, il diametro dell'orbita terrestre intorno al Sole risulta del tutto trascurabile e quindi le due linee costituite dalle frecce tratteggiate possono essere considerate

parallele

muove, ad esempio, nella stessa, direzione e verso; sei mesi dopo (punto B di figura) la luce proveniente dalla stella cadrà sulla Terra che si muove nella stessa direzione ed in verso opposto rispetto ad essa. Detta allora v la velocità orbitale della Terra e c quella della luce proveniente dalla stella, secondo il principio di relatività (e rispetto all'etere fino ad ora supposto immobile;

- in A: la velocità risultante della luce dovrà essere c - v (tutto va come se la Terra fosse immobile e la sorgente di luce si allontanasse da essa con velocità v);

- in B: la velocità risultante della luce dovrà essere c + v (tutto va come se la Terra, fosse immobile e la sorgente di luce si avvicinasse ad essa con velocità v).

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Ecco quindi come Arago pensò di modificare le esperienze di rifrazione: egli puntava il cannocchiale su una stella opportunamente situata nel cielo; l'immagine della stella, prodotta dal cannocchiale, era inviata su un sottile prisma nel quale avveniva il fenomeno della rifrazione; l'effetto del prisma, era quello di spostare leggermente fuori dall'asse questa immagine; a sei mesi di distanza si andava di nuovo ad osservare l'immagine nella previsione, appunto, che, essendo variato l'angolo di rifrazione a seguito della variazione della velocità della luce, essa si sarebbe trovata spostata. Ebbene, nel caso fosse valsa la teoria corpuscolare, lo spostamento dell'immagine dall'asse sarebbe dovuto diminuire; nel caso fosse valsa la teoria ondulatoria, lo spostamento dell' immagine dall'asse sarebbe dovuto aumentare(12). Infatti, nel passare dalla posizione A alla posizione B di figura, la velocità risultante della luce aumenta e:

- per la teoria corpuscolare, il passare ad una velocità più grande corrisponde ad avere un mezzo più denso con la conseguenza che l'angolo di rifrazione deve diminuire;

- per la teoria ondulatoria, il passare ad una velocità più grande corrisponde ad avere un mezzo meno denso con la conseguenza che l'angolo di rifrazione deve aumentare.

Fatta l'esperienza, Arago trovò che non c'era stato spostamento alcuno della immagine della stella. Come si usa dire, il risultato dell'esperienza fu negativo(13); esso dimostrò che il moto orbitale della Terra non influisce sulla rifrazione della luce proveniente dalle stelle.

Che conclusioni trarne ?

Arago, ottimo conoscitore della teoria corpuscolare, ne dedusse che per spiegare il fenomeno alla luce di questa teoria occorreva ammettere dei fatti che a lui sembravano non credibili e cioè che:

- i corpi luminosi emettono corpuscoli di tutte le velocità;

- solo i corpuscoli che hanno determinate velocità sono da noi visibili;

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- solo questi ultimi producono negli occhi la sensazione di luce.

Tutto ciò non sembrò credibile ad Arago. E neanche fu in grado di sviluppare una approfondita indagine nell'ipotesi ondulatoria che, come abbiamo visto, nel 1810 era ancora tutta da costruire.

Negli anni immediatamente successivi Arago sviluppò dei rapporti sempre più stretti con Fresnel il quale, nel frattempo, aveva fornito la teoria ondulatoria di un corpo teorico molto solido. E nel 1818 Arago scrisse a Fresnel ponendogli il vecchio problema del risultato della sua esperienza. In questa lettera egli descriveva i risultati della sua esperienza osservando che non potevano essere spiegati con la teoria emissionistica (corpuscolare). Forse che con la teoria ondulatoria, mediante qualche strano meccanismo di propagazione delle onde o mediante qualche proprietà dell'etere sarebbe possibile spiegare il fenomeno ?

Era questa in sostanza la domanda che Arago rivolgeva a Fresnel. La posta in gioco era alta: la rimessa in discussione della teoria ondulatoria che spiegava bene tutti i fatti sperimentali fino ad allora noti. La spiegazione di tutto poteva ritrovarsi nell'etere ? Potrebbe trattarsi di una qualche particolare interazione tra etere e corpi in movimento ? E su quest'ultima strada si mosse Fresnel nella sua risposta ad Arago quello stesso anno. Egli scriveva:

"Mi avete stimolato ad esaminare se il risultato di tali osservazioni possa essere riconciliato più facilmente con la teoria nella quale la luce è considerata in termini di vibrazioni di un fluido universale. E' del tutto necessario trovare una, spiegazione all'interno di questa teoria ...

Qualora si dovesse ammettere che la nostra Terra trasferisce il proprio movimento all'etere che lo circonda(14), sarebbe allora facile vedere il motivo per cui un medesimo prisma dovrebbe sempre rifrangere la luce nello stesso modo, quale che sia la direzione di provenienza della luce stessa. Ma sembra impossibile spiegare l'aberrazione delle stelle mediante questa ipotesi: io sono stato incapace, almeno sino ad ora, di capire con chiarezza questo fenomeno, se non supponendo che l'etere passi liberamente attraverso il

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globo terrestre, e che la velocità comunicata a questo fluido sottile sia solo una piccola parte della velocità della Terra, non maggiore, ad esempio, di una centesima parte."

Per risolvere il problema Fresnel aggiunge una ipotesi (che poi svilupperà analiticamente), quella del trascinamento parziale dell'etere(15). Fino ad ora, nel discutere l'esperimento di Arago, avevamo supposto che il moto della Terra avvenisse in un immobile oceano di etere con la conseguenza che la Terra si trascinava dietro irrisorie quantità d'etere "esattamente come una rete appesa ad un'imbarcazione trascina l'acqua" (Born). E' questa allora l'ipotesi che va cambiata ed in modo opportuno, così da rendere conto dei risultati sperimentali. A causa del moto della Terra nell'etere deve sorgere un qualche effetto che elimini le discordanze tra teoria ed esperimento.

Fresnel suppose allora che l'etere fosse trascinato dal moto della Terra quel tanto che bastasse a compensare l'effetto di composizione delle velocità della luce e della Terra. L'etere, che impregna tutti i corpi, è contenuto nella materia costituente la Terra (come una. spugna contiene l'acqua al suo interno); secondo Fresnel, nel suo moto la Terra trascina solo una parte dell'etere in essa contenuto(16): una parte di esso se ne va dalla parte posteriore della Terra in moto ed una pari quantità entra dalla parte anteriore (cosicché all'interno della Terra c'è sempre la stessa quantità di etere). Ciascun corpo, quindi, che si trova sulla Terra, trascina una parte dell'etere in esso contenuto ed in particolare la lente del cannocchiale ed il prisma (dell'esperienza di Arago) trascinano una parte dell'etere in essi contenuto. E la velocità della luce nell'etere in riposo dovrebbe essere differente da quella dell'etere trascinato ... precisamente come la velocità di un'onda sonora differisce secondo che l'aria e' calma o che tira vento. Il problema era di stabilire quanto etere fosse trascinato. Fresnel, con considerazioni di carattere teorico, riuscì a stabilire che la quantità di etere trascinato dipendeva dall'indice di rifrazione n della sostanza in cui si propaga la luce. Egli riuscì anche a ricavare una formula che forniva la velocità della luce in un dato mezzo in funzione del trascinamento parziale dell'etere contenuto in esso. Nella formula questo trascinamento è espresso mediante un coefficiente α (coefficiente di trascinamento) che è, come già detto, funzione dell'indice di rifrazione n del mezzo in cui si propaga la luce:

α = 1 − 1/n2 file:///C|/$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (134 of 215)28/02/2009 15.12.20

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La formula per la velocità della luce in un dato mezzo (w) era poi data da:

w = c/n ± v (1 - 1/n2 ),

dove v rappresenta la velocità di spostamento del mezzo rispetto all'etere immobile. Una considerazione che si può immediatamente fare è relativa alla formula ora data: il trascinamento è tanto maggiore quanto più n risulta maggiore di 1, valore che ha nel vuoto; ciò vuol dire che nell'aria, dove n è circa 1, il coefficiente di trascinamento è praticamente nullo e quindi w = 0. Questo ultimo valore è proprio quello che la luce dovrebbe avere nel vuoto dove n è esattamente uguale ad 1.

La formula di Fresnel ora vista si può interpretare pensando che le cose vanno come se la velocità della luce si sommi solo con una porzione della velocità del prisma e della lente o di qualunque oggetto in moto nell'etere ed, in definitiva, della Terra; questo perché il coefficiente α risulta sempre compreso tra 0 ed 1.

Con l'ipotesi del trascinamento parziale Fresnel riuscì a spiegare tutti i fenomeni che si originavano dal moto di un corpo rifrangente attraverso l'etere ed in particolare l'esperienza di Arago ed il fenomeno dell'aberrazione(17). Rimanevano sull'intera teoria due fondamentali assunzioni che presto o tardi avrebbero richiesto una qualche conferma sperimentale: le onde luminose sono trasversali; l'etere è trascinato parzialmente dal moto dei corpi in esso.

Fu Fizeau che nel 1851 tentò di dirimere la questione tra trascinamento parziale e totale (quest'ultima ipotesi era stata autorevolmente avanzata qualche anno prima - 1645 - da Stokes) con una memorabile esperienza nella quale utilizzava due raggi luminosi che, dopo aver percorso un certo tragitto in acqua corrente, venivano fatti, interferire. Nella figura c'è lo schema dell'esperienza: (326) S è la sorgente; M1 è uno specchio semitrasparente posto a 45°,

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posto a 45°, che ha la proprietà di far passare una parte della radiazione incidente e di riflettere l'altra; R1 è un obiettivo che serve a rendere parallelo il fascio proveniente da S; F è un sistema di fenditure

che serve a dividere il fascio in due; ABCD rappresenta un sistema di tubi di vetro attraverso cui scorre acqua nel verso indicato in figura (l'acqua può essere fatta scorrere a velocità diverse); R2 è un

altro obiettivo che serve a riunire i due fasci emergenti dai due tubi; M2 è uno specchio piano che

riflette completamente la luce che vi giunge; O è l'osservatore.

Da S quindi si dipartono due raggi: il primo (1) passa per M1,R1,F,B,A,R2 e quindi giunge in

M2 dove viene riflesso facendo il percorso M2,R2,D,C,F,R1,M1,O; il secondo (2) fa invece l'altro

percorso S,M1,R1,F,C,D,R2,M2,R2,A,B,F,R1,M1,O. Nel suo percorso il raggio (1) passa attraverso

l'acqua in verso contrario al moto di quest'ultima e, dopo la riflessione su M2, passa di nuovo

attraverso l'acqua sempre in verso contrario al moto di quest'ultima; per il raggio (2 ) accade esattamente il contrario poiché marcia sempre nello stesso verso di scorrimento dell'acqua. I due raggi vanno ad incontrarsi nel punto O dove, attraverso un oculare, un osservatore può osservare l'interferenza prodotta dai due raggi.

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Facendo l'esperienza con acqua immobile si trova che la velocità della luce e' c1 = c/n (dove c è

la velocità della luce nel vuoto ed n è l'indice di rifrazione dell'acqua). Quando l'acqua è fatta scorrere nei tubi, il raggio (1) e quello (2) subiscono due sorti diverse: il primo marcia in verso opposto a quello dell'acqua, il secondo nello stesso verso. Se v è la velocità dell'acqua nel tubo e valesse semplicemente la legge di composizione delle velocità di Galileo-Newton, la velocità della luce del raggio (1) dovrebbe comporsi completamente con la velocità dell'acqua nel tubo AB, dando per risultato W1 = c1 - v, mentre la velocità della luce del raggio (2) dovrebbe comporsi completamente

con la velocità dell'acqua nel tubo CD, dando per risultato W2 = c1 + v. La composizione di W1 e

W2 in O dovrebbe originare interferenza con un dato spostamento delle frange. Misurando questo

spostamento, Fizeau trovò che la composizione non avveniva come previsto. Il trascinamento della luce da parte dell'acqua non risultava completo ma solo parziale (18) (lo spostamento delle frange risultava più piccolo di quello aspettato) il che voleva dire che non tutta la velocità dell'acqua si sommava a quella della luce; facendo i conti Fizeau trovò lo stesso risultato che teoricamente aveva trovato Fresnel:

W1,2 = c/n ± v (1 − 1/n2 )

dove il + o il - si hanno a seconda che la luce viaggi nello stesso verso o in verso opposto a quello dell'acqua (o di qualunque altro mezzo).

Altre esperienze furono fatte negli anni successivi e, a questo punto, tutte per decidere come quest'etere si comportasse. E' interessante notare che nonostante la teoria ondulatoria avesse ormai un elevato grado di maturità, ancora molti scienziati non erano in grado di lavorarvi agevolmente. Ad esempio, "il direttore dell'osservatorio di Gottinga, E. F. W. Klinkerfues, ricavò una curiosa conclusione, nel 1865-1866, dalla sua discussione dell'influenza della sorgente di luce sulla rifrazione. Egli concluse che la luce emessa da una sorgente in movimento cambia il suo colore senza cambiare la sua lunghezza d'onda ..". Secondo il suo modo di portare avanti la discussione, con questa ammissione, "sarebbe possibile spiegare l'indipendenza delle leggi della riflessione e rifrazione dal

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moto della Terra, senza dover ipotizzare il coefficiente di Fresnel."

Questo potrebbe sembrare solo un aneddoto poco significativo se le ricerche di Klinkerfues non fossero servite da stimolo all' esperimento di Airy. Come abbiamo visto, nel 1818, Fresnel aveva predetto un risultato nullo all'esperienza proposta da Boscovich nel 1766. Si trattava, come si ricorderà, di misurare la velocità della luce mediante il fenomeno di Bradley dell'aberrazione ma, questa volta, con un cannocchiale pieno d'acqua, al fine di determinare come il mezzo in cui si propaga la luce influisce su c. Ebbene, a seguito dell'esperienza di Arago e di ciò che ne conseguì (e cioè che il moto orbitale della Terra non influisce sulla rifrazione della luce proveniente dalle stelle), Fresnel aveva osservato che anche l'esperienza di Boscovich avrebbe dato risultato nullo (e questo per lo stesso motivo che dava nullo il risultato dell'esperienza di Arago: la rifrazione della luce proveniente dalle stelle nell'acqua non sarebbe stata influenzata dal moto orbitale della Terra).

Nel 1871 l'astronomo inglese G.B. Airy (l801-l892) fece l'esperienza al primo ordine di v/c e trovò il risultato predetto da Fresnel. E così, allo stesso modo che nell'esperienza di Arago, l'unica spiegazione possibile era quella del trascinamento parziale dell'etere da parte dell'acqua contenuta nel telescopio.

Un'altra esperienza, ancora in accordo con il trascinamento parziale, fu quella che realizzò M. Hoek (1834-1873) nel 1868, non più su fenomeni astronomici ma in laboratorio. Fatto di rilievo è che, per la prima volta, si utilizzò in esperienze di questo tipo un interferometro, uno strumento di grande precisione e sensibile di ulteriori importanti miglioramenti, basato sul fenomeno dell'interferenza anziché su quello della rifrazione (come abbiamo già visto discutendo dell'esperienza di Fizeau, in un interferometro la luce proveniente da una sorgente, mediante un sistema di specchi o altro meccanismo, viene scomposta in due raggi che, dopo aver percorso cammini diversi, vanno a ricomporsi in un oculare; se si ha cura che i tragitti percorsi dai due raggi siano perfettamente uguali, nell'oculare la luce si ricomporrà in fase, in modo cioè da non produrre interferenza; se lungo uno dei tragitti la luce subisce un qualche rallentamento, dovuto ad esempio all'interposizione di un mezzo più denso, poiché la lunghezza d'onda varia proporzionalmente alla velocità della luce, nell'oculare i due raggi non si ricomporranno più in fase e vi sarà quindi interferenza).

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Ancora con interferometro eseguirono esperimenti dello stesso tipo i due fisici francesi E. E. Mascart e J. C. Jamin nel 1874, con uno strumento che era stato ideato nel 1858 dallo stesso Jamin (nella figura (a) è riportato lo schema di principio dell'interferometro di Hoek; nella figura (b) è riportato quello di Jamin).

(a) Interferometro di Hoek: il raggio di luce proveniente da S viene diviso in due dallo specchio semitrasparente P che è posto a 45°; il raggio 1 dopo essersi riflesso sugli specchi M1,M2 ed M3 torna

in P e quindi va all'oculare O; il raggio 2, che ha attraversato P, dopo essersi riflesso su M3,M2 ed M1,

torna in P e quindi va in O. Si noti l'uguaglianza tra i due tragitti.

(b) Interferometro di Jamin: il raggio di luce proveniente da S va ad incidere su una lastra piana trasparente; esso in parte viene riflesso (1) ed in parte rifratto (2); il raggio rifratto, dopo una riflessione in B, esce dalla lastra parallelo all'altro raggio; lo stesso fenomeno si ripete sull'altra lastra, finché in E i due raggi si riuniscono per andare nell'oculare O. Si noti l'uguaglianza tra i due tragitti.

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Tutte le esperienze ora accennate, al primo ordine di v/c, davano risultati in accordo con il trascinamento parziale dell'etere. Come osserva Tonnellat (Storia Generale delle Scienze, Casini),

"discutendo una qualsiasi di queste esperienze, si può mostrare che il postulato di un trascinamento parziale con il valore previsto da Fresnel fa cadere fin dall'inizio ogni speranza di poter constatare un effetto del primo ordine [in v/c] ... : il trascinamento e' tale che esso compensa automaticamente questo effetto. Soltanto nel 1874 Mascart, Veltmann e Potier misero in evidenza la generalità di questa conclusione che si basa, beninteso, soltanto sulla constatazione di effetti del primo ordine. Pertanto in quell'epoca Mascart suggeriva che in ottica, come in cinematica, fosse impossibile distinguere un riferimento galileiano privilegiato a mezzo di una qualsiasi esperienza."

E' interessante aggiungere che, per i suoi lavori, Mascart prese il Gran Premio dell'Accademia delle Scienze di Parigi, la quale Accademia nella motivazione del premio affermava: "ora che il moto vibratorio della luce e l'esistenza dell'etere luminifero sono universalmente considerati come ben stabiliti, appare di grande interesse dirigere le nostre ricerche sulle proprietà di questo mezzo elastico e le sue relazioni con la materia ponderabile." E' il primo riconoscimento ufficiale della teoria ondulatoria (siamo nel 1873 !) che si accompagna ad un impegno di ricerca sul comportamento del supposto ed apparentemente indispensabile etere. Si comincia quindi ad affrontare il problema dell'etere in sé e non più legato né a problemi ottici né astronomici.

Questo era, molto in breve, il quadro che offriva l'ottica teorica e sperimentale verso la metà degli anni '70. Non è neanche il caso di parlare di inconciliabilità con la fisica dei sostenitori di Newton, si potrebbe semplicemente dire che il contesto era cosi possentemente mutato da non far più riconoscere le elaborazioni newtoniane in tutto quello che si andava facendo. E' importante però notare che, nonostante quanto detto, la meccanica di Newton era ancora al centro della spiegazione di ogni fatto fisico. Le speculazioni e la costruzione di nuove teorie si potevano fare solo là dove il grande Newton non aveva elaborato troppo, aveva solo ipotizzato, aveva solo accennato a qualche possibile soluzione. Il quadro complessivo della meccanica rimaneva intoccabile tant'è vero che, ad esempio, nessuno pensò di modificare la legge di composizione delle velocità. Si potevano inventare

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eteri con le proprietà più strane, ma lo spazio ed il tempo assoluti, unitamente al principio di relatività (ed a tutto il quadro offerto dalla meccanica) rimanevano rigorosamente intoccabili ed intoccati.

Si era comunque aperta una strada ad una verifica sperimentale: questo etere ormai compariva da troppe parti e non più come ipotesi accessoria ma necessaria. Si trattava di cercarlo, ma sarebbe stato necessario farlo con una tecnologia più avanzata ed in un contesto teorico più avanzato perché gli effetti che si cercavano erano del secondo ordine del rapporto v/c.

MAXWELL: LA LUCE ? UN'ONDA ELETTROMAGNETICA!

Maxwell alla fine del 1864 pubblicò la sua memoria A Dynamical Theory of the Electromagnetic Field. Questo lavoro contiene tutti i principali risultati che egli aveva precedentemente ottenuto e può essere considerato come la prima formulazione completa, dal punto di vista analitico, della teoria del campo elettromagnetico e della teoria elettromagnetica della luce. Lo stesso Maxwell, all'inizio della memoria, annunciava che la sua era una teoria dinamica nel senso che si serve di materia in moto nello spazio per rendere conto dei fenomeni elettrici e magnetici. Essa riguarda essenzialmente lo spazio circostante i corpi elettrizzati o magnetizzati che dovrà essere riempito di un mezzo (permeante anche i corpi) in grado di essere posto in moto e di trasmettere quel moto da una parte all'altra con grande ma non infinita velocità. Questo etere ha una natura elettromagnetica ma poiché ha le stesse proprietà (elasticità, densità, …) di un etere ottico, può essere identificato con esso (è interessante notare che le proprietà dell'etere elettromagnetico Maxwell le assegnava a priori in modo che esso avesse poi avuto le caratteristiche che si richiedevano, ad esempio, per trasportare vibrazioni trasversali ad una data velocità). Egli considera l'energia elettrica come energia potenziale meccanica e l'energia magnetica come energia cinetica di natura meccanica. E questa energia meccanica - elettromagnetica risiede in tutto lo spazio e, in particolari condizioni, si può propagare sotto forma di onde elettromagnetiche. Il mezzo, l'etere, si può polarizzare in virtù della sua elasticità e quando è polarizzato è in una condizione

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di accumulo di energia potenziale (elettrica) che ridarà, sotto forma di energia cinetica (magnetica), quando lo sforzo cesserà. In definitiva la propagazione di onde elettromagnetiche nello spazio è dovuta alla trasformazione continua di una di queste forme di energia nell'altra e viceversa, e, istante per istante, l'energia totale nello spazio è ugualmente divisa tra energia potenziale (elettrica) e cinetica (magnetica).

Nel 1873 Maxwell dette alle stampe il suo Treatise on Electricity and Magnetism. Sulla strada della memoria citata, l'elettromagnetismo diventa una meccanica dell'etere. Secondo la teoria di Maxwell, una perturbazione elettromagnetica (ad esempio una carica che acceleri) si propaga in tutto lo spazio sotto forma di onde elettromagnetiche. L'esistenza di tali onde rimane quindi un'ipotesi nella teoria: la conferma o la confutazione di essa metterà alla prova l'intera teoria in un vero e proprio experimentum crucis. Riguardo la velocità di tali onde, egli si rende conto che in molte equazioni che descrivono fenomeni elettromagnetici compare la velocità della luce come costante di normalizzazione, da questo indizio Maxwell ipotizza che le onde elettromagnetiche si muovano con la velocità della luce e quindi che la luce è un'onda elettromagnetica. Dice Maxwell: "Il fatto che i risultati concordino sembra mostrare che la luce e il magnetismo sono fenomeni della stessa sostanza e che la luce è un disturbo elettromagnetico propagato attraverso il campo in accordo alle leggi elettromagnetiche." Naturalmente la "sostanza" è l'etere che, senza entrare nelle equazioni, è rimasto sullo sfondo per tutto il tempo. E Maxwell trovò le formule che descrivono un'onda di luce senza fare supposizioni riguardo all'etere. Queste equazioni danno importanti informazioni. Tra esse il fatto fondamentale dell'unificazione di tre aree di conoscenza - elettricità, magnetismo e luce - che all'inizio del secolo apparivano assolutamente non correlate. Ciò che è interessante ed assolutamente non banale è il sottolineare che da questo momento (o dal momento delle verifiche sperimentali) l'ottica non è più un capitolo a sé della fisica ma semplicemente un paragrafo del più ampio capitolo dell'elettromagnetismo. La differenza tra la luce ed un altro fenomeno elettromagnetico risiede solo nella frequenza (o lunghezza d'onda) della radiazione in considerazione.

Vale però la pena di ricordare che tutto l'impianto maxwelliano è basato sull'ipotesi di esistenza di un mezzo, l'etere, in cui avessero sede le perturbazioni e questo etere era meccanicamente indispensabile. Se si ammette questo mezzo come ipotesi è evidente che esso dovrà diventare oggetto

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preminente delle future ricerche sperimentali.

Due quindi erano le questioni che Maxwell lasciava ad una verifica sperimentale: l'esistenza di onde elettromagnetiche e l'esistenza di un etere che le sostenga.

L'accoglienza a queste teorie non fu della più entusiasta. L'unico fatto, e non da poco, che riconciliava il mondo dei fisici era che, in definitiva, Maxwell si era servito di un mezzo meccanico, l'etere, ed aveva unificato in una mirabile sintesi i fenomeni dell'elettricità, del magnetismo e dell'ottica. Ma, al di là dell'accoglienza dei contemporanei, è certamente vero che la sua teoria in sé e nei molti punti in cui era logicamente indeterminata apriva ad una grossa mole di lavori sperimentali che non tardarono a prodursi particolarmente ad opera di Hertz e Michelson.

A questo punto si aprono capitoli voluminosissimi che richiedono lavori appositi. Mentre riporterò l'esperienza di Michelson, per i lavori di Hertz rimando a La verifica sperimentale della teoria di Maxwell: i lavori di Hertz. In somma sintesi si può dire che, con Hertz, la luce entra anche sperimentalmente nel novero delle onde elettomagnetiche. E' una delle infinite onde elettromagnetiche che noi, con il nostro strumento meraviglioso ma selettivo, l'occhio, riusciamo a vedere. La gran maggioranza di tali onde riusciamo solo a vederle attraverso strumenti amplificatori dei nostri sensi. Nella figura seguente un semplificato schema del peso della luce visibile, rispetto alle altre one elettromagnetiche.

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ESPERIENZA DI MICHELSON

Abbiamo ora visto che gli sviluppi dell'elettromagnetismo avevano definitivamente stabilito che la luce ha una natura elettromagnetica, rendendo l'ottica un paragrafo dell'elettromagnetismo. Anche in questo campo di ricerca si cercava di capire quali fossero le proprietà dell'etere che, anche qui, serviva da sostegno alle 'vibrazioni'. Risultato, allora, della scoperta identità tra luce ed onde elettromagnetiche fu la fusione dell'etere ottico con quello elettromagnetico. Da questo momento si avrà a che fare semplicemente con l'etere ed il problema della ricerca delle sue proprietà riguarderà da ora tutta la fisica.

Nel 1879 moriva Maxwell e nel 1880 veniva pubblicata postuma su Nature una sua lettera a D.P. file:///C|/$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (144 of 215)28/02/2009 15.12.20

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Todd. In questa lettera, tra l'altro, Maxwell affermava:

"Se fosse possibile misurare la velocità della luce in un solo senso fra due stazioni terrestri in ciascuno dei due casi [nel primo caso la Terra si muove nello stesso senso della luce, nel secondo caso in senso contrario], la differenza tra i due tempi di transito dovrebbe dipendere in modo lineare dal rapporto tra la velocità v della Terra e la velocità c della luce rispetto all'etere. Si tratterebbe quindi di un effetto del primo ordine ... Ma nei metodi terrestri per la determinazione della velocità della luce, la luce stessa torna indietro sempre lungo la stessa traiettoria, così che la velocità della Terra rispetto all'etere dovrebbe alterare il tempo necessario per il doppio passaggio di una quantità che dipende dal quadrato del rapporto tra la velocità della Terra e quella della luce [effetto del secondo ordine]: il quale è un valore troppo piccolo per poter essere osservato."

Per capire meglio quanto qui sostenuto facciamo un esempio semplice. Supponiamo di voler calcolare il tempo necessario affinché un battello, che parte da un certo punto A, risalendo la corrente di un fiume, raggiunga un altro punto B e, quindi, col favore della corrente, da B torni ad A, avendo percorso una distanza 2d. Supponiamo che il battello sia dotato di una velocità u rispetto all'acqua del fiume e che la corrente dello stesso fiume abbia una

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velocità v.

Il tempo t AB necessario per andare da A a B (per percorrere la distanza d controcorrente) sarà

dato da:

in accordo con il principio classico di relatività (essendo v - u la velocità del battello rispetto alla riva del fiume).

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Il tempo tBA per tornare da B ad A (per percorrere la distanza d a favore di corrente) sarà allora:

sempre in accordo con il principio classico di relatività (essendo v + u la velocità del battello rispetto alla riva del fiume).

Il tempo totale t1 necessario a completare il tragitto di andata e ritorno sarà dato da:

Come si vede questo tempo dipende dal secondo ordine in v/u, cioè da v2/u2. Ora, nel caso del battello e del fiume, le velocità sono dello stesso ordine di grandezza e pertanto la quantità v2/u2 è grande tanto da dare un contributo significativo al calcolo di t1 (se il battello ha una velocità di 50 km/h e la

corrente di 10 km/h, segue che v/u = 1/5 da cui v2/u2 = 1/25).

Supponiamo ora di voler fare lo stesso conto per il tempo impiegato dalla luce a fare un percorso di andata e ritorno sulla Terra (mediante, ad esempio, uno specchio). Se disponiamo i nostri strumenti

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in modo che il percorso della luce abbia la stessa direzione del moto orbitale della Terra, quando la luce marcerà in un verso sentirà un vento d'etere che si opporrà al suo movimento, quando marcerà in verso opposto il vento d'etere l'aiuterà nel suo movimento. E' chiaro che il vento d'etere è quello prodotto dal moto della Terra in mezzo ad esso (l'analogo del vento d'aria che si sente andando in moto, che ha la stessa velocità della moto ma verso opposto). Ora, la velocità della Terra, rispetto all'etere, nel suo moto orbitale, è di circa 30 km/sec, mentre la velocità della luce, sempre rispetto all'etere, è di circa 300.000 km/sec. Il tempo t1 di andata e ritorno per un raggio di luce che debba

percorrere un certo tratto d sulla Terra (nella direzione del moto orbitale di quest'ultima), analogamente al caso del battello, sarà:

dove 2d è la lunghezza del tragitto totale percorso dalla luce, v la velocità del vento d'etere, c la velocità della luce. Quanto vale v2/c2 ?

Questo era dunque il ragionamento di Maxwell: effetti cosi piccoli non si sarebbero potuti rilevare con nessuno strumento conosciuto. Egli allora proponeva di cercare il vento d'etere su altre esperienze, ma questa volta di carattere astronomico (in particolare suggeriva una versione modificata della misura fatta da Röemer).

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Il problema era dunque quello di rilevare un moto assoluto della Terra rispetto all'etere ed, in ogni caso, di individuare la presenza e le proprietà di questa sostanza.

Proprio nell'anno della pubblicazione della lettera di Maxwell su Nature, il guardiamarina A.A. Michelson (1852-1931), docente di fisica al Nautical Almanac Office di Washington, si trasferiva dagli Stati Uniti in Europa per perfezionare i suoi studi, principalmente nel campo dell'ottica.

Michelson già aveva lavorato in ottica riuscendo tra l'altro a realizzare (1873) un importante perfezionamento al metodo di Foucault per la misura della velocità della luce (sostituzione dello specchio concavo con uno specchio piano; la qual cosa permetteva di misurare c su qualsiasi distanza ed inoltre rendeva il costo dello strumento estremamente basso). Ma fatto interessante è che egli venne a conoscenza, in anteprima, della lettera di Maxwell a Todd, poiché quest'ultimo era suo collega al Nautical Almanac Office. Inoltre egli aveva già lavorato su esperienze utilizzanti metodi interferometrici ed andò a proseguire i suoi studi dapprima a Berlino, nel laboratorio di Helmholtz, quindi ad Heidelberg, nei laboratori di Quincke e Bunsen, infine a Parigi, nei laboratori di Mascart, Cornu e Lippmann.

Già alla fine del 1880 aveva comunicato al direttore del Nautical la sua intenzione di riuscire ad individuare il moto della Terra attraverso l'etere; della cosa aveva già informato Helmholtz il quale non aveva avuto nulla da obiettare.

Michelson cominciò ad ideare lo strumento che riteneva necessario per eseguire l'esperienza che aveva in mente; da una ditta tedesca comprò un polarimetro ottico e ne sostituì la parte ottica piana con quella utilizzata nell'interferometro di Jamin acquistata da una ditta di Parigi. Lo schema di funzionamento di questo primo interferometro di Michelson è mostrato in figura

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Figura 30

S è una sorgente di luce (dapprima monocromatica per la taratura dello strumento e quindi bianca); A e B sono le due lastre di vetro dell'interferometro di Jamin; M1 ed M2 sono due specchi

piani; O è un oculare su cui è riportata una scala graduata. Il raggio di luce prodotto da S, interagendo con la lastra A, viene separato in due fasci che marciano tra loro ad angolo retto: il fascio 2, dopo aver attraversato A, essersi riflesso su M2 ed aver riattraversato A, va all'oculare O; il fascio 1, dopo aver

attraversato B, essersi riflesso su M1 , aver riattraversato B ed essersi riflesso su A, va anche esso

all'oculare O (si noti che: i due fasci si originano nel punto P; che la lastra B - lastra compensatrice - è utilizzata per rendere perfettamente uguali i due percorsi ottici; che i tratti PM1 e PM2 sono chiamati

bracci dell'interferometro).

L'idea guida dell'esperienza è ben espressa dallo stesso Michelson in apertura dell'articolo del 1861 che ne fa un resoconto:

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FISICA/MENTE

"La teoria ondulatoria della luce ipotizza resistenza di un mezzo chiamato etere, le cui vibrazioni producono i fenomeni del calore e della luce e che si suppone riempia tutto lo spazio. Secondo Fresnel, l'etere che è racchiuso nei mezzi ottici condivide il moto di questi ultimi in una misura che dipende dai loro indici di rifrazione ... Supponendo quindi che l'etere sia in quiete e che la Terra si muova in esso, il tempo necessario alla luce per passare da un punto all'altro della superficie terrestre dovrebbe dipendere dalla direzione lungo la quale essa si muove."

Dunque si tratta di questo: quando la Terra si muove nello spazio con una velocità v, essa provocherà un vento d'etere con la stessa velocità v ma in verso contrario (si veda la figura). Se si considera un raggio di luce che faccia un

percorso PM1P nella direzione del moto della Terra, esso impiegherà un dato tempo t1 diverso dal

tempo t2 necessario ad un raggio di luce per percorrere una ugual distanza PM2P in direzione

perpendicolare al moto della Terra. Ritornando all'esempio del fiume, incontrato un poco indietro, vediamone il perché riferendoci alla figura seguente.

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FISICA/MENTE

Abbiamo già visto che il tempo t1 necessario ad un battello, che marci a velocità u, a percorrere

il tragitto ABA in direzione della corrente è dato da:

Calcoliamoci ora il tempo t2 necessario allo stesso battello a percorrere una stessa distanza 2d ma,

questa volta, in direzione perpendicolare alla corrente (tragitto ACA).

Innanzitutto il pilota del battello, se vuole arrivare da A a C, dovrà puntare la prua verso C", in accordo con la composizione vettoriale delle velocità: la velocità risultante vR del battello sarà la

somma vettoriale della velocità u , del battello rispetto all'acqua, e v della corrente rispetto alla riva (si file:///C|/$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (152 of 215)28/02/2009 15.12.20

FISICA/MENTE

veda la figura a). Analogamente al ritorno; se il pilota vuole arrivare da C ad A, dovrà puntare la prua verso C'' e la sua velocità risultante sarà la medesima vR (si veda la figura b).

E' ora abbastanza facile calcolarci vR (velocità del battello rispetto alla riva); basta applicare il

teorema di Pitagora per avere:

Il tempo necessario a percorrere il tragitto ACA sarà allora:

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FISICA/MENTE

Come si può vedere i tempi t1 e t2 , forniti rispettivamente dalle (1) e (2), sono differenti.

Ora, nel caso della luce illustrato in fig. 31, le cose vanno esattamente allo stesso modo a patto di sostituire alla velocità della corrente v la velocità del vento d'etere v, alla velocità del battello u la velocità della luce c, ai percorsi ABA e ACA i percorsi PM1P e PM2P.

E questa era l'idea base di Michelson, il quale voleva evidenziare la differenza tra i due tempi t1 e t2, fatto che gli avrebbe permesso di mostrare l'esistenza dell'etere dal suo vento e

conseguentemente il moto assoluto della Terra rispetto a quella misteriosa sostanza.

In definitiva i tempi t1 e t2 necessari alla luce per percorrere rispettivamente i tratti PM1P e

PM2P erano teoricamente dati da:

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FISICA/MENTE

avendo assunto che d è la lunghezza di ciascun braccio dell'interferometro.

Calcoliamo ora quanto vale la differenza ∆t fra questi due tempi:

Per poter procedere al calcolo conviene fare una approssimazione lecita solo se v<<c, cosa senz'altro verificata. Allo scopo ricordiamo la formula binomiale che permette lo sviluppo del binomio di Newton:

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FISICA/MENTE

Applichiamo questo sviluppo ai due termini dell'ultimo membro della (3):

Facciamo ora l'approssimazione annunciata. Poiché v <<c e, conseguentemente, v/c <<1, la quantità v2/c2 è certamente molto piccola e, a molto maggior ragione, v4/c4 è completamente trascurabile. Con tale assunzione si ha:

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FISICA/MENTE

avendo trascurato i termini in v/c di ordine superiore al secondo.

In questo modo la (3) che ci forniva ∆t diventa:

avendo indicato con ∆s il tragitto percorso dalla luce nel tempo ∆t.

Tutto ciò che abbiamo detto era nell'ipotesi implicita che i bracci dell'interferometro fossero perfettamente uguali e lunghi d. Ora, mentre nel caso del battello metro più o metro meno, su percorsi di centinaia di metri, non crea alcun problema, in questo caso, dato il piccolissimo effetto da rilevare, anche una piccolissima ed inevitabile differenza tra i due bracci può essere fatale alla validità dell'esperienza (essendo tal piccola differenza quantomeno dell'ordine di grandezza dell'effetto da misurare). Per rimediare a questo inconveniente Michelson pensò di effettuare la misura, una prima volta con i bracci dell'interferometro sistemati come in fig. 30 e quindi, una seconda volta con i bracci

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FISICA/MENTE

ruotati di 90° sul piano orizzontale, di modo che il braccio prima disposto nella direzione del vento d'etere fosse ora perpendicolare ad esso (e viceversa per l'altro braccio). Operando in questo modo l'inconveniente veniva eliminato: i due bracci invertivano il loro ruolo e la seconda lettura, fatta per differenza con la prima, compensava gli effetti (anche analiticamente)(19). Nella seconda lettura si otteneva una differenza di tragitto analoga alla prima ma di segno contrario cioè, in totale, una differenza doppia della precedente.

Rifacciamoci allora i conti, nell'ipotesi di bracci con lunghezza diversa: PM1 = d1 e PM2 = d2.

Ripartendo dalla (3) si ha:

Invertendo ora i bracci dell'interferometro, la relazione precedente diventa:

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FISICA/MENTE

La differenza tra questi due tempi sarà:

avendo, come prima, indicato con ∆s il cammino percorso dalla luce nel tempo ∆t. Ora si tratta di andare a sostituire i valori numerici ricavati dalla struttura dell'apparato sperimentale; ed ora, e solo ora, possiamo supporre, nei limiti degli errori di misura, che d1 ~ d2 = d e scrivere:

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FISICA/MENTE

E questo risultato è in accordo con quanto anticipato: abbiamo ottenuto una differenza doppia e ciò vuol dire che gli effetti si sono compensati.

In ultima analisi, l'esperienza di Michelson, per la prima volta, ci pone di fronte ad una dipendenza del secondo ordine in v/c. la differenza ∆s di cammino ottico è quella che nell'oculare O dovrebbe originare frange di interferenza(20). Considerando gli ordini di grandezza in gioco, cerchiamo di vedere se ciò è sperimentalmente realizzabile. Nell'esperienza di Michelson del 1881 si aveva d1 ~ d2 = 120 cm ed allora ∆s ~ 2,4.102.10-8 cm = 2,4.10-6 cm. Se si confronta questa

differenza di cammino ottico dei due raggi con la lunghezza d'onda della luce (λ = 57.10-6 cm), si trova:

E ciò significa che, dopo aver fatto la prima misura con l'interferometro sistemato in una data posizione, quando si va a fare la seconda misura con l'interferometro ruotato di 90°, si dovrebbe osservare, nella figura d'interferenza, uno spostamento di 4/100 di frangia. E lo strumento a disposizione di Michelson era in grado di apprezzare spostamenti di frange di questo ordine di

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FISICA/MENTE

grandezza.

Nonostante ciò, Michelson concluse la sua memoria del 1881 affermando:

" L'interpretazione dei risultati ottenuti è che non esiste alcuno spostamento delle frange d'interferenza. Si mostra in tal modo che è errato il risultato dell'ipotesi dell'etere stazionario, e ne consegue la necessaria conclusione secondo cui l'ipotesi stessa è sbagliata.

Questa conclusione contraddice direttamente la spiegazione fino ad ora generalmente accettata per i fenomeni di aberrazione: spiegazione che presuppone che la Terra si muova attraverso l'etere e che quest'ultimo rimanga in quiete."

E ciò vuol dire che la teoria di Fresnel, che prevede un etere immobile nello spazio, etere nel quale la Terra si infila senza creare alterazioni, a parte un piccolo trascinamento nei corpi trasparenti, va rivista. Le cose sembrano andare d'accordo con la teoria di Stokes; infatti, poiché la teoria prevede un trascinamento totale dell'etere sulla superficie della Terra, quest'ultima non è animata di moto relativo rispetto all'etere.

Le condizioni in cui Michelson aveva lavorato in questa sua prima esperienza non erano delle migliori. Molti problemi si erano posti, legati soprattutto alle condizioni fisiche del luogo dove lo strumento era posto. Ad esempio egli dovette trasferirsi da Berlino ai sotterranei dell'Osservatorio di Potsdam, poiché troppe erano le vibrazioni dovute al traffico cittadino che, di fatto, gli impedivano di far misure. Un altro grave inconveniente, ricordato dallo stesso Michelson nel suo lavoro con Morley del 1887, era legato alle difficoltà incontrate per ruotare manualmente lo strumento. Insomma, questo primo lavoro lasciò molti dubbi e sollevò molte critiche; lo stesso Michelson lo considerò un insuccesso.

Dopo la realizzazione dell'esperienza, Michelson rimase ancora un anno in Europa. Passò prima ad Heidelberg dove, tra l'altro, ebbe modo di stare a contatto con Quincke il quale nel 1867 aveva

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introdotto la tecnica dell'argentatura di una delle superfici delle lastre di vetro di Jamin. In questo modo, dosando la quantità di argento che si faceva depositare sulla superficie, si potevano ottenere specchi semitrasparenti, con il risultato che le frange risultavano molto più nitide.

Una lettera scritta a Nature in questo periodo, per criticare una misura di velocità della luce eseguita di recente da Young e Forbes, gli valse l'amicizia di Lord Hayleigfa che condivideva le sue opinioni su quella misura.

Prima di tornare negli Stati Uniti, Michelson soggiornò qualche tempo a Parigi. Qui, come già detto, scrisse una memoria nella quale riconosceva e correggeva il suo errore nella non valutazione del vento d'etere sul cammino ottico perpendicolare ad esso.

Ripresa la sua attività negli Stati Uniti, per lungo tempo, Michelson non fece più riferimento all'esperienza di Potsdam. Egli si dedicò a svariati lavori di ottica e, in particolare, alla misura della velocità della luce ed alla ripetizione (l886) dell'esperimento di Fizeau, fatto quest'ultimo ritenuto importante da molti, ora che si disponeva di apparati in grado di rilevare effetti al secondo ordine in v/c. Quest'ultima esperienza la condusse insieme al chimico E.W. Morley. Dopo 65 serie di misure (!) con uno strumento che era una variante dell'interferometro di Michelson, i due ricercatori trovarono per il coefficiente di trascinamento di Fresnel in acqua il valore di 0,434 ± 0,03, che era in ottimo accordo con quello previsto teoricamente da Fresnel (0,438). Questo valore migliorava quello trovato da Fizeau (0,5 ± 0,1) che, mentre era in buon accordo con quello previsto dal lavoro teorico di J.J. Thomson, che aveva tentato di ricavare il coefficiente di trascinamento dalla teoria elettromagnetica, non lo era molto con quello previsto da Fresnel. In ogni caso il risultato era in accordo e con la teoria di Fresnel e con l'esperimento di Fizeau, di modo che i due ricercatori statunitensi conclusero il loro lavoro affermando che "l'etere luminifero è completamente insensibile al moto della materia che esso permea." Ed in definitiva le cose sembravano svolgersi in accordo con la teoria di Fresnel: etere stazionario e trascinamento parziale.

E' a questo punto (1886) che viene pubblicata una memoria del fisico olandese H.A. Lorentz nella quale si discuteva l'influenza del moto della Terra sui fenomeni luminosi. L'articolo in oggetto si

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apriva con una frase che aveva il sapore di un programma:

" l'esame di questa questione non interessa soltanto la teoria della luce, esso ha acquistato una importanza molto più generale da quando è diventato probabile che l'etere giochi un ruolo nei fenomeni elettrici e magnetici."

Fatta questa premessa Lorentz passò ad esporre la sua teoria che prendeva le mosse da quella sviluppata da Stokes nel 1845 e si integrava con quella di Fresnel. Egli però, dopo aver dimostrato l'inconciliabilità delle due ipotesi di Stokes (l'etere dotato di velocità potenziale e l'etere totalmente trascinato dai corpi materiali: è impossibile che l'etere sia un fluido incompressibile e che si muova alla stessa velocità della superficie della Terra senza che in esso si producano vortici - questa era l'ipotesi di Stokes che Lorentz dimostra non in accordo con i principi della meccanica -), optò solo per la prima, accettando quindi che l'etere sia dotato di una velocità potenziale (in questo modo si rendeva possibile la conciliazione di Stokes con Fresnel). Più in dettaglio, secondo Lorentz: l'etere è dovunque immobile nello spazio vuoto; la materia è completamente trasparente all'etere il quale rimane immobile anche quando è attraversato da un corpo materiale in movimento; poiché l'etere è immobile e la Terra è dotata di una certa velocità, l'etere che è a contatto con la Terra risulta in moto rispetto alla sua superficie ed è inoltre dotato di una velocità potenziale; sulla superficie della Terra i moti relativi dell'etere e della Terra stessa possono essere differenti a seconda delle situazioni particolari; nei corpi trasparenti c'è trascinamento parziale dell'etere secondo il coefficiente di Fresnel che dipende dall'indice di rifrazione del mezzo.

Con questa elaboratissima ipotesi Lorentz ridusse la teoria di Fresnel ad un caso particolare della sua (si ha trascinamento di Fresnel quando la velocità potenziale dell'etere è uguale a zero) e dimostrò che, ad eccezione dell'effetto Doppler prodotto dalla luce delle stelle, non si poteva in alcun modo rilevare il moto della Terra da fenomeni ottici. C'è solo da notare che queste conclusioni Lorentz le ricavò facendo delle approssimazioni, a mio giudizio, non più lecite a questo livello di elaborazione teorica e sperimentale: egli trascurò termini in v/c d'ordine superiore al primo. In ogni caso questa teoria era in ottimo accordo con le conclusioni di Fresnel e spiegava allo stesso modo tutti i fatti sperimentali fino ad allora conosciuti. Inoltre, proprio in quello stesso anno, l'esperienza di Michelson

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e Morley, ripetizione di quella di Fizeau, aveva mostrato un completo accordo della teoria di Fresnel con l'esperimento.

Il lavoro di Lorentz, a questo punto, proseguiva andando a discutere i supposti rapporti tra etere e materia ponderabile anche perché, nella seconda delle sue ipotesi iniziali, egli aveva ammesso che "alla superficie della Terra i moti di questa e dell'etere possono essere differenti" ed una questione di tal portata non si poteva lasciare in sospeso. Cosi scriveva Lorentz:

"Comunque stiano le cose, sarà bene, a mio avviso, non lasciarsi guidare, in una questione cosi importante, da considerazioni sul grado di probabilità o di semplicità dell'una o dell'altra ipotesi, ma indirizzarsi verso l'esperimento per arrivare a conoscere lo stato, di riposo o di movimento, nel quale si trova l'etere sulla superficie terrestre."

E, secondo Lorentz, l'esperienza di Michelson del 1881 sembrava indicare che l'etere fosse immobile rispetto alla superficie della Terra, anche se questo esperimento non era sufficientemente preciso (e qui Lorentz faceva riferimento all'errore di sopravvalutazione degli effetti fatto da Michelson accennato nella nota 546) ed in ogni caso non in grado di fornire dati sulle velocità relative della Terra e dell'etere. Insomma il problema dell'etere si poneva come problema di rapporto tra etere e materia (preludio questo alla teoria degli elettroni di Lorentz della quale parleremo nel prossimo paragrafo).

Rayleigh, anch'egli convinto che il problema centrale fosse di stabilire il rapporto esistente tra etere e materia, scrisse a Michelson mettendolo al corrente dell'articolo di Lorentz e facendogli presente che era diventato urgente ripetere l'esperienza di Potsdam.

Nel marzo del 1887 Michelson rispose a Rayleigh confidandogli anche la propria insoddisfazione per l'esperienza del l88l e che, per la verità, si era sentito molto scoraggiato quando i suoi stessi amici scienziati non gli avevano prestato attenzione sull'argomento. In ogni caso ringraziava Rayleigh per averlo incoraggiato e, dopo essersi impegnato a ripetere l'esperimento, gli chiedeva dei consigli che potrebbero oggi far sorridere ma che ben rendono conto delle problematiche complesse che c'erano dietro la vicenda dell'etere. Michelson si preoccupava di sapere se la sua esperienza poteva essere

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FISICA/MENTE

inficiata dalla particolare geometria del laboratorio se, ad esempio, una parete potesse ostacolare il vento d'etere. Così scriveva Michelson:

" Supponiamo, per esempio, che le irregolarità della superficie della Terra siano schematicamente rappresentate da una figura come questa:

Se la superficie della Terra fosse in movimento nel verso della freccia, l'etere che si trova in 00 sarebbe trascinato con essa ? [e, cosa accadrebbe] in una stanza di questa forma?

Immediatamente, ancora insieme, Michelson e Morley si misero al lavoro realizzando uno strumento di misura che aveva superato tutti i difetti di quello di Potsdam. Innanzitutto l'intero stramento era montato solidalmente con una grossa base di arenaria (figura 34a) la quale a sua volta era montata su di un galleggiante di legno sistemato in una vasca di ferro contenente mercurio (una sezione dell'intero apparato è mostrata in figura 34b). Il tutto aveva una grossa

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stabilità e contemporaneamente poteva venir ruotato sul piano orizzontale intorno al suo asse (x), con facilità e senza provocare distorsioni (anzi l'apparato veniva manualmente messo in rotazione e continuava a ruotare per inerzia in modo cosi lento che le letture potevano essere fatte quando esso era in moto).

L'altra questione riguardava la sensibilità dello strumento che era al limite della misura da effettuare: a Potsdam lo strumento era in grado di porre in evidenza uno spostamento delle frange pari ad un centesimo di frangia; ora, con un sistema di riflessioni multiple (figura 34c), si aumentava, moltiplicandolo per circa 10, il tragitto della luce ed in questo modo si aumentava di circa un fattore 10 l'effetto previsto; ora lo strumento, se l'effetto previsto si fosse verificato, avrebbe dato una risposta più grande (lo strumento era reso 10 volte più sensibile). Ci possiamo rendere conto di quest'ultima cosa se riprendiamo per un momento in esame la relazione (4) incontrata più indietro e sostituiamo i valori ora a disposizione , che differiscono dai precedenti solo perché ora d ~ 11 m = 1,1.103 cm, si ha:

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e, come si vede, si è amplificato di un fattore 10 l'effetto previsto: ora, mentre si è in grado sempre di apprezzare lo spostamento di un centesimo di frangia, l'effetto previsto è di ben circa mezza frangia.

Con questo apparato, con estrema cura, venne eseguita l'esperienza nel mese di luglio del 1887: non si osservò nessun effetto. Nell'articolo che descrive l'esperienza, tutto impostato per rispondere alle critiche di Lorentz sulla non attendibilità del lavoro del 1881, Michelson e Morley dicevano:

"si è deciso di ripetere l'esperimento con modifiche tali da assicurare un risultato teorico il cui valore numerico sia talmente elevato da non poter essere mascherato da errori sperimentali ... Da tutto quanto precede [discussione dei risultati sperimentali] sembra ragionevolmente certo che, se esiste un qualche moto relativo tra la Terra e l'etere luminifero, allora esso deve essere molto piccolo; talmente piccolo da farci rifiutare la spiegazione dell'aberrazione data da Fresnel. Stokes ha elaborato una teoria dell'aberrazione nella quale si ipotizza che l'etere alla superficie della Terra sia in quiete rispetto a quest'ultima: in tale teoria si richiede solamente, inoltre, che la velocità relativa abbia un potenziale; ma Lorentz ha dimostrato che queste condizioni sono tra loro incompatibili. Lorentz ha quindi proposto una variante nella quale si combinano alcune idee di Stokes e di Fresnel, e si assume l'esistenza di un potenziale insieme al coefficiente di Fresnel. Se, sulla base del presente lavoro, fosse lecito concludere che l'etere è in quiete per quanto riguarda la superficie della Terra, allora, secondo Lorentz, non potrebbe esistere un potenziale della velocità; ed in tal caso la teoria dello stesso Lorentz fallisce."

L'esperienza aveva così fornito un risultato del tutto negativo e la spiegazione immediata e più spontanea , nel contesto della fisica di fine Ottocento, era che l'etere che circonda la Terra fosse trascinato da essa cosicché esso risultasse in quiete rispetto alla superficie della Terra stessa. Di nuovo sorgeva la difficoltà rispetto al fenomeno dell'aberrazione; l'ipotesi di un etere trascinato dalla superficie della Terra e quindi in riposo rispetto ad essa non si conciliava con la spiegazione di questo fenomeno. Di nuovo la teoria di Fresnel non era in accordo con questo fatto sperimentale, non lo era quella di Lorentz e tantomeno quella di Stokes, che Lorentz aveva dimostrato essere inconsistente.

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In definitiva, a questo punto ci troviamo di fronte all'aberrazione che si spiega con l'etere immobile; alla costanza dell'aberrazione per differenti mezzi che si spiega con il trascinamento parziale; all'esperienza di Michelson-Morley che si spiega con un trascinamento totale. Sono conseguenze di differenti fatti sperimentali, tutte in disaccordo tra di loro.

Per altri versi l'idea che sempre più andava facendosi strada era che questo etere non sembrava in grado di fornirci un sistema di riferimento privilegiato né per i fenomeni ottici né per quelli elettromagnetici. In particolare, non si era in grado di evidenziare il moto della Terra rispetto all'etere e, d'altra parte, lo stesso etere sfuggiva ad ogni rilevamento sperimentale.

Cosa concludere da tutto ciò?

Certamente occorreva mettersi al lavoro per raccordare con una sola teoria i vari fatti sperimentali. Bisognava inventare cose nuove poiché non era possibile rimettere in discussione né l'ottica in quanto tale, né l'elettromagnetismo, né, tantomeno, la meccanica che ci fornisce la composizione delle velocità, e questo per il semplice motivo che questi capitoli della fisica erano molto ben strutturati, mirabilmente formalizzati, spiegavano una mole notevolissima di fatti sperimentali e fornivano una tal base di certezze che sembrava, impossibile rimettervi le mani.

Da dove cominciare ?

Intanto da ciò che sembrava più semplice: cercare di ricondurre alla ragione quel pazzo interferometro. Quindi cercando di modificare l'elettromagnetismo (di cui l'ottica è ormai un capitolo) in qualche sua parte. Ma la meccanica no: essa era davvero intoccabile.

Non c'è dubbio che questo era un periodo di grande travaglio all'interno di quella parte del mondo scientifico che lavorava su questi problemi in modo diretto. Il resto della comunità scientifica non era toccata dalla cosa; la specializzazione crescente, la divisione del lavoro, la richiesta di efficienza (tutti e tre come portato del mondo esterno che imponeva i suoi ritmi ad una scienza che era buona in quanto presto o tardi sarebbe servita al mondo della produzione - e molto presto della guerra

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-), tutto ciò faceva sì che problemi complessivi non si ponessero e che un ripensamento sui fondamenti non venisse preso molto sul serio.

EINSTEIN

La storia che ho provato a delineare è ormai alla fine nel senso che siamo arrivati ad un punto fermo che risale a meno di 100 anni fa. Naturalmente le ricerche continuano e quanto oggi piuttosto sicuro potrà essere presto rimesso in discussione o relegato ad un paragrafo di un capitolo più grande. La parte affascinante della scienza non è il suo essere definitiva ma la sua provvisorietà che spinge sempre ad andare oltre.

Già le ultime cose che ho raccontato erano estremamente semplificate. Se in qualche modo ho dato l'impressione di una linearità nel progresso delle scienze, me ne scuso. Le cose sono sempre molto più complesse e il ricercare una linea di pensiero è una sorta di economia esplicativa che non ha nulla a che vedere con la storia che è sempre fatta da una infinità di contributi, spesso molto piccoli, da molte strade percorse fino ad un cero punto e poi dimenticate, da molti tentativi underground che crescevano con difficoltà nel momento in cui la scienza ufficiale si appassionava per qualcosa che poi risultava sterile. Capite tutti che per seguire queste cose in dettaglio non basta una persona m,a serve una impresa, un gruppo molto consistente di persone che metta su una mole di libri impressionante. Ma ora debbo tagliare anche qui per accennare a quegli sviluppi cui mi riferivo.

La teoria ondulatoria aveva stravinto e si era dovunque affermata. Anche la

teoria elettromagnetica della luce si era affermata relegando l'ottica ad un suo capitolo. Tutto risolto ? No. Un altro fenomeno non era riconducibile a quanto si era faticosamente affermato. Uno strano fenomeno scoperto sperimentalmente da Hertz nel 1887 sfuggiva da 20 anni ad ogni spiegazione.

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Einstein riuscì a farlo nel 1905 dovendo ammettere una sorta di comportamento corpuscolare della luce. La cosa l'ho trattata in Venti anni di effetto fotoelettrico e non mi ripeto qui. Si tratta di spiegare la luce come costituita da quantità discrete, corpuscoli speciali, chiamate quanti di luce.

DE BROGLIE

Siamo di nuovo in gravi difficoltà. E su queste difficoltà si discuterà ed elaborerà per altri 20 anni finché il fisico francese De Broglie (1923) avanzò un'ipotesi che, salvo aggiustamenti e perfezionamenti, è ancora sostanzialmente accettata.

Ci sono delle differenze ovvie tra particelle ed onde, almeno ad una prima visione superficiale. Una particella è localizzata esattamente in qualche luogo; un'onda è distribuita in una regione di spazio senza confini definiti. Una particella ha una massa e delle dimensioni precise; un'onda è priva di massa e non ha delle dimensioni ben definite. Inoltre le quantità che abbiamo usato per definire le onde (lun ghezza d'onda, ampiezza, frequenza) sembrano non avere alcun significato per le particelle.

Nonostante ciò De Broglie con una brillante intuizione fuse le idee di onda e di particella. Prima di descrivere il funzionamento della Meccanica Ondulatoria vediamo di conciliare un poco le differenze tra onde e particelle.

Sia le onde che le particelle possono muoversi da un luogo ad un altro con una velocità ben determinata.

Sia le onde che le particelle possono trasportare ener gia da un punto ad un altro. Dati allora due punti A e B,

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FISICA/MENTE

possiamo trasferire impulsi, fornire energia, da A a B in due modi: con un'onda

o con una palla (o altro oggetto materiale; in particolare: una particella)

Va detto comunque che l'onda non è una particella: le onde, in qualche modo, hanno delle caratteristiche corpuscola ri ; le particelle, in qualche modo, hanno delle caratteristi che ondulatorie ed i due concetti sono strettamente connessi.

Nella Meccanica Ondulatoria di De Broglie e di Schrö dinger si possono considerare le particelle come pezzetti di materia purché vengano associati a delle onde. L'onda è in qual che modo (come vedremo) legata alla probabilità che la parti cella si trovi in qualche punto dell'onda stessa.

Consideriamo allora un'onda con una determinata fre quenza ν e lunghezza d'onda λ

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FISICA/MENTE

Quest'onda è diffusa in tutto lo spazio; a ciascun suo punto può quindi essere associata una particella: la probabilità di trovare la particella è la stessa in ciascun punto dell'onda, questa probabilità è costante e quindi la particella può trovarsi dovunque nello spazio occupato dall'onda.

Consideriamo ora più onde di diverse frequenze che interferiscono fra di loro in modo tale che le loro ampiezze si elidano reciprocamente ovunque (operando in un modo analogo a quanto abbiamo visto per due onde sfasate tra di loro) all'infuori che in un ristretto spazio ∆x. Questo insieme di onde possiamo chiamarlo "pacchetto d'onde". Allora la particella che è associata a queste onde si troverà sicuramente all'interno "del pacchetto".

Consideriamo un esempio relativo a quattro onde con quattro differenti valori della frequenza e della lunghezza d'onda

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Queste onde, come si vede dalla figura, originano un pacchetto ben localizzato (l'onda, somma delle quattro, rappresentata tratteggiata nella figura precedente e riportata separatamente nella figura seguente):

dove c'è l'onda, cioè dove c'è il pacchetto, si trova la particella; dove l'onda è nulla non può esservi particella. Considerando quindi un generico pacchetto si ha:

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Così l'altezza (meglio: l'intensità) dell'onda in un punto è legata alla probabilità che la particella si trovi in quel punto e questa è una idea che ebbe Max Born e sulla quale torneremo con maggiori dettagli più oltre.

Dove l'onda è ampia (o forte) vi è una buona possibilità di trovare la particella. Dove l'onda è piccola (o debole) vi è una piccola probabilità di trovare la particella.

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Come sono allora queste onde? Sono onde di probabilità. E questa è la prima grande idea della meccanica ondulatoria.

Era questo un risultato del tutto inatteso: la nozione di probabilità si introduceva in microfisica facendo svanire le nozioni di posizione e di velocità, e scalzando il determinismo classico.

La seconda, grande, idea della meccanica ondulatoria (De Broglie, 1924) fu lo stabilire una relazione tra la velocità v della particella e la lunghezza λ della sua onda:

q = h/λ

dove q = mv è l'impulso o la quantità di moto della particella (essendo m la sua massa e v la sua

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velocità), h la costante di Planck e λ la lunghezza dell'onda associata al corpuscolo.

Si ha quindi:

mv = h/λ => v = h /λ m => v ~ 1/λ

Ora il pregio fondamentale della relazione di De Broglie sta nel fatto che si legano fra di loro, ed anche in una relazione molto semplice, la quantità di moto q, che è una caratteristica corpuscolare, con la lunghezza d'onda λ, che è naturalmente una proprietà ondulatoria. Le caratteristiche ondulatorie e corpuscolari di una particella sono legate insieme con una formula che ci dice che ogni e qualsiasi particella con quantità di moto q possiede un'onda associata di lunghezza d'onda λ data dalla formula:

λ = h/q

(la verifica sperimentale del comportamento ondulatorio degli elettroni e quindi della relazione di De Broglie, si ebbe nel 1927 ad opera di C. Davisson e L. Germer. I due fisici riuscirono ad ottenere la diffrazione degli elettroni , fenomeno tipicamente ondulatorio, servendosi delle tecniche di diffrazione dei raggi X introdotte da von Laue nel 1912 e dai Bragg, padre e figlio, negli anni successivi).

Una prima conseguenza di questa relazione è che le particelle "lente", cioè con bassa velocità v hanno grandi lunghezze d'onda λ e, viceversa, particelle "veloci" hanno piccole λ:

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Più in generale tutti gli oggetti materiali in moto hanno una natura ondulatoria e conseguentemente una lunghezza d'onda associata. Come esempio si può calcolare la lunghezza d'onda che compete ad un uomo che corre i 100 metri piani (m = 66 Kg; v = 10 m/s):

λ = h/mv = (6,6.10-27)/(6,6.104.103) cm = 10-34 cm

se si ricorda che il diametro di un atomo è dell'ordine di grandezza di 10-8 cm e che le dimensioni di un nucleo sono dell'ordine di 10-12 cm ci si rende subito conto dell'impossibilità, anche solo di pensare di poter sottoporre ad una qualche verifica sperimentale un tale dato.

Calcoliamoci ora la lunghezza d'onda associata ad un elettrone (m = 9.10-28 g; v = 108 cm/s):

λ = h/mv = (6,6.10-27)/(9.10-28.108) cm = 7,3 . 10-8 cm

e ricordando anche qui le dimensioni atomiche, si vede subito che ora siamo a quell'ordine di file:///C|/$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (177 of 215)28/02/2009 15.12.20

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grandezza che è anche quello delle distanze interatomiche. E' possibile allora pensare di sottoporre a verifica sperimentale queste dato: si tratta di provocare l'interferenza degli elettroni utilizzando delle particolari fenditure, quelle che separano due atomi in un cristallo. E' ciò che riuscirono a realizzare nel 1927 Davisson e Germer, come già accennato, confermando così la teoria di De Broglie (altre esperienze si possono realizzare a conferma della relazione di De Broglie come ad esempio l' effetto Compton).

NOTE AL CAPITOLO I

(*) La scienza greca ebbe i suoi inizi nella città di MILETO, un crocevia dell'antica civiltà del Vicino Oriente, dove i coloni del ramo ionico dei Greci si erano stabiliti e avevano intrecciato rapporti di consanguineità con le più antiche popolazioni asiatiche. I Milesii — Talete, Anassimandro e Anassimene — furono gli iniziatori del pensiero scientifico europeo. Il periodo della loro fioritura va dal 585 circa al 545 a. C. A Mileto ebbero inizio anche la geografia e la storiografia europee. Fu Anassimandro l'autore della prima carta geografica. Il primo storico fu Ecateo (VI-V sec.). La scienza greca non restò confinata in un solo luogo. Essa fu, piuttosto, una manifestazione dello sviluppo mentale del popolo greco nel suo complesso. Scendendo da Mileto in direziona sud, arriviamo ad ALICARNASSO. Questa città fu la culla dello storico Erodoto (484-425 a. C. circa) la cui storia, che ci è rimasta, è un prodotto tipico dell'illuminismo ionico. Ma anche i Dori greci ebbero parte nel movimento. Un poco più a sud si trovano le colonie doriche di Coo e di CNIDO. Erano qui le sedi delle famose scuole mediche che, a partire dal 500 a. C. circa, principiarono ad apportare contributi di fondamentale importanza alla scienza. Volgendo a nord da Mileto si arriva a EFESO, patria di Eraclito (vissuto intorno al 500 a. C.) e a CLAZOMENE, da cui Anassagora (500-428 a. C.) venne nell'Atene di Pericle. Poi, sui Dardanelli, troviamo LAMPSACO ove Anassagora si ritirò bandito da Atene per empietà e da cui, circa 120 anni dopo, Epicuro trasferì la sua scuola ad Atene. Passando in Europa arriviamo ad ABDERA in Tracia, patria di due famosi pensatori - il sofista Protagora ed il

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suo più giovane contemporaneo Democrito l'iniziatore dell'atomismo in filosofia (fiorito verso il 430 a. C.). Un po' più ad occidente, in Macedonia, si trovava STAGIRA, luogo di nascita di Aristotele, che partì da questa città all'età di diciassette anni per andare a studiare con Platone nell'Accademia. Oltrepassando la Grecia, la prima città che incontriamo è CROTONE. Fu in questo luogo che Pitagora (572-500 a. C. circa), il primo filosofo e scienziato dell'Europa occidentale, stabilì la sua scuola dopo essere emigrato dall'isola di SAMO. Scuole influenzate dal suo pensiero sorsero presto ad ELEA, resa famosa nella prima metà del V secolo da Parmenide e Zenone, e ad AGRIGENTO in Sicilia, patria di Empedocle (vissuto intorno al 450 a. C.). Ad ATENE il movimento scientifico incominciò con Anassagora verso il 450 a. C. e per circa un secolo e mezzo il suo centro principale fu in questa città. I massimi nomi sono Socrate, Platone, Aristotele e Teofrasto, che venne ad Atene da EFESO, nell'isola di LESBO. Fu proprio al termine di questo periodo che Epicuro e Zenone fondarono ad Atene le due grandi scuole filosofiche che si divisero il dominio del mondo classico nei secoli successivi. Epicuro, che era nato da genitori ateniesi a Samo, aveva stabilito la sua scuola a Lampsaco, prima di trasferirla ad Atene. Il fondatore dello stoicismo, invece, era un mercante fenicio proveniente da CIZIO, nell'isola di CIPRO. Dopo il 300 a. C., con lo stabilirsi della dinastia greca dei Tolomei in Egitto, ALESSANDRIA, con la sua biblioteca e il suo museo, divenne il centro della scienza e della cultura. Alessandria rimase il maggiore, anche se, naturalmente, non l'unico centro della cultura greca, fino alla fondazione di Costantinopoli agli inizi del IV sec. a. C. [testo tratto da Farrington].

(1) La gran parte delle notizie riportate in questo paragrafo provengono da Gino Loria, Le scienze esatte nell'antica Grecia; da Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata; da Vasco Ronchi, Storia della luce e da Federigo Enriques e Giorgio de Santillana, Compendio di storia del pensiero scientifico.

Osservo che uno scritto di Ipparco (II sec. a.C.) ci fa sapere che Eudosso (IV sec. a.C.) avrebbe scritto un trattato di Ottica che è andato disperso. D'altra parte anche i lavori ottici di Ipparco non ci sono pervenuti, come quelli di Archimede e di Apollonio.

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(3) Ronchi riporta questo brano attribuito a Leucippo:

«Ogni modificazione, prodotta o ricevuta ha luogo in virtù di un contatto: tutte le nostre percezioni sono tattili; tutti i nostri sensi sono varietà di tatto. Di conseguenza, siccome la nostra anima non esce dal nostro interno per andare a toccare gli oggetti esterni, bisogna che questi oggetti vengano loro a toccare la nostra anima, passando attraverso i sensi. Ora noi non vediamo gli oggetti avvicinarsi a noi, quando noi li percepiamo; bisogna allora che essi mandino alla nostra anima qualche cosa che li rappresenti, delle immagini, ειδολα [leggi idola, ndr], specie di ombre o di simulacri materiali che rivestono i corpi, si agitano alla loro superficie e possono staccarsene per portare alla nostra anima le forme, i colori e tutte le altre qualità dei corpi da cui essi emanano »

(3) Dice Ronchi: "Le sensazioni in genere avrebbero luogo quando le particelle adatte emesse dai corpi penetrano nei pori dell'organo sensibile, disposti in modo da lasciarle passare. In particolare, per il senso della vista, la luce sarebbe l'emanazione del fuoco esterno (però non bisogna interpretare queste frasi col significato che oggi hanno le parole contenutevi) elementare e arriverebbero agli occhi, attraverso allo spazio, come il suono all'orecchio, e l'odore al naso. Però, accanto a questa azione esterna, Empedocle ritiene necessaria un'azione dall'interno dell'individuo, verso l'esterno:

«Così il nero e il bianco e ogni altro colore ci appariranno generati dall'incontro degli occhi con qualche cosa che si muove nella direzione degli occhi stessi; e ciò che noi diciamo questo o quel colore non sarà né l'oggetto che viene incontro all'occhio, né l'occhio che è incontrato, bensì qualche cosa che si è generato tra mezzo..... ..... È necessario che divenendo io senziente divenga senziente di qualche cosa; perché divenir senziente è possibile, ma senziente di nulla non è possibile. Similmente è necessario che quella data cosa, quando diviene dolce o amara, o d'altro .sapore, diventi tale per qualcuno, perché divenire dolce è possibile, ma non dolce per nessuno ».

(4) Questi sono gli argomenti di Aristotele contro la teoria dei fuochi emessi dall'occhio:

«Ma se l'occhio fosse di fuoco, come dice Empedocle e come è scritto nel Timeo; se la visione avesse luogo per mezzo di un fuoco uscente dall'occhio, come per mezzo della luce uscente da una lanterna, perché non ci si deve vedere in mezzo alle tenebre? Dire che questa luce si estingue spandendosi nelle

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tenebre, come è detto nel Timeo, è un ragionamento completamente privo di significato. Infatti come può avvenire l'estinzione della luce? Il caldo e il secco si estinguono nel freddo e nell'umido, e come tali sembrano essere il fuoco e la fiamma che si formano nei carboni incandescenti. Ma né il caldo né il secco sembrano appartenere alla luce. Se vi si trovassero e se ci fossero invisibili a causa della loro quiete, ne verrebbe di conseguenza che in una giornata di pioggia la luce si dovrebbe estinguere, e che in tempo di gelo dovremmo avere le tenebre più profonde. Perché tali sono gli effetti che subiscono le fiamme e i corpi incandescenti. Ora, non avviene nulla di simile» [Dei sensi, citato da Ronchi, pag. 14].

«È affatto assurdo sostenere che si vede per qualche cosa che sorte dall'occhio e, che questo qualche cosa si estenda fino agli astri o fino a che incontra qualche altra cosa che gli viene incontro, come lo pretende qualcuno. Perché semmai sarebbe preferibile ammettere questa unione dapprincipio, nell'occhio stesso. Ma anche questa sarebbe una sciocchezza, perché non si capisce il significato di questa unione di luce a luce, e non si capisce come potrebbe effettuarsi» [ibid. pag. 15].

«Quanto a dire, con gli antichi, che i colori sono delle emissioni e che questo è il modo di vedere, è una cosa assurda. Perché bisognerebbe che essi avessero dimostrato prima di tutto che noi sentiamo tutte le cose per mezzo del tatto » [ibid].

«Una volta per tutte, è preferibile convenirne che la sensazione nasce dal movimento eccitato dal corpo sensibile nel mezzo intermedio, piuttosto che riportarla a un contatto diretto o a una emissione » [ibid].

Una volta definito (?) il diafano ed il buio come riportato nel testo, Aristotele dice:

«Pertanto abbiamo detto che cosa sono il diafano e la luce, e come questa non sia né fuoco, né in file:///C|/$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (181 of 215)28/02/2009 15.12.20

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genere un elemento corporeo, né emanazione di alcun corpo (che anche in tal caso sarebbe un elemento corporeo), né effetto dell'esservi il fuoco o cosa simile in contatto del diafano, giacché non è possibile che in un stesso luogo si trovino simultaneamente due corpi;... » [De Anima, citato da Ronchi, pagg. 15-16].

(5) Platone parla di questioni di ottica nel Timeo e nel Teeteto dice:

"Prima di ogni altro organo [gli dei] fabbricarono gli occhi che portano la luce, e ve li collocarono in siffatto modo : di tutto quel fuoco che non può bruciare, ma produce la mite luce propria d'ogni giorno, fecero in modo che esistesse un corpo. Il fuoco puro, che sta dentro di noi ed è della stessa natura di questo fuoco del giorno, lo fecero scorrere liscio e denso attraverso agli occhi, costringendo tutte le parti, ma specialmente quelle di mezzo, degli occhi, in modo che trattenessero tutto quello ch'era più grasso e lasciassero passare solo quello puro. Quando dunque v'è luce diurna intorno alla corrente del fuoco visuale, allora il simile incontrandosi col simile e unendosi strettamente con esso, costituisce un corpo unico e appropriato nella direzione degli occhi, dove la luce che sopravviene dal di dentro s'urta con quella che s'abbatte dal di fuori. E questo corpo, divenuto tutto sensibile alle stesse impressioni per la somiglianza delle sue parti, se tocca qualche cosa o ne è toccato, ne trasmette i movimenti per tutto il corpo fino all'anima, e produce quella sensazione per cui noi diciamo di vedere. Ma il fuoco visuale si separa dal suo affine, quando questo scompare nella notte: infatti uscendo fuori incontra il dissimile, e si altera e si estingue, né può connaturarsi con l'aria circostante, perché questa non ha più fuoco". (Timeo, pagg. 31-32). E più oltre: "Ci rimane ancora un quarto genere di sensazioni, che occorre distinguere, perché contiene in sé molte varietà, che complessivamente abbiamo chiamato colori : e questi sono fiamma che esce dai singoli corpi ed ha particelle così proporzionate al fuoco visuale da produrre la sensazione: e del fuoco visuale abbiamo precedentemente spiegato in poche parole le cause che lo producono. Ma ora potrebbe essere molto opportuno di svolgere a questo modo l'opinione che sembra più probabile intorno ai colori: le particelle, che si staccano dai corpi e incontrano il fuoco visuale, sono alcune più piccole, altre più grandi, altre infine eguali alle parti di questo fuoco visuale: ora le eguali non generano sensazione e sono dette diafane, ma le maggiori e le minori, quelle che contraggono e queste che dilatano il fuoco visuale, esercitano la stessa azione che sulla carne le

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sostanze calde e le fredde, e sulla lingua le acerbe e tutte quelle atte a riscaldare, che abbiamo dette piccanti: e le bianche e le nere producono le stesse impressioni di queste cose in un altro genere e per queste cagioni ci sembrano differenti". (ibid. pagg. 56-57).

[Vi sono uomini colti i quali pensano] che tutto è movimento nell' Universo, e che non esiste nient'altro che questo. Ci sono due specie di movimenti; ciascuno è infinito in numero, ma l'uno è attivo e l'altro passivo. Dalla loro combinazione e dal loro urto mutuo si formano innumerevoli prodotti, suddivisibili in due classi: l'oggetto sensibile e la sensazione; la quale coincide sempre con l'oggetto sensibile ed è generata nello stesso tempo. Le sensazioni sono conosciute sotto il nome di visione, udito, odorato, gusto, tatto, freddo, caldo, e ancora di piacere, dolore, desiderio, timore; senza parlare di tante altre, di cui un gran numero non ha nome e un gran numero ne ha uno solo. La classe delle cose sensibili è prodotta per mezzo di ciascuna delle sensazioni, come i colori di ogni specie con la visione di ogni specie, i diversi suoni con gli stimoli dell'udito e le altre cose sensibili corrispondenti alle altre sensazioni... Ciò vuol dire che tutto ciò è in movimento e che questo moto è lento o rapido ; che ciò che è lento esercita il suo moto sul posto stesso e sugli oggetti vicini, che egli produce in questa maniera; e che ciò che è così prodotto ha maggior lentezza; che al contrario ciò che è rapido, spostando, il suo movimento sugli oggetti lontani, produce in questa guisa, e ciò che è prodotto così ha maggior velocità, perché è trasportato e perché il suo movimento consiste nella traslazione. Quando dunque l'occhio e un oggetto adatto si sono avvicinati e si produce il chiarore e la sensazione corrispondente, che non si sarebbero mai prodotti se l'occhio si fosse rivolto ad un altro oggetto, o reciprocamente, allora muovendosi queste due cose nello spazio, intermedio, cioè: il fuoco visuale partendo dagli occhi e il chiarore partendo dall'oggetto che produce il colore, insieme con gli occhi, l'occhio si trova riempito del fuoco visuale, percepisce e diventa non già fuoco visuale, ma occhio veggente : parallelamente, l'oggetto concorrendo anche lui alla produzione del colore è riempito di chiarore e diviene, non già chiarore, ma oggetto chiaro ; tanto se ciò che riceve la tinta di questo colore sia legno, pietra o qualunque altra cosa. Bisogna formarsi la stessa idea di tutte le altre qualità, quali il duro, il caldo e così via, e farsi il concetto che nulla di tutto ciò è tale in sé,... ma che tutte queste cose così diverse nascono dal loro ravvicir. amento reciproco, che è una successione di movimenti » (Teeteto, citato da Ronchi, pagg. 11-13).

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Nella Repubblica (libro VI, 507c-508a) Platone dice altro sulla visione. Le cose molteplici di cui facciamo esperienza si vedono; le idee - i paradigmi concettuali delle cose - si concepiscono e non si vedono. Le cose visibili si vedono con la vista, che ha un carattere speciale: perché il soggetto senziente possa vedere i suoi oggetti, gli occorre la luce, prodotta dal Sole, che, per la religione greca, è un dio, e che viene detto figlio del Bene. Questa analogia con il Sole può spiegare la funzione del Bene: quello che fa il Sole per la vista e le cose visibili, lo fa il Bene per l'intelletto (nous) e le cose intelligibili. Come il Sole produce la luce che rende gli oggetti visibili chiaramente agli occhi, così il bene ci mette in rapporto con le cose intelligibili, dandoci chiarezza nella conoscenza. (6) I postulati che seguono sono tratti da Ronchi, pagg. 18-19. Il brano di Euclide tratto dall'Ottica in cui sono raccolti i suoi postulati è il seguente:

"I raggi che partono dall'occhio sono rettilinei. La figura formata dai raggi luminosi è un cono avente per vertice l'occhio e per base il contorno dell'oggetto guardato. Sono visibili soltanto gli oggetti a cui giungono raggi visuali, invisibili gli altri; sembrano maggiori gli oggetti visti sotto angoli più grandi, minori quelli che sono visti sotto angoli più piccoli, eguali quelli che sono visti sotto angoli eguali; sembrano più alti quelli che corrispondono a raggi più elevati, più bassi quelli che corrispondono a raggi inferiori, più a destra quelli che corrispondono a raggi a destra, ed a sinistra quelli che corrispondono a raggi a sinistra. Appaiono più distinte le cose viste sotto parecchi angoli" (citato da Loria, pag. 560).

Per una discussione storico-critica di queste teorie, dell'attendibilità dei testi e della loro relazione con altri autori, si legga il testo di Ronchi. Anche Loria è d'interesse, anche se ha carattere maggiormente filologico. Vi sono poi i testi di Park, il più moderno, di Pichot, di Mieli, di Farrington, di Sambursky, di Russo, di Enriques e Santillana.

(7) Euclide postula la propagazione rettilinea della luce, Erone tenterà di dimostrarla mediante argomentazioni di carattere teleologico (principi variazionali di minimo) assunte come idee regolatrici. Tolomeo, e più tardi Alhazen e Witelo, ne daranno invece una dimostrazione sperimentale.

(8) La parola prospettiva ha il significato etimologico di visione da distinguere dal significato odierno.

(9) Citazioni da Ronchi, pag. 28.

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(10) Riporto alcune cose da: http://www.minerva.unito.it/Calleri/Call1.htm .

"Ci sono voluti circa centocinquant’anni dalla morte di Muhammad o Maometto (632) perché l’arabo parlato si arricchisse di espressioni e vocaboli anche adattando termini di altre lingue (greco e siriaco perlopiù), e ne venisse codificata la grammatica, in modo da essere adatto per la stesura di testi scientifici, originali e traduzioni, e per la stessa canonizzazione della primitiva catechesi orale del Profeta. Con la fondazione del Califfato 'Abbaside di Baghdad ( ca. 750 ) ha inizio nel mondo islamico, politicamente unito anche se turbato da endemici sussulti, un lungo periodo di feconda attività di ricerca e di pubblicistica: a partire dal IX secolo vengono infatti tradotti in arabo, ebraico e neo-persiano moltissimi testi greci e siriaci, con quasi esclusiva attenzione a scritti di contenuto scientifico o filosofico. A partire dalla metà dell’ottavo secolo in tutti i domini abbasidi si costituisce una cultura comune che si deve chiamare arabo islamica; la lingua araba ne è il veicolo comune e sarà la lingua degli scienziati e letterati per almeno due secoli. ...

I primi traduttori di testi greci furono Siriani neoconvertiti o Cristiani, cosicché potrà essere necessario ritradurre in arabo i testi eventualmente tradotti in siriaco! ; il siriaco scritto era molto più usato dell’arabo nel secolo VIII, ... . Questo, ad es., fu il destino delle opere di Galeno di Pergamo ( II sec. d.C. ) tradotte nel IX secolo .... Il recupero di questi scritti ebbe notevole importanza per l’ottica fisiologica poiché Galeno fu il primo a studiare sistematicamente la struttura dell’occhio. Le traduzioni e ritraduzioni in e pehlevi (lingua persiana con caratteri arabi) saranno invece opera di cristiani nestoriani o monofisiti oppure di zoroastriani. L’attività pubblicistica, in seguito accompagnata da commentari, continuerà sino al XIII secolo coinvolgendo in modo decisivo anche i paesi più occidentali del Dār al Islām che non fecero mai parte del Califfato Abbaside.

Molto importanti ed interessanti per noi sono i contributi di due scienziati mesopotamici, studiosi di ottica e filosofia, che divennero noti in Occidente sotto i nomi volgarizzati ed abbreviati di Alkindi ed Alhazen.

Alkindi (Abū Yūsuf Yallub ibn Ishāq), operoso a Baghdad tra 813 – 873 ca., fu il primo commentatore di Aristotele in arabo. Era medico e, tra le sue numerose opere, interessa la storia dell’ottica quella che nella traduzione in latino porta il titolo De Aspectibus ed il cui titolo originale è: Epistola sulla varietà delle visioni. E’ molto probabile che Alkindi conoscesse l’Ottica e la

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Catottrica di Euclide; la sua introduzione della nozione di raggio rettilineo è comunque rigorosa e parte non da assiomi, ma da osservazioni. Per Alkindi il raggio geometrico è un’astrazione mentre i raggi fisici, pur propagandosi rettilineamente, devono essere qualcosa di materiale, devono avere un "corpo" dato che interessano il nostro sistema visivo partendo dagli oggetti luminosi od illuminati e non viceversa. E’ da ricordare la sua razionale distinzione tra lumen, l’agente luminoso, la radiazione e lux, l’effetto dell’illuminazione. Non porta a termine l’analisi della formazione delle immagini eseguita circa un secolo dopo da Alhazen ( Abū ‛Ali ibn al-Hàitham, Bassora, 965 ca. † Il Cairo, 1039 ) anch’egli mesopotamico che però passò buona parte della sua vita in Egitto. Fu uno dei molti traduttori islamici di opere scientifiche dal greco. Scrisse diverse opere (epistole, discorsi, libri) sui fenomeni ottici tra le quali : Epistola sulla luce e il Libro dell’ottica. In manoscritti tardo medioevali il secondo porta anch’esso il titolo De Aspectibus. Fu un sostenitore dell’approccio sperimentale e dell’impiego della matematica in fisica. Per Alhazen l’occhio non può "sentire" l’oggetto se non per mezzo di raggi che questo gli invia con velocità finita; anche per lui i raggi luminosi devono avere un’esistenza reale perché la luce intensa danneggia gli occhi e può generare immagini persistenti. Risolve il plurisecolare problema di fare entrare nell’occhio oggetti grandi come le montagne nel seguente modo. Studiò il passaggio del lumen attraverso i corpi trasparenti ed in particolare attraverso il cristallino dell’occhio. Conosceva la struttura dell’occhio tramite Galeno e aveva nozione delle tuniche della cornea. Aveva studiato la rifrazione, di cui intravvide la legge, da parte di vetri sferici e cilindrici ed anche la riflessione e l’assorbimento. Mise in evidenza come tra i raggi divergenti emessi dai vari punti di una sorgente luminosa uno solo incida perpendicolarmente sulle tuniche concentriche della cornea e le attraversi senza essere rifratto viaggiando lungo una diagonale del bulbo. Tutti gli altri raggi vengono rifratti e, secondo lui, perdono gran parte della loro efficacia. Quindi da ogni punto dell’oggetto luminoso arriva ad un punto della retina un solo " raggio efficace ". Questa corrispondenza biunivoca giustifica la suddivisione in punti degli oggetti luminosi. La sua analisi dell’aspetto geometrico della formazione delle immagini lo portò a scoprire come le immagini degli oggetti si formino capovolte sulla retina, effetto che ovviamente lo lasciò perplesso. Per risolvere il dilemma, abbandonò l’esperienza ed invocò una ipotesi del tutto errata: il nostro sistema visivo sentirebbe l’immagine quando essa si forma (?) sulla prima superficie del cristallino. I procedimenti di Alhazen non sono ovviamente del tutto accettabili in base ai nostri standard, però è evidente l’enorme progresso rispetto agli studiosi greci. Viene anzitutto definitivamente demolita la vecchia teoria delle scorze, od èidola, immagini di interi oggetti che dovrebbero staccarsi dagli stessi ed entrare nella piccola pupilla dell’occhio, ed è anche grandissima la distanza dagli studiosi ellenisti. ...

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A scanso di equivoci, va detto che Alhazen non giunse assolutamente alle definizioni di asse ottico di un sistema e delle relazioni geometriche tra punti oggetto e punti immagine. Inoltre attribuisce i colori a "radiazioni secondarie" che si dipartono dagli oggetti colorati quando questi sono illuminati da "fonti primarie". Egli si può comunque ritenere l’iniziatore dell’ottica fisiologica. Verbalmente non seguì la distinzione tra lumen e lux che ovviamente tenne ben precisa nella pratica. Forse per primo studiò la "camera oscura" ed i suoi esperimenti lo condussero ad enunciare un principio che avrebbe messo in difficoltà i corpuscolari di otto secoli dopo. Poste più candele di fronte ad un ostacolo con un foro, egli notò come si vedessero, al di là dell’ostacolo, altrettante immagini di candele e come, rimossa una candela, la sua immagine scomparisse per ricomparire al suo posto una volta rimessa la candela. La sua, corretta, interpretazione del fenomeno è : “ Se fosse vero che le luci ( raggi ) si mescolano con l’aria, si dovrebbero mescolare con l’aria del foro che quindi attraverserebbero dopo il mescolamento ed allora esse non sarebbero più distinguibili. Non abbiamo ritrovato ciò ”. Vale a dire che risulta dimostrato come le radiazioni luminose seguendo le loro traiettorie rettilinee possano incrociarsi senza " interferire". Nell’Evo Moderno fu il primo a mettere in evidenza come la luna riceva l’illuminazione dal sole e la ridiffonda. Di lui si deve ancora ricordare il problema detto appunto di Alhazen : trovare su uno specchio il punto in cui la radiazione proveniente da una certa sorgente verrà riflessa verso l’occhio dell’osservatore di cui si conosca la posizione. Egli risolse analiticamente il problema per uno specchio sferico mediante un’equazione di quarto grado ma ne trovò la soluzione anche con un metodo geometrico basato sullo studio di sezioni coniche. A proposito di queste va ricordato che Alhazen ricostruì l’ottavo libro delle Coniche di Apollonio. Apollonio di Perga aveva scritto le Coniche in otto libri; i primi sette furono tradotti dal greco in arabo da due diversi studiosi arabi nel IX secolo, ma l’ottavo era andato definitivamente perso.

A proposito di mezzi sferici, è da ricordare uno strano caso: sino alla fine del Cinquecento, si può dire, l’interesse degli studiosi della rifrazione fu attratto da vetri cilindrici e specialmente sferici, la pila crystallina, anzichè da piccole calotte rifrangenti o riflettenti. Lo studio ottico di una sfera implica, dal punto di vista sperimentale, gravi complicazioni dovute ad aberrazioni.

In Occidente già nel sesto secolo la coltivazione del greco, nonché delle Scienze, era diventata cosa rara; l’ultimo studioso padrone della lingua greca fu probabilmente Severino Boezio (Anicio Manlio Torquato, Roma, 480, † Pavia, 526 ) traduttore in latino delle opere di Aristotele, degli Elementi ed autore di sillogi sull’aritmetica e sulla musica, opere poi andate perse od ignorate per secoli. Nei secoli X – XI la Civiltà Occidentale era ancora in fase di gestazione anche se in campo architettonico venivano realizzate creazioni eccelse e denotanti una cultura unitaria. La scoperta

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dei testi scientifici dell’antichità e degli autori mussulmani ha comunque inizio alla fine del secolo XI principalmente in Spagna. Nel 1085 cadeva Toledo, nel 1093 Valencia (principato del Cid Campeador) e verso il 1090 si può considerare compiuta la conquista della Sicilia da parte dei Normanni; fu in queste regioni che l’Occidente poté stabilire contatti fruttuosi con la cultura islamica. Ad esempio in Sicilia furono tradotti nel XII secolo, dal Greco in Latino, l’Ottica e la Catottrica di Euclide e l’Almagesto di Tolomeo. Ci furono anche dei traduttori trilingui ( Arabo, Greco e Latino ) come Adelardo di Bath ( 1075 – 1160 ca. ) che tradusse dall’arabo in latino gli Elementi e le tavole astronomiche di al-Khuwarizmi e dal greco in latino l’Almagesto; anche l’Ottica di Tolomeo fu tradotta dall’arabo in latino. Il più infaticabile dei traduttori fu senz’altro Gherardo da Cremona ( † 1187 ) che andò a vivere a Toledo dove tradusse dall’arabo l’Almagesto, le opere di fisica e gli Analitici secondi di Aristotele, gli Elementi di Euclide, il De Aspectibus di Alkindi, l’Algebra di al-Khuwarizmi nonché molti trattati di medicina, di Galeno e di altri autori. Un altro insigne traduttore fu il domenicano fiammingo Guglielmo di Moerbeke ( 1215 ca. – 1286 ), Arcivescovo di Corinto. Udito il suo confratello ed amico Tommaso d’Aquino lamentarsi dell’inadeguatezza delle traduzioni dall’arabo in latino delle opere di Aristotele, passò la sua vita a tradurre manoscritti greci non solo di Aristotele, ma anche di suoi commentatori della tarda antichità. Tradusse inoltre quasi tutto Archimede e suoi commentatori e si può dunque ritenere il maggior traduttore del tredicesimo secolo alla fine del quale erano venuti a fare parte della cultura occidentale molti classici greci ed arabi, come i trattati di filosofia naturale di Aristotele ed i relativi commenti di Alkindi, Avicenna (Abū ‘Ali al-Husein ibn Sinā, Buchara, 980 , † Hamadān, 1037), al Ghazāli (Tus, Iran, 1058 – 1111) e sopratutto del Commentatore di Aristotele per antonomasia, Averroè (Muhammad ibn Ahmad ibn Rushd, Córdoba, 1126, † Marrakech, 1198). Alla fine del XIII secolo l’Europa possedeva inoltre i testi delle matematiche greche ed orientali, grazie ai traduttori, nonché i contributi di un primo gruppo di matematici medioevali tra i quali spicca la figura del filius Bonaccii , Leonardo Pisano ( † 1250 ).

La rinnovata conoscenza dei classici non si può dire sia stata di sprone diretto alla ricerca scientifica quale si intende oggi. La filosofia naturale di Aristotele non poté essere rinnovata per dare vita ad un aristotelismo più vitale, ma servì piuttosto per temi di una serie interminabile di questiones e disputationes nelle Università dove più che ricerca si faceva dell’oratoria. Tuttavia gli studiosi di varie estrazioni ne trassero schemi logici e terminologie comuni, cosa di indubbia importanza. ...

Due delle quattro Arti del Quadrivium, aritmetica e geometria, chiaramente si arricchirono in seguito al recupero della scienza greco-araba; l’astronomia divenne quella di Aristotele e la

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musica continuò per conto proprio. Purtroppo il quadrivio a poco a poco venne a trovarsi in posizione subordinata alle filosofie aristoteliche: filosofia naturale, filosofia morale e metafisica. Delle tre arti originali del Trivium, logica, grammatica e retorica, rimase importante solo la logica ed un curriculum della facoltà delle Arti finì per articolarsi in logica, quadrivio e le tre filosofie, la più importante delle quali divenne la filosofia naturale anche per il fatto che i traduttori furono essenzialmente interessati ai testi scientifici. Si ebbe un inevitabile processo di fossilizzazione nonché l’instaurarsi di una mentalità apodittica che precluse la formazione di sperimentatori a parte i frequentatori delle Facoltà di Medicina....

La caduta di Costantinopoli (1453 ) accentuò la fuga verso l’Occidente di centinaia di eruditi bizantini latori di numerosissimi scritti di contenuto umanistico la cui conoscenza ebbe un certo influsso sulla cultura europea, ma non sul progresso delle Scienze. In quel torno di anni si ebbe inoltre l’invenzione e la fulminea diffusione in Europa dell’arte della stampa a caratteri mobili che facilitò in modo inestimabile la propagazione delle conoscenze. La Civiltà Occidentale rimase per il momento, e per un bel numero di anni a seguire, l’unica in grado di sviluppare scienze e tecnologie che si affermeranno in tutto l’ecumene, fenomeno sinora unico nelle storia delle civiltà che conta più di cinque millenni. Le altre civiltà o si erano disintegrate od erano ormai del tutto sterili per quanto riguarda la coltivazione delle scienze escludendo l’architettura.

I libri di Alkindi ed Alhazen si diffusero molto lentamente in Europa; bisognerà attendere il Cinquecento prima di assistere alla rinascenza di una scienza ottica degna del nome. Tuttavia è da registrare, in questo secolare intermezzo, una invenzione importantissima sia per le applicazioni immediate che per altre stimolate indirettamente: si tratta dell’invenzione degli occhiali, dapprima per correggere la presbiopia e poi, due secoli dopo!, per correggere la miopia. ...

Quindi le lenti convergenti ustorie erano oggetti facilmente reperibili sul mercato, usate correntemente, ed il commediografo le ritiene familiari sia a Socrate che all’artigiano Strepsiade. Però stranamente rimasero un oggetto di produzione artigianale e apparentemente non attrassero l’attenzione degli scienziati sino alla fine del XVI secolo ( perchè non ne capivano alcunchè ? ); Euclide le ignora. Lo stesso popolare nome lente, dal legume lenticchia, è spia di questa origine; le lenti divergenti saranno invece dette vetri cavi, dato che non sono mai state ottenute lenticchie a facce concave. Quando le lenti vennero finalmente studiate con metodo, fu loro affibbiato il nome aulico di specilla, presto abbandonato.

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Per quanto riguarda la " luce " il Basso Medioevo rimane dunque un’epoca buia. Basti pensare al grande favore tributato all’Avicenna riesumatore degli antichi simulacri da lui smaterializzati e chiamati specie o forme superficiale dei corpi. Per molti cultori medioevali di ottica fisiologica la lux assumeva inoltre delle connotazioni teologiche la cui considerazione esula dal presente racconto. E’ però da ricordare che Roberto Grossatesta ( 1175 - 1253 ), vescovo di Lincoln e cancelliere dell’Università di Oxford, diede inizio, appunto ad Oxford, ad un movimento che possiamo dire scientifico; egli fu forse il primo ad interessarsi del potere di ingrandimento e di riduzione degli oggetti da parte di lenti convesse. Greathead ebbe tra i suoi discepoli il francescano Ruggero Bacone ( Roger Bacon o Bachon, ca. 1214 - 1293 ), Doctor mirabilis, commentatore delle opere a carattere scientifico di Aristotele ed estimatore di Alhazen. Bacone studiò riflessione e rifrazione e fu il primo, forse, a descrivere il funzionamento delle lenti quali strumenti di ingrandimento e per correggere la presbiopia ( ~ 1249 ). Egli fu uno dei dei pochi dotti medioevali ad affermare che le dimostrazioni sillogistiche portano a conoscenza solo se confortate dai risultati di esperienze. Purtroppo gli elementi antiaristotelici contenuti nei suoi Opus majus, minor e tertium ed alcune tesi relative all’astrologia furono condannate come eretiche dal Padre generale dei Francescani, un tale Gerolamo di Ascoli, che nel 1277 lo fece imprigionare a vita.

Una cosa è l’invenzione delle lenti ed un’altra quella degli occhiali o, a maggior ragione, di strumenti ottici. Appunto a causa del protratto disinteresse degli studiosi è difficile fissare delle date precise. Comunque sembra accertato che gli occhiali per presbiti fossero già diffusi nell’ultimo quarto del XIII secolo e che verso il 1460 a Firenze notoriamente si producessero buone lenti per miopi. Secondo tradizione, addirittura Ruggero Bacone sarebbe stato l’inventore degli occhiali per miopi, ma la notizia è dubbia. Più verosimilmente la paternità dell’impiego delle lenti divergenti è da attribuirsi al cardinale Cusano ( Nicola Krebs o Chrypffs, Cues presso Treviri, 1401, † Todi, 1464 ), filosofo e matematico tedesco che descrisse lenti concave verso il 1451. La scoperta delle lenti divergenti è stato certamente un evento di fondamentale importanza. La loro applicazione per correggere la miopia fu probabilmente frutto del caso ed è un vero peccato che nulla si sappia di preciso in proposito".

(11) Leonardo da Vinci (1452-1519) e Francesco Maurolico (1494-1574) delinearono le prime analogie tra 1'occhio e la camera oscura. Giovanni Battista Della Porta (1535-1605), si interessa per le lenti concave e convesse dandole una credibilità che prima non avevano, a riprova del contributo del filone «magico», del quale Della Porta è un rappresentante, alla diffusione del metodo sperimentale.

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NOTE AL CAPITOLO II

1) Un discorso molto più completo sui caratteri del Cinquecento e del Seicento si può trovare qui.

(2) E' d'interesse notare come un grande studioso di storia della tecnica come Friedrich Klemm dedichi molta attenzione al problema delle Chiese come fattore frenante o trainante. Scrive Klemm (pagg. 168-169):

Un fattore essenziale agli effetti dello studio della natura, della tendenza a padroneggiare la natura attraverso lo strumento tecnico, e del forte impulso economico determinatosi a partire dalla seconda metà del XVII secolo, va ricercato anche nell'etica essenzialmente pratica del calvinismo, nella sua esplicita applicazione alle cose del mondo. Nei paesi con popolazione totalmente o parzialmente calvinista (come i Paesi Bassi, l'Inghilterra, dove le chiese libere puritane attiravano particolarmente i ceti medi, e la Francia sino al 1685, dove gli Ugonotti erano molto attivi nel campo dell'economia), risultava particolarmente significativo. L'elemento calvinistico ha grande importanza anche nelle società scientifiche e nei giornali culturali dell'ultimo periodo del XVII secolo a cui abbiamo già accennato: si trattava insomma di forze religiose che svolgevano una forte azione nel campo della vita adiva. Ritorneremo ancora su questo punto. Nel XVIII secolo, in un periodo di piena laicizzazione, il momento religioso passò in secondo piano, e anche l'inclinazione metafisica propria dell'età barocca (che però si sposava sempre a un forte senso della realtà, dell'economia, della razionalità) lasciò il campo all'utilitarismo ed al razionalismo empiristico.

Ed aggiunge (pagg. 190-191):

Non tanto le tesi della più dotta teologia, quanto i precetti dell'etica pratica del tardo calvinismo, anche nel XVII secolo, ebbero un influsso stimolante sull'applicazione alle questioni scientifiche, tecniche ed economiche. Fu Max Weber che per primo additò nel 1904-1905 questa dipendenza fra l'etica calvinistica e lo sviluppo dell'economia. Troeltsch, Cunningham, Tawney, Muller-Armack ed altri dedicarono successivamente ulteriori ricerche a questo campo. Lecerf, e ancor pili acutamente Merton, hanno dimostrato in quale ampia misura l'etica calvinistica abbia dato impulso alla ricerca scientifica ed alla creazione tecnica. Nella sua dottrina Calvino svolse fino alle più estreme conseguenze la teoria della predestinazione.

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Fra Dio ed il mondo esiste un abisso, che può essere valicato soltanto da Dio stesso. L'uomo è predestinato da Dio alla salvezza o alla dannazione. Né le buone opere, né la fede, né l'intercessione della Chiesa possono influire sulla decisione di Dio. All'uomo, la cui angosciosa domanda sulla salvezza della sua anima non può trovare risposta, restava soltanto la più rigorosa obbedienza ai comandamenti di Dio e l'incessante, faticoso lavoro in questo mondo. Il tardo calvinismo vide addirittura nel successo del lavoro su questa terra un segno esteriore di intimo stato di grazia. Si intendeva coronato dal successo quel lavoro che consisteva in un'incessante creazione di opere utili per il benessere degli uomini e per la gloria di Dio. In ciò consisteva l'"ascesi terrena" (Weber) del puritanesimo calvinistico. Questa concezione doveva portare anche ad una inclinazione favorevole per la ricerca scientifica e l'operosità tecnica. Il calvinismo rifiutava anche le idee platoniche: per le scienze naturali ciò significava via libera all'esperimento. Nel 1663, fra i sessantotto membri della Royal Society, che dava particolare importanza alla ricerca sperimentale, ben quarantadue erano puritani, come ha indicato il Merton;7 fra questi, S. Hartlib, Sir William Petty, Robert Boyle, D. Papin e T. Sydenham. Particolarmente nell'industria mineraria e siderurgica inglese, e pia tardi in quella tessile, gli imprenditori ed i tecnici puritani ebbero una parte preponderante.

(3) Vitellione è il polacco Witelo al quale ho accennato alla fine del Cap. 1.

(4) Poiché tutti parlano di questo esperimento di Galileo ma non gli danno che valore aneddotico, ritengo utile riportare le pagine (E.N. Vol. 8, pagg. 87-89) dei Discorsi in cui è trattato l'argomento.

SALV. Gli altri incendii e dissoluzioni veggiamo noi farsi con moto, e con moto velocissimo: veggansi le operazioni de i fulmini, della polvere nelle mine e ne i petardi, ed in somma quanto il velocitar co' i mantici la fiamma de i carboni, mista con vapori grossi e non puri, accresca di forza nel liquefare i metalli: onde io non saprei intendere che l' azzione della luce, benché purissima, potesse esser senza moto, ed anco velocissimo. SAGR. Ma quale e quanta doviamo noi stimare che sia questa velocità del lume ? forse instantanea, momentanea, o pur, come gli altri movimenti, temporanea ? né potremo con esperienza assicurarci qual ella sia ? SIMP. Mostra l' esperienza quotidiana, l' espansion del lume esser instantanea; mentre che vedendo in gran lontananza sparar un' artiglieria, lo splender della fiamma senza interposizion di tempo si conduce a gli occhi nostri, ma non già il suono all' orecchie, se non dopo notabile intervallo di tempo. SAGR. Eh, Sig. Simplicio, da cotesta notissima esperienza non si raccoglie altro se non che il suono si conduce al nostro udito in tempo men breve di quello che si conduca il lume; ma non mi assicura, se la venuta del lume sia per ciò instantanea, più che temporanea ma velocissima. Né simile

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osservazione conclude più che l' altra di chi dice : « Subito giunto il Sole all'orizonte, arriva il suo splendore a gli occhi nostri »; imperò che chi mi assicura che prima non giugnessero i suoi raggi al detto termine, che alla nostra vista ? SALV. La poca concludenza di queste e di altre simili osservazioni mi fece una volta pensare a qualche modo di poterci senza errore accertar, se l'illuminazione, cioè se l' espansion del lume, fusse veramente instantanea ; poiché il moto assai veloce del suono ci assicura, quella della luce non poter esser se non velocissima : e l' esperienza che mi sovvenne, fu tale. Voglio che due piglino un lume per uno, il quale, tenendolo dentro lanterna o altro ricetto, possino andar coprendo e scoprendo, con l'interposizion della mano, alla vista del compagno, e che, ponendosi l' uno incontro all' altro in distanza di poche braccia, vadano addestrandosi nello scoprire ed occultare il lor lume alla vista del compagno, sì che quando l' uno vede il lume dell'altro, immediatamente scuopra il suo; la qual corrispondenza, dopo alcune risposte fattesi scambievolmente, verrà loro talmente aggiustata, che, senza sensibile svario, alla scoperta dell' uno risponderà immediatamente la scoperta dell'altro, sì che quando uno scuopre il suo lume, vedrà nell' istesso tempo comparire alla sua vista il lume dell' altro. Aggiustata cotal pratica in questa piccolissima distanza, pongansi i due medesimi compagni con due simili lumi in lontananza di due o tre miglia, e tornando di notte a far l'istessa esperienza, yadano osservando attentamente se le risposte delle loro scoperte ed occultazioni seguono secondo l'istesso tenore che facevano da vicino; che seguendo, si potrà assai sicuramente concludere, l'espansion del lume essere instantanea: che quando ella ricercasse tempo, in una lontananza di tre miglia, che importano sei per l'andata d' un lume e venuta dell' altro, la dimora dovrebbe esser assai osservabile. E quando si volesse far tal osservazione in distanze maggiori, cioè di otto o dieci miglia, potremmo servirci del telescopio, aggiustandone un per uno gli osservatori al luogo dove la notte si hanno a mettere in pratica i lumi; li quali, ancor che non molto grandi, e per ciò invisibili in tanta lontananza all' occhio libero, ma ben facili a coprirsi e scoprirsi, con l'aiuto de i telescopii già aggiustati e fermati potranno esser commodamente veduti. SAGR. L' esperienza mi pare d'invenzione non men sicura che ingegnosa. Ma diteci quello che nel praticarla avete concluso. SALV. Veramente non l'ho sperimentata, salvo che in lontananza piccola, cioè manco d' un miglio, dal che non ho potuto assicurarmi se veramente la comparsa del lume opposto sia instantanea; ma ben, se non instantanea, velocissima, e direi momentanea, è ella, e per ora l'assimiglierei a quel moto che veggiamo farsi dallo splendore del baleno veduto tra le nugole lontane otto o dieci miglia: del qual lume distinguiamo il principio, e dirò il capo e fonte, in un luogo particolare tra esse nugole, ma bene immediatamente segue la sua espansione amplissima per le altre circostanti; che mi pare argomento, quella farsi con qualche poco di tempo; perché quando l'illuminazione fusse fatta tutta insieme, e non per parti, non par che si potesse distinguer la sua origine, e dirò il suo centro, dalle

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sue falde e dilatazioni estreme. Ma in quai pelaghi ci andiamo noi inavvertentemente pian piano ingolfando ? tra i vacui, tra gl' infiniti, tra gl' indivisibili, tra i movimenti instantanei, per non poter mai, dopo mille discorsi, giugnere a riva ?

(5) Sembra che agli stessi risultati di Snell sia giunto prima (1601) l'inglese Thomas Harriot. Anch'egli non pubblicò nulla ma fece conoscere i suoi lavori a Keplero che non ne fece nulla. Sembra anche che Harriot fu il primo a scoprire che l'indice di rifrazione di una sostanza dipende dal colore della luce. Il primo che ufficialmente scoprì la cosa fu Newton, sessant'anni dopo.

(6) Altro esempio in tal senso è quello di Tycho Brahe. Egli partiva da un pregiudizio che gli impedì di fare importanti passi in avanti. Le sue osservazioni, unite alla sua concezione di universo finito e relativamente limitato lo convinsero a non accettare il sistema copernicano. Se infatti l'universo è relativamente piccolo, le stelle sono "vicine" alla Terra che, secondo Copernico, si muove di moto circolare intorno al Sole. Se il sistema copernicano corrispondesse al vero, osservando le stelle dalla Terra in posizioni diametralmente opposte della sua supposta orbita, si dovrebbe avere quel fenomeno che va sotto il nome di parallasse stellare: osservando cioè le stelle dalla Terra in posizioni diametralmente opposte della supposta orbita , si dovrebbero vedere proiettate sulla volta celeste in posizioni, anche se di poco, diverse (unendo la stella osservata con quelle due posizioni della Terra si verrebbe a formare un angolo, chiamato di parallasse; poiché l'universo è piccolo, tale angolo deve essere tanto grande da poter essere misurato. Tycho non riuscì a misurarlo e ne concluse che la Terra è ferma. Il problema stava nella enorme distanza di una stella che rendeva quell'angolo così piccolo da non poter essere apprezzato dagli strumenti di cui Tycho disponeva. Occorreranno altri 300 anni perché una tale parallasse possa essere misurata). Per ammettere la non osservazione della parallasse bisognava ammettere che la distanza delle stelle dalla Terra fosse stata 700 volte la distanza tra Saturno ed il Sole, cosa che a Tycho sembrò impossibile. Questo fatto fece elaborare a Tycho un nuovo sistema astronomico, ibrido tra quello tolomaico e quello copernicano. La Terra risulta immobile al centro dell'universo mentre la Luna ed il Sole gli girano intorno. I pianeti, invece, ruotano tutti intorno al Sole.

(7) In Italia, in genere, vi è molto savoir faire che spesso è addirittura controproducente. Gli storici della scienza francesi (da Duhem a Koyré, ad esempio) hanno un tale intollerabile sciovinismo che avrebbero bisogno di essere riportati alla ragione con documenti. Una esemplificazione delle sciocchezze che sono in grado di mettere su l'ho data in Alcuni elementi di giudizio su Galileo e in Torricelli, il peso dell'aria ed il vuoto. Voglio ora aggiungere due considerazioni. La prima è relativa alla infinita gelosia che Cartesio aveva nei riguardi di Galileo e la cosa è documentata da una lettera di Cartesio a Marsenne del 1638 (E.N. Vol. 16, pagg. 124-125), nella quale, ad un anno della condanna di Galileo, Cartesio dice: che non ha preso nulla da lui, che non trova

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nulla nei suoi libri che gli faccia invidia, che non c'è nessuna cosa fatta da lui che vorrebbe confessare come sua, che le maree sono tirate per i capelli, molte cose che egli dice egli l'aveva già detto nel mio Il mondo, anche quella dimostrazione sulla caduta dei gravi ... e la ripete dicendo delle clamorose sciocchezze e cioè che se in tre tempi un grave percorre un certo spazio, nel quarto percorre uno spazio uguale al già percorso.

Ma a parte questi pettegolezzi vi sono aspetti molto più importanti da sottolineare. Cartesio che resta un grandissimo matematico, nelle spiegazioni della filosofia naturale fa rientrare dalla finestra ciò che Galileo con estrema fatica aveva cacciato dalla porta: la metafisica. L'universo diventa una deduzione dalle sue elaborazioni teoriche. E le leggi particolari sono quelle perché Dio lo vuole. Una sorta di Aristotele aggiornato a duemila anni dopo che, naturalmente, trova inutile l'esperienza. In proposito Pitoni scrive (pagg. 147-150):

"107. Le conseguenze del sistema cartesiano non potevano essere che quelle stesse del metodo aristotelico ; per quanto il Descartes si voglia vantare come il « grande liberatore dell'intelligenza europea » (Buckle), come « colui che vide, per il primo, nell'intero universo, anche nei fenomeni vitali, soltanto materia e movimento » (Huxley). E valga il vero: nella 35a lettera al Mersenne, il Descartes sa che l'alcole e l'essenza di trementina sono più rifrangenti dell'acqua, per quanto più leggieri; ma non per questo volle modificare la sua teoria, secondo la quale la rifrazione cresce colla densità. Il Mersenne vuol pubblicare la notizia del telescopio a specchio, immaginato dallo Zucchi ; ma la cosa, secondo il Descartes, non è pratica, dunque non se ne farà di nulla. Una vescica chiusa si gonfiava quando veniva portata a grande altezza, perché, secondo i seguaci della scuola sperimentale, l'aria esterna era rarefatta; ma il Descartes aveva abbandonata la rarefazione, dunque, diceva il P. Mersenne, la spiegazione è falsa. Il Torricelli aveva dato la spiegazione esatta dei venti; questa par troppo semplice al Descartes, ed allora immagina che essi siano generati dalla dilatazione, agitazione, rotazione delle particelle di vapor acqueo. L'Alberti assegna la vera origine delle fonti ? Sono invece le acque del mare che s'infiltrano sotterra, evaporano fin sotto le cupole dei monti, si condensano e zampillano. Mersenne e Petit lanciano una palla con un cannone verticale, e non la vedono ricadere ? Il Descartes afferma che la palla è divenuta più leggiera ed ha fatto « come le cicogne, che volano più facilmente nelle alte regioni, che nelle basse ». Egli attraversa le Alpi ; ode lo strepito delle valanghe e lo assomiglia al fragore del tuono ? Il tuono è dunque prodotto dal cadere, rotolare, rimbalzare delle nubi, le une sulle altre. E si porrebbe continuare la raccolta, a dimostrare quale concetto avesse il Descartes delle prove di fatto, e come si giurasse in lui mentre prima si giurava in Aristotile. Cosa c'è dunque di comune fra il Galilei, per il quale il fatto è tutto e la teoria lo segue, sia pure che la ragione talvolta, cogli elementi sicuri già posseduti, intuisca e prevenga, e il Descartes? Se il Galilei avesse metodicamente raccolto tutte quelle sue preziose osservazioni, indicazioni, regole del modo di

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giungere alla verità, che sono sparse nei suoi molti scritti, pochi parlerebbero di Francesco Bacone. Se il Galilei avesse costituito un sistema, sia pur fantasioso, destinato a render ragione di tutto, a spiegare ogni cosa, in modo che gli sfaccendati avessero potuto con quattro premesse azzardarsi a trinciar sentenze sopra qualunque argomento, Renato Descartes avrebbe perduto molto della sua importanza. Galileo precede il Locke ed afferma che ogni idea ci viene dai sensi. Il Descartes (Méditation), scrive invece, che le idee di molte cose (numeri, figura, movimento, ecc.) non si sono affatto sviluppate in noi per l'intermediario dei sensi e sono perciò necessariamente vere. Galileo in una lettera rimasta famosa, separa la ricerca del mondo sensibile dalla fede nell'ultra sensibile. Il Descartes non si sente mai perfettamente libero nei suoi pensieri, e se parla di cose scientifiche si premunisce contro le obiezioni di eresia ; e se parla di ricerche metafisiche, si colloca sotto la protezione dei decani della Sacra Facoltà di Teologia della Sorbona, quella stessa che per ordine del cardinale Richelieu aveva dichiarato falsa la dottrina del moto della Terra. Il Galilei ha un primo processo coll'Inquisizione, e poi viene colpito dal secondo e terribile ; e pure non si piega ma riesce di mandare alle stampe, con fatiche incredibili, l'ultima e più gloriosa opera sua. Il Descartes voleva trattare del sistema copernicano nel suo trattato De Mundi; ma dopo la condanna del Galilei stimò bene di non farne di niente. I teologi protestanti lo attaccarono e poco mancò che non facessero bruciare a Leida le opere sue per mano del boia; il fatto in Italia non era raro, ma i nostri non temevano, né cedevano : il Descartes invece, si rifugia a Stockolm. Né come indagatore, né come uomo si può il Descartes neppur lontanamente paragonare al Galilei. E qual'è il suo valore nella meccanica? Basti, a giudicarne, ciò che il Descartes scrive in una sua lettera del 1640: se a sostenere un corpo posato su di un piano inclinato ci vogliono 40 libbre ed il corpo ne pesa 100, la pressione da esso esercitata sul piano sarà di 60 lb. Nei Principia phiosophica (1644), mentre ormai le idee esatte avevano pacifico dominio in Italia, sostiene, che se un piccolo corpo ne urta un altro grande ed in riposo torna poi indietro colla stessa velocità, mentre il corpo urtato rimane in equilibrio. L'esperienza, nei limiti stessi posti dal Descartes, era contraria ; nia il Descartes partiva dai suoi principii filosofici per arrivare a tanto, dunque non volle ricredersi. Il Duhem vuol fargli onore d'avere indicato chiaramente, che il principio delle velocità virtuali vale soltanto per tratti infinitesimi: ma questo concetto si trova affermato in molti punti dell'opere del Galilei. Ma l'Italia, oramai divisa ed asservita, declinava politicamente e il suo popolo decadeva; la Francia invece sorgeva a dettare il gusto all'Europa, a imporle la sua lingua e i suoi autori; perciò il Descartes sarà il filosofo futuro e il Galilei, se non sarà dimenticato, passerà in seconda linea".

(8) Leggiamo ciò che scrive Cartesio:file:///C|/$A_WEB/STORIA_LUCE.htm (196 of 215)28/02/2009 15.12.20

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«Per poter fare un paragone vi invito a riflettere come la luce, nei corpi così detti luminosi, è soltanto un certo movimento o una azione molto rapida o mol-to viva che passa davanti ai nostri occhi per mezzo dell'aria o di altri corpi trasparenti, come il movimento o la resistenza dei corpi incontrati dal cieco passano verso la sua mano grazie al bastone. E ciò vi impedirà di considerare strano che la luce possa estendere i suoi raggi, in un solo attimo, dal sole fine a noi: sapete infatti che l'azione con cui si muove una delle estremità del bastone passa instantaneamente all'altra estremità, e la stessa cosa dovrebbe accadere anche se tra la terra e il cielo esistesse maggiore distanza di quanta ne esiste. E neppure vi stupirete vedendo, per mezzo suo, ogni specie di colore; potreste anche credere che nei corpi, così detti colorati, questi colori non sono che il diverso modo in cui i corpi ricevono e rinviano la luce verso gli occhi, pensando che per il cieco le differenze notate, mediante il bastone, tra alberi, pietre, acqua e altre simili cose, non sono molto rilevanti dalle differenze esistenti tra il rosso, il giallo, il verde e tutti gli altri colori. Ma le differenze in tutti questi corpi sono soltanto i diversi modi di muoversi o di resistere ai movimenti di quel bastone. E da ciò potrete dedurre che non è necessario supporre il passaggio di qualche cosa di materiale dagli oggetti agli occhi, per permetterci di vedere i colori e la luce: non è neppure necessario che in tali oggetti si dia qualche cosa di simile all'idea o ai sentimenti che ce ne facciamo, o per lo meno che nulla dei corpi sentiti dal cieco debba passare lungo il bastone fino alla mano, e che la resistenza o il movimento di quei corpi, unica causa dei sentimenti che prova, non abbiano alcuna somiglianza con le idee che se ne fa. Così il vostro spirito sarà liberato da tutte quelle immagini svolazzanti nell'aria, chiamate specie intenzionali, che tanto tormentano la immaginazione dei filosofi. E potrete anzi facilmente decidere, relativamente al luogo da dove l'azione proviene, quale sia la causa del sentimento della vista. Come il cieco può sentire i corpi che lo circondano, non soltanto per l'azione di quei corpi che si muovono contro il bastone, ma anche per l'azione della mano, quando questi corpi gli resistono, cosi anche gli oggetti della vista si possono sentire non soltanto per l'azione che, esistente negli occhi, tende verso essi. Tuttavia poiché questa azione non è altro che la luce, dobbiamo rilevare che può trovarsi soltanto negli occhi di quelli che vedono nelle tenebre della notte, come i gatti; quanto agli uomini, vedono generalmente soltanto per l'azione che viene dagli oggetti: infatti l'esperienza ci mostra che sono gli oggetti che devono essere luminosi o illuminati per essere visti, e non gli occhi per vederli...» (Discorso primo)

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Anche se questa posizione può sembrare ingenua, rappresenta una qualche novità. Infatti fino ad allora la luce era stata pensata bianca o incolore ed i colori erano caratteristiche dei corpi che non riguardavano la luce stessa. Si era all'epoca verificata una frattura nell'ambito della filosofia in senso lato: la luce era stata lasciata da studiare ai filosofi naturali (ai fisici) mentre i colori erano restati prerogativa dei filosofi in senso stretto. Uno degli ultimi filosofi che riprenderà la luce in modo estraneo alla fisica sarà Goethe.

(9) Di analogia ve ne anche un'altra che gli serve per spiegare la trasparenza dei corpi e la propagazione della luce nella materia. Si serve di un tino con due fori nel fondo pieno di grappoli ed acini d'uva. Quando si pigia il tutto dai fori esce del liquido. Ma non insisto troppo su queste cose perché poco chiare soprattutto in quanto manca ogni raccordo tra una analogia ed un'altra, cosicché non sappiamo bene, alla fine, come considerare la teoria della luce di Cartesio. Provo a spiegarmi. La pressione di una pallina sulla successiva (ad esempio nel tino) è una concezione che potremmo definire a contatto e comunque si tratta di trasferimenti di energia e non di materia. Il bastone e le palline scagliate sono azioni materiali. La seconda è corpuscolare. Tra l'altro come si raccorda una propagazione istantanea con una pallina di luce scagliata dal Sole ? Parker dice le cose seguenti (pag. 186):

«Si capisce il motivo per cui Cartesio si serve di analogie per spiegare i due modi così diversi che abbiamo di sperimentare la luce. Il primo è come un'illuminazione, originata da qualche sorgente, che riempie la stanza di luce. È possibile immaginare questo tipo di luce come una pressione o tendenza a muoversi. Il secondo è come un raggio attraverso il foro di un infisso, oppure il tipo di raggio che avevano usato i filosofi per spiegare la visione sin dai tempi di Alkindi. È difficile pensare in termini di pressione per un elemento così direzionato, è molto più semplice immaginarlo come un lancio di palline da tennis. Cartesio afferma nella sua comparazione che i modelli non sono inconciliabili e inventa una fisica della tendenza: si presume che le tendenze (qualsiasi cosa possano essere) si espandono nello spazio secondo percorsi simili a quelli che seguirebbero le palline da tennis. La discussione è in termini aristotelici: la tendenza a muoversi è la potenzialità, il moto è la realtà, ma la realtà è contenuta nella potenzialità e non vi è differenza nelle leggi che governano entrambe. E la nozione di luce come tendenza che si propaga nello spazio senza alcun moto ricorda la moltiplicazione delle species di Ruggero Bacone. Se ricordate, secondo Bacone si muovono come l'ombra si muove dietro all'uomo mentre cammina. Dentro l'armatura di un tale ragionamento c'era poco che Cartesio non potesse spiegare. Difatti l'analogia della pallina da tennis gli offre subito un felice appiglio. Colpite la pallina in modo da imprimerle un moto rotatorio. Nella luce, dichiara, la combinazione di moto lineare e rotatorio determina i colori, un concetto mai sostenuto da alcuna dimostrazione.

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Nello spiegare la luce con tre paragoni che non hanno tra loro niente in comune e lasciano il lettore all'oscuro, Cartesio fa trapelare la sua educazione giovanile. ... Il mondo medioevale concepiva l'intero creato come un sistema di analogie intese a insegnare all'umanità come vivere e conoscere Dio. Un argomento basato sull'analogia era considerato più che un semplice modo di esprimersi per immagini vivide, ma si correlava piuttosto in modo tacito o esplicito a un cosmo che era fondato sull'analogia. Non intendo affermare che Cartesio volesse giustificare in tal modo le sue teorie sulla luce, ma l'analogia permea tutto il suo pensiero. Eppure avrebbe potuto approfittare di un'osservazione semplice e saggia fatta da Aristotele: "Nell'inventare un modello possiamo presumere quello che vogliamo, ma dovremmo evitare l'impossibile"».

Sono spiacente ma queste cose vanno dette tutte. Provate a leggere i Koyré ed i Duhem o qualunque altro storico, fisico o epistemologo francese, non le troverete mai. In compenso troverete che il fondatore della meccanica è Cartesio e che Galileo non ha fatto praticamente nulla. Ora, provate a leggere Galileo e cercate di trovare un qualche discorso di questo tipo. Lo troverete certamente ma solo sulla bocca di Simplicio.

(10) La riflessione totale è discussa sperimentalmente nel modo seguente:

«Cosa che è stata sperimentata con disappunto, quando facendo sparare dei pezzi d'artiglieria, per giuoco, verso il fondo di un fiume, sono stati feriti coloro che erano dall'altra parte sulla riva».

(11) Shea afferma che questi ragionamenti di Cartesio furono copiati ad un tal Claude Mydorge che li aveva fatti tra il 1626 ed il 1631. Cartesio ne era venuto a conoscenza tramite il solito Padre Marsenne come risulta dalla corrispondenza di quest'ultimo.

(12) Cartesio non ne parla, perché aveva l'abitudine di utilizzare tutto ciò che gli serviva preso da chiunque senza mai citarlo, ma questa ammissione di velocità della luce maggiore in mezzi più densi nasceva da un'analogia che all'epoca era quasi generale: quella di suono e luce. Era ben noto che più il mezzo è denso più il suono si propaga velocemente. Questa analogia fu molto travagliata perché ad un certo punto, quando si iniziò a lavorare con le macchine da vuoto, ci si accorse che il suono non si propaga più in assenza di aria contrariamente alla luce. Ricordo in proposito l'invenzione del 1654 della prima macchina pneumatica, o pompa da vuoto, ad opera di Otto von Guericke (a seguito dell'esperienza di Torricelli del 1644). Perfezionata nel giro di poco tempo da personaggi come Boyle, Hooke, e Huyghens, la pompa permise di svolgere importanti esperimenti sulle proprietà dell'aria e del vuoto. Il primo che dimostrò che il suono non si propaga nel vuoto fu un discepolo ed amico di Galileo, Gianfrancesco Sagredo (l571-1620). Egli si serviva di una specie di

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campanello che era situato all'interno di una campana di vetro dalla quale l'aria veniva quasi completamente tirata via per mezzo di un forte riscaldamento. Fu proprio Torricelli a far notare che un raggio di luce, contrariamente al suono passa attraverso il vuoto.

Le parole usate da Cartesio per giustificare la cosa sono:

«Come una palla perde più del suo moto urtando contro un corpo molle che contro uno duro, e che essa ruzzola meno facilmente sopra un tappeto che sopra una tavola tutta nuda, così l'azione di questa materia sottile può essere impedita più dalle parti dell'aria, che, essendo come molli e sconnesse, non le oppongono molta resistenza, che non da quelle dell'acqua che gliene oppongono di più; e ancor più da quelle dell'acqua che da quelle del vetro o del cristallo...».

(13) Quelle che seguono sono le cose che Cartesio aggiunge:

«Quanto alla riflessione e alla rifrazione ne ho già trattato a sufficienza altrove [nella Dioptrique]. Tuttavia, dato che per rendere il mio discorso più comprensibile, invece di parlare dei raggi luminosi, mi sono servito allora come esempio del movimento di una palla, mi resta ora da richiamare la vostra attenzione sul fatto che l'azione o inclinazione a muoversi, trasmessa da un luogo a un altro mediante diversi corpi in contatto fra loro, che si trovano senza interruzione in tutto lo spazio posto fra i due luoghi, segue esattamente la stessa via attraverso la quale la medesima azione potrebbe far muovere il primo di questi corpi se gli altri non fossero sulla sua strada; con la sola differenza che al corpo, per muoversi, occorrerebbe del tempo, mentre l'azione che ha in sé può, per mezzo dei corpi che lo toccano, diffondersi istantaneamente a qualunque distanza. Ne segue che, come una palla, giocando a pallacorda, rimbalza se batte contro il muro, e subisce rifrazione se obliquamente entra nell'acqua o ne esce, così, anche i raggi della luce incontrando un corpo che non li lascia passare oltre devono subir riflessione, e quando entrano obliquamente in un luogo dove trovano maggiori o minori possibilità di diffusione rispetto a quello da cui escono, devono, nel punto dove il mutamento si verifica, deviare e subire rifrazione».

(13 bis) Una breve trattazione delle concezioni di Hobbes in relazione alla luce si trova in Hesse, Forze e campi, citato in bibliografia.

(14) Sul testo di Ronchi vi è la trattazione più diffusa che io conosca del lavoro di Grimaldi.

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(15) Cassini era emigrato bel 1669 da Bologna a Parigi. Le osservazioni le faceva con strumentazione proveniente dall'Italia, le costruiva per lui un amico di Spoleto.

NOTE AL CAPITOLO III

(1) Newton tenne lezioni a Cambridge dal 1669 al 1687. Le lezioni furono raccolte dall'Università in 4 volumi e pubblicate postume nel 1729. Il primo di questi volumi raccoglie le lezioni dal 1669 al 1672 che sono di ottica, il secondo raccoglie le lezioni tra il 1673 ed il 1683 di aritmetica ed algebra, il terzo le lezioni del 1984 e 1985 sul movimento dei corpi, il quarto le lezioni del 1687 sul sistema del mondo.

(2) Nella figura seguente vi è il modo con cui Voltaire, nel suo La filosofia di

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Newton, raffigura la situazione. E nella successiva uno schizzo autografo di Newton:

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(3) Quando ci si trova ad un bivio, ad un crocevia, ad una croce in senso lato, e si è in dubbio su quale strada scegliere, ci si interroga in proposito. E l'experimentum crucis è l'esperimento che, di fronte a due possibilità, ci dice quale è quella corretta.

(4) Questa posizione sarà considerata materialista. Anche contro questa visione vi sarà la reazione romantica alla scienza e lo studio ottocentesco dell'ottica riprenderà con le posizioni di Goethe e con l'ottica fisiologica di Helmholtz.

(5) Huygens scrisse anche un ponderoso Traitè de dioptrique che vide la luce postumo. In esso vi sono varie cose, tra cui alcune delle relazioni tra distanze focali, posizione degli oggetti e delle loro immagini, ... concetti che fanno ancora oggi parte di una normale trattazione di ottica geometrica.

(6) Nell'Ottocento l'etere acquista caratteristiche sempre più precise e si stabilirà che la sua densità deve essere superiore a quella dell'acciaio. Contemporaneamente doveva essere tanto sottile ed evanescente da sfuggire a qualsiasi rilevamento. Fu Einstein nel 1905 che sbarazzò la fisica da questo fardello con un solo colpo di penna.

NOTE

(1) Mi piace notare che Young era un outsider. Sarà violentemente attaccato da tutti i fisici ufficiali e ci vorranno degli anni prima che la sua scoperta venga presa in considerazione. La sua posizione di antinewtoniano era una sorta di reazione allo stato di abbandono in cui, all'epoca, si trovava la scienza britannica. Egli riteneva che non ci si dovesse cullare con Newton, ma avere fantasia ed imboccare strade nuove. Si noti che anche Young non conosceva la matematica ai livelli richiesti dalla fisica ufficiale.

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(2) Young fu il primo a tentare questa impresa trovando valori dell'ordine del milionesimo di metro. Questi valori così piccoli per le lunghezze d'onda dei vari colori - rispetto, naturalmente, alle dimensioni degli oggetti macroscopici - lo convinsero del fatto che la luce dovesse propagarsi in linea retta originando ombre nette. Altro fatto notevole, osservato da Young, fu che la velocità della luce emessa da una sorgente intensa è la stessa di quella emessa da una sorgente debole e questo fatto risultava più facilmente spiegabile con la teoria ondulatoria.

(3) A questo punto però Arago si dissocerà da Fresnel perché, per sua stessa ammissione, non ebbe il coraggio di sostenere l'idea di onde trasversali.

(4) Poisson nel 1828 dimostrò che se l'etere fosse stato un quasi-solido, a lato delle vibrazioni trasversali se ne sarebbero originate altre longitudinali e, alla lunga, queste ultime avrebbero sottratto tanta energia da non rendere più visibile la sorgente.

(5) Agli sviluppi della teoria dell'elasticità, ed in particolare alla teoria elastica dell'ottica, contribuirono, oltre al citato Stokes, eminenti personalità del livello di Poisson, Cauchy, Green, Mac Cullagh, fino a William Thomson, il futuro Kelvin.

(6) La crucialità di questa eventuale esperienza era stata sostenuta da Arago nel 1838. Si tenga conto che anche Arago nel 1810 aveva tentato un'esperienza che dirimesse la polemica tra teoria corpuscolare ed ondulatoria.

(7) Tra le località parigine di Montmatre e Suresne (8.633 metri).

(8) Mentre Fizeau si servì della rotazione di una ruota dentata, Foucault si servì di uno specchio ruotante (mosso da vapore!). Lo stesso metodo di specchio ruotante era stato per la prima volta utilizzato da Wheatstone nel 1834 per la determinazione della durata di una scintilla elettrica. Fu quest'ultimo che suggerì che lo stesso metodo poteva usarsi per la misura di c e fu Arago che ne trasse spunto ma, data l'età avanzata, lasciò il compito ad altri. Si noti che Foucault ripeté l'esperienza nel 1862 per dare il valore assoluto di c e trovando un valore molto vicino a quelli

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oggi accettati (298.000 km/sec). Gli anni che vanno dal 1850 al 1862 furono per Foucault densi di altri lavori: in particolare, nel 1851 ideò il famoso pendolo (che porta il suo nome) con il quale dimostrò la rotazione della Terra sul proprio asse (dai tempi di Copernico, la prima prova terrestre di ciò). Altro merito importante che va ascritto a Foucault è la scoperta delle correnti parassite.

(9) Foucault nel 1850 mostrò la cosa qualitativamente. Solo nel 1862 realizzò una esperienza, consigliatagli da Arago, con cui misurò il valore della velocità della luce ed in acqua ed in vari altri mezzi.

(10) La rotazione era tanto rapida che la nota era sempre un ultrasuono non percepibile dalle nostre orecchie. Restava il rumore dell'asse che dava un numero di vibrazioni uguale a quello delle rivoluzioni.

(11) E' il fatto che la luce passa anche attraverso i corpi (si pensi a quelli trasparenti) che fa ipotizzare l'etere anche dentro i corpi. Si noti che per Huygens risultò una grossa difficoltà lo spiegare la differenza tra corpi trasparenti e corpi opachi.

(12) Gli spostamenti dell'immagine dall'asse dovevano essere proporzionali a 2v/c, dove 2v è la differenza tra la velocità della luce nelle due situazioni A e B, e c è la velocità della luce considerata rispetto all'etere supposto in quiete. Una dipendenza di questo tipo (proporzionale a v/c) è detta del primo ordine. Dall 'esperienza di Arago doveva scaturire un effetto del primo ordine nel rapporto v/c (gli unici effetti che, all'epoca, potevano essere osservati come del resto notò anche Maxwell in una sua lettera pubblicata postuma nel 1880).

(13) Tengo a sottolineare un fatto forse inutile, ma un risultato negativo di una esperienza è altrettanto importante di un risultato positivo. Vorrei poi ribadire quel che dicevo qualche pagina indietro: l'esperienza di Arago non era progettata per individuare un moto assoluto della Terra rispetto all'etere; solo una lettura a posteriori, non in accordo con la storia, può permettere una tale interpretazione. D'altra parte e' certamente vero che negli anni immediatamente successivi, fin verso la fine del secolo, questa esperienza fu portata a sostegno della tesi dell'impossibilità di individuare un moto assoluto della Terra rispetto all'etere, al primo ordine di v/c.

(15) L'ipotesi in oggetto prevede che l'etere sia in riposo assoluto nel vuoto; in riposo quasi assoluto nell'aria, qualunque sia la velocità di cui quest'aria è dotata; parzialmente trascinato dai corpi rifrangenti.

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(16) E precisamente quello che si condensa intorno alle sue molecole e che costituisce la quantità in più di etere contenuto nella Terra rispetto a quella che si avrebbe in una uguale pozione di spazio vuoto. Cioè, secondo Fresnel, si ha una maggiore densità di etere nella materia di quanta se ne abbia nello spazio vuoto; nel moto di un corpo nell'etere esso tende a perdere la massa di etere che ha in più (rispetto a quella che si avrebbe in un uguale spazio vuoto) rimpiazzandola via via con dell'altra presa dallo spazio circostante. In questo modo si origina un parziale vento d'etere, all'interno del corpo, che ha verso contrario al moto del corpo stesso. Fu G. G. Stokes che nella sua memoria On the Aberration of Light (Phil. Mag. , 27; 1845) sviluppò una teoria basata su due assunzioni fondamentali: a) il moto dell'etere è dotato di una velocità potenziale (l'etere è incompressibile ed in esso non si originano vortici); b) L'etere che sta all'interno dei corpi materiali partecipa totalmente al loro moto; così la Terra si trascina tutto l'etere che ha al suo interno e quello che ha nelle immediate vicinanze; questo moto dell'etere va via via decrescendo finché, nelle zone più lontane dello spazio, esso è totalmente in quiete (teoria del trascinamento totale dell'etere). Poste le cose cosi, in modo abbastanza semplice, si riesce a spiegare, ad esempio, il risultato negativo dell'esperienza di Arago (e di tutte le altre dello stesso tipo), infatti le cose vanno sulla Terra come se essa fosse immobile nello spazio. Una difficoltà molto grossa di questa teoria stava nella sua incapacità di "spiegare come mai la luce proveniente dalla stella non subisca variazioni di direzione e di velocità nell'attraversare lo strato che separa l'etere dello spazio dall'etere trascinato dalla Terra. Stokes fece un'ipotesi che tenesse conto di tutte le condizioni imposte dalle leggi dell'ottica; ma, come si vide in seguito, essa si dimostrò in contrasto con le leggi della meccanica". In definitiva l'ipotesi del trascinamento totale incontrava gravi difficoltà nella spiegazione del fenomeno dell'aberrazione; ovviamente non riuscì a rendere conto dell'esperienza di Fizeau che invece ben si raccordava con l'ipotesi del trascinamento parziale di Fresnel; infine, per l'aver introdotto ipotesi in contrasto con le leggi della meccanica (come dimostrerà H.A. Lorentz nel 1886), fu presto abbandonata.

(17) Questo almeno al 1° ordine del rapporto v/c. In ogni caso la strumentazione dell'epoca non avrebbe mai permesso di apprezzare effetti al 2° ordine ( v2 / c2 ) ed in questo senso si era espresso anche Maxwell. Occorre notare che il fenomeno dell'aberrazione, come già detto, trovava una soddisfacente spiegazione anche nell'ipotesi di etere immobile, mentre era spiegato con difficoltà dall'ipotesi di trascinamento totale. L'esperienza di Arago invece era spiegata solo dall'ipotesi di trascinamento parziale dell'etere.

(18) Si osservi che se il trascinamento fosse stato completo, il coefficiente di trascinamento α = 1 - 1/n2 sarebbe stato semplicemente uguale ad 1, di modo che sarebbe risultato: W = c/n ± v. Questo fatto certamente si accordava con il principio classico di composizione delle velocità, ma altrettanto certamente non tornava, ad esempio, per la spiegazione del fenomeno dell'aberrazione. Se invece non vi fosse stato trascinamento di alcun genere sarebbe stato W = c/n in ogni caso poiché, rispetto al mezzo (l'etere) in cui si muove, la luce manteneva

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la sua velocità non dovendo comporsi con nessun'altra.

(19) Con questa rotazione di 90° dello strumento viene eliminato anche un altro effetto: il fatto che non siamo ben sicuri della direzione del vento d'etere anche se possiamo sospettare che sia tangente alla traiettoria della Terra intorno al Sole.

(20) Si noti che in assenza di vento d'etere e nell'ipotesi di bracci perfettamente uguali, in O non si dovrebbe avere nessuna frangia d'interferenza, ma solo una interferenza costruttiva che darebbe il massimo di illuminazione. Ancora in assenza di vento d'etere l'inevitabile disuguaglianza della lunghezza dei due bracci provoca inrterferenza. Qualora ci fosse il vento d'etere queste frange d'interferenza dovrebbero spostarsi quando l'apparato viene ruotato di 90°. Questo era il risultato che si aspettava.

BIBLIOGRAFIA CAPITOLO I

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(14) - Ludovico Geymonat (a cura di) - Storia del pensiero filosofico e scientifico - Garzanti 1970.

(15) - Nicola Abbagnano (a cura di) - Storia delle scienze - Utet 1965.

(16) - René Taton (a cura di) - Storia generale delle scienze - Casini 1964.

(17) - Umberto Forti - Storia della scienza - dall'Oglio 1969.

(18) - Paolo Rossi (a cura di) - Storia della scienza - Utet 1988.

(19) - Vasco Ronchi - Storia della luce - Zanichelli 1928.

(20) - Federigo Enriques, Giorgio de Santillana - Compendio di storia del pensiero scientifico - Zanichelli 1979 (ristampa anastatica dell'edizione 1936).

(21) - Richard S. Westfall - La rivoluzione scientifica del XVII secolo - il Mulino 1984.

(22) - Salvo D'Agostino - Dispense di Storia della Fisica (a.a. 1972/73) - IFUR 1972.

(23) - Roberto Pitoni - Storia della fisica - S.T.E.N. 1913.

(24) - Niccolò Guicciardini - Newton - I grandi della scienza, Le Scienze 1998.

(25) - AA. VV. - L'opera newtoniana. Radici, significato, retaggio - Giornale di Fisica 30, 1/2, 1989.

(25) - AA. VV. - L'opera newtoniana. Radici, significato, retaggio - Giornale di Fisica 31, 1/2, 1990.

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FISICA/MENTE

(26) - Newton - Principi naturali di filosofia naturale - Utet 1965.

(27) - Desiderio Papp - Historia de la Física - Espasa-Calpe 1961.

(28) - Mary B. Hesse - Forze e campi - Feltrinelli 1974.

(29) - Maurizio Mamiani - Storia della scienza moderna - Laterza 2002.

(30) - Max Jammer - Storia del concetto di Forza - Feltrinelli 1971.

(31) - A. Rupert Hall - Da Galileo a Newton - Feltrinelli 1973.

(32) - I. Bernard Cohen - La rivoluzione newtoniana - Feltrinelli 1982.

(33) - Max Born - La sintesi einsteniana - Boringhieri 1969.

(34) - William Bragg - Il mondo della luce - Tumminelli 1935.

(35) - Angelo Secchi - L'unité des forces physiques - Libraire F. Savy 1874.

(36) - E. J. Dijksterhuis - Il meccanicismo e l'immagine del mondo - Feltrinelli 1971.

(37) - Enrico Persico - Ottica - Zanichelli

(38) - Bruno Rossi - Optics - Addison-Wesley 1956.

(39) - Emilio Segrè - Personaggi e scoperte della fisica classica - Mondadori 1983.

(40) - L. Tarásov, A. Tarásova - Charlas sobre la refraccion de la luz - MIR MOSCU 1985.

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FISICA/MENTE

(41) - A. C. S. van Heel, C. H. F. Velzel - Che cos'è la luce - Il Saggiatore 1967.

(42) - S. I. Vavilov - L'occhio e il Sole - Feltrinelli 1959.

BIBLIOGRAFIA CAPITOLO IV

(1) - David Park - Natura e significato della luce - McGraw-Hill 1998.

(2) - Ludovico Geymonat (a cura di) - Storia del pensiero filosofico e scientifico - Garzanti 1970.

(3) - Nicola Abbagnano (a cura di) - Storia delle scienze - Utet 1965.

(4) - René Taton (a cura di) - Storia generale delle scienze - Casini 1964.

(5) - Umberto Forti - Storia della scienza - dall'Oglio 1969.

(6) - Paolo Rossi (a cura di) - Storia della scienza - Utet 1988.

(7) - Vasco Ronchi - Storia della luce - Zanichelli 1928.

(8) - Salvo D'Agostino - Dispense di Storia della Fisica (a.a. 1972/73) - IFUR 1972.

(9) - Max Born - La sintesi einsteniana - Boringhieri 1969.

(10) - William Bragg - Il mondo della luce - Tumminelli 1935.

(11) - Ho anche riportato vari brani scritti da me in altri contesti e riportati nel sito nella sezione FISICA E SUA STORIA.

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FISICA/MENTE

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