Fioretti Scribi Romani

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Supplemento n. 29 al «BOLLETTINO DEI CLASSICI » ACCADEMIA NAZIONALE DEI LINCEI - 2014 - Storia della scriura e altre storie a cura di Daniele Bianconi COPIA PER CONSULTAZIONE

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Fioretti Scribi Romani Storia Romana, paleografia latina

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Supplemento n. 29 al «BOLLETTINO DEI CLASSICI»ACCADEMIA NAZIONALE DEI LINCEI - 2014 -

Storia della scrittura e altre storiea cura di Daniele Bianconi

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SCRIBAE . RIFLESSIONI SULLA CULTURA SCRITTA NELLA ROMA ANTICA

paolo fioretti

Quando si parla del rapporto tra storia della scrittura e società, inevitabil-mente il pensiero corre all’articolo del 1969 con il quale Armando Petrucci operava un rovesciamento del tradizionale metodo paleografico, parten-do non più «dallo studio delle forme grafiche per collegare poi queste ultime ad altre manifestazioni della società coeva», ma muovendo piut-tosto «dallo studio del significato che una determinata società, formata necessariamente di scriventi e di non scriventi, attribuiva alla scrittura» (1). Senza entrare nel merito di questo rovesciamento, delle sue conseguenze, della sua pertinenza o alterità o dei suoi limiti rispetto allo statuto della paleografia, intendo qui soffermarmi sulla relazione, quale indubbiamen-te viene comunque ad istituirsi, tra storia della scrittura (e, più in gene-rale, della cultura scritta) e società, ponendo al centro del mio contributo l’epoca romana e, precisamente, il periodo che corre attraverso tutta l’età repubblicana sino agli inizi dell’età imperiale: un’epoca ricca di profondi mutamenti destinati ad esercitare il proprio condizionamento anche sulla cultura scritta dei secoli a venire. In questa sede mi limiterò a concentrare l’attenzione solo su un aspetto tra i tanti degni di considerazione: gli scri-bae e il ruolo di tramite da essi svolto tra la città e la parola scritta. Prima di entrare nel vivo dell’argomento, tuttavia, è necessaria una riflessione.

Lungi dal voler riprendere le intricate e molto dibattute questioni sulla formazione dell’alfabeto latino, mi interessa ricordare – perché mol-to significativo in relazione a quel che si dirà tra breve – che la cultura romana, nel ripensamento delle proprie origini, rielabora la realtà storica attribuendo l’introduzione della scrittura in ambito italico ad un appor-to esterno non già ultraterritoriale, bensì ultraterreno, e collocandone la fase aurorale in una cornice mitologica e sacrale. Agli abitanti del Lazio dei primordi la scrittura sarebbe giunta per tramite divino e «prodigio-

(1) Petrucci 1969/1973: 1969, p. 158.

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samente con l’ambigua e inquietante novità del miraculum», ossia – eti-mologicamente parlando – mediante un evento tutt’altro che positivo ed auspicabile, ma terrificante, «teso ad infrangere l’equilibrio di natura» (2). Invero, ogni ulteriore ‘comparsa’ della scrittura, ogni sua irruzione nelle vicende di Roma antica sembra immancabilmente destinata a scatenare sconvolgimenti nell’ordine delle cose e ad aprire la strada, non senza lace-ranti conflitti, a nuovi assetti sociali e politici. I primi capitoli della storia dell’alfabetismo nel mondo romano non possono perciò essere compresi pienamente senza una valutazione del ruolo determinante svolto dalla scrittura nell’ambito dei conflitti politici e sociali che segnano la prima età repubblicana: la sua diffusione e la sua progressiva penetrazione nella società romana delineano una storia di destabilizzazioni poiché l’intero ordinamento istituzionale si basa sulla sua detenzione esclusiva da parte di una ristretta élite. È noto, infatti, che la scrittura nei primi secoli in cui si diffonde a Roma, ossia verosimilmente in un periodo compreso tra il VII e il VI secolo a.C., appare appannaggio esclusivo di pochi esponenti dell’aristocrazia, in particolare del collegio dei pontefici, il quale esercita un ferreo controllo su tale strumento, forse consapevole del suo poten-ziale perturbante (3). In tale contesto le conoscenze grafiche si rivelano la chiave essenziale per accedere al controllo di quel che si può considerare il pilastro principale dell’organizzazione della civitas romana, ossia il ius, «un complesso di riti, di prescrizioni e di vincoli sospesi tra l’umano e il divino» (4) nel quale trovano sistemazione antiche consuetudini di com-portamento sociale fondate sulla memoria dei mores e che costituisce, nei primi secoli della repubblica, la base di un sapere gelosamente custodito dai soli pontefici massimi: questi ultimi, subordinandone l’accessibilità all’arbitrio di una comunicazione orale di ascendenza oracolare (responsa), condizionano pesantemente la vita della città e i rapporti di forza tra le sue diverse componenti (5).

Si comprende bene, a questo punto, quale rilievo sia attribuito pro-prio al possesso e all’uso della scrittura a partire dalla metà del V secolo a.C. nell’ambito della lotta politica patrizio-plebea, allorquando si tenta di assestare i primi seri colpi al sistema oligarchico. La scrittura assume così

(2) Piccaluga 1989, pp. 39-43.(3) Su alcuni aspetti relativi alla ristretta diffusione dell’alfabetismo nella Roma arcaica si ve-

dano: Cavallo 1983, pp. 168-170; Poucet 1989; Harris 1991, pp. 169-180; Cavallo 2001, pp. 78-80.(4) Amarilli – De Giovanni – Garbarono – Schiavone – Vincenti 2001, p. 154.(5) «Ai depositari della conoscenza degli antichi mores, i patres a capo dei gruppi familiari chie-

devano con deferenza la disciplina della propria condotta sociale: come fare testamento, alienare o acquistare una proprietà, stringere un obbligo, risolvere una controversia, o come regolare i rapporti di parentela tra le famiglie […]. I responsa costituivano così il ius vivente della città, l’ossatura delle relazioni che vi si cristallizzavano»: Schiavone 1992, pp. VI-VII; si vedano anche, nello stesso volume, le pp. 9-11, nonché Schiavone 1988, pp. 549-550.

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una connotazione ambivalente: da un lato, in una situazione di analfabe-tismo dominante, continua a costituire lo scrigno inaccessibile nel quale i pontefici custodiscono e di fatto celano il ius, sottraendone la gestione ad ogni ‘trasparenza’ pubblica (6); dall’altro inizia a presentarsi come lo stru-mento mediante il quale un’azione antipontificale può tentare di sottrarre la disciplina di questioni fondamentali per la vita cittadina alla cerchia ristretta che la detiene (7). Tale iniziativa di ‘liberazione’, di laicizzazione e di più larga condivisione dell’antico sapere giuridico procede parallela alla diffusione della scrittura e ad un allargamento progressivo delle sue funzioni. È suggestivo osservare come, secondo la tradizione, un apporto fondamentale in tal senso, al contempo tecnico e politico, sia recato da una figura il cui ruolo si identifica tout court con la pratica grafica: lo scriba (8).

* * *

Eodem anno Cn. Flavius Cn. filius scriba, patre libertino humili fortuna ortus, ceterum cal-lidus vir et facundus, aedilis curulis fuit. Invenio in quibusdam annalibus, cum appareret aedilibus fierique se pro tribu aedilem videret neque accipi nomen quia scriptum faceret, ta-bulam posuisse et iurasse se scriptum non facturum; quem aliquanto ante desisse scriptum facere arguit Macer Licinius tribunatu ante gesto triumviratibusque, nocturno altero, altero coloniae deducendae. Ceterum, id quod haud discrepat, contumacia adversus contemnentes humilitatem suam nobiles certavit; civile ius, repositum in penetralibus pontificum, evolgauit fastosque circa forum in albo proposuit, ut quando lege agi posset sciretur (Liv. 9, 46, 1-6).

«In quello stesso anno [nel 304 a.C.] Gneo Flavio scriba, figlio di Gneo, di umile estrazione in quanto figlio di un liberto e tuttavia molto accorto e abile nel parlare, divenne edile curule. Trovo in alcuni annali che mentre prestava servizio (9) presso l’amministrazione degli edili, vedendo che stava diventando lui stesso edile grazie alla tribù e che il suo nome non veniva tuttavia accolto [scil. dal magistrato] a causa

(6) È plausibile, infatti, che all’interno del collegio pontificale, almeno dagli inizi del V secolo a.C., esista un «alfabetismo di corporazione» (l’espressione è di Schiavone 1992, p. 6) traguardato ad una prassi interna di conservazione e di trasmissione del sapere religioso e giuridico; l’oralità resta in-vece la modalità dominante per quanto attiene le forme di comunicazione di tale sapere. Interessanti spunti di riflessione sul rapporto tra scrittura e pratiche rituali dei pontefici in età arcaica si traggono anche dalle pagine di Sini 2001; sull’argomento si veda anche Scheid 1994.

(7) Sul contrasto tra scrittura e «arbitrio della memoria segreta» mi limito a rimandare a D’Ip-polito 1986, pp. 101-102 e a Schiavone 2005, part. pp. 81-98; si veda anche Thomas 1986.

(8) Per una bibliografia di base sugli scribae romani si vedano almeno: Smith 1875, s.v. Scribae (ma si consulti anche l’edizione del 1890, in cui la voce è presentata in una redazione differente); Kor-nemann 1921; Bilabel 1926; Berger 1953, s.v. Scriba; Waltzing 1968, I, pp. 54-55 e 415-416; Corbier 1974, pp. 676-677; Muñiz Coello 1982; Badian 1989; Romano 1990; Poucet 1992; Purcell 2001; David 2007. Utili risultano pure Hammond 1938, Millar 1964 e D’Ippolito 1986, pp. 34-36.

(9) Il verbo adoperato da Livio fa riferimento agli apparitores, ossia al termine tecnico desi-gnante gli assistenti amministrativi, finanziari e legali dei magistrati, tra i quali si annoverano anche gli scribae: Purcell 1983; Cohen 1984; Giorcelli Bersani 2002. Sempre utile, infine, Mommsen 1887, pp. 332-371.

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del suo mestiere di scriba, depose la tavoletta e giurò che non avrebbe più fatto lo scriba; Licinio Macro, però, sostiene che egli aveva da tempo smesso di svolgere il lavoro di scriba, essendo già stato eletto tribuno della plebe e per due volte triumviro (una volta nocturno, un’altra coloniae deducendae). Ad ogni modo, vi è unanimità sul fatto che egli abbia lottato con fierezza contro la nobilitas che disprezzava la sua umile condizione sociale; divulgò il diritto civile, che veniva tenuto celato nei penetrali dei pontefici, ed espose presso il foro l’elenco dei giorni fasti in albo, affinché fosse noto quando si poteva amministrare la giustizia».

L’episodio, qui presentato nella tradizione di Tito Livio (10) – e ricor-dato, pur se non altrettanto dettagliatamente, anche da Cicerone (de orat. 1, 186; pro Mur. 11, 25; ad Att. 6, 1, 8.), Diodoro Siculo (20, 36, 3), Valerio Massimo (2, 5, 2; 9, 3, 3), Gellio (7, 9 [Calp. Pis. Ann. fr. 27 Peter]) e Ma-crobio (Sat. 1, 15, 9) –, risale al 304 a.C. Notissimo agli storici del diritto romano, esso rivela allo sguardo di un paleografo non pochi motivi di interesse, soprattutto in relazione al tema che qui si intende approfondi-re, ossia il rapporto tra scrittura e società nella Roma antica. Innanzitutto occorre considerare la condizione sociale di Gneo Flavio, così com’è pre-sentata dalla tradizione liviana. Egli è scriba; l’espressione scriptum facere descrive con essenzialità la sua occupazione e ne denota una valutazione svilente che tiene conto unicamente dell’aspetto materiale della produzio-ne scritta, ridotta a mero gesto manuale, senza alcun riferimento ad altre dimensioni della competenza tecnica di uno scriba (ad esempio linguisti-ca o giuridica). Gneo Flavio è figlio di liberto e pertanto gode di scarsa considerazione sociale. Plinio e Pomponio, inoltre, ci informano che egli era alle dipendenze di Appio Claudio Cieco, censore e personaggio di spicco della politica romana dell’epoca, distintosi per alcune importanti iniziative in senso antioligarchico (fu il primo, ad esempio, ad introdurre individui di basso rango nell’amministrazione) (11).

Il momento della contrastata elezione richiede una precisazione. Le parole di Livio, infatti, lasciano intendere che la narrazione stia riferendo-si al momento durante il quale la votazione è in corso. Flavio, in qualità di scriba degli edili, è intento a registrare la dichiarazione di voto di una delle trentuno tribù che costituiscono i comitia tributi e si accorge che il nome indicato è il suo. A questo punto il magistrato che presiede l’assemblea di-chiara di non poter accettare tale preferenza di voto perché incompatibile con il ruolo di scriba esercitato da Gneo Flavio. Non escludo che il testo liviano possa essere qui inteso in un duplice significato, poiché mi pare

(10) Sull’episodio di Gneo Flavio nel racconto di Livio si leggano i commenti di Moatti 1997, Purcell 2001, pp. 635-638, e Oakley 2005, pp. 600-621.

(11) Nat. hist. 33, 17; Dig. 1, 2, 2, 7 (Pomp. lib. sing. enchir.). Sull’azione politica di Appio Claudio, proveniente dalla medesima gens alla quale apparteneva il capo dei legislatori delle XII tavole, si vedano almeno Pani 1997, pp. 181-183, Schiavone 2005, pp. 99-102 e Pani – Todisco 2005, p. 18.

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che l’opposizione all’elezione manifestata dal magistrato si basi sia su un giudizio di tipo politico sia su una valutazione d’ordine procedurale: da un lato agiscono in tal senso la scarsa considerazione sociale degli scribae e l’ostilità nutrita dalla nobilitas nei confronti di un’iniziativa politica pro-mossa dalla forensis factio, la quale aveva accresciuto il proprio potere du-rante la censura di Appio Claudio (Liv. per. 9, 23); dall’altro la circostanza che proprio Gneo Flavio sia indicato quale edile dalla tribù rende incom-patibile la sua elezione con la funzione di scriba che egli svolge in quel mo-mento registrando le dichiarazioni di voto. Ad ogni modo, il magistrato lo induce ad un gesto dalla forte valenza simbolica, reso ancor più solen-ne perché compiuto pubblicamente dinanzi ai comitia riuniti: egli depo-ne la tavoletta sulla quale evidentemente sta registrando i voti (tavoletta che rappresenta l’icona stessa della propria professione) e pronuncia un giuramento rinnegando di fatto la propria identità di scriba (l’espressione adoperata da Gellio [7, 9] – che a sua volta cita Lucio Calpurnio Pisone – è scriptu sese abdicasse, dove abdico è verbo tecnico per indicare il dimettersi da una carica).

La vicenda di questo scriba – che intraprende un cursus istituziona-le di tutto rispetto grazie alle sue ottime qualità personali (callidus vir et facundus, dice Livio di lui, mentre Plinio lo descrive sagaci ingenio) (12), ma anche, quasi certamente, sfruttando l’appoggio del potente Appio Clau-dio – ha il senso di una orgogliosa rivalsa nei confronti del pregiudizio sociale contro il quale egli si trova a combattere, un pregiudizio che si basa sia sulle sue umili origini sia sul suo mestiere, a quest’epoca soli-tamente tenuto in scarsa considerazione (in altri passi del capitolo Livio parla esplicitamente di summa invidia e superbia nobilium, nonché di invidia inimicorum) (13). Eppure sorge il sospetto che il tentativo di ‘boicottaggio’ politico perpetrato ai suoi danni dalla nobilitas sia alimentato anche dal timore di vedere assurgere ad una tale carica istituzionale proprio uno scriba, ossia un individuo che, giunto a posizioni di potere, potrebbe ado-perare gli strumenti e le competenze derivategli dalla professione per al-largare la fruizione sociale del diritto gelosamente tutelato dalle autorità sacrali.

Le apprensioni della nobilitas, a ben considerare, risultano fondate. Nel 451 a.C., su pressione della plebe era stata creata la magistratura stra-ordinaria dei decemviri, ai quali si era affidato, per la prima volta nella storia di Roma, il compito di codificare in forma scritta le consuetudi-

(12) Nat. hist. 33, 17. Sulle sue capacità, tali da ingannare anche i più avveduti, cf. il giudizio, non privo di una vena sarcastica, espresso in Cic. pro Mur. 11, 25 (cornicum oculos confixerit).

(13) Liv. 9, 46, 7-15; di nobilitatis indignatione si legge in Val. Max. 2, 5, 2.

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ni giuridiche, trasformando di fatto il ius in lex (14). Tuttavia l’esperienza, culminata con l’affissione pubblica delle leggi nel foro mediante tabulae bronzee o lignee (15), pur segnando una tappa fondamentale nel processo di esposizione grafica del diritto, non era riuscita a portare sino in fondo il proprio intento: i sacerdoti erano rimasti comunque un filtro ineludi-bile tra la civitas e la lex, poiché quest’ultima necessitava pur sempre di un intervento teso a chiarire ed interpretare il complesso dettato delle disposizioni (16). Alla luce di tali premesse ritengo si possa cogliere con maggiore immediatezza la portata dell’iniziativa assunta da Gneo Flavio, i cui esiti, come si accennava, confermano la fondatezza dei timori nutriti dalla nobilitas. Egli, infatti, pur avendo ripudiato il proprio ruolo di scriba, mette a frutto il bagaglio di conoscenze tecniche acquisito nella pratica della professione e agisce in una duplice direzione: da un lato divulga il civile ius, sino a quel momento rimasto nascosto nei penetrali dei pontefici (in altre parole – come specifica Cicerone – raccoglie i formulari mediante i quali si devono istituire le actiones giudiziarie affinché le procedure av-viate dai cives risultino corrette e inoppugnabili) (17); dall’altro espone pub-blicamente, su tabulae dealbatae (18), il calendario dei fasti, ossia dei giorni nei quali è lecito dedicarsi alle actiones. Il tentativo è quello di sottrarre la conoscenza di procedure centrali per il civis romano all’arbitrio di pochi; e la scrittura, in entrambi i casi, si rivela lo strumento indispensabile di questa iniziativa.

V’è da chiedersi, a questo punto, quanti nella Roma dei secoli V e IV a.C. siano in grado di leggere direttamente e di comprendere le XII tavole o i fasti esposti da Gneo Flavio. Tuttavia il problema relativo all’effettiva ricezione di questi testi – e, di conseguenza, la riflessione su quale alfa-betismo possa ravvisarsi nella Roma dei primi secoli della repubblica (19) – non va posto, a mio avviso, soltanto in chiave quantitativa: nel contesto storico-politico in cui maturano, infatti, tali esperienze assumono un va-lore simbolico innegabile perché segnano l’avvio, a Roma, di una pratica

(14) D’Ippolito 1988; Bernardi 1988; D’Ippolito 1998; Amarilli – De Giovanni – Garbarono – Schiavone – Vincenti 2001, pp. 163-168; Schiavone 2005, pp. 82-84, e 2012.

(15) Liv. 3, 57, 10; Dion. 10, 57, 7; Diod. 12, 26.1; Dig. 1, 2, 2, 4 (Pomp. lib. sing. enchir.); cf. anche Bretone 1987, p. 86.

(16) Schiavone 2005, p. 92.(17) È plausibile che tali formulari, la cui diffusione avrebbe dato origine al cosiddetto ius Fla-

vianum, siano in qualche modo collegabili al de usurpatione di Appio Claudio Cieco: sull’argomento e sull’infondatezza della tradizione che vede nella ‘pubblicazione’ di Gneo Flavio la prova di un furto e di un tradimento perpetuato ai danni di Appio dal suo scriba, rimando a Schiavone 2005, p. 99, D’Ip-polito 1978, pp. 64-67, nonché 1986, pp. 27-60, e 1998, pp. 199-212.

(18) Sull’uso di tabulae dealbatae mi limito a rinviare a Fioretti 2012, pp. 413-416 e alla bibliografia ivi segnalata.

(19) Sulla diffusione dell’alfabetismo nella società romana in questo periodo si registrano giu-dizi contrastanti: attestati su posizioni differenti, ad esempio, sono Guglielmo Cavallo e William V. Harris, per i quali rimando alla bibliografia citata a n. 3.

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di esposizione grafica di tipo informativo, legata alla dimensione civica e istituzionale, ben distinta da quelle a carattere sacro, celebrativo e funera-rio (20). Rispetto a queste ultime, veicoli di messaggi affidati alla memoria imperitura tramite supporti durevoli quali la pietra e il marmo e forme grafiche solenni, non di rado monumentali, che si impongono all’atten-zione dei passanti anche (e soprattutto) da lontano, essa appare connotata in modo del tutto peculiare: non soltanto nei contenuti e nelle funzioni (si tratta di acta pubblici e, più in generale, di testi di utilità collettiva destina-ti all’attenzione dei cittadini), bensì anche per i supporti impiegati (legno, bronzo e intonaco invece della pietra), le tecniche di realizzazione (a pen-nello o mediante incisione nel bronzo), la collocazione (sui muri esterni di edifici pubblici posti nel centro politico e amministrativo della città e nei luoghi più frequentati) e, si può supporre, persino per la scrittura, la quale sarà stata non d’impostazione monumentale, bensì funzionale alla realizzazione di testi tendenzialmente lunghi, dalla struttura complessa, che necessitano di una lettura attenta e ravvicinata (21).

Si deve ammettere, pertanto, che a Roma la diffusione dell’uso so-ciale della scrittura procede di pari passo con l’allargamento della frui-zione del ius (22) e, in definitiva, diviene uno dei pilastri essenziali della costruzione della res publica, consentendo il consolidarsi di una dimen-sione comunicativa nella quale i cives, debitamente informati, partecipano alla vita politica e istituzionale della città (23). Nella medesima direzione occorre interpretare pure i formulari giuridici divulgati dallo stesso Gneo Flavio, perché anch’essi posti al servizio della civitas, sebbene su un piano

(20) Che a questo tipo di produzione epigrafica, civica e istituzionale, fosse sottesa una preva-lente funzione informativa è provato anche dalla diffusione di dispositivi relativi alla proscriptio degli stessi acta pubblici: si consideri, ad esempio, la formula unde de plano recte legi possint, per la quale si vedano Calabi Limentani 1968, pp. 332-333, Crawford 1996, I, pp. 19-20, e Corbier 2006, pp. 43-44. Un esempio di applicazione del dispositivo di proscriptio è nel senatoconsulto di Gneo Pisone padre, col. IV, ll. 169-173, risalente al 20 d.C.: cf. Eck – Caballos – Fernándes 1996, p. 21. È opportuno ricordare che nel 59 a.C. Cesare per primo stabilisce che siano redatti ed affissi pubblicamente acta giornalieri del senato e delle assemblee: Svet. Vita Iul. 20, 1; cf. Bats 1994, pp. 19-43.

(21) Un esito di tale linea di sviluppo della scrittura romana epigrafica in senso antimonumen-tale è riconoscibile nella cosiddetta capitale actuaria, incisa su tavole bronzee e scolpita su pietra, testimoniata a cominciare dal I secolo a.C.: su questi temi rinvio a Fioretti 2012, pp. 412-417, e ad un altro mio lavoro, di imminente pubblicazione, dedicato alle morfologie della capitale romana.

(22) Uno stretto legame tra alfabetismo di base e formazione giuridica dei cittadini (intesa nella sua duplice dimensione di coscienza e conoscenza) è attestato, verso la fine del III secolo a.C., anche in Plaut. Mostell. 125 sgg.: i genitori rifiniscono (expoliunt) l’educazione dei propri figli insegnando loro litteras, iura, leges, ossia le basi del civis romano. Il passo plautino è segnalato in Cavallo 2000b, pp. 248-249.

(23) Sul rapporto tra prassi giuridico-politica ed esposizione grafica è significativo il richiamo all’uso di affiggere pubblicamente le proposte di legge per la durata di un trinundinum (tre settimane di mercato) in modo da rendere più consapevole la discussione durante l’assemblea del popolo (con-tio) in vista della votazione comiziale; sull’istituto della contio e sulla sua rilevanza nei meccanismi di partecipazione popolare rimando almeno a Pina Polo 2005 e, da ultimo, a Pani 2010b, pp. 42, 53 e 71-73.

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differente rispetto ai testi esposti: a prescindere dai livelli e dai modi della loro effettiva fruizione, tali formulari vanno considerati la fase aurorale di quel processo di «letterarizzazione» della giurisprudenza romana che, tra II e I secolo a.C., segna la nascita di un vero e proprio pensiero analitico del diritto, nel quale la scrittura, com’è stato efficacemente osservato, «ap-pare finalmente una tecnica interiorizzata, non subalterna all’oralità e alle sue regole formulaiche» (24). Con essi il sapere giuridico si fa diritto scritto e viene affidato ad una stesura – è lecito immaginarlo – su codici lignei (25), ossia su supporti che non sono più soltanto di mera archiviazione, ma che divengono invece veicolo di circolazione testuale, sia pur limitata a determinati ambienti.

* * *

Gneo Flavio e la sua paradigmatica esperienza inducono ad allargare il discorso sin qui condotto sulla figura dello scriba a Roma. Una delle fonti più interessanti in proposito è Festo: scribas proprio nomine antiqui et libra-rios et poetas vocabant; at nunc – verosimilmente al tempo di Verrio Flacco, vissuto in età augustea e riferimento principale di Festo – dicuntur scribae equidem librari, qui rationes publicas scribunt in tabulis (26). Il senso di questa prima parte della glossa, troppo spesso tormentato dall’inquieto lavorio critico dei moderni (27), è limpido e, come si vedrà, coerente con quanto testimoniato dalle fonti epigrafiche e letterarie: anticamente il termine scriba ha un’accezione piuttosto ampia e generica e si riferisce allo stesso tempo ai poeti e a coloro i quali si occupano della registrazione scritta di documenti nell’ambito dell’amministrazione della res publica; costoro sono anche detti librarii dal momento che uno dei supporti scrittori più frequentemente adoperato nelle pratiche documentarie è il liber composto da più tavolette legate tra loro. Solo successivamente, come si vedrà, in coincidenza da un lato con lo sviluppo e l’articolazione sempre più com-plessa dell’apparato amministrativo e dall’altro con l’evoluzione sociale e letteraria del ruolo del poeta, le due figure tendono a differenziarsi anche dal punto di vista terminologico, sicché la definizione di scriba resta riferi-ta unicamente al librarius (28). Il processo, secondo quanto mostra la glossa,

(24) Schiavone 2005, pp. 144-147.(25) Blanchard 1989, in particolare i saggi di van Haelst 1989, Sirat 1989 e Cauderlier 1989; Ca-

vallo 1989, pp. 699-703; Marichal 1992; Degni 1998, pp. 33-59, part. pp. 33-37; Meyer 2004, pp. 12-124.(26) Fest. s.v. scribas (p. 446 Lindsay).(27) Jory 1970, pp. 235-236; Horsfall 1976, pp. 89-91; Purcell 2001, pp. 644-645 e n. 47.(28) Si vedano anche i commenti a Festo in Jory 1970, pp. 235-236; Romano 1990, pp. 19-21; Co-

arelli 1997, pp. 472-473; Purcell 2001, pp. 644-645. Perplessità sull’interpretazione di Festo nel senso di un’affinità semantica tra scribae e poetae sono espresse soprattutto da Horsfall 1976, pp. 79-80 e Talamanca 1993-1994.

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risulta pienamente concluso in età augustea e pertanto può considerarsi avviato già nell’ultima età repubblicana (cf. infra, pp. 346-347).

In origine, dunque, poetae e librarii appartengono ad un medesimo corpo sociale tenuto insieme – si può intuire – dalla comune pratica della scrittura, come dimostra la medesima denominazione di scriba. Entrambi appaiono dotati di una techne grafica nonché di altre abilità (linguistiche, giuridiche, letterarie) che consentono loro di rispondere ad una pluralità di esigenze. In effetti possiamo immaginare, in questa prima fase, un uni-co gruppo indistinto di artifices della parola scritta composto da schiavi e liberti (pubblici o di privati), talvolta di origine straniera (e pertanto bilingui), i quali mettono le proprie competenze al servizio sia di magi-strati, che assistono nella trascrizione di documenti e nell’annotazione di tutto ciò che risulta utile all’esercizio della pubblica funzione, sia di pri-vati cittadini appartenenti per lo più alle grandi famiglie aristocratiche, per i quali curano gli archivi contenenti le memorie gentilizie, svolgo-no compiti di segreteria stendendo epistole e mantenendo la contabilità, fungono da precettori; in tali contesti probabilmente si cimentano anche nella composizione di laudationes funebri, elogia e carmina commemorativi o celebrativi, dedicati a membri della famiglia presso la quale operano, nonché nella traduzione in latino di opere letterarie greche (29). La civiltà letteraria romana nasce in questo ambiente e nelle sue prime espressioni appare funzionale soprattutto a raccogliere e tramandare, rielaborandola secondo modelli compositivi di ascendenza greca, la memoria della res publica attraverso l’esaltazione delle gesta e delle virtù dei suoi esponenti più illustri; una memoria – è lecito supporlo – ‘scritturizzata’ e preser-vata negli scrinia domestici della nobilitas proprio ad opera degli scribae: essi debbono considerarsi, in quanto clientes delle famiglie gentilizie, gli artefici materiali della più antica produzione documentaria e letteraria romana.

La glossa festina sugli scribae prosegue ricordando un episodio risa-lente al 207 a.C. (30) – riferitoci anche da Tito Livio (27, 37) – allorquando, in seguito al verificarsi di eventi prodigiosi di cattivo augurio e all’appros-

(29) Sulle funzioni svolte dai primi poeti latini presso le famiglie gentilizie si leggano le conside-razioni di Fedeli 1983, pp. 77-78 e di Pecere 2010, p. 19. Di notevole interesse risulta un passo di Plaut. Asin. 748, in cui il giovane Diabolo loda l’abilità di Parassita nel redigere un contratto, perfettamente articolato in tutte le sue clausole, che gli garantirà per un anno il possesso di una giovane meretrice: Agendum, istum ostende quem conscripsti syngraphum inter me et amicam et lenam. Leges perlege. Nam tu poetas es prorsus ad eam rem unicus!: poeta va qui considerato nel senso di artifex in riferimento all’a-spetto «tecnico-artigianale» dell’attività di produzione scritta (si veda in proposito il commento di Romano 1990, pp. 28-29).

(30) Itaque cum Livius Andronicus bello Punico secundo scribsisset carmen, quod a virginibus est can-tatum, quia prosperius respublica populi Romani geri coepta est, publice adtributa est ei in Aventino aedis Minervae, in qua liceret scribis histrionibusque consistere ac dona ponere; in honorem Livi, quia is et scribebat fabulas et agebat: Fest. s.v. scribas (pp. 446-448 Lindsay).

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simarsi di Asdrubale con un imponente esercito, Livio Andronico riceve dai magistrati l’incarico di comporre un carme propiziatorio che viene cantato da un gruppo di ventisette vergini. Come segno di riconoscenza gli è attribuita pubblicamente la possibilità di riunirsi, insieme agli scribae e agli histriones, presso il tempio di Minerva sull’Aventino (31). Il lessico adoperato da Festo, com’è stato dimostrato in maniera convincente, la-scia intendere che il provvedimento sia consistito in un senatoconsulto e che il cenno agli scribae e agli histriones sia riferibile ad un vero e proprio collegium (32). Non deve stupire l’accostamento delle due categorie poiché a quest’epoca la funzione svolta dagli attori può non distinguersi netta-mente, come invece accadrà in seguito, da quella di coloro che si occupa-vano della scrittura dei testi scenici (ossia i poetae, a loro volta considerati a quest’epoca nel novero degli scribae). Lo stesso Livio Andronico, citato in maniera esemplificativa nella glossa, accomunava in sé le due funzioni: Festo chiarisce, infatti, che egli et scribebat fabulas et agebat (33). L’esistenza nel III secolo a.C. di un collegium scribarum histrionumque, se di questo si tratta, o ad ogni modo di uno stretto sodalizio tra le due categorie non fa che confermare l’ipotesi di un unico originario gruppo sociale di artifices della scrittura al servizio delle classi gentilizie.

Una graduale e lenta differenziazione tra scribae/poetae e scribae/libra-rii – e, contemporaneamente, tra poetae propriamente detti e histriones (34) – sembra prodursi negli ultimi anni della repubblica, come possiamo argui-re sulla base di alcune attestazioni epigrafiche relative a scribae e collegia ad essi correlati, cui si aggiungono anche riferimenti nelle fonti letterarie. Mi limito a pochi esempi, peraltro ben noti agli studi: se l’iscrizione di Cornelius Surus, riferibile alla seconda metà del I secolo a.C., attesta an-cora un forte legame semantico tra scribae e poetae – il defunto, infatti, è definito magister scribarum poetarum (35) –, la coeva epigrafe di Pompeius Pylades, liberto e scriba librarius alle dipendenze dei tribuni della plebe attivo all’incirca negli anni tra il 50 e il 25 a.C., testimonia l’esistenza di un collegium scribarum librariorum (36), mentre Valerio Massimo riferisce di un

(31) Albanese 2003. (32) Horsfall 1976, pp. 79-80; Romano 1990, pp. 72-73 e 106-107; Bartocci 2009, pp. 133 n. 1 e

136. Waltzing 1968, I, p. 82 chiarisce che l’episodio riferito da Festo non comporta la fondazione di un collegio, che probabilmente già esisteva, ma unicamente la concessione a quest’ultimo del diritto di riunirsi presso il tempio di Minerva. Dubbi sull’esistenza, ai tempi di Livio Andronico, di un collegium scribarum histrionumque sono in Talamanca 1993-1994, p. 856 e Albanese 2003, pp. 165-166.

(33) Romano 1990, p. 30.(34) Kunihara 1963-1964; Jory 1970, pp. 224-253.(35) Jory 1968; Horsfall 1976, pp. 89-91; Panciera 1986; Romano 1990, pp. 113-114; Purcell 2001,

pp. 88-91.(36) Panciera 1991.

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collegium poetarum già nel 90 a.C. (37). È plausibile, dunque, che in coinci-denza con l’avvio di un processo di distinzione tra scriba/poeta e scriba/li-brarius le associazioni professionali legate a queste figure si moltiplichino e si differenzino tra loro affiancando ad antichi collegia ancora attivi altri di più recente fondazione e presentando, almeno in una prima fase, intito-lazioni che traducono in modi diversi (e contrastanti) ora un’adesione alle istanze più innovative, ora una tendenza a porsi programmaticamente in continuità con la vetusta tradizione cui risale l’appartenenza delle due funzioni ad un unico ambiente.

La glossa di Verrio/Festo, come s’è visto, induce a ritenere che in età augustea il processo di distinzione fosse già concluso, tanto da incide-re nella prassi lessicale. Oltre alle testimonianze appena ricordate, ulte-riori indizi utili per tentare di precisare i tempi di tale trasformazione potrebbero giungere da una riflessione sulla graduale affermazione del poeta come figura autonoma dotata di una propria specifica funzione e, al contempo, sul suo affrancamento da una condizione sociale subalterna: l’esperienza di poetae quali Lucilio o Lutazio Catulo (insieme al quale oc-corre ricordare il cosiddetto circolo ‘preneoterico’), esponenti dell’aristo-crazia la cui attività letteraria non è più al servizio di un patronus, sembra indicare nel II secolo a.C. – e in maniera più sensibile nella sua seconda metà – il momento in cui si fanno strada a Roma differenze sempre più marcate all’interno dell’antica unità tra gli artifices della scrittura (38).

La diversificazione riflessa nell’intitolazione dei collegia, direttamen-te testimoniata nel I secolo a.C., attesta dunque una progressiva specia-lizzazione di figure un tempo accomunate sotto la medesima definizione e trova un coerente pendant nell’articolazione sempre più sofisticata del sistema degli apparitores, comprendente, come s’è visto, anche gli scribae che si occupano della documentazione amministrativa (39). Tra questi ulti-mi, costituenti una forma di vero e proprio apparato burocratico ante lit-teram, si fa strada una gerarchizzazione tra individui che mostrano gradi, competenze e titolature differenti: si distinguono, ad esempio, in ordine decrescente di importanza, scribae, scribae librarii e librarii; l’intera catego-ria, poi, risulta divisa in decuriae ed è articolata in scribae quaestorii, scribae aedilicii e scribae tribunicii (nonché, ovviamente, in scribae librarii quaestorii,

(37) 3, 7, 11. Sul collegium poetarum (e sull’esistenza di una relativa schola) si veda anche Coarelli 1997, pp. 463-484.

(38) Sui caratteri innovativi legati all’attività di Lucilio e Lutazio Catulo, specialmente in rela-zione ai destinatari e alla funzione stessa della poesia e dei suoi artefici, rimando almeno a Citroni 1990, pp. 90-95.

(39) Panciera 1991 tenta di offrire una ricostruzione di tale processo sulla base della documen-tazione epigrafica. Sarebbe auspicabile, per una comprensione più approfondita dei problemi cui si fa riferimento, un censimento completo delle numerose attestazioni epigrafiche e letterarie di scribae.

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scribae librarii aedilicii e così via) definiti a seconda dei funzionari statali ai quali sono assegnati (40).

* * *

Un’articolazione così complessa, come quella appena descritta, de-termina con tutta probabilità anche qualche distinzione riguardo al ruolo sociale degli scribae romani in base al posto che questi ultimi occupano nella gerarchia apparitoria. Ma a tal proposito è opportuno innanzitutto ricordare – e la considerazione vale per l’epoca più antica come per la più recente – che giuridicamente uno scriba, quando non sia uno schiavo che svolga le proprie mansioni in ambito domestico, va considerato un mercennarius, ossia un prestatore d’opera, un individuo che percepisce un compenso in cambio delle proprie prestazioni (41). La società romana, organizzata su base schiavistica, non considera il lavoro materiale dipen-dente dal bisogno di altri tra le attività degne dell’uomo libero, sicché lo scriba, anche quello pubblico, non di rado è malvisto soprattutto dall’élite colta ed aristocratica (42). È significativo che ciò accada non soltanto quan-do egli svolge mansioni di semplice librarius, bensì anche nei casi in cui raggiunge livelli alti della gerarchia: a maggior ragione, anzi, l’influenza esercitata sui magistrati accanto ai quali opera e il potere notevole che talvolta accumula nelle proprie mani possono generare fastidio, invidia ed astio (43).

Come si accennava, il ruolo dello scriba presenta ampi margini di am-bivalenza: egli, infatti, nonostante il peso dei pregiudizi sociali, può acqui-

(40) Purcell 2001, pp. 641-646.(41) Romano 1990, pp. 22-23, e Bartocci 2009, pp. 40-48.(42) Sulla percezione sociale dello scriba romano si legga anche un’epistola ad Attico del 50 a.C.

(6, 1, 8), nella quale Cicerone risponde ad alcuni rilievi mossigli in una precedente lettera dal suo in-terlocutore in riferimento ad un passo del de republica (purtroppo perduto) in cui si ricordavano Gneo Flavio e la sua vicenda. Qui si attribuisce al celebre scriba una mimica da istrione (ouk elathese se illud de gestu histrionis? Tu celeste suspicaris, ego aphelos scripsi): considerato che Cicerone è solito riferire atteggiamenti da attore ad alcuni oratori asiani, come ad esempio Quinto Ortensio Ortalo, sorge la suggestione che in questo caso egli stia giocando sottilmente con le parole, ironizzando sull’abilità di eloquio di Gneo Flavio (qualità la cui tradizione è attestata anche da Livio: callidus vir et facundus) e allo stesso tempo alludendo in maniera sprezzante all’antico nesso tra scriba, poeta e istrione.

(43) A titolo esemplificativo si legga Cic. leg. 3, 20, 46, che si scaglia contro gli scribae dei ma-gistrati, i quali, a suo dire, detengono in maniera arbitraria il monopolio sul controllo delle leggi; in un altro passo, leg. 3, 20, 48, lo stesso Cicerone lascia intendere che spesso la conoscenza delle leggi è affidata a ricerche d’archivio condotte dagli scribae, la cui opera, «nell’ignoratio iuris della maggior parte dei magistrati, (…) sarà stata rilevante nella redazione delle leggi»: Pani 2010a, p. 88. Di notevo-le interesse, inoltre, si rivelano i casi di falsificazione di documenti pubblici raccolti e puntualmente analizzati da Luca Fezzi, nei quali non di rado gli scribae svolgono un ruolo cruciale, a conferma indiretta dell’effettivo potere da essi gestito (e talvolta anche abusato); si giustifica, così, il clima di diffidenza e talora di aperta ostilità che li circonda, soprattutto nell’ambito degli aspri conflitti politici che segnano l’età tardorepubblicana: Fezzi 2003.

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sire notorietà e rispetto sia quando lavora al fianco delle più importanti cariche pubbliche – basterà ricordare che gli scribi al servizio del pontefi-ce massimo sono detti anche pontifices minores (44) – sia quando, nell’ambito dell’amministrazione, intraprende la carriera apparitoria raggiungendo posti di prestigio, svolgendo funzioni di tutto rilievo e acquisendo la di-rezione e il coordinamento di interi uffici (45). Il Cornelius Surus poc’anzi citato, ad esempio, definito magister scribarum poetarum, è liberto di una famiglia importante e viene orgogliosamente ricordato per il brillante cur-sus che gli ha consentito, quand’era in vita, di conseguire un apprezzabile livello economico e un indubbio prestigio sociale (46); in alcuni casi, poi, si osservano scribae che giungono addirittura allo status equestre (47).

Un’esplicita testimonianza in tal senso è costituita da uno straordina-rio monumento celebrativo della cultura degli scribae. Si tratta di un’ara in marmo bianco italico (Tav. I) scoperta nel 2000 nella zona cimiteriale del primo miglio della via Appia ed ora esposta al Museo Nazionale Ro-mano di Palazzo Massimo (48). Assegnata dagli archeologi all’epoca giulio-claudia, l’ara è dedicata da Quinto Fulvio Euno ai due figli, scribi l’uno e l’altro, morti in giovane età: Quinto Fulvio Fausto, definito scriba e scriba librarius aedilium curulium (49), e Quinto Fulvio Prisco, scriba aedilium curu-lium (50).

La faccia principale del cinerario superiore è ornata con un episo-dio probabilmente allusivo alla vita dei defunti. La scena è ambientata nell’ufficio degli scribae e cinque figure maschili sono raffigurate nell’atto di svolgere le proprie funzioni. I due fratelli sono facilmente distinguibili

(44) Cic. de harusp. resp. 6; Liv. 22, 57.(45) Si è avanzata l’ipotesi che nei municipi lo scribatus costituisca una tappa del cursus honorum

e che gli scribae, pertanto, possano adire al decurionato: Zaccaria 1991, pp. 70-71 e 2003, p. 304. Un’ul-teriore prova del prestigio al quale assurgono in taluni casi gli scribae, malgrado i pregiudizi sociali, è testimoniata dall’esistenza della cosiddetta schola Xantha, il luogo di riunione del collegio degli scribae librarii et praecones aedilium curulium, un edificio che sorgeva sulla via sacra, presso il foro romano, di piccole dimensioni e tuttavia sontuoso nell’arredo: Waltzing 1968, I, p. 219; la schola conosce una par-ziale ricostruzione in età tiberiana (CIL VI, 103) e pertanto va considerata di precedente fondazione. È utile ricordare, infine, che anche gli scribae al servizio di collegia di tipo professionale (per i quali redigono i verbali delle riunioni, curano le iscrizioni al collegio, stendono gli albi e i fasti e si occupano degli archivi) godono di particolari privilegi, essendo esentati dal pagamento dei contributi mensili e ricevendo una parte e mezzo nella distribuzione degli utili: Waltzing 1968, I, pp. 415-416.

(46) Panciera 1986.(47) Si vedano i casi citati in Romano 1990, pp. 20-21.(48) Notizia dell’ara, con ampi ragguagli, è data in Arciprete – Astolfi – Suaria 2000. Ringrazio

Guglielmo Cavallo per avermi segnalato l’affascinante reperto; a lui si deve anche una prima analisi critica dell’ara, pubblicata alcuni anni or sono (Cavallo 2000a); si veda infra, n. 54.

(49) Epigrafe sul coperchio dell’ara: Dis manibus. / Q(uinto) F(ulvio) Q(uinti) f(ilio) Quir(ina tribu) / Fausto scribae et /scribae librario aedilium / curulium vix(it) an(nos) XXXII. Degna di attenzione, qui, la doppia titolatura attribuita al defunto, attestante una superiorità gerarchica rispetto al fratello.

(50) Epigrafe sul corpo dell’ara, disposta in una tabula ansata: Dis manibus. / Q(uinto) Fulvio Q(uinti) f(ilio) Qui(rina tribu) Prisco / scr(ibae) aed(ilium) cur(ulium) vixit annos XXVIII / Q(uintus) Fulvius Eunus pater fecit.

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dai tre addetti di rango inferiore: sono le uniche figure sedute, mentre il personale, stante, sembra creare intorno ad esse l’impressione di un soler-te movimento; appaiono connotati da dimensioni lievemente ingrandite rispetto a quelle degli inservienti; indossano pesanti toghe lunghe che co-prono anche le gambe, a differenza degli altri che recano tuniche corte; il loro volto è disposto in posizione frontale, mentre i collaboratori sono tut-ti di profilo. Su un tavolo ligneo appaiono ordinatamente impilate alcu-ne tabulae di notevoli dimensioni: queste, significativamente al centro dei due protagonisti, costituiscono il nodo focale dell’impianto iconografico. La figura a destra è intenta a scrivere, mentre un addetto gli mantiene la tabula inclinata (sta sottoscrivendo? sta ponendo la propria vidimazione in calce a qualche atto?); nell’altra mano ha delle tabellae, tavolette nel-la specie di agevoli note-books (51). La figura di sinistra tiene anch’essa in mano un piccolo codice di tavolette, mentre i due collaboratori ai lati re-cano ognuno un rotolo chiuso.

Il coperchio del cinerario presenta una ricca decorazione che richia-ma la forma di uno sfarzoso volumen aperto in posizione di lettura, ove gli acroteri a rosette paiono i cornua degli umbilici, mentre gli elementi nastriformi che stringono i pulvini fungono da lora (sembra quasi di ri-conoscervi uno di quei volumina pregiati e raffinati descritti da Catullo nel carme 22) (52). Non è azzardato supporre che questa allusione ad un rotolo librario di pregevole fattura materiale possa indicare che i defunti non soltanto svolgevano mansioni amministrative, ma fossero dediti an-che ad una produzione libraria per la quale evidentemente sfruttavano le proprie competenze tecniche relative alla scrittura e alla preparazione dei supporti (53).

Il corpo inferiore dell’ara reca frontalmente una scena celebrativa, quasi un’acclamazione, in cui le figure sono disposte su differenti piani prospettici convergenti verso il centro; qui due uomini tunicati si fronteg-giano muniti di tabellae, mentre un terzo, verso sinistra, stringe un volumen chiuso o un libellus (composto da semplici foglietti di papiro arrotolati). Tutti gli sguardi sono rivolti verso l’alto, dove campeggia la tabula ansata recante solennemente una delle due iscrizioni (cf. supra n. 50); nella me-desima direzione sono tese alcune mani, quasi a sfiorare la tabula. Non è azzardato riconoscere nella folla acclamante la raffigurazione di cittadini comuni intenti a richiedere documentazione agli scribae; su un piano sim-

(51) Per gli usi di tabulae e tabellae a Roma nelle pratiche documentarie, quali attestate nell’ico-nografia dell’ara, mi limito a rinviare a Meyer 2004, pp. 21-43 e 125-168.

(52) Sul carme 22 di Catullo e sul rotolo librario di pregio all’epoca della tarda repubblica e del primo impero rimando, da ultimo, a Pecere 2010, pp. 27-29; ma si vedano anche Gamberale 1982 e Caroli 2007, pp. 49-50.

(53) È da escludere, in questo caso, che la raffigurazione si riferisca ad un rotolo documentario, anziché letterario, stando alla fattura lussuosa del volumen e alla sua apertura in posizione di lettura.

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bolico, inoltre, questi ultimi potrebbero rappresentare la città che rende omaggio, con gratitudine e rispetto, ai due giovani.

Una riflessione merita la scelta di raffigurare, in tutta la loro varietà e in scene in cui svolgono un ruolo centrale, i supporti di scrittura impiegati dagli scribae e intorno ad essi. Si tratta di oggetti che altrimenti, in contesti differenti da quello qui rappresentato, sarebbero risultati certamente pri-vi di particolare interesse; qui, invece, proprio perché legati alla funzione pubblica svolta in vita dai dedicatari del monumento, acquisiscono digni-tà, divengono meritevoli di un ricordo imperituro, richiedono al passante attenzione e rispetto, si fanno tema dominante di una rappresentazione artistica che sembra indugiare nella ricostruzione realistica, materiale, di-rei quasi fisica di tali supporti. Tabulae, codices di tavolette, libelli, volumina papiracei, insomma, acquisiscono una pregnante valenza simbolica sol-tanto in relazione al contesto nel quale sono impiegati (54).

Nel tentativo di conferire dignità alla funzione degli scribae e alla loro dimensione quotidiana abitata da gesti, strumenti e supporti legati alla pratica grafica, l’ara dedicata da Quinto Fulvio Euno ai figli – unica testimonianza nota, nel suo genere, per quanto riguarda il mondo roma-no – sembra voler raccogliere un filo di congiunzione con altre più anti-che civiltà mediterranee nelle quali lo scriba e l’esercizio pubblico della scrittura avevano conquistato riconoscimenti sociali di notevole rilievo. In particolar modo, nel caso di Roma antica occorre forse valutare con mag-giore attenzione l’apporto derivante in tal senso dalla cultura etrusca, che riserva agli scribi pubblici una posizione sociale di spicco, come dimostra la tradizione iconografica e letteraria superstite. È noto, ad esempio, un cippo funerario proveniente da Chiusi, riferibile al secondo venticinquen-nio del V secolo a.C., nel quale è raffigurata in bassorilievo la cerimonia di premiazione dei vincitori di ludi ginnici e musicali: lo scriba, dinanzi al quale si presentano i concorrenti, siede solennemente su un palco ed è affiancato da giudici e magistrati. Com’è stato acutamente osservato da Giovanni Colonna, la scena costituisce un efficace pendant con l’episodio noto attraverso la tradizione di Livio (2, 12, 7) e Dionigi di Alicarnasso (5, 28, 2): introdottosi nel campo di Porsenna, Muzio Scevola crede di ri-conoscere il re etrusco nello scriba di costui (che gli siede accanto su un palco, sovrintendendo al pagamento degli stipendia ai soldati) e, tratto in

(54) Quando il presente saggio era in bozze, ho avuto la possibilità di leggere ampi stralci di una scheda analitica dedicata all’ara degli scribi da Fausto Zevi – che qui ringrazio molto per la cortese disponibilità – e nel frattempo pubblicata in Friggeri – Granino Cecere – Gregori 2012, pp. 355-361. Pur non avendo potuto disporre di tale prezioso contributo per tempo, ritengo comunque opportuno rinviare ad esso per una approfondita lettura analitica del monumento; una lettura che – si può anti-cipare – diverge in parte da quella qui avanzata, sia su singoli aspetti dell’iconografia degli scribi sia sull’interpretazione generale del monumento. Anche per questo motivo il contributo di Zevi costitui-rà certamente un invito a proseguire la riflessione su una testimonianza tanto singolare.

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inganno dall’eleganza e dal decoro del suo abbigliamento, molto simile a quello del sovrano (55), lo trafigge con il pugnale.

* * *

Prima che una sempre più larga diffusione dell’alfabetismo giunga, tra la fine del I secolo a.C. ed il II d.C., a permeare ogni aspetto della società romana a livello pubblico e privato, divenendone uno dei fatti co-stitutivi più rilevanti, sono gli scribae, intesi in quell’ampia accezione atte-stata sin dall’età più antica, ad introdurre e diffondere a Roma pratiche, strumenti, supporti, modalità di scrittura. È importante conferire il giusto rilievo a questa circostanza poiché essa influisce in modo determinante su alcuni aspetti della cultura scritta anche nei secoli successivi.

L’eredità degli scribae, se così può essere definita, sembra riflettersi innanzitutto nelle pratiche autoriali degli scrittori latini. Il nesso indis-solubile che lega composizione poetica e autografia (56), infatti, può ragio-nevolmente trovare la sua giustificazione e la sua ascendenza nell’antica identificazione tra scribae e poetae, qualora si supponga che questi ultimi, in ossequio ad una tradizione trasmessasi senza soluzione di continuità dall’età arcaica, abbiano serbato pressoché intatto nelle modalità di lavoro il legame originario con l’atto materiale della produzione testuale. Paralle-lamente, la relazione tra composizione prosastica e dettatura, accertata in base a quanto restituiscono le fonti letterarie (57), raccoglie evidentemente l’esperienza dello scriba che assiste in qualità di segretario un magistrato o un privato cittadino; in questo caso non sarebbe azzardato riconosce-re una continuità di tradizione e un’affinità di funzioni tra i commentarii attestati dalle fonti presso i pontefici o presso i magistrati nell’esercizio delle loro funzioni (58) e i commentarii allestiti da alcuni autori in vista della stesura delle loro opere.

Nel panorama che si è sin qui delineato la scrittura è stata costante-mente evocata senza assumere mai, tuttavia, una concreta facies che con-senta una riflessione sulle sue forme. Si è discusso, cioè, di una scrittura ‘invisibile’ giacché quella degli scribae, in special modo per l’epoca che qui si è considerata, non risulta attestata in fonti direttamente conservate. Restando fedele al proposito dichiarato all’inizio del presente lavoro e

(55) Colonna 1976, part. p. 190, dove opportunamente si rimarca l’importanza del cippo di Chiusi in quanto testimonianza preziosa sia del ruolo sociale ricoperto dagli scribi nel mondo etrusco sia dell’estensione ivi raggiunta nel V secolo a.C. dagli usi giuridico-amministrativi della scrittura.

(56) Si veda, da ultimo, Pecere 2010, pp. 27-100.(57) Pecere 2010, pp. 101-192.(58) von Premerstein 1900; Frier 1979, pp. 83-105; Lindersky 1985; Cavallo 1989, pp. 700-701;

Sini 2001.

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rinunciando quindi ad entrare nel merito del rovesciamento metodologi-co operato da Armando Petrucci nel considerare il rapporto tra società e scrittura (e, fatalmente, tra storia della cultura scritta e storia della scrit-tura), desidero proporre soltanto un’ultima considerazione relativa all’e-redità degli scribae. Vi è il sospetto, infatti, che alcune tradizioni grafiche romane ‘visibili’ e ben note come quella del tratteggio ‘a sgraffio’, la più diffusa in ogni ambito d’uso (dall’epigrafico al librario, al documentario, alle scritturazioni private), e quella della capitale calligrafica a pennello, che stando alla documentazione superstite si mostra normalizzata intor-no alla fine del I secolo a.C., si rivelino più facilmente comprensibili nella loro genesi e nel loro sviluppo proprio in relazione agli usi grafici degli scribae, che possiamo immaginare rivolti in una duplice direzione.

La prima, la più antica e praticata, si consolida nel senso di una corsi-vità disarticolata e rigida sottoposta all’uso quotidiano di stilo e tavolette cerate ad opera sia dello scriba pubblico, che si occupa della registrazione di testi nell’ambito amministrativo e istituzionale, sia dello scriba privato, che presta i suoi servigi presso famiglie dei ceti dirigenti (non soltanto come segretario, ma – è opportuno ricordarlo – anche come precettore e, quindi, come insegnante di scrittura) (59); si può supporre, inoltre, che nell’ambito di questa prima direzione si giunga progressivamente all’ela-borazione di un sistema di notae tachigrafiche che consenta di economiz-zare spazio e tempo di scrittura (60).

La seconda linea di sviluppo, invece, si manifesta in una scrittura posata e calligrafica, ad alto quoziente di leggibilità, che lentamente si as-sesta in un vero e proprio sistema normativo nell’ambito dell’esposizione grafica di tipo informativo riguardante messaggi legati alla prassi politi-co-istituzionale della città (calendari, annales, senatoconsulti, trattati, sta-tuti, delibere, editti, proposte di leggi, candidature elettorali, atti giuridici e così via); il più delle volte questi testi sono vergati a pennello su tabulae dealbatae o sull’intonaco esterno degli edifici ad opera – è lecito pensarlo – degli stessi scribi pubblici (61). A partire da quest’ultima direzione, con tutta probabilità, si deve credere vi sia stato un adattamento, mediante ca-lamo e papiro, sfociato nella cosiddetta ‘capitale rustica’ d’uso librario (62).

(59) Sull’incidenza della scrittura a sgraffio nelle pratiche e nei modelli dell’insegnamento gra-fico primario rimando a Fioretti 2010.

(60) È noto, infatti, che la tradizione riferisce a Tirone, lo scriba di Cicerone, l’ideazione di un sistema di notae tachigrafiche. Ma si veda, a tal proposito, anche Sen. ep. 90, 25-26, in cui significativa-mente si attribuisce l’introduzione delle notae ad un apporto servile: quid verborum notas quibus quam-vis citata excipitur oratio et celeritatem linguae manus sequitur? Vilissimorum mancipiorum ista commenta sunt.

(61) Fioretti 2012, pp. 412-416.(62) Rimando al lavoro sulle morfologie della capitale romana annunciato a n. 21.

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È ancora da svolgere una riflessione approfondita sui contesti ai qua-li risalgono le più antiche esperienze di produzione libraria di tipo profes-sionale destinata al commercio, la stessa alla quale sono da ascrivere molti tra gli esemplari superstiti vergati in ‘rustica’. Eppure non stupirebbe se proprio in alcuni ambienti legati agli scribae, pubblici o privati, si indivi-duasse un tramite concreto tra la produzione libraria e quella documen-taria intesa lato sensu e comprendente non soltanto documenti d’archivio, quindi, bensì anche testi destinati all’esposizione, dipinti su tabulae deal-batae o incisi nel bronzo (alcuni dei quali, peraltro, esaurita la provvisoria funzione informativa, vengono probabilmente depositati in archivio) (63): nel passaggio da un ambito di produzione all’altro, gli scribae potrebbero aver trasferito competenze tecniche grafico-librarie maturate nell’eserci-zio della propria professione, adattandole a nuove esigenze – emblemati-co in tal senso, qualora l’interpretazione poc’anzi proposta fosse corretta, il caso dei due fratelli Quinto Fulvio Fausto e Quinto Fulvio Prisco.

Non bisogna dimenticare, del resto, che la forma di libro più tipica-mente romana, diffusa ancor prima che il volumen di papiro d’origine gre-ca prenda piede nel corso del I secolo a.C., consiste nel codice di tavolette, il cui ambito d’uso primario (pur se non esclusivo) è quello documentario legato alle pratiche di lavoro degli scribae (64). Un’indagine lessicale sull’e-voluzione del termine librarius, una delle accezioni legate a tali figure, po-trebbe ancora una volta svelare un percorso di trasformazioni e di specia-lizzazioni delle funzioni legate a coloro cui è affidata, nella Roma antica, la produzione materiale di testualità scritta (65).

* * *

(63) Fioretti 2012, pp. 414-415 n. 18.(64) Cavallo 1989, pp. 699-703. Si consideri, peraltro, che anche l’altra forma antica di libro ro-

mano conosciuta, quella ‘a soffietto’, con suture tra una tavoletta e l’altra, si rifà a modelli documen-tari (attestati, ad esempio, a Vindolanda) o comunque provenienti da contesti nei quali l’apporto degli scribae è testimoniato sin dall’epoca più antica (come nel caso dei cosiddetti libri lintei sacerdotali, i quali dovevano presentare la medesima struttura del celebre liber di Zagabria): Cavallo 1989, pp. 703-704.

(65) Con Guglielmo Cavallo, Mario Pani e Oronzo Pecere ho proficuamente discusso alcune parti del lavoro; senza la guida preziosa e il conforto scientifico di Elisabetta Todisco questa mia ricerca non sarebbe mai progredita: a loro rivolgo un ringraziamento sincero.

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