FIDE E OPPORTUNITA NEL CAUCASO E IN ASIA CENTRALE · 2012-08-31 · sviluppo delle tre repubbliche...

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“SFIDE E OPPORTUNITANEL CAUCASO E IN ASIA CENTRALERicerca realizzata con il contributo del Ministero degli Affari Esteri A cura di: Aldo Ferrari, Carlo Frappi, Matteo Fumagalli, Paolo Sartori, Silvia Tosi, Fabrizio Vielmini

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“SFIDE E OPPORTUNITA’ NEL CAUCASO

E IN ASIA CENTRALE”

Ricerca realizzata con il contributo del Ministero degli Affari Esteri

A cura di: Aldo Ferrari, Carlo Frappi, Matteo Fumagalli, Paolo Sartori, Silvia Tosi, Fabrizio Vielmini

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INDICE

SFIDE E OPPORTUNITA’ NEL CAUCASO E IN ASIA CENTRALE. INTRODUZIONE ALLA RICERCA Aldo Ferrari

♦ Caucaso e Asia centrale: da periferie imperiali a oggetti di competizione geopolitica 1

♦ Il Caucaso: una frontiera europea? 4

♦ Asia centrale: finalmente Heartland 5

♦ Quale politica europea in Caucaso e Asia centrale? 7

GEORGIA, ARMENIA, AZERBAIGIAN: UNA CHANCE EUROPEA? Aldo Ferrari

♦ Introduzione 10

♦ L’Europa e il Caucaso: uno sguardo storico 10

♦ Georgia, Armenia e Azerbaigian dopo la fine dell’Urss 15

♦ L’Unione Europea in cerca di una politica caucasica 18

♦ La Georgia: una posizione privilegiata? 24

♦ Conclusioni 27

LE PROSPETTIVE DI SVILUPPO ECONOMICO DELLA TRANSCAUCASIA Silvia Tosi

♦ Introduzione: la gravosa eredità della transizione 29

♦ Dalla transizione allo sviluppo 33

♦ Conclusioni 65

IL TRANSCAUCASO NELLA POLITICA ESTERA DELLA TURCHIA Carlo Frappi

♦ Introduzione 66

♦ Le origini della politica estera turca verso gli Stati di Nuova Indipendenza (1991-1993)

69

♦ Ridefinizione pragmatica della politica transcaucasica (1994-2000) 81

♦ Il processo di revisione della politica transcaucasica turca a partire dal 2000 92

♦ Conclusioni 96

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FONTI ENERGETICHE E INFRASTRUTTURE DI TRASPORTO Silvia Tosi

♦ Le risorse energetiche del bacino del Mar Caspio 98

♦ Il trasporto delle risorse attraverso il Caucaso: ragioni economiche e “Grande Gioco” politico-strategico

105

♦ Conclusioni: l’Europa, la sicurezza energetica e il cosiddetto “Grande Gioco” del Caspio

128

L’EVOLUZIONE DELLE STRATEGIE RUSSE NEL CAUCASO (1991-2006) Aldo Ferrari

♦ Introduzione 130

♦ Il Caucaso settentrionale 131

♦ La Transcaucasia 136

♦ Putin e la politica caucasica della Russia 143

♦ Conclusioni 156

LA DIMENSIONE STRATEGICA DELL’ASIA CENTRALE TRA RUSSIA, CINA E USA Matteo Fumagalli

♦ Introduzione 158

♦ Ripensare le dinamiche di integrazione e frammentazione regionali 160

♦ L’importanza strategica del sistema regionale centroasiatico 166

♦ Russia: verso la ricostruzione di un ordine esogeno? 171

♦ Gli Stati Uniti e i dilemmi di sicurezza e democratizzazione 174

♦ Cina: stabilità e sicurezza energetica 176

♦ Orientamenti strategici delle repubbliche centroasiatiche 177

♦ Il riallineamento strategico dalla partnership tra Usa e Uzbekistan al consolidamento della Sco 186

♦ Conclusioni 193

CONTINUITA’ POST-SOVIETICA, AUTORITARISMO POLITICO E DIRITTI UMANI IN ASIA CENTRALE Fabrizio Vielmini

♦ Introduzione 196

♦ Dietro gli sforzi della democratizzazione: il paradigma della transizione 197

♦ Le traiettorie istituzionali delle cinque repubbliche dopo l’indipendenza 201

♦ Problemi nella definizione della sfera politica centroasiatica: sfide interne 214

♦ Il contesto esterno. La “democratizzazione” nel contesto della competizione geopolitica regionale. L’effetto delle “rivoluzioni colorate” 229

♦ Conclusioni 234

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L’ISLAM IN ASIA CENTRALE TRA RECUPERO DELLA TRADIZIONE E MOVIMENTI RADICALI: IL CASO UZBEKO Paolo Sartori

♦ Introduzione 238

♦ Alcuni elementi caratteristici dell’Islam in Asia centrale 240

♦ L’Islam in Asia centrale durante l’epoca sovietica 246

♦ L’Islam non ufficiale 251

♦ Dalla perestrojka all’indipendenza: l’epoca della re-islamizzazione 254

♦ Mujaddidiyya e vahhobiylar 256

♦ Uno sguardo alla predicazione e all’Islam online 263

♦ Conclusioni 271

LE RISORSE ENERGETICHE E LE ECONOMIE CENTROASIATICHE Silvia Tosi

♦ Introduzione 272

♦ La transizione economica post-sovietica 272

♦ Le risorse energetiche centroasiatiche: entità e localizzazione 283

♦ L’esportazione delle risorse: vincoli geografici, esigenze economiche e obiettivi politico-strategici 288

♦ Le repubbliche centroasiatiche all’interno della partita energetica: allineamenti e politiche multivettoriali 301

L’UNIONE EUROPEA E L’ASIA CENTRALE Aldo Ferrari

♦ Introduzione 305

♦ L’Unione Europea e la “Nuova via della seta” 307

♦ Altri accordi di cooperazione 310

♦ La questione della sicurezza 312

♦ Quale strategia europea per l’Asia centrale? 316

♦ L’Unione Europea e la società civile in Asia centrale 321

♦ Conclusioni 323

IL GRUPPO DI RICERCA 325

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SFIDE E OPPORTUNITÀ NEL CAUCASO E IN ASIA CENTRALE. INTRODUZIONE ALLA RICERCA

Aldo Ferrari

Questa ricerca, che si è sviluppata tra il 2006 ed il 2007 grazie alla collaborazione tra il Ministero degli Esteri e l’Ispi, ha preso in considerazione due aree il cui significato sta rapidamente crescendo sulla scena internazionale, anche in un’ottica europea. In particolare, a partire dal 2004 Bruxelles ha inserito le tre repubbliche del Caucaso meridionale nella Politica Europea di Vicinato e più di recente, soprattutto sotto l’impulso della presidenza tedesca, sta intensificando il suo interesse per l’Asia centrale1. La sempre maggiore rilevanza di Caucaso e Asia centrale – regioni ancora complessivamente poco note, soprattutto nel nostro paese2 – richiede una rapida estensione degli studi storici, politici, economici e socio-culturali su queste regioni. La presente ricerca si pone come un contributo in questa direzione.

1. Caucaso e Asia centrale: da periferie imperiali a oggetti di competizione geopolitica

Il Caucaso e l’Asia centrale sono in effetti due regioni storicamente e geograficamente distinte, ma con alcuni punti di forte contatto che consentono – e in un certo senso impongono – di osservarle in parallelo. In primo luogo perché entrambe queste regioni sono frutti tardivi dell’espansione imperiale della Russia3. La conquista zarista del Caucaso ha avuto luogo tra il 1780 circa ed il 1864, quella dell’Asia centrale tra il 1865 ed il 1885. Entrambe le aree sono state al centro di quella rivalità geopolitica tra l’impero russo e quello britannico nota con il

1 Si vedano a questo riguardo i miei studi Georgia, Armenia, Azerbaigian: una chance europea?, «ISPI Working Paper» n. 1, ottobre 2006, http://www.ispionline.it/it/documents/wp_1_2006.pdf e L’Unione Europea e l’Asia centrale, «ISPI Policy Brief» n. 52, maggio 2007, http://www.ispionline.it/it/documents/pb_52_2007.pdf. 2 Occorre tuttavia segnalare la nascita, avvenuta nel 2004, della Associazione per lo Studio in Italia dell’Asia centrale e del Caucaso (Asiac), al cui interno collaborano gli specialisti che si occupano di queste regioni nell’ambito di varie discipline. Cfr. http://www..asiac-centre.it. 3 Per la conquista del Caucaso e dell’Asia centrale si veda A. KAPPELER, La Russia. Storia di un impero multietnico, tr. it., Roma, 2006, pp. 151-183.

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suggestivo e kiplinghiano nome di “Grande Gioco”4. Tanto il Caucaso quanto l’Asia centrale hanno poi fatto parte della compagine sovietica, subendone ampiamente il destino, pur se con proprie peculiarità. In entrambe queste regioni, con l’eccezione del Kazachstan settentrionale, la colonizzazione russa è stata molto limitata. In epoca sovietica l’una e l’altra regione sono state oggetto di processi di ingegneria etno-politica che avrebbero dovuto consentire la realizzazione del socialismo su una base “nazionale”, nel senso che come in tutta l’Urss si cercò di creare entità “nazionali” laddove le identità erano in realtà di tipo clanico, assai spesso multi-linguistiche. Tale politica di territorializzazione delle identità etniche è alla base di molti degli odierni conflitti. Soprattutto lo sviluppo delle tre repubbliche indipendenti del Caucaso meridionale – Georgia, Armenia e Azerbaigian – è gravemente ostacolato dal perdurare dei conflitti congelati in Abkhazia, Ossetia meridionale e Alto Karabakh. Questo tipo di conflitti non caratterizza invece le cinque repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale (Turkmenistan, Uzbekistan, Kazachstan, Kirgizistan e Tagikistan), abitate quasi completamente da popolazioni di lingua turca (ed eccezione del Tagikistan, dove si parla una lingua iranica). Tuttavia, anche in questi paesi l’ingegneria etnico-linguistica di epoca sovietica è stata particolarmente deficitaria. Nessuna di queste repubbliche ha frontiere razionali e ognuna di esse contiene consistenti minoranze nazionali5.

Nel complesso. all’interno dello spazio prima imperiale e poi sovietico il Caucaso e l’Asia centrale erano aree di frontiera, periferie lontane dalle zone di maggior rilevanza geopolitica. La situazione è profondamente mutata con la dissoluzione dell’Urss. L’intera fascia meridionale dell’ex-Urss costituisce oggi un settore fondamentale del cosiddetto “Grande Medio Oriente” (o “Grande Asia centrale”), l’enorme spazio, fondamentale su scala globale per le sue ricchezze energetiche, che va dalle coste orientali del Mar Nero alle frontiere della Cina6.

Venuta meno l’egemonia di Mosca, il Caucaso e l’Asia centrale si trovano attualmente all’incrocio di un complesso gioco geopolitico che trascende la dimensione locale. In particolare, in questi anni il ruolo della Turchia e dell’Iran in Asia centrale (come anche nel Caucaso) è stato più limitato di quanto si pensasse subito dopo la fine dell’Urss 7 . Nonostante la profonda crisi post-

4 Cfr. P. HOPKIRK, Il Grande Gioco, tr. it., Milano, 2004 e K. MEYER, La polvere dell’impero. Il grande gioco in Asia centrale, tr. it., Milano, 2004. 5 Cfr. O. ROY, La Nouvelle Asie Centrale ou la fabrication des nations, Paris, 1997 e P. JONES LUONG (ed.), The Transformation of Central Asia. States and Societies from Soviet Rule to Independence, Ithaca, 2004, pp. 332. 6 Cfr. M.R. DJALALI - Th. KELLNER, Moyen-Orient, Caucase et Asie Centrale: des concepts géopolitiques à construire et à reconstruire?, in «Central Asian Survey», 19, 2000, 1, pp. 117-140. 7 Sul ruolo della Turchia nel Caucaso si veda S. VANER, La politique transcaucasienne de la Turquie, in M.R. DJALALI, Le Caucase post-soviétique: la transition dans le conflit, Bruxelles/Paris, 1995, pp. 169-179; M. FUMAGALLI, Le iniziative regionali della Turchia, in A. COLOMBO et al., Il Grande Medio Oriente. Il nuovo arco dell’instabilità, Milano, 2002, pp. 109-158; N.G. KIREEV (ot. red.), Turcija meždu Evropoj i Aziej, Moskva, 2001, soprattutto pp. 356-

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sovietica degli anni Novanta dello scorso secolo, tanto nel Caucaso quanto in Asia centrale è invece la Russia che continua a giocare nella regione una partita ritenuta decisiva per la sua sopravvivenza come superpotenza, almeno regionale, contrastando entro certi limiti la penetrazione strategica ed economica degli Stati Uniti 8 . Washington, a sua volta, è interessata in primo luogo ad evitare «il riemergere di un impero euroasiatico che potrebbe ostacolare l’obbiettivo geostrategico americano» 9 . Nel Caucaso come nell’Asia centrale ex-sovietica Washington conduce quindi una politica di penetrazione massiccia che oggettivamente tende a privare la Russia del tradizionale ruolo dominante. Uno specialista come Stephen Blank ha scritto esplicitamente: «States and analysts may talk of international relations as if a new liberal dispensation had come to pass. But, as in earlier times, they act according to long-standing tenets of realism and realpolitik. The quest for energy, the source of all the talk of a new great game between Russia and United States, cannot be understood or separated apart from more traditional and competitive geostrategies aiming to integrate the Transcaspian into a Western, or Russian “ecumene”»10.

Secondo la maggior parte degli analisti, proprio la competizione politica, strategica ed economica – non cruenta, ma reale – tra Stati Uniti e Russia nei paesi post-sovietici dell’Asia centrale e del Caucaso costituisce il dato saliente delle dinamiche dell’intera regione. Per alcuni aspetti questa competizione richiama certamente il great game ottocentesco, ma la suggestione di questo parallelo storico non deve condizionare oltre misura l’analisi della situazione odierna, che è determinata da fattori in larga misura differenti da quelli ottocenteschi. In particolare, occorre tener presente la pluralità di agenti statuali locali, super-statuali (Nato, Ue, Osce, Guuam) e sub-statuali (multinazionali, Ong, lobbies di vario tipo, diaspore, organizzazioni criminali, gruppi terroristici e così via) che interagiscono a livelli diversi nella regione11 . Da un punto di vista strategico, tuttavia, la dinamica principale della grande regione caucasico-centroasiatica può

485; M. AYDIN, Turkey’s Policies toward the South Caucasus and its Integration in EU, in «Quaderni di Relazioni Internazionali», 2006, 1, pp. 51-62; C. FRAPPI, Il Transcaucaso nella politica estera della Turchia, «ISPI Working Paper» n. 3, ottobre 2006, http://www.ispionline.it/it/documents/wp_3_2006.pdf. Per quel che riguarda l’Iran si vedano invece gli studi di M.R. DJALALI, L’Iran et la Transcaucasie, in IDEM, Le Caucase post-soviétique: la transition dans le conflit, cit., pp. 181-195 e R. REDAELLI, Gli assi strategici della politica estera iraniana alla luce dell’attuale evoluzione politica interna, in A. COLOMBO et al., Geopolitica della crisi. Balcani, Caucaso e Asia centrale nel nuovo scenario internazionale, Milano, 2001, soprattutto pp. 471-483. 8 Cfr. A. VITALE, La politica estera russa e il Caucaso, in «Quaderni di Relazioni Internazionali», 2006, 1, pp. 40-50; A. FERRARI, L'evoluzione delle strategie russe nel Caucaso (1991-2006), «ISPI Working Paper» n. 5, ottobre 2006, http://www.ispionline.it/it/documents/ wp_5_2006.pdf. 9 Z. BRZEZINSKI, La grande scacchiera, tr. it., Milano, 1998, p. 121. 10 S. BLANK, Every Shark East of Suez: Great Power Interests, Policies and Tactics in the Transcaspian Energy Wars, in «Central Asian Survey», 18, 1999, 2, p. 150. 11 Cfr. M. EDWARDS, The New Great Game and the New Great Gamers: Disciples of Kipling and Mackinder, in «Central Asian Survey», 22, 2003, 1, pp. 83-102.

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essere definita di competizione egemonica tra Russia e Stati uniti, con la Cina che per adesso non si è ancora posta come attore di primo livello nell’area, ma lo farà con ogni probabilità nei prossimi decenni12. In tale contesto il ruolo dell’Unione Europea è tutto da individuare.

2. Il Caucaso: una frontiera europea?

Se per alcuni aspetti il Caucaso e l’Asia centrale possono essere visti in parallelo, occorre però tener ben presenti le specificità anche notevoli esistenti tra le due aree ed all’interno di esse. A differenza dell’Asia centrale, il Caucaso è storicamente oltre che geograficamente vicino all’Europa, di cui costituisce sin dall’antichità la frontiera più estrema. Il dato saliente di questa regione è proprio il suo essere un confine, storico-culturale prima ancora che geografico. In effetti il Caucaso ha separato per millenni gli spazi delle steppe eurasiatiche dai sistemi politici e culturali complessi del Vicino Oriente. Conseguenza di questa situazione è stata l’estrema frammentazione etno-linguistica e culturale della regione e la sua sostanziale divisione in due parti, l’una a nord l’altra a sud dello spartiacque, caratterizzate da dinamiche ampiamente autonome 13 . Solo la conquista zarista riuscì ad unificare i due versanti del Caucaso, inserendoli durevolmente in un unico sistema politico e culturale. Dopo la dissoluzione dell’Urss, tuttavia, le due aree sono tornate a dividersi. La parte settentrionale appartiene alla Federazione Russa, mentre quella meridionale è costituita dalle tre repubbliche divenute indipendenti dopo il 1991: Georgia, Armenia e Azerbaigian. Entrambe le parti del Caucaso sono state scosse da violenti conflitti inter-etnici, in larga misura ancora irrisolti. La tragica questione cecena costituisce il principale, ma non l’unico fattore di instabilità del Caucaso settentrionale, dove la Russia non è ancora riuscita a trovare una politica di stabilizzazione della regione che vada oltre la mera repressione14.

Il Caucaso meridionale ha invece visto il difficile cammino verso l’indipendenza di Georgia, Armenia e Azerbaigian. Oltre alle numerose difficoltà di carattere culturale, sociale ed economico derivanti dal lascito sovietico, che ne ostacolano il cammino verso una compiuta democrazia, questi paesi hanno pesantemente risentito della persistenza dei conflitti congelati in Abkhazia e Ossetia meridionale, in Georgia, e nell’Alto Karabakh, tra Armenia e Azerbaigian. Conflitti di carattere interetnico, certo, ma la cui mancata soluzione dipende largamente dalla rivalità geopolitica di agenti esterni, che ha sostanzialmente preso in ostaggio i popoli della regione. Si tratta infatti di una regione fortemente conflittuale, nella quale sta avendo luogo una sempre più contrastata “transizione egemonica” – dalla Russia

12 Per il quadro della situazione geopolitica dell’Asia centrale si veda nell’ambito di questa ricerca lo studio di M. FUMAGALLI, La dimensione strategica dell’Asia centrale tra Russia, Cina e Usa. 13 Cfr. A. FERRARI, Il Caucaso. Popoli e conflitti di una frontiera europea, Roma 2005, pp. 8-9. 14 Cfr. A. FERRARI, L'evoluzione delle strategie russe nel Caucaso (1991-2006), cit.

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agli Stati Uniti 15 . Si tenga presente che dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica è proprio attraverso il Caucaso meridionale che è stato deciso di far passare un fondamentale corridoio di gasdotti e oleodotti per convogliare sui mercati occidentali le risorse energetiche del Caspio e dell’Asia centrale 16 . Tuttavia, gli stessi percorsi di oleodotti e gasdotti – che escludono l’Armenia in quanto fedele, ancorché obbligata, alleata di Mosca nella regione – mostrano chiaramente l’interdipendenza dei conflitti etno-territoriali della regione con la competizione strategica ed economica delle potenze esterne.

La stabilità del Caucaso – in particolare di Georgia, Armenia e Azerbaigian – e le sue potenzialità di sviluppo dipendono essenzialmente dall’equilibrio con cui gli agenti interni ed esterni si muoveranno in una situazione che rimane estremamente complessa e problematica. E’ infatti fondamentale che la regione possa sottrarsi all’odierna situazione di “faglia” geopolitica per far sì che la sua posizione strategica divenga occasione di sviluppo e non di conflitto. Da questo punto di vista, nonostante tutti i dubbi e le difficoltà, l’inserimento delle tre repubbliche del Caucaso meridionale nella Politica Europea di Vicinato costituisce nel complesso uno sviluppo potenzialmente positivo tanto per l’Unione Europea quanto per i paesi della regione17. E questo anche a prescindere dalla prospettiva – ufficialmente non in agenda – di una futura membership di Georgia, Armenia e Azerbaigian.

3. Asia centrale: finalmente Heartland

Rispetto al Caucaso, l’Asia centrale appare invece decisamente “altra” rispetto alle dinamiche storiche europee. Si tratta in effetti della regione più settentrionale del mondo musulmano, che solo la dominazione russa e sovietica ha avvicinato parzialmente alle dinamiche occidentali. Prima della rivoluzione alcuni suoi centri, in particolare Bukhara e Samarcanda, avevano avuto per secoli un ruolo rilevante nel mondo islamico. Da un punto di vista economico si tratta di paesi molto arretrati, che nell’ambito russo e poi sovietico erano caratterizzati da una posizione quasi coloniale, visibile ad esempio nella monocultura del cotone, soprattutto in Uzbekistan. Negli ultimi decenni sovietici le repubbliche dell’Asia centrale conobbero un notevole incremento demografico, facendo anche prevedere – in un libro di Hélène Carrère D’Encausse tanto famoso quanto poi

15 Si veda il mio articolo, La Georgia tra Federazione Russa e Stati Uniti: un modello di transizione egemonica?, in A. COLOMBO (a cura di), La sfida americana. Europa, Medio Oriente e Asia orientale di fronte all’egemonia globale degli Stati Uniti, ricerca CeMISS/ISPI, Milano, 2006, pp. 56-78. 16 Si veda lo studio di S. TOSI, Fonti energetiche e infrastrutture di trasporto, «ISPI Working Paper» n. 4, ottobre 2006, http://www.ispionline.it/it/documents/wp_4_2006.pdf. 17 Si vedano a questo riguardo anche il volume The South Caucasus: a challenge for the EU, «Chaillot Paper» n. 65, December 2003 e lo studio di S. E. CORNELL, The Caucasus: A Challenge for Europe, http://www.silkroadstudies.org/new/docs/Silkroadpapers/0606Caucasus. pdf.

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clamorosamente smentito – che tale processo avrebbe provocato la fine dell’Urss 18 . Le cose, come sappiamo, non andarono così, anzi le repubbliche centroasiatiche furono per così dire costrette a subire un’indipendenza che non avevano richiesto ed alla quale non erano preparate.

La dissoluzione dell’Urss e la ricchezza energetica di alcune di queste repubbliche (in particolare Kazachstan e Turkmenistan sono grandi produttori di gas e petrolio) hanno notevolmente accresciuto l’importanza dell’Asia centrale nello scenario politico internazionale 19 , facendola divenire almeno in parte quell’Heartland, regione-perno degli equilibri mondiali, che i geopolitici hanno visto in essa sin dalle teorizzazioni di Mackinder ai primi del Novecento. Ciononostante, rispetto alle violente convulsioni del Caucaso post-sovietico, la situazione dell’Asia centrale poteva apparire relativamente tranquilla sino a pochi anni fa. Nonostante l’estrema arretratezza e i numerosi potenziali conflitti, solo il Tagikistan (che confina con Iran e Afghanistan) ha conosciuto nei primi anni post-sovietici una vera guerra civile, che vide fronteggiarsi uno schieramento islamista e uno laico, con la vittoria di quest’ultimo, appoggiato dalla Russia. In tre delle repubbliche centroasiatiche al potere sono rimaste le stesse persone che lo detenevano in epoca sovietica come segretari del partito comunista locale: Nazarbaev nel Kazachstan, Karimov nell’Uzbekistan, Niyazov nel Turkmenistan. Un’eccezione era costituita da Akaev, presidente del Kirgizstan sino al 2005, che proveniva dall’ambito accademico, mentre Rakhmonov si affermò nel Tagikistan dopo la conclusione della guerra civile. Queste figure, a volte collettivamente chiamate “nuovi khan”20, sono riuscite in effetti a mantenere nei loro paesi una relativa stabilità che però, con la parziale eccezione del Kazachstan, non ha determinato né un sensibile miglioramento del livello di vita delle popolazioni né una reale democratizzazione. Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, in tutti questi paesi il potere è quindi rimasto sostanzialmente in mano all’antica classe dirigente comunista, riciclatasi nel nuovo contesto politico con modalità di governo di tipo nazionalista, clanico e autoritario21. Soprattutto il Turkmenistan del “duce” Niyazov e l’Uzbekistan di Karimov si sono in effetti dimostrati particolarmente illiberali, con la tendenza a definire “islamista” ogni forma di

18 Cfr. H. CARRÈRE D’ENCAUSSE, Esplosione di un impero? La rivolta delle nazionalità in Urss., tr. it., Roma, 1988. 19 Si veda, nell’ambito di questa ricerca, lo studio di S. TOSI, Le risorse energetiche e le economie centroasiatiche. 20 Cfr. G.P. CAPITANI, I nuovi khan: popoli e stati nell’Asia centrale desovietizzata, Milano, 1996. 21 Su questo tema rimando all’interno di questa ricerca allo studio di F. VIELMINI, Continuità post-sovietica, autoritarismo politico e diritti umani in Asia centrale. Si vedano inoltre il recente studio di S.F. STARR, Clans, Authoritarian Rulers, and Parliaments in Central Asia, «Silk Road Paper», June 2006, http://www.silkroadstudies.org/new/docs/Silkroadpapers/0605Starr_Clans.pdf e anche J. KOHLER - Ch. ZURCHER, Conflict and the State in the Caucasus and Central Asia: An Empirical Research Challenge, Institut der Freien Univesität, Berlin, 2004, soprattutto pp. 56-67.

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opposizione politica e a reprimerla duramente in quanto tale22. La stabilità dei regimi presidenziali della regione ha però iniziato a incrinarsi nella primavera del 2005, che vide la caduta di Akaev in Kirghizstan e i gravi disordini che si verificarono nella città uzbeka di Andijan.

Il cambiamento geopolitico verificatosi su scala globale dopo l’11 settembre 2001 ha coinvolto profondamente l’Asia centrale, dove si è assistito in questi anni a un tentativo di penetrazione degli Stati Uniti che, dopo l’iniziale successo, sembra essere al momento sostanzialmente fallito23. Da un punto di vista geopolitico la regione appare al momento più orientata verso la Russia e la Cina, che rispetto agli Stati Uniti sono più “vicini”, da un punto di vista non solo geografico, ma anche politico e culturale. Mosca e Pechino, tra l’altro, sembrano capaci di collaborare fruttuosamente nella regione, soprattutto nell’ambito dell’Organizzazione per la Sicurezza di Shanghai, che riunisce Russia, Cina e paesi centroasiatici.

4. Quale politica europea in Caucaso e Asia centrale?

Il problema dell’Europa è quindi quello di inserirsi in queste complesse dinamiche caucasiche e centroasiatiche, individuando le modalità più opportune e produttive e valutando attentamente i rischi connessi a un suo maggior coinvolgimento. Il Caucaso – intendendo ovviamente le repubbliche indipendenti di Georgia, Armenia e Azerbaigian, mentre la parte settentrionale della regione resta inserita nella Federazione Russa – è relativamente più agevole per i maggiori contatti storico-culturali esistenti con l’Europa (soprattutto per quel che riguarda le prime due). Almeno uno di questi paesi, la Georgia, è inoltre apertamente filo-occidentale e particolarmente desiderosa di affermare la sua identità europea (anche in prospettiva politica), ovviamente in chiave anti-russa. Più complessa è invece la posizione dell’Armenia, la cui propensione europea è controbilanciata da forti e indispensabili rapporti con la Russia. L’Azerbaigian, infine, il paese più rilevante della regione da un punto di vista economico e strategico, è al tempo stesso il meno vicino alla prospettiva europea per ragioni storico-culturali e politiche. Nel complesso, tuttavia, l’inserimento di questi paesi nella Politica Europea di Vicinato a partire dal 2004 ha una plausibilità che potrebbe ulteriormente aumentare se la Turchia venisse accolta nell’Unione Europea, ma deve evidentemente fare i conti con una situazione geopolitica fortemente segnata dai conflitti interni e dalla rivalità tra Stati Uniti e Russia.

22 Su queste dinamiche e per un vasto quadro del ruolo dell’islam in Asia centrale si veda lo studio di P. SARTORI, L’islam in Asia centrale, tra recupero della tradizione e movimenti radicali: il caso uzbeko, 23 Cfr. F. VILLIER (pseud. Di F. VIELMINI), Les États-Unis en Asie centrale: Chronique d’une défaite annoncée, in «Outre-terre – Revue française de géopolitique», 2006, 17, e S. BLANK, America Strikes back? Geopolitical Rivalry in Central Asia and Caucasus, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 17 May 2006, http://www.cacianalyst.org/view_article.php?articleid=4233.

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Nei confronti dell’Asia centrale l’Unione Europea si trova invece in una situazione quanto mai complessa. Il suo peso nella regione è ovviamente limitato dalla distanza geografica e dalla scarsa quantità e qualità dei rapporti tradizionali, nonché dall’assenza di stati europei che si propongano come sponsor nei confronti di quelli locali. Le repubbliche post-sovietiche dell’Asia centrale hanno inoltre dinamiche politiche e sociali molto particolari, che le distaccano completamente dal paradigma dei “paesi in transizione” dell’Europa orientale e li avvicinano per certi aspetti piuttosto ad altri stati asiatici e musulmani come il Pakistan o l’Iran. Da questo punto di vista è molto importante che l’Unione Europea riesca in tempi brevi ad aumentare sensibilmente la propria capacità di analisi politica e culturale, oltre che economica, di una regione così complessa24. Come è stato osservato, «sono necessarie nuove chiavi di lettura e paradigmi d’interpretazione della realtà regionale in modo da uscire dalla gabbia interpretativa e dal peso ideologico del paradigma della transizione»25.

Al tempo stesso, tuttavia, l’Unione Europea ha forti e crescenti interessi economici in Asia centrale, soprattutto per quel che riguarda la necessità di trovare forniture energetiche alternative. Di grande rilievo sono anche le questioni di sicurezza, riguardanti in primo luogo il vicino Afghanistan, nonché le dinamiche terroristiche, il traffico di armi e stupefacenti e così via26. La crescente attenzione dell’Unione Europea, sancita soprattutto dalla attuale presidenza tedesca, ha quindi fondate motivazione, ma deve naturalmente declinarsi in maniera prudente e sulla base di un chiaro progetto di lunga durata.

Occorre soprattutto che Bruxelles individui con attenzione i suoi concreti interessi strategici, che devono per quanto possibile raccordarsi e non porsi in contrasto con quelli degli altri attori che agiscono nella regione. Con gli Stati Uniti, naturalmente, ma anche con la Russia, che ha superato la devastante crisi post-sovietica che l’aveva attanagliata negli anni Novanta dello scorso millennio e si pone invece adesso come indispensabile referente politico ed economico in Asia centrale. E ancora con la Cina, il cui ruolo nella regione è destinato a crescere, e che per molti aspetti sta trovando un linguaggio comune con Mosca. Il punto cruciale è quindi che l’Unione Europea in Asia centrale si ponga non come competitore geopolitico – un ruolo al quale non è attrezzata in assoluto e tanto meno in questa regione – quanto come fattore di cooperazione e integrazione tra i diversi attori esterni e interni. 24 Cfr. Z. BARAN et al., Islamic Radicalism in Central Asia and the Caucasus: Implications for the EU, «Silk Road Paper», July 2006, http://www.silkroadstudies.org/new/docs/Silkroadpapers/ 0607Islam.pdf. 25 F. VIELMINI, Continuità post-sovietica, autoritarismo politico e diritti umani in Asia centrale, cit. 26 Cfr. A. SCHMITZ, A political Strategy for Central Asia, in V. PERTHES - S. MAIR (eds.), European Foreign and Security Policy. Challenges and Opportunities for German EU Presidency, «SWP Research Paper», October 2006, 10, http://www.swp-berlin.org/common/get_document. php?asset_id=3366 e N.J. MELVIN, Building Stronger Ties, Meeting New Challenges: The European Union’s Strategic Role in Central Asia, «CEPS Policy Brief», 28 March 2007.

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Tanto nel Caucaso come in Asia centrale Bruxelles può sfruttare il vantaggio di non essere portatrice di aspirazioni egemoniche, a differenza della Russia, degli Stati Uniti e in prospettiva anche della Cina. Qui come in altre parti del mondo, l’Unione Europea viene infatti largamente percepita come un modello “occidentale”, cioè avanzato dal punto di vista politico, sociale e economico, ma meno aggressivo di quello statunitense e quindi per molti aspetti più attraente. Pur avendo anch’essa interessi economici e di sicurezza tanto nel Caucaso quanto in Asia centrale, l’Unione Europea può aspirare ad avvicinare a sé queste regioni essenzialmente nell’ambito di uno spazio di valori politici e culturali condivisi che alcuni iniziano a definire “l’impero europeo”27 . E’ però molto importante che questo avvenga in maniera realista, sulla base di una conoscenza approfondita delle realtà locali e senza lasciarsi fuorviare da moralismi astratti e spesso solo retorici.

La capacità di individuare una strategia efficace, realista e concreta verso il Caucaso e l’Asia Centrale – che sono tra le aree più complesse del globo – costituisce in effetti un importante banco di prova delle potenzialità della politica estera dell’Unione Europea nel prossimo futuro.

27 Cfr. M. GUDERZO, L’impero europeo, in «Studi Urbinati», Nuova Serie A, 56, 2004/2005, 3, pp. 357-379 e J. ZIELONKA, Europe as Empire: The Nature of the Enlarged European Union, Oxford, 2006.

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GEORGIA, ARMENIA, AZERBAIGIAN: UNA CHANCE EUROPEA?

Aldo Ferrari

Introduzione

La nomina, nel luglio del 2003, di un Rappresentante Speciale dell’Unione Europea per il Caucaso meridionale, ha ufficialmente sancito l’accresciuto interesse di Bruxelles per questa regione. Si tratta in effetti di un passo persino tardivo se teniamo presente la prossimità geografica del Caucaso al nostro continente e la sua notevole rilevanza strategica ed economica, peraltro gravemente segnata da conflitti interni e rivalità geopolitiche esterne. Per oltre un decennio l’Unione Europea ha in effetti mantenuto un profilo estremamente basso in questa regione, ma il grande allargamento verso est compiuto nel 2004 e la prospettiva di un ulteriore estensione (la Romania e la Bulgaria verosimilmente nel 2007, quindi – se andranno in porto le complesse trattative che la riguardano – la Turchia, il cui ingresso porterebbe le frontiere dell’Unione direttamente sul Caucaso) sembrano aver sostanzialmente modificato tale atteggiamento. Questo studio si propone pertanto di esaminare le prospettive delle nuove prospettive della politica dell’Unione Europea verso il Caucaso meridionale.

1. L’Europa e il Caucaso: uno sguardo storico

Sin dall’antichità il Caucaso costituisce in effetti una sorta di estrema frontiera culturale e psicologica, oltre che geografica, del continente europeo 1 . Alcuni popoli caucasici, in particolare i georgiani e gli armeni, hanno comunque mantenuto per secoli stretti contatti con l’Europa. Un rapporto approfondito dopo che la loro conversione al cristianesimo, nel IV secolo, li isolò nel contesto politico-culturale del Vicino Oriente, prima iranico e poi islamico (arabo, persiano e turco). Georgiani ed armeni inviarono per secoli missioni diplomatiche all’Europa cristiana alla vana ricerca di aiuto2 sinché, soprattutto nel corso del Settecento, iniziarono a rivolgere alla Russia le loro aspettative. Nei primi decenni dell’Ottocento la Georgia e la parte nord-orientale dell’Armenia entrarono a far

1 A. FERRARI, Il Caucaso. Popoli e conflitti di una frontiera europea, Roma, 2005, pp. 7-8. 2 N. GABAŠVILI, La Georgia e Roma. Duemila anni di dialogo tra cristiani, Città del Vaticano, 2003, pp. 61-107 e A. FERRARI, La salvezza viene da Occidente. Il messianismo apocalittico nella cultura armena, in idem, L’Ararat e la gru. Studi sulla storia e la cultura degli armeni, Milano, 2003, pp. 62-64.

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parte dell’impero russo. Occorre tuttavia avere ben chiara la sostanziale differenza dell’atteggiamento che questi due popoli cristiani del Caucaso meridionale hanno avuto nei confronti della conquista russa. Per quanto complessivamente positivo nella sfera della sicurezza, dell’economia e della cultura, l’inserimento nell’impero russo, che li privò della loro antica e pur precaria indipendenza, nel complesso non è mai stato accettato dai georgiani3. Per gli armeni, da secoli privi di un proprio stato, la conquista russa del Caucaso fu invece un evento sostanzialmente positivo e ben accetto, in quanto li sottraeva al secolare e spesso intollerabile dominio musulmano4. In particolare, gli armeni entrati a far parte dell’impero russo poterono evitare il genocidio subito dai connazionali dell’impero ottomano nel 1915. Tanto per i georgiani quanto per gli armeni, tuttavia, l’inserimento nell’orbita zarista ha consentito un sostanziale ingresso nella cultura europea moderna, sia pure recepita attraverso il prisma di quella russa. Per quel che riguarda le popolazioni musulmane di lingua turca dell’attuale Azerbaigian, nella parte sud-orientale della regione caucasica, occorre osservare come non abbiano offerto – a differenza dei loro correligionari del Caucaso settentrionale – una vera resistenza alla conquista russa. Tra l’altro, è stato solo attraverso la mediazione russa che gli azeri si sono avvicinati in epoca moderna alla cultura dell’Europa, con la quale in precedenza non avevano avuto praticamente rapporti5.

Dopo il crollo dell’impero russo nel 1917, all’Europa guardarono vanamente anche le effimere repubbliche di Georgia e Armenia, che conobbero una precaria esistenza dal 1918 al 1920-1921, quando, insieme all’Azerbaigian, vennero fagocitate dall’Unione Sovietica, seguendone la sorte sino al 19916.

Anche nella parte meridionale del Caucaso l’inserimento nella compagine sovietica determinò il rafforzamento di identità nazionali che, peraltro, già in precedenza apparivano molto marcate, almeno nel caso di armeni e georgiani. Le repubbliche di Georgia, Armenia ed Azerbaigian si fusero nel 1922 nella Repubblica Federale Socialista Sovietica della Transcaucasia che alla fine di quello stesso anno entrò nel patto costitutivo dell’Urss insieme a Russia, Ucraina e Bielorussia. Ricondotte nell’orbita di una Russia divenuta sovietica, queste repubbliche dovettero subirne le conseguenze in tutti i campi della vita politica, socio-economica e culturale. Tuttavia, a differenza che nel Caucaso settentrionale, il potere sovietico non dovette affrontare qui la resistenza armata di piccole e bellicose etnie montanare, ma inserire nel nuovo contesto ideologico realtà politiche e culturali di notevole tradizione. Questo compito fu particolarmente 3 Si veda a questo riguardo lo studio di L. MAGAROTTO, L’annessione della Georgia alla Russia (1783-1801), Udine, 2004. 4 A. FERRARI, Alla frontiera dell’impero. Gli armeni in Russia (1801-1917), Milano, 2000. 5 Per un quadro dell’evoluzione dell’Azerbaigian in epoca zarista cfr. A.L. ALTSTADT, The Azerbajani Turks. Power and Identity under Russian Rule, Stanford, 1997, pp. 15-87. 6 F. KAZAMZADEH, The Struggle for Transcaucasia. 1917-1921, New York/Oxford 1951; S. AFANASYAN, L’Arménie, l’Azerbaïdjan et la Géorgie de l’indépendance à l’instauration du pouvoir soviétique, Paris, 2001.

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difficile in Georgia, dove la bolscevizzazione incontrò seri ostacoli. Le terre della nobiltà, da sempre classe dominante in Georgia, furono espropriate nel 1923, ma senza prestare attenzione all’aspirazione dei contadini a divenirne proprietari. Importante fu invece il processo di korenizacija, cioè di radicamento, che portò i georgiani ad occupare posti dirigenti sino ad allora occupati prevalentemente da russi e armeni residenti nella repubblica7. Negli anni 1923-1924 all'interno del territorio georgiano vennero create le repubbliche autonome di Abkhazia, Ossetia Meridionale e Agiaria, mentre – nonostante le accese proteste armene – l'Azerbaigian ottenne le repubbliche autonome del Nakhichevan (un'exclave all'interno della repubblica armena allora abitata solo per metà da Azeri) e dell’Alto Karabakh, abitato in larga maggioranza da Armeni. Queste decisioni territoriali favorevoli alla repubblica turca dell'Azerbaigian vennero prese soprattutto perché in quel periodo l'Urss ricercava l'alleanza della nuova Turchia kemalista in funzione anticapitalista ed antioccidentale. Una speranza presto svanita, ma le decisioni di quegli anni, soprattutto riguardo all’Alto Karabakh, continuano a pesare sui rapporti tra le repubbliche transcaucasiche8.

Nella repubblica sovietica armena si ebbero da un lato le consuete politiche di repressione antireligiosa e collettivizzazione, ma al tempo stesso proseguì – sia pure in un contesto assai diverso – lo sviluppo culturale e socio-politico iniziato in epoca zarista. In questa piccola porzione nord-orientale dell’Armenia storica si concentrarono anche numerosi armeni provenienti dai territori diasporici, in particolare da Georgia e Azerbaigian. Nel volgere di pochi decenni l’Armenia divenne una delle repubbliche più istruite ed industrializzate dell’intera Unione Sovietica9.

L’Azerbaigian aveva un notevole significato nell’ottica sovietica come avamposto verso il mondo asiatico, in particolare islamico. Nel settembre del 1920 Baku ospitò il Primo Congresso dei Popoli dell’Oriente, importante ma vano tentativo sovietico di impostare una espansione della rivoluzione verso l’Asia. Come si è visto, questa attenzione verso la Persia e soprattutto la Turchia fecero sì che l’Azerbaigian ricevesse l’Alto Karabakh ed il Nakhichevan, territori su quali gli armeni avevano nel complesso maggiori diritti storici, ma questo non evitò i traumi della sovietizzazione: le strutture religiose islamiche furono duramente combattute sin dall’inizio, mentre alla fine degli anni Venti giunsero la collettivizzazione e l’industrializzazione forzata, basata ovviamente in primo luogo sullo sfruttamento dei ricchi giacimenti petroliferi locali. Al tempo stesso, il paese conobbe anche una forte modernizzazione culturale e l’azeri si affermò come lingua di cultura, scritta dapprima in caratteri latini, poi cirillici10.

7 Su questa fase della storia georgiana si veda R.G. SUNY, The Making of Georgian Nation, Bloomington/Indianapolis, 1994, pp. 208-291. 8 S. BLANK, The Soviet conquest of Georgia, in «Central Asian Survey», 1993, 1, p. 33-46. 9 G. DÉDÉYAN (a cura di), Storia degli armeni, Milano, 2002, pp. 411-440. 10 S. SALVI, La mezzaluna con la stella rossa. Origini, storia e destino dell’islam sovietico, Genova 1993, pp. 225-226.

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Nel 1936 la dirigenza sovietica decise che i pericoli nazionalistici non sussistevano più e la Federazione trancaucasica venne divisa nelle tre repubbliche di Georgia, Armenia e Azerbaigian. In tutti e tre i paesi transcaucasici la repressione politica degli oppositori fu peraltro durissima, toccando il culmine negli anni 1936-1938, quando venne eliminata buona parte dei quadri politici, intellettuali e religiosi di queste popolazioni. Tra le vittime più illustri vi furono ecclesiastici (in particolare il patriarca armeno, Khoren I), intellettuali (tra gli altri i poeti Charents e Tabidze, armeno il primo, georgiano il secondo), numerosi “islamisti” azeri ecc. Occorre tuttavia tener presente che queste repressioni non furono dirette in modo particolare contro le popolazioni transcaucasiche, ma riguardarono l’intera popolazione sovietica.

Benché un certo numero di georgiani, armeni ed azeri avessero militato affianco ai Tedeschi nel corso della Seconda Guerra Mondiale, queste popolazioni – le più numerose della regione caucasica – non vennero invece coinvolte dalle repressioni che coinvolsero numerose popolazioni del Caucaso meridionale11. Anzi, furono ricompensate per la loro sostanziale fedeltà allo stato sovietico durante la guerra con rilevanti concessioni di carattere culturale e religioso (allentamento della repressione antireligiosa, creazione di Accademie delle Scienze e così via). Nei decenni successivi il Caucaso meridionale conobbe un periodo di relativa tranquillità. Il potere sovietico si accontentava di un modus vivendi gestito da un’élite burocratica legata al partito senza più esercitare la violenta repressione degli anni 1920-1950. Seguendo l’evoluzione complessiva dello stato sovietico, anche le popolazioni caucasiche passarono cioè dal terrore al ristagno, sia economico che socio-culturale, senza che le loro aspirazioni politiche, religiose o sociali potessero manifestarsi apertamente. Né, d’altro canto, potevano venire alla luce le molteplici tensioni interetniche che covavano sotto la cenere in diverse parti della regione caucasica12.

Gradualmente, però, soprattutto tra georgiani ed armeni – popoli di antica tradizione storica e culturale – si osservò una sempre più forte rinascita del sentimento nazionale, ovviamente in latente contrasto con l’ordinamento ideologico sovietico. Tra gli armeni va segnalata in questo senso soprattutto l’imponente manifestazione dell’aprile 1965 per commemorare il 50° anniversario del genocidio, mentre cominciava a rafforzarsi la richiesta della regione autonoma dell’Alto Karabakh di distaccarsi dell’Azerbaigian13.

11 A. NEKRIČ, Popoli deportati. Il genocidio delle minoranze nazionali sotto Stalin: una ferita ancora aperta, trad. it., Milano, 1978. 12 G. F. SCHROEDER, Transcaucasia since Stalin, in R.G. SUNY (ed.), Transcaucasia. Nationalism and Social Change, Ann Arbor, 1996, pp. 461-479. 13 C. MOURADIAN, Autour du Karabagh et du mouvement national arménien, in M. BUTTINO (ed.), In a Collapsing Empire. Underdevelopment, Ethnic Conflicts and Nationalism in the Soviet Union, Milano, 1997, pp. 203-219.

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In Georgia, invece, iniziò a delinearsi sin dagli anni Settanta un “nazionalismo eterodosso”14, capace di contestare vivacemente i tentativi di Mosca di limitare l’uso della lingua nazionale. Di fronte a intense manifestazioni popolari, il potere sovietico fu costretto a riconfermare il georgiano come lingua di stato della Repubblica di Georgia. Solo con la perestrojka, tuttavia, queste tendenze poterono trovare uno sbocco significativo, dagli esiti spesso devastanti, sia internamente che verso l’esterno. In Georgia le sempre più accentuate spinte nazionaliste – rivolte principalmente contro le minoranze etniche della repubblica, ma anche contro i russi – determinarono un’ultima, violenta, reazione da parte sovietica, culminata nel massacro dell’aprile 1989, con 19 morti e centinaia di feriti15. Nelle prime elezioni libere svoltesi in Georgia dopo l’occupazione sovietica trionfarono le forze nazionaliste, guidate da un ex dissidente, Zviad Gamsakhurdia. Il paese iniziò allora a muoversi su un cammino di secessione unilaterale dall’Urss. Nel marzo del 1991 un referendum approvò la ricostituzione della repubblica georgiana indipendente. In aprile venne proclamata l’indipendenza ed a maggio Gamsakhurdia fu eletto presidente.

Ancora più grave per l’Urss fu l’evoluzione della situazione in Armenia. Nel 1988 gli abitanti armeni dell’Alto Karabakh, che costituivano circa l’80 per cento della popolazione di questa regione autonoma, avanzarono con decisione la richiesta di unirsi alla repubblica armena. Alla guida di questo movimento nazionale si pose il “Comitato Karabakh”, guidato da Levon Ter Petrosyan e caratterizzato anche da un forte orientamento democratico. La mancata risposta da parte delle autorità, ma anche l’iniziale assenza di una vera repressione, diedero a tali rivendicazioni un carattere di massa. La reazione azera fu totalmente negativa e condusse a diverse aggressioni ai danni degli armeni, culminate alle fine del febbraio di quell’anno con un pogrom nella città di Sumgait. Nei mesi successivi quasi tutti gli armeni abbandonarono l’Azerbaigian, in numero di circa 200.000. La popolazione azera della repubblica armena seguì il percorso inverso. Il devastante terremoto che colpì a dicembre l’Armenia attenuò, ma per poco tempo, la gravità della situazione. L’incapacità delle autorità sovietiche di risolvere la questione dello status dell’Alto Karabakh ha probabilmente contribuito ad innescare un meccanismo di violenze incrociate dal quale l’intera regione caucasica non è ancora uscita. Negli anni successivi l’Armenia condusse a marce forzate la desovietizzazione del paese. Nel maggio del 1990 Ter Petrosyan fu eletto presidente del parlamento armeno, mentre il 23 settembre dello stesso anno il soviet supremo della repubblica approvò una dichiarazione di sovranità, peraltro sempre all’interno dell’Urss.

La perestrojka non trovò invece una risposta politica immediata nell’Azerbaigian. Solo nell’estate del 1988 in questa repubblica si organizzò un movimento di opposizione, il Fronte Nazionale, di orientamento rinnovatore, laico e filo-turco. Un nuovo pogrom anti-armeno a Baku nel gennaio 1990 provocò l’intervento 14 R.G. SUNY, The Making of Georgian Nation, cit., 308. 15 Ibidem, p. 322.

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delle forze sovietiche, che la notte del 20 gennaio entrarono nella capitale azera perpetrando una strage della popolazione civile e proclamando lo stato di emergenza16.

Quasi al termine della sua esistenza, l’Unione Sovietica diede quindi prova in tutte e tre le repubbliche della Transcaucasia di una residua capacità di repressione.

2. Georgia, Armenia e Azerbaigian dopo la fine dell’Urss

Lo specifico retroterra storico-culturale di queste repubbliche ne ha sensibilmente influenzato l’orientamento verso la Russia e l’Europa negli anni post-sovietici. Mentre Georgia ed Armenia hanno una dichiarata vocazione europea e si sono poste sin dall’inizio la prospettiva di una richiesta di ingresso nell’Ue, l’Azerbaigian ha a questo riguardo un atteggiamento più sfumato. La posizione di tutte e tre le repubbliche transcaucasiche è stata e continua ad essere fortemente condizionata dalla vicinanza della Russia.

Sin dal 1991 è stata invece soprattutto la Georgia a coltivare con ostinazione il progetto di un completo distacco dalla Russia e di un sempre maggiore avvicinamento all’Occidente 17 . Un atteggiamento che ha notevolmente compromesso i rapporti con Mosca, che in questi anni ha appoggiato le rivendicazioni separatiste delle minoranze abkhaza e osseta, peraltro provocate in larga misura dalla politica ultra-nazionalista del primo presidente della Georgia indipendente, Gamsakhurdia. Anche se il suo successore, Shevarnadze, fu più prudente nei confronti della Russia, facendo tra l’altro entrare il paese nella Csi, né la sconfitta nei conflitti con i secessionisti abkhazi e osseti né la gravissima situazione economica in cui la repubblica è precipitata hanno però modificato l’aspirazione georgiana a fuoriuscire dall’orbita russa. Un’aspirazione che sembra derivare da una sorta di fideistica attesa di una salvezza provvidenziale, proveniente dall’esterno, dal lontano Occidente. La Georgia, ha dichiarato nel 1997 l’allora presidente del parlamento Zhvania, “aspira all’Europa, ad un futuro europeo” 18 . La forte propensione filo-occidentale dell’élite, sia politica che culturale, è un aspetto saliente della realtà georgiana, che la distingue chiaramente dalla maggior parte delle altre repubbliche post-sovietiche, al cui interno tale orientamento è di solito – con l’ovvia eccezione dei paesi baltici – meno intenso e diffuso. Ma, come osserva ironicamente uno studioso russo “…in Europa e negli Stati Uniti è possibile emigrare, ma divenire parte del mondo culturale ed

16 P. KARAM - T. MOURGUES, Les guerres du Caucase des Tsars à la Tchéchènie, Paris, 1995, pp. 130-133. 17 A. FERRARI, La Georgia tra Federazione Russa e Stati Uniti: un modello di transizione egemonica?, in A. COLOMBO (a cura di), La sfida americana. Europa, Medio Oriente e Asia Orientale di fronte all’egemonia globale degli Stati Uniti, Milano, 2005, pp. 56-78. 18 Cit. in K.S. GADŽIEV, Geopolitika Kavkaza, Moskva, 2000, p. 383.

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economico dell’Europa, ignorando la Russia, resta un desiderio irreale per tutte le regioni del Caucaso, nessuna esclusa”19.

Questo orientamento filo-occidentale della Georgia è stato a lungo frustrato dall’interesse complessivamente scarso mostrato dall’Europa nei suoi confronti. E’ probabilmente per questa ragione che la Georgia ha rivolto la sua attenzione soprattutto agli Stati Uniti e alla Nato. Già il presidente Shevarnadze aveva dichiarato più volte di voler chiedere l’ingresso nella Nato, nella speranza che l’avvicinamento militare accelerasse l’integrazione del paese con le strutture politiche ed economiche occidentali20. Tbilisi ha inoltre cercato con insistenza, ma senza riuscirvi ancora completamente, di far chiudere le basi russe ancora presenti sul suo territorio 21 . Nel 1999 la Georgia ha denunciato il trattato di sicurezza collettiva della Csi, avvicinandosi ulteriormente alla Nato 22 . Da un punto di vista economico, questa propensione filo-occidentale ha indotto la Georgia ad appoggiare sistematicamente la creazione di vie di transito energetico sia con terminali sul suo territorio, sia in Turchia, ma sempre escludendone la Russia (e l’Armenia). L’orientamento filo-occidentale della Georgia si è ulteriormente rafforzato dopo la cosiddetta “rivoluzione delle rose”, che tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004 ha visto la caduta del vecchio Shevarnadze e l’ascesa al potere di una nuova élite guidata da Mikhail Saakashvili. In effetti uno dei punti di maggior rilievo della nuova politica estera georgiana sembra essere l’accresciuta attenzione nei confronti dell’Europa. Un segnale significativo di questa svolta, che non avviene peraltro a scapito del sempre più intenso legame con gli Stati Uniti, è stata la nomina a ministro degli esteri di Salomé Zurabishvili, una diplomatica francese di origine georgiana in precedenza ambasciatrice di Francia a Tbilisi rimasta in carica sino alla fine del 2005. Il presidente Saakashvili ha inoltre creato un ministero per l’integrazione europea, facendo anche esporre la bandiera europea su tutti gli edifici amministrativi della Georgia. La politica estera georgiana sembra in effetti essersi orientata negli ultimi anni verso un superamento della forzata antinomia Russia/Usa a favore di una sorta di triangolo strategico che prevede anche l’Unione Europea, in prospettiva con un ruolo persino più importante 23 . Per la sua posizione geografica e l’accentuata propensione occidentale ed europea, la Georgia si candida realmente a divenire il motore dell’avvicinamento economico e politico della regione all’Unione Europea. In effetti il presidente Saakashvili ha dichiarato di essere intenzionato a chiedere l’ingresso nell’Ue successivamente a Romania e Bulgaria, che dovrebbero entrare

19 A. ZUBOV, Il futuro politico del Caucaso, in P. SINATTI (a cura di), La Russia e i conflitti nel Caucaso, Torino, 2000, p. 68. 20 Ibidem, p. 381. 21 A. FERRARI, Georgia e Russia. Un’amicizia senza basi, in «ISPI Policy Brief», 2004, 4, http://www.ispionline.it. 22 D. DARCHIASHVILI, Georgia Courts NATO, Strives for Defense Overhaul, in «Eurasia Insight», 26 July 2000, http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/eav072600 .shtml. 23 T. DE WAAL, Saakishvili: saviour or threat?, in «Caucasus Reporting Service», 2004, 241, http://www.iwpr.net.

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nel 2007, mentre le leadership di Erevan e Baku appaiono al momento molto meno impegnate in questa direzione, ovviamente a causa della loro differente situazione interna ed esterna.

Tra le nuove repubbliche indipendenti della Transcaucasia solo l’Armenia è entrata sin dall’inizio nella Csi, mostrando così di voler mantenere un legame preferenziale con Mosca, reso obbligato non tanto, o non solo, dalle tradizionali buone relazioni armeno-russe quanto da una situazione geopolitica estremamente rischiosa a causa dell’ostilità della Turchia e della guerra non dichiarata con l’Azerbaigian per l’Alto Karabakh, durante la quale Mosca ha sostanzialmente appoggiato gli armeni. La presenza di basi militari russe sul suo territorio è quindi ben vista da Erevan. Il tradizionale orientamento filo-occidentale degli armeni deve cioè fare i conti con la realtà storica e geopolitica. Pur sforzandosi di allacciare rapporti con l’Unione Europea e gli Stati Uniti (dove vivono consistenti comunità armene), questa repubblica continua pertanto ad appoggiarsi principalmente a Mosca.

L’inserimento obbligato dell’Armenia nell’asse informale Mosca-Teheran è peraltro accompagnato da una forte propensione occidentale, favorita dall’esistenza di comunità diasporiche particolarmente numerose ed influenti in Francia e negli Stati Uniti. La repubblica armena si è dunque sforzata in questi anni di condurre una politica del “doppio binario” o “di complementarietà”24, nel complesso con buoni risultati. Lo stretto legame con Mosca costituisce una garanzia di sicurezza nei confronti dei suoi vicini ostili, ma non ha sinora pregiudicato il rapporto con gli Stati Uniti. Va comunque segnalato come a livello di opinione pubblica anche l’Armenia sembri indirizzarsi più chiaramente che in passato in tale direzione. In un sondaggio condotto nel dicembre 2004 dall’Armenian Center for National and International Studies (Acnis) su un campione di 2000 persone, due terzi degli intervistati si sono detti favorevoli all’ingresso nell’Unione Europea e solo il 12 per cento contrari. Tutti i 100 politici e specialisti di politica internazionale contattati dall’Acnis hanno dato la stessa risposta. Esito analogo ha dato un altro sondaggio, organizzato dall’agenzia “Vox Populi”, secondo il quale il 72 per cento della popolazione di Erevan preferirebbe far parte dell’Unione Europea anziché della Csi 25 . In una repubblica tradizionalmente filo-russa si tratta di un dato rilevante, che risente certo degli avvenimenti georgiani.

Nel frattempo anche l’Azerbaigian, una repubblica musulmana di lingua turca ma di confessione sciita e per secoli culturalmente legata all’Iran, ha mostrato una propensione cautamente filo-occidentale, non tanto – però – in senso europeo, quanto piuttosto verso la Turchia e gli Stati Uniti. Dopo la rapida caduta del suo 24 L. ZARRILLI, L’Armenia post-sovietica: un profilo geografico, in idem (a cura di), La grande regione del Caspio. Percorsi storici e prospettive geopolitiche, Milano, 2004, p. 93. 25 E. DANIELYAN, Polls Show Pro-Western Shift in Armenian Public Opinion, in «Eurasia Insight», 11 January 2005, http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/eav011105 .shtml.

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primo presidente, Elchibey (eletto nel giugno 1992) e forte sostenitore dell’avvicinamento del paese alla Turchia, il suo successore – Heydar Aliyev – è stato più cauto: pur firmando con le compagnie petrolifere occidentali un accordo che escluse quasi completamente la Russia dallo sfruttamento dei vasti giacimenti petroliferi del Caspio, Aliyev fece infatti entrare l’Azerbaigian all’interno della Csi e mantenne relazioni equilibrate con Mosca. Come la Georgia, tuttavia, anche l’Azerbaigian ha sostenuto la costruzione dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, destinato a portare il greggio sui mercati occidentali evitando la Russia. E, sempre a somiglianza della Georgia, l’Azerbaigian ha più volte dichiarato di voler entrare a far parte della Nato26.

In tutte e tre le repubbliche caucasiche, quindi, nel primo decennio post-sovietico i rapporti con la Russia, gli Stati Uniti e la Nato sono stati assai più determinanti di quelli con l’Unione Europea, benché questi paesi siano entrati a far parte del Consiglio d’Europa ed abbiano sottoscritto con Bruxelles gli Accordi di Partenariato e Cooperazione. Una situazione che può essere spiegata da due fattori concomitanti. Da un lato, indipendentemente dalla loro maggiore o minore propensione filo-occidentale e filo-europea, le repubbliche della Transcaucasia hanno continuato a risentire dell’eredità di due secoli di inserimento nel contesto russo e russo-sovietico, nonché del condizionamento della loro posizione geografica. D’altro canto, l’Unione Europea ha dimostrato sino a tempi recenti una grande cautela, evitando di impegnarsi attivamente in un contesto tanto problematico come quello caucasico27.

3. L’Unione Europea in cerca di una politica caucasica

In effetti, la politica dell’Unione Europea nel Caucaso meridionale dopo il crollo dell’Urss è stata sino a pochi anni fa assai poco incisiva. Gli stati europei, sia singolarmente che collettivamente, sono stati donatori generosi nella regione, soprattutto nell’ambito del programma Tacis, destinato ai paesi ex-sovietici, ma l’Unione Europea in quanto tale ha cercato a lungo di non farsi coinvolgere nelle questioni di sicurezza della regione, determinate non solo dall’insorgere di conflitti etno-territoriali, ma anche da complesse rivalità strategiche. Bruxelles ha tentato invece di contribuire alla graduale stabilizzazione delle aree di crisi e di incrementare la cooperazione economica dell’intera regione, demandando ad altre organizzazioni il compito di intervenire in quest’area. A Onu e Nato, ma soprattutto all’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce), che ha avuto un certo ruolo nei negoziati tendenti a risolvere i conflitti interetnici della regione28. Da un punto di vista economico, tuttavia, l’Unione Europea ha partecipato ai progetti internazionali Interstate Oil and Gas Transport 26 K.S. GADŽIEV, Geopolitika Kavkaza, cit., pp. 381-382. 27 Ibidem, p. 185. 28 A questo riguardo si veda l’articolo di D. SAGRAMOSO, The UN, The OSCE and NATO, in The South Caucasus: A Challenge for the EU, «Chaillot Papers», 2003, 65, pp. 63-90.

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in Europe (Inogate) e soprattutto Transport Corridor Europe Caucasus Asia (Traceca)29, miranti a ridisegnare radicalmente il trasporto delle fonti energetiche dall’Asia centrale ai mercati globali, in larga misura escludendone la Russia. Nel complesso, tuttavia, per oltre dieci anni dopo la dissoluzione dell’Urss è chiaramente mancata un’attenzione strategica europea nei confronti della regione caucasica. Un’assenza che può naturalmente essere spiegata con la debolezza della politica estera globale dell’Unione Europea, ma anche con la percezione di trovarsi di fronte ad un contesto particolarmente complesso e arduo da interpretare. La regione caucasica, infatti, sia quella settentrionale rimasta all’interno della Federazione Russa, sia le tre repubbliche indipendenti del Caucaso meridionale è divenuta nel frattempo non solo un’area fortemente segnata dai conflitti interetnici, ma anche il luogo di un confronto geopolitico non cruento ma reale tra Russia e Stati Uniti.

La politica da seguire verso il Caucaso meridionale è stata a lungo oggetto di dibattito all’interno dell’Unione Europea, sia a livello di Commissione e di altre istituzioni comunitarie che di singoli stati, ma per molti anni il dato principale dei rapporti concreti tra Bruxelles e le tre repubbliche della regione sono stati gli Accordi di Partenariato e Cooperazione. Firmati nel 1999 con validità decennale, questi accordi, che regolano i rapporti, gli obbiettivi ed i meccanismi della cooperazione, prendono in considerazione una vasta gamma di temi politici, economici, sociali e culturali. Per perseguire questi obbiettivi sono state create tre istituzioni: un Consiglio di Cooperazione, che si riunisce una volta l’anno a livello ministeriale; un Comitato di Cooperazione, che si riunisce più regolarmente a livello di funzionari; un Comitato di Cooperazione Parlamentare con il Parlamento Europeo che si riunisce pure una volta l’anno. Benché gli Accordi comprendano anche articoli miranti a risolvere i conflitti regionali, il loro interesse prevalente è di carattere economico e tecnico. La stipula di questi Accordi condusse ad un dibattito all’interno dell’Unione Europea sulla politica globale da seguire nella regione del Caucaso meridionale. La Commissione dichiarò che l’assistenza europea sarebbe potuta divenire effettiva solo se i conflitti interetnici presenti nella regione (Alto Karabakh, Ossetia meridionale e Abkhazia) fossero stati risolti ed avesse avuto inizio una politica di reale cooperazione tra Georgia, Armenia e Azerbaigian. Del resto la gravità di questi conflitti (congelati dal 1993-1994, ma che in questi anni di instabilità hanno prodotto il blocco delle frontiere, centinaia di migliaia di rifugiati ed una grave stagnazione economica) legittimava la prudenza di Bruxelles. L’Unione Europea sembrava essere entrata in un circolo vizioso, alla cui luce l’ulteriore sviluppo dei rapporti con le tre repubbliche del Caucaso meridionale appariva illusorio 30 . Tanto più che la stessa vocazione europea di questi paesi, apparentemente assai

29 Per informazioni più approfondite su questi progetti si vedano i siti http://www.traceca.org e http://www.inogate.org. 30 D. LINCH, The EU: Toward a Strategy, in The South Caucasus: A Challenge for the EU, cit., pp. 181-182.

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forte soprattutto in Georgia e Armenia, è spesso apparsa più retorica e strumentale che reale, venendo utilizzata solo per questioni di prestigio o al servizio di immediati fini pratici locali. Per quel che riguarda l’Azerbaigian, l’interesse maggiore appariva in effetti rivolto alla Nato più che all’Unione E 31uropea .

Inoltre, a differenza di quanto avviene con i paesi occidentali dell’ex-Urss, il Caucaso meridionale ha risentito negativamente della mancanza di stati-sponsor all’interno dell’Unione Europea che potessero svolgere nei suoi confronti un’azione simile a quella della Spagna nell’ambito del Processo di Barcellona o della Finlandia verso le repubbliche baltiche. In questi anni la regione è stata oggetto di attenzione saltuaria da parte di alcuni funzionari europei, in particolare tedeschi e britannici, mentre con il processo di allargamento ha trovato sostenitori proprio da parte delle repubbliche baltiche. Occorre tener presente, peraltro, che non è stato agevole neppure identificare il Caucaso meridionale come regione a sé stante, in quanto inizialmente era inserita nella categoria di riferimento comune a tutte le repubbliche ex sovietiche. Solo in maniera molto graduale l’Unione Europea ha iniziato a distinguere con chiarezza le diverse aree dell’ex-Urss e ad iniziare una politica differenziata verso di esse. Benché sin dal 1998-1999 vi fossero richieste, in particolare da parte del Parlamento Europeo, per una politica specifica verso il Caucaso meridionale, sono occorsi ancora diversi anni perché si giungesse a questo risultato. I diversi enti europei hanno preparato tutta una serie di papers, i principali sono del gennaio 2001 e 2003, per preparare le discussioni all’interno del Consiglio Politico e del Comitato di Sicurezza. Tali discussioni hanno quindi affrontato essenzialmente le questioni concernenti la soluzione dei conflitti nel Caucaso meridionale, l’avviamento della collaborazione regionale e se l’approccio migliore per l’Unione Europea fosse quello dei Accordi di Partenariato e lo sviluppo di una specifica strategia 32 . La prima opzione fu inizialmente preferita, perché non parvero esserci le condizioni per una politica di più vasto respiro. Bruxelles, tuttavia, decise di supportare alcuni programmi di sicurezza e ricostruzione in Ossetia meridionale, Abkhazia, Azerbaigian e sulla frontiera russo-georgiana33.

Negli anni successivi, tuttavia, ben poco è avvenuto nel Caucaso meridionale che andasse incontro alle richieste di soluzione dei conflitti ed incremento della cooperazione regionale. Nonostante questo, però, il Parlamento europeo richiese lo sviluppo di una strategia per il Caucaso meridionale simile al Patto di Stabilità per i Balcani. Nella prima metà del 2001 la Presidenza svedese pose la regione come una delle priorità dell’Unione Europea, muovendo anche i primi passi in questa direzione. Nel corso del 2002 diverse missioni europee visitarono le capitali delle repubbliche del Caucaso meridionale, valutandone i progressi politici ed economici. Si cominciò a parlare anche della possibilità di istituire una Rappresentanza Speciale per la regione, nonostante le difficoltà e le remore di

31 Ibidem, p. 177. 32 Ibidem, p. 180. 33 Ibidem, p. 182.

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molti paesi membri. Si cominciava infatti a ritenere pericolosa per gli interessi europei l’assenza di una politica adeguata in una regione così instabile e vicina, dove per di più l’Unione era percepita come una realtà sostanzialmente neutrale e positiva, a differenza di altre realtà politiche internazionali34.

Tuttavia, la situazione di sostanziale assenza di Bruxelles dalla scena del Caucaso meridionale è durata sino al 2003. Ancora all’inizio di quell’anno, infatti, il Caucaso meridionale appariva ancora escluso dalla Politica di Vicinato Europeo (European Neighborhood Policy, Enp). Il comunicato della Commissione dell’11 marzo spiegava l’esclusione della regione con queste parole: “Given their locations, the Southern Caucasus therefore also falls outside the geographic scope of this initiative for the time being”35. Un’esclusione che a ben vedere appariva sconcertante sia alla luce della partecipazione di Georgia, Armenia e Azerbaigian al Consiglio d’Europa (del quale non fanno invece parte altri paesi mediterranei inclusi nell’Enp), sia della rilevanza strategica ed economica di questa regione, fondamentale per l’estrazione ed il transito delle risorse energetiche36. Nel giro di pochi mesi, però, questa esclusione - che concludeva una fase di sostanziale disinteresse per l’area caucasica - è stata superata in maniera piuttosto improvvisa e rapida. Nel giugno del 2003, la versione preliminare della strategia di sicurezza europea presentata dal Rappresentante per la Politica Estera e la Sicurezza, Javier Solana, sosteneva che “We should take a stronger interest in the problems of the Southern Caucasus, which in due course will also be a neighbouring region”37.

Le conseguenze di questo mutato orientamento si sono viste presto. Già nel luglio del 2003 l’Unione Europea ha nominato un rappresentante speciale per il Caucaso del Sud, nella persona dell’esperto diplomatico finlandese Heikki Talvitie, con il compito di aiutare i paesi della regione a raggiungere gli obbiettivi posti da Bruxelles: sviluppare contatti con governi, parlamenti, magistrature e società civile, incoraggiare i tre paesi a cooperare su sicurezza, terrorismo e crimine organizzato, preparare il ritorno alla pace. Il rappresentante europeo avrebbe anche fornito assistenza per la risoluzione dei conflitti etno-territoriali 38 . Nel corso del suo mandato Talvitie visitò tre volte la regione, anche nel corso degli avvenimenti noti come “rivoluzione delle rose”, che determinarono il cambio di regime in Georgia. Il mandato di questo rappresentante era però insufficiente e nel dicembre 2003 il Parlamento Europeo ha raccomandato di includere il Caucaso 34 Ibidem, p. 185. 35 Wider Europe – Neighbourhood: A New Framework for Relations with our Eastern and Southern Neighbours, in «Commission Communication COM (203), 104 Final», Bruxelles, 11 March 2003. 36 S.E. CORNELL, Europe and the Caucasus: In Search for a Purpose, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 2 July 2004, http://www.cacianalyst.org/viewarticle.phparticleid=2419. 37 J. SOLANA, A Secure Europe in a Better World, paper presentato a Tessalonica, 20 giugno 2003, http://www.ue.eu.int/pressdata/EN/reports/76255.pdf. 38 Per il testo completo della Joint Action cfr. «Official Journal of the European Union», L 169/74 – L 169/75, 8 luglio 2003.

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meridionale nella Politica Europea di Vicinato. La Commissione Europea ha accolto questa indicazione, che è divenuta operativa nel giugno 2004.

Come spiegare questa svolta nella politica estera dell’Unione Europea verso le tre repubbliche del Caucaso meridionale? In primo luogo, naturalmente con l’ingresso di dieci nuovi paesi dell’Europa orientale e meridionale, avvenuta nel maggio 2004, che ha non solo mutato in maniera radicale il quadro interno dell’intera Unione Europea, ma anche ampliato sensibilmente i suoi riferimenti esterni. Il grande allargamento del 2004, cioè, ha contribuito non poco alla percezione delle repubbliche del Caucaso meridionale – ma anche di Ucraina, Bielorussia e Moldavia, come è ovvio – alla stregua di “paesi vicini”. La strategia di sicurezza dell’Unione Europea considera adesso prioritario che questi paesi divengano più stabili e sicuri ed è disposta ad impegnarsi per favorire tale processo39.

Come è stato osservato, per quel che riguarda la cooperazione regionale Bruxelles dovrebbe tener conto nella regione caucasica dell’esperienza, in gran parte negativa, dei Balcani. Qui, come è noto, il tentativo di indurre i paesi dell’area ad intraprendere una cooperazione regionale sono sostanzialmente falliti ed essi hanno preferito avviare canali individuali nelle relazioni con l’Unione Europea40. Un’impostazione di questo tipo andrebbe se possibile evitata nel Caucaso meridionale anche se, come si è detto, l’atteggiamento dei tre governi locali nei confronti dell’integrazione europea non è univoco, con la Georgia nettamente più sensibile di Armenia e Azerbaigian. Anzi, la svolta della politica europea è stata in larga misura determinata dalla “rivoluzione delle rose” in Georgia41.

Strettamente collegato al mutato atteggiamento europeo è ovviamente anche la questione della candidatura della Turchia, il cui eventuale ingresso porterebbe le frontiere europee direttamente sul Caucaso meridionale42. Come è noto, Ankara ha ottimi rapporti con l’Azerbaigian (anche per l’affinità linguistica) e buoni con la Georgia, mentre non mantiene rapporti diplomatici con l’Armenia. Tra i due paesi pesano infatti sia il genocidio armeno del 1915, che il governo di Ankara rifiuta ostinatamente di riconoscere, sia la chiusura da parte turca delle frontiere con l’Armenia in seguito alla guerra dell’Alto Karabakh. Il presidente armeno Kocharian ha in effetti chiesto che Bruxelles imponga alla Turchia la riapertura della frontiera con l’Armenia, ritenendo inaccettabile che uno stato che sta trattando l’adesione all’Unione Europea isoli in tal modo un altro che è già parte della Politica di Vicinato Europeo. I difficilissimi rapporti tra questi due paesi

39 D. LINCH, The EU: Toward a Strategy, cit., p. 173. 40 F. DALLA PIAZZA, Caucaso, una rassegna, 19 dicembre 2005, http://www. osservatoriobalcani.org/articleview/5064/1/205. 41 Sugli avvenimenti che hanno determinato la “rivoluzione delle rose” cfr. G. BENSI, Georgia: la caduta di Shevarnadze, in «CSSEO Working Paper», 2004, 64, http://www.csseo.org e C. KING, A Rose among Thorns. Georgia Makes Good, in «Foreign Affairs», 83, 2004, 2, pp. 13-18. 42 Si veda al riguardo M. AYDIN, Turkey’s Policies toward the South Caucasus and Its Integration in the EU, in «Quaderni di Relazioni Internazionali», 2006, 1, pp. 58-62.

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rappresentano in effetti un ostacolo non secondario per la politica dell’Unione nel Caucaso, ma al tempo stesso si può anche osservare che la prospettiva europea potrebbe contribuire al loro miglioramento. In questo senso, anche se si tratta di processi non immediati, il cammino della Turchia verso l’Unione Europea potrebbe avere conseguenze positive sulla situazione della regione43.

Nel complesso, tuttavia, l’intensificazione della politica europea nei confronti del Caucaso meridionale sembra ricollegarsi al nuovo e più assertivo corso della politica europea, manifestatosi negli ultimi mesi nei confronti paesi dell’ex-Urss, soprattutto in Ucraina e Moldavia. Come è stato osservato, proprio il Caucaso meridionale sembra poter costituire un ulteriore ed importante banco di prova della politica estera dell’Unione Europea verso i paesi ex sovietici44. Bruxelles, però, continua ad occuparsi soprattutto delle questioni legate alla sicurezza ed allo sviluppo, mentre si mostra quanto mai prudente nei confronti delle esplicite aspirazioni locali – in particolare georgiane – ad entrare a farne parte 45 . Per esempio, durante una sua visita nella regione, il commissario europeo Janez Potecnik ha insistito sul fatto che la Politica di Vicinato non ha legami diretti con la questione dell’adesione all’Unione, ma si limita a coordinare i diversi programmi di assistenza nel Caucaso meridionale. Il 20 febbraio 2006 il diplomatico svedese Peter Semneby è stato nominato nuovo Rappresentante Speciale dell’Unione Europea per il Caucaso meridionale ed ha ricevuto un nuovo e più ampio mandato. Tuttavia non sono ancora stati approntati i Piani di Azione che definiranno l’impegno europeo nel Caucaso meridionale nei prossimi 3-5 anni. L’ultima tornata di discussioni tra i rappresentanti di Georgia, Armenia e Azerbaigian e l’Unione Europea ha avuto luogo a marzo a Bruxelles, ma senza giungere ad una conclusione. Le trattative sono in effetti molto complesse, perché riguardano un vasto raggio di questioni, tra le quali il monitoraggio del conflitto nell’Ossetia meridionale, la messa in sicurezza della centrale nucleare di Metzamor in Armenia, i negoziati con Cipro da parte dell’Azerbaigian e così via46. I Piani di Azione, collegati alla soluzione dei conflitti, al miglioramento degli standard democratici e al livello di governance e diritti umani, costituiscono una opportunità importante per contribuire in maniera sostanziale allo sviluppo del Caucaso meridionale, ma sono al tempo stesso di difficile raggiungimento ed ardua implementazione. D’altra parte l’Unione Europea deve sensibilmente accrescere la sua visibilità nella regione per divenirvi un attore credibile, in

43 J. GOVETT, Turkish Drive towards EU Increases Possibilities for Change in the Caucasus, in «Eurasia Insight», 6 January 2005, http://www.eurasianet.org/departments/insight/ articles/eav010605.shtml. 44 M. MONDELLI, L’Europa in espansione: sovrapposizioni, inclusioni ed esclusioni nell’estero condiviso, in «Ispi Policy Brief», 2005, 14, http://www.ispionline.it. 45 A. ROCHANOWSKI, EU Extends Cooperation with Georgia, but Expresses Caution in Access Issue, in «Eurasia Insight», 17 June 2004, <http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/ eav061704.shtml>. 46 A. LOBJAKAS, South Caucasus: Slow Progress on Plans for Closer EU Ties, http://www.rferl.org/featurearticle/2006/03/ddfda8do-6641-4dd2-a1d4-f50647ao.

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quanto la sola immagine di honest broker (“onesto mediatore”), estraneo alle rivalità strategiche russo-americane non è più sufficiente. Soprattutto alla luce della necessità di confrontarsi con la nuova politica energetica della Russia, il Caucaso inizia adesso ad acquisire agli occhi dei paesi europei un’importanza strategica che ancora pochi anni fa non aveva affatto47.

Alla luce di queste considerazioni, un recente rapporto ha raccomandato una serie di misure per rafforzare l’efficacia politica dell’Unione Europea nella regione, trarre il maggior vantaggio possibile dal negoziato per i Piani di Azione, aumentare l’azione di sostegno alla soluzione dei conflitti, sia tra Armenia e Azerbaigian che in Georgia48.

4. La Georgia: una posizione privilegiata?

Come si è già avuto modo di dire in precedenza, la Georgia è stato tra i paesi del Caucaso meridionale quello che ha manifestato sin dagli anni immediatamente successivi all’indipendenza una maggiore vocazione occidentale. Sotto il lungo potere di Shevarnadze tale vocazione è stata in larga misura soffocata dalla crisi economica del paese e dalla incombente presenza russa. La “rivoluzione delle rose” ha cercato invece programmaticamente di portare a compimento il processo di fuoriuscita dall’orbita di Mosca e di ingresso nelle struttura occidentali, in primo luogo Nato e Unione Europea. Tanto il presidente Saakashvili quanto altre figure di rilievo della nuova dirigenza di Tbilisi hanno affermato a più riprese di ritenere l’inserimento nella Politica Europea di Vicinato un primo passo verso la completa adesione all’Unione Europea. Nonostante tutte le cautele manifestate da Bruxelles nei confronti delle avances della Georgia, non vi è dubbio che questo paese costituisca il vero motore dell’avvicinamento della regione all’Europa. D’altro canto, con l’imminente – pur se problematico – ingresso di Romania e Bulgaria nell’Unione, la Georgia si avvicinerà sensibilmente all’Europa, separata solo dalla frontiera liquida del Mar Nero. Non a caso, un paese rivierasco come la Romania mostra un interesse particolare per la Georgia, soprattutto dopo che il nuovo presidente Basescu ha dato un forte impulso alla politica romena verso il Mar Nero. Oltre alla Romania, la Bulgaria e le tre repubbliche baltiche hanno costituito il cosiddetto “Nuovo gruppo di amici della Georgia”, che ne difendono la posizione verso l’Unione Europea e l’Osce 49 . In questo contesto, la stabilizzazione della Georgia, minata al suo interno dalle sconfitte con i separatisti abkhazi e osseti, costituisce una priorità per l’Unione Europea. La quale, al tempo stesso, non può essere indifferente al forte orientamento in senso occidentale della

47 L. DI PUPPO, The EU Looks Carefully at the Caucasus and Its Energy Potential, 4 June 2006, http://www.caucaz.com/home_eng/breve_contenu.php?id=248. 48 Conflict Resolution in the South Caucasus: The EU’s Role, in «Europe Report», 2006, 173, http://www.crisisgroup.org/home/index.cfm?id4037&1=1. 49 D. LYNCH, Why Georgia Matters, in «Chaillot Papers», 2006, 86, p. 55.

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nuova dirigenza georgiana, assai più accentuato di quanto avvenga in quella armena ed azera.

L’Unione Europea, da parte sua, guarda alla Georgia con particolare interesse. Il Rappresentante Speciale, il già ricordato Talvitie, si è recato diverse volte nel paese, dove il 1 settembre 2005 ha ufficialmente iniziato le sue attività un team composto da 20 persone. Il rafforzamento democratico, la stabilizzazione della democrazia, la soluzione dei conflitti etno-territoriali al suo interno, il consolidamento del ruolo di paese-tramite per il trasporto del petrolio proveniente dall’Asia centrale e dal Caspio, la lotta ai traffici illegali (soprattutto armi e droga) e la collaborazione nella lotta al terrorismo internazionale sono i principali interessi europei in Georgia, che costituisce dunque un significativo banco di prova per la politica estera di Bruxelles dopo il grande allargamento del 2004.

Occorre tuttavia considerare che l’interesse europeo per la Georgia, come per l’intero Caucaso meridionale, rimane meno prioritario rispetto ad altre aree, in primo luogo quella balcanica. Inoltre, l’opzione filo-occidentale di Tbilisi non riguarda solo l’Unione Europea, ma anche gli Stati Uniti. Ora, nella sfera strategica e militare questi ultimi sono non solo naturalmente più influenti dell’Unione Europea, ma hanno anche obbiettivi e metodi non sempre identici, soprattutto nel vicino contesto medio-orientale. In particolare, a Tbilisi si ha la sensazione che mentre Washington fornisce un concreto appoggio militare, economico e diplomatico, Bruxelles si limita a progetti di cooperazione ed a indicazioni moraleggianti50.

Vi è inoltre un problema sostanziale nei rapporti tra Unione Europea e l’odierna dirigenza della Georgia, vale a dire la forte volontà di quest’ultima di ricostituire l’unità territoriale del paese senza tenere in sufficiente considerazione le rivendicazioni di abkhazi e osseti e la situazione creatasi sul campo. Lo slogan “riprendiamoci la Georgia” del “Movimento Nazionale” che ha portato Mikhail Saakashvili al potere alla fine del 2003 riguardava in effetti non solo la necessità di porre fine alla corruzione ed all’inefficienza del precedente governo, ma anche quella di ristabilire la supremazia dei georgiani sulle minoranze e di porre fine all’indipendenza delle repubbliche secessioniste. E questo sulla base di posizioni fortemente centraliste e nazionaliste simili a quelle che avevano portato alla rovina la presidenza di Gamsakhurdia agli inizi degli anni Novanta. Indurre la dirigenza georgiana ad accettare una politica più attenta verso le minoranze nazionali (oltre a osseti e abkhazi ci sono numerose altre minoranze nazionali, tra le quali armeni e azeri hanno anche un insediamento territoriale piuttosto compatto) è un compito particolarmente difficile per l’Unione Europea, ma si tratta naturalmente di un obbiettivo essenziale. In particolare la confusione tra “stato georgiano” e “nazione georgiana” sembra caratterizzare anche l’odierna dirigenza di Tbilisi. Qui come nell’Alto Karabakh, il semplice ritorno allo status quo antecedente lo scoppio dei conflitti etno-territoriali dei primi anni Novanta

50 Ibidem, p. 15.

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non sembra poter costituire il punto di partenza della politica europea verso la stabilizzazione di tali conflitti. In effetti a tutt’oggi non è stato fatto nessun passo avanti per la soluzione di questa questione, che senza dubbio costituisce uno dei principali fattori di destabilizzazione della regione. Come è stato osservato da uno studioso statunitense, “The central government must recognize the multiethnic and multireligious reality of the country. It must accept a decade of state-building in the secessionist regions and allow local government to be empowered. If these efforts succeed, Georgia could well become the positive example for Eastern Europe and Eurasia that observers have long hoped for”51.

Occorre anche tener presente che il rapporto con la Georgia non è agevole alla luce delle sue difficili relazioni con la Russia, che è a sua volta un partner strategico dell’Unione Europea. Proprio lo status delle due regioni separatiste di Abkhazia e Ossetia meridionale costituisce a questo riguardo l’ostacolo principale. L’intensificazione delle rivendicazioni georgiane su queste regioni dopo la “rivoluzione delle rose” ha infatti ravvivato la prospettiva di un loro incorporamento nella Federazione Russa. Più volte sollecitata dai dirigenti di Abkhazia e Ossetia meridionale, questa sorta di annessione di territori giuridicamente appartenenti alla Georgia sembra peraltro scarsamente praticabile, soprattutto alla luce delle forti ripercussioni interne ed internazionali che un’operazione del genere potrebbe avere. Si pensi solo al caso della Cecenia. Non vi è dubbio, tuttavia, che Mosca appaia ancora intenzionata a sostenere l’ufficiosa indipendenza di queste repubbliche da Tbilisi. Tra l’altro, la possibilità di un mutamento di status del Kosovo viene interpretato dalle autorità russe anche alla luce di una analoga prospettiva riguardante la regioni secessioniste di Abkhazia e Ossetia meridionale52.

La questione è di comprendere sino a che punto possa arrivare tale protezione di fronte all’evidente volontà georgiana di risolvere a proprio favore la partita, nella sicurezza di avere l’appoggio degli Stati Uniti. La questione dello status di Abkhazia e Ossetia meridionale rischia in effetti non solo di riacutizzare le tensioni inter-etniche nella regione caucasica, ma anche di divenire un pericoloso banco di prova della rivalità russo-statunitense nei paesi della Csi53.

In una situazione di questo genere l’Unione Europea deve evidentemente procedere con estrema prudenza. Dopo la “rivoluzione delle rose” l’Unione Europea ha stanziato 7,5 milioni di euro in un programma di riabilitazione rivolto all’Ossetia meridionale, in particolare per quel che riguarda la fornitura di acqua potabile ed elettricità, nonché per la riapertura della ferrovia Gori-Tsinkhvali. Diversi progetti sono stati anche approvati per migliorare la situazione 51 C. KING, A Rose among Thorns. Georgia Makes Good, cit., p. 8. 52 I. TORBAKOV, Russia Plays up Kosovo Precedent for Potential Application in the Caucasus, in «Eurasia Insight», 4 December 2006, http://www.eurasianet.org/departments/insight/ articles/eav041206pr.shtml. 53 A questo riguardo si veda A. FERRARI, La Georgia tra Federazione Russa e Stati Uniti: un modello di transizione egemonica?, cit., p. 72.

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dell’Abkhazia (in particolare per lo sminamento del territorio) e della Georgia occidentale54. Tuttavia resta la questione centrale di come affrontare la questione globale dello status di questi territori secessionisti, parallela del resto a quella dell’Alto Karabakh. Per quanto auspicata dalla maggior parte dei politici e degli analisti europei55, il rientro di queste entità all’interno di Georgia e Azerbaigian – sebbene con un’ampia ridefinizione della loro autonomia – non dovrebbe a mio giudizio essere considerata l’unica opzione praticabile, sia per l’ostilità delle popolazioni interessate sia per la sua difficile attuazione, anche alla luce della posizione della Russia.

5. Conclusioni

La stabilità del Caucaso meridionale e le sue potenzialità di sviluppo dipendono essenzialmente dall’equilibrio con cui gli agenti interni ed esterni si muoveranno in una situazione che rimane estremamente complessa e problematica. E’ infatti fondamentale che la regione possa sottrarsi all’odierna situazione di “faglia” geopolitica per far sì che la sua posizione strategica divenga occasione di sviluppo e non di conflitto.

Da questo punto di vista, nonostante tutti i dubbi e le difficoltà, l’inserimento delle tre repubbliche del Caucaso meridionale nella Politica Europea di Vicinato costituisce nel complesso uno sviluppo potenzialmente positivo tanto per l’Unione Europea quanto per i paesi della regione. Tuttavia, per renderlo efficace nel medio e lungo termine occorrerà che Bruxelles sia capace di impostare una strategia coerente e unitaria; e non solo nei confronti di Georgia, Armenia e Azerbaigian. Si tratta infatti di una regione nella quale sta avendo luogo una contrastata “transizione egemonica” – dalla Russia agli Stati Uniti56 – nei confronti della quale l’Unione Europea deve muoversi con prudenza, individuando attentamente i rischi connessi ad un suo maggior coinvolgimento.

La necessità crescente di diversificare gli approvvigionamenti energetici e l’importanza che il Caucaso meridionale ha in questo ambito impongono all’Unione Europea di prestare in sempre maggiore attenzione a questa regione. E’ vero peraltro che, a differenza di Stati Uniti e Russia, l’Unione Europea non persegue obbiettivi di dominio strategico e può quindi, almeno entro certi limiti, porsi come honest broker nella regione, avvicinandola a sé nell’ambito di uno spazio di valori politici e culturali condivisi che alcuni iniziano a definire 54 Cfr. D. LYNCH, Why Georgia Matters, cit., p. 64. 55 Secondo D. Lynch, per esempio, “Georgia’s territorial integrity is a key interest for the EU” (D. LYNCH, Why Georgia Matters, cit., p. 73). L’affermazione mi sembra discutibile. L’interesse europeo sta nella composizione definitiva dei conflitti in Georgia e nell’intero Caucaso meridionale, che potrebbe avere anche soluzioni differenti dalla ricostituzione dell’integrità territoriale della Georgia (e dell’Azerbaigian). 56 A. FERRARI, La Georgia tra Federazione Russa e Stati Uniti: un modello di transizione egemonica?, cit., pp. 56-78.

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“l’impero europeo” 57 . E questo anche a prescindere dalla prospettiva – ufficialmente non in agenda – di una futura membership di Georgia, Armenia e Azerbaigian.

Questi paesi, a loro volta, devono sfruttare al meglio l’importante opportunità di cui dispongono per compiere passi precisi verso una prospettiva europea divenuta di recente più percorribile, ma che richiede un enorme impegno politico, economico e sociale. Solo così sarà loro possibile lasciarsi alle spalle un quindicennio post-sovietico caratterizzato soprattutto da instabilità politica, conflitti etno-territoriali e crisi economica.

57 Cfr. M. GUDERZO, L’impero europeo, in «Studi Urbinati», 3, 2004/2005, 56, pp. 357-379.

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LE PROSPETTIVE DI SVILUPPO ECONOMICO DELLA TRANSCAUCASIA

Silvia Tosi

1. Introduzione: la gravosa eredità della transizione

Negli ultimi anni Armenia, Azerbaigian e Georgia hanno conosciuto una crescita economica particolarmente rapida, richiamando l’attenzione degli investitori internazionali, attratti dalle opportunità di sfruttamento delle risorse energetiche dell’area e dalla posizione geografica strategicamente cruciale per il passaggio dei corridoi di trasporto trans-eurasiatici. Il recente dinamismo economico non deve però portare a trascurare il fatto che tutti e tre i Paesi provengono da una fase recessiva grave e prolungata, conseguente al trauma comune della dissoluzione dell’Unione Sovietica: tale recessione ha coinvolto tutti i settori economici ed ha avuto effetti drammatici sulla produzione interna, sulla dotazione di infrastrutture e nel complesso sui livelli di vita della popolazione dei tre Paesi.

Questa ricerca fornisce un quadro complessivo della recente performance economica delle tre repubbliche, esaminando i principali fattori che hanno permesso la crescita delle economie caucasiche e individuando i nodi critici in grado di influire sulle prospettive di sviluppo di medio-lungo periodo, con la consapevolezza che su di esse grava tuttora l’eredità di una difficile transizione.

Negli anni Ottanta Armenia, Azerbaigian e Georgia avevano beneficiato di tassi di crescita e livelli di vita relativamente alti, mediamente superiori rispetto agli altri membri dell’Unione Sovietica. Questo relativo benessere era dovuto in larga misura ai generosi sussidi statali, alla possibilità di procurarsi materie prime e fonti energetiche a prezzi vantaggiosi e alla pianificazione centralizzata del commercio all’interno dell’Unione Sovietica, tutti fattori che favorivano la produzione industriale locale. Tanto più favorevoli erano le condizioni economiche delle tre repubbliche caucasiche nel periodo sovietico, quanto più gravi sono state le conseguenze del crollo dell’Urss sulle loro performance economiche: dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica infatti tutte e tre le repubbliche sono emerse come Paesi poveri. Se il PIL pro capite cominciò a ridursi già alla fine degli anni Ottanta, a causa della crescente incertezza politica ed economica1, la rottura dei legami commerciali tra le repubbliche sovietiche ha poi privato le economie caucasiche del proprio principale mercato di esportazione, esponendole ai meno favorevoli prezzi del mercato mondiale e rivelandone 1 J. FALKINGHAM, The End of the Rollercoaster? Growth, Inequality and Poverty in Central Asia and the Caucasus, in «Social Policy and Administration», 39, 2005, 4, p. 341.

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l’assoluta mancanza di competitività. L’interruzione dei flussi commerciali ha anche escluso i tre Paesi dall’accesso alle proprie principali fonti di approvvigionamento di materie prime e risorse energetiche, provocando una grave crisi energetica che ha influito negativamente sulla produzione industriale. Allo stesso modo, anche il settore agricolo si è trovato in difficoltà, principalmente a causa della riluttanza con cui gli Stati post-sovietici hanno intrapreso radicali riforme della proprietà terriera, che avrebbero potuto risollevare la bassa produttività del settore.

TASSO DI CRESCITA PIL REALE (%)

-50,0

-40,0

-30,0

-20,0

-10,0

0,0

10,0

20,0

30,0

90 91 92 93 94 95 96 97 98 99 00 01 02 03 04 05

Armenia Azerbaigian Georgia

Fonte: UNECE

La dimensione del tracollo economico verificatosi in Armenia, Azerbaigian e Georgia nella prima metà degli anni Novanta è stata nel complesso talmente grave che nel giro di cinque anni il Pil dei tre Paesi si è ridotto di più della metà rispetto ai livelli del 1989, facendo registrare le performance più negative di tutta l’ex-Unione Sovietica 2 . La gravità della recessione è ancora più evidente se si esaminano i dati relativi alla produzione industriale: nel 1992 per esempio i tre Paesi nel complesso hanno fatto registrare una contrazione della produzione industriale quasi pari al 37 per cento rispetto all’anno precedente, mentre Armenia e Georgia hanno entrambe subito una riduzione annua superiore al 45 per cento, i dati in assoluto più negativi tra tutti i Paesi dell’ex-Unione Sovietica dal 1990 al 2004.

2 UNITED NATIONS ECONOMIC COMMISSION FOR EUROPE, Economic Survey of Europe 2005 n. 2. Statistical Appendix, Genève, 2005, pp. 70 e ss.

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TASSO DI CRESCITA PIL REALE 1990-2005 (%):

90 91 92 93 94 95 96 97 98 99 00 01 02 03 04 05 2004

vs 1989

Armenia -5,5 -11,7 -41,8 -8,8 5,4 6,9 5,9 3,3 7,3 3,3 5,9 9,6 15,1 14,0 10,1 13,9 1,5

Azerbaigian -11,7 -0,7 -22,6 -23,1 -19,7 -11,8 1,3 5,8 10,0 7,4 11,1 9,9 10,6 11,2 10,2 26,4 -22,7

Georgia -15,1 -21,1 -44,9 -29,3 -10,4 2,6 11,2 10,5 3,1 2,9 1,8 4,8 5,5 11,0 6,2 8,0 -58,5REPUBBLICHE CAUCASICHE -12,3 -11,4 -34,3 -23,1 -12,7 -3,7 5,5 6,9 7,0 4,9 6,9 8,2 9,9 11,8 9,0 16,5 -35,3

CSI -3,1 -6,1 -14,0 -9,8 -14,4 -5,7 -3,5 1,4 -3,2 5,1 8,8 6,1 5,2 7,6 8,1 n.d. -19,8

Federazione Russa -3,0 -5,0 -14,5 -8,7 -12,7 -4,1 -3,6 1,4 -5,3 6,4 10,0 5,1 4,7 7,3 7,2 n.d. -17,5Repubbliche europee CSI (a) -3,3 -7,9 -10,6 -12,6 -21,1 -11,5 -7,2 0,6 0,6 0,8 5,7 7,8 5,3 8,8 11,7 n.d. -32,8

Asia Centrale (b) -0,2 -7,4 -10,6 -7,2 -12,1 -6,0 1,2 1,8 1,5 4,8 7,1 9,0 6,4 7,1 8,3 n.d. 0,1

(a) Bielorussia, Moldova, Ucraina Fonte: UNECE (b) Kazachstan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan

TASSO DI CRESCITA PRODUZIONE INDUSTRIALE 1990-2004 (%):

90 91 92 93 94 95 96 97 98 99 00 01 02 03 04 2004

vs 1989

Armenia -7,5 -7,7 -48,2 -10,7 5,3 1,5 1,4 1,0 -2,1 5,3 6,4 5,3 14,6 15,1 2,1 -32,8

Azerbaigian -6,3 -8,9 -30,4 -19,7 -24,7 -21,4 -6,7 0,3 2,2 3,6 6,9 5,1 3,6 6,1 5,7 -63,5

Georgia -5,7 -22,6 -45,8 -36,7 -39,1 -13,5 6,8 8,2 -1,5 4,8 6,1 -1,1 4,9 10,6 3,4 -80,2REPUBBLICHE CAUCASICHE -6,2 -13,4 -36,9 -23,4 -24,9 -16,9 -2,9 2,0 0,7 4,1 6,6 3,9 5,7 8,7 4,5 -66,1

CSI -0,4 -7,0 -17,0 -13,1 -22,2 -5,7 -3,2 2,2 -3,2 9,1 12,0 6,8 4,7 8,5 8,5 -24,6

Federazione Russa -0,1 -8,0 -18,0 -14,8 -20,9 -3,3 -4,0 2,0 -5,2 11,0 11,9 4,9 3,7 7,0 7,3 -28,7Repubbliche europee CSI (a) 0,4 -4,3 -7,5 -8,1 -25,1 -11,7 -3,4 3,9 2,0 5,4 11,6 11,9 6,4 13,6 13,2 -0,6

Asia Centrale (b) n.d. -0,1 -15,1 -11,2 -24,9 -8,0 2,6 1,3 0,1 4,4 14,5 11,5 8,0 8,9 8,8 -7,7

(a) Bielorussia, Moldova, Ucraina Fonte: UNECE (b) Kazachstan, Kirghisistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan

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A partire dalla metà degli anni Novanta tutti e tre i Paesi hanno iniziato a registrare tassi di crescita generalmente positivi, con un’evidente accelerazione tra il 2000 e il 2001. Tuttavia, nonostante questa crescita sostenuta, le tre economie caucasiche devono ancora completare il processo di recupero dalla crisi economica che le ha colpite all’inizio del decennio scorso, e anzi in alcuni casi sono ancora ben lontane dai livelli precedenti all’indipendenza. Di fatto, solo l’Armenia nel 2004 aveva sostanzialmente recuperato i livelli produttivi del 1989, mentre il Pil reale di Azerbaigian e Georgia nello stesso anno era equivalente rispettivamente al 77 e al 41 per cento del Pil del 1989. Per quanto riguarda il settore industriale, la Georgia produce addirittura l’80 per cento in meno rispetto ai livelli precedenti all’indipendenza. Nel complesso quindi le performance di crescita economica delle tre repubbliche caucasiche sono ancora nettamente inferiori agli standard di fine anni Ottanta: basti pensare che il Pil reale dei tre Paesi messi insieme nel 2004 corrispondeva grosso modo a due terzi del Pil registrato nel 1989.

VARIAZIONE DEL PIL REALE 1989-2004 (1989=100)

0

20

40

60

80

100

120

Armenia Azerbaigian Georgia Totale Repubblichecaucasiche

1989 2004

Fonte: UNECE

Un’attenta valutazione delle condizioni attuali e delle prospettive future delle economie caucasiche deve necessariamente partire dalla considerazione che, per quanto tutti e tre i Paesi abbiano riguadagnato una certa stabilità macroeconomica nella seconda metà degli anni Novanta, ancora adesso essi sono alle prese con la difficile opera di ricostruzione economica post-sovietica e di passaggio da un’economia pianificata a un’economia di mercato. In particolare il processo di privatizzazione è stato finora irregolare ed incompleto, con buoni risultati per quanto riguarda la cessione delle piccole e medie imprese e con gravi ritardi per ciò che riguarda la ristrutturazione dei grandi complessi industriali. Le difficoltà del processo di privatizzazione si sono riverberate sulla capacità relativa di ciascuno dei tre Paesi di attirare gli investimenti stranieri indispensabili per accelerare la crescita economica complessiva: significativo può essere considerato

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il fatto che dei tre Paesi solo l’Azerbaigian è riuscito negli ultimi anni a beneficiare di flussi di investimenti diretti esteri particolarmente consistenti, ma grazie alla propria dotazione di risorse energetiche e alle ampie possibilità di sfruttamento che essa offre, più che a un quadro economico complessivo attraente per gli investimenti.

INVESTIMENTI DIRETTI ESTERI NETTI (in milioni di US$): 2000 2001 2002 2003 2004 2005 Armenia 104,2 69,9 110,7 120,4 216,6 150,8 (a) Azerbaigian 129,9 226,5 1066,8 2351,7 2351,3 458,2 Georgia 131,6 109,9 163,3 335,6 489,5 175,3 (a) Fonte: EIU 2006 (a) gennaio-settembre

2. Dalla transizione allo sviluppo

Dal quadro complessivo della transizione post-sovietica emergono tratti comuni ai tre Paesi per quanto riguarda le principali difficoltà che essi hanno dovuto affrontare all’indomani dell’indipendenza: queste somiglianze, derivanti da un trauma comune, non devono però distogliere l’attenzione da alcune fondamentali differenze nella struttura e nelle potenzialità economiche delle tre repubbliche, che possono influire in misura significativa sulle prospettive di sviluppo di ciascuna.

2.1 Armenia

INDICATORI ANNUALI DI CRESCITA: 2001 2002 2003 2004 2005 PIL (miliardi di US$) 2,1 2,4 2,8 3,6 5 TASSO DI CRESCITA PIL REALE (%) 9,6 13,2 13,9 10,1 13,9

Fonte: EIU 2006

CRESCITA PER SETTORE: crescita del settore (%)

contributo alla crescita del PIL (%)

2004 2005 2004 2005 Industria 1,5 6,6 0,3 1,3 di cui: settore metallurgico 2,1 34,9 -- -- Costruzioni 13,2 34,1 2,1 5,2 Agricoltura 14,3 10,9 3,2 2,4 Trasporti e comunicazioni 17,6 12,9 0,9 0,8 Commercio 9,2 9,4 0,9 1,0 Fonte: EIU 2006

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Negli ultimi quattro anni l’economia armena ha beneficiato di una crescita particolarmente sostenuta, con tassi costantemente a due cifre nonostante una lieve flessione registrata nel 20043. Il principale fattore responsabile di questa performance economica favorevole è stato senza alcun dubbio la rapida espansione del settore delle costruzioni (cresciuto nel 2005 addirittura del 34 per cento rispetto all’anno precedente), sostenuta da una crescente domanda sia pubblica, sia privata. Da un lato infatti la combinazione di consistenti rimesse dall’estero e nuovi crediti provenienti dal sistema bancario in lento sviluppo ha permesso la realizzazione di numerosi progetti di edilizia residenziale privata, mentre dall’altro lato la diaspora armena ancora una volta ha dimostrato il suo apporto fondamentale per l’economia nazionale, andando ad integrare la spesa pubblica dedicata al finanziamento di nuovi programmi di investimento nell’edilizia civile e industriale. Non a caso proprio lo sforzo di ammodernamento delle infrastrutture civili e di costruzione di nuovi impianti industriali, che ha reso quello delle costruzioni il settore trainante dell’economia armena, è considerato un presupposto per consentire al Paese di mantenere alti tassi di crescita anche nei prossimi anni.

L’impegno per la ristrutturazione economica e l’ammodernamento delle infrastrutture ha coinvolto anche il settore agricolo, che ha visto incrementare la produzione fino a diventare nel 2005 (grazie a una crescita che si è attestata intorno all’11 per cento rispetto all’anno precedente) il secondo maggior contribuente alla crescita complessiva 4 . Nei prossimi anni il settore agricolo continuerà probabilmente a crescere a ritmi sostenuti soprattutto grazie all’assistenza finanziaria fornita dalla US Millennium Challenge Corporation in seguito ad un accordo tra Armenia e Stati Uniti; lo scopo principale di tale accordo (raggiunto anche grazie alla notevole influenza esercitata dalla diaspora armena sugli ambienti politici e finanziari americani) è quello di sostenere le politiche governative di riduzione della povertà rurale attraverso un’ampia opera di ammodernamento delle infrastrutture per l’irrigazione per aumentarne l’efficienza e delle reti stradali per migliorare l’accesso delle comunità rurali tanto al mercato agricolo quanto alla rete di servizi sociali.

La crescita industriale nazionale è stata pure positiva, anche se più contenuta, sorretta in particolare dal boom registrato nel settore metallurgico (con un tasso di crescita superiore al 40 per cento nei primi nove mesi del 2005 5 ), che ha beneficiato di consistenti investimenti esteri per la costruzione di nuovi impianti. L’espansione del settore metallurgico ha in effetti più che compensato il declino nella produzione registrato nei settori meccanico e della lavorazione delle pietre preziose, tanto che l’intero settore manifatturiero ha realizzato nello stesso periodo una crescita superiore al 9 per cento. Il boom metallurgico ha inoltre 3 I dati sono tratti da: ECONOMIST INTELLIGENCE UNIT, Country Report Armenia, London, February 2006, p. 5. 4 Ibidem, p. 23. 5 Ibidem, p. 27.

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contribuito in misura decisiva alla crescita delle esportazioni armene, insieme agli elevati prezzi mondiali e al commercio di pietre preziose lavorate, tradizionale settore di esportazione del Paese: crescita tuttavia non sufficiente a ridurre il deficit commerciale, che viceversa è aumentato a causa degli alti prezzi mondiali dei prodotti minerari greggi, ovvero della quota più consistente delle importazioni armene. Nonostante tale rialzo (che riguarda naturalmente anche i prezzi delle fonti energetiche), l’impatto sulla bilancia commerciale armena dei prezzi mondiali a livelli record negli ultimi due anni può considerarsi nel complesso più contenuto delle aspettative, grazie al fatto che i prezzi d’importazione delle fonti energetiche sono stati fissati precedentemente e non rinegoziati fino al 2006. I ripetuti annunci da parte di Gazprom di imminenti aumenti del prezzo delle forniture di gas all’Armenia lasciano però immaginare che il deficit commerciale armeno sia destinato ad aggravarsi ulteriormente, parallelamente all’intensificarsi della pressoché totale dipendenza energetica del Paese dalla Russia.

In questa ottica va considerata positivamente la priorità assegnata dal governo armeno alla diversificazione delle fonti energetiche, in uno sforzo volto a contenere la già preponderante presenza russa nel settore (che comprende tra l’altro il controllo sull’unico impianto nucleare del Paese, che da solo genera all’incirca il 40 per cento dell’energia elettrica armena, e il monopolio sulla rete di distribuzione elettrica nazionale). A tale scopo è in corso la realizzazione di nuovi progetti energetici, tra cui un nuovo gasdotto che collega l’Armenia all’Iran e l’ampliamento, sempre in collaborazione con l’Iran, dell’impianto termoelettrico di Hrazdan, finora controllato in gran parte da capitali russi. Grazie all’impegno governativo e alla graduale realizzazione di riforme strutturali sostenute anche dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, negli ultimi anni il settore energetico armeno ha notevolmente ridotto le perdite dovute all’inefficienza, fino a poter fare a meno degli onerosi sussidi statali che gravavano sul bilancio pubblico, ed ha anche iniziato ad esportare energia elettrica in Georgia.

Il quadro di crescita complessiva sopra delineato è stato accompagnato da una decisa riduzione dell’inflazione, il cui tasso per il 2005 (0,6 per cento, il più basso dal 20006) è rimasto ben al di sotto dell’obiettivo del 3 per cento fissato dalla Banca Centrale armena. La riduzione dell’inflazione nonostante gli alti tassi di crescita del Pil e degli aggregati monetari è in gran parte dovuta al rafforzamento della valuta locale (il dram) e al suo apprezzamento soprattutto nei confronti del dollaro americano (grazie alla generale debolezza del dollaro stesso nei confronti delle altre valute sui mercati mondiali) e dello stesso rublo. Il rafforzamento del dram ha quindi più che compensato gli effetti inflattivi degli alti tassi di crescita e ha provocato persino una riduzione dei costi di produzione: come si è già sottolineato, la spinta al rialzo dei prezzi dei prodotti energetici a livello globale ha infatti avuto fino al 2005 scarsi effetti sull’economia armena, proprio per il

6 Ibidem, p. 23.

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fatto che i prezzi della quota più consistente delle importazioni di prodotti energetici in Armenia sono fissati anticipatamente, e dunque non hanno risentito per il momento delle fluttuazioni dei prezzi mondiali.

TASSO DI INFLAZIONE - IPC (variazione % su base annua): gen feb mar apr mag giu lug ago set ott nov dic media 2003 4,0 3,0 3,2 2,8 2,2 4,1 3,7 4,3 7,6 7,0 7,1 8,6 4,7 2004 6,9 7,7 8,7 7,9 7,9 6,3 9,5 9,4 6,0 6,3 4,4 2,0 7,0 2005 4,8 4,7 3,4 1,3 0,3 -1,0 -3,0 -2,0 -0,5 -0,4 -0,2 -0,2 0,6 Fonte: EIU 2006

TASSO DI CAMBIO: 2001 2002 2003 2004 2005

TASSO DI CAMBIO dram/US$ (media annua) 555,1 573,4 578,8 533,5 457,7

TASSO DI CAMBIO dram/rublo (media annua) 19,0 18,3 18,9 18,5 16,0

Fonte: EIU 2006 L’apprezzamento del dram a partire dal 2004 può considerarsi il prodotto di due fattori: da un lato, l’alto tasso di inflazione registrato nel 2003 (mediamente superiore al 7,5 per cento negli ultimi quattro mesi dell’anno) ha spinto le autorità armene ad accogliere le pressioni del Fmi e a consentire un apprezzamento del tasso di cambio per contrastare le spinte inflazionistiche; dall’altro lato, l’apprezzamento del dram è stato stimolato dal massiccio afflusso di capitali che ha investito il Paese nella forma di rimesse dall’estero. Nel complesso gli effetti del rafforzamento del dram sono stati positivi per il mercato nazionale, in quanto hanno incoraggiato una maggiore fiducia nella moneta nazionale e incrementato il suo utilizzo tanto per le transazioni quanto come strumento di risparmio privato7, rafforzando al contempo il fragile sistema finanziario e bancario locale. Viceversa, il marcato apprezzamento del dram anche in termini reali rispetto al dollaro americano e all’euro ha sollevato qualche preoccupazione per la perdita di competitività dei prodotti nazionali sui mercati internazionali: a placare i timori degli esportatori armeni, più che giustificati data la tendenza al ribasso del tasso di cambio a partire già dal 2004 e la ridotta base di esportazione del Paese, non sono finora bastate le valutazioni ottimistiche del Fmi, che considera come fattori positivi per la competitività armena i vantaggi di cui beneficia l’economia nazionale in termini di costo della manodopera e la concentrazione delle esportazioni del Paese in particolari nicchie di mercato. A sostegno della 7 In un’indagine condotta dalla Banca Centrale su un campione di duemila famiglie, il 33 per cento degli intervistati ha dichiarato di preferire per le transazioni il dram alle valute straniere, contro il solo 17 per cento registrato l’anno precedente, ECONOMIST INTELLIGENCE UNIT, Country Report Armenia, London, May 2006, p. 24.

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posizione del Fmi può essere ricordato il fatto che negli ultimi cinque anni le esportazioni sono cresciute costantemente, particolarmente verso Paesi non appartenenti alla ex-sfera sovietica, tanto che l’Unione Europea nel suo complesso è divenuta il principale partner commerciale della piccola repubblica.

COMMERCIO ESTERO (US$):

-1000,0

-500,0

0,0

500,0

1000,0

1500,0

2000,0

2000 2001 2002 2003 2004 2005

Esportazioni Importazioni Bilancia commerciale

Fonte: EIU 2006

Le condizioni dei conti con l’estero dell’Armenia, giudicate nel complesso con ottimismo dal Fmi nonostante il deficit commerciale, sono rafforzate dall’andamento dei trasferimenti correnti, che grazie a una combinazione di consistenti rimesse dall’estero e maggiori aiuti pubblici (per un complessivo 20 per cento del Pil nel 2005) hanno prodotto un attivo in grado di ridurre sensibilmente il deficit di parte corrente (sceso nel 2005 al di sotto del 2,5 per cento del Pil dal 4,5 per cento registrato nel 20048). Analogamente, l’andamento del debito estero è da valutare ora con un certo ottimismo, alla luce della sua progressiva e costante riduzione che ha portato a dimezzare lo stock di debito tra il 2000 e il 2005 (con una riduzione di dieci punti percentuali nell’ultimo anno), a privilegiare i canali multilaterali di credito e a ridurre i debiti bilaterali. Tuttavia non si può certo ignorare il fatto che un ruolo considerevole nell’ambito di questa riduzione è stato svolto dalla conclusioni di un debt-for-equity swap, che nel 2003 ha estinto il debito dovuto dall’Armenia alla Russia, ovvero al suo principale creditore bilaterale, in cambio della cessione di importanti pacchetti azionari a compagnie russe.

8 EIU, Country Report Armenia, February 2006, cit., p. 31.

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BILANCIA COMMERCIALE E SALDO DI PARTE CORRENTE (in milioni di dollari USA): 2000 2001 2002 2003 2004 2005 Esportazioni di merci 309,9 353,1 513,8 696,1 738,3 981,4 Importazioni di merci -773,4 -773,3 -882,5 -1130,2 -1196,3 -1566,1 Saldo commerciale -463,5 -420,2 -368,8 -434,1 -458,0 -584,7 Servizi (netti) -55,8 -17,8 -40,7 -68,3 -70,7 -53,9 Redditi (netti) 52,9 63,5 88,2 94,5 36,6 44,9 Trasferimenti unilaterali (netti) 188,1 174,0 173,4 218,5 330,4 389,5

Saldo di parte corrente -278,3 -200,5 -147,9 -189,4 -161,7 -204,2

Fonte: EIU 2006

D’altra parte non si può negare che, sebbene la forte crescita dell’economia armena possa tenere sotto controllo anche nei prossimi anni il deficit corrente, compensando grazie ai trasferimenti unilaterali il deficit commerciale e del settore dei servizi, gli alti tassi di crescita del Pil non possono certo da soli eliminare le debolezze strutturali del settore estero del Paese. In particolare acquista ulteriore rilevanza lo sforzo governativo volto a sviluppare nuovi settori di esportazione, che da un lato possano alleviare la dipendenza dalle importazioni di prodotti alimentari, mentre dall’altro lato possano rimediare alla ridotta base industriale-manifatturiera nazionale. In questo senso è prevedibile che nuovi massicci investimenti soprattutto nei settori metallurgico, meccanico e minerario possano guidare la crescita delle esportazioni nei prossimi anni, riducendo la quota riconducibile al settore della lavorazione dei diamanti (che nel 2005 rappresentava oltre il 36 per cento del totale 9 ) e compensando il probabile aumento delle importazioni di beni capitali dovuto alla realizzazione di nuovi progetti edilizi e infrastrutturali.

In questo senso può forse interpretarsi la decisione del Governo di approvare per il 2006 un obiettivo di deficit di bilancio vicino al 3 per cento del Pil, segnando un marcato allentamento nella politica fiscale rispetto al deficit dell’1 per cento registrato nel 2005. Il basso livello del deficit registrato nel 2005 sembra dovuto a una combinazione di entrate maggiori delle aspettative e riduzioni nella spesa: se il primo fattore può essere salutato come un (parziale) successo delle autorità nel processo di miglioramento del sistema di imposizione e nella lotta all’evasione, il secondo rispecchia soprattutto un dato negativo, ovvero la grave inefficienza che affligge la regolamentazione e le procedure relative agli appalti pubblici causando l’accumulo di lunghi ritardi nella decisione e nella realizzazione dei programmi di spesa pubblica. La scelta di una politica fiscale maggiormente espansiva per il 2006 è del tutto coerente con il programma di riduzione della povertà contenuto 9 Ibidem, pp. 11 e 29.

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nel Poverty Reduction Strategy Paper (Prsp) approvato dal Governo armeno nel 2003 con il consenso e l’assistenza del Fmi, programma che dovrebbe determinare le priorità di politica economica del Paese in un’ottica di medio e lungo periodo10. Gli obiettivi del Prsp prevedono infatti un sostanziale incremento della spesa pubblica dedicata a infrastrutture e programmi sociali e dunque un probabile aumento del deficit pubblico, che sarà finanziato da una combinazione di maggiori (anche se in misura limitata) entrate provenienti dalla tassazione, prestiti concessi dalle istituzioni finanziarie internazionali ed emissione di titoli di stato.

Il Prsp rappresenta l’impegno più consistente da parte delle autorità armene per la crescita stabile e lo sviluppo del Paese: il programma considera cruciale per gli obiettivi di riduzione della povertà l’aumento sostanziale del livello di occupazione attraverso la creazione di nuove piccole e medie imprese e la continua modernizzazione del settore pubblico al fine di migliorare l’accesso della popolazione ai servizi pubblici fondamentali. Tra questi, a ricevere la quota più ampia della spesa pubblica nell’ambito del Prsp sono il settore sanitario e dell’istruzione, entrambi reduci da anni di scarsi investimenti e deterioramento delle infrastrutture: oltre alla ristrutturazione della dotazione fisica, entrambi i settori hanno iniziato a beneficiare di salari più alti, corsi di formazione e aggiornamento per il personale e di una particolare attenzione al decentramento della gestione (soprattutto finanziaria) dei servizi sanitari e alla qualità dell’istruzione al fine di meglio soddisfare le esigenze di specializzazione del mercato del lavoro. A questo programma si devono aggiungere i prestiti che il Paese riceve dalla Banca Mondiale e dallo stesso Fondo Monetario (nell’ambito del Poverty Reduction and Growth Facility, un programma triennale iniziato nel 2005), destinati soprattutto a finanziare la realizzazione di riforme necessarie a rendere più efficace la gestione del sistema di tassazione e ad incoraggiare lo sviluppo del sistema bancario. In effetti già a partire dal 2004 le entrate fiscali derivanti dalla tassazione hanno iniziato a crescere, sia in termini assoluti, sia come percentuale del Pil: tuttavia nel 2005 questa percentuale era ancora piuttosto bassa, intorno al 14 per cento. Una delle ragioni sottostanti a questa scarsa performance è senza dubbio il fatto che molti dei settori più dinamici dell’economia armena, che hanno maggiormente contribuito al raggiungimento di alti tassi di crescita, non sono soggetti a tassazione: questo è particolarmente vero per i settori industriali che hanno potuto beneficiare di massicci investimenti stranieri, che sono stati attirati nel Paese proprio grazie all’esenzione fiscale.

Un’altra ragione, più preoccupante, che può contribuire a spiegare il basso livello delle entrate fiscali è l’alto tasso di evasione: da un’indagine condotta nel 2005 dal Caucasus Resource Research Centre è emerso infatti che, più ancora della

10 INTERNATIONAL MONETARY FUND, Republic Of Armenia: Poverty Reduction Strategy Paper Progress Report, Washington D.C., May 2005, p. 5; EIU, Country Report Armenia, February 2006, cit., pp. 9, 20; COMMISSION OF THE EUROPEAN COMMUNITIES, Commission Staff Working Paper, Annex To: “European Neighbourhood Policy”, Country Report Armenia, Bruxelles, 2005, pp. 16-17.

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corruzione e delle collusioni, quasi 6 imprenditori su 10 (su un campione di oltre 500 aziende armene) lamentano la pressione fiscale “ingiustificatamente elevata”, tale cioè da costituire il principale ostacolo allo sviluppo della propria attività. Oltre a ciò, l’83 per cento degli intervistati ha anche citato lo scarso impegno dello Stato per facilitare lo sviluppo di nuove opportunità produttive e la mancanza di un’adeguata regolamentazione, soprattutto per ciò che riguarda la protezione della proprietà intellettuale, come seri limiti all’espansione delle attività produttive11. La questione del miglioramento dell’ambiente economico e del clima degli affari assume quindi particolare rilievo tra le priorità dell’agenda di politica economica del Governo. Tuttavia è probabile che nell’immediato futuro non vi siano progressi sostanziali, dal momento che l’appuntamento con le elezioni politiche del 2007 verosimilmente attirerà, soprattutto a partire dagli ultimi mesi del 2006, l’attenzione governativa verso le esigenze della campagna elettorale.

INDICATORI SULL'AVVIAMENTO DI UN'ATTIVITA' PRODUTTIVA:

Armenia Georgia AzerbaigianTempi di avviamento (giorni) 25 21 115 Costi di avviamento (% reddito pro capite) 6,1 13,7 12,5 Rigidità dell'impiego (indice: 0=min rigidità; 100=max rigidità) 49 43 38

Tempi di registrazione della proprietà (giorni) 6 9 61

Disclosure Index (indice di trasparenza: 0=min; 7=max) 3 (2005) 4 0

Tempi di attuazione di un contratto (giorni) 185 375 267 Costi di attuazione di un contratto (% valore del debito) 17,8 31,7 19,8

Durata media delle procedure di insolvenza (anni) 1,9 3,3 2,7

Fonte: Doing Business in 2006, Banca Mondiale

Nel complesso le prospettive di crescita dell’economia armena resteranno strettamente legate all’andamento del settore estero. Se, come previsto, l’economia russa manterrà tassi di crescita superiori al 5 per cento anche per il 2006 e il 2007, essa potrà trainare l’economia armena (insieme alle altre economie della regione) grazie alla forte domanda di importazioni e alla disponibilità ad investire ingenti capitali in settori chiave quali quello energetico e quello metallurgico. Oltre a questo, l’impatto sulla bilancia commerciale armena della diminuzione attesa dei prezzi mondiali dei metalli dovrebbe essere compensato da un aumento della produzione, mentre la riduzione dei prezzi dei generi alimentari sul mercato mondiale (già in corso dal 2005) dovrebbe aiutare a contenere l’aumento delle spese per le importazioni. Nondimeno, la dipendenza del Paese da una base di esportazione piuttosto ristretta, comprendente solo poche categorie di 11 EIU, Country Report Armenia, February 2006, cit., p. 20.

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merci, continuerà a rendere l’economia nazionale vulnerabile a inattese fluttuazioni dei prezzi mondiali.

PREVISIONI DI CRESCITA 2006-2007: 2004 2005 2006 (a) 2007 (a)TASSO DI CRESCITA PIL REALE (%): Mondo 5,0 4,4 4,0 3,9 Russia 7,2 6,2 5,7 5,2 Armenia 10,1 13,9 8,5 9,0 PREZZI MONDIALI DELLE MERCI: Petrolio (Brent; US$/barile) 38,5 54,7 55,0 46,8 Oro (US$/oncia) 409,5 445,0 525,0 493,8 Prodotti alimentari (variaz. % in US$) 8,5 -0,2 -0,5 -2,3 Materie prime industriali (variaz. % in US$) 21,0 10,4 -1,3 -10,7 SETTORE ESTERO ARMENIA: Esportazioni di merci (milioni US$) 738,3 981,4 1056,0 1156,9 Importazioni di merci (milioni US$) 1196,3 1566,1 1709,1 1874,1 Saldo di parte corrente (milioni US$) -161,7 -204,2 -229,5 -272,6 Deficit di parte corrente (% del PIL) 4,5 4,1 4,0 4,2 Fonte: EIU 2006 (a) Previsioni Economist Intelligence Unit

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2.2 Georgia

INDICATORI ANNUALI DI CRESCITA:

2001 2002 2003 2004 2005

PIL (miliardi di US$) 3,2 3,4 4,0 5,1 6,4

TASSO DI CRESCITA PIL (%) 4,8 5,5 11,1 5,9 9,3

Fonte: EIU 2006, IMF 2006 e BERS

CRESCITA PER SETTORE (%):

2003 2004 2005 Agricoltura 10,3 -7,1 4,9 Costruzioni 43,3 15,5 1,2 Industria 0,9 17,6 5,2 Servizi 8,7 17,0 11,5 Fonte: EIU 2006

Tasso di crescita PIL (%) 1995-2005

0,0

2,0

4,0

6,0

8,0

10,0

12,0

1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005

Tasso di crescita PIL (%)

Fonte: BERS 2006

Diversamente da quello armeno, l’andamento della crescita del Pil in Georgia è stato altalenante negli ultimi cinque anni12: dopo aver fatto registrare nel 2003 un tasso di crescita doppio rispetto all’anno precedente e il più alto dal 1996, l’economia georgiana ha subito una decisa flessione l’anno seguente, dovuta alla performance particolarmente negativa del settore agricolo (che è passato da una crescita a due cifre nel 2004 a una contrazione della produzione del 7,1 per cento

12 I dati sono tratti da: ECONOMIST INTELLIGENCE UNIT, Country Report Georgia, London, February 2006, pp. 21-22.

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nel 2005). Accanto a questo, un altro fattore in grado di spiegare il brusco rallentamento dell’economia georgiana nel 2004 è stato il completamento dei progetti relativi alla costruzione di nuove infrastrutture di trasporto per il gas e il petrolio del Mar Caspio: in effetti la costruzione di questi nuovi gasdotti e oleodotti aveva trainato nel 2003 la crescita economica, e il loro progressivo completamento ha inevitabilmente portato all’esaurimento della fase di crescita del settore (che infatti ha registrato nel 2005 una crescita modesta, dell’1,2 per cento). Il tasso di crescita dell’economia georgiana si è riportato nel 2005 al di sopra del 9 per cento, in gran parte grazie alla ripresa del settore agricolo, che è cresciuto quasi del 5 per cento grazie alle buone condizioni meteorologiche e che rappresenta all’incirca un quinto del Pil georgiano. La ripresa agricola tuttavia non elimina gli ostacoli strutturali di cui soffre il settore, come ad esempio la frammentazione della proprietà terriera in appezzamenti di piccole dimensioni: questi vincoli impediscono l’ulteriore sviluppo di un settore divenuto negli ultimi anni particolarmente importante per il commercio con l’estero, dato che le esportazioni di prodotti agricoli costituiscono quasi un quarto delle esportazioni totali georgiane.

In tutti gli altri settori si è verificato viceversa un rallentamento della crescita, legato in gran parte ancora una volta al completamento dei progetti di costruzione delle nuove infrastrutture di trasporto delle risorse energetiche. L’unico settore che nel complesso ha mantenuto un tasso di crescita a due cifre (+11,5 per cento) è stato quello dei servizi: il dato è specialmente importante in considerazione della quota crescente rappresentata dai servizi, che nel 2005 per la prima volta ha superato la metà del Pil totale.

QUOTA DEI SETTORI RISPETTO AL PIL (%)

0,0

10,0

20,0

30,0

40,0

50,0

60,0

1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005

AgricolturaIndustriaServizi

Fonte: EIU 2006

Anche in questo caso non si possono trascurare alcune considerazioni: nel 2004 la straordinaria performance del settore dei servizi era da attribuire all’espansione delle telecomunicazioni (+25,5 per cento), soprattutto grazie allo sviluppo delle reti di telefonia mobile, prima pressoché inesistenti nel Paese. Un tale tasso di

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crescita difficilmente poteva ripetersi l’anno seguente, ed infatti lo stesso settore ha registrato una crescita comunque molto positiva, ma inferiore di quasi dieci punti percentuali (+15,9 per cento). Questa crescita più contenuta è stata però compensata dal tasso di crescita registrato nel settore dei servizi finanziari (+54,4 per cento nei primi nove mesi dell’anno, il più alto dal 1999), che ha contribuito in misura decisiva a mantenere a due cifre la crescita complessiva dei servizi. Il dato relativo ai servizi finanziari deriva da una maggiore efficienza del sistema bancario, che si è riflessa in un aumento dell’attività di intermediazione; tuttavia non bisogna dimenticare che alla base di questa nuova vitalità del sistema finanziario georgiano vi è anche un massiccio afflusso di capitali stranieri in gran parte non sterilizzato dalla Banca Centrale, a causa delle limitate opzioni di politica monetaria a sua disposizione. Il dato più significativo dell’espansione del settore dei servizi resta comunque il fatto che sia anch’essa in larga misura collegata alla costruzione delle nuove reti di trasporto delle risorse energetiche e agli investimenti esteri ad essi correlati, che si rivelano quindi fondamentali per la prosecuzione della fase attuale di crescita economica.

L’aumento sia nominale che reale dei salari, particolarmente pronunciato a partire dal 2004, e dell’occupazione nel settore è stato uno degli effetti positivi più evidenti dell’espansione del terziario: da un lato esso ha spinto verso l’alto i salari anche negli altri settori, compreso il settore pubblico, incrementando quindi il reddito delle famiglie; dall’altro lato ha compensato almeno in parte l’aumento della disoccupazione che si è verificato a seguito dei consistenti tagli del personale dell’amministrazione pubblica. Nonostante il contributo del terziario, nel 2005 il tasso di disoccupazione ha infatti toccato il 13,8 per cento, confermando implicitamente la tesi che una fetta consistente della disoccupazione sia strutturale e di lungo periodo: questo spiegherebbe anche la presenza di un’economia informale particolarmente sviluppata, comprendente agricoltura di sussistenza e altre attività di lavoro occasionale, che agisce come valvola di sicurezza per allentare le pressioni sociali.

Nonostante i tagli relativi al pubblico impiego, il Governo georgiano ha nel complesso incrementato la spesa pubblica13: una crescita delle entrate all’incirca del 30 per cento nel 2005, superiore alle aspettative e all’obiettivo fissato dal Governo, ha infatti consentito alle autorità di aumentare le spese sociali destinate alla riduzione della povertà, che affligge ancora più della metà della popolazione georgiana14 (con una percentuale pari al 17,4 che vive in condizioni di povertà assoluta 15 ), nell’ambito dell’Economic Development and Poverty Reduction Program, approvato nel 2003 con il sostegno del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. La spesa sociale ha rappresentato nel 2005 il 22 per cento

13 Ibidem, pp. 18-19. 14 WORLD BANK, Georgia Country Brief 2006, http://web.worldbank.org/WEBSITE/ EXTERNAL/COUNTRIES/ECAEXT/GEORGIAEXTN/. 15 Dati relativi al 2004, INTERNATIONAL MONETARY FUND, Georgia: Poverty Reduction Strategy Paper Progress Report, Washington D.C., March 2005, p. 5.

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della spesa pubblica totale, ovvero la sua componente principale, ed è stata in gran parte destinata all’aumento delle pensioni minime e alla progressiva eliminazione degli arretrati.

Il consistente aumento delle entrate pubbliche che ha consentito la realizzazione dei programmi di spesa sociale sembra soprattutto merito della riforma dell’imposizione fiscale approvata dal governo georgiano e introdotta all’inizio del 200516: accanto ad una generale riduzione delle aliquote fiscali e del numero stesso delle imposte, volta a ridurre l’evasione, il governo ha infatti ridotto anche le esenzioni fiscali, soprattutto per quanto riguarda la tassazione dei profitti e l’imposta sul valore aggiunto. L’aumento delle accise che ha colpito soprattutto alcool e tabacco ha avuto tuttavia come effetto principale quello di incoraggiare il contrabbando, vera piaga dell’economia nazionale, costringendo le autorità a rafforzare il proprio impegno per contrastare il commercio illegale attraverso più stretti controlli alle frontiere. E’ significativo in questo senso il fatto che nel bilancio approvato nel dicembre 2005 per l’anno 2006, che fissa un aumento di spesa del 15 per cento rispetto all’anno precedente, la quota destinata ad aumentare in misura più consistente sia quella destinata alle spese per la difesa, che comprendono anche gli incrementi destinati a rafforzare le forze armate e di pubblica sicurezza, e che andranno così a costituire più del 3 per cento del Pil.

Sul totale delle entrate resta però significativa anche la quota dei proventi non derivanti dalle imposte (circa il 12 per cento nel 2005): questa quota è peraltro destinata ad aumentare nel bilancio del 2006, quando nelle casse dello Stato arriveranno i proventi dell’ambizioso programma di privatizzazione iniziato nel 2004 e culminato nel 2005 con la cessione (soprattutto ad acquirenti stranieri) di alcune importanti attività, quali Georgia Telecom, il complesso industriale di Madneuli per l’estrazione e la lavorazione dell’oro e del rame, la compagnia nazionale di trasporti navali. I consistenti ricavi delle privatizzazioni e il loro notevole contributo alle entrate totali dello Stato hanno consentito una decisa riduzione del deficit pubblico, contenuto nel 2005 entro il 2,4 per cento, senza per questo sacrificare, come si è detto, la possibilità per le autorità di incrementare la spesa pubblica destinata in particolare alla costruzione di infrastrutture, alla realizzazione di programmi sociali e alla difesa. La generosa politica fiscale georgiana è stata peraltro criticata dal Fondo Monetario Internazionale, che ne ha sottolineato il carattere populistico (in particolare in vista delle elezioni amministrative previste per la fine del 2006) e l’impegno giudicato insufficiente per la riduzione della povertà17. Le pressioni del Fondo hanno spinto il governo georgiano ad approvare parallelamente al bilancio per il 2006 un programma di medio periodo per le spese, che dovrebbe assicurare un maggiore controllo e una maggiore prudenza nella gestione della politica fiscale. 16 EIU, Country Report Georgia, February 2006, cit., p. 18. 17 INTERNATIONAL MONETARY FUND EXECUTIVE BOARD, Public Information Notice. Conclusion of 2005 Article IV Consultation with Georgia, Washington D.C., April 2006, http://www.imf.org/external/np/sec/pn/2006.

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BILANCIO DELLO STATO (in miliardi di Lari)

0,00

0,50

1,00

1,50

2,00

2,50

3,00

2002 2003 2004 2005

Entrate Spese

Fonte: EIU 2006

In effetti la critica del Fondo Monetario Internazionale è dettata da una più generale preoccupazione circa la posizione finanziaria complessiva del Governo, in particolare per ciò che riguarda la sostenibilità del debito pubblico e le prospettive di rimborso del debito pubblico verso l’estero. L’apprezzamento del lari avvenuto negli ultimi tre anni ha alleggerito sensibilmente il servizio del debito, già ridotto dopo la rinegoziazione di gran parte dei debiti bilaterali avvenuta nel luglio del 2004 nell’ambito di una serie di accordi conclusi in sede Club di Parigi. Tuttavia parte di questi accordi non è ancora stata finalizzata, e parte dei Paesi creditori non ha per ora accettato di rinegoziare i crediti concessi al governo georgiano.

TASSO DI CAMBIO (lari/US$):

2001 2002 2003 2004 2005 2006(a) 2007(a)

Media annua 2,07 2,20 2,15 1,92 1,81 1,79 1,76 Variazione annua (% rispetto alla media dell’anno precedente) -- -6,3 2,3 10,7 5,7 1,1 1,7

Fonte: EIU 2006 (a) Previsioni EIU

L’apprezzamento del lari rispetto a tutte le maggiori valute a partire dal 2003 è uno degli effetti più vistosi del massiccio afflusso di capitali esteri che ha investito la Georgia contestualmente alla realizzazione dei progetti relativi alla costruzione dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan. Fino al 2005 questo afflusso di capitali ha permesso al Paese di coprire il proprio deficit corrente, sempre più ampio a causa dell’aumento dei prezzi delle risorse energetiche e delle crescenti importazioni di

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beni capitali che la base industriale nazionale insufficientemente sviluppata non può fornire per le attività collegate alla costruzione dell’oleodotto.

BILANCIA DEI PAGAMENTI (in milioni di US$): 2001 2002 2003 2004 2005 Esportazioni 496,1 601,7 830,6 1092,5 1472,0 Importazioni -1045,6 -1084,7 -1466,6 -2008,6 -2686,0 SALDO BILANCIA COMMERCIALE -549,5 -483,0 -636,0 -916,1 -1214,0

Saldo dei servizi 77,2 35,5 54,0 56,1 71,9 Saldo dei redditi 32,3 33,2 32,4 96,7 93,8 Trasferimenti unilaterali netti 228,3 193,0 174,9 337,6 297,3 SALDO DI PARTE CORRENTE -211,7 -221,3 -374,7 -425,7 -751,0

Investimenti diretti esteri 109,9 163,3 335,6 489,5 537 Investimenti di portafoglio -0,1 0,0 0,0 -13,1 19,2 Altri flussi di capitale 99,9 -144,1 -12,9 2,5 166,8 SALDO DI CONTO CAPITALE E FINANZIARIO

204,5 37,6 342,6 519,8 723,0

Errori e omissioni 34,9 -6,0 -16,8 14,7 12,0 SALDO GLOBALE 27,7 -189,7 -49,0 108,8 -16,0

Fonte: EIU 2006

Tuttavia con il completamento del progetto Btc il flusso di Ide verso la Georgia si è bruscamente ridotto, soprattutto a partire dal terzo trimestre del 2005, e a compensare questa riduzione non è stato sufficiente l’incremento dei flussi in entrata derivanti dal processo di privatizzazione di alcuni grandi complessi industriali, ceduti a gestori stranieri. I ricavi della privatizzazione hanno comunque contribuito ad incrementare le riserve ufficiali della Banca Centrale, alleviando così la pressione sulla politica monetaria e sui tentativi della Banca Centrale di sterilizzare i flussi di capitali esteri utilizzando i limitati strumenti a sua disposizione. Per contenere almeno in parte il deficit corrente invece il Paese sembra sempre più doversi affidare (oltre che naturalmente agli aiuti ufficiali) alle sempre più consistenti rimesse provenienti dai circa due milioni di georgiani che lavorano in altri Paesi dell’ex-Unione Sovietica.

Su una popolazione totale di meno di quattro milioni e mezzo di persone18, le rimesse di quasi due milioni di lavoratori trasferitisi principalmente in Russia non fanno che evidenziare in maniera ancora più netta l’importanza del legame

18 Dati relativi al 2003, Dipartimento Nazionale di Statistica del Ministero delle Finanze della Repubblica di Georgia.

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economico esistente tra i due Paesi. In effetti, insieme alla Turchia, la Russia è ancora il principale partner commerciale della Georgia, e il suo fornitore pressoché esclusivo di combustibili. Certamente anche nel prossimo biennio l’Unione Europea fornirà alla Georgia quantità crescenti di beni capitali e di servizi (soprattutto di trasporto e di consulenza) collegati alla messa in funzione delle nuove infrastrutture di trasporto. Nondimeno, la rapida crescita complessiva delle importazioni è in larga misura da attribuire ai prezzi del petrolio e dei suoi derivati in continua ascesa: in particolare, la crescita del settore industriale georgiano nel 2005 ha provocato un incremento della domanda di energia, che a sua volta si è dovuto confrontare con l’incapacità del Paese di sfruttare appieno il proprio notevole potenziale idroelettrico (le centrali idroelettriche georgiane sfruttano infatti solo il 10-20 per cento della loro capacità produttiva19). Questo fa sì che la Georgia sia costretta ad importare dalla Russia gran parte del proprio fabbisogno energetico, accentuando così la propria dipendenza economica dal vicino settentrionale. Oltre ad essere il principale fornitore di energia della repubblica caucasica, infatti, la Russia è tradizionalmente anche il principale mercato di destinazione delle esportazioni georgiane, soprattutto per quanto riguarda il vino e gli altri prodotti agricoli, che nel 2005 costituivano poco meno di un quarto delle esportazioni totali del Paese: la domanda russa nello stesso anno ha coperto i tre quarti del vino esportato dalla Georgia e più del 30 per cento delle sue esportazioni complessive 20 . Tra le importazioni di risorse energetiche, le rimesse dei lavoratori emigrati e le esportazioni in gran parte dipendenti dalla domanda russa, non è dunque difficile immaginare la misura in cui le prospettive di crescita dell’economia georgiana siano condizionate dall’andamento dell’economia russa, che secondo le previsioni dovrebbe mantenere un tasso di crescita superiore al 5 per cento nel biennio 2006-2007, pur subendo un lieve rallentamento21. Tuttavia, il recente divieto imposto da Mosca sull’importazione di vino e acqua minerale dalla Georgia, probabilmente dettato anche da motivazioni politiche, avrà inevitabilmente ripercussioni negative sull’andamento delle esportazioni georgiane, privando di fatto il Paese del proprio principale mercato di esportazione e costringendo gli esportatori a cercare nuovi mercati nel difficile tentativo di trovare nel breve periodo un’alternativa all’ampia domanda russa 22 . Il fatto che le esportazioni georgiane dipendano in definitiva da una gamma ristretta di prodotti, per lo più a basso valore aggiunto e quindi particolarmente vulnerabili alle fluttuazioni dei prezzi mondiali, lascia prevedere che il saldo commerciale del Paese tenderà quindi a peggiorare nel biennio in corso, principalmente a causa degli alti costi del petrolio e del declino dei prezzi dei prodotti alimentari e dei metalli greggi (ovvero dell’altra maggiore categoria di esportazione, destinata soprattutto al mercato turco). Il quadro appare ancora 19 EIU, Country Report Georgia, February 2006, cit., p. 25. 20 Ibidem, pp. 24-26. 21 Per le previsioni relative all’economia russa e all’andamento dei prezzi mondiali, v. tabella a p. 9. 22 ECONOMIST INTELLIGENCE UNIT, Country Report Georgia, London, June 2006, p. 24.

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più preoccupante se si considera che le rendite derivanti dalle esportazioni sono in grado di coprire solo il 35 per cento delle importazioni totali e un brusco deterioramento delle ragioni di scambio potrebbe minacciare la stabilità macroeconomica del Paese.

PREVISIONI DI CRESCITA 2006-2007:

2004 2005 2006(a) 2007(a)

Tasso di crescita PIL reale (%) 5,9 9,3 8,8 6,4

Tasso di inflazione (%, media) 5,7 8,2 6,7 5,7

Deficit di bilancio pubblico (% PIL) -3,0 -2,4 -2,8 -2,5

Esportazioni (miliardi di US$) 1,1 1,5 1,8 2,1

Importazioni (miliardi di US$) -2,0 -2,7 -3,3 -3,8

Saldo corrente (% del PIL) -8,3 -11,7 -10,7 -8,5

Fonte: EIU 2006 (a) Previsioni EIU

In considerazione della dipendenza energetica del Paese dalla Russia (che si è manifestata nella sua drammatica evidenza quando nel gennaio 2006 una serie di esplosioni che hanno coinvolto le infrastrutture di trasporto dell’energia elettrica e del gas nelle repubbliche caucasiche della Federazione russa ha interrotto le forniture di combustibile dirette in Georgia, ancora più essenziali nei mesi invernali), è da valutare con prudenza il programma governativo di riforme volte ad incrementare la produzione di energia elettrica in misura tale da garantire al Paese l’autosufficienza energetica. In effetti, la strategia governativa prevede un generale ammodernamento delle infrastrutture e la costruzione di nuove centrali idroelettriche (che non richiedono l’importazione di combustibile), al fine di sfruttare tutto il potenziale idroelettrico nazionale e di rendere il Paese un esportatore di energia elettrica. Tuttavia questo programma non sembra allentare i legami di dipendenza dalla Russia, in quanto la stessa azienda che detiene il monopolio dell’elettricità in Russia controlla anche il 75 per cento della rete di distribuzione dell’elettricità in Georgia e all’incirca un quinto della capacità produttiva del Paese. Altre compagnie russe inoltre parteciperanno massicciamente alla costruzione (e poi alla gestione) delle nuove centrali idroelettriche, mentre la maggior parte degli impianti termoelettrici georgiani di recente costruzione funziona grazie alla tecnologia e ai capitali russi. Allo stesso modo la possibilità di soddisfare il proprio fabbisogno di gas grazie al South Caucasus Gas Pipeline, ovvero il progetto parallelo all’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, che dovrebbe trasportare il gas estratto dal giacimento azero di Shah Deniz, nel Mar Caspio, permetterà alla Georgia di importare gas dall’Azerbaigian a prezzi preferenziali e di beneficiare delle rendite derivanti dal transito del combustibile sul proprio territorio: tuttavia anche per ciò che riguarda le forniture di gas è improbabile che la dipendenza georgiana dalla Russia cessi del tutto, sia per il rischio implicito nella semplice sostituzione dell’Azerbaigian alla Russia

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come unico fornitore del Paese, sia nell’eventualità che la Georgia scelga di “differenziare” le proprie importazioni di gas includendo anche il Kazachstan tra i propri fornitori. In quest’ultimo caso infatti il gas kazako arriverebbe comunque in Georgia grazie a un gasdotto russo23.

In definitiva il miglioramento delle condizioni della bilancia dei pagamenti georgiana verrà a dipendere, oltre che naturalmente dalle rimesse dall’estero, dagli introiti derivanti dal transito delle risorse energetiche sul territorio nazionale, una volta che le nuove infrastrutture di trasporto entreranno in funzione. Le previsioni dell’Economist Intelligence Unit stimano infatti che solo a partire dal 2007 si avrà una sensibile riduzione del deficit corrente, proprio in corrispondenza della prevista apertura del South Caucasus Gas Pipeline24.

D’altra parte i probabili nuovi massicci afflussi di capitali stranieri rafforzeranno la tendenza all’apprezzamento del lari, accentuando le pressioni sulla politica monetaria: la Banca Centrale fatica infatti anche ora a sterilizzare l’afflusso di capitali soprattutto a causa della sostanziale impossibilità di vendere sul mercato finanziario nazionale scarsamente sviluppato titoli a breve termine denominati in valuta locale. L’apprezzamento del lari sarà tanto più marcato anche in considerazione dell’obiettivo primario fissato dalla Banca Centrale, ovvero della riduzione dell’inflazione: la politica fiscale espansiva perseguita dal Governo coerentemente con i propri programmi di sviluppo, riduzione della povertà e prosecuzione delle riforme strutturali infatti intensificherà ulteriormente le pressioni sul tasso di inflazione, che nel 2005 ha superato mediamente l’8 per cento. La particolare difficoltà di realizzare un appropriato mix di politiche macroeconomiche sembra quindi essere la caratteristica distintiva in grado di condizionare più che mai l’esito del processo di sviluppo economico della Georgia, le cui prospettive peraltro riposano a loro volta sulla validità e sul successo della sfida costituita dalle nuove rotte energetiche transcaucasiche.

2.3 Azerbaigian

INDICATORI ANNUALI DI CRESCITA:

2001 2002 2003 2004 2005

PIL (in miliardi di US$) 5,7 6,1 7,0 8,5 11,9

TASSO DI CRESCITA PIL REALE (%) 9,9 10,6 11,2 10,2 26,4

Fonte: EIU 2006

23 EIU, Country Report Georgia, February 2006, cit., pp. 15-17. 24 Ibidem, p. 11.

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CRESCITA PER SETTORE (%): 2001 2002 2003 2004 2005 Agricoltura 11,1 6,4 5,6 4,6 7,5 Industria 5,2 3,6 6,0 5,7 56,8 Costruzioni 5,9 105,0 61,0 41,9 2,0 Commercio (ingrosso e dettaglio) 9,9 9,6 10,9 13,0 13,2 Fonte: EIU 2006

Rispetto alle altre due economie caucasiche, l’Azerbaigian presenta alcune caratteristiche distintive che sono alla base dell’andamento della sua performance economica. Dopo tre anni di crescita a due cifre, nel 2005 il Paese ha beneficiato di un vero e proprio boom economico, con un tasso di crescita del Pil reale che ha raggiunto il 26,4 per cento, il più alto nel mondo. La rapida crescita dell’economia azera sta continuando anche nel 2006 e, secondo le stime del Comitato Nazionale di Statistica relative al primo trimestre dell’anno, il Pil è cresciuto del 39,5 per cento in termini reali, rispetto a una crescita di poco superiore al 10 per cento nello stesso periodo dell’anno precedente 25 . Questa accelerazione, certo sorprendente nelle dimensioni ma non del tutto inattesa, è da attribuire quasi interamente all’espansione del settore industriale, guidata in particolare dal settore degli idrocarburi. La produzione industriale è cresciuta infatti del 57 per cento nel 2005, principalmente come risultato di un incremento superiore al 40 per cento nella produzione relativa all’industria estrattiva, che comprende il settore petrolifero e quello del gas e che costituisce all’incirca il 60 per cento dell’intera produzione industriale del Paese.

PRODUZIONE INDUSTRIALE PER SETTORE:

2003 2004 2005 2005 (gen-mar)

2006 (gen-mar)

CRESCITA ANNUA: Industria estrattiva (idrocarburi) 1,4 2,3 41,4 10,3 47,4 Elettricità 16,4 2,3 4,8 12,0 9,1 Industria manifatturiera 17,7 10,2 15,6 5,3 15,4 di cui: Prodotti alimentari 5,2 0,1 4,2 33,0 2,7 Raffinazione del petrolio 4,2 9,1 14,2 n.d. 30,7 Industria chimica 8,0 25,0 6,2 -17,7 72,5 QUOTA RISPETTO ALLA PRODUZIONE INDUSTRIALE TOTALE: Industria estrattiva (idrocarburi) 48,6 48,8 59,8 58,3 62,9 Elettricità 8,7 7,7 6,1 8,5 6,3 Industria manifatturiera 42,7 43,6 34,1 39,4 30,8 di cui: Prodotti alimentari 17,8 18,8 13,6 15,3 10,6 Raffinazione del petrolio 13,4 12,3 9,4 12,2 10,9 Industria chimica 2,9 3,2 2,1 0,9 0,1 Fonte: EIU 2006

25 ECONOMIST INTELLIGENCE UNIT, Country Report Azerbaijan, London, May 2006, p. 21.

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Il boom petrolifero sta avendo benefiche ricadute sull’intera economia: il più alto potere d’acquisto delle famiglie, che deriva soprattutto dai maggiori salari pagati nel settore degli idrocarburi (sempre più dominato da compagnie private, principalmente straniere), tende infatti ad incrementare la domanda di beni di consumo e di servizi, che a sua volta si riflette sulla crescita del terziario (il settore delle telecomunicazioni è cresciuto ad esempio del 36 per cento nel 2005). Tuttavia l’espansione dell’industria degli idrocarburi ha anche contribuito a marginalizzare progressivamente il settore agricolo, la cui quota rispetto al Pil è scesa al di sotto del 10 per cento nel 2005, nonostante l’incremento nella domanda abbia spinto la crescita del settore al di sopra del 7 per cento. Inoltre, sebbene nel 2005 le esportazioni azere di prodotti alimentari siano più che raddoppiate in termini assoluti e quasi raddoppiate in termini percentuali sulle esportazioni totali del Paese, il settore agricolo ha sofferto e prevedibilmente soffrirà in misura crescente per l’apprezzamento marcato del manat, che combinato con gli alti costi di trasporto tende ad indebolirne la competitività sui mercati internazionali26.

INVESTIMENTI DIRETTI ESTERI (in milioni di US$):

2001 2002 2003 2004 2005

Armenia 70 111 120 217 201

Georgia 110 163 336 490 234

Azerbaigian 227 1067 2352 2351 458

di cui: nel settore petrolifero 119 1007 2256 2237 241

Federazione russa 2748 3461 7958 11672 n.d.

Totale CSI 7076 8835 15536 22554 n.d. Fonte: EIU 2006, UNCTAD, BERS

A ben vedere, la rapida crescita dell’industria degli idrocarburi come si è detto non è del tutto inattesa: l’economia azera ha piuttosto iniziato nel 2005 a cogliere i benefici dei massicci investimenti diretti esteri che a partire dal 2002 si sono riversati nel settore, al fine di sfruttare i giacimenti di petrolio e gas naturale di cui il Paese è ricco. In effetti la produzione di petrolio greggio ha superato nel 2005 i 22 milioni di tonnellate, con un incremento superiore al 40 per cento rispetto all’anno precedente, soprattutto grazie al completamento dei progetti di esplorazione e l’inizio dello sfruttamento dei giacimenti petroliferi azeri nel Mar Caspio (Azeri-Chirag-Guneshli) ad opera dell’Azerbaijan International Operating Company (Aioc), un consorzio internazionale privato guidato da British Petroleum. Allo stesso modo, la produzione di gas naturale, sostanzialmente in declino dal 1999 e stabile dal 2002, ha subito un nuovo incremento del 15 per cento, da attribuirsi anche in questo caso quasi esclusivamente all’attività di sfruttamento dell’Aioc, che ha quasi raddoppiato la propria produzione di gas, a 26 Ibidem, pp. 26-27.

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fronte dell’andamento fondamentalmente stagnante dell’attività della State Oil Company of the Azerbaijan Republic (Socar), la compagnia statale di sfruttamento degli idrocarburi.

Grazie allo sfruttamento dei nuovi giacimenti petroliferi, nel 2005 per la prima volta la produzione del consorzio guidato da Bp ha superato nettamente (quasi del 50 per cento) la produzione della Socar: considerato che lo sfruttamento dei giacimenti Acg raggiungerà la massima capacità operativa a partire dalla seconda metà del 2006, in coincidenza con la piena efficienza del nuovo oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (il primo carico di petrolio proveniente dal nuovo oleodotto ha lasciato il porto turco nel giugno del 2006), nei prossimi anni il settore petrolifero continuerà a trainare la rapida crescita dell’economia azera, e il volume di greggio prodotto dall’Aioc costituirà una quota sempre più dominante della produzione totale, che dovrebbe raggiungere nel 2008 il milione di barili al giorno27. In effetti, l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, costruito grazie a capitali internazionali privati e con l’appoggio del governo americano, oltre che naturalmente di Azerbaigian e Turchia, costituirà la principale via di trasporto del petrolio proveniente dai giacimenti sfruttati dall’Aioc, mentre la Socar continuerà ad esportare esclusivamente attraverso il più obsoleto e meno conveniente oleodotto Baku-Tbilisi-Novorossijsk. Oltre a ciò, un ulteriore fattore in grado di spiegare il declino dell’importanza della compagnia petrolifera statale è il suo prevalente sfruttamento di giacimenti situati sulla terraferma, meno ricchi e comunque dotati di tecnologia arretrata: di fatto, nei prossimi anni la sopravvivenza della Socar sarà più che altro affidata alla quota del 10 per cento che la compagnia possiede all’interno del consorzio Aioc, cosicché una parte crescente della sua produzione annua scaturirà dall’attività di esplorazione e sfruttamento condotta dalle compagnie petrolifere straniere.

PRODUZIONE DI PETROLIO E GAS: ‘96 ‘97 ‘98 ‘99 ‘00 ‘01 ‘02 ‘03 ‘04 ‘05 Petrolio (milioni di tonnellate) 9,1 9,1 11,4 13,7 13,9 14,9 15,3 15,4 15,5 22,2

SOCAR 9,1 9,0 9,0 9,0 9,0 9,0 8,9 8,9 9,0 9,0 AIOC 0,0 0,1 2,4 4,8 5,1 5,9 6,5 6,5 6,6 13,2 Gas naturale (miliardi di metri cubi)

6,3 6,0 5,6 6,0 5,6 5,5 5,1 5,1 5,0 5,8

SOCAR 6,3 6,0 5,2 5,8 n.d. 4,7 4,2 4,2 3,8 3,9 AIOC 0,0 0,0 0,4 0,2 n.d. 0,9 1,0 1,0 1,0 1,9 Fonte: EIU 2006

27 Ibidem, p. 10.

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Un discorso analogo può essere fatto per la produzione di gas naturale: la quota prodotta dal consorzio privato è destinata a crescere significativamente a partire dalla seconda metà del 2006, quando lo sfruttamento del giacimento di Shah Deniz, sempre nel Mar Caspio, raggiungerà la massima capacità operativa, marginalizzando progressivamente l’attività della State Oil Company of the Azerbaigian Republic anche in questo settore.

PRODUZIONE DI PETROLIO (in milioni di tonnellate)

0,0

2,0

4,0

6,0

8,0

10,0

12,0

14,0

1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005

SOCAR AIOC

Fonte: EIU 2006

PRODUZIONE DI GAS (in miliardi di metri cubi)

0,00,51,01,52,02,53,03,54,04,55,0

2001 2002 2003 2004 2005

SOCAR AIOC

Fonte: EIU 2006

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COMPOSIZIONE DELLE ESPORTAZIONI 2005 (in %)

Petrolio (a) Prodotti chimiciProdotti alimentari Metalli greggiMacchinari ed altri beni capitali Attrezzature di trasportoAltro

COMPOSIZIONE DELLE IMPORTAZIONI 2005 (in %)

M acchinari e altri beni capitali Prodotti alimentariM etalli greggi Prodotti chimiciPetro lio e altri minerali greggi Attrezzature di trasportoAltro

Fonte: EIU 2006

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Come è prevedibile, il settore petrolifero domina anche la struttura del commercio con l’estero: basti pensare che, pur senza considerare le esportazioni dell’Aioc, non computate nelle statistiche ufficiali del Comitato Nazionale di Statistica28, le esportazioni di petrolio costituiscono all’incirca l’80 per cento del totale, mentre la seconda categoria di esportazione (i prodotti alimentari) rappresenta una quota inferiore all’8 per cento. Dal lato delle importazioni, il ruolo dominante dell’industria degli idrocarburi è evidente nelle massicce importazioni di beni capitali, destinati in prevalenza allo sviluppo dell’industria estrattiva, che costituiscono tuttora un terzo del totale. D’altra parte la distribuzione delle importazioni tra le diverse categorie di beni non solo è più bilanciata rispetto alla struttura delle esportazioni, ma riflette anche un generale aumento in termini assoluti delle importazioni di beni di consumo: il fenomeno è particolarmente evidente per ciò che riguarda i prodotti alimentari, settore in cui continua a registrarsi un deficit consistente nonostante l’aumento delle esportazioni sia in termini assoluti, sia come percentuale sul totale.

Il mancato computo del petrolio venduto dall’Aioc sui mercati esteri tra le esportazioni del Paese influisce anche sui dati relativi alla direzione del commercio estero dell’Azerbaigian ma non elimina la netta prevalenza dei Paesi occidentali per ciò che riguarda i mercati di esportazione: in effetti dai dati ufficiali emerge che all’incirca l’80 per cento delle esportazioni azere è diretta verso Paesi non appartenenti all’ex-Unione Sovietica (con l’Italia che occupa il primo posto, assorbendo nel 2005 più del 30 per cento delle esportazioni azere), ma il fatto che la produzione dell’Aioc, che costituisce la maggior parte della produzione petrolifera del Paese, sia in larga misura venduta sui mercati occidentali lascia intendere che la quota complessiva destinata a questi ultimi vada ben al di là della cifra registrata dal Comitato Nazionale di Statistica. La 28 Ibidem, p. 27. Le statistiche del Comitato Nazionale di Statistica, che riportano le quote di ciascun settore sul totale delle esportazioni e importazioni del Paese e si basano sui dati doganali, differiscono nettamente dai dati registrati dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Centrale azera, che viceversa sembrano includere anche il petrolio venduto all’estero dall’Aioc (circa 3500 milioni di dollari). COMMERCIO CON L'ESTERO (Comitato Nazionale di Statistica)

BILANCIA DEI PAGAMENTI (IMF e Banca Centrale)

in milioni di US$: 2002 2003 2004 2005 in milioni di

US$: 2002 2003 2004 2005

Esport. 2164,4 2590,4 3615,4 4346,9 Esport. 2304,9 2624,6 3743,0 7649,0 di cui: sett. petrol. 1927,4 2229,1 2972,5 3337,0 di cui: sett.

petrol. 2046,0 1336,8 1779,2 6883,2

% sulle esport. totali 88,9 86,1 82,2 76,8

Import. -1665,5 -2626,2 -3515,9 -4200,3 Import. -1823,3 -2723,1 -3581,7 -4349,9SALDO COMM. 501,9 -35,8 99,6 146,6 SALDO

COMM. 481,6 -98,5 161,3 3299,1 Fonte: EIU 2006 Fonte: EIU 2006

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prevalenza di partner commerciali esterni all’ex-Unione Sovietica è evidente anche dal lato delle importazioni, in particolare per ciò che riguarda le importazioni di beni capitali: in questo ambito infatti, eccezion fatta per il 2005, in cui Singapore è stato il principale esportatore in Azerbaigian grazie a un insieme di forniture una tantum di beni capitali, va gradualmente acquistando rilevanza la Gran Bretagna, che grazie agli ingenti investimenti effettuati dall’Aioc (di cui Bp possiede la quota più consistente) sta diventando il più importante fornitore di beni capitali del Paese29.

PRINCIPALI PARTNER COMMERCIALI (in %): 2001 2002 2003 2004 2005 Esportazioni: Ex-Unione Sovietica 9,6 11,2 12,9 17,5 20,8 di cui: Federazione russa 3,4 4,4 5,7 5,8 6,6 Resto del mondo 90,4 88,8 87,1 82,5 79,2 di cui: Italia 57,2 50,0 51,9 44,7 30,3 Francia 2,9 7,7 8,1 1,8 9,4 Turchia 2,9 3,9 4,1 5,1 6,3 Importazioni: Ex-Unione Sovietica 31,1 39,1 32,4 33,2 34,4 di cui: Federazione russa 10,7 16,9 14,6 16,2 17,1 Resto del mondo 68,9 60,9 67,6 66,8 65,6 di cui: Singapore 0,2 2,1 0,4 n.d. 9,2 Regno Unito 3,8 5,1 10,9 12,0 9,1 Turchia 10,4 3,9 7,4 6,4 7,4 Fonte: EIU 2006

L’espansione dell’industria degli idrocarburi ha avuto effetti particolarmente positivi sulla bilancia dei pagamenti azera: dopo aver sperimentato per anni ampi deficit correnti, legati soprattutto negli ultimi anni agli alti livelli di importazioni connessi allo sviluppo del settore petrolifero, nel 2005 per la seconda volta dall’indipendenza (la prima è stata nel 1992) l’Azerbaigian ha concluso l’anno con un surplus corrente pari all’incirca all’1,3 per cento del Pil, in netta controtendenza rispetto al deficit del 30 per cento registrato l’anno precedente.

29 Ibidem, p. 28.

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BILANCIA DEI PAGAMENTI (in milioni di US$): 2001 2001 2003 2004 2005

Esportazioni 2078,9 2304,9 2624,6 3743,0 7649,0

di cui: settore petrolifero 1841,0 2046,0 1336,8 1779,2 6883,2

Esportazioni (% del PIL) 36,5 37,8 36,8 43,9 61,2

Importazioni -1465,1 -1823,3 -2723,1 -3581,7 -4349,9

di cui: settore petrolifero -138,4 -335,9 -1108,9 -1624,2 -1927,3

Importazioni (% del PIL) 25,7 29,9 38,1 42,0 34,8

Saldo della bilancia commerciale 613,8 481,6 -98,5 161,3 3299,1

Servizi (netti) -375,1 -935,6 -1614,5 -2238,4 -1970,0

Redditi (netti) -367,2 -384,7 -442,1 -700,6 -1645,6

Trasferimenti unilaterali (netti) 76,6 70,4 134,2 188,5 483,9

SALDO DELLE PARTITE CORRENTI -51,9 -768,4 -2020,9 -2589,2 167,3

SALDO DELLE PARTITE CORRENTI (% del PIL) -0,9 -12,6 -28,3 -30,4 1,3

Investimenti diretti esteri (netti) 226,5 1066,8 2351,7 2351,3 458,2

di cui: settore petrolifero 125,3 1007,1 2315,0 2258,2 242,2

Investimenti diretti esteri (% del PIL) 3,9 17,5 32,9 27,6 3,7

di cui: settore petrolifero (% del PIL) 2,1 16,5 31,6 26,2 1,9

Investimenti di portafoglio (netti) 0,0 0,4 0,0 -18,1 30,5

Altri flussi di capitali (netti) -100,5 -148,5 -72,0 627,0 76,3

SALDO DI CONTO CAPITALE E FINANZIARIO 126,0 890,0 2255,9 2956,1 566,0

Errori ed omissioni -0,9 -87,4 -11,8 -49,9 -125,6

SALDO GLOBALE 73,4 34,2 123,8 317,0 607,7

Fonte: EIU 2006

Questa nota positiva è dovuta all’ampio surplus commerciale registrato nel 2005, che grazie alle esportazioni più che raddoppiate ha potuto compensare abbondantemente il saldo dei redditi, fortemente negativo a causa del progressivo rimpatrio dei profitti delle compagnie petrolifere straniere. Negli anni precedenti i massicci investimenti diretti esteri affluiti nel Paese contestualmente allo sviluppo del settore petrolifero azero hanno in genere più che compensato (o quasi compensato nel 2004) gli ampi deficit correnti: nel 2005 il completamento dei progetti di sfruttamento dei nuovi giacimenti di idrocarburi ha avuto come risultato, oltre al considerevole incremento del volume delle esportazioni, un brusco declino degli investimenti diretti esteri, passati da una quota vicina al 30 per cento nel 2003 e 2004 a poco meno del 4 per cento del Pil (pari in termini

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assoluti a un quinto degli investimenti diretti esteri registrati nel 2004), con una riduzione vicina al 90 per cento nel solo settore petrolifero.

Naturalmente il boom petrolifero ha avuto un impatto positivo anche sul bilancio pubblico, permettendo al Governo azero un’elevata spesa pubblica senza superare l’obiettivo di deficit fissato per il 2005 all’1,1 per cento. A dire il vero il deficit registrato nel 2005 è stato persino inferiore, pari allo 0,7 per cento del Pil, soprattutto grazie agli alti prezzi del petrolio, che, oltre ad aver contribuito in misura considerevole, come si è già potuto osservare, ad aumentare il valore complessivo delle esportazioni, hanno fatto crescere anche i profitti delle compagnie petrolifere e delle attività collegate all’industria degli idrocarburi, contribuendo così ad incrementare le entrate derivanti dall’imposta sui profitti quasi del 60 per cento rispetto al 2004. La crescita delle entrate derivanti dall’imposta sui profitti è stata dunque la più rapida nel 2005, ma anche l’imposta sul reddito delle persone fisiche ha registrato una crescita superiore al 40 per cento, peraltro in linea con la crescita avvenuta nel 2004 rispetto all’anno precedente: merito in gran parte della crescita dei salari (soprattutto nel settore petrolifero), che nel 2005 sono aumentati mediamente del 22 per cento in termini nominali, a fronte di un tasso di inflazione annuo vicino al 10 per cento 30 . Tuttavia anche nel 2005 la fonte di entrata più consistente è stata l’imposta sul valore aggiunto, la cui crescita riflette l’andamento particolarmente positivo del settore dei servizi, specialmente del commercio al dettaglio, anche questo in conseguenza della crescita dei salari e del potere d’acquisto delle famiglie (nonostante l’alto tasso di inflazione), e quindi della domanda dei consumatori.

Per quanto siano marcatamente aumentate le entrate pubbliche, la spesa del Governo è cresciuta anche più rapidamente, a seguito di un incremento medio superiore al 30 per cento delle spese destinate a sanità, educazione e sicurezza sociale, nonché un sostanzioso aumento dei salari dei dipendenti pubblici, che costituiscono la componente maggiore del bilancio pubblico 31 . In realtà le decisioni di spesa del Governo sono state da più parti criticate in quanto sospettate di essere mosse intese a guadagnare il consenso popolare in vista delle elezioni presidenziali del 2008, piuttosto che essere funzionali a una strategia di sviluppo di medio-lungo periodo e di riduzione della povertà ancora diffusa nel Paese. Tale è ad esempio la posizione del Fondo Monetario Internazionale, che ha recentemente sottolineato la tendenza del Governo azero ad enfatizzare le considerazioni di breve periodo, in contrapposizione alla necessità di elaborare una strategia fiscale di medio periodo in grado di gestire il boom petrolifero e il surplus corrente da esso derivante, che assegni la priorità a misure volte alla riduzione della povertà e una particolare attenzione alla realizzazione di riforme

30 Ibidem, p. 17. 31 Ibidem, p. 18.

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strutturali 32 . In effetti finora nel non c’è stato un netto progresso nella realizzazione delle riforme destinate a migliorare l’assistenza sociale, ristrutturare e snellire la burocrazia, favorire la concorrenza soprattutto nel sistema bancario e rendere più efficiente e più trasparente la gestione delle aziende pubbliche ancora esistenti.; allo stesso modo, nella politica fiscale del Governo è quasi del tutto assente la spesa destinata a investimenti che dovrebbero aiutare a rendere più efficienti e competitivi i settori non legati all’industria petrolifera e a impedire l’accentuarsi del dualismo economico nel Paese.

BILANCIO PUBBLICO: 2004 2005 2006 (gen-feb)

mln manat

% PIL

variaz annua

%

mln manat

% PIL

variaz annua

%

mln manat

% PIL

variaz annua

% Entrate 1481,2 17,7 20,8 2055,2 17,3 38,8 420,2 18,9 71,4 di cui: imposta sul reddito 221,6 2,6 47,3 317,5 2,7 43,3 47,8 2,1 5,8

imposta sui profitti 223,4 2,7 25,3 355,4 3,0 59,1 77,4 3,5 42,0

IVA 452,7 5,4 10,5 599,9 5,1 32,5 95,7 4,3 33,5 Spese 1501,0 17,9 21,6 2140,7 18,0 42,6 405,8 18,2 85,1 di cui: sanità 73,5 0,9 32,9 115,3 1,0 56,9 10,6 0,5 51,4 educazione 294,0 3,5 25,6 372,5 3,1 26,7 52,7 2,4 75,1 spese sociali 236,5 2,8 10,5 305,0 2,6 29,0 37,5 1,7 -0,8 SALDO -19,8 -0,2 -- -85,5 -0,7 -- 14,4 0,6 --

Fonte: EIU 2006

Al momento l’unico strumento di programmazione della spesa pubblica in un’ottica di medio periodo è rappresentato dal Sofaz, lo State Oil Fund of the Azerbaijan Republic, un fondo estero istituito con decreto presidenziale nel 1999 e destinato a gestire i ricavi della crescita petrolifera a beneficio dell’intera economia azera e in funzione dello sviluppo economico del Paese. Le risorse cui attinge il Sofaz sono costituite dai ricavi derivanti dalla vendita del gas e del petrolio da parte della Socar (con la vistosa eccezione delle rendite provenienti dalle attività della compagnia petrolifera di Stato quando essa agisce in qualità di azionista o partner nella realizzazione di progetti di sfruttamento petrolifero: esclude quindi le rendite percepite dalla Socar grazie alla quota del 10 per cento detenuta dalla compagnia nelle remunerative attività del consorzio Aioc), i ricavi percepiti dallo Stato per la cessione o l’affitto a compagnie straniere di parti del 32 INTERNATIONAL MONETARY FUND EXECUTIVE BOARD, Public Information Notice. Conclusion of 2005 Article IV Consultation with Azerbaijan, Washington D.C., April 2006, http://www.imf.org/external/np/sec/pn/2006.

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suolo e sottosuolo nazionale a scopo di sfruttamento, le rendite derivanti dal transito sul territorio azero di idrocarburi destinati all’esportazione, bonus e royalties e le rendite generate dal reinvestimento delle attività detenute dal Fondo. Creato allo scopo di reinvestire i massicci afflussi di valuta estera che avrebbero investito il Paese grazie allo sfruttamento delle risorse petrolifere, il Fondo ha in effetti dedicato una parte delle proprie risorse per lo sviluppo dell’economia nazionale, per la costruzione di infrastrutture e per la riduzione della povertà: le spese per lo sviluppo vengono programmate nel medio periodo sulla base del deficit di bilancio relativo a tutti i settori dell’economia, escluso quello degli idrocarburi33. Nel bilancio approvato per il 2006 in effetti il previsto incremento del 60 per cento relativo alla spesa pubblica sarà possibile (oltre che grazie a un previsto aumento delle entrate derivanti dal settore petrolifero) proprio grazie al ricorso al Sofaz, ricorso che dovrebbe diventare sempre più massiccio nei prossimi anni. Tuttavia ancora una volta l’incremento della spesa pubblica sembra in larga misura dedicato a spese correnti, anziché ad investimenti in capitale, a danno delle possibilità di gettare basi solide per una maggiore diversificazione dell’economia nazionale. Nel complesso il Sofaz ha il vantaggio di alleviare la dipendenza dell’Azerbaigian dagli aiuti internazionali e dai prestiti ufficiali: le preoccupazioni del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo riguardo all’allocazione della spesa pubblica del Paese e al crescente ricorso alle risorse del Sofaz sembrano infatti dettate in parte anche dal timore che questa minore dipendenza dalle istituzioni internazionali possa ridurre gli incentivi a realizzare effettivamente un ampio programma di riforme strutturali compatibili con la politica di condizionalità da esse sostenuta.

L’ampliamento previsto per il 2006 del deficit pubblico (comunque limitato all’1,1 per cento del Pil) beneficerà comunque, oltre che del Sofaz, delle condizioni di crescita economica generalmente favorevoli: anche per il 2006 infatti un costante incremento della produzione petrolifera grazie allo sfruttamento dei giacimenti del Caspio e alla possibilità di utilizzare il nuovo oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan per il trasporto verso i mercati occidentali, nonché un ulteriore slancio nella produzione di gas grazie allo sfruttamento dei giacimenti di Shah Deniz dovrebbero garantire un tasso di crescita del Pil azero particolarmente elevato, superiore al 30 per cento. Solo nel 2007 la crescita dovrebbe rallentare, mantenendosi comunque robusta, intorno al 16 per cento, a causa di una progressiva riduzione degli investimenti diretti esteri. Nel biennio in corso dunque la dotazione di risorse naturali del Paese e l’attenzione dimostrata verso di esse dagli investitori stranieri in cerca di alternative al gas russo e al petrolio del Golfo Persico permetteranno all’economia azera di crescere a tassi decisamente superiori rispetto alla media delle economie dell’ex-Unione Sovietica.

33 ECONOMIST INTELLIGENCE UNIT, Country Profile Azerbaijan, London, 2005, p. 26.

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PREVISIONI DI CRESCITA 2006-2007: 2004 2005 2006(a) 2007(a) Tasso di crescita PIL reale (%) 10,2 26,4 32,5 16,1 T. di crescita produzione industriale (%) 5,7 40,0 45,0 15,0 T. di crescita investimenti fissi lordi (%) 32,0 17,5 14,5 8,0 T. di inflazione (media annua) 6,7 9,6 6,6 6,9 Saldo delle partite correnti (miliardi di US$) -2,6 0,2 4,2 10,1 Saldo delle partite correnti (% del PIL) -29,8 1,3 22,6 41,2 Fonte: EIU 2006 (a) Previsioni EIU

CRESCITA PIL REALE (%)

0

5

10

15

20

25

30

35

2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Azerbaigian Ex-URSS

Fonte: EIU 2006

Tuttavia una crescita economica così rapida, guidata dall’industria petrolifera, ha avuto e continuerà ad avere effetti problematici sull’economia azera: il più vistoso di questi effetti è dato senza dubbio dalle difficoltà della Banca Centrale di controllare l’inflazione, tendente al rialzo dall’ultimo trimestre del 2003 a causa del massiccio afflusso di capitali stranieri che ha iniziato ad investire il Paese, cercando al contempo di evitare un eccessivo apprezzamento del manat. A dire il vero, nell’ultimo trimestre del 2005 c’è stato un significativo rallentamento dell’inflazione, passata dal 10,3 per cento su base annua registrato nel mese di settembre al 6,2 per cento nel mese successivo, per poi scendere al di sotto del 5 per cento nel mese di novembre. Tuttavia, più che essere il frutto di un’efficace politica monetaria, questo miglioramento sembra sia da attribuire a un sostanziale cambiamento del paniere di consumo di riferimento, i cui componenti sono stati ampliati, riducendo così il “peso” di alcuni elementi importanti, come ad esempio i generi alimentari34.

34 Ibidem, p. 22.

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Tasso di inflazione (%, variaz. su base annua)

0

2

4

6

8

10

12

1401

/03

03/0

3

05/0

3

07/0

3

09/0

3

11/0

3

01/0

4

03/0

4

05/0

4

07/0

4

09/0

4

11/0

4

01/0

5

03/0

5

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5

07/0

5

09/0

5

11/0

5

01/0

6

03/0

6

Fonte: EIU 2006

In effetti, al fine di ridurre le pressioni inflazionistiche, la Banca Centrale azera ha alzato il tasso di sconto per ben tre volte nel corso del 2005, portando i tassi ufficiali dal 7 al 9 per cento, ma la manovra ha avuto un impatto assai limitato, a causa della sostanziale assenza di un sistema di intermediazione funzionante: basti pensare che il settore bancario è controllato per oltre il 60 per cento dalle due inefficienti banche a gestione statale. Per di più l’aspettativa di un ulteriore rialzo dei tassi di almeno un altro punto percentuale nel corso del 2006 potrebbe avere il pericoloso effetto di incoraggiare attacchi speculativi e attirare nuovi afflussi di capitali stranieri difficilmente controllabili attraverso operazioni di sterilizzazione. L’esistenza di un sistema finanziario scarsamente sviluppato, nel quale è difficile il ricorso all’emissione di titoli di debito, limita gli strumenti a disposizione della Banca Centrale per la sterilizzazione degli afflussi di valuta forte, costringendo di fatto le autorità di politica monetaria a servirsi esclusivamente del già citato SOFAZ per investire la valuta estera.

INDICATORI TRIMESTRALI: 2004 2005 2006 I II III IV I II III IV I Tasso di inflazione (%, variaz. su base annua)

6,2 5,5 5,0 10,5 12,4 11,1 10,3 5,3 5,0

Tasso annuale di sconto (media) 7,0 7,0 7,0 7,0 7,0 7,5 8,0 9,0 9,0

Tasso di cambio manat/US$ (media) 0,99 0,98 0,98 0,98 0,98 0,95 0,93 0,92 0,91

Salari nominali (manat/mese) 87,8 90,5 105,3 103,1 107,8 112,2 115,5 117,9 129,7

Fonte: EIU 2006

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Il ricorso al Sofaz sembra essere l’unica risorsa valida anche per contenere l’apprezzamento del manat, sia in termini nominali che in termini reali. I continui afflussi di capitali derivanti dalla crescita delle esportazioni di idrocarburi lasciano prevedere che nel biennio in corso la valuta nazionale si apprezzerà ulteriormente in termini reali all’incirca del 14-15 per cento, minando la competitività dei già fragili settori non petroliferi dell’economia. Allo stesso modo, la Banca Centrale lascerà apprezzare il manat anche in termini nominali al fine di contenere l’espansione dell’offerta di moneta e tenere sotto controllo l’inflazione. Tuttavia la strategia della Banca Centrale ha per il momento modesti effetti sull’economia azera, anche a causa della scarsa fiducia del pubblico nella valuta nazionale come strumento di risparmio: in effetti tuttora la maggior parte dei depositi bancari è denominata in dollari americani o rubli, nonostante si stia registrando un graduale aumento dei depositi denominati in manat.

L’individuazione e la realizzazione di una politica monetaria efficace è dunque stata ed è tuttora il nodo più problematico che devono sciogliere le autorità di politica economica per gestire la crescita dell’economia azera. Le diverse e contrastanti pressioni cui deve rispondere la politica monetaria rendono assolutamente necessaria l’adozione di un atteggiamento particolarmente cauto da parte della Banca Centrale: da un lato, tanto l’afflusso crescente di capitali stranieri proveniente dall’esportazione del petrolio azero quanto il programma governativo di massicci incrementi della spesa pubblica sono destinati a produrre un’ulteriore accelerazione dell’inflazione, una tendenza accentuata anche dalle pressioni al rialzo dei salari; dall’altro lato, una stretta monetaria volta a contenere le spinte inflazionistiche non solo risulterebbe in un apprezzamento ancora più marcato del manat, ma avrebbe anche l’effetto di privare tutta l’economia non legata all’industria petrolifera della liquidità di cui essa ha invece bisogno per potersi sviluppare e diventare competitiva. Di per sé, le tendenze dell’inflazione e del tasso di cambio sembrano rafforzare la struttura duale dell’economia azera, basata su un moderno ed efficiente settore industriale petrolifero, affiancato dal resto dell’economia caratterizzato da bassa produttività, tecnologia arretrata e scarsi investimenti. Le prospettive di crescita sostenibile dell’economia azera, in un contesto macroeconomico stabile, dipendono quindi dalla capacità delle autorità del Paese di elaborare una strategia di politica economica in grado di destreggiarsi tra la semplice gestione finanziaria della ricchezza petrolifera nazionale e l’esigenza di sviluppare un’economia diversificata. Come nei Paesi petroliferi del Golfo Persico, tale sforzo richiede l’emergere (necessariamente lento) di un settore economico privato dinamico e avanzato dal punto di vista tecnologico e gestionale: nel medio-lungo periodo questa sarà la sfida più impegnativa per l’economia azera.

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3. Conclusioni

Come si è già menzionato, l’Armenia è l’unica delle tre repubbliche caucasiche ad aver recuperato nel 2004 i livelli produttivi precedenti all’indipendenza, specialmente grazie alla rapida crescita economica degli ultimi 4-5 anni. E’ tuttavia lecito interrogarsi sulla solidità di questa crescita e sulle prospettive di medio-lungo termine dell’economia armena, alla luce dello stretto legame esistente con la Russia, la cui performance economica condiziona in misura sostanziale l’andamento dell’economia del piccolo Paese caucasico. La Federazione russa non solo costituisce un importante mercato per le esportazioni armene e una delle principali destinazioni di emigrazione dei lavoratori del Paese: la massiccia presenza dei capitali russi specialmente nel settore energetico del Paese non fa che accentuare la già stretta dipendenza armena da Mosca per quanto riguarda le forniture energetiche e sottolinea le condizioni di sostanziale isolamento politico ed economico del Paese, evidenziando al contempo l’esigenza di sviluppare reti di transito e di trasporto alternative.

Se per l’Armenia questo rappresenta un indispensabile strumento per poter allentare l’isolamento politico ed economico che la circonda, cercando di aprirsi una via verso il Golfo Persico (peraltro affidandosi al rapporto con l’Iran, della cui solidità in questi mesi è lecito dubitare), l’individuazione, la realizzazione e lo sfruttamento di corridoi trans-eurasiatici alternativi costituiscono l’opportunità principale su cui anche le altre due repubbliche sembrano fare affidamento per lo sviluppo economico dell’intera regione caucasica. In effetti, tanto per chi possiede consistenti giacimenti di gas e petrolio (Azerbaigian), quanto per chi è fondamentalmente privo di tali risorse ma può sfruttare la propria posizione geografica strategicamente favorevole (Georgia), la realizzazione dei nuovi progetti di sfruttamento e trasporto degli idrocarburi ha consentito un massiccio afflusso di investimenti esteri nel settore estrattivo, nelle costruzioni e nei servizi, che hanno trainato la crescita economica degli ultimi anni.

L’effettivo successo del processo di sviluppo economico delle repubbliche caucasiche dipenderà quindi nei prossimi anni dalla capacità delle tre economie di affrancarsi da un lato dalla loro dipendenza dalla Russia, dall’altro lato di integrarsi nel più ampio sistema economico globale. La crescente attenzione che sia l’Unione Europea che gli Stati Uniti (ma anche alcuni Paesi dell’Asia Centrale, quali il Kazachstan) stanno dimostrando nei confronti delle tre repubbliche è un’utile indicazione della potenziale rilevanza economica dell’area e al contempo un forte incentivo per i Paesi caucasici a confrontarsi con i propri problemi di inefficienza economica e scarsa competitività internazionale. Progressi nelle riforme strutturali sono infatti necessari affinché la rapida crescita economica sperimentata negli ultimi anni possa diventare qualcosa di più di una breve parentesi nella storia dei Paesi caucasici, limitata per di più ad un numero ristretto di settori produttivi.

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IL TRANSCAUCASO NELLA POLITICA ESTERA DELLA TURCHIA

Carlo Frappi

Introduzione

Il superamento del sistema internazionale bipolare proprio della guerra fredda ha comportato, per la Turchia, una radicale trasformazione della cornice entro la quale esercitare la propria politica estera. La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha segnato, difatti, la fine del tradizionale ruolo di baluardo contro l’espansionismo sovietico verso le aree del Medio Oriente e del Mediterraneo orientale, svolto dalla Turchia nell’ambito della strategia atlantica del containment. Logica conseguenza la necessità, per Ankara, di reimpostare il proprio rapporto con i tradizionali alleati occidentali, nel quadro di una più generale ridefinizione del proprio ruolo e dei propri obiettivi regionali e internazionali. Frutto di tale necessità, i rapporti della Turchia con le tre repubbliche del Transcaucaso hanno costituito, un importante banco di prova per un nuovo corso di più assertiva politica estera. Per il tentativo, cioè, di affermare nel Transcaucaso – così come nei Balcani o in Medio Oriente – un nuovo profilo regionale basato sul bilanciamento della tradizionale cooperazione con l’Occidente e le sue strutture da un lato, con il più deciso perseguimento del proprio interesse nazionale, in termini economici e di sicurezza, dall’altro1.

D’altro canto, la maggior assertività della politica regionale inaugurata da Ankara con il 1991 risultava pienamente in linea con il proposito statunitense ed europeo di prospettare, agli stati ex-sovietici, un “modello turco” di sviluppo. Un modello che – basato su secolarismo, democrazia e libero mercato – appariva loro come principale antidoto alla possibile affermazione di un modello iraniano2, così come al ritorno dell’egemonia di Mosca sullo spazio post-sovietico3.

Ciò tuttavia non ha implicato, tanto nei rapporti con il Transcaucaso quanto con le altre aree limitrofe alla Turchia, un radicale cambiamento della tradizionale impostazione conservatrice propria della politica estera di Ankara, ma piuttosto un 1 È questa l’essenza più profonda del “double coupling problem” teorizzato da Lesser. I.O. LESSER, Beyond ‘Bridge or Barrier’: Turkey’s Evolving Security Relations with the West, in A. MAKOVSKY - S. SAYARI (eds), Turkey’s New World: Changing Dynamics in Turkish Foreign Policy, Washington D.C., 2000, p. 205. Nel medesimo senso, H. KRAMER, A Changing Turkey: The Challenge to Europe and the United States, Washington D.C., 2000, pp. 93-94. 2 P. ROBINS, Between Sentiment and Self-Interest: Turkey’s Policy toward Azerbaijan and the Central Asian States, in «Middle East Journal», 47, 1993, 4, p. 593. 3 Z. BRZEZINSKI, The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives, New York, 1997, p. 47.

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suo adeguamento alla mutata realtà degli allineamenti internazionali e regionali. Sia pur nel quadro di una maggior assertività – e degli aggiustamenti di rotta resi necessari per fronteggiare una situazione senza precedenti storici – la politica transcaucasica turca non ha infatti rovesciato i tradizionali principi della cautela e del non-interventismo frutto del precetto kemalista 4 , percorrendo “a delicate tightrope” 5 tesa tra la volontà di cooperazione con gli Stati di Nuova Indipendenza (Sni) e l’esigenza di non essere attirata in una pericolosa competizione regionale con Russia e Iran.

In questo senso possono essere dunque lette le linee-guida esplicitate dal Ministero per gli Affari Esteri turco rispetto al Transcaucaso, “a neighboring area where the stability and welfare of the peoples […] is a matter of high interest for Turkey’s own security and stability”6.

Esse comprendono:

1. Il mantenimento della pace e della stabilità; 2. Un’ampia cooperazione regionale con il contributo delle tre repubbliche; 3. Il consolidamento dell’indipendenza degli SNI; 4. Il rafforzamento delle strutture democratiche; 5. La liberalizzazione dei mercati; 6. Lo sviluppo del potenziale economico regionale; 7. Il sostegno all’integrazione nelle organizzazioni euro-atlantiche (Osce, Nato e

Consiglio d’Europa) e nelle iniziative regionali7.

Ciò non deve tuttavia indurre ad attribuire alla politica estera turca verso il Transcaucaso una coerenza e una linearità che non le sono state proprie. A ostacolare la coerente formulazione degli interessi nazionali nell’area – e conseguenzialmente delle politiche attraverso le quali perseguirli – hanno contribuito infatti diversi ordini di fattori strettamente collegati tra loro, tanto di natura interna quanto internazionale. In primo luogo, le elezioni parlamentari dell’ottobre 1991 segnavano la fine del lungo periodo di stabilità politica garantito al paese dal premierato di Turgut Özal (dicembre 1983 – novembre 1989)8 e dalla solida maggioranza del Partito della Madrepatria (Anavatan Partisi – Anap), di cui era presidente. D’altro canto, la successione di Özal a Evren alla Presidenza della Repubblica, nell’ottobre 1989, decretava la fine della consolidata consuetudine costituzionale che assegnava tale carica a un alto esponente dello

4 M. AYDIN, Determinants of Turkish Foreign Policy: Historical Framework and Traditional Inputs, in «Middle Eastern Studies», 35, 1999, 4, p. 156. 5 W. HALE, Turkish Foreign Policy 1774-2000, London, 2002, p. 266. 6 REPUBLIC OF TURKEY, MINISTRY OF FOREIGN AFFAIRS, Turkey’s Relations With Southern Caucasus, http://www.mfa.gov.tr. 7 REPUBLIC OF TURKEY, MINISTRY OF FOREIGN AFFAIRS, Turkey’s Relations With Southern Caucasus, cit. 8 La centralità della figura di Özal si può tuttavia estendere sino al giugno 1991, mese in cui terminava il governo guidato dal protégé dell’ex-premier Yıldırım Akbulut. P. ROBINS, Suits and Uniforms: Turkish Foreign Policy since the Cold War, London, 2003, p. 53.

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Stato Maggiore. Se ciò, da un lato, rappresentò un importante passo sul percorso della “smilitarizzazione” della politica turca, d’altra parte, segnalava la rottura di un legame – quello tra governo ed esercito – cui veniva tradizionalmente demandata la formulazione della politica estera turca. Si apriva invece, con il 1991, un periodo di elevata instabilità istituzionale – caratterizzato dalla successione di nove governi sino al maggio 1999 – che non poteva che influire negativamente sulla attuazione di una coerente linea di politica estera. Tanto più in ragione della assunzione del governo, nella delicata fase tra il 1991 e il 1993, da parte di Süleyman Demirel, tradizionale avversario di Özal.

In secondo luogo, la repentinità dei cambiamenti internazionali e regionali cui la politica estera turca doveva far fronte, accompagnata dalla sostanziale impreparazione dell’establishment turco a un tale sfida, apriva ampi spazi all’azione isolata – e spesso contraddittoria – dei diversi centri di potere nazionale. Una concorrenzialità, questa, resa più accentuata dalla circostanza che le nuove sfide regionali risultarono di sovente caratterizzate da un inestricabile cortocircuito di questioni di sicurezza ed economiche. Si apriva così, in Turchia, una fase di inesplorata dialettica politica che, oltre a riguardare i tradizionali autori della politica estera, si estendeva anche ai centri di potere economico. Centri di potere identificabili in prima battuta con le compagnie energetiche nazionali direttamente coinvolte nella politica regionale verso il Transcaucaso, le quali beneficiavano, inoltre, delle conseguenze istituzionali del processo di apertura democratica, avviatosi nel paese nel corso degli anni ’909. Un’apertura democratica che, non secondariamente, ha finito per fornire nuovi spazi all’azione di una società civile che, portatrice di interessi spesso confliggenti, ha complicato ulteriormente il quadro di riferimento di un processo decisionale, quello turco rispetto al Transcaucaso, che diventerà, come sottolineato da Tayfur e Göymen, piuttosto “affollato”10.

La tortuosità del percorso intrapreso da Ankara sulla via della definizione di una politica regionale per il Transcaucaso, è resa più evidente infine dalla considerazione dei fattori internazionali sommatisi alla complessità del contesto nazionale turco. In questo senso, le peculiarità proprie dall’area transcaucasica – caratterizzata da un’elevata conflittualità interna e dalla convergenza di interessi economici e di sicurezza di importanti attori regionali e internazionali – hanno rappresentato un difficile nodo cui rapportarsi coerentemente. Tanto più difficile, poi, per la contemporanea apertura del processo di ridefinizione dell’identità e delle prerogative delle maggiori organizzazioni internazionali cui la Turchia tradizionalmente rivolgeva la propria attenzione – dalla Nato alla Ueo, dall’Onu all’Osce.

9 Sull’influenza esercitata dalla progressiva democratizzazione turca sul processo decisionale, Z. ONIS - U. TÜREM, Business, Globalization and Democracy: A Comparative Analysis of Turkish Business Associations, in «Turkish Studies», 2, 2001, 2. 10 M.F. TAYFUR - K. GÖYMEN, Decision Making in Turkish Foreign Policy: The Caspian Oil Pipeline Issue, in «Middle Eastern Studies», 38, 2002, 2, p. 107.

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1. Le origini della politica estera turca verso gli Stati di Nuova Indipendenza (1991-1993)

La dissoluzione sovietica restituiva alla politica estera turca degli stati che, oggetto secolare di contesa tra l’impero ottomano e quello russo, avevano tradizionalmente occupato un posto di primo piano nella politica estera di Istanbul. Con la nascita della Repubblica Turca e la contemporanea formazione della Repubblica Federale Socialista Sovietica Transcaucasica, Mustafa Kemal, coerentemente con il principio “pace in casa, pace nel mondo”, sacrificava i rapporti e le rivendicazioni territoriali sul Trancaucaso alla volontà di rafforzare la sovranità della Turchia sui territori a essa riconosciuti dal Trattato di Losanna (1923), oltre che a una più pragmatica realpolitik che imponeva buoni rapporti con il vicino sovietico11. D’altro canto, il contemporaneo sforzo di rifondare una identità nazionale turca – dalla connotazione spiccatamente territoriale, prima ancora che etnica12 – si traduceva nella proibizione delle attività anti-sovietiche dei movimenti irredentisti di stampo pan-turco o neo-ottomano13. Nel corso del primo settantennio di vita della Turchia, dunque, i rapporti con le repubbliche sovietiche del Transcaucaso passarono necessariamente attraverso la mediazione di Mosca, mentre gli stessi rapporti tra la consistente popolazione turca di origine caucasica 14 e i propri affini d’oltreconfine si ridussero a sporadici contatti di natura culturale15.

I primi segnali della crisi sovietica e della crescente indipendenza che le singole repubbliche iniziavano ad assumere sul piano internazionale, colsero dunque la Turchia sostanzialmente impreparata e non disposta a capovolgere quella “almost 11 Con il trattato di Alessandropoli/Gümrü (1920), d’altro canto, Armenia e Turchia avevano fissato i rispettivi confini, ponendo sotto sovranità turca i distretti dei Kars e Ardahan. L’anno successivo il Trattato di Mosca turco-sovietico sanciva gli attuali confini nord-orientali del paese, con la parallela rinuncia turca al porto georgiano di Batumi. B.R. KUNIHOLM, The Origins of the Cold War in the Near East, Princeton, 1980, pp. 358-359. Le rivendicazioni sovietiche sui distretti dei Kars e Ardahan ritorneranno, nell’immediato secondo dopoguerra, a incrinare i rapporti turco-sovietici e a spingere più risolutamente Ankara verso la cooperazione economica e militare con le nascenti strutture di matrice euro-atlantica. Tali rivendicazioni cesseranno ufficialmente solo nel 1953. W. HALE, Turkish Foreign Policy 1774-2000, cit., pp. 111-112 e 122. 12 W. HALE, Identità e Politica in Turchia, in R. ALIBONI (a cura di), Geopolitica della Turchia, Milano, 1999, p. 45. 13 J.M. LANDAU, Pan-Turkism: From Irredentism to Cooperation, London, 1995, pp. 74-75. Tale atteggiamento era peraltro in linea con le previsioni dl Trattato turco-sovietico del marzo 1921 che impegnava le parti a proibire, sul proprio territorio, la formazione di organizzazioni irredentiste “that have hostile intentions to the other country”. W. HALE, Turkish Foreign Policy 1774-2000, cit., p. 51. 14 Secondo Henze, circa un 15% della popolazione della neoproclamata Repubblica Turca (2 milioni su un totale di 13) era di origine caucasica, giunta in Anatolia a seguito delle guerre russo-turche tra il XIX secolo e la prima guerra mondiale. P. HENZE, Turkey and the Caucasus: Relations with the New Republics, in M. RADU (ed.), Dangerous Neighborhood: Contemporary Issues in Turkey’s Foreign Relations, New Brunswick/London, 2003, pp. 79-80. 15 P. HENZE, Turkey and the Caucasus: Relations with the New Republics, cit., p. 81.

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obsequious correctness toward Moscow” 16 che costituiva una consolidata tradizione diplomatica. In questo contesto va dunque inserita la cautela che Ankara mostrò nell’accordare il riconoscimento ufficiale delle nuove repubbliche, all’indomani delle dichiarazioni di indipendenza susseguitesi a partire dall’agosto 1991. Solo a seguito della formale dissoluzione dell’Urss, difatti, il 16 dicembre successivo, Ankara riconosceva in blocco le repubbliche da essa emerse. Unica eccezione fu tuttavia costituita dal riconoscimento che la Turchia, primo stato della comunità internazionale, accordò in novembre all’Azerbaigian17, a dimostrazione dell’importanza che Ankara attribuiva ai rapporti con la vicina e affine repubblica azera, e a segnale della centralità che questa avrebbe da allora assunto nella politica regionale turca nell’area del Transcaucaso, così come in quelle del Mar Nero e dell’Asia centrale.

Emersa con chiarezza sin dai primi mesi del 1992 18 , la volontà europea e statunitense di proporre un “modello turco” di sviluppo agli stati emersi dalla dissoluzione sovietica costituì un importante incentivo per Ankara ad attuare una più dinamica azione di politica regionale. Un maggior impegno nello spazio post-sovietico che, su questo sfondo, la Turchia iniziò presto a valutare come strumento per rafforzare, nel quadro dei nascenti equilibri internazionali, la valenza strategica regionale del paese rispetto alle cancellerie occidentali 19 . D’altro canto, nel paese, un senso di profonda euforia aveva accompagnato la

16 P. HENZE, Turkey: Toward the Twenty-First Century, in G.E. FULLER - I.O. LESSER, Turkey’s New Geopolitics, From the Balkans to Western China, Boulder, 1993, p. 28. 17 A questo proposito, Robins evidenzia come la Turchia avrebbe probabilmente dilazionato ancora i tempi del riconoscimento, se il Primo Ministro azero Hasanov non avesse forzato la mano al governo: “He appealed to the Turkish people over the government’s head during a stopover in Ankara, saying that Turkish business might lose out were it not the first country to extend recognition”. P. ROBINS, Between Sentiment and Self-Interest: Turkey’s Policy toward Azerbaijan and the Central Asian States, cit., p. 602. In linea con questa interpretazione, Winrow sottolinea come il più rapido riconoscimento dell’Azerbaigian rispetto alle altre repubbliche fosse legato alla volontà di anticipare un possibile riconoscimento iraniano. G. WINROW, Turkey and the Caucasus: Domestic Interests and Security Concerns, London, 2000, p. 8. 18 Nel febbraio 1992, la visita di Demirel a Washington costituì l’occasione per Bush per promuovere ufficialmente il ruolo di modello della Turchia per gli SNI. Parallelamente, la Commissione Europea, prima ancora dei governi britannico e tedesco, evidenziava il fondamentale ruolo di ‘corridoio’ della Turchia rispetto allo spazio post-sovietico. Sottolinea, a tal proposito, Robins come “foreign politicians visiting Turkey, especially those from Europe, seemed to identify Central Asia and Transcaucasia as a relatively cost free way of having praise on their host, with whom, in other areas, relations were often problematic”. P. ROBINS, Suits and Uniforms: Turkish Foreign Policy since the Cold War, cit., p. 284. 19 D’altro canto, già in occasione di una riunione tentasi a Vienna, nel dicembre 1989, tra l’allora Ministro degli Esteri Yılmaz e i principali ambasciatori turchi, le linee guida della politica estera a venire erano non a caso identificate attorno alla necessità di mantenere la ferma cooperazione con la Nato, aprendo al contempo rapporti più stretti con i paesi d’oltrecortina. Se infatti, la distensione ridimensionava l’importanza strategica della Turchia, la sua posizione geografica ne avrebbe rifondato la valenza agli occhi dell’occidente. B.R. KUNIHOLM, Turkey and the West Since World War II, in V. MASTNY - R.C. NATION (eds), Turkey Between East and West: New Challenges for a Rising Regional Power, Boulder/Oxford 1996, pp. 61-62.

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dissoluzione dell’Urss e il conseguente emergere di quello che appariva come un “nuovo mondo prevalentemente turcofono”20 – formato da quattro delle cinque repubbliche centroasiatiche e dall’Azerbaigian – naturalmente portato alla identificazione e cooperazione con il “fratello maggiore” turco. La possibilità che la Turchia potesse fondare sugli storici legami di natura etnica, culturale e linguistica la propria direttrice di politica estera verso i paesi turcofoni del Caucaso e Asia centrale – divenendo così per essi punto di riferimento obbligato sulla strada del rafforzamento della indipendenza – lungi dall’essere relegata ai movimenti pan-turchi, neo-ottomani o di solidarietà etnica, finì per ammantare la stessa retorica governativa e presidenziale21.

Prendeva così forma il primo tentativo turco di sviluppare una linea di politica regionale verso lo spazio post-sovietico, una politica che, rivolgendosi prevalentemente agli stati turcofoni dell’area, mancava ancora di una strategia coerente – sia pur di breve periodo – verso l’area del Transcaucaso.

Tuttavia, come sostiene Aras, “as the relationship between ethnicity and foreign policy comes to the fore, identity politics has more to do with politics than with identity” 22 . Lungi dunque dal rappresentare la volontà di affermazione di un modello pan-turco, il richiamo alla comunanza etnica, linguistica e culturale offriva piuttosto – alla Turchia così come agli Sni – un comodo quanto suggestivo strumento di riavvicinamento politico. In questo senso, sgombrato il campo dalla connotazione ideologico-confessionale attribuita alla politica regionale di Ankara23, la strategia turca verso gli SNI, così come il suo successivo fallimento, vanno valutati, prima ancora che sul piano economico24, su quello strettamente politico. A fallire fu, in particolare, il tentativo di Ankara di assicurarsi il sostegno dei nuovi interlocutori rispetto a una piattaforma comune di politica internazionale e regionale confacente agli interessi del Ministero degli Affari Esteri turco. Il primo “Summit Turco”, convocato ad Ankara nell’ottobre 1992, costituì in questo senso la principale fonte di disillusione per una Turchia che, per l’occasione,

20 P. ROBINS, Suits and Uniforms: Turkish Foreign Policy since the Cold War, cit., p. 272. 21 Innumerevoli sono difatti le dichiarazioni, provenienti dalla più alte sfere delle istituzioni nazionali, velate di accenti pan-turchi. Così, se Özal, in linea con la propria retorica tradizionalmente colorita, sosteneva che il secolo a venire sarebbe stato il secolo dei turchi, lo stesso Demirel, generalmente più moderato, salutava l’emergere di “a gigantic Turkish world” esteso dall’Adriatico sino alla Grande Muraglia cinese. P. ROBINS, Suits and Uniforms: Turkish Foreign Policy since the Cold War, cit., p. 280. 22 B. ARAS, Turkish Foreign Policy Toward the Caucasus, in «Central Asia and the Caucasus», 5 (11), 2001, p. 83. 23 Si veda, ad esempio, S. HUNTINGTON, Lo Scontro delle Civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti Editore, trad. it., Milano, 2000, p. 214. 24 La mancanza di adeguate risorse finanziarie da indirizzare verso gli Stati di Nuova Indipendenza, la ritrosia dell’imprenditoria turca verso investimenti che si presentavano ad alto rischio, così come l’incapacità della Turchia di presentarsi come canale privilegiato degli aiuti economici provenienti dalle principali organizzazioni internazionali e regionali, sono tutte concause comunemente addotte per spiegare il fallimento della politica regionale turca nella fase immediatamente successiva al 1991.

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aveva predisposto una dichiarazione congiunta contenente le linee-guida di un politica estera comune. La mancanza di accordo sulle principali questioni in essa contenute – dal riconoscimento della Repubblica Turca di Cipro del Nord sino al conflitto in Bosnia-Erzegovina – rappresentò un duro colpo alla credibilità del ruolo regionale cui Ankara aspirava. La più cocente sconfitta per la diplomazia turca giunse, tuttavia, in relazione alla posizione da assumere relativamente al conflitto che, nel Transcaucaso, opponeva Azerbaigian e Armenia per il controllo della regione dell’Alto Karabakh. Questione che, riguardando più da vicino gli equilibri dell’area post-sovietica, rappresentava un fondamentale banco di prova per la sua politica regionale. Una politica che non poté di conseguenza che uscire ridimensionata dalle profonde divisioni emerse sul tema, così come dal rifiuto opposto dai capi di stato centroasiatici alla proposta – propugnata dal presidente azero Elçibey e appoggiata dalla Turchia – di intraprendere azioni concrete contro l’occupante armeno e, più significativamente, dalla mancanza di accordo finanche su una dichiarazione di aperta condanna dell’occupazione25.

Il summit di Ankara, pensato come pietra miliare per lo sviluppo di una rete di cooperazione turcocentrica nello spazio post-sovietico, si tradusse dunque nella evidente manifestazione della velleitarietà dei progetti regionali di Ankara, della possibilità di trarre da essi facili e veloci dividendi politici, così come della sottovalutazione dell’influenza che Mosca continuava a esercitare sull’estero vicino. Significativamente, il summit si concludeva con una dichiarazione congiunta sulla volontà di approfondire la cooperazione economica e gli scambi culturali – aspetti che, da allora, avrebbero costituito il principale ambito di collaborazione tra la Turchia e le repubbliche centroasiatiche.

1.1 La Turchia e i conflitti nel Transcaucaso

Il principale ostacolo all’iniziale cooperazione politica ed economica tra la Turchia e le repubbliche del Transcaucaso – così come alla predisposizione di una coerente strategia regionale di lungo periodo – fu rappresentato dall’accentuata conflittualità che accompagnò e seguì, nell’area, la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Il cammino post-indipendentistico delle tre repubbliche fu infatti pesantemente condizionato dall’erompere di tensioni e conflitti, dai contorni etno-territoriali26, nella regione azera a maggioranza armena dell’Alto Karabakh, così come nelle province georgiane dell’Ossetia meridionale e dell’Abkhazia. La diplomazia turca si trovava così a fronteggiare una fluida e incerta situazione di

25 P. ROBINS, Suits and Uniforms: Turkish Foreign Policy since the Cold War, cit., p.287. 26 Si fa qui riferimento, nella definizione di Streleckij, a quelle “controversie accese in nome di etnie o gruppi etnici e riguardanti il diritto di abitare, possedere o amministrare questo o quel territorio”. Cit. in E. PAIN, Analisi comparativa e valutazione del rischio di conflitti etnopolitici lungo le frontiere russe, in P. SINATTI (a cura di), La Russia e i conflitti nel Caucaso, Torino, 2000, p. 81.

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fatto, rapportarsi alla quale era reso più complesso dalle rilevanti ripercussioni che implicava tanto sul piano internazionale, quanto interno.

In questo quadro, il nodo che più di ogni altro influenzò la politica estera turca fu il conflitto per il controllo dell’Alto Karabakh che, prodottosi a uno stato latente a partire dal 1988, assunse, a seguito delle dichiarazioni di indipendenza azere e armene, un connotato tipicamente interstatale destinato ad avere pesanti ripercussioni sulla politica regionale di Ankara. Non è un caso che, dopo aver a lungo considerato le tensioni azero-armene come problema elusivamente interno all’Urss, la Turchia, alla vigilia della sua dissoluzione, manifestasse la propria disapprovazione rispetto al provvedimento con il quale l’Azerbaigian, il 26 novembre 1991, sopprimeva l’autonomia tradizionalmente accordata alla regione dell’Alto Karabakh. Una decisione, quest’ultima, che il governo Demirel sottolineò essere contraria tanto alla stabilità regionale, quanto agli stessi interessi azeri27.

L’erompere, a partire dai primi mesi del 1992, del conflitto si ripercosse negativamente anzitutto sulle prospettive di normalizzazione degli storicamente tesi rapporti turco-armeni. L’eredità del passato ottomano rappresentava, difatti, un pesante fardello sulla strada di una possibile normalizzazione delle relazioni bilaterali. Pesava e pesa a tutt’oggi, in particolare, il tentativo di Erevan e della diaspora di ottenere che allo sterminio della popolazione armena compiuto in Turchia a partire dal 1915, venga ufficialmente riconosciuta – internazionalmente come ad Ankara – la natura di genocidio 28 . Parallelamente, le rivendicazioni armene su territori della Turchia orientale29, così come il ricordo, tra la diplomazia turca, degli attentati terroristici compiuti negli anni Ottanta dall’Armenian Secret Army for the Liberation of Armenia, costituivano altrettante eredità di un passato con cui risultava difficile fare i conti. A scapito di ciò, tuttavia, a partire dalla visita a Erevan dell’ambasciatore turco a Mosca, Volkan Vural, nell’aprile del 1991, i rapporti tra i due paesi sembrarono imboccare un percorso di reciproco riavvicinamento. Nell’occasione venne infatti predisposta la bozza di un accordo di buon vicinato, cui seguì, all’indomani del riconoscimento turco dell’indipendenza armena, l’apertura di un consolato turco e la nomina di un ambasciatore a Erevan, in

27 S. BOLUKBASI, Ankara’s Baku-Centred Transcaucasia Policy: Has It Failed?, in «Middle East Journal», 51, 1997, 1, p. 83. 28 Ankara, continua al contrario a sostenere che dietro i “massacri” della popolazione armena non vi sia stata una deliberata politica di sterminio, ridimensionando al contempo le stime relative alle vittime. In questo senso, S.R. SONYEL, Falsifications and Disinformation Negative Factors in Turco-Armenian Relations, in «SAM Papers», 3, 2000. 29 Nel 1991 il Parlamento armeno dichiarava il non riconoscimento della validità dei Trattati di Kars e Gümrü del 1921, con i quali venivano stabiliti i confini turco-armeni. L’articolo 11 della Dichiarazione di Indipendenza armena, fa inoltre riferimento alla Anatolia orientale come alla “Armenia occidentale”. D’altro canto, tuttavia, i successivi ingressi dell’Armenia nelle organizzazioni internazionali che riconoscono il principio di inviolabilità delle frontiere – a partire da quello nella Conferenza per la Sicurezza e Cooperazione in Europa del gennaio 1992 – possono essere interpretati come un sia pur indiretto riconoscimento della frontiera tra i due stati.

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attesa della formalizzazione di un’apertura di relazioni diplomatiche che lo sviluppo delle operazioni militari nell’Alto Karabakh renderà tuttavia inattuabile.

Parallelamente e in funzione del tentativo di normalizzazione dei rapporti con l’Armenia, Ankara tentò peraltro di non lasciarsi trascinare nella crescente ostilità armeno-azera propugnando, a più riprese, un ruolo di mediatore imparziale tra le parti. In questo quadro si colloca dunque la “shuttle diplomacy”30 inaugurata dal Ministro degli Esteri turco Çetin tra la regione e le varie capitali europee, così come il tentativo di internazionalizzare la mediazione del conflitto attraverso le organizzazioni di cui la Turchia era membro – con la Csce in testa31 – nella costante riaffermazione del principio della intangibilità delle frontiere32 . D’altro canto, propugnando una politica di non diretto intervento nel conflitto in Azerbaigian, Ankara dimostrava tutta la propria preoccupazione rispetto alla possibilità che questo potesse assumere un connotato spiccatamente confessionale33, minando le fondamenta del precetto secolarista turco e della sua proiezione internazionale – un rischio tanto più sentito per il contemporaneo sviluppo della crisi bosniaca. La possibilità di assumere un ruolo di mediatore, era infine funzionale alla volontà di anticipare l’analogo tentativo di Teheran.

La credibilità di un ruolo turco super partes rispetto al conflitto, fu tuttavia vittima della mancanza di formulazione di una coerente strategia regionale di politica estera, nel cui vuoto si inserirono presto le divergenze tra le più alte cariche istituzionali del paese. Alla moderazione del governo guidato da Demirel, fece infatti da contrappeso la colorita e populistica retorica del Presidente Özal che finì per minarne le fondamenta, contribuendo una volta di più alla radicalizzazione delle posizioni di un’opinione pubblica, quella turca, che a gran voce richiedeva una più attiva politica di sostegno ai “fratelli azeri”. La linea interventista di Özal – alle cui spalle si muoveva un’ampia parte dello spettro politico e istituzionale 30 S.E. CORNELL, Turkey and the Conflict in Nagorno-Karabakh: A Delicate Balance, in «Middle Eastern Studies», 34, 1998, 1, p. 60. 31 La Turchia riuscì, in ambito CSCE, a porre la questione dell’Alto Karabakh nell’agenda del summit di Praga del 28 febbraio 1992, nel corso del quale l’organizzazione decise di costituire un gruppo di contatto per la mediazione nel conflitto. Prendeva così forma quello che sarebbe divenuto noto, a partire dal giugno successivo, come il “Gruppo di Minsk”, di cui la Turchia divenne parte assieme a Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Repubblica Ceca, Francia, Germania, Italia, Federazione Russa, Svezia e Stati Uniti. Sullo sforzo di mediazione internazionale rispetto all’Alto Karabakh, si veda J.J. MARESCA, The International Community and the Conflict over Nagorno-Karabakh, in B.W. JENTLESON (ed), Opportunities Missed, Opportunities Seized: Preventive Diplomacy in the Post-Cold War World, Lanham, 2000, pp. 68-90. 32 La stretta riaffermazione del principio di inviolabilità delle frontiere in connessione al conflitto nell’Alto Karabakh rispondeva, prima ancora che alla volontà di sostegno alla causa azera, alle preoccupanti connessioni che esso mostrava rispetto alla rinascita del separatismo curdo in Turchia. La presa armena di Lachin nel maggio 1992 comportò infatti la formazione, nella regione – già sede negli anni Venti di un’entità autonoma curda – di un Movimento Curdo di Liberazione che proclamava in essa la formazione di uno stato curdo indipendente. Cfr. Keesing’s Record of World Events, 38, June 1992. 33 A. COWELL, Turk Warns of a Religious War in Azerbaijan, in «The New York Times», 12 March 1992.

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turco34 – si manifestò, in tutta evidenza, a seguito delle rilevanti vittorie militari che i separatisti armeni, sostenuti militarmente dalla madrepatria, ottennero tra il febbraio e il maggio 1992. La minaccia presidenziale di un intervento militare a protezione dell’enclave azera di Nakhichevan35, accompagnata dai movimenti di truppe in prossimità dei confini orientali del paese, implicò così il fallimento della contemporanea mediazione di Demirel. La possibilità che la Turchia intervenisse militarmente nel conflitto, d’altro canto, spinse più risolutamente Erevan nell’orbita politico-militare di Mosca, finendo per favorire l’avvio di una polarizzazione degli schieramenti regionali, che avrebbe costituito, da allora, una pesante gravame sulla via della cooperazione nell’area. Dopo aver infatti rifiutato di esaminare, a inizio marzo, un piano di pace turco 36 , in maggio l’Armenia siglava il Trattato di Sicurezza Collettiva (Cst) della Csi e un Accordo di Sicurezza Congiunta con la Russia – alle cui truppe avrebbe peraltro demandato, nel febbraio successivo, la responsabilità del pattugliamento delle proprie frontiere internazionali, ivi compresa quella con la Turchia.

Le sconfitte militari azere della primavera accentuarono, peraltro, la crisi politica del governo guidato da Mutalibov, che in giugno lasciò il posto al leader della formazione nazionalista del Fronte Popolare dell’Azerbaigian, Elçibey. In questo quadro d’insieme, la spiccata retorica anti-russa e pan-turca del presidente azero, si tradusse in Turchia in un ulteriore elemento di polarizzazione politica, oltre che in un insormontabile ostacolo rispetto ai contemporanei tentativi di dialogo e cooperazione tra Demirel e il governo armeno guidato dal moderato Ter-Petrossian 37 . Maturava così, sulla scia della sempre più pressante richiesta 34 L’opposizione al governo del Partito della Giusta Via (DYP) guidato da Demirel si presentava compatta nel richiedere un più deciso intervento nel conflitto. Il Partito Nazionalista di Azione (MHP) di Türkeş, dalla tradizionale connotazione pan-turca, era naturalmente il più attivo sostenitore della necessità di intervento militare a tutela degli interessi regionali turchi. Allo stesso modo, il Partito Democratico della Sinistra (DSP) guidato da Ecevit, portatore di una retorica terzomondista e sostenitore di una “regionally-centred foreign policy depending on national interests” (W. HALE, Turkish Foreign Policy 1774-2000, cit., p. 207), criticava aspramente la cautela politica di Demirel come controproducente rispetto all’avanzamento degli interessi turchi nelle aree del Caucaso e dell’Asia centrale. Infine, l’influente Mesut Yilmaz – succeduto a Özal alla leadership del maggior partito dell’opposizione, il Partito della Madrepatria (ANAP) – a più riprese sottolineò la necessità di una più dura linea di politica estera nei confronti dell’Armenia. 35 Secondo un’interpretazione ampiamente propugnata in Turchia, la lettera dei Trattati di Mosca e Kars del 1921 conferiva a essa il diritto di intervenire militarmente a tutela dello status dell’enclave. 36 Significativamente, l’Armenia giustificava il rifiuto sulla base dell’accusa alla Turchia di “not being neutral”. Cfr. Keesing's Record of World Events, 38, March 1992. 37 Nell’agosto 1992, una missione diplomatica turca in Armenia sondava la possibilità di apertura delle relazioni diplomatiche, richiedendo a tal fine il ritiro dell’esercito dai territori azeri esterni all’Alto Karabakh. Nel settembre successivo, inoltre, il governo turco accettò la richiesta armena di invio di 100.000 tonnellate di grano all’Armenia, per motivi umanitari. Contemporaneamente, veniva siglato un protocollo per la fornitura di energia elettrica al paese. L’effetto congiunto dei due provvedimenti sarebbe stata la rottura di quell’embargo azero nei confronti dell’Armenia, che costituiva la principale arma di Baku. Fu così solo a seguito delle vibranti proteste del governo azero e dell’opposizione turca, inoltre, a far cadere un accordo bollato come “una pugnalata alle

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dell’opinione pubblica nazionale38, l’aperto sostegno di Ankara a favore della causa azera, che si concretava, nell’aprile 1993, nella chiusura delle frontiere tra Turchia e Armenia, dove venivano contemporaneamente mobilitati l’esercito e l’aviazione.

Le successive schiaccianti vittorie militari dei secessionisti armeni – che entro settembre estendevano la propria occupazione a un quarto circa del territorio azero – dimostrarono tuttavia tutta la inefficacia della politica regionale di Ankara. Inefficacia manifesta rispetto tanto al tentativo di mobilitare, a sostegno della causa azera, i propri alleati occidentali, quanto di attuare una qualche forma di diplomazia coercitiva – principale ostacolo alla quale era costituito dalla tutela militare russa di Erevan.

La possibilità di assicurare che l’Azerbaigian fosse retto da un “regime amico”, obiettivo centrale nella strategia turca verso il Transcaucaso39, fu ulteriore vittima dell’insuccesso della politica rispetto all’Alto Karabakh. Nel giugno 1993 un colpo di stato deponeva infatti Elçibey, presto sostituito da Heydar Aliyev che, in mancanza di concrete alternative, rovesciava il corso di politica estera sino ad allora seguito dal paese, congelando i rapporti con la Turchia e avvicinandosi risolutamente alla Russia. Nel maggio 1994, dopo aver riportato il paese nella Csi e siglato il Trattato per la Sicurezza Collettiva, l’Azerbaigian accettava un piano per il cessate-il-fuoco che, predisposto dal Ministro della Difesa russo Grachev, prevedeva tra l’altro il dispiegamento, a sua garanzia, di truppe russe sotto l’egida della Csi. Benché quest’ultima previsione venisse successivamente rigettata dal parlamento azero, la firma dell’accordo rappresentò un importante successo diplomatico per Mosca, che, presentandosi come garante unico della stabilità e della sicurezza nell’area, rafforzava le proprie posizioni in quello che appariva essere “a hidden regional conflict between Turkey's drive to build a zone of influence in Transcaucasia and Russia's determination not to be excluded from its traditional spheres of influence”40.

L’accordo per il cessate-il-fuoco, cui non sarebbe seguita la conclusioni di un piano di pace, finiva per congelare, assieme al conflitto, le stesse possibilità di normalizzazione dei rapporti diplomatici armeno-turchi, condizionati da Ankara, a partire dal 1993, a “positive development toward the peaceful settlement of the Nagorno-Karabakh dispute”41. I rapporti della Turchia con l’Armenia – e con essi le potenzialità di un’ampia cooperazione nel Transcaucaso – finivano così per divenire ostaggio del crescente avvicinamento all’Azerbaigian.

spalle” da parte di Ankara. S. BOLUKBASI, Ankara’s Baku-Centred Transcaucasia Policy: Has It Failed?, cit., p. 84. 38 S.E. CORNELL, Turkey and the Conflict in Nagorno-Karabakh: A Delicate Balance, cit., p. 61. 39 S. BOLUKBASI, Ankara’s Baku-Centred Transcaucasia Policy: Has It Failed?, cit., p. 81. 40 S.J. BLANK, Turkey’s Strategic Engagement in the Former USSR and U.S. Interests, in S.J. BLANK - S.C. PELLETIERE - W.T. JOHNSEN, Turkey's Strategic Position at the Crossroads of World Affairs, Carlisle, 1993, p. 69-70. 41 G. WINROW, Turkey and the Caucasus: Domestic Interests and Security Concerns, cit., p. 13.

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D’altro canto, l’oggettiva difficoltà per il governo turco di predisporre, rispetto ai conflitti nell’area transcaucasica, una linea di deciso e coerente intervento, risultò evidente anche rispetto a quel conflitto in Abkhazia che, a partire dall’estate del 1992, divampava in Georgia.

La netta instabilità che caratterizzò la fase successiva alla proclamazione d’indipendenza georgiana – determinata dalla guerra civile del 1991-1992 e dal conflitto in Ossetia meridionale – aveva rappresentato un freno all’apertura delle relazioni diplomatiche tra Ankara e Tbilisi. Il tardivo riconoscimento accordato alla Repubblica Georgiana nel maggio 1992 dimostrava dunque, una volta di più – prima ancora della iniziale secondarietà del vettore transcaucasico della politica estera turca – la riproposizione della tradizionale cautela e del non-interventismo sul piano regionale. Non è un caso, in questo senso, che il riconoscimento turco seguisse il consolidamento del potere di Shevarnadze e, più significativamente, l’analogo provvedimento statunitense e tedesco. Fu dunque in contemporanea che si svilupparono, nella successiva estate, i primi contatti turco-georgiani per lo sviluppo di una cooperazione politico-economica, da un lato42, e l’apertura delle ostilità nella regione secessionista della Abkhazia, dall’altro.

L’iniziale atteggiamento legalistico e filo-governativo di Ankara rispetto al conflitto fu messo in seria difficoltà, questa volta, dalla presenza in Turchia di una numerosa comunità di origine abkhaza43. Quest’ultima, in unità di intenti con le numerose associazioni di minoranze d’origine nord-caucasica, diede vita al Comitato di Solidarietà Caucasico-Abkhazo (Kafkas-Abhaz Dayanişma Komitesi – Kadk), attivo sin dal 1992 nel richiedere il riconoscimento turco dell’indipendenza dell’Abkhazia, e nell’esercitare pressioni su quella parte trasversale dello spettro politico favorevole a un più attivo coinvolgimento nelle questioni regionali. La contemporanea formazione, a opera della influente minoranza georgiana, della Fondazione Culturale e di Solidarietà Turco-Georgiana (Türk-Gürcü Kültür ve Dayanişma Vakfı – Tgkdv) determinò così un scontro di interessi, che assunse presto portata politica. L’avvio di un pericoloso processo di politicizzazione delle minoranze etniche, emerse chiaramente dall’acceso dibattito parlamentare sull’Abkhazia dell’ottobre 1992. Dibattito che evidenziava, al contempo, l’impossibilità per Ankara di sfruttare i dividendi politici che le sarebbero potuti derivare dal più diretto sostegno a una delle parti in causa. Su questo sfondo, fu

42 Nel luglio 1992, Demirel si recava in visita a Tbilisi dove veniva siglato un Accordo di Amicizia e protocolli in materia di commercio, cultura, istruzione e trasporti. 43 Secondo Winrow, la comunità turco-abkhaza comprendeva 700.000 persone. Un numero, questo, tanto più rilevante se paragonato al totale della popolazione della provincia georgiana che, nelle stime di Alexei Zverev era di poco superiore al mezzo milione G. WINROW, Turkey and the Caucasus: Domestic Interests and Security Concerns, cit., p. 33; A. ZVEREV, Ethnic Conflicts in the Caucasus, 1988-1994, in B. COPPIETERS (ed.), Contested Borders in the Caucasus, Bruxelles, 1996, http://www.poli.vub.ac.be.

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dunque la necessità di rapportarsi alla “fabbrica demografica” 44 turca, prima ancora che una deliberata scelta di politica estera, a dettare l’agenda della politica nei confronti del conflitto in Georgia. A imporre, cioè, un approccio bilanciato che, pur sensibile “in a humanitarian fashion”45 alle istanze dei secessionisti, ribadiva fermamente la necessità del rispetto dell’integrità territoriale georgiana.

Benché una simile linea di condotta super partes finisse per assicurare ad Ankara sia pur limitati risultati politici46, esso impedì tuttavia di offrire a Tbilisi quelle garanzie di sicurezza che Shevarnadze, come già accaduto ad Aliyev, non poté che richiedere alla Russia. Fu ancora una volta Mosca nel novembre 1993, dopo aver ottenuto l’ingresso georgiano nella Csi e nel Tsc e negoziato il dispiegamento di una forza di interposizione, a farsi infatti promotrice di un accordo per il cessate-il-fuoco. Significativamente inoltre, come già avvenuto con l’Armenia, Russia e Georgia si accordavano per il dispiegamento di guardie di frontiera russe al confine con la Turchia.

I conflitti etno-territoriali divampati nel Transcaucaso con la dissoluzione dell’Urss hanno dunque costituito il principale ostacolo, tra il 1992 e l’inizio del 1994, sulla via dell’affermazione di un ruolo regionale di primo piano della Turchia. L’effetto combinato di fattori interni e internazionali ha infatti impedito ad Ankara di rappresentare, per l’area, un fattore di sicurezza e stabilità, lasciando al contempo campo libero alle iniziative di Mosca. La conseguente sistematizzazione russocentrica rappresentava, per questa via, la più evidente manifestazione, da un lato, dell’inefficacia della politica regionale turca e, dall’altro, dell’avvio di una polarizzazione degli interessi e schieramenti regionali che avrebbe da allora pesantemente influito sulle possibilità di cooperazione inter-regionale.

1.2 La centralità azera nella politica multi-regionale di Ankara

La stretta affinità etnica, linguistica e culturale tra Turchia e Azerbaigian – base della consueta formula “due stati, una nazione” – rendeva l’approfondimento delle relazioni bilaterali un passaggio quasi obbligato nello sviluppo delle rispettive politiche estere. Se infatti la Turchia rappresentava, per Baku, un ponte verso le principali strutture di matrice euro-atlantica, oltre che un naturale punto di riferimento sulla strada del rafforzamento della propria sovranità e indipendenza, non meno rilevante risultava essere per Ankara, di converso, l’Azerbaigian. Forte di

44 D.B. SEZER, Turkey in the New Security Environment in the Balkan and Black Sea Region, in V. MASTNY - R.C. NATION (eds.), Turkey Between East and West: New Challenges for a Rising Regional Power, cit., p. 90. 45 P. ROBINS, Suits and Uniforms: Turkish Foreign Policy since the Cold War, cit., p. 183. 46 In particolare, in occasione del lancio dell’operazione di monitoraggio del cessate-il-fuoco UNOMIG, la richiesta di partecipazione turca provenne significativamente, nel settembre 1994, da entrambe le parti del conflitto. Inoltre, tra il 1999 e il 2001, Il Ministero degli Esteri turco offriva ripetutamente di ospitare colloqui tra inviati del governo georgiano e rappresentanti del KADK.

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ingenti e inesplorate risorse energetiche, esso costituiva, prima ancora che un partner economico di primo piano47 , un fondamentale alleato nell’affermazione dell’influenza turca sul Transcaucaso e l’Asia centrale.

L’Azerbaigian si configurò dunque, sin dalla fase immediatamente successiva al 1991, come il punto di collegamento tra le diverse direttrici della politica multi-regionale di Ankara nell’area del Transcaucaso, così come in quella dell’Asia centrale e del Mar Nero. Una politica multi-regionale caratterizzata dal tentativo di porsi alla testa di iniziative di cooperazione economica regionale, in linea con le più profonde convinzioni del liberista Özal. Sin dagli anni Ottanta, infatti, le relazioni economiche regionali avevano assunto, nella politica estera di Ankara, il ruolo centrale di fattore di stabilizzazione e sicurezza regionale48, elemento di cooperazione e avvicinamento politico con gli avversari, prima ancora che con i partner regionali.

Si è già visto come l’Azerbaigian avesse assunto una posizione centrale per lo sviluppo – così come per il fallimento – della coope- razione con gli stati turcofoni della ex-Unione Sovietica. Nello stesso ambito la Turchia sosteneva, nel 1992, il progetto di allargamento della Economic Cooperation Organisation (Eco). L’organizzazione, creata nel 1985 da Turchia, Iran e Pakistan, e finalizzata alla predisposizione di accordi doganali e allo sviluppo di una rete infrastrutturale tra i suoi membri, si apriva così alla partecipazione delle cinque repubbliche centroasiatiche, dell’Afghanistan e dell’Azerbaigian. In occasione dei summit di Quetta e Istanbul, del febbraio e luglio 199349, l’Eco approvava un ambizioso piano d’azione di lungo periodo (da completare entro il 2005), ottenendo contemporaneamente lo status di osservatore presso le Nazioni Unite. Nonostante il promettente inizio, tuttavia, l’organizzazione non ha avuto un significativo impatto sugli scambi economici tra i suoi membri – il cui incremento è stato in linea con i più generali tassi di crescita – né ha sviluppato, al suo interno, meccanismi di consultazione politica. La valenza più profonda dell’Eco sembra dunque essere stata, per Ankara, la disponibilità di un canale istituzionale di cooperazione con Teheran, e di uno strumento per prevenire iniziative economiche unilaterali iraniane nell’area del Transcaucaso e dell’Asia centrale.

Un maggior rilievo ha assunto, nel quadro del multi-regionalismo turco, il progetto di costituzione di un meccanismo di cooperazione per l’area del Mar Nero. All’indomani della proclamazione dell’indipendenza degli Sni, Özal,

47 Dall’analisi dei dati forniti dal Sottosegretariato al Commercio estero turco, emerge infatti come già nel 1992, se si esclude dal computo la Federazione Russa, le esportazioni turche verso l’Azerbaigian costituivano il 42% del totale della esportazioni verso i paesi della Csi. UNDERSECRETARIAT OF THE PRIME MINISTRY FOR FOREIGN TRADE, Exports, http://www.dtm.gov.tr. 48 W. HALE, Turkish Foreign Policy 1774-2000, cit., p. 208. 49 Ö. ÖZAR, Economic Co-operation Organisation: a Promising Future, in «Perceptions», 2, 1997, 1, p. 16.

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riprendendo un progetto elaborato sul finire degli anni Ottanta, si faceva promotore della Black Sea Economic Cooperation (Bsec), lanciata ufficialmente in occasione dell’incontro di Istanbul del giugno 1992. Significativamente l’organizzazione, oltre a includere gli stati rivieraschi del Mar Nero (Russia, Ucraina, Romania, Bulgaria, Georgia) e la Moldova, assumeva contemporaneamente, su iniziativa turca, una più ampia dimensione transcaucasica e balcanica – con la partecipazione di Azerbaigian e Armenia da una parte, e di Grecia e Albania dall’altra. Obiettivo dichiarato dell’organizzazione, la progressiva rimozione degli ostacoli al commercio tra i suoi partecipanti e la predisposizione di progetti congiunti in materia di trasporto, comunicazioni, energia, turismo, agricoltura e protezione ambientale50. A tal fine venivano istituiti un Segretariato Permanente, un’Assemblea Parlamentare e un Consiglio Economico dell’organizzazione, per favorire le cui attività veniva inoltre stabilita la costituzione della Black Sea Foreign Trade and Development Bank, con sede a Salonicco.

Nonostante il lancio in ambito Bsec di una serie di rilevanti progetti infrastrutturali51, non sembra tuttavia che l’organizzazione, come già per il caso dell’Eco, abbia sortito effetti indipendenti sull’aumento degli scambi tra i suoi membri. D’altro canto, la sostanziale inefficacia delle iniziative di cooperazione regionale turche risulta in linea con la più generale tendenza, registrata lungo l’ultimo quindicennio, a una scarsa interazione economica con l’area del Transcaucaso. A tutto il 2005, infatti, le repubbliche transcaucasiche influivano per un modesto 1,1% sul totale delle esportazioni turche52, e per uno 0,5% sulle importazioni53. Di converso, nello stesso 2005, il volume degli scambi con la Turchia si assestava, per l’Azerbaigian al 6,9% del totale54, mentre per la Georgia, nel primo quadrimestre del 2006, al 10%55. Significativamente, in entrambi i casi,

50 B. GÜLTEKIN - A. MUMCU, Black Sea Economic Cooperation, in V. MASTNY - R.C. NATION (eds), Turkey Between East and West: New Challenges for a Rising Regional Power, cit., pp. 179-180. 51 Per ciò che riguarda più propriamente la cooperazione tra Turchia e Transcaucaso, nel 1996 veniva completato l’Eastern Black Sea Telecommunications Project (Dokap), per la costruzione di un collegamento digitale radio tra Turchia, Azerbaigian e Georgia, del valore di 15 miliardi di dollari. M. DEMIRSAR, BSEC Business Conference Promotes Regional Cooperation, in «Turkish Daily News», 2 May 1997. 52 UNDERSECRETARIAT OF THE PRIME MINISTRY FOR FOREIGN TRADE, Exports, http://www.dtm.gov.tr. 53 UNDERSECRETARIAT OF THE PRIME MINISTRY FOR FOREIGN TRADE, Imports, http://www.dtm.gov.tr. Sul volume del commercio estero con il Transcaucaso pesa, peraltro, il provvedimento della chiusura delle frontiere con l’Armenia varato da Ankara nell’aprile 1993 a seguito del conflitto nell’Alto Karabakh. 54 STATE STATISTICAL COMMITTEE OF THE AZERBAIJAN REPUBLIC, Azerbaijan's Main Trading Partners in 2005, in «Azerbaijan in Figures 2006», http://www.azstat.org. 55 NATIONAL BANK OF GEORGIA, Major Foreign Trade Partners of Georgia, in «Bulletin of Monetary and Banking Statistics», April 2006, http://www.nbg.gov.ge.

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il dato relativo alla Turchia risultava nettamente inferiore a quello riguardante la Russia56.

La secondaria valenza economica assunta dalla Bsec non deve tuttavia indurre a sottovalutarne la portata politica. Per quanto il lancio della cooperazione economica non si sia tradotto, come era nelle intenzioni di Özal, in un miglioramento delle relazioni politiche tra i suoi partecipanti, la Bsec ha comunque rappresentato, tra il 1992 e il 1999, un importante “forum for member states to try to settle their differences […] and to enhance Turkey’s image as a cooperative neighbour”57.

2. Ridefinizione pragmatica della politica transcaucasica (1994-2000)

Il sostanziale fallimento, tra il 1991 e il 1994, della politica estera turca verso il Transcaucaso, frutto della mancanza di una coerente strategia regionale prima ancora che di mezzi materiali, era stato reso più manifesto dalla scarsa attenzione che, nei confronti dell’area, mostrarono i principali attori della comunità internazionale. La concomitanza della crisi bosniaca, accompagnata dalla difficile fase di adeguamento alla nuova realtà internazionale delle principali organizzazioni euro-atlantiche, nonché dalla volontà dei principali attori della comunità internazionale di non compromettere i rapporti con la Russia di Elc’in, avevano privato la Turchia di quel sostegno – economico quanto diplomatico – che, solo, avrebbe potuto dare un diverso peso alla direttrice regionale della sua politica estera.

Su questo sfondo, la rottura dell’isolamento internazionale del Transcaucaso, prodottosi a cavallo tra il 1993 e il 1994 a seguito delle iniziative regionali europee e statunitensi, non poté che aprire nuovi rilevanti spazi alla politica estera di Ankara. La Turchia inaugurava infatti un nuovo corso di politica regionale che, gettatasi alle spalle l’eccessiva quanto infondata euforia successiva alla dissoluzione sovietica, si connotava in senso più spiccatamente pragmatico, legandosi a filo doppio alle iniziative regionali statunitensi. Iniziative che, significativamente, si indirizzarono verso i due settori rispetto ai quali la dipendenza degli stati transcaucasici da Mosca aveva reso impraticabile il tentativo di prenderne le distanze: quello della cooperazione alla sicurezza da un lato, e quello economico, con particolare riferimento allo sfruttamento e al trasporto delle risorse energetiche del Mar Caspio, dall’altro.

A favorire il nuovo approccio regionale turco, contribuirono due ulteriori fattori. In primo luogo, la sia pur parziale risoluzione dei conflitti in Abkhazia e Alto Karabakh, introducendo un primo importante fattore di stabilizzazione del 56 Nello stesso periodo di tempo preso in considerazione, la percentuale sul totale del volume di scambi con la Russia si attestava al 12% per l’Azerbaigian e al 17,6% per la Georgia. 57 W. HALE, Turkish Foreign Policy 1774-2000, cit., p. 270; nella stessa direzione C. KING, The New Near East, in «Survival», 43, 2001, 2, pp. 58-59.

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Transcaucaso, conferiva una nuova libertà d’azione a Baku e Tbilisi. In secondo luogo, tale libertà d’azione risultò essere tanto più ampia a partire dalla netta perdita di credibilità regionale cui fu soggetta la Russia all’indomani della fallimentare prima campagna militare in Cecenia58.

2.1 Politica economica ed energetica

Se la volontà di proporre un “modello turco” di sviluppo aveva giocato un ruolo di primo piano nell’iniziale politica di Ankara rispetto agli Sni in generale e all’Azerbaigian in particolare, una motivazione altrettanto valida derivava, parallelamente, dai vantaggi strettamente economici che ne sarebbero derivati per il Paese. Al di là del valore rivestito dalla cooperazione economica nella visione özalista, e della possibilità di aprire nuovi mercati alle esportazioni nazionali, tali vantaggi si concretavano principalmente nella prospettiva di inserimento nel giro d’affari legato allo sfruttamento delle ingenti risorse energetiche del Mar Caspio, rispetto alle quali l’Azerbaigian appariva come il “cork in the bottle”59.

La Turchia, d’altro canto, costituiva un mercato in costante espansione, le cui stime di crescita nel fabbisogno energetico imponevano il tentativo di diversificazione degli esistenti canali di approvvigionamento – principalmente russi. Al di là, tuttavia, della valenza strettamente economica, lo sfruttamento degli idrocarburi del Caspio offriva ad Ankara ben più rilevanti dividendi politici. La necessità di approntare nuove rotte per il trasporto energetico verso i mercati occidentali schiudeva difatti alla Turchia la prospettiva di divenire lo stato-chiave nel transito degli idrocarburi, con notevole incremento della propria valenza strategica, tanto nei confronti degli stati consumatori quanto di quelli produttori di energia. Per questa via dunque, Il Trancaucaso assumeva progressivamente agli occhi di Ankara la duplice potenziale connotazione di fornitore energetico e, contemporaneamente, di primo corridoio rispetto alle risorse energetiche centroasiatiche – kazake, turkmene e uzbeke.

Non è dunque un caso che la questione energetica – con particolare riguardo ai progetti di trasporto – entrasse, sin dal 1992, nell’agenda della politica regionale di Ankara. Subito dopo la proclamazione d’indipendenza azera, difatti, la Compagnia Petrolifera Turca (Türkiye Petrolleri Anonim Ortaklı – Tpao) predisponeva il progetto di costruzione di un oleodotto tra Baku e il porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo60. Tale progetto, che diverrà la pietra angolare della più pragmatica strategia transcaucasica turca degli anni Novanta, veniva formalizzato dalla firma di un memorandum tra i ministri dell’energia turco e azero, il 9 marzo 58 Sul punto, S. BLANK, Russia and Europe in the Caucasus, in «European Security», 4, 1995, 4, p. 638. Per una più approfondita analisi si veda A. LIEVEN, Chechnya: The Tombstone of Russia’s Power, New Haven/London, 1998. 59 Z. BRZEZINSKI, The Grand Chessboard, cit., p. 46. 60 M.F. TAYFUR - K. GÖYMEN, Decision Making in Turkish Foreign Policy: The Caspian Oil Pipeline Issue, cit., p. 110.

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199361 – salvo cadere vittima, dopo la caduta di Elçibey, del riavvicinamento di Aliyev a Mosca. A riaprire definitivamente la partita del trasporto energetico – che, significativamente, minacciava il tradizionale monopolio russo – contribuiva però la firma, nel settembre 1994, del cosiddetto “contratto del secolo” tra Aliyev e il consorzio dell’Azerbaijan International Oil Company (Aioc). Il contratto, finalizzato allo sfruttamento di tre giacimenti caspici azeri62 , prevedeva infatti l’individuazione, in un primo tempo, di una rotta per il cosiddetto early oil e, successivamente, del tragitto per il passaggio della Main Export Pipeline (Mep). La Turchia, rappresentata nell’Aioc da una modesta quota dell’1,75% in capo alla Tpao63 , tornava così a concentrarsi sul nodo del trasporto energetico, favorita questa volta dalla internazionalizzazione della questione.

Se infatti, come sostiene Larrabee, “pipeline projects acquired the role played by railways in late nineteenth century diplomacy, as weapons in a struggle for political as well as economic penetration”64, essi costituivano, al contempo, un fondamentale strumento, in capo agli Sni, per il rafforzamento della propria sovranità e della propria indipendenza rispetto alla sistematizzazione russocentrica dello spazio post-sovietico. Principalmente in questa prospettiva 65 , l’amministrazione Clinton entrava nella partita degli oleodotti caspici, dichiarando nel gennaio 1995, attraverso il proprio ambasciatore ad Ankara 66 , il proprio sostegno ai progetti di trasporto predisposti dalla Turchia, come parte del più ambizioso progetto per la predisposizione di un corridoio energetico est-ovest in grado di coinvolgere i paesi produttori di energia dell’area transcaucasica e centroasiatica. 61 Il memorandum prevedeva l’avvio della costruzione dell’oleodotto, da finanziare con investimenti di istituzioni internazionali e banche estere, a partire dal 1994. A dimostrazione del tentativo turco di mantenere una posizione di equidistanza nel contemporaneo conflitto nell’Alto Karabakh, nessuna indicazione veniva fornita circa il percorso dell’oleodotto, lasciando così aperta una possibile rotta attraverso l’Armenia. P. ROBINS, Suits and Uniforms: Turkish Foreign Policy since the Cold War, cit., p. 303. 62 Va segnalato come, attorno alla titolarità dei giacimenti energetici del Caspio, la Russia sollevasse la questione dello status internazionale del bacino. La connotazione internazionale di “lago”, piuttosto che di “mare”, implicava difatti una “sovranità congiunta” sulla gran parte dello spazio del bacino, con un parallela riduzione delle zone economiche esclusive degli stati rivieraschi. La Turchia, non avendo uno sbocco sul bacino, restava formalmente fuori dalla controversia legale, pur manifestando il proprio sostegno a favore della posizione azera. Sul punto, B.H. OXMAN, Caspian Sea or Lake: What Difference Does It Make?, in «Caspian Crossroads Magazine», 1, 1996, 4; B. JANUSZ, The Caspian Sea: Legal Status and Regime Problems, in «RIIA/REP Briefing Papers», 2005, 2. 63 La partecipazione della Tpao sarebbe cresciuta, sulla base di un accordo siglato il 12 aprile 1995, di un ulteriore 5% ceduto dalla compagnia petrolifera azera Socar. Nell’assicurarsi una maggior quota partecipativa, la Tpao anticipava un analogo tentativo iraniano. Cfr. Keesing's Record of World Events, 48, April 1995. 64 S. LARRABEE, cit. in W. HALE, Turkish Foreign Policy 1774-2000, cit., p. 271. 65 In questo senso, il senatore Brownback, membro del Comitato per le Relazioni Estere del Senato, in S. BROWNBACK, U.S. Economic and Strategic Interests in the Caspian Sea Region: Policies and Implications, in «Caspian Crossroads Magazine», 3, 1997, 2. 66 P. ROBINS, Suits and Uniforms: Turkish Foreign Policy since the Cold War, cit., p. 305.

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La politica transcaucasica della Turchia assumeva così, agli occhi dei suoi beneficiari, la più profonda connotazione di avamposto degli interessi regionali statunitensi. Su questo sfondo, la questione connessa alla individuazione della rotta per l’early oil azero, rappresentò una prima importante saldatura degli interessi e delle posizioni turche con quelle dell’Azerbaigian e di una Georgia che avrebbe assunto, da allora, un ruolo di primo piano nella politica regionale di Ankara. In alternativa a una rotta settentrionale tra Baku e il terminale russo di Novorossijsk67, la Turchia, a seguito della visita del presidente Demirel a Tbilisi del novembre 1994, proponeva infatti la costruzione di un oleodotto tra Baku e Supsa, in Georgia68 . Oltre a determinare un rilevante ambito di cooperazione regionale – aperto ufficialmente con la firma, nel febbraio 1995, dell’Early Oil Transportation Agreement tra Turchia e Georgia – la realizzazione di tale rotta era interpretata, ad Ankara, come primo passo per la possibile individuazione della Mep lungo la direttrice Baku-Ceyhan. Non è un caso, in questo senso, che il Ministero per gli Affari Esteri turco proponesse di finanziare la sua realizzazione, a patto che venisse contemporaneamente ufficializzato un impegno alla successiva predisposizione del prolungamento verso la Turchia69.

Come già accaduto in precedenza rispetto ai conflitti nel Transcaucaso, anche in questo caso, tuttavia, la Turchia manifestò la propria incapacità di predisporre una linea di politica estera coerente e univoca. La mancanza di coordinamento tra le

67 Il tentativo turco di sottrarre credibilità internazionale alla rotta verso il terminale russo sul Mar Nero, si concretò, prima ancora che sul piano strettamente tecnico, nella approvazione di una nuova regolamentazione – entrata in vigore nel novembre 1994 – per la limitazione del passaggio di natanti attraverso gli stretti del Bosforo, unico sbocco al mare per le petroliere russe provenienti da Novorossiisk. La motivazione addotta era di natura strettamente ambientale, ricollegata al rischio di catastrofe ecologica in un’area, quella di Istanbul, abitata da più di 10 milioni di persone. B. SASLEY, Turkey's Energy Politics in the Post-Cold War Era, in «Middle East Review of International Affairs», 2, 1998, 4, pp. 31-32. Per l’evoluzione della regolamentazione sul passaggio attraverso gli Stretti, Y. GÜÇLÜ, Regulation Of The Passage Through The Turkish Straits, in «Perceptions», 6, 2001, 1. 68 Il percorso, se da un lato rifletteva l’opposizione azera a una rotta armena e quella statunitense a una iraniana, dimostrava, al contempo, il pragmatismo insito nelle scelte turche. Numerose erano state infatti le pressioni interne a sostegno del terminale georgiano di Batumi, capoluogo della regione a maggioranza musulmana dell’Agiaria. Tale soluzione era, in particolare, propugnata dalla compagnia nazionale per il gas (Boru Hatları İle Petrol Taşıma A.Ş. - BOTAŞ), allora egemonizzata politicamente dal Partito Nazionalista di Azione. Su questo sfondo, la volontà di non fornire sostegno alle istanze autonomistiche proprie della regione e, di conseguenza, di non creare motivi d’attrito con Tbilisi, induceva il Ministero per gli Affari Esteri turco a gettare il proprio peso a favore del terminale alternativo di Supsa – soluzione peraltro propinata dallo stesso Aioc. Sulle diverse alternative e posizioni internazionali sulla questione delle rotte petrolifere, E. YAZDANI, Competition over the Caspian Oil Routes: Oilers and Gamers Perspective, in «Alternatives», 5, 2006, 1/2. 69 Finanziamento dell’opera era condizionato inoltre all’acquisto esclusivo, da parte della Turchia, del petrolio trasportato, rispetto ala cui quantità Ankara richiedeva un impegno formale per un periodo di otto anni. Infine, la costruzione sarebbe dovuta essere opera di compagnie turche o di consorzi internazionali a guida turca. P. ROBINS, Suits and Uniforms: Turkish Foreign Policy since the Cold War, cit., pp. 306-307.

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principali istituzioni nazionali interessate allo sviluppo della cooperazione energetica si tradusse infatti in uno scontro tra le diverse anime dello spettro politico turco70 che, in un momento di elevata instabilità istituzionale71, comportò nel luglio 1996 il ritiro dell’offerta turca di finanziamento dell’oleodotto azero-georgiano, a opera del governo Erbakan. Su questo sfondo, fu dunque solo il decisivo intervento dell’amministrazione Clinton – promotrice di una soluzione multipla per il trasporto dell’early oil attraverso le due rotte concorrenti – a favorire la scelta dell’oleodotto Baku-Supsa, formalizzata dall’Aioc nell’ottobre 199572 senza che tuttavia Ankara fosse riuscita a promuovere il proprio interesse rispetto alla individuazione della rotta della Mep.

Lungi dall’esaurirsi con la chiusura della controversia relativa all’early oil, l’attivo coinvolgimento statunitense nella questione energetica si manifestò con ancor maggiore determinazione anche in relazione alla successiva individuazione della rotta per la Mep. Al di là delle pressioni a più riprese esercitate sull’Aioc per l’approvazione del progetto di trasporto tra Baku e Ceyhan via Tbilisi (Btc)73, l’esplicito sostegno alla rotta veniva inserito, a partire dal 1997, nella più ampia formulazione di una strategia regionale indirizzata a favorire lo sviluppo di una rete infrastrutturale est-ovest. Rete che faceva della Turchia il perno regionale di un ambizioso sistema di oleodotti e gasdotti transcaucasici e centroasiatici74.

Forte del rinnovato sostegno statunitense, a cavallo tra il 1997 e il 1998, l’influente Consiglio di Sicurezza Nazionale (Csn) turco interveniva direttamente nella formulazione e nel coordinamento della politica energetica del paese. Le sue linee guida75 entravano così, per la prima volta, a far parte del “Documento sulla

70 Sulla mancanza di un centro decisionale unico rispetto alla politica energetica, così come di meccanismi per il coordinamento dei diversi attori in gioco, M.F. TAYFUR - K. GÖYMEN, Decision Making in Turkish Foreign Policy: The Caspian Oil Pipeline Issue, cit., pp. 111-117; G. WINROW, Turkey and the Caucasus: Domestic Interests and Security Concerns, cit., pp. 27-29. 71 Tra l’ottobre 1995 e il luglio 1996, si alternarono infatti in Turchia tre diversi governi retti da maggioranze differenti, due a guida della Çiller (ottobre-novembre ’95 e novembre ’95-marzo ’96), uno di Yılmaz (marzo-luglio ’96). 72 S. BOLUKBASI, The Controversy over Caspian Mineral Resources, in «Europe-Asia Studies», 50, 1998, 3, p. 404. 73 Sull’evoluzione della politica statunitense verso il Caspio, con particolare riferimento al progetto Btc, J. JOFI, Pipeline Diplomacy: the Clinton Administration’s Fight for Baku-Ceyhan, in «WWS Case Study», 1999, 1; S. KOBER, The Great Game, Round 2: Washington’s Misguided Support for the Baku-Ceyhan Oil Pipeline, in «Cato Institute Foreign Policy Briefings», 2000, 63. 74 L’oleodotto Btc avrebbe difatti beneficiato, nelle intenzioni statunitensi, del petrolio estratto nei giacimenti kazaki e trasportato a Baku dal terminale di Aktau. Parallelamente veniva lanciato il progetto Trans-Caspian Gas Pipeline, un gasdotto sottomarino per collegare i giacimenti del Turkmenistan con Baku, da dove un gasdotto parallelo alla Btc avrebbe raggiunto la Turchia. 75 I contorni della politica energetica turca per il secolo a venire erano identificati attorno a quattro punti salienti: (a) la collocazione geografica della Turchia e il suo sistema politico ed economico rendono il Paese uno snodo quasi obbligato sul percorso delle rotte energetiche verso occidente; (b) il crescente fabbisogno energetico della Turchia impone di ottenere il massimo beneficio dalla produzione del Caspio; (c) la rotta Baku-Ceyhan risulta centrale per la politica energetica nazionale; (d) fermo restando il sostegno alla rotta Baku-Ceyhan la Turchia deve promuovere la

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Politica Nazionale” del 1998. Significativamente, inoltre, il Csn riconosceva ufficialmente al Ministero per gli Affari Esteri la titolarità dell’adozione delle misure necessarie al conseguimento degli obiettivi così determinati.

A partire dalla primavera 1998 si moltiplicarono dunque i contatti tra Ankara, Tbilisi e Baku in vista della approvazione del progetto Btc. Un esplicito impegno in tal senso veniva così sancito dalla “Dichiarazione di Ankara”, siglata nell’ottobre successivo, in occasione dei 75 anni dalla proclamazione della Repubblica Turca. La presenza, tra i firmatari, del Presidente uzbeko Karimov e del kazako Nazarbaev, rimarcava una volta di più la portata eurasiatica della collaborazione energetica nell’area del Transcaucaso, in perfetta sintonia con la politica regionale della Casa Bianca – rappresentata, nell’occasione, dal Segretario per l’Energia Bill Richardson. Su questo sfondo, l’accordo intergovernativo per la costruzione della Btc – accompagnato da sei accordi quadro – veniva infine siglato da Demirel, Aliyev e Shevarnadze, alla presenza di Clinton, nel novembre 1999 a Istanbul, a margine di un summit Osce.76 D’altro canto, tra il 1999 e il 2000, la scoperta di nuovi fecondi giacimenti petroliferi in Azerbaigian e Kazachstan, contribuiva a fugare i dubbi sulla valenza economica del progetto sino ad allora nutriti dall’Aioc77. Dopo una serie di studi di fattibilità condotti a partire dal 2000, la costruzione della Btc iniziava così nell’estate 2002 per essere completata nel maggio del 2005.

Parallelamente, nel marzo 2001, Baku e Ankara si accordavano per la costruzione di un gasdotto che, seguendo lo stesso percorso della Btc, avrebbe collegato i giacimenti azeri al terminale turco di Erzurum. L’accordo, ratificato dal parlamento turco nel febbraio del 2003, prevede il completamento del gasdotto entro la fine del 200678. Secondo le stime della BOTAŞ, l’Azerbaigian fornirà, di conseguenza, il 13% del consumo nazionale di gas entro il 201079.

2.2 Politica regionale di sicurezza

La centralità assunta dalle iniziative regionali degli Stati Uniti nella strategia transcaucasica perseguita dalla Turchia a partire dal 1994 emerse in tutta evidenza, più ampia cooperazione regionale, in particolare nei confronti della Russia. M.F. TAYFUR - K. GÖYMEN, Decision Making in Turkish Foreign Policy: The Caspian Oil Pipeline Issue, cit., p. 103. 76 Quanto determinante fosse stato il sostegno statunitense risultò evidente dall’entusiasmo con il quale Clinton salutò l’accordo, indicando come “one of the my proudest accomplishments […] the Caspian pipeline agreement, which I believe, 30 years from now, you'll all look back on as one of the most important things that happened this year”. H. KAZAZ, Clinton's Proudest Achievement This Year Is Caspian Pipeline Agreement, in «Turkish Daily News», 11 December 1999. 77 Ö.Z. OKTAV, American Policies Towards the Caspian Sea and The Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline, in «Perceptions», 10, 2005, 1, pp. 27-28. 78 N. DEVLET, Turkey’s Energy Policy in the Next Decade, in «Perceptions», 9, 2004/2005, 4, p. 76. 79 Ibidem, p. 75.

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oltre che sul piano energetico, su quello della cooperazione alla sicurezza. La progressiva trasformazione della Nato da alleanza difensiva in meccanismo di cooperazione per la sicurezza e la stabilità dell’area eurasiatica80 coinvolse infatti, sin dal principio, le repubbliche del Transcaucaso. Il summit di Bruxelles del gennaio 1994 costituì in questo quadro un fondamentale spartiacque, nella misura in cui, attraverso il lancio della Partnership for Peace (Pfp), veniva offerto agli Sni un primo canale istituzionale di cooperazione bilaterale con l’Alleanza Atlantica finalizzato “to develop, over the longer term, forces that are better able to operate with those of the members”81. Obiettivo, questo, tanto più significativo se letto alla luce della contemporanea approvazione del Combined Joint Task Force Concept, designato a fornire all’Alleanza uno strumento flessibile per operazioni di peacekeeping aperte alla partecipazione di stati non membri 82 . Georgia e Azerbaigian siglavano il Pfp Framework Document rispettivamente nel marzo e maggio del 1994, seguiti dalla Armenia in ottobre.

La dissoluzione dell’Unione Sovietica non aveva rappresentato, per la Turchia, una diminuzione della percezione di minaccia proveniente da nord-est che, al contrario, non poté che essere accentuata dal successo con il quale, tra il 1993 e il 1994, la Russia era riuscita a riportare Georgia e Armenia nella propria orbita militare. Non stupisce dunque che la Turchia fosse tra i promotori della Pfp83, e che ne sfruttasse a fondo le potenzialità di cooperazione regionale84, assumendo il ruolo di principale punto di collegamento tra la Nato e il Transcaucaso. In questo senso, ad esempio, può essere letta la proposta turca, espressa al summit di Sintra del maggio 1997, per l’apertura ad Ankara di un Pfp Training Center. Il centro, inaugurato nel successivo giugno 1998 e finalizzato “to provide qualitative training and education support to partners in accordance with NATO and Pfp general principles and interoperability objectives”85, dava la misura dell’impegno

80 W. CHRISTOPHER - W.J. PERRY, NATO’s True Mission, in «New York Times», 21 October 1997. 81 Ulteriori obiettivi del programma, espressamente rivolto a colmare il vuoto di sicurezza determinatosi, con la caduta dell’Unione Sovietica, nello scacchiere eurasiatico, erano “to facilitate transparency in national defence planning and budgeting processes; to ensure democratic control of defence forces; to maintain the capability and readiness to contribute to operations under the authority of the United Nations and/or the responsibility of the OSCE; to develop cooperative military relations with NATO, for the purposes of joint planning, training and exercises, in order to strengthen ability of Pfp participants to undertake mission in the field of peacekeeping, search and rescue, humanitarian operations, and others as may subsequently be agreed”. NORTH ATLANTIC TREATY ORGANISATION, NATO Handbook, Bruxelles, 2001, p. 68. 82 Ibidem, pp. 253-255. 83 Y. İNAN - İ. YUSUF, Partnership For Peace, in «Perceptions», 4, 1999, 2. 84 In questa prospettiva, la Turchia beneficiava peraltro della presenza, in Georgia e Azerbaigian, di propri attachés militari che, al contrario, Washington nominerà solo nella seconda metà degli anni ’90. Nella prima fase di sviluppo della Pfp, la Turchia giocò un ruolo quasi esclusivo nell’approntare gli accordi logistici necessari al suo sviluppo. 85 PARTNERSHIP FOR PEACE TRAINING CENTER, Our Mission, http://www.bioem.tsk.mil.tr.

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turco alla cooperazione regionale per la sicurezza. Stando ai dati forniti dal centro, tra le venti nazionalità sino a oggi fruitrici dei corsi di addestramento, i militari azeri sono stati secondi solo a quelli provenienti dall’Ucraina, mentre i georgiani quarti86. L’interoperabilità dei contingenti Nato e di quelli azero-georgiani veniva poi propugnata attraverso le esercitazioni militari cui, a partire dal 1997, presero parte contingenti azeri e georgiani, sempre al fianco di quelli turchi.

Lungi dall’esaurirsi con i programmi attuati sotto l’egida Nato, l’impegno di Ankara rispetto all’ammodernamento e organizzazione degli apparati militari di Azerbaigian e Georgia, costituì una parte essenziale della profonda cooperazione bilaterale inaugurata, tra il 1996 e il 1997, dalla Turchia. Dopo un primo accordo di cooperazione tecnico-scientifica siglato nel 1996 tra il Ministero della Difesa azero e il Capo di Stato Maggiore turco87, nel maggio 1997, in occasione di una visita ad Ankara di Aliyev, i due paesi approfondivano la misura della cooperazione. Nell’occasione veniva infatti siglata una dichiarazione sulla Deepened Strategic Cooperation che, benché segretata nel contenuto, impegnava Turchia e Azerbaigian, secondo il Turkish Daily News, “[to] help each other within the context of their strategic partnership using methods foreseen by the United Nations in the event that their sovereignty, territorial integrity, and the inviolability of their borders are endangered” 88 . Anche nei confronti della Georgia, l’avvio della cooperazione militare fu segnato, nell’estate 1996, dall’iniziativa dello Stato Maggiore, che si accordava per l’addestramento militare dell’esercito e per la predisposizione di esercitazioni congiunte. Ulteriori accordi di addestramento e assistenza finanziaria e tecnologica venivano siglati nel settembre 1997, a seguito della visita di Demirel a Tbilisi, nel giugno 1998 e nel marzo 199989. Complessivamente, tra il 1997 e il giugno del 2005 – data della firma dell’ultimo accordo per la sicurezza – Ankara ha sostenuto la modernizzazione delle forze armate georgiane con un impegno finanziario pari a 37 milioni di dollari90.

Tra i fattori che hanno contribuito al lancio della cooperazione militare tra la Turchia e i suoi partner trancaucasici, un ruolo di primo piano ha di certo svolto la 86 Va peraltro rimarcato come il totale dei militari provenienti dalle 10 repubbliche dell’ex fianco meridionale sovietico – dalla Moldova sino al Tagikistan – abbia costituito l’80% sul totale dei militari addestrati sotto l’egida della Pfp. TURKISH PFP TRAINING CENTER, About the Center, http://www.bioem.tsk.mil.tr. 87 Lo Stato Maggiore turco era stato tradizionalmente in prima linea nel sostenere la necessità di una più stretta collaborazione militare tra Turchia e Azerbaigian. L’allora Capo di Stato Maggiore, Güreş, era stato il primo rappresentante delle istituzioni turche a visitare Baku – un mese prima che l’Azerbaigian venisse ufficialmente riconosciuto. Logico presupporre inoltre, nonostante le smentite ufficiali, che allo Stato Maggiore vada ascritta la paternità dell’accordo in base al quale, nel 1992, un centinaio di ex-ufficiali turchi arrivavano in Azerbaigian in qualità di consiglieri militari – per essere poi espulsi in conseguenza del riavvicinamento di Aliyev a Mosca. 88 Cit. in G.E. HOWARD, NATO and the Caucasus: The Caspian Axis, in S.J. BLANK (ed.), NATO After Enlargement: New Challenges, New Missions, New Forces, Carlisle, 1998, p. 177. 89 J. FEINBERG, The Armed Forces in Georgia, in «Center for Defense Information Monograph», March 1999, p. 28. 90 D. LYNCH, Why Georgia Matters, in «Chaillot Papers», 2006, 86, p. 58.

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comune volontà di controbilanciare la pressione russa sull’area. Una necessità, questa, tanto più avvertita in relazione ai contemporanei sforzi di Mosca volti a ottenere una favorevole revisione dei tetti imposti dal trattato sulle Forze Convenzionali in Europa (1990) ai contingenti dispiegabili nella flank zone del Caucaso 91 . Per la Georgia, la presa di distanza da Mosca si concretava principalmente nella possibilità di assumere direttamente la responsabilità del pattugliamento dei propri confini e delle acque territoriali nel Mar Nero. In questa prospettiva, dal 1996 la Turchia – assieme a Germania, Stati Uniti e Ucraina – lanciava un programma di addestramento di truppe di frontiera, che dall’estate 1999, a seguito del ritiro russo, divenivano operative sul confine turco-georgiano in Agiaria. Parallelamente, con Stati Uniti e Gran Bretagna, la Turchia assumeva l’onere di dotare Tbilisi di una marina militare in grado di assicurare un pattugliamento costiero sino ad allora esclusiva responsabilità delle imbarcazioni russe 92 . In questa prospettiva, Ankara cedeva alla Georgia una delle 17 imbarcazioni che avrebbero costituito la base della marina e organizzava contestualmente un’esercitazione navale congiunta, la “Kavkazskaya Amazoni-98”, nel maggio 199893 . A partire dal luglio successivo, la marina georgiana iniziava dunque la progressiva sostituzione di quella russa.

Allo stesso modo, per l’Azerbaigian, la cooperazione militare con la Turchia – il cui esercito era numericamente secondo, in ambito Nato, solo a quello statunitense – rappresentava anzitutto un contrappeso alla crescente cooperazione russo-armena. Non è un caso, in questo senso, che la Deepened Strategic Cooperation turco-azera venisse lanciata a breve distanza rispetto all’emergere dello scandalo del “Yerevangate”, legato alla rivelazione del trasferimento di armamenti russi all’Armenia per un valore superiore al miliardo di dollari, nel periodo 1994-199694.

91 Mosca richiedeva inoltre che dal computo totale delle forza dispiegate venissero esclusi i contingenti impegnati in attività di peacekeeping. Per l’analisi delle problematiche che emergevano rispetto alla applicazione e alla revisione del Trattato CFE, R.A. FALKENRATH, The CFE Flank Dispute: Waiting in the Wings, in «International Security», 19, 1995, 4; G. AYBET, The CFE Treaty: The Way Forward For Conventional Arms Control In Europe, in «Perceptions», 3, 1996, 4; R. HUBER, NATO Enlargement and CFE Ceilings: A Preliminary Analysis in Anticipation of a Russian Proposal, in «European Security», 5, 1996, 3. 92 A rendere l’esigenza di cooperazione navale con Tbilisi più pressante, l’incidente occorso nel marzo 1996, allorché una nave militare russa apriva il fuoco su un peschereccio turco in acque territoriali georgiane, causando un pesante incidente diplomatico tra Ankara e Mosca. G.E. HOWARD, NATO and the Caucasus: The Caspian Axis, cit., p. 185. 93 J. FEINBERG, The Armed Forces in Georgia, cit., pp. 27-28. 94 “The massive transfer of arms also included the gift of over 32 Scud ballistic missiles and 8 associated launchers to the Armenian military. Armenian military personnel even received extensive training in the use of the missiles at the Russian testing range of Kapustin Yar in mid-1996. […] Moreover, the transfer of nearly 100 sophisticated T-72 tanks and 50 armored vehicles greatly augmented the military muscle of the Armenian-backed forces of Nagorno-Karabakh”. G.E. HOWARD, NATO and the Caucasus: The Caspian Axis, cit., p. 196.

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Se è innegabile, come sostiene Köknar, che “having established a sophisticated combination of military, law enforcement, and intelligence relationship with Azerbaijan and Georgia, [Turkey] has been successful in exerting its power to offset […] other competing influences”95, non si può non riconoscere, tuttavia, come tale “combinazione” abbia determinato una serie di ricadute negative sulla più ampia sicurezza dell’area transcaucasica. La stessa centralità assunta dalla Turchia rispetto alle iniziative regionali della Nato, ad esempio, finiva per pesare sulla volontà di collaborazione dell’Armenia, spinta più risolutamente a cercare altrove garanzie di sicurezza e sostegno finanziario-tecnologico. Se il Trattato di Amicizia, Collaborazione e Mutua Assistenza siglato con la Russia nell’agosto 1997 confermava una volta di più la centralità rivestita da Mosca nella politica estera armena, Erevan inaugurava contemporaneamente la cooperazione alla sicurezza con la Grecia96. In questo quadro, i tre accordi militari greco-armeni siglati tra il 1996 e il 1997 – assieme al lancio di una cooperazione trilaterale tra Grecia, Armenia e Iran 97 – fomentarono i timori di “accerchiamento”, tradizionalmente parte integrante delle politiche di sicurezza di Ankara 98 . Il processo di polarizzazione degli schieramenti regionali ebbe modo di manifestarsi, in tutta evidenza, nel corso del 1999. Lo scoppio della crisi kosovara, sullo sfondo della ridefinizione del Concetto Strategico dell’Alleanza Atlantica, vide Georgia e Azerbaigian prendere, da un lato, le distanze dalla condanna della Csi dell’intervento Nato e, dall’altro, dispiegare propri contingenti nel Turkbat, il battaglione turco di peacekeeping di stanza in Kosovo nell’ambito della Kfor99. Parallelamente essi dichiaravano inoltre la propria intenzione di non rinnovare il Trattato sulla Sicurezza Collettiva della Csi – al contrario dell’Armenia che lo sottoscriveva, assieme a Russia, Bielorussia, Kazachstan, Kirghizistan e Tagikistan in aprile.

La progressiva connotazione di “gioco a somma zero” che la cooperazione alla sicurezza andò assumendo nella regione transcaucasica nel corso della seconda metà degli anni ’90, non poté d’altro canto che influire negativamente sulla stessa

95 A.M. KÖKNAR, Turkey and the Caucasus: Security and Military Challenges, in M. RADU (ed.), Dangerous Neighborhood: Contemporary Issues in Turkey’s Foreign Relations, cit., p. 93. 96 Significativamente, Atene diveniva al contempo il canale privilegiato per la cooperazione tra l’Armenia e la Nato, come dimostrato dalla partecipazione di contingenti armeni alla esercitazione militare Prometheus-97 organizzata e ospitata dalla Grecia nel dicembre 1997. 97 Nonostante il meccanismo trilaterale avesse una connotazione principalmente economica, l’incontro dei ministri degli esteri dei tre paesi a Teheran nel settembre 1998 sollevò notevoli preoccupazioni ad Ankara. Riferendosi all’incontro, il Ministro degli esteri turco Cem arrivò ad accusare la Grecia di “recruit Muslim soldiers to take part in the new Crusades”. Cit. in P. ROBINS, Suits and Uniforms: Turkish Foreign Policy since the Cold War, cit., p. 171. 98 Il riferimento va qui a quella che viene comunemente indicata come la “sindrome di Sèvres”. Richiamando l’omonimo trattato del 1920, base della spartizione del territorio turco tra le grandi potenze, si sottolinea la costante percezione di minaccia alla integrità territoriale turca proveniente dall’azione congiunta degli avversari regionali di Ankara. 99 G. WINROW, Turkey and the Caucasus: Domestic Interests and Security Concerns, cit., p. 25; A.M. KÖKNAR, Turkey and the Caucasus: Security and Military Challenges, cit., p. 95.

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efficacia della azione di Ankara. Non stupisce infatti che, su questo sfondo, la proposta avanzata dalla Turchia nel luglio 1998 per la creazione, in ambito Pfp, di una forza di peacekeeping Nato per il Caucaso, fosse destinata al fallimento. Un fallimento, quest’ultimo, tanto più rilevante in ragione della primaria importanza che Georgia e Azerbaigian avevano attribuito a tale possibilità sin dall’inizio della collaborazione con la Nato.

Che la Turchia fosse consapevole dei rischi che la polarizzazione degli schieramenti regionali portava con sé, risulta evidente dalla considerazione che, anche in questa fase, il maggior attivismo di Ankara nel Transcaucaso non si traduceva nel rovesciamento della tradizionale cautela della propria politica estera. Non è un caso, in questo senso, che la Turchia, non solo non entrasse in alleanze militari con Georgia e/o Azerbaigian 100 , ma evitasse contemporaneamente di assumere iniziative autonome di peacekeeping 101 o di avvicinarsi a quelle formazioni regionali, quali il Guuam, percepite come schieramenti regionali anti-russi 102 . Secondo la stessa logica, mostrava inoltre tutta la propria ritrosia a lanciare progetti di pattugliamento congiunti turco-georgiano-azeri per garantire la sicurezza delle rotte petrolifere che attraversavano – o avrebbero attraversato – i rispettivi territori, lambendo zone di conflitto o, nel caso della Turchia, soggette alle attività terroristiche del Pkk103.

100 Baku in particolare, in risposta alla saldatura militare dell’asse russo-armeno, sembra abbia insistito sulla possibilità di un patto di mutua difesa in almeno due occasioni. La prima di queste risale al maggio 1997, allorché, a seguito dello “Yerevangate”, dopo intensi colloqui con lo Stato Maggiore turco, Aliyev riusciva a ottenere solo il blando impegno contenuto nella dichiarazione sulla Deepened Strategic Cooperation (G.E. HOWARD, NATO and the Caucasus: The Caspian Axis, cit., pp. 176-177). Ancora, in occasione della visita ad Ankara del febbraio 1999, Aliyev richiedeva senza successo un trattato turco-azero ricalcato sul patto di Amicizia Collaborazione e Mutua Assistenza russo-armeno del 1997 (D.B. SEZER, Turkish-Russian Relations: From Adversity to ‘Virtual Rapprochement’, in A. MAKOVSKY - S. SAYARI, Turkey’s New World, p. 100). Parallelamente il governo turco smentiva la possibilità, adombrata dal Consigliere per la Politica Estera azero Gülüzade, dell’apertura di una base militare turca in Azerbaigian (G. WINROW, Turkey and the Caucasus: Domestic Interests and Security Concerns, cit., pp. 24-25). 101 In questo senso va letto il rifiuto opposto da Ankara, nel dicembre 2001, alla proposta georgiana di sostituzione delle truppe di peacekeeping russe schierate sul confine tra la Georgia e l’Abkhazia. V. KORKMAZ, Dynamics of Turkish Foreign Policy Towards South Caucasus; Continuities and Changes, in N. ATEŞOĞLU GÜNEY - F. AKSU (eds.), Proceedings of the International Conference on the Prospects for Cooperation and Stability in the Caucasus, March 1st, 2005, İstanbul, İstanbul 2005, p. 29. 102 Il favore con il quale buona parte degli analisti statunitensi guardava alla possibilità dell’ingresso turco nel gruppo consultivo del Guuam, è ben dimostrato dall’auspicio espresso in tal senso da Brzezinski nel settembre 1999. RFE/RL Newsline, 3, 1999, 183. 103 Un accordo a tre in tal senso veniva siglato, in un mutato contesto regionale, nel successivo 2002. I. TORBAKOV, A New Security Arrangement Takes Shape In The South Caucasus, in «Eurasia Insight», 24 January 2002.

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3. Il processo di revisione della politica transcaucasica turca a partire dal 2000

Per quanto la linea pragmatica di politica transcaucasica turca avesse fatto registrare, tra il 1995 e il 2000, una serie di rilevanti successi sul piano della cooperazione militare ed energetica, essa non era tuttavia riuscita a offrire a Georgia e Azerbaigian concrete alternative per risolvere quelle problematiche che ancora ne inficiavano il processo di state building. Il congelamento dei rispettivi conflitti interni, associato a una cooperazione energetica che aveva mancato di assicurare quei veloci e cospicui dividendi economici che essi avevano auspicato, finirono per mettere in luce le contraddizioni insite nella politica regionale turca, sullo sfondo dell’allineamento a quella statunitense. Contraddizioni legate a una politica estera che, pur perseguendo una linea di basso profilo, aveva finito tuttavia per divenire parte integrante di un progressivo processo di polarizzazione degli schieramenti regionali. Contraddizioni infine che, rese più evidenti dalla più assertiva politica transcaucasica inaugurata dalla Russia di Vladimir Putin tra il 1999 e il 2000, fecero registrare un netto arretramento delle posizioni conquistate da Ankara nell’area, imponendo una ridefinizione degli strumenti di cooperazione verso l’area.

3.1 La nuova strategia regionale della Turchia

La dissoluzione dell’Unione Sovietica non aveva comportato, come detto, una ridefinizione del concetto strategico alla base della politica estera turca. La percezione di una minaccia proveniente dalla Russia aveva così determinato buona parte delle scelte compiute da Ankara verso il Transcaucaso nel corso degli anni Novanta, tanto sul piano energetico quanto della sicurezza. Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni 2000, tuttavia, maturava ad Ankara un ampio dibattito sulla revisione del fondamento del proprio concetto strategico 104 . Incentivato in larga misura dalla prospettiva di apertura dei negoziati per l’ingresso nell’Ue – a seguito della decisione del Summit di Helsinki del dicembre 1999 – e favorito dal clima di più ampia cooperazione regionale determinatosi all’indomani dell’11 settembre, esso si traduceva in un cambio di prospettiva riguardo l’azione di politica regionale. Una azione che, pur mantenendo ferma la cooperazione tradizionalmente perseguita sotto l’egida delle organizzazioni regionali di cui era parte – Nato e Osce in primis – poneva rinnovata enfasi sulla collaborazione multilaterale e sulla necessità di coinvolgimento di tutti gli attori transcaucasici nel tentativo di colmare quel vuoto di sicurezza che ancora minava la stabilità dell’area.

In questa prospettiva, e sullo sfondo di un deciso riavvicinamento di Ankara a Mosca105 , Demirel si faceva promotore, nel gennaio del 2000, di un Patto di 104 Si veda, a riguardo, P. BILGIN, Turkey’s Changing Security Discourses: The Challenge of Globalisation, in «European Journal of Political Research», 44, 2005, 1. 105 Sul punto, F. HILL - O. TASPINAR, Russia and Turkey in the Caucasus: Moving Together to Preserve the Status Quo?, in «IFRI Russie Nei Visions», 2006, 8.

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Stabilità per il Caucaso modellato su quello già approvato per i Balcani nel luglio 1999106 . L’accordo, proposto in occasione di una visita a Tbilisi del 14 e 15 gennaio, era rivolto alla costituzione di un meccanismo deputato, in linea con le norme e i valori Osce, alla più ampia gestione dei conflitti ancora aperti nel Transcaucaso, e alla successiva predisposizione di uno strumento di diplomazia preventiva. Il Patto, aperto alla partecipazione di tutti i membri Osce, veniva espressamente proposto alle tre repubbliche transcaucasiche e alla Russia107.

Il contemporaneo fallimento del negoziato di pace di Davon tra Armenia e Azerbaigian per l’Alto Karabakh, tuttavia, limitava sul nascere le possibilità di successo dell’iniziativa turca. Inoltre, rimarcando una volta di più la limitata libertà d’azione nel Transcaucaso che la partnership turco-azera concedeva ad Ankara, Erevan e Mosca condizionavano la firma di un accordo sul Caucaso alla normalizzazione dei rapporti tra Turchia e Armenia.

L’accento posto da Ankara sullo sviluppo della cooperazione multilaterale nel Transcaucaso si riflesse inoltre, a partire dal 1999, nella rinnovata attenzione verso quella Bsec che costituiva l’unica struttura regionale comprendente, oltre alla Turchia, le repubbliche transcaucasiche e la Russia. Tra il 1999 e il 2001, la Bsec si dotava infatti di uno statuto e di un ambizioso piano d’azione economica, enfatizzando “the importance of joint projects which would bring in tangibile benefits and stimulate internal reforms and integration of national economies in the region” 108 . Significativamente inoltre, se fino al 1999 la Bsec aveva manifestato l’intenzione di sostenere la pace e la stabilità regionale “by applying the pragmatic concept that economic cooperation is an effective confidence-building measure and serves as a pillar in the new European architecture”109, con la dichiarazione rilasciata a margine del Decennial Summit di Istanbul del giugno 2002, si sottolineava l’intenzione di “to consider ways and means of enhancing contribution of the Bsec to strengthening security and stability in the region”110.

Che la cooperazione nel bacino del Mar Nero assumesse una rinnovata centralità nel quadro della politica transcaucasica di Ankara, è ulteriormente dimostrato dalla contemporanea ripresa di un progetto, datato 1998, per la cooperazione navale alla sicurezza dell’area 111 . Prendeva così forma il Black Sea Naval Cooperation Task Group (Blackseafor). Formalizzato a Istanbul nell’aprile 2001 a 106 S. GULTASLI, Demirel Suggests Caucasus Stability Pact, in «Turkish Daily News», 16 January 2000. 107 G. WINROW, Turkey and the Caucasus: Domestic Interests and Security Concerns, cit., pp. 60-61. 108 M. AYDIN, Europe’s Next Shore: The Black Sea Region after EU Enlargement, in «ISS Occasional Papers», 2004, 53, p. 22. 109 BLACK SEA ECONOMIC COOPERATION, Istanbul Summit Declaration, Istanbul, 17 November 1999, http://www.bsec-organization.org. 110 REPUBLIC OF TURKEY, MINISTRY OF FOREIGN AFFAIRS, The Text of the Istanbul Decennial Summit Declaration (25 June, 2002), http://www.mfa.gov.tr. 111 H. ULUSOY, A New Formation in the Black Sea: BLACKSEAFOR, in «Perceptions», 4, 2001/2002, 4.

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opera dei sei stati rivieraschi del Mar Nero, il meccanismo, con l’obiettivo di approfondire la cooperazione tra i suoi partecipanti e contribuire alla stabilità dell’area, veniva finalizzato al compimento di missioni di salvataggio, umanitarie, di sminamento e di protezione ambientale nel bacino 112 . Su iniziativa turca, inoltre, la Blackseafor lanciava, a partire dall’incontro dei Ministri degli Esteri tenutosi ad Ankara nel gennaio 2004, un forum di consultazione politica, nel cui ambito l’organizzazione aggiungeva alle proprie finalità la cooperazione antiterroristica e contro il traffico di armi di distruzione di massa113. L’iniziativa, oltre a segnare un’ulteriore saldatura della cooperazione russo-turca, marcava per la prima volta, la presa di distanza di Ankara dalla politica regionale di sicurezza propugnata dagli Stati Uniti. Evidente risultava infatti la concorrenzialità del progetto rispetto all’operazione navale Nato Active Endeavour, lanciata nel Mediterraneo con le stesse finalità a partire dall’ottobre 2001, e suscettibile, nei programmi statunitensi, di estendersi al bacino del Mar Nero 114 . Come sottolineato da un recente hearing innanzi alla Commissione del Senato statunitense per le Relazioni Estere, l’opposizione turca a una simile eventualità sembrava fondarsi, prima ancora che sulla volontà di non aprire il passaggio attraverso gli Stretti a unità navali non appartenenti a stati rivieraschi, sul proposito di evitare nuove linee di polarizzazione nello spazio transcaucasico115.

La presa di distanza dalla politica transcaucasica di Washington era peraltro già emersa, sebbene in maniera più latente, rispetto alla freddezza con la quale Ankara aveva accolto la “rivoluzione delle rose” georgiana, nel novembre 2003. L’enfasi posta dalla Casa Bianca sul processo di democratizzazione del Transcaucaso – sullo sfondo del più generale impegno a favore della democratizzazione nello spazio del Grande Medio Oriente – era passibile, agli occhi di Ankara, di tradursi in un rinnovato impegno a favore della causa dell’autodeterminazione dei popoli. Principio che, prima ancora che contraddire le linee guida della politica regionale di Ankara, veniva percepito come minaccia all’integrità territoriale turca 116 – tanto più in connessione alla rinascita dell’insorgenza curda interna e alle prospettive di partizione dell’Iraq, oltre che, naturalmente, alle rivendicazioni armene sul territorio anatolico.

112 BLACKSEAFOR, Agreement for the Establishment of Black Sea Naval Cooperation Task Group, http://www.blackseafor.org. 113 Si vedano, in questo senso, le dichiarazioni di Ankara (19 gennaio 2004), Mosca (7 luglio 2004) e Kiev (31 marzo 2005), in REPUBLIC OF TURKEY, MINISTRY OF FOREIGN AFFAIRS, BLACKSEAFOR, http://www.mfa.gov.tr. 114 Russia agrees to join Turkish security operation in Black Sea, in «RIA Novosti», 29 June 2006. D’altro canto l’opposizione turca all’estensione del progetto al Mar Nero si è già manifestata, bloccandolo, nel giugno 2004. B.P. JACKSON, The Future of Democracy in the Black Sea Area, in «Hearing before the Committee on Foreign Relations, United States Senate», 8 March 2005, p.4, http://www.foreign.senate.gov. 115 Z. BARAN, The Future of Democracy in the Black Sea Area, in «Hearing before the Committee on Foreign Relations, United States Senate», 8 March 2005, pp. 9-10, http://www.foreign.senate.gov. 116 Z. BARAN, The Future of Democracy in the Black Sea Area, cit.

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Il tentativo turco di propugnare un meccanismo regionale multilaterale per la “soft security cooperation” è stato d’altro canto frutto di un più generale processo di “europeizzazione” della politica estera turca, inteso come il “foreign policy change at the national level originated by the adaptation pressures and the new opportunities generated by the European integration process”117. La decisione del Summit europeo di Helsinki di accordare alla Turchia lo status di candidato all’ingresso nell’Ue, ha infatti costituito un elemento determinante sulla strada della revisione della politica transcaucasica di Ankara. La cooperazione per la lotta la terrorismo, alla diffusione e al traffico delle armi di distruzione di massa, così come al traffico internazionale di stupefacenti, è in questo senso pienamente in linea con la strategia di sicurezza europea adottata nel dicembre 2003118.

La prospettiva di apertura dei negoziati per l’ingresso nell’Unione imponeva peraltro al governo turco di affrontare i nodi irrisolti della politica estera di Ankara, di risolvere cioè quei contenziosi regionali che ne mettevano a rischio il cammino europeo. La centralità rivestita, per il governo Erdoğan, dal vettore europeo della politica estera si traduceva quindi nella necessità di riaprire, sul versante transcaucasico, la datata e insidiosa questione della normalizzazione dei rapporti con l’Armenia119. Il summit Nato di Madrid, del giugno 2003, costituiva in questo senso un primo importante spartiacque. Nell’occasione infatti, a margine di un incontro separato tra il Ministro degli Esteri armeno Oskanian e il turco Gül, quest’ultimo dichiarava l’intenzione di perseguire la riconciliazione dei due paesi “with renewed energy” 120 . Condizionando la normalizzazione dei rapporti esclusivamente alla fine delle rivendicazioni armene sull’Anatolia orientale, Gül, nel tentativo di svincolare i rapporti turchi con l’Armenia da quelli con l’Azerbaigian, modificava considerevolmente la posizione tenuta dalla Turchia nel precedente decennio. Nonostante una serie di incontri successivi, tra l’estate del 2003 e il 2004, le possibilità di soluzione del contenzioso sono andate tuttavia progressivamente assottigliandosi. Un primo rilevante ostacolo è stato rappresentato dalla dura reazione azera alla prospettiva di riapertura delle frontiere turco-armene che, dall’angolazione di Baku, si sarebbe tradotta in un duro colpo

117 J. VAQUER, cit. in G. WINROW, Turkey’s Changing Regional Role and Its Implications, in «Paper Presented at the Conference “Europeanization and Transformation: Turkey in the Post-Helsinki Era”», Istanbul, 2-3 December 2005, p. 4, http://www.ces.bilgi.edu.tr. 118 M. EMERSON - N. TOCCI, Turkey as a Bridgehead and Spearhead: Integrating EU and Turkish Foreign Policy, in «CEPS EU-Turkey Working Papers», 2004, 1, p.4. 119 La collegata possibilità di riapertura del confine turco-armeno, risultava peraltro importante per contrastare il progressivo impoverimento dei distretti orientali di Kars, Van e Ardahan. Una necessità tanto più avvertita ad Ankara in connessione alla riduzione dello squilibrio economico regionale che costituisce un non secondario problema sulla strada dell’ingresso turco nell’Unione. Sulle implicazioni economiche della chiusura della frontiera, B. GÜLTEKIN, The Stakes of the Opening of Turkish-Armenian Border: The Cross-Border Contacts between Armenia and Turkey, in «French Institute of Anatolian Studies Working Paper», 2002), http://www.tabdc.org. 120 H. KHACHATRIAN, Olive Branch from Ankara Raise Hopes and Challenges in Armenia, in «Eurasia Insight», 24 June 2003.

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al proprio potere negoziale rispetto all’Alto Karabakh121. D’altro canto, il dibattito interno alla Turchia sulla questione armena si è andato progressivamente intrecciando con quello relativo alla effettiva desiderabilità dell’ingresso nell’Unione Europea, i cui sostenitori diminuirono notevolmente dopo lo slittamento dei termini per l’apertura dei negoziati, previsti per il dicembre 2004. Su questo sfondo, la ripresa della campagna internazionale per il riconoscimento del genocidio armeno in occasione del suo novantennale (aprile 2005), le connesse manifestazioni di solidarietà al popolo armeno provenienti dalle principali capitali e dal Parlamento Europeo122, nonché le pressioni esercitate su Ankara dalla Commissione Europea123, rinvigorivano la tradizionale “sindrome di accerchiamento” diffusa in Turchia. La questione della normalizzazione dei rapporti con l’Armenia finiva così per essere vittima del più ampio scontro tra il riformismo del governo Erdoğan e il conservatorismo di buona parte dello spettro politico e istituzionale turco, per il quale il cammino europeo imponeva un’inaccettabile ridimensionamento delle garanzie di sicurezza nazionale.

4. Conclusioni

Il Transcaucaso ha rappresentato, a partire dal 1991, un importante banco di prova per la ridefinizione del ruolo internazionale e regionale della Turchia. Se il fallito tentativo di proporsi agli Sni come modello di sviluppo era frutto, anzitutto, della volontà di rifondare una valenza strategica internazionale post-guerra fredda, allo stesso modo il pragmatico tentativo di bilanciare una più assertiva politica regionale con il tradizionale legame con le organizzazioni euro-atlantiche, era in linea con l’affermazione di una “good international citizenship” 124 . Del tentativo cioè di presentarsi, agli occhi dei propri alleati internazionali, come affidabile attore regionale, punto di riferimento centrale per attività multilaterali in paesi limitrofi o culturalmente affini alla Turchia – dalla Georgia all’Azerbaigian, dalla Bosnia alla Albania, dal Kosovo all’Afghanistan.

Una good international citizenship che nella seconda metà degli anni Novanta è tuttavia rimasta vittima, nello spazio postsovietico, della eccessiva identificazione della Turchia con le iniziative regionali di Washington che, favorendo la polarizzazione di schieramenti contrapposti, hanno finito per minare le 121 F. ISMAILZADE, Azerbaijan Concerned by Possible Turkish-Armenian Normalization, in «Eurasia Insight», 7 July 2003. 122 Il Parlamento Europeo, che ha riconosciuto il genocidio armeno nel 1987, apriva la seduta del 14 aprile con un minuto di silenzio a memoria delle sue vittime. Armenians Seek EU Platform for Disputes with Turkey, in «Turkish Daily News», 15 April 2005. 123 In maggio, il rappresentante della Commissione Europea ad Ankara, Kretschmer, dopo aver rimarcato le mancanze istituzionali e legislative che ancora ostacolavano il percorso della Turchia verso l’Unione Europea, aggiungeva che “The Armenian issue is not a criterion for membership. But it is an issue that Turkey needs to urgently face up to”. Kretschmer: Turkey Far from Meeting EU Entry Conditions, in «Turkish Daily News», 7 May 2005. 124 P. ROBINS, Suits and Uniforms: Turkish Foreign Policy since the Cold War, cit., p.42.

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fondamenta del tentativo turco di non lasciarsi catturare dalla competizione regionale con l’Iran e, soprattutto, con la Russia. In questo senso, dunque, la cooperazione con il Transcaucaso si va delineando oggi come frutto del tentativo di propugnare una nuova politica regionale che, con una spiccata enfasi sul multilateralismo e un rinnovato interesse alla cooperazione con Mosca, persegua più risolutamente l’interesse nazionale turco.

Se la politica transcaucasica di Ankara è risultata centrale nel rifondare la valenza strategica del paese rispetto ai propri partner occidentali, essa ha al contempo rivestito un ruolo di primo piano anche sul piano interno. Essa ha infatti rappresentato un terreno privilegiato di scontro e di sintesi per le diverse istanze generate dal processo di democratizzazione aperto in Turchia nel corso degli anni Novanta. La nuova dialettica inter-istituzionale, il rapporto della politica con la società civile, il ruolo dell’iniziativa economica e culturale privata, sono tutte questioni che si sono infatti intrecciate a doppio filo con la predisposizione della politica verso il Transcaucaso.

Lungi dall’essersi concluso, il processo di ridefinizione del ruolo internazionale e regionale di Ankara – e con esso la cornice nella quale sviluppare i rapporti con il Transcaucaso – resta ancora aperto e incerto negli sbocchi. La prospettiva di ingresso nell’Ue, così come la rinnovata attenzione che Bruxelles ha rivolto al Caucaso a partire dal 2004, rappresentano elementi di potenziale rafforzamento e stabilizzazione della politica regionale della Turchia, passibile di divenire l’unico confine europeo terreste con il Transcaucaso. Molto dipenderà, in questo senso, dalla capacità di entrambe le parti di armonizzare i propri interessi e le proprie politiche nell’area, dalla capacità di Bruxelles di sostenere le iniziative regionali turche – come, ad esempio, il Patto di Stabilità per il Caucaso – e, parallelamente, di quella di Ankara di liberarsi dei legacci che ancora ne imbrigliano la politica regionale – a partire dalla risoluzione di quella questione armena che continua a rappresentare il principale ostacolo al superamento del deficit di sicurezza del Transcaucaso.

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FONTI ENERGETICHE E INFRASTRUTTURE DI TRASPORTO

Silvia Tosi

1. Le risorse energetiche del bacino del Mar Caspio

Negli ultimi anni la regione del Mar Caspio e del Caucaso ha sempre più richiamato l’attenzione internazionale: politici e analisti hanno infatti ripetutamente sottolineato la rilevanza degli Stati rivieraschi e delle risorse energetiche (petrolio e gas naturale) da essi possedute in misura consistente. Merita sottolineare tuttavia che mancano statistiche ufficiali relative alle riserve e alla produzione delle risorse del bacino del Caspio e le stime variano considerevolmente. Tanto in Russia quanto in Iran (due dei cinque Stati rivieraschi del Mar Caspio) lo sfruttamento delle risorse situate nel bacino del Caspio è stato finora relativamente ridotto, sicché la quasi totalità delle riserve e della produzione di idrocarburi della regione provengono dalle repubbliche un tempo appartenenti all’Unione Sovietica, che nel complesso possiedono riserve petrolifere stimate pari a 48,5 miliardi di barili, ovvero equivalenti ad un sesto delle riserve dei Paesi non appartenenti all’Opec, e nel 2005 hanno prodotto quasi 2 milioni e 300mila barili di petrolio al giorno, pari all’incirca al 5 per cento della produzione non-Opec1. Così riviste, le stime relative alle riserve petrolifere del Caspio variano tra i 17 e i 33 miliardi di barili (equivalenti rispettivamente alle riserve del Qatar e degli Stati Uniti), con una produzione che secondo gli analisti nel 2010 dovrebbe assestarsi tra i 2 milioni e mezzo e i 6 milioni di barili al giorno (superiore nel complesso alla produzione del Venezuela, il principale produttore petrolifero dell’America Latina), mentre le stime relative alle riserve di gas naturale ammontano a poco meno di 7 miliardi di metri cubi (più o meno equivalenti alle riserve di gas dell’Arabia Saudita)2.

La crescente rilevanza internazionale della regione si è rispecchiata quindi in un deciso incremento nella produzione e nell’estrazione di queste preziose risorse, particolarmente evidente nelle repubbliche dell’ex-Unione Sovietica a seguito dell’indipendenza, e soprattutto in Kazachstan e Azerbaigian, grazie alla 1 BP, Statistical Review of World Energy 2006, London, 2006, pp. 4-6 e 20-22 (dati disponibili aggiornati al 2005, http://www.bp.com) e United STATES ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION, International Energy Outlook 2005, Washington D.C., 2005, passim, http://www.eia.doe.gov. 2 R. WINSTONE - R. YOUNG, The Caspian Basin, Energy Reserves and Potential Conflicts, London, 2005, pp. 35-36.

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realizzazione di alcuni nuovi progetti di sfruttamento relativi ai giacimenti di Karachaganak (Kazachstan) e Azeri-Chirag-Gunashli (Azerbaigian) per ciò che riguarda il petrolio, Kashagan (Kazachstan) e Shah Deniz (Azerbaigian) per il gas naturale e Tengiz (Kazachstan) per entrambi. Basti pensare che il Kazachstan ha più che triplicato la propria produzione tanto di petrolio quanto di gas rispetto al 1994 (passata rispettivamente da 430mila barili di petrolio al giorno a circa un milione e 364mila nel 2005 e da poco più di 4 miliardi di metri cubi di gas naturale a 23,5 miliardi nel 2005), mentre l’Azerbaigian ha più che raddoppiato la propria produzione petrolifera (passata da 193mila barili al giorno nel 1994 a 452mila nel 2005)3. D’altra parte non si può fare a meno di notare che nonostante le riserve di gas naturale nella regione siano molto più abbondanti delle risorse petrolifere presenti, sono state queste ultime ad attirare una maggiore attenzione sia nazionale che internazionale: lo sfruttamento dei giacimenti di gas naturale è stato finora tutto sommato ridotto soprattutto a causa dei più alti costi di investimento rispetto al settore petrolifero, che oltre a costituire un potente deterrente per i Governi locali alle prese con una lunga opera di ricostruzione economica post-sovietica hanno ridotto gli incentivi anche per i potenziali investitori internazionali4.

Tuttavia lo sfruttamento di queste importanti risorse ha incontrato diverse difficoltà, legate, oltre che alla costosa tecnologia necessaria per avviare l’esplorazione e lo sfruttamento dei giacimenti, alla localizzazione stessa dei giacimenti (specialmente di quelli offshore), nonché alle condizioni politiche (e geopolitiche) ed economiche dei singoli Stati rivieraschi.

La delimitazione delle rispettive porzioni di piattaforma continentale degli Stati che si affacciano sul Mar Caspio ha in effetti costituito motivo di notevole attrito tra gli stessi, rendendo per questo più difficoltosa l’opera di esplorazione e sfruttamento delle risorse situate nel sottosuolo marino, specialmente laddove queste ultime si trovino distanti dalle coste, ovvero i giacimenti occupino una superficie tale da ricadere sotto la giurisdizione di Stati diversi. Il fallimento nel corso degli anni di qualsiasi tentativo di raggiungere un accordo multilaterale sulla questione ha incoraggiato gli Stati costieri, sull’esempio della Russia, a definire la questione procedendo attraverso negoziati bilaterali. Questo procedimento ha portato alla ratifica tra il 1998 e il 2003 di una serie di trattati bilaterali tra Russia, Kazachstan e Azerbaigian che hanno definito la divisione del suolo e sottosuolo del Caspio secondo il principio delle linee di equidistanza, modificato al fine di mantenere l’unità di eventuali giacimenti situati a ridosso della linea mediana, ma ha altresì condotto alla divisione del Caspio in due zone: la prima, quella settentrionale, appunto spartita nella maniera suddetta, mentre la seconda, quella meridionale, tuttora preda di apparentemente insolubili dispute tra i tre Stati costieri interessati (Azerbaigian, Iran e Turkmenistan). I problemi 3BP, Statistical Review of World Energy 2006, cit., pp. 6, 22. 4 R. WINSTONE - R. YOUNG, The Caspian Basin, Energy Reserves and Potential Conflicts, cit., p. 36.

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principali per il raggiungimento di un accordo anche su questa seconda porzione del Caspio riguardano tre importanti giacimenti di idrocarburi situati grosso modo al centro del bacino del Caspio, che costituiscono materia di scontro tra Azerbaigian e Turkmenistan per i relativi diritti di sfruttamento. Tuttavia il maggiore ostacolo all’individuazione di un definitivo assetto della questione è probabilmente costituito dalla posizione intransigente da sempre sostenuta dall’Iran, contrario a qualsiasi sistemazione diversa dalla divisione del suolo, del sottosuolo e della superficie del Mar Caspio in parti uguali tra i cinque Stati rivieraschi, indipendentemente dalla lunghezza delle coste di ciascuno, e soprattutto contrario a una sistemazione sulla base del principio delle linee di equidistanza, che lascerebbe all’Iran lo sfruttamento soltanto del 14 per cento circa del suolo e sottosuolo, favorendo viceversa Kazachstan e Turkmenistan (rispettivamente 29 e 21 per cento)5.

Al problema della definizione dei diritti di sfruttamento del suolo e sottosuolo si deve aggiungere la questione della gestione della superficie del Mar Caspio, che ha importanti riflessi anche sul regolare sfruttamento delle risorse situate nel sottosuolo. Sembra infatti che a tal proposito sia emerso un generico accordo tra i cinque Stati interessati sull’opportunità che almeno l’area centrale del bacino sia amministrata in comune dai Paesi costieri, sulla scia della posizione sempre sostenuta dalla Russia, che in caso di gestione comune grazie al proprio superiore potenziale militare sarebbe in grado di garantirsi l’effettivo controllo della superficie del Caspio. D’altra parte il principio della gestione comune sembra, almeno nelle intenzioni dei cinque Stati interessati, debba essere bilanciato dal concetto non ancora ben definito di “zone nazionali costiere”, ovvero fasce di mare adiacenti alla costa sulle quali ciascuno Stato manterrebbe la propria giurisdizione. Proprio la mancata definizione dell’estensione di tali “zone nazionali”, nonché del contenuto della giurisdizione detenuta da ciascuno Stato sulla propria zona, può porre alcune questioni problematiche legate alla sicurezza dell’intero bacino: infatti dal momento che i diritti di sfruttamento del suolo e del sottosuolo sono definiti secondo il principio dell’equidistanza, potrebbe verificarsi l’eventualità (per la verità nemmeno tanto remota) che le attività di sfruttamento di giacimenti offshore compresi nella porzione di fondale marino assegnata ad uno Stato possano realizzarsi al di là dei limiti della “zona nazionale” in cui lo stesso Stato può esercitare la propria giurisdizione, con evidenti pericoli di attrito e conflitto tra i diversi Stati.

Come si è detto, il problema di una definitiva ripartizione delle aree di sfruttamento del Mar Caspio tra i diversi Stati costieri non è però l’unico ostacolo all’attività di esplorazione dei giacimenti di idrocarburi: altre difficoltà sono infatti legate alle condizioni dei singoli Stati della regione.

Per quanto l’Iran sia uno dei principali produttori mondiali di petrolio (il quarto produttore mondiale e il secondo Paese con le maggiori riserve petrolifere,

5 Ibidem, pp. 10-11.

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secondo le statistiche relative al 2005 contenute nella BP Statistical Review of World Energy 2006 6 ) e l’unico Stato in grado di svolgere un ruolo vitale di collegamento tra il Mar Caspio e il Golfo Persico, lo sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi nel settore iraniano del Caspio (le cui riserve ammonterebbero peraltro a non più di 15 miliardi di barili di petrolio e 311 miliardi di metri cubi di gas naturale, una piccola porzione rispetto alle riserve totali di idrocarburi del Paese 7 ) è stato fortemente compromesso a causa delle pesanti sanzioni economiche imposte al Paese dagli Stati Uniti, che hanno fortemente scoraggiato gli investimenti delle compagnie americane e reso difficile per l’Iran attirare capitali stranieri per iniziare nuovi progetti di esplorazione. L’Iran finora ha dunque potuto “sfruttare” il proprio potenziale energetico nella regione del Caspio soltanto in modo indiretto, grazie ad alcuni accordi in base ai quali il Paese importa idrocarburi dagli altri Stati della regione ed esporta quantità equivalenti dai propri terminali situati nel Golfo Persico, incrementando i propri guadagni grazie alle tasse portuali e alle tariffe imposte sul transito. In tal modo l’Iran si è proposto all’attenzione internazionale, soprattutto degli altri Stati della regione, come Paese cruciale per lo sviluppo di corridoi di trasporto per il petrolio e il gas provenienti dagli Stati del bacino del Caspio, privi di sbocchi sui mari aperti, e diretti verso il Golfo Persico.

Nonostante le vaste riserve di gas naturale, anche lo sfruttamento delle risorse energetiche del Turkmenistan è stato problematico, recuperando solo in parte dopo il collasso successivo all’indipendenza. La ragione principale dello scarso sfruttamento del potenziale energetico del Paese è da ricercarsi nella pesante dipendenza dalla rete di gasdotti gestita dalla compagnia russa Gazprom, che passando attraverso il territorio russo collega la regione ai mercati mondiali e che ha costituito fino ad ora l’unico canale in grado di garantire il trasporto del gas turkmeno verso i suoi principali mercati di esportazione, ovvero Federazione russa e Ucraina. In conseguenza dei limiti imposti dalla rete gestita da Gazprom e degli alti costi necessari per esportare il gas attraverso altri mezzi di trasporto, il gas turkmeno ha sofferto di una sostanziale non competitività sui mercati internazionali, riducendo gli incentivi ad aumentare la produzione e ad avviare nuove attività di esplorazione e sfruttamento. Solo negli ultimi anni, a seguito di alcuni accordi intercorsi tra Ashgabat e Mosca, il Paese ha potuto rinegoziare (e quindi aumentare) i volumi di gas destinati all’esportazione tramite la rete di gasdotti russa.

Nel complesso dunque i Paesi della regione che hanno attirato la maggiore attenzione internazionale grazie alle potenzialità di sfruttamento delle proprie risorse energetiche sono stati e sono tuttora Kazachstan e Azerbaigian, che sono i principali responsabili dell’incremento (pari al 70 per cento) nella produzione di petrolio avvenuto nei Paesi dell’ex-Unione Sovietica dopo l’indipendenza. Le 6 Dati tratti da BP, Statistical Review of World Energy 2006, cit., pp. 6, 8. 7 Dati tratti da UNITED STATES ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION, International Energy Outlook 2005, cit. e BP, Statistical Review of World Energy 2006, cit.

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riserve di petrolio del Kazachstan sono indubbiamente le più vaste del bacino del Caspio (il Kazachstan è l’ottavo Paese al mondo per riserve di petrolio e l’undicesimo per riserve di gas 8 ), raggiungendo quasi i 40 miliardi di barili (superiori alle riserve della Nigeria e all’incirca equivalenti a quelle della Libia, entrambi membri dell’Opec), mentre le riserve di gas naturale, pur se meno abbondanti, sono comunque stimate poco al di sopra delle riserve turkmene. Da solo, il Paese produce nel complesso all’incirca i due terzi degli idrocarburi prodotti nell’intera regione del Caspio 9 : tale performance produttiva è stata possibile soprattutto grazie ai massicci investimenti americani di cui ha beneficiato il settore a partire dall’indipendenza del Paese, per un totale di 20 miliardi di dollari. In effetti più del 60 per cento degli investimenti nel settore degli idrocarburi del Paese è stato effettuato da compagnie americane (Chevron Texaco in testa): Chevron Texaco ed Exxon Mobil detengono nel complesso il 75 per cento (50 e 25 per cento rispettivamente) delle quote di partecipazione al consorzio internazionale che nel 1993 ha iniziato l’esplorazione e lo sfruttamento del giacimento (sia di petrolio che di gas) di Tengiz, il principale giacimento onshore del Paese, mentre la stessa Exxon Mobil insieme a Conoco Phillips fa parte di un secondo consorzio internazionale (di cui fra l’altro l’italiana Eni costituisce l’operatore unico, dopo che la britannica British Gas ha ceduto la propria quota ai partner nel 2004) costituito per lo sfruttamento del giacimento (sia di petrolio che di gas) di Kashagan, il principale giacimento off shore10.

Nonostante il Kazachstan detenga le più vaste riserve di idrocarburi del bacino del Caspio, lo Stato che ha ricevuto la maggiore attenzione internazionale negli ultimi anni è stato l’Azerbaigian. Le riserve petrolifere del Paese, stimate intorno ai 7 miliardi di barili, corrispondenti allo 0,6 per cento delle riserve mondiali, sono state sfruttate in misura crescente negli ultimi anni, tanto che a partire dal 1997 la produzione di petrolio ha subito un incremento superiore al 10 per cento annuo (con una crescita complessiva del 61 per cento negli ultimi cinque anni). A questa performance positiva ha contribuito in misura sostanziale l’esplorazione e lo sfruttamento da parte di un consorzio internazionale costituito nel 1994 e guidato da British Petroleum dei giacimenti offshore di Azeri-Chirag-Gunashli: tali giacimenti da soli hanno prodotto circa 400mila dei 452mila barili di greggio estratti giornalmente dall’Azerbaigian nel 2005, e le stime prevedono un picco produttivo (che peraltro sarà raggiunto molto presto, già nel 2008) superiore al milione di barili al giorno11 . Anche le riserve di gas naturale del Paese sono considerevoli (all’incirca lo 0,8 per cento delle riserve mondiali, poco meno della metà delle riserve situate in Kazachstan), ma il loro sfruttamento per anni è rimasto limitato ai giacimenti onshore situati nella parte meridionale della

8 BP, Statistical Review of World Energy 2006, cit., pp. 6, 22. 9 R. WINSTONE - R. YOUNG, The Caspian Basin, Energy Reserves and Potential Conflicts, cit., p. 38. 10 Ibidem, p. 21. 11 Ibidem, p. 37 e BP AZERBAIJAN, Presentation, May 2006, http://www.bp.com.

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penisola di Absheron. Solo a partire dal 1996, anno in cui è stato costituito il relativo consorzio internazionale, sono iniziati l’esplorazione e lo sfruttamento del giacimento di Shah Deniz, situato nel Mar Caspio circa 100 chilometri a sud-est della capitale Baku, nonché la costruzione delle infrastrutture necessarie la cui assenza aveva fino a quel momento impedito lo sfruttamento dei giacimenti offshore di gas naturale. Secondo le stime di BP il giacimento di Shah Deniz contiene riserve pari a poco meno di 450 miliardi di metri cubi, equivalenti a più di un terzo delle riserve di gas situate in Azerbaigian12.

RISERVE DI PETROLIO (dati alla fine del 2005):

miliardi di barili

quota sul totale (%)

rapporto riserve/ produzione (anni)

Azerbaigian 7,0 0,6 42,4 Federazione Russa 74,4 6,2 21,4 Iran 137,5 11,5 93,0 Kazachstan 39,6 3,3 79,6 Totale ex-Unione Sovietica 122,9 10,2 28,4 Totale ex-Unione Sovietica (esclusa Russia) 48,5 4,0 n.d.

Totale Medio Oriente 742,7 61,9 81,0 Totale OPEC 902,4 75,2 73,1 Totale non-OPEC 298,3 24,8 19,7 TOTALE MONDIALE 1200,7 100,0 40,6 Fonte: BP 2006

RISERVE DI GAS NATURALE (dati alla fine del 2005):

miliardi di metri cubi

quota sul totale (%)

rapporto riserve/ produzione (anni)

Azerbaigian 1370 0,8 > 100

Federazione Russa 47820 26,6 80

Iran 26740 14,9 > 100

Kazachstan 3000 1,7 > 100

Turkmenistan 2900 1,6 49,3

Totale Europa e Eurasia 64010 35,6 60,3

Totale Medio Oriente 72130 40,1 > 100

TOTALE MONDIALE 179830 100 65,1

Fonte: BP 2006

12 BP, Statistical Review of World Energy 2006, cit. e BP AZERBAIJAN, Presentation, cit.

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PRODUZIONE PETROLIO (migliaia di barili al giorno):

2000 2001 2002 2003 2004 2005 quota sul totale (%, dati 2005)

Azerbaigian 281 300 311 313 317 452 0,6 Federazione Russa 6536 7056 7698 8544 9287 9551 12,1 Iran 3818 3730 3414 3999 4081 4049 5,1 Kazachstan 744 836 1018 1111 1297 1364 1,6 Totale ex-Unione Sovietica 8013 8659 9533 10499 11409 11844 14,8

Totale ex-Unione Sovietica (esclusa Russia)

1477 1603 1835 1955 2122 2293 2,8

Totale Medio Oriente 23501 22871 21471 23296 24588 25119 31,0

Totale OPEC 31393 30614 28882 30806 32985 33836 41,7 Totale non-OPEC 43548 44122 45501 46286 47214 47252 58,3 TOTALE MONDIALE 2432 2492 2533 2623 2704 2763 100,0

Fonte: BP 2006

PRODUZIONE DI GAS NATURALE (miliardi di metri cubi):

2000 2001 2002 2003 2004 2005 quota sul totale (%, dati 2005)

Azerbaigian 5,3 5,2 4,8 4,8 4,7 5,3 0,2

Federazione Russa 545,0 542,4 555,4 578,6 591,0 598,0 21,6

Iran 60,2 66,0 75,0 81,5 84,9 87,0 3,1

Kazachstan 10,8 10,8 10,6 12,9 20,6 23,5 0,9

Turkmenistan 43,8 47,9 49,9 55,1 54,6 58,8 2,1

Totale Europa e Eurasia 959,5 967,7 989,4 1024,4 1055,9 1061,1 38,4

Totale Medio Oriente 206,8 224,8 244,7 259,9 280,4 292,5 10,6

TOTALE MONDIALE 2432,3 2492,1 2532,6 2623,3 2703,8 2763,0 100,0

Fonte: BP 2006

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2. Il trasporto delle risorse attraverso il Caucaso: ragioni economiche e “Grande Gioco” politico-strategico

Lo sviluppo dello sfruttamento delle risorse energetiche del Caspio e il conseguente aumento della produzione di idrocarburi nella regione ha naturalmente portato in primo piano la questione delle infrastrutture destinate a trasportare tali risorse verso i mercati internazionali. Azerbaigian, Kazachstan e Turkmenistan sono privi di sbocco su mari aperti e sono quindi obbligati ad esportare le proprie risorse per mezzo di oleodotti e gasdotti che necessariamente devono attraversare numerosi confini per raggiungere i principali mercati di destinazione: non c’è dunque da stupirsi se la ricerca di potenziali “corridoi” di trasporto attraverso gli Stati della regione è divenuta una priorità per le potenze internazionali (regionali e non) e per le compagnie petrolifere operanti nel bacino del Caspio.

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Le repubbliche ex-sovietiche della regione hanno tradizionalmente utilizzato per l’esportazione degli idrocarburi estratti dai propri giacimenti il sistema di oleodotti e gasdotti russo, costruito in epoca sovietica, controllato dalla compagnia statale Transneft e costituito da quasi 47mila chilometri di condotte per una capacità massima di trasporto complessiva di 12,7 milioni di metri cubi13. Si tratta di una rete di trasporto che risente pesantemente dell’eredità politica sovietica, caratterizzata da un sistema “imperiale” che imponeva alle risorse energetiche provenienti dal Caspio e dalle repubbliche periferiche il transito attraverso il territorio russo, per poi raggiungere i terminali situati sul Baltico e sulle coste ucraine del Mar Nero, oppure collegarsi all’oleodotto “Druzba”, il principale canale di esportazione del petrolio russo verso l’Europa. In mancanza di gasdotti e oleodotti che collegassero direttamente il bacino del Caspio ai mercati di esportazione, la Russia ha quindi per lungo tempo detenuto un monopolio del trasporto del gas e del petrolio al di fuori dell’ex-Unione Sovietica, e in particolare verso Occidente 14 . Un dato innegabile tuttavia riguarda l’obsolescenza della rete russa di oleodotti e gasdotti: all’incirca i tre quarti delle condotte in questione ha più di vent’anni e quasi la metà ne ha più di trenta, richiedendo quindi nel complesso una vasta (e costosa) opera di manutenzione e riparazione della rete esistente, nonché l’elaborazione di progetti di costruzione di nuove infrastrutture in grado di assorbire l’incremento produttivo derivante dal crescente sfruttamento delle risorse estratte dal Caspio. Questa opera di ammodernamento è stata in parte favorita dal contesto geopolitico emerso dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, che ha privato Mosca di un facile accesso ai terminali situati nelle repubbliche di nuova indipendenza, in particolare ai porti ucraini ubicati sul Mar Nero. Dalla metà degli anni Novanta la realizzazione di un nuovo corridoio per l’esportazione degli idrocarburi verso il Mar Nero è dunque divenuta prioritaria: l’ampliamento del porto russo di Novorossijsk, con l’obiettivo di farne il principale terminale per l’esportazione del petrolio proveniente dal Caspio, è stata la necessaria premessa per la realizzazione della variante Tikhoretsk-Novorossijsk, che innestandosi sull’oleodotto che in epoca sovietica collegava Baku al porto di Odessa ha fatto sì che dal 1997 l’oleodotto Baku-Novorossijsk, con una capacità di 100mila barili al giorno, divenisse l’unica via di esportazione per il petrolio del Caspio caricato ai terminali di Sangachal, presso la capitale azera15. Nel 2000 il percorso di tale condotta è stato modificato al fine di evitare il passaggio sul territorio ceceno, e contestualmente è stato realizzato un collegamento con il porto russo di Makhachkala sul Mar Caspio.

13 H.A. SADRI - A. VOLKOV, The Russian Pipeline System: Between Globalization and Localization, in «East European Quarterly», 38, 2004, 3, pp. 383-384. 14 S.F. STARR - S.E. CORNELL, The Politics of Pipelines: Bringing Caspian Energy to Markets, in «Saisphere 2005», Washington D.C., 2005, http://www.sais-jhu.edu/pubaffairs/publications/ saisphere/winter05. 15 H.A. SADRI - A. VOLKOV, The Russian Pipeline System: Between Globalization and Localization, cit., p. 387 e US ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION, Caspian Sea Regional Analysis Brief 2005, http://www.eia.doe.gov.

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La portata comunque limitata dell’oleodotto Baku-Novorossijsk in rapporto alla crescente produzione di idrocarburi nella regione del Caspio di cui si è parlato in precedenza, unita al desiderio delle repubbliche ex-sovietiche di affrancarsi definitivamente dal monopolio russo per ciò che riguarda il trasporto delle proprie risorse energetiche, ha tuttavia incoraggiato la ricerca di rotte alternative e la conseguente proliferazione di progetti più o meno realistici destinati a portare il gas e il petrolio del Caspio in ogni angolo dell’Europa e dell’Asia, in cui l’intreccio di ragioni economiche e ragioni politico-strategiche ha contribuito a dare credibilità a proposte altrimenti giudicate impraticabili16 . Dalla fine degli anni Novanta Kazachstan e Turkmenistan hanno iniziato a studiare la possibilità di realizzare nuove infrastrutture per il trasporto del petrolio e del gas estratti dal Caspio verso Cina, Pakistan e India. Il sistema Trans-Afghan Pipelines, che avrebbe dovuto essere composto da un oleodotto (Central Asia Oil Pipeline) lungo quasi 1700 chilometri con una capacità di un milione di barili al giorno che dal Kazachstan attraverso il Turkmenistan e l’Afghanistan avrebbe raggiunto il Pakistan e proseguito verso l’India, e da un gasdotto (Centgas) lungo più di duemila chilometri con una capacità di circa venti miliardi di metri cubi annui che a sua volta avrebbe raggiunto Pakistan e India partendo dal Turkmenistan e attraversando l’Afghanistan, non ha finora visto la luce, nonostante i finanziamenti ricevuti dall’Asian Development Bank dopo la firma del relativo memorandum d’intesa da parte dei Paesi interessati, l’interesse dichiarato da diverse compagnie internazionali quali Gazprom e Petronas e il riavvicinamento (peraltro di dubbia solidità) avvenuto tra India e Pakistan nel 2003. Allo stesso modo, dopo il completamento dei relativi studi di fattibilità, sono stati più volte abbandonati e poi ripresi tra il 2003 e il 2005 i progetti relativi a un oleodotto che dal Kazachstan avrebbe dovuto trasportare il petrolio del Caspio fino alla regione cinese dello Xinjiang 17 ; nel 2005 finalmente, dopo che diverse compagnie petrolifere membri del consorzio che gestisce lo sfruttamento del giacimento kazako di Kashagan si sono opposte all’ingresso nel consorzio delle due principali compagnie petrolifere cinesi, è stato realizzato un oleodotto che collega il terminale kazako di Atasu, nel nord del Paese, allo snodo ferroviario cinese di Alashankou, nello Xinjiang, senza che ancora sia stato trovato un accordo sulla possibilità di estendere tale oleodotto fino a raggiungere i giacimenti kazaki del Caspio18.

Dei quattro principali progetti effettivamente realizzati, tutti diretti a trasportare le risorse del Caspio verso ovest, l’oleodotto gestito dal Caspian Pipeline Consortium (Cpc), una struttura lunga quasi 1600 chilometri con attualmente una 16 S.F. STARR - S.E. CORNELL, The Politics of Pipelines: Bringing Caspian Energy to Markets, cit. 17 J. ROBERTS, Energy Reserves, Pipeline Politics and Security Implications, in The South Caucasus: A Challenge for the EU, «Chaillot Papers», 2003, 65, pp. 94-95. 18 A. SUKHANOV, Caspian Oil Exports Heading East, in «Asia Times Online», 9 February 2005, http://www.atimes.com e CENTRAL ASIA-CAUCASUS ANALYST – NEWS, Kazakhstan-China Pipeline Completed, 16 November 2005, http://www.cacianalyst.org.

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capacità di circa 600mila barili al giorno, destinata ad aumentare ad oltre un milione e 300mila barili entro il 2015, è l’unico a transitare in territorio russo fino a raggiungere il porto di Novorossijsk sul Mar Nero. Gli altri tre progetti hanno enormemente accresciuto l’importanza internazionale della regione caucasica, divenuta uno snodo fondamentale per l’esportazione del petrolio e del gas provenienti dal Caspio. Dal 1999 è infatti operativo l’oleodotto Baku-Supsa, costruito e gestito dal consorzio Aioc per esportare il petrolio estratto dai giacimenti azeri offshore fino alle coste georgiane del Mar Nero: la capacità originaria di questo oleodotto è stata successivamente accresciuta da 100mila a circa 220mila barili scaricati giornalmente al terminale di Supsa, più altri 190mila barili trasportati al porto georgiano di Batumi grazie all’utilizzo della linea ferroviaria preesistente 19 . Nonostante gli aggiustamenti, la linea Baku-Supsa mantiene comunque una capacità di trasporto limitata, insufficiente ad assorbire l’incremento produttivo previsto dall’Aioc per lo sfruttamento dei giacimenti di Azeri-Chirag-Gunashli: in effetti tale oleodotto non rappresenta che la cosiddetta “Early Oil Western Route”, ovvero la linea provvisoriamente utilizzata dalle compagnie del consorzio Aioc per l’esportazione del petrolio azero in attesa della completa realizzazione del Main Export Pipeline, l’oleodotto che dai terminali di Sangachal presso Baku e attraverso il territorio georgiano giunge fino al porto turco di Ceyhan, direttamente sul Mar Mediterraneo. Questa colossale opera di ingegneria, lunga oltre 1760 chilometri e costata 3,9 miliardi di dollari (quasi un miliardo di dollari in più del previsto20), costruita tra il 2002 e il 2005 e operativa dalla metà del 2006 (il primo carico di petrolio è stato effettuato presso il terminale di Ceyhan il 27 maggio 2006, un anno dopo l’apertura ufficiale dell’oleodotto21), è in grado di trasportare un milione di barili di greggio al giorno a partire dal 2008: dati la dimensione e il ritmo di sfruttamento dei giacimenti di Azeri-Chirag-Gunashli, le prospettive di lungo periodo dell’oleodotto Btc dipendono tuttavia dalla possibilità di trasportare anche il petrolio kazako proveniente dai giacimenti di Kashagan, al fine di evitare il rischio di un prematuro esaurimento delle riserve petrolifere azere. In effetti il 16 giugno 2006 Azerbaigian e Kazachstan hanno firmato in accordo bilaterale che sancisce definitivamente la partecipazione più volte annunciata di Astana al progetto Btc, accordo in base al quale il Kazachstan esporterà tramite l’oleodotto Btc tra i 20 e i 25 milioni di tonnellate di greggio ogni anno, ovvero poco meno della metà del

19 L’accresciuta capacità di trasporto (da poco più di 130mila barili a 190mila barili al giorno) della linea ferroviaria che collega la capitale dell’Azerbaigian al porto georgiano di Batumi, seguendo un percorso parallelo all’oleodotto Baku-Supsa, è stata raggiunta in gran parte a seguito dell’annuncio effettuato da ExxonMobil nel giugno 2005 secondo cui la compagnia petrolifera avrebbe presto iniziato a inviare il greggio estratto dai propri giacimenti in Azerbaigian via treno fino al porto di Batumi (US ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION, Caucasus Region Country Analysis Brief, May 2006, http://www.eia.doe.gov/cabs/Caucasus). 20 BP’s Baku Pipeline 30% over Budget in «Financial Times», 20 April 2006. 21 Happy Ending Nears in Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline Project in «Turkish Daily News», 25 May 2006, http://www.turkishdailynews.com.tr.

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petrolio totale trasportato annualmente da Baku a Ceyhan22. Il petrolio kazako sarà inizialmente trasportato via nave dal porto di Kuryk, sulla sponda orientale del Mar Caspio, al terminale di Sangachal, ma è allo studio la possibilità di prolungare l’oleodotto Btc tramite un condotto sottomatino che raggiunga Aktau, il principale porto kazako.

Per la verità l’oleodotto Btc fa parte di un sistema più ampio di trasporto delle risorse energetiche che comprende anche un gasdotto “gemello” che dovrebbe essere operativo a partire dalla seconda metà del 2006, il South Caucasus Pipeline (Scp), che corre parallelo al Btc fino alla città turca di Erzurum, per poi connettersi al sistema di gasdotti turco. Tale gasdotto, la cui capacità iniziale dovrebbe essere di circa 7,2 miliardi di metri cubi all’anno (con una possibilità di espansione fino a 20-30 miliardi di metri cubi annui quando il gasdotto funzionerà a pieno regime 23 ), è destinato ad esportare verso l’Europa il gas naturale proveniente dal giacimento off shore di Shah Deniz: tuttavia anche in questo caso è allo studio la possibilità di prolungare il gasdotto fino al porto di Turkmenbashi ed avere così accesso alle vaste riserve di gas naturale turkmene24.

Nel complesso quindi il Caucaso meridionale sembra essere divenuto una sorta di “corridoio preferenziale” che grazie al sistema Btc-Scp e ai suoi potenziali prolungamenti verso est (tramite il menzionato sistema di Trans-Caspian Pipelines) e verso ovest (grazie ai progetti di costruzione di due prolungamenti del sistema di gasdotti turco, rispettivamente verso Grecia e Italia e verso Bulgaria, Romania, Ungheria e Austria, il cosiddetto “Progetto Nabucco”, entrambi allo studio nell’ambito del Programma Inogate25) è in grado di collegare direttamente i principali fornitori di risorse energetiche del bacino del Caspio ai mercati occidentali. Al di là della diffusa retorica che tende considerare il Caucaso lo snodo fondamentale per far rivivere una sorta di “Via della Seta del XXI secolo”, e il sistema Btc-Scp la chiave di volta indispensabile per il completamento dei programmi Traceca e Inogate e dei principali progetti riguardanti lo sviluppo dei corridoi di trasporto trans-eurasiatici 26 , è innegabile che l’attenzione internazionale dedicata alle nuove infrastrutture di trasporto delle risorse energetiche passanti per il Caucaso non faccia altro che ribadire il crescente ruolo del bacino del Caspio nel mercato globale delle fonti energetiche ed evidenziare la

22 Kazakh, Azeri Leaders Signed Agreement on Kazakh Oil’s Delivery Via BTC in «Today.Az», 16 June 2006, http://www.today.az e Azerbaijan: BTC Pipeline Hails Political Triumph in «Oxford Analytica», 13 June 2006, http://www.oxan.com. 23 M. TSERETELI, Caspian Gas: Potential to Activate Europe in the South Caucasus, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 25 August 2004, http://www.cacianalyst.org e EUROPEAN BANK FOR RECONSTRUCTION AND DEVELOPMENT, Project Summary Document. SOCAR – South Caucasus Gas Pipeline, December 2003, http://www.ebrd.com/projects/psd/psd2003. 24 S.F. STARR - S.E. CORNELL, The Politics of Pipelines: Bringing Caspian Energy to Markets, cit. 25 Intestate Oil and Gas Transport to Europe, http://www.inogate.org. 26 S.F. STARR - S.E. CORNELL, The Politics of Pipelines: Bringing Caspian Energy to Markets, cit.

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complessa realtà geopolitica di una regione in cui si intrecciano gli interessi economici e politico-strategici delle potenze locali e delle grandi potenze extra-regionali. Non sorprende, quindi, che la questione della scelta dei progetti e della costruzione delle nuove infrastrutture, in genere già di per sé materia di negoziati difficili tra compagnie petrolifere e stati di transito, nel caso degli oleodotti e dei gasdotti passanti per il Caucaso abbia coinvolto una complessa miscela di considerazioni tanto economiche quanto strategiche.

2.1 Le ragioni economiche: la questione della sicurezza energetica tra ricerca di fonti alternative e “chokepoints”

La sicurezza energetica viene in genere definita come la capacità di assicurarsi il soddisfacimento dei bisogni energetici futuri o come la capacità di avere accesso in futuro a una sufficiente quantità di risorse energetiche ad un prezzo ragionevole e senza rischio di gravi disservizi27. Il concetto alla base della sicurezza energetica è quindi tradizionalmente connesso alla disponibilità fisica di risorse energetiche, declinata tanto nel senso di capacità produttiva inutilizzata, particolarmente importante per far fronte a improvvise e temporanee interruzioni negli approvvigionamenti, quanto nel senso di diversificazione geografica della produzione: in altre parole, maggiore è il numero delle regioni in grado di fornire risorse energetiche, maggiore è in genere la stabilità dei mercati internazionali in cui tali risorse vengono scambiate. Solitamente la questione della diversificazione delle risorse è quindi intesa come possibile soluzione all’accentuata dipendenza dalle risorse del Medio Oriente grazie all’incremento delle risorse disponibili provenienti da Russia, bacino del Caspio, Africa occidentale, America Latina.

L’importanza delle risorse del Caspio risiede non tanto e non solo nella loro entità, come si è visto indubbiamente notevole ma non certo in grado di modificare in misura sostanziale la dipendenza energetica globale dal Medio Oriente, ma nella possibilità che esse raggiungano il mercato mondiale restando complessivamente sotto il controllo delle compagnie internazionali che hanno investito nella regione e degli Stati esportatori, grazie ad un adeguato livello di investimento non soltanto nello sviluppo delle risorse e della capacità produttiva, ma anche nella costruzione delle relative infrastrutture di trasporto 28 . Di certo a questo fine è volta la cosiddetta “Multiple Pipeline Strategy” promossa dagli Stati Uniti come l’unica possibile strategia economicamente e politicamente valida per l’esportazione degli idrocarburi del Caspio: per quanto inizialmente molte compagnie petrolifere abbiano accolto con scarso favore il coinvolgimento politico americano nel processo di scelta tra le varie possibili opzioni per il trasporto delle risorse del Caspio, in questo caso tale partecipazione ha contribuito in misura determinante all’individuazione di soluzioni economicamente efficienti, ed ha portato alla

27 G. BAHGAT, Central Asia and Energy Security, in «Asian Affairs», 37, 2006, 1, p. 1. 28 Ibidem, pp. 2-3.

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costruzione prima degli oleodotti Baku-Supsa e Cpc (che nonostante si trovi in gran parte sul territorio russo è gestito da un consorzio privato, sostanzialmente indipendente dal monopolio di TransNeft, ed ha costituito una prima importante alternativa al sistema tradizionale russo), e successivamente del sistema Btc-Scp e dei progetti relativi al sistema di Trans-Caspian Pipelines29.

L’efficienza economica delle infrastrutture per il trasporto delle fonti energetiche dipende, nel caso delle risorse del Caspio, sostanzialmente da tre fattori. Il primo naturalmente è legato alla sicurezza fisica delle infrastrutture stesse, ovvero alla possibilità di far fronte ai rischi connessi all’instabilità locale e all’eventualità che gasdotti e oleodotti divengano potenziali obiettivi all’interno di conflitti regionali. Ciò richiede l’individuazione di corridoi di trasporto che evitando le aree caratterizzate da instabilità minimizzino la vulnerabilità delle strutture rispetto ai conflitti civili o agli interventi militari stranieri, circostanze in cui eventuali attacchi contro oleodotti e gasdotti possono essere parte di una strategia legata a un conflitto più ampio, piuttosto che essere deliberatamente volti a interrompere i flussi internazionali di risorse energetiche o danneggiare gli interessi delle compagnie petrolifere. Nel contesto caucasico questa preoccupazione è particolarmente evidente: la variante dell’oleodotto Baku-Novorossijsk, completata nel 2000, è esplicitamente intesa ad aggirare il territorio ceceno, ponendo la struttura al riparo dalla guerriglia. Analogamente, al favore con cui la Georgia ha accolto il sistema Btc-Scp non è estranea la volontà di evitare da un lato il transito in quelle regioni su cui Tbilisi non esercita un pieno controllo (Abkhazia e Ossetia meridionale), dall’altro un’eccessiva dipendenza da quelle infrastrutture appartenenti alla rete russa di trasporto delle risorse energetiche che presentano a loro volta significativi rischi, come hanno drammaticamente dimostrato le esplosioni che nel gennaio 2006 hanno coinvolto la rete di gasdotti che collega la Georgia al suo vicino settentrionale, attribuite da Mosca ad attacchi terroristici e da Tbilisi ad un deliberato gesto russo volto ad interrompere le forniture di gas verso sud30. Da questo punto di vista anche l’oleodotto Baku-Supsa risponde all’esigenza di garantire la sicurezza fisica delle forniture energetiche: la sua “appendice” ferroviaria che conduce al porto di Batumi attraversa la repubblica autonoma dell’Agiaria, un tempo teatro di tensioni separatiste ma su cui Tbilisi ha ormai riguadagnato il controllo31.

Il dato più evidente relativo alla preoccupazione per la sicurezza fisica delle infrastrutture è tuttavia la completa esclusione dell’Armenia dai corridoi di trasporto che collegano il Caspio al Mar Nero e al Mediterraneo, e in particolare dal percorso seguito dall’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan e dal gasdotto parallelo

29 S.E. CORNELL - M. TSERETELI - V. SOCOR, Geostrategic Implications of the Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline, in S.F. STARR - S.E. CORNELL (a cura di), The Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline: Oil Window to the West, Washington D.C./Uppsala, 2005, p. 31, http://www.cacianalyst.org. 30 Caucasus: Georgia, Armenia Consider Options after Russia Pipeline Explosions, in «Radio Free Europe/Radio Liberty – News & Analysis», 1 February 2006, http://www.rferl.org. 31 A. FERRARI, Il Caucaso. Popoli e conflitti di una frontiera europea, Roma, 2005, p. 96.

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Baku-Tbilisi-Erzurum: un’esclusione peraltro inevitabile dato il contenzioso ancora aperto tra Armenia e Azerbaigian per il controllo dell’Alto Karabakh e la provenienza delle risorse che transitano attraverso il Caucaso, per ora esclusivamente da giacimenti azeri. Il sistema Btc-Scp, destinato di fatto ad ottenere una sorta di “monopolio” delle esportazioni di idrocarburi dall’Azerbaigian verso occidente, ha infatti profonde implicazioni per la sicurezza energetica dei Paesi importatori, che dipendono dal petrolio e dal gas trasportati grazie a queste condotte, ma anche per gli Stati esportatori (Azerbaigian in primis, ma anche Kazachstan e, potenzialmente, Turkmenistan), per i quali tali infrastrutture costituiscono una fonte primaria di entrate. Non sorprende dunque che per garantirne il regolare funzionamento, al riparo da qualsiasi rischio per la loro sicurezza fisica, il percorso dei due condotti sia stato allungato attraverso la Georgia, a scapito di un possibile tragitto più breve attraverso l’instabile confine tra Azerbaigian e Armenia.

L’esclusione armena ha più che mai esposto il Paese ai rischi di interruzione delle forniture energetiche dalla Russia, spingendo pertanto Erevan ad affidarsi al gasdotto tuttora in costruzione tra Armenia e Iran come unica possibile soluzione alle proprie esigenze di diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico, finora limitate al gasdotto che collega il Paese alla Russia attraverso la Georgia. Le prospettive di prolungamento di questa nuova condotta, da un lato fino a collegarsi all’intero sistema iraniano, e fino ai vasti giacimenti di gas turkmeni, dall’altro lato fino a raggiungere la Georgia (e quindi potenzialmente il Mar Nero e l’Europa), ne accentuano ulteriormente l’importanza come fonte di approvvigionamento energetico alternativa alla Russia per gli stessi Paesi caucasici, e in particolare, oltre naturalmente all’Armenia, per la Georgia 32 . Sennonché – anche a voler escludere le problematiche relative alla crisi nucleare iraniana – nella primavera del 2006 la compagnia russa Gazprom, che insieme all’altra società russa Itera detiene la quota maggiore di ArmRosGazprom, la compagnia che gestisce la quasi totalità delle attività energetiche armene, ha ripetutamente annunciato (e poi smentito) di aver concluso con il Governo armeno un accordo che le garantisce il controllo del gasdotto, nell’ambito di una più ampia sistemazione della questione delle condizioni di fornitura del gas naturale alla piccola repubblica caucasica 33 . Se l’interesse di Gazprom per il nuovo gasdotto (che si prevede venga completato entro il 2006 e possa quindi diventare operativo nel 2007) troverà soddisfazione, lungi dal rappresentare la chiave per diversificare le forniture armene e quindi garantire al Paese una maggiore sicurezza energetica, il gasdotto armeno-iraniano non farà che confermare la 32 H. PEIMANI, The Iran-Armenia Pipeline: Finally Coming to Life, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 22 September 2004, http://www.cacianalyst.org. 33 Details on Russian-Armenian Gas Agreement Remain Unclear, in «Radio Free Europe/Radio Liberty Newsline», 7 April 2006, http://www.rferl.org/newsline; Russia Confirms Takeover of Iran-Armenia Pipeline, in «The Journal of Turkish Weekly», 7 April 2006, http://www.turkishweekly.net; E. DANIELYAN, Armenia Cedes More Energy Assets for Cheaper Russian Gas, in «Eurasianet Business & Economics», 10 April 2006, http://www.eurasianet.org.

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posizione assolutamente dominante della Russia nel settore energetico armeno, e quindi la pressoché totale dipendenza energetica di Erevan dal suo alleato settentrionale.

Il controllo del gasdotto armeno-iraniano evidenzia il secondo, e più importante, dei tre fattori da cui dipende l’efficienza economica degli oleodotti e dei gasdotti che esportano le risorse energetiche del Caspio, e che fa del Caucaso meridionale un passaggio obbligato per il trasporto di tali risorse verso i mercati internazionali, ovvero l’indipendenza delle infrastrutture dal controllo russo come condizione necessaria per una reale diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico. Questo vale naturalmente per i Paesi di transito: oltre ad essere, come è ovviamente prevedibile, un importante fattore di sviluppo per l’economia nazionale, grazie alla possibilità di attirare massicci investimenti esteri e di beneficiare di consistenti tariffe di transito, nonché alla capacità di fungere da catalizzatore per la realizzazione di altri progetti di rilevanza internazionale nella regione, nel caso della Georgia la costruzione delle nuove infrastrutture per il trasporto delle risorse energetiche sul proprio territorio nazionale è fondamentale anche per diversificare il proprio approvvigionamento energetico, segnando un punto di svolta rispetto alla pressoché totale dipendenza energetica che il Paese caucasico ha finora mantenuto nei confronti della Russia. Per la Turchia, altro Paese di transito dei “corridoi energetici” passanti per il Caucaso, lo stesso discorso acquista una connotazione ancora più significativa: la crescente predisposizione internazionale a considerare il sistema Btc-Scp come principale canale per far giungere le risorse del Caspio (o almeno della sua parte occidentale) sul mercato sembra realmente in grado di rendere la Turchia una sorta di “centro energetico” tra Oriente e Occidente, in grado di collegare le risorse situate ad est del Paese con la domanda proveniente dai mercati situati ad ovest, assumendo un ruolo che finora è stato una ingombrante prerogativa russa34.

Ma la necessità di allentare la dipendenza dalla Russia per quanto riguarda le forniture energetiche vale anche, e soprattutto, per i Paesi importatori di risorse energetiche, in particolare per i Paesi occidentali: è questo il presupposto per la validità della Multiple Pipeline Strategy americana, ovvero l’interesse occidentale allo sviluppo di una rete di corridoi alternativi per l’esportazione delle risorse della regione, almeno uno dei quali sia al di fuori del controllo russo. Ed è senza alcun dubbio questo uno dei motivi, oltre naturalmente all’accento posto sulla possibilità di promuovere lo sviluppo complessivo e la crescita delle economie regionali, che hanno spinto le principali istituzioni finanziarie internazionali occidentali (Banca Mondiale e Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo) a sponsorizzare generosamente la costruzione del sistema Btc-Scp35.

34 G. BAHGAT, Central Asia and Energy Security, cit., p. 8. 35 F. ISMAILZADE, Leading Western Financial Institutions Lend Money to BTC Pipeline, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 19 November 2003, http://www.cacianalyst.org.

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Il soggetto più direttamente interessato a minimizzare il controllo russo sulle risorse energetiche del Caspio è sicuramente l’Europa: l’Unione Europea ha infatti inserito tra le priorità politiche per il proprio sviluppo energetico quella di “evitare qualsiasi dipendenza strategica”, in particolare nei confronti della Russia36. Mosca è già il principale fornitore di gas per l’Europa e con la domanda europea di gas naturale probabilmente destinata ad aumentare sostanzialmente nel prossimo futuro è naturale che la Russia cerchi di colmare la domanda in eccesso con il proprio gas o controllando i canali di esportazione del gas turkmeno e kazako. In tal caso il Caucaso meridionale e la Turchia, tramite la South Caucasus Pipeline, costituiscono un prezioso corridoio di accesso per l’Europa ai giacimenti del Caspio, in grado di diversificare le fonti di approvvigionamento energetico europeo e contemporaneamente ridurre la dipendenza dell’Europa dalla russa Gazprom. Analogamente, il petrolio trasportato al porto turco di Ceyhan, insieme a quello scaricato ai due terminali georgiani di Supsa e Batumi (complessivamente più di un milione e 400mila barili di greggio al giorno) può certo sembrare poca cosa in confronto alla dimensione del consumo europeo di petrolio (quasi 15 milioni di barili al giorno nel 200537): al di là del suo valore assoluto, l’impatto e il valore strategico del petrolio esportato sui mercati europei attraverso il Caucaso consiste nella sua origine, non russa e non Opec, e quindi nel suo contributo alla diversificazione delle fonti energetiche europee.

Non è un caso che la volontà di rafforzare il legame tra Mar Nero e Mar Caspio e di fornire alternative ai tradizionali flussi commerciali e di transito di merci e risorse centrati sulla Russia sia, come si è già ricordato, al centro dei programmi Tra ceca e Inogate, entrambi sostenuti dall’Unione Europea. Nell’ambito di questi programmi di cooperazione la regione caucasica assume una rilevanza di primo piano: il programma Inogate, il cui trattato istitutivo (Umbrella Agreement) in vigore tra i ventuno Paesi firmatari dal febbraio 2001 esplicitamente accoglie il principio della diversificazione delle infrastrutture di trasporto delle risorse energetiche come fondamento indispensabile per rafforzare la sicurezza energetica dei Paesi europei 38 , ha inserito tra i progetti di sviluppo prioritario la South Caucasus Pipeline, la connessione tra le infrastrutture di trasporto del gas iraniane e turche, nonché il cosiddetto “Sistema Multimodale di Trasporto Petrolifero” (Multimodal Oil Transport System) per trasportare il petrolio kazako via nave attraverso il Caspio e poi da Baku e attraverso la Georgia, via treno e grazie agli oleodotti, fino ai terminali sul Mar Nero o direttamente fino a Ceyhan nel Mediterraneo39. Nel tentativo di “sottrarre” al controllo russo l’esportazione del gas del Caspio inoltre il programma Inogate fa del gasdotto Scp (e quindi del 36 S.E. CORNELL - M. TSERETELI - V. SOCOR, Geostrategic Implications of the Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline, cit., p. 28-29. 37 BP, Statistical Review of World Energy, cit., p. 11. 38 INTERSTATE OIL AND GAS TRANSPORT TO EUROPE, INOGATE Developments 2001-2004 and New Perspectives, Kyiv, 2004, p. 9, http://www.inogate.org/inogate/en/resources/ publications. 39 http://www.inogate.org.

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Caucaso) il nucleo necessario di una rete alternativa per il trasporto di tale preziosa risorsa verso l’Europa: per quanto avveniristici e fantasiosi possano sembrare, i due lunghi gasdotti che connettendosi al sistema turco dovrebbero raggiungere rispettivamente l’Italia attraverso la Grecia (circa 3400 chilometri di lunghezza, per una portata complessiva di 22 miliardi di metri cubi) e l’Austria attraverso Bulgaria, Romania e Ungheria (più di 3600 chilometri, per una portata di 20 miliardi di metri cubi) rispondono precisamente a questa esigenza, e si propongono come potenziale alternativa al cosiddetto “Blue Stream” (il gasdotto sottomarino operativo dal 2003 che collega le coste russe sul Mar Nero al porto turco di Samsun) per soddisfare il fabbisogno dell’Europa sud-orientale in via del tutto indipendente dal transito sul territorio russo40.

Il programma Traceca si spinge anche oltre facendo del Caucaso il nucleo di un “corridoio di trasporto tra Oriente e Occidente [che si sviluppa] dall’Europa, attraverso il Mar Nero, il Caucaso meridionale e il Mar Caspio”, riconosciuto come “la via più breve e potenzialmente più rapida e meno costosa dall’Asia Centrale ai porti sui mari aperti collegati con il mercato globale” 41 . In tale contesto le infrastrutture connesse all’esportazione delle risorse energetiche del Caspio (oleodotti e gasdotti, ma anche la rete ferroviaria Batumi/Poti-Tbilisi-Baku e i terminali marittimi di Poti, Batumi, Baku, Aktau e Turkmenbashi) si inseriscono in (e costituiscono la chiave di volta di) una più ampia rete di trasporti e comunicazioni tra Europa ed Asia, che include oleodotti e gasdotti, strade, ferrovie, porti e servizi marittimi, linee elettriche e fibre ottiche. A ben vedere, più che la chiave di volta, le infrastrutture energetiche passanti per il Caucaso costituiscono di fatto gli unici progetti di un certo spessore effettivamente portati avanti nell’ambito del Traceca dal suo lancio ufficiale nel 1993 e gli unici risultati positivi in grado di rivitalizzare e rilanciare un progetto ambizioso da troppo tempo in fase di sostanziale stasi a causa delle scarse risorse economiche e politiche ad esso finora dedicate42.

In definitiva uno dei meriti più apprezzabili dei programmi Traceca e Inogate è stato quello di coinvolgere direttamente i Paesi esportatori del Caspio in iniziative di cooperazione alla ricerca di corridoi di trasporto alternativi, indipendenti cioè dalla loro ex-madrepatria. Anche per Azerbaigian, Kazachstan e Turkmenistan le infrastrutture di trasporto che attraversano il Caucaso meridionale rappresentano un canale di esportazione particolarmente appetibile proprio in virtù della loro indipendenza dalla rete monopolistica russa nelle mani di Gazprom e Transneft, che permette ai tre Paesi di mantenere un maggiore controllo sulle proprie risorse di maggior valore. Se questo è più che mai ovvio nel caso dell’Azerbaigian, grazie in particolare alla quota del 10 per cento detenuta dalla compagnia statale Socar

40 INOGATE, INOGATE Developments 2001-2004 and New Perspectives, cit., p. 12. 41 TRANSPORT CORRIDOR EUROPE-CAUCASUS-ASIA, TRACECA Brochure, pp. 4-6, http://www.traceca-org.org. 42 S.E. CORNELL - M. TSERETELI - V. SOCOR, Geostrategic Implications of the Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline, cit., p. 29.

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all’interno dell’Aioc, il consorzio incaricato della gestione del sistema Btc-Scp e dell’oleodotto Baku-Supsa, va detto che l’accordo siglato nel giugno 2006 da Azerbaigian e Kazachstan (in base al quale quest’ultimo esporterà una parte consistente del petrolio estratto principalmente dal giacimento di Kashagan tramite l’oleodotto Btc) è un indice significativo dell’interesse di Astana per lo sviluppo di reti di trasporto alternative che riducano la dipendenza delle proprie esportazioni dalla benevolenza di Mosca, sul cui territorio per il momento transitano gli idrocarburi kazaki. Data l’attuale impraticabilità di soluzioni dirette verso est (Cina) o verso sud (Turkmenistan, Afghanistan, Iran), nonché l’improbabile eventualità che la Turchia autorizzi un incremento sostanziale del passaggio delle petroliere attraverso Istanbul in grado di far fronte a una possibile espansione della portata dell’oleodotto Cpc 43 , una condotta che collega direttamente Baku al Mar Mediterraneo rappresenta un’opportunità unica per il Paese asiatico per diversificare i propri canali di esportazione coerentemente con il desiderio di accrescere la propria importanza quale Paese produttore di risorse energetiche. Un discorso analogo può essere fatto per il Turkmenistan, che per esportare il proprio gas per il momento si affida quasi esclusivamente alla rete di gasdotti russi: da questo punto di vista la tensione nei rapporti con l’Azerbaigian riguardo alla definizione delle rispettive porzioni di sottosuolo del Caspio rappresenta un fastidioso ostacolo all’opportunità di collegare i vasti giacimenti di gas turkmeni alle infrastrutture caucasiche, che viceversa non potrebbe che essere uno stimolo positivo per spezzare il quasi-monopolio russo cui si è fatto cenno e per avvicinare il Paese ai ricchi mercati europei.

L’opportunità unica rappresentata dal corridoio di trasporto che attraverso il Caucaso raggiunge direttamente il Mediterraneo è messa in risalto anche dal terzo elemento dal quale, come si è detto, dipende l’efficienza economica delle infrastrutture per il trasporto delle risorse energetiche del Caspio, ovvero la possibilità di aggirare i cosiddetti “chokepoints”, quelle “strozzature” geografiche che ostacolano i regolari flussi commerciali via mare, costituite in particolare, per ciò che riguarda il trasporto del petrolio, dagli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli tra Mar Nero e Mar Mediterraneo e dallo Stretto di Hormuz tra Golfo Persico ed Oceano Indiano. In effetti, la possibilità di raggiungere direttamente il Mediterraneo attraverso la vicina Turchia è il fattore determinante che rende le infrastrutture che attraversano il Caucaso meridionale più appetibili anche per il petrolio del Kazachstan, oltre che naturalmente per le risorse dell’Azerbaigian, rispetto tanto all’oleodotto Cpc, che termina a Novorossijsk sul Mar Nero, quanto ad un eventuale oleodotto che dagli Stati del Caspio orientale procedendo verso sud attraversi l’Iran fino al Golfo Persico, diretto in questo caso verso i mercati asiatici44. Se quindi nel caso dell’Azerbaigian i vantaggi del sistema Btc-Scp sono

43 G. BAHGAT, Central Asia and Energy Security, cit., p. 9 e S.F. STARR - S.E. CORNELL, The Politics of Pipelines: Bringing Caspian Energy to Markets, cit. 44 L’opzione iraniana è stata a lungo considerata dai Paesi interessati e dalle compagnie petrolifere impegnate nella regione come la più efficiente da un punto di vista economico, nonostante il

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del tutto evidenti per prossimità geografica, maggiore controllo sulle risorse esportate e sulle infrastrutture di trasporto, l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan rappresenta anche per il Kazachstan “l’opzione migliore per trasferire sui mercati internazionali il petrolio del Caspio in modo sicuro, rapido, economico e rispettoso dell’ambiente”45.

Questo vale a maggior ragione se si considerano le ripetute dichiarazioni delle autorità turche che sottolineano la situazione ormai insostenibile del traffico attraverso gli Stretti (dalla metà degli anni Novanta al 2005 il transito delle petroliere nel Bosforo è triplicato 46 ) e l’intenzione di impedire ogni ulteriore incremento della quantità di petrolio passante per la città più popolosa e importante della Turchia. In realtà, ciò che più di ogni altra preoccupazione relativa alla sicurezza della popolazione di Istanbul può convincere compagnie petrolifere e Paesi esportatori a concentrare la propria attenzione sulle vie di transito che attraversano il Caucaso, e in particolare sull’oleodotto Btc, è la possibilità neanche troppo remota che la Turchia decida di aumentare le già costose tariffe per il transito delle petroliere attraverso gli Stretti o di rendere più severe le relative norme di sicurezza nel tentativo di ridurre il traffico. Considerato che tali norme per il transito di materiali pericolosi attraverso gli Stretti impongono alle petroliere lunghi tempi di attesa (che nella stagione invernale possono anche superare le due settimane) e che per ogni giorno di attesa le compagnie di trasporto devono pagare un costo di stazionamento che si aggira intorno ai 60mila dollari47, si comprende facilmente come un oleodotto che non dipenda dal transito attraverso il Bosforo per raggiungere i mercati permetta agli esportatori un sostanzioso risparmio in termini di tempi e di costi.

Non sorprende quindi che la ricerca di nuovi canali di trasporto alternativi al passaggio attraverso i chokepoints e il potenziamento delle infrastrutture esistenti sia anche al centro dei già ricordati programmi Traceca e Inogate. In particolare quest’ultimo ha assegnato la priorità a tre progetti di costruzione di oleodotti direttamente sul suolo europeo: l’estensione dell’oleodotto Odessa-Brody fino alla città polacca di Plock; la costruzione di un oleodotto che dal porto rumeno di formidabile ostacolo costituito dalla politica degli Stati Uniti ostile al coinvolgimento dell’Iran nei progetti di costruzione di nuove infrastrutture per il trasporto del petrolio del Caspio. Lo scoglio che ha determinato il definitivo accantonamento del progetto è piuttosto legato proprio al fatto che le risorse energetiche trasportate attraverso l’Iran avrebbero raggiunto il Golfo Persico e sarebbero poi state esportate attraverso lo Stretto di Hormuz, che con i circa 17 milioni di barili di greggio che transitano giornalmente in un canale largo poco più di tre chilometri costituisce di gran lunga la più importante “strettoia” petrolifera mondiale (attraverso il Bosforo transitano giornalmente 3 milioni di barili di greggio, in una larghezza inferiore ad un chilometro), S.E. CORNELL - M. TSERETELI - V. SOCOR, Geostrategic Implications of the Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline, cit., pp. 18-19. 45 S.F. STARR - S.E. CORNELL, The Politics of Pipelines: Bringing Caspian Energy to Markets, cit. 46 J. ELKIND, Economic Implications of the Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline, in S.F. STARR - S.E. CORNELL (a cura di), The Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline: Oil Window to the West, cit., p. 40. 47 Ibidem, p. 46.

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Costanta sul Mar Nero raggiunga Omisalj (Croazia) e prosegua fino al porto di Trieste; e la costruzione di un oleodotto che colleghi il porto bulgaro di Burgas, sempre sul Mar Nero, con il porto greco di Alessandropoli sul Mediterraneo48. Tutti e tre questi progetti mirano ad allentare la pressione sugli Stretti turchi e presuppongono chiaramente un rafforzamento e ampliamento delle strutture portuali situate sulle coste orientali del Mar Nero: di questo si occupa infatti il programma Traceca, che nei propri progetti di assistenza tecnica riguardanti lo sviluppo dei trasporti marittimi sottolinea l’importanza dell’ammodernamento e dell’ampliamento dei porti georgiani di Poti e, soprattutto, Batumi (che, come si ricorderà, è direttamente collegato all’oleodotto Baku-Supsa, di cui costituisce un terminale alternativo) e del rafforzamento delle rotte marittime che li collegano ai porti situati sulle coste occidentali del Mar Nero, di cui gli oleodotti progettati nell’ambito dell’Inogate costituirebbero un naturale prolungamento verso i mercati europei49.

Se questo insieme di ragioni economiche contribuiscono ad accentuare l’importanza del Caucaso meridionale come valido corridoio alternativo in grado di accrescere la sicurezza energetica per consumatori, esportatori e mercati energetici globali, rendendo il trasporto delle risorse energetiche meno vulnerabile a shock di natura tecnica o politica e mantenendo un alto grado di efficienza economica, non bisogna dimenticare che nel caso della regione del Caucaso e del Mar Caspio la scelta della via più appropriata attraverso cui tali risorse devono passare riflette più che mai anche una serie di motivazioni legate a una complessa competizione politico-strategica in atto tra soggetti locali e potenze regionali ed extraregionali.

48 INOGATE, INOGATE Developments 2001-2004 and New Perspectives, cit., p. 10. 49 TRACECA, TRACECA Brochure, cit., p. 38.

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2.2 Le ragioni politico-strategiche: le risorse energetiche e il cosiddetto “Grande Gioco”

Il 25 maggio 2005 Samuel Bodman, Segretario del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, in occasione della cerimonia ufficiale di apertura dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, salutava l’inizio di “[…] una nuova era nello sviluppo del bacino del Caspio. [L’oleodotto Btc] permette al petrolio del Caspio di raggiungere i mercati europei e mondiali in modo economicamente efficiente e rispettoso dell’ambiente, […] rafforza l’integrazione di Azerbaigian, Georgia e Turchia nell’economia globale. […] Gli Stati Uniti hanno sostenuto il Btc perché credono nella capacità di tale progetto di rafforzare la sicurezza energetica globale, diversificare le fonti di approvvigionamento energetico dei Paesi partecipanti, dare slancio alla cooperazione regionale ed espandere le opportunità di investimento internazionale […]”50. Le parole del Segretario Bodman, peraltro confermate anche da un analogo intervento del portavoce del Dipartimento di Stato51, non hanno fatto altro che ribadire le linee fondamentali che, almeno negli interventi ufficiali, hanno guidato l’approccio americano alla questione della scelta dei corridoi di trasporto più adatti a far giungere le risorse energetiche del Caspio sui mercati internazionali: preoccupazione per la sicurezza energetica globale, impegno per lo sviluppo economico della regione e, naturalmente, volontà di massimizzare i profitti degli investimenti americani.

Ciò che le parole del Segretario Bodman hanno mancato di sottolineare al cospetto dei leader politici locali e della stampa internazionale è stato un concetto d’altro canto ben noto a tutti i presenti: il concetto cioè che l’oleodotto Btc, prima ancora di essere un progetto determinante per le prospettive di sviluppo regionale, particolarmente importante per la sicurezza energetica globale e probabilmente anche vantaggioso per gli investitori internazionali, è stato fin dall’inizio dei dibattiti riguardanti la sua possibile realizzazione una pedina, peraltro di grande valore strategico, all’interno di un complesso gioco geopolitico che ha coinvolto, e tuttora coinvolge, le maggiori potenze regionali ed extra-regionali in una competizione per l’estensione della propria influenza che tende inevitabilmente ad intrecciarsi con gli sforzi dei soggetti locali volti a rafforzare la propria sovranità ed ampliare il proprio spazio di manovra internazionale.

La dissoluzione dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni Novanta ha creato un vuoto di potere in un’area particolarmente rilevante per le relazioni internazionali, che si estende dal Mar Nero ai confini con la Cina. L’importanza strategica del Caucaso e dell’Asia centrale è dovuta anzitutto alla collocazione geopolitica stessa della regione: più ancora della sua condizione di ponte tra Europa e Asia, e

50 UNITED STATES DEPARTMENT OF ENERGY, OFFICE OF PUBLIC AFFAIRS, Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline First Oil Ceremony. Remarks of Secretary of Energy Samuel Bodman, Washington D.C., 25 May 2005, http://www.energy.gov. 51 UNITED STATES DEPARTMENT OF STATES, United States Welcomes Opening of Caspian Basin Pipeline, 25 May 2005, http://usinfo.state.gov.

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tra cultura occidentale, islamica e sinica52, ciò che ne rende evidente la centralità è la sostanziale fragilità dei suoi equilibri strategici e militari. La vicinanza di quattro potenze nucleari (Russia, Cina, India e Pakistan), di un altro Stato che ha intrapreso un attivo programma di sviluppo del proprio potenziale nucleare (Iran), di un Paese la cui stabilità e sicurezza necessita il sostegno della comunità internazionale (Afghanistan) e del bastione sud-orientale della Nato (Turchia), unita alla lunga tradizione di conflitti etnici locali, fa del Caucaso e dell’Asia centrale un’area a rischio continuo di instabilità, e quindi meritevole della massima attenzione internazionale. La guerra globale contro il terrorismo lanciata dagli Stati Uniti non ha fatto che accentuarne il valore strategico per Washington come base di partenza indispensabile per le proprie operazioni militari, dandole così l’opportunità di riempire con la propria presenza il vuoto lasciato dall’Unione Sovietica53.

Se l’11 settembre 2001 e la campagna contro il terrorismo che ne è seguita hanno fornito l’occasione per l’insediamento di una potenza esterna nella regione, un altro avvenimento ha contribuito in misura determinante a plasmare il destino dell’area: la costituzione nel 1994 del consorzio internazionale Aioc può essere assunta come punto di partenza della competizione internazionale per il controllo e soprattutto per l’accesso alle risorse energetiche di cui è ricco il bacino del Caspio, che ha aggiunto un’ulteriore dimensione alla lotta per il controllo politico-strategico del Caucaso e dell’Asia centrale. Da quel momento la partita che si è giocata intorno alle infrastrutture destinate ad esportare le risorse energetiche del Caspio ha avuto l’obiettivo di creare reti di dipendenza politica e di cooperazione strategica funzionali da un lato a massimizzare l’influenza di ciascuna delle maggiori potenze nella regione, dall’altro lato a sfruttare il coinvolgimento di queste ultime per perseguire gli interessi strategici propri di ciascuno degli Stati locali54. In altre parole, le modalità di gestione dei flussi delle risorse energetiche, il maggiore o minore (o persino mancato) coinvolgimento dei soggetti interessati agli equilibri della regione nella scelta dei percorsi di transito del gas e del petrolio rappresentano il “fattore critico” per determinare il successo o il fallimento delle rispettive politiche.

In questo contesto di competizione internazionale e rivalità geopolitiche il Caucaso viene proiettato al centro della scena in virtù del ruolo fondamentale che la regione caucasica può svolgere all’interno della Grand Strategy americana, ovvero il ruolo di “corridoio” in grado di consentire l’accesso all’Asia centrale e (ancora più importante) al cosiddetto “Grande Medio Oriente” che costituiscono

52 S.E. CANTLEY, Black Gold or the Devil’s Excrement? Hydrocarbons, Geopolitics and the Law in the Caspian Basin, in «Europe-Asia Studies», 54, 2002, 3, p. 478. 53 G. BAHGAT, Central Asia and Energy Security, cit., p. 11. 54 B. SHAFFER, From Pipedream to Pipeline: A Caspian Success Story, in «Current History», October 2005, p. 344.

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un obiettivo strategico degli Stati Uniti55. All’inizio degli anni Novanta le neonate repubbliche indipendenti ex-sovietiche erano viste come periferiche rispetto agli interessi strategici americani, e l’attenzione che esse ricevevano da Washington era sostanzialmente dettata dalla preoccupazione che l’eredità dell’arsenale sovietico finisse nelle mani sbagliate, favorendo la proliferazione di armi di distruzione di massa56. Viceversa dalla metà del decennio la politica americana verso la regione ha assunto una connotazione sempre più assertiva, volta a minimizzare l’influenza russa e (soprattutto) iraniana e a creare “[…] un nuovo spazio geopolitico che si estende dalla Turchia attraverso il Caucaso meridionale fino all’Asia centrale, che consenta [agli Stati Uniti] l’accesso diretto all’intera Eurasia” 57 . Da allora l’appoggio e il coinvolgimento di Washington nella realizzazione delle infrastrutture di trasporto delle risorse energetiche del Caspio passanti per il Caucaso sono stati motivati dal desiderio politico-strategico di creare un corridoio di trasporto lungo la direttrice est-ovest che escludesse qualsiasi interferenza russa e negasse all’Iran la possibilità di sfruttare la sua posizione geograficamente favorevole per il transito delle risorse del Caspio al fine di aumentare la propria influenza nella regione.

In effetti il transito attraverso l’Iran poteva essere (e a dire il vero lo è stato, almeno per il gas turkmeno) una possibile alternativa per il trasporto delle risorse energetiche del Caspio: la scelta della direttrice est-ovest passante per il Caucaso tuttavia esclude il Paese e rischia di ridurne l’influenza in un’area che Teheran ha storicamente considerato di proprio interesse strategico. In quest’ottica si comprende come la decisione iraniana di firmare tra il 2001 e il 2002 una serie di accordi con l’Armenia per la costruzione di un gasdotto che colleghi i due Paesi (fornendo alla repubblica caucasica un’alternativa alla totale dipendenza dal gas russo per soddisfare il proprio fabbisogno) non sia che il tentativo di percorrere l’unica strada rimasta all’Iran per mantenere la propria presenza e recuperare la propria influenza nel Caucaso. Il Caucaso è infatti un tassello-chiave anche nella strategia della Repubblica Islamica: con la propria presenza nella regione l’Iran si lega anche direttamente all’Europa, e può presentarsi all’Occidente (Stati Uniti esclusi) come una forza di stabilità per il mantenimento dei fragili equilibri locali. A conferma di questo ragionamento, si può citare il repentino cambiamento nelle relazioni, tradizionalmente poco amichevoli, tra Iran e Azerbaigian, avvenuto all’indomani dell’inclusione del primo nel cosiddetto ”asse del male” da parte degli Stati Uniti: temendo che la cooperazione tra Washington e Baku nella lotta al terrorismo avrebbe potuto spingersi fino a fare del Paese caucasico una base per un eventuale attacco statunitense, Teheran ha effettuato una svolta a centottanta gradi nella sua politica e ha avviato un intenso dialogo al vertice con Baku nel 55 Ibidem, p. 344 e M. BRILL OLCOTT, The Great Powers in Central Asia, in «Current History», October 2005, p. 332. 56 G. BAHGAT, Central Asia and Energy Security, cit., p. 12. 57 V. MATCHAVARIANI, U.S. Policies and Russian Responses to Developing the East-West Transportation Corridor, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 18 June 2003, http://www.cacianalyst.org.

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tentativo di assicurarsi una benevola neutralità da parte del suo vicino settentrionale58.

Nel lungo periodo tuttavia l’obiettivo americano, di cui la costruzione di un’opportuna rete di infrastrutture energetiche nel Caucaso meridionale dovrebbe permettere il raggiungimento, è quello, detto con le parole di Zbigniew Brzezinski, ex-Consigliere per la Sicurezza Nazionale, di “[…] ridurre e poi azzerare influenza e presenza russa nella regione, favorendo l’affermazione e la crescita di quella occidentale, segnatamente di quella americana”59. La strategia di Multiple Pipelines sostenuta da Washington è infatti uno strumento prezioso per rafforzare l’indipendenza e la sovranità degli Stati del Caucaso e dell’Asia centrale, sottraendo appunto il controllo delle loro risorse più preziose alla vicina Russia. Unita agli altri strumenti utilizzati da Washington nella regione, ovvero la cooperazione (prevalentemente militare) sotto l’”ombrello” della Nato e della Partnership for Peace, l’appoggio alla creazione del Guuam (un’iniziativa di cooperazione politica, economica e strategica avviata nel 1996 da Georgia, Ucraina, Uzbekistan, Azerbaigian e Moldova allo scopo di rafforzare l’indipendenza e la sovranità di queste repubbliche ex-sovietiche) e la promozione dei movimenti democratici (come la cosiddetta “Rivoluzione delle Rose” in Georgia), la Multiple Pipeline Strategy sembra in grado di garantire agli Stati Uniti la possibilità di mantenere nell’area una presenza di lungo periodo in grado di bilanciare la Russia e, in una prospettiva più lontana, la Cina. Non bisogna infatti dimenticare che una politica energetica che promuova le infrastrutture energetiche dirette dal Caspio al Mediterraneo passando per il Caucaso nega anche a Pechino (nel 2005 il secondo maggior consumatore di petrolio, dietro agli Stati Uniti 60 ) l’accesso alle risorse energetiche del Caspio, cui la Repubblica Popolare è interessata per soddisfare il proprio crescente fabbisogno e che costituiscono una delle ragioni principali del suo coinvolgimento nell’area. In quest’ottica la politica cinese di inserimento attivo nella partita per le risorse energetiche “[…] rischia… di indebolire fatalmente il tentativo statunitense di affermare il primato americano nel Caspio”61.

D’altro canto anche il tentativo russo di riaffermare la tradizionale influenza nel suo “estero vicino” passa per il controllo sulle principali infrastrutture per l’esportazione delle risorse energetiche da essi detenute e sulle reti di distribuzione delle stesse risorse all’interno dei Paesi del Caucaso e dell’Asia Centrale. Basti pensare che la Russia è per ora l’acquirente pressoché esclusivo del gas estratto in Turkmenistan, che viene quindi trasferito sui mercati grazie al

58 S.E. CORNELL - F. ISMAILZADE, The Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline: Implications for Azerbaijan, in S.F. STARR - S.E. CORNELL (a cura di), The Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline: Oil Window to the West, cit., p. 79. 59 Riportato in BTC, la nuova pedina del Grande Gioco petrolifero, in «Il Sole 24 Ore», 25 maggio 2005, http://www.ilsole24ore.com. 60 BP, Statistical Review of World Energy, cit., p. 11. 61 L. MAUGERI, Il Caspio divide Russia e America, in «Il Sole 24 Ore», 18 maggio 2006.

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sistema di gasdotti russo; che nel complesso Gazprom, Itera e Rao Ues dominano le reti di distribuzione del gas e dell’elettricità, nonché i principali impianti di produzione dell’energia elettrica in Armenia, Georgia e repubbliche dell’Asia centrale; e che Mosca è sempre più consapevole anche dell’importanza del controllo degli impianti idroelettrici dell’Asia centrale per far sentire il peso determinante della propria voce nella gestione delle risorse idriche della regione, e quindi massimizzare la propria influenza politica62.

Parallelamente Mosca si oppone alla costruzione di nuovi oleodotti e gasdotti che trasportino le risorse del Caspio indipendentemente dal controllo russo, prime fra tutte le infrastrutture sponsorizzate dagli Stati Uniti e passanti per il Caucaso meridionale: tali infrastrutture infatti fanno cadere uno degli indispensabili presupposti grazie ai quali la Russia può mantenere una forte influenza politico-strategica sulla regione. A dimostrazione dell’importanza che la partita delle infrastrutture energetiche ha assunto nella politica regionale russa, nel febbraio scorso (circa tre mesi prima della prevista apertura dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan) Mosca ha cercato di recuperare parte del proprio controllo sulle risorse energetiche del Caspio proponendo all’Azerbaigian un accordo di lungo termine sulle quantità di petrolio da trasportare attraverso il vecchio oleodotto Baku-Novorossijsk, nel tentativo di impedire un completo abbandono dell’oleodotto passante sul territorio russo come via di esportazione del petrolio azero63.

Ancora più che in Azerbaigian, il cosiddetto “Grande Gioco” si manifesta in Georgia. Non solo sul territorio georgiano transitano tanto il sistema Btc-Scp quanto l’oleodotto Baku-Supsa, ma il Paese acquista anche una speciale rilevanza strategica per la stabilità regionale in considerazione dello stato di conflitto esistente tra gli altri due Stati caucasici. La stabilità della Georgia è quindi essenziale per rafforzare la posizione degli Stati Uniti nella regione, e per dimostrare la validità dell’appoggio americano all’oleodotto Btc e in definitiva di tutta la politica americana verso il Caucaso: a questo proposito infatti è da segnalare la crescente partecipazione americana al mantenimento della stabilità della Georgia, anzitutto con consistenti contributi economici a sostegno dell’integrità territoriale del Paese (il riferimento è ovviamente alle questioni dell’Ossetia meridionale e dell’Abkhazia)64, e soprattutto inviando a partire dal 2002 numerosi “consiglieri militari” in chiave antiterroristica.

L’effetto complessivo dell’intrecciarsi delle strategie e rivalità delle potenze impegnate nel “Grande Gioco” e dei soggetti locali che possono sfruttare tali

62 Ibidem; M. TSERETELI, Russian Energy Expansion in Caucasus: Risks and Mitigation Strategy, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 27 August 2003, http://www.cacianalyst.org; M. BRILL OLCOTT, The Great Powers in Central Asia, cit., p. 334. 63 Moscow Proposes Oil Transport Deal to Azerbaijan, in «Axis Information and Analysis», 23 February 2006, http://www.axisglobe.com. 64 UNITED STATES DEPARTMENT OF STATE, U.S. Pledges $2 Million for South Ossetia Economic Rehabilitation e U.S. Donate $2 Million for Georgia’s South Ossetia Region, 14 June 2006, http://usinfo.state.gov.

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rivalità a proprio vantaggio è quello di ampliare le opzioni di politica estera degli Stati locali e di esaltare il loro ruolo nella regione. Da questo punto di vista, il Paese che ha saputo maggiormente beneficiare dell’andamento della partita per le infrastrutture energetiche, e che pertanto incarna meglio la strategia di sviluppo di molteplici direttrici lungo cui incanalare la propria politica estera, è forse il Kazachstan. La Multiple Pipeline Strategy americana e soprattutto il corridoio di trasporto caucasico rafforzano la posizione del Paese nei confronti della Russia garantendone una maggiore indipendenza, consentono lo sviluppo di una strategia di esportazione delle risorse energetiche capace di aggiustare secondo opportunità i flussi petroliferi diretti rispettivamente verso Russia, Cina e Occidente (tramite il Caucaso) e di equilibrare volta per volta i tre maggiori “poli” (Russia, Cina e Stati Uniti) con cui Astana è in relazione, e in definitiva soddisfa l’ambizione del Kazachstan a divenire un soggetto importante nei mercati energetici capace di sviluppare relazioni vantaggiose con le maggiori potenze extra-regionali65. Allo stesso modo la realizzazione del corridoio caucasico è per Baku un’opportunità preziosa per ampliare il proprio raggio d’azione internazionale e sviluppare, tramite le prospettive di estensione transcaspiana del sistema Btc-Scp e dei corridoi Traceca e Inogate, una politica estera che coinvolgendo i Paesi dell’Asia centrale esalti la posizione e il valore politico-strategico dell’Azerbaigian.

3. Conclusioni: l’Europa, la sicurezza energetica e il cosiddetto “Grande Gioco” del Caspio

L’intero sistema di infrastrutture per il trasporto delle risorse energetiche attraverso il Caucaso sembra dunque risentire delle decisioni politico-strategiche di Washington, nell’ambito del più generale approccio degli Stati Uniti verso quella vasta regione che si estende dal Mediterraneo orientale ai confini cinesi, più ancora che dell’insieme di ragioni economiche legate alla questione energetica. Per citare le parole del Presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev: “se non fosse stato per il sostegno degli Stati Uniti, non avremmo mai potuto trasformare questi progetti in realtà”66.

Anche se l’Europa dovrebbe, almeno in teoria e nelle dichiarazioni ufficiali, essere il soggetto maggiormente interessato alle risorse energetiche del Caspio per accrescere la propria sicurezza energetica minimizzando la propria dipendenza dalla Russia, l’Unione Europea è stata sostanzialmente assente nel cosiddetto “Grande Gioco” nel Caucaso meridionale. Molto più dell’empasse in cui si trovano gli ambiziosi programmi Traceca e Inogate, penalizzati dalla scarsità di fondi e di iniziative di rilievo per alimentare la cooperazione tra Europa da un lato e Caucaso ed Asia centrale dall’altro, pesa la mancanza di una visione strategica 65 S.F. STARR - S.E. CORNELL, The Politics of Pipelines: Bringing Caspian Energy to Markets, cit. 66 Riportato in G. ISMAILOVA, Baku-Tbilisi-Ceyhan Oil Pipeline Is Put into Operation, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 1 June 2005, http://www.cacianalyst.org.

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attiva e condivisa67. Eppure, la questione della sicurezza energetica e la crescente interdipendenza che si sta creando tra Europa e Caucaso rendono un eventuale deterioramento della stabilità nel Caucaso una minaccia per la stessa sicurezza europea: sembra dunque necessario che i Paesi europei identifichino rapidamente una strategia attiva e condivisa verso la regione.

67 L. MAUGERI, Il Caspio divide Russia e America, cit.

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L’EVOLUZIONE DELLE STRATEGIE RUSSE NEL CAUCASO (1991-2006)

Aldo Ferrari

Introduzione

La dissoluzione dell’Urss, avvenuta alla fine del 1991, ha avuto conseguenze particolarmente notevoli in una regione complessa e tormentata come quella caucasica 1 . Il risultato più significativo è stato l’indipendenza di Georgia, Armenia e Azerbaigian, che in epoca sovietica avevano lo status di repubbliche federate. Dopo quasi due secoli la Russia ha così perso le sue conquiste transcaucasiche, con le quali aveva avuto un rapporto che nel complesso può essere considerato positivo. Conserva invece al suo interno le indocili popolazioni del Caucaso settentrionale, inquadrate in repubbliche o regioni autonome2.

Nel primo periodo post-sovietico la Russia si è quindi trovata a dover sostenere nei confronti del Caucaso una politica di doppio registro, interna ed esterna al tempo stesso, resa estremamente difficile dalla profonda crisi politica, economica e culturale che l’ha coinvolta soprattutto negli anni Novanta dello scorso secolo. In questo senso il Caucaso costituisce per la Russia una sorta di duplice confine, interno ed esterno al tempo stesso3. Conviene qui esaminarne lo sviluppo a partire dalla distinzione fondamentale tra i due versanti del Caucaso, l’uno ancora inserito nella compagine federale russa, l’altro ormai indipendente. A Mosca, tuttavia, l’intera regione caucasica viene percepita come un unico sistema, sia nella sfera economica che in quella di sicurezza4. Si tratta in effetti della regione più turbolenta dell’intera area ex-sovietica, che mette a dura prova le capacità politiche del Cremlino, i cui interessi fondamentali sono essenzialmente due: preservare l’integrità territoriale della Federazione nel Caucaso settentrionale e salvaguardare i propri interessi strategici ed economici nella Transcaucasia. Come è stato osservato, “Più ancora che in altre aree ex sovietiche, in quella caucasica la

1 Per uno sguardo più vasto sulla storia antica e recente del Caucaso rimando al mio recente saggio Il Caucaso. Popoli e conflitti di una frontiera europea, Roma, 2005. 2 Strumenti utili per “leggere” la complessa situazione attuale sono: N. BEROUTCHACHVILI - J. RADVANY (a cura di), Atlas géopolitique informatique du Caucase, Paris, 1996 e A. CUCIEV, Atlas Etnopolitičeskoj istorii Kavkaza, 1774-2004, Moskva, 2006. 3 Si veda a questo riguardo A. FERRARI, La Russia e il “limes” caucasico (1801-2002), in L. ZARRILLI (a cura di), La grande regione del Caspio. Percorsi storici e prospettive geopolitiche, Milano, 2004, pp. 17-42. 4 D. LYNCH, A Regional Insecurity Dynamic, in The South Caucasus: A Challenge for the EU, «Chaillot Papers», 2003, 75, p. 17.

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fondamentale e dominante finalità strategica russa rimane quella della conservazione di un ruolo egemonico primario di influenza politica”5. In questo studio la politica della Russia verso il Caucaso verrà esaminata in due fasi – corrispondenti la prima alla presidenza di Boris El’cin, la seconda a quella di Vladimir Putin – e seguendone l’evoluzione.

1. Il Caucaso settentrionale

Se la dissoluzione dell’Urss ha consentito alle tre repubbliche della Transcaucasia di trovare una loro pur sofferta ed ancora incompleta indipendenza da Mosca, le popolazioni del Caucaso settentrionale, tradizionalmente le più avverse al dominio russo e sovietico, sono invece rimaste inserite nel quadro della Federazione Russa con lo status di repubbliche o regioni autonome. Bisogna inoltre considerare che in gran parte di queste entità autonome esiste una forte componente russa (31, 8% in Ossetia settentrionale, 71, 8% nella regione autonoma adighea ecc.)6.

Nel Caucaso Settentrionale la Russia post-sovietica deve fronteggiare una situazione quanto mai complessa, in cui interagiscono fattori differenti. Benché la maggior parte delle popolazioni locali siano musulmane, l’aspetto religioso sembra essere secondario se non, in parte, nel caso della Cecenia e del Dagestan, dove l’islam è più antico e strutturato7. Dopo la fine dell’Urss sono in effetti venuti al pettine soprattutto i nodi creati dalla politica delle nazionalità portata avanti negli anni Venti, in primo luogo il collegamento – tra l’altro quasi sempre imperfetto – tra etnie e territori, compromesso ulteriormente dalle repressioni “staliniane”. Al di là di ogni giudizio di merito, la territorializzazione delle identità locali, in precedenza di carattere sostanzialmente tribale, ha determinato una serie di conflitti latenti8, aggravati dalle deportazioni “staliniane” alla fine della seconda guerra mondiale e dalla infelice gestione del ritorno dei popoli deportati9. L’apparente – e relativa – tranquillità di questi territori dopo il ritorno in essi dei deportati in seguito al XX Congresso ha dimostrato negli immediati anni post-sovietici tutta la sua precarietà. La possibilità che l’inserimento nella Federazione Russa venga sostituito da una struttura politica unitaria che comprenda tutti i popoli del Caucaso del Nord, o almeno una loro sensibile parte, sembra tuttavia remota. E non solo per l’indisponibilità di Mosca. Il punto è che 5 A. VITALE, La politica estera russa e il Caucaso, in «Quaderni di Relazioni Internazionali», 2006, 1, p. 40. 6 Questi dati sono quelli dell’ultimo censimento sovietico, del 1989. Cfr. P. B. HENZE, The Demography of the Caucasus According to 1989 Soviet Census Data, in «Central Asian Survey», 10, 1991, 1/2, p. 158. 7 A. BENNIGSEN - C. LEMERCIER QUELQUEJAY, L’islam parallelo. Le confraternite musulmane in Unione sovietica, a cura di E. FASANA (trad. it.), Genova, 1990. 8 S. SALVI, La mezzaluna con la stella rossa. Origini, storia e destino dell’islam sovietico, Genova, 1993, pp. 259-264. 9 A. NEKRIČ, Popoli deportati. Il genocidio delle minoranze nazionali sotto Stalin: una ferita ancora aperta, trad. it., Milano, 1978.

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la politica nazionale sovietica ha sensibilmente rinforzato le singole identità etnico-nazionali, ormai fortemente collegate a entità politico-territoriali. Allo stato attuale dei fatti, cioè, appare poco probabile che le popolazioni del Caucaso del Nord possano realmente trovare una qualche forma di unità politica. Neppure la fede islamica, pur condivisa dalla grande maggioranza delle popolazioni del Caucaso settentrionale, assai spesso in maniera intensa, sembra poter costituire un fattore unificante davvero efficace a livello politico. Nell'intera regione, tuttavia, il peso dell'islam continua ad essere forte, soprattutto grazie all'azione delle confraternite, che neppure le dure repressioni sovietiche sono riuscite a smantellare ed hanno oggi ripreso a far sentire il loro influsso. Esistono anche organizzazioni politiche – in primo luogo il Partito della Rinascita Islamica – che in nome della comune fede religiosa chiedono il superamento delle divisioni etniche, riprendendo in questo modo il modello ottocentesco dell'imam Šamil', ma una prospettiva unitaria panislamica appare sinora inconsistente nel Caucaso come nelle altre regioni musulmane ex sovietiche. Nel Caucaso Settentrionale, cioè, la Federazione Russa si è trovata a fronteggiare una situazione quanto mai complessa, ma nella quale l’aspetto religioso sembra essere secondario se non, in parte, nel caso della Cecenia e del Dagestan.

La prima contesa che esplose fu quella del distretto di Prigorodnyj, attribuito all’Ossetia dopo la soppressione della repubblica autonoma della Cecenia-Inguscetia e deportazione della sua popolazione, nel giugno 1946. Anche dopo la ricostituzione di tale repubblica nel 1957, il distretto rimase all’Ossetia e i deportati ingusci che vi fecero ritorno trovarono le loro case occupate da osseti, i quali si rifiutarono di restituirle, appoggiati dalle autorità locali. Il conflitto rimase insoluto ma latente negli ultimi decenni sovietici, ma si intensificò nel 1990-91 ed esplose nel 1992 con violenti scontri tra le due popolazioni, imponendo l’invio di truppe russe a separare i contendenti. Gli ingusci, musulmani, continuano ad essere visti, al pari dei loro consanguinei ceceni, come una popolazione tradizionalmente ostile alla Russia. Le accuse ai russi di appoggiare gli osseti, prevalentemente cristiani e loro tradizionali alleati, sembrano pertanto essere almeno in parte giustificate. L’atteggiamento sostanzialmente favorevole agli osseti da parte di Mosca va inserito nelle dinamiche di lungo termine del rapporto tra la Russia ed il Caucaso, dove questa popolazione costituisce da sempre un importante sostegno delle strategie russe. Non a caso Mosca ha sostanzialmente appoggiato anche le rivendicazioni degli osseti meridionali, che chiedono l'unione dell'Ossetia settentrionale e di quella meridionale, inserita nella repubblica georgiana 10 . In definitiva il conflitto osseto-inguscio ha fornito alla Russia il pretesto per riprendere saldamente il controllo militare su un territorio importante della regione nord-caucasica. L’azione russa in Inguscetia va inoltre inquadrata nell’ambito del confronto con la Cecenia, proclamatasi indipendente già alla fine del 1991.

10 Sulle complesse dinamiche ossete si veda l’articolo di J. BIRCH, Ossetiya – Land of Uncertain Frontiers and Manipulative Elites, in «Central Asian Survey», 1999, 4, pp. 501-534.

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Nelle due repubbliche autonome del Caucaso del Nord, la Caraciaia-Circassia e la Cabardino-Balcaria, esistono invece contrasti tra le popolazioni caucasiche (circassi, adighei e cabardini, parlanti diverse varianti di un’unica lingua ed appartenenti all’etnia circassa) e turche (caraciai e balcari). Popolazioni cervelloticamente inserite in epoca sovietica in due entità politiche etnicamente miste e che cercano ora di ricomporsi secondo linee etniche e territoriali più coerenti, in sostanza costituendo una repubblica cabardino-circassa nel nord ed una caraciai-balcara nel sud montagnoso11. L’iniziativa è soprattutto nelle mani delle due popolazioni turche delle repubbliche, mentre quelle circasse sono meno attive. In ogni caso si tratta di popolazioni interamente musulmane, il che costituisce un parziale deterrente ad un loro scontro diretto. La situazione è tuttavia aggravata dalla presenza di una consistente popolazione russa, perlopiù di origine cosacca, quindi con un’antica tradizione di animosità nei confronti dei musulmani locali12 . Il governo russo sembra propenso a riprendere la politica zarista di usare questa popolazione cosacca come un utile strumento di pressione nei confronti delle popolazioni circasse e turche delle due repubbliche 13 . In entrambe, tuttavia, la situazione è rimasta sotto il controllo russo e sino a pochi anni fa non si sono avute gravi tensioni, anche perché al vertice sono rimasti uomini della nomenklatura sovietica, poco propensi ad avventure di tipo nazionalista o religioso.

Prima di passare ad occuparci del caso ceceno, conviene prendere in considerazione il rapporto tra Mosca ed il Dagestan. Quest’ultimo, organizzato in repubblica autonoma, è stato a lungo insieme alla Cecenia la regione più ostile alla dominazione russa. Il grande Šamil’, che nell’Ottocento guidò la resistenza antirussa, apparteneva ad una delle sue numerose popolazioni, gli avari, ed anche nel corso della ribellione al potere sovietico nel 1920-22 il Dagestan fu al centro degli eventi. Nonostante questo, però, la regione non venne coinvolta nella deportazione dei popoli avvenuta nel corso della Seconda Guerra Mondiale, forse per il timore in una sollevazione generale. Probabilmente proprio l’aver evitato questa tragedia è la ragione della relativa tranquillità della regione negli ultimi decenni sovietici, nel corso del quale le cariche politiche venivano distribuite alle molte, oltre trenta, comunità etniche della repubblica con un sistema di ripartizione simile al modello libanese. Anche negli anni immediatamente successivi alla dissoluzione dell’Urss, i problemi principali del Dagestan sono stati di ordine interno: da un lato l’aspirazione di una delle sue popolazioni – i lesghi – di riunirsi ai connazionali inseriti nell’Azerbaigian, dall’altro il conflitto tra la piccola comunità cecena locale (i cosiddetti akkiny) con quella dei lachi, che aveva occupato le loro terre durante la deportazione.

Anche nel corso delle due guerre della Russia con la Cecenia, quando molti ritenevano che il Dagestan avrebbe aiutato i suoi vicini, nulla di rilevante è in 11 S.E. CORNELL, Conflicts in the North Caucasus, in «Central Asian Survey», 1998, 3, p. 420. 12 V. AVIOUTSKII, Les cosaques au Nord-Caucase, in «Hérodote», 1996, 81, pp. 126-150. 13 S.E. CORNELL, Conflicts in the North Caucasus, cit., p. 422.

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effetti avvenuto, benché la parte nord-occidentale della repubblica sia stata marginalmente coinvolta negli scontri. La ragione principale di questa estraneità va vista nel fatto che, a differenza di quanto è avvenuto in Cecenia, nel Dagestan è rimasta sinora al potere l’élite sovietica di orientamento se non filo-russo, almeno non ostile alla Russia. Inoltre, come si è detto, le popolazioni della regione non hanno memoria diretta dell’orrore delle deportazioni. Infine, l’estrema frammentazione etnica del paese rende poco agevole organizzare dell’opposizione a Mosca, dalla quale il Dagestan dipende economiche in maniera pressoché assoluta14. Non vi è dubbio peraltro che esista un sentimento anti-russo all’interno delle popolazioni dagestane, tra le quali la pratica islamica è particolarmente radicata, ma senza un cambio al vertice politico è difficile che possa affermarsi. Vi sono tuttavia diversi segnali del fatto che la presa dell’élite sovietica sulla repubblica si sta attualmente attenuando15. In particolare il Dagestan costituisce il centro di una rinascita dell’islam, che peraltro non è mai stato sradicato, neppure in epoca sovietica, grazie all’azione delle confraternite sufi 16 . Adesso la fase clandestina è solo un ricordo e nelle scuole della repubblica, soprattutto nei distretti nord-occidentali, si stanno diffondendo classi di arabo e di Corano17 . Tutto questo tende, insieme con la rinascente pratica del pellegrinaggio alla Mecca, a riavvicinare i dagestani, come le altre popolazioni musulmane del Caucaso del Nord, al mondo islamico.

Sin dalla dissoluzione dell'Urss, tuttavia, il problema di maggior rilevanza della regione ciscaucasica è rappresentato dalla Cecenia. Nonostante il suo passato di strenua opposizione alla Russia, non vi è dubbio che un fattore determinante nel costituirsi di questa regione a bastione irriducibile della lotta dei popoli caucasici a Mosca sia stato l'aver trovato sin dall'inizio un leader energico come Džochar Dudaev. Questi, un ex generale sovietico, nell'ottobre del 1991 riuscì a prendere il potere a Groznyj indicendo un referendum nel quale venne sancita unilateralmente – unica tra le repubbliche della Federazione Russa – l’indipendenza della Cecenia-Inguscetia. Lo stesso Dudaev ne divenne presidente, chiedendo la solidarietà delle altre popolazioni caucasiche e dei musulmani in generale 18 . El’cin avrebbe voluto reprimere immediatamente questa secessione, ma il parlamento russo annullò il suo decreto sullo stato d'emergenza, allontanando per tre anni lo scontro armato. Nessuna delle altre repubbliche caucasiche ebbe però il coraggio di seguire l’esempio ceceno, anzi nel marzo del 1992 gli ingusci si separarono dalla Cecenia ed aderirono al nuovo trattato federale russo. Nel

14 Ibidem, p. 430. 15 R. BRUCE - E. KISRIEV, After Chechnya: New Dangers in Daghestan, in «Central Asian Survey», 1997, 3, pp. 401-412. 16 T. ZARCONE, Vitalità e influenza delle confraternite e del sufismo nella regione del Caucaso, in M. STEPANIANTS (a cura di), Sufismo e confraternite nell’islam contemporaneo. Il difficile equilibrio tra mistica e politica, Torino, 2003, pp. 161-181. 17 R. BRUCE - E. KISRIEV, The Islamic Factor in Dagestan, in «Central Asian Survey», 2000, 2, pp. 235-252. 18 S. SALVI, Breve storia della Cecenia, Firenze, 1995, p. 41.

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frattempo la Russia esercitò un rigido blocco economico nei confronti della Cecenia, che fu allora abbandonata da quasi tutti i russi che vi risiedevano19. Oltre a ciò, Mosca fomentò l’opposizione interna a Dudaev, che nell’ottobre del 1994 tentò di conquistare Groznyj con l’appoggio dell’aviazione russa. Il fallimento di questo tentativo indusse El’cin ad invadere la Cecenia, iniziando una guerra rivelatasi rovinosa. Le truppe russe riuscirono dopo molti sforzi ad occupare la parte pianeggiante della Cecenia, inclusa la capitale Groznyj (ridotta in macerie dai bombardamenti aerei), ma la resistenza cecena si concentrò sulle montagne e produsse clamorose azioni terroristiche. Prima tra tutte quella di Budennovsk, in territorio russo, dove un commando guidato da Šamil Basaev, si impadronì nel giugno 1995 dell’ospedale locale, riuscendo a resistere al sanguinoso intervento delle truppe speciali ed ottenendo un salvacondotto per rientrare in patria.

Nonostante l’uccisione di Dudaev avvenuta nell’aprile del 1996, l’avventura bellica in Cecenia divenne sempre più invisa all’opinione pubblica russa. La decisione di porre fine alle ostilità venne rafforzata dalla improvvisa e sconcertante riconquista di Groznyj da parte dei ceceni nei primi giorni dell’agosto 1996. Il 23 di quel mese, A. Lebed’, il plenipotenziario russo inviato dal presidente El’cin a risolvere la contesa con i ceceni, sottoscrisse un cessate il fuoco che prevedeva la partenza immediata delle truppe russe dalla Cecenia. Lo stesso Lebed’ stipulò poi con Aslan Maschadov, divenuto il principale capo della resistenza cecena dopo la morte di Dudaev, l’accordo di Chazav Jurt, in base al quale lo status definitivo della Cecenia sarebbe stato rinviato di 5 anni20.

Sotto la guida di Maschadov, eletto Presidente della Repubblica nel gennaio 1997 e riconosciuto tale dalla Russia, la Cecenia ha conosciuto alcuni anni di confusa e precaria indipendenza. I negoziati con la Russia per definire il nuovo status della repubblica sono apparsi subito inconcludenti, nonostante la stipula di un trattato di pace nel maggio 1997. Da parte russa la possibilità di riconoscere una piena indipendenza alla Cecenia era preclusa da considerazioni tanto politiche quanto economiche. L’indipendenza cecena avrebbe da un lato potuto stimolare analoghe richieste da parte di altre repubbliche della Federazione, caucasiche e non, con in prospettiva il rischio di una disgregazione dell’intero paese. Da un punto di vista economico, inoltre, la Cecenia non è particolarmente ricca di petrolio, ma attraverso essa passa quello prodotto nell’Azerbaigian, che viene esportato in Occidente attraverso il porto di Novorossijsk, sul Mar Nero. Un accordo, siglato nel settembre 1997, regolò provvisoriamente la questione del transito di questo petrolio21. Da un punto di vista politico la Russia offriva in sostanza alla Cecenia uno status di ampia autonomia, simile a quello di cui gode il Tatarstan all’interno della federazione. Ma da parte cecena questo appariva insufficiente, soprattutto dopo una guerra sostanzialmente vinta. Di fronte alla Russia si pose quindi un 19 Ibidem, p. 44. 20 M. BENNIGSEN BROXUP, Chechnya: Political Development and Strategic Implication for the North Caucasus, in «Central Asian Survey», 1999, 4, p. 545. 21 Ibidem, p. 556.

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dilemma: riconoscere l’indipendenza cecena, col rischio di innescare un processo di progressiva secessione dei soggetti della Federazione, almeno nel Caucaso settentrionale, oppure ritornare all’uso della forza, con una migliore programmazione dell’azione militare?

2. La Transcaucasia

A differenza di quanto fece l’Urss nei primi anni 20, la Russia post-sovietica non è stata in grado di arrestare il cammino verso l’indipendenza delle repubbliche transcaucasiche. E questo sia per una almeno iniziale rottura ideologica con il passato imperiale sia per il caos politico-diplomatico dell’immediato periodo post-sovietico. Come è stato osservato, ... per dimensioni e ritmi di attività economica, coerenza ed equilibrio nella politica estera la Russia attuale non raggiunge neppure il livello di una potenza regionale come la Turchia22. Pur con ripetute e spesso pesanti intromissioni nella vita politica di questi paesi, soprattutto di Georgia e Azerbaigian, Mosca non sembra avere l’effettiva possibilità di muoversi davvero in una direzione “neo-imperiale”. Oltre a ciò, anche psicologicamente l’opinione pubblica russa tende a disinteressarsi sempre più di questa regione, coinvolgendo le tre repubbliche transcaucasiche in una più generale avversione per il Caucaso derivante in primo luogo dalle vicende cecene23. Tra l’altro, in tutta la Transcaucasia la percentuale dei russi residenti è assai bassa, certo assai minore delle percentuali riportate dall’ultimo censimento sovietico (7,38% in Georgia, 1,84% in Armenia, 6,16% in Azerbaigian)24.

Occorre tuttavia tener presente che la Russia considera anche la Transcaucasia come le altre aree ex sovietiche un “Estero Vicino” (Blizkoe Zarubež’e), vale a dire uno spazio storicamente, politicamente ed economicamente legato ai suoi interessi vitali. Questo senza presupporre necessariamente una ricomposizione imperiale, ma …ponendosi come fine, non sempre apertamente confessato, quello della “reintegrazione sovrastatale” delle repubbliche ex sovietiche e dell’autodeterminazione delle minoranze russe in esse contenute25. Soprattutto a partire dalla fine del 1993, Mosca ha esplicitato i suoi interessi e le sue priorità riguardo ai conflitti nell’ex-Urss, rivendicando: a) le funzioni di peacekeeping e difesa delle minoranze nazionali, in particolare russofone, in tutto l’ “estero vicino”; b) il mantenimento della stabilità nel territorio dell’intera Csi e la formazione di una fascia di “buon vicinato” lungo i confini russi, da assicurare anche per mezzo di forze militari; c) un ruolo speciale all’interno della Csi, non solo per i suoi specifici interessi nazionali, ma anche alla luce del fatto che

22 S. PANARIN, Konflikty v Zakavkaz’e: pozicii storon, perspektivy uregulirovanija, vozmožnyj vklad Rossii, in «Vestnik Evrazii», 1999, 1/2, p. 122. 23 Ibidem, p. 123. 24 P.B. HENZE, The Demography of the Caucasus According to 1989 Soviet Census Data, cit., p. 151. 25 A. VITALE, La politica estera russa e il Caucaso, cit., p. 44.

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nessuno stato estero e nessuna organizzazione internazionale ha mostrato l’intenzione o la capacità di sostituire la Russia in questo ruolo. Tali rivendicazioni non escludono però la richiesta di collaborazione con Onu e Osce nella gestione delle aree di crisi nello spazio ex-sovietico26.

La Transcaucasica è una regione di enorme significato strategico ed economico per la Russia, la cui politica nella regione risulta solo limitatamente efficace, in primo luogo a causa del divario esistente tra le ambizioni a rimanere nella regione come forza dominante e le potenzialità a disposizione27. L’azione di Mosca in Transcaucasia è peraltro favorita da alcuni fattori di notevole rilevanza: la contiguità territoriale, … l’appartenenza dell’intera regione all’area linguistica russa e la comune esperienza sovietica (che facilita le possibilità di comprensione e dialogo), il prevalente orientamento verso la Russia dei flussi economici ed umani locali (che aumenta l’interesse delle popolazioni transcaucasiche alla conservazione di vasti legami economici, politici ed umanitari con la Russia), la presenza, infine, di basi e truppe russe di peace-making nella regione (grazie alle quali la Russia può ancora esercitare una notevole pressione di breve termine)28.

Dal punto di vista strategico Mosca è evidentemente interessata ad avere a sud della nuova e turbolenta frontiera caucasica una fascia di paesi non ostili, che le consentano di mantenere i suoi interessi nella regione. Si tratta di interessi legati sostanzialmente alle fonti di energia. In primo luogo al petrolio nel Caspio, che dopo il crollo dell’Urss è passato sotto il controllo dell’Azerbaigian indipendente, dal quale le compagnie occidentali hanno presto ottenuto la maggior parte dei diritti di sfruttamento29. Ma anche a quello del Kazachstan, che – insieme con il gas del Turkmenistan – per essere avviato verso i mercati occidentali deve transitare attraverso il Caucaso seguendo un percorso che è stato al centro di accanite dispute tra i paesi interessati (Russia, Turchia, Iran, Azerbaigian, Armenia, Georgia) e che nel summit Osce di Istanbul del novembre 1999 si risolse a favore della linea Baku-Tbilisi-Ceyhan. Una soluzione duramente ma vanamente osteggiata dalla Russia, che viene tagliata fuori da questa direttrice, come anche l’Armenia e l’Iran, eterogeneo “asse” di paesi “esclusi” dal nuovo Eldorado petrolifero del Caspio.

26 D. DANILOV, Russia’s Search for an International Mandate in Transcaucasia, in B. COPPETIERS (ed.), Contested Borders in the Caucasus, Bruxelles, 1995 (consultabile in rete: http://poli.vub.ac.be/ publi/ContBorders/eng/contents.htm). 27 P. BAEV, Russia’s Policy in North and South Caucasus, in The South Caucasus: A Challenge for the EU, cit., p. 41. 28 S. PANARIN, Konflikty v Zakavkaz’e: pozicii storon, perspektivy uregulirovanija, vozmožnyj vklad Rossii, cit., pp. 123-123. 29 A. COHEN, The New Great Game: Pipeline Politics in Eurasia, in «Eurasian Studies», 1996, 1, pp. 2-25; R. GOULIEV, Oil and Politics. New Relationships among the Oil-Producing States: Azerbaijan, Russia, Kazakhstan, and the West, New York, 1997; J. FEDOROV, Neft’ i politika Azerbajdžana, Moskva, 1997; R. MUSABEKOV, Nezavisimyj Azerbaidžan: Neft’ i politika, in «Central’naja Azija i Kavkaz», 1998, 1, pp. 48-52.

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Da un punto di vista militare la Russia ha cercato in questi anni di mantenere la sua presenza in Transcaucasia, impegnandosi ad impedire la penetrazione di agenti esterni (in primo luogo, ovviamente, Turchia e Iran, ma anche Stati Uniti e Nato), anche solo a livello di assistenza militare e fornitura di armi. Come in Asia Centrale, tuttavia, anche nel Caucaso la Russia ha voluto prendere il controllo dei confini esterni della Csi (coincidenti con quelli sovietici), ma se in Armenia la presenza del suo esercito è benvenuta (come deterrente nei confronti non tanto dell’Azerbaigian quanto della Turchia), l’Azerbaigian ne ha preteso il ritiro sin dal 1993. E la Georgia ha di recente ottenuto l’inizio della chiusura delle basi russe.

In effetti la politica della Russia post-sovietica nei confronti della Transcaucasia è stata in larga misura determinata dall’atteggiamento delle nuove repubbliche indipendenti. Tra queste solo l’Armenia è entrata sin dall’inizio nella Csi, mostrando così di voler mantenere un legame preferenziale con la Russia, reso obbligato non tanto, o non solo, dalle tradizionali buone relazioni tra i due paesi quanto da una situazione geopolitica estremamente rischiosa a causa della guerra non dichiarata con l’Azerbaigian per l’Alto Karabakh e l’ostilità della Turchia. Tbilisi e Baku, guidate da due accesi nazionalisti, il georgiano Gamsakhurdia e l’azero Elchibey (eletto nel giugno 1992), hanno avuto inizialmente un atteggiamento più ostile, rifiutandosi di aderire alla Csi. Gamsakhurdia, fautore di una politica micro-imperiale ostile sia alla Russia che alle autonomie delle minoranze etniche30, riuscì in breve a suscitare una aperta resistenza da parte di Abkhazi e osseti, subito appoggiati da Mosca. Alla quale non era certo più gradito Elchibey, sostenitore dell’avvicinamento - anche militare - alla Turchia. Si spiega così il sostegno offerto all’Armenia nel conflitto per l’Alto Karabakh per “premiarla” della sua immediata scelta filo-russa e, al contrario, quello offerto ai separatisti abkhazi per punire la Georgia della sua “infedeltà”31. In entrambi i casi, tuttavia, tale sostegno non è stato decisivo 32 né assoluto, in quanto sarebbe imprudente per uno stato multi-etnico come la Russia appoggiare in maniera troppo aperta le rivendicazioni “separatiste” delle diverse etnie caucasiche.

Allo stesso modo non sorprende che la Russia abbia appoggiato i nemici interni di Gamsakhurdia e Elchibey, rovesciati in maniera violenta nel corso del 1992 e sostituiti da Shevarnadze e Aliyev, persone dal lungo trascorso sovietico, che senza affatto divenire fantocci di Mosca, anzi mostrando maggiore autonomia di quanto sembrasse prevedibile, hanno promosso comunque una politica più realista: alla fine del 1993 Georgia e Azerbaigian, soccombenti nei rispettivi 30 O. VASILIEVA, La Georgia quale modello di piccolo impero, in C. M. SANTORO (a cura di), Nazionalismo e sviluppo politico nell’ex URSS, Milano, 1995, pp. 206-228. 31 A. DE TINGUY, La Russie en Transcaucasie: chef d’orchestre ou médiator, in R.M. DJALALI (ed.), Le Caucase postsoviétique: La transition dans le conflit, Bruxelles/Paris, 1995, pp.152-153. 32 La ragione principale della netta vittoria militare di queste minoranze, enormemente inferiori da un punto di vista numerico rispetto ad azeri e georgiani, deve essere visto nella loro assai maggiore combattività, che deriva in primo luogo dalla comune percezione di una gravissima minaccia alla propria identità etno-culturale. Cfr. S. PANARIN, Konflikty v Zakavkaz’e: pozicii storon, perspektivy uregulirovanija, vozmožnyj vklad Rossii, cit, p. 115.

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conflitti interni, aderirono alla Csi. E Aliyev, pur rifiutando di accogliere truppe di Mosca sul territorio dell’Azerbaigian, attribuì alla Lukoil – l’ente russo per le risorse energetiche – una percentuale, limitata peraltro al 10%, nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi. La Georgia, invece, con un trattato bilaterale del 1995 concesse alla Russia il diritto a mantenere per 25 anni le quattro basi presenti sul suo territorio. A parte quella di Vaziani, situata nei pressi di Tbilisi, le altre basi russe si trovavano proprio in regioni più o meno fuori del controllo del governo centrale: a Batumi, in Agiaria, a Gudauta, in Abkhazia, a Akhalkalaki, in Javakheti33.

Nel complesso sembra di poter individuare due linee alternative della politica estera russa verso la Transcaucasia. Una, prevalente ma applicata soprattutto nei confronti di Georgia e Azerbaigian, prevede rapporti di coesistenza regolati dal diritto internazionale. L’altra, ufficialmente non riconosciuta, ritiene che la Russia sia costretta dalla particolare situazione post-sovietica a difendere i suoi interessi vitali anche al di fuori di tali norme, privilegiando gli interlocutori ad essa più favorevoli, vale a dire armeni, osseti ed abkhazi34. In pratica queste due linee si sono sviluppate in maniera spesso contraddittoria.

La Transcaucasia costituisce un obbiettivo primario di questa nuova assertività politico-diplomatica di Mosca, che non è risultata tuttavia molto produttiva. La Russia ha cercato in questi anni di ottenere un mandato internazionale per risolvere i conflitti interetnici in Transcaucasia, ponendosi però in sostanziale contrasto con la volontà delle repubbliche locali (ma non di armeni, abkhazi e osseti) e della stessa comunità internazionale, restia a conferirle questo ruolo. Il suo rinnovato attivismo è stato piuttosto salutato con timore, come una nuova manifestazione dell’imperialismo russo. Tuttavia la sua posizione è stata favorita dalla riluttanza di Onu e Osce di agire con prontezza, cosicché già nel 1992 la Russia inviò truppe nell’Ossetia meridionale e all’anno successivo nell’Abkhazia35. In entrambi i casi questo intervento di peace-keeping ha ottenuto il riconoscimento dell’Osce, ma senza determinare una soluzione definitiva dei conflitti: queste due regioni sono infatti rimaste in sostanza al di fuori dell’autorità georgiana. Si tratta, peraltro, di un esito non sgradito a Mosca, anche se la Federazione Russa avrebbe dovuto poco dopo confrontarsi con forme analoghe di secessionismo nel Caucaso settentrionale, in particolare in Cecenia.

Nell’Alto Karabakh i risultati diplomatici della Russia sono stati ancora più limitati. In particolare Mosca non è riuscita – i tentativi in questo senso furono particolarmente intensi nel 1994 – a convincere l’Azerbaigian ad accettare l’interposizione di truppe russe e da allora la questione della contesa regione autoproclamatasi indipendente è stata internazionalizzata, sottraendosi in 33 Sulla questione delle basi russe in Georgia si veda A. FERRARI, Georgia e Russia. Un’amicizia senza basi, in «ISPI Policy Brief», Marzo 2004, 4, http://www.ispionline.it. 34 S. PANARIN, Konflikty v Zakavkaz’e: pozicii storon, perspektivy uregulirovanija, vozmožnyj vklad Rossii, cit., p. 124. 35 Ibidem.

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definitiva all’intervento diretto di Mosca. Nell’ambito del “gruppo di Minsk” il suo atteggiamento ha sempre cercato di bilanciare quello dei paesi occidentali, tendenzialmente filo-azero nonostante l’influsso delle comunità armene di Francia e Stati Uniti, mantenendosi quindi su posizioni almeno in parte favorevoli alle rivendicazioni degli armeni, i suoi più affidabili partner nella regione.

Nel complesso, tuttavia, nonostante gli sforzi profusi nel primo decennio post-sovietico, la presa russa sulla Transcaucasia si è attenuata. Delle tre repubbliche della regione due, Georgia e Azerbaigian, si sono mosse – sia pure con la dovuta cautela, soprattutto quest’ultimo – verso un deciso avvicinamento all’Occidente, la seconda attraverso un legame privilegiato – anche se non privo di difficoltà – con la Turchia. Solo l’Armenia, per la sua tradizionale vicinanza alla Russia e la necessità di controbilanciare l’asse Baku-Ankara, tende ancora verso Mosca anche se un’eventuale soluzione del conflitto per il Karabakh – impossibile senza il consenso dell’Occidente – le consentirebbe di eliminare l’attrito con i due vicini turchi e quindi di porre fine alla dipendenza dall’appoggio russo 36.

Occorre tener presente che dopo il crollo del sistema sovietico ed il conseguente indebolimento del controllo russo, il Caucaso si trova oggi in una situazione di estrema incertezza. La dissoluzione dell’Urss ha trasformato una regione già di per sé tanto complessa e travagliata in un luogo di scontro di giganteschi interessi internazionali. Interessi economici, in primo luogo, ma anche strategici, che si riannodano inestricabilmente con lasciti storici dolorosi e rivendicazioni contrapposte. In realtà la complessità della realtà caucasica e delle forze esterne che vi agiscono rendono difficile non solo fare previsioni di medio o lungo termine, ma anche disegnare un quadro coerente ed esauriente delle dinamiche in corso. Mentre molte entità politiche locali sono indipendenti o aspirano a tale status, l’intera regione è tornata ad essere oggetto di scontro tra interessi geopolitici esterni. In primo luogo, ovviamente, quelli delle potenze locali, vale a dire Russia, Turchia e Iran.

Mosca, Ankara e Teheran si confrontano per ridefinire le rispettive sfere di influenza in una partita che comprende complessi fattori religiosi, politico-ideologici ed economici. In questo senso il Caucaso si trova cioè in una situazione in parte simile a quella del XVIII secolo, prima che la Russia riuscisse ad estromettere dalla regione i suoi rivali musulmani37. Dopo circa due secoli questa sistemazione torna ad essere posta in discussione, secondo una dinamica per alcuni aspetti paragonabile a quella dell'Asia centrale ex sovietica, l'altro frutto tardivo dell'espansionismo imperiale russo. Ma il dato principale della questione sta piuttosto nel fatto che entrambe queste aree sono inserite in quello che viene definito “Grande Medio Oriente” o “Grande Asia Centrale”, intendendo 36 L. ZARRILLI, No peace no war: riflessioni sul conflitto del Nagorno-Karabagh, in «1989. Rivista di Diritto Pubblico e Scienze Politiche», 2000, 2, p. 324. 37 A. FERRARI, Etnie e petrolio del Caucaso, in «Relazioni Internazionali», 1995, 36, pp. 60-66 e idem, La Russia e il Caucaso: alle origini di un problema insoluto, in «La Nuova Europa», 1995, 4, pp. 85-93.

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con queste espressioni l’enorme regione, fondamentale su scala globale per le sue ricchezze energetiche, che va dalle coste orientali del Mar Nero alle frontiere della Cina38.

Il sempre influente Z. Brzezinski ha indicato con molta chiarezza quale debba essere in questa regione, da lui definita i “Balcani dell’Eurasia”39, la strategia degli Stati Uniti: evitare … il riemergere di un impero euroasiatico che potrebbe ostacolare l’obbiettivo geostrategico americano 40 Anche senza attribuire agli scenari disegnati in quest’opera il valore di un programma ufficiale dell’amministrazione statunitense, non vi è dubbio che dopo la dissoluzione dell’Urss Washington ha condotto, soprattutto a partire dal 1994, una politica di penetrazione massiccia nell’intera regione che oggettivamente tende a privare la Russia del tradizionale ruolo dominante. Uno specialista tanto acuto quanto schietto come Stephen Blank scrive chiaramente: States and analysts may talk of international relations as if a new liberal dispensation had come to pass. But, as in earlier times, they act according to long-standing tenets of realism and realpolitik. The quest for energy, the source of all the talk of a new great game between Russia and United States, cannot be understood or separated apart from more traditional and competitive geostrategies aiming to integrate the Transcaspian into a Western, or Russian “ecumene”41.

Nel Caucaso – così come in Asia Centrale (entrambe le regioni sono qui incluse nel termine Transcaspian) – ci si trova quindi di fronte ad una sorta di riedizione del great game ottocentesco di kiplinghiana memoria, in cui la Russia post-sovietica si confronta con un antagonista occidentale rappresentato questa volta non dalla Gran Bretagna, ma dagli Stati Uniti42. Ma i rapporti di forza sembrano essere molto più sfavorevoli a Mosca di quanto fossero a Pietroburgo. Secondo la maggior parte degli analisti, proprio la competizione politica, strategica ed economica – non cruenta, ma reale – tra Stati Uniti e Russia nei paesi post-sovietici del Caucaso (e dell’Asia centrale) costituisce il dato saliente delle dinamiche dell’intera regione. Per alcuni aspetti questa competizione richiama certamente il great game ottocentesco e kiplinghiano, vale a dire la lunga rivalità tra Russia e Gran Bretagna per le regioni a cavallo tra i rispettivi imperi. La suggestione di questo parallelo storico non deve però condizionare oltre misura l’analisi della situazione odierna43, che è determinata da fattori in larga misura

38 M.R. DJALALI - T. KELLNER, Moyen-Orient, Caucase et Asie Centrale: des concepts géopolitiques à construire et à reconstruire?, in «Central Asian Survey», 2000, 1, pp. 117-140. 39 Z. BRZEZINSKI, La grande scacchiera, trad. it., Milano, 1998, p. 167. 40 Ibidem, p. 121. 41 S. BLANK, Every Shark East of Suez: Great Power Interests, Policies and Tactics in the Transcaspian Energy Wars, in «Central Asian Survey», 1999, 2, p. 150. 42 Per la politica statunitense nella regione si veda B. SHAFFER, US Policy, in The South Caucasus: A Challenge for the EU, cit., pp. 53-62; C. STEFANACHI, Il Caucaso nell’orizzonte strategico americano, in «Quaderni di Relazioni Internazionali», 2006, 1, pp. 27-37. 43 M. EDWARDS, The New Great Game and the New Great Gamers: Disciples of Kipling and Mackinder, in «Central Asian Survey», 2003, 1, pp. 83-102.

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differenti da quelli ottocenteschi. In particolare, occorre tener presente la pluralità di agenti statuali locali (Georgia, Armenia, Azerbaigian 44 , Turchia 45 , Iran 46 ), super-statuali (Unione Europea, Nato, Osce, Guuam) e sub-statuali (multinazionali, Ong, lobbies di vario tipo, diaspore, organizzazioni criminali, gruppi terroristici e così via) che interagiscono a livelli diversi nella regione.

La penetrazione statunitense ha luogo a diversi livelli: l’aspetto economico, in primo luogo il controllo delle fonti energetiche, è in realtà inscindibile da quello politico e strategico. Il colossale progetto di un asse geo-economico mirante a collegare il petrolio ed il gas dell’Asia centrale con il Mediterraneo, noto con l’immaginifica denominazione di “Via della seta del XXI secolo” 47 , appare parallelo al tentativo politico di eliminare la presenza russa dalla regione. Un tentativo portato avanti anche sostenendo la costituzione di un asse tra i paesi ex sovietici più ostili alla prospettiva di una ricomposizione politica intorno alla Russia, il cosiddetto Guuam (acrostico di Georgia, Ucraina, Uzbekistan, Azerbaigian e Moldavia), la cui prima riunione politica ha avuto luogo nel maggio del 2000 48 . Nel Caucaso il principale beneficiario di questo progetto è – o dovrebbe essere – l’Azerbaigian, a sua volta paese di grande rilevanza economica per i giacimenti di petrolio del Caspio. Come anche per i paesi centro-asiatici le prospettive collegate allo sfruttamento delle ricchezze naturali sono state utilizzate per attrarre fuori dall’orbita russa i neo-indipendenti stati della regione, allettati da miraggi di ricchezza rivelatisi illusori per diversi anni. Questa politica economica ha tuttavia cominciato a dare i primi risultati tangibili nel 1999, quando è stato inaugurato l’oleodotto che da Baku porta il petrolio a Supsa, sul litorale georgiano del Mar Nero, ponendo così fine all’egemonia russa sull’esportazione del petrolio caspico. Nello stesso anno la Georgia ha denunciato il trattato di sicurezza collettiva della Csi, al quale l’Azerbaigian non aveva mai aderito, avvicinandosi invece alla Nato. E la Russia ha effettivamente iniziato lo sgombero delle basi che conservava in questa repubblica 49 . Non è da escludere che l’offensiva dei guerriglieri ceceni in Dagestan nell’agosto del 1999 sia stata favorita

44 Sul coinvolgimento di queste tre repubbliche si veda A. FERRARI, Georgia, Armenia e Azerbaigian. Pedine del nuovo “Grande Gioco”?, in «Quaderni di Relazioni Internazionali», 2006, 1, pp. 15-26. 45 M. FUMAGALLI, Le iniziative regionali della Turchia, in A. COLOMBO et al., Il Grande Medio Oriente. Il nuovo arco dell’instabilità, Milano, 2002, pp. 109-158; M. AYDIN, Turkey’s Policies toward the South Caucasus and its Integration in the EU, in «Quaderni di Relazioni Internazionali», 2006, 1, pp. 51-62. 46 R. REDAELLI, Gli assi strategici della politica estera iraniana alla luce dell’attuale evoluzione politica interna, in M. ANTONSICH et al., Geopolitica della crisi. Balcani, Caucaso e Asia Centrale nel nuovo scenario internazionale, Milano, 2001, pp. 437-492. 47 Cfr. M.O. ZARDARIAN, Velikij Šelkovyj put’: istorija, kon’junktura, perspektivy, in «Central’naja Azija i Kavkaz», 1999, 4 (5), pp. 175-183. 48 Per maggiori informazioni sulla struttura e le finalità di questa associazione di stati post-sovietici si veda il sito http://www.guuam.org. 49 J. RADVANYI, Conflits caucasiens et bras de fer russo-américaines, in «Le Monde diplomatique», octobre 2000, p. 18.

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dall’impressione che la presa russa sull’intera regione caucasica fosse ormai esaurita. L’energica reazione di Mosca, sotto un leader più energico dell’ultimo El’cin, ha peraltro dimostrato che la situazione caucasica è più fluida di quanto si possa pensare e talvolta desiderare.

3. Putin e la politica caucasica della Russia

Il Caucaso ha avuto in effetti una notevole importanza per la carriera politica di Vladimir Putin, che era stato da poco nominato capo del governo quando, all’inizio dell’agosto 1999, vi furono le già ricordate infiltrazioni di guerriglieri ceceni in Dagestan. Tra la fine di agosto e i primi di settembre alcuni attentati – attribuiti dal Cremlino a terroristi ceceni, peraltro senza presentare prove convincenti – provocarono centinaia di vittime a Mosca ed in altre località del paese. In reazione a tali fatti la macchina militare russa si rimise in moto, questa volta con un andamento molto deciso delle operazioni. I guerriglieri vennero espulsi dal Dagestan, poi la Cecenia fu nuovamente invasa, con una sostanziale ripetizione delle diverse fasi del precedente conflitto: occupazione della zona pianeggiante e delle principali città, ardua penetrazione nelle zone montagnose, violenti contrattacchi della resistenza cecena. L’impressione di efficacia offerta da Putin in quell’occasione fu fondamentale per la sua elezione a presidente nel marzo 2000.

Nel corso di questa seconda occupazione della Cecenia, rifiutandosi di trattare non solo con i comandanti militari come Basaev, ma anche con il presidente Maschadov, la Russia ha invece cercato di individuare un interlocutore politico malleabile. Un interlocutore che è stato dapprima l’ex sindaco di Groznyj, Belan Gantemirov, quindi – nel giugno del 2000 – la suprema autorità religiosa cecena, il mufti Achmed Kadyrov, che negli anni precedenti si era opposto ai tentativi di Basaev di imporre un regime islamico al paese. Una figura quindi ostile al radicalismo islamico e disposto a collaborare con Mosca, ma la cui azione è stata fortemente limitata tanto dall’ostilità dei suoi rivali tra i connazionali filorussi quanto dagli scarsi poteri a sua disposizione. Benché buona parte della popolazione cecena, stanca di una situazione ormai insostenibile, abbia accettato il ritorno della sovranità russa, i combattenti più irriducibili si sono asserragliati sulle montagne, rinforzati da volontari islamici di diversa origine, bene armati e decisi a resistere a oltranza, anche iniziando il ricorso ad azioni suicide50 . In questa situazione, le possibilità di un’estensione del conflitto alle vicine regioni caucasiche, soprattutto al Dagestan, sono nel complesso aumentate51.

50 T. VALASEK, The Changing Face of the Chechnya War, in «Weekly Defense Monitor», 13 July 2000, http://www.cdi.org. 51 S. LEVINE, Upheaval in Caucasus, Central Asia Comes as No Surprise, in «Eurasia Insight», 28 September 2000, http://www.eurasianet.org.

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Anche sotto la nuova presidenza la Russia, quindi, … appears to try to restore its influence throughout the region, on all sides, in every conflict, in order to prevent developments from slipping out of control and so opening the floodgates to outside interference52. Per raggiungere questo obbiettivo Putin sembra utilizzare due distinte politiche: una puramente repressiva in Cecenia, l’altra più flessibile ed incentrata prevalentemente, ma non esclusivamente, sulle leve diplomatiche ed economiche in Transcaucasia. Occorre considerare che anche nel Caucaso la Russia è da alcuni anni grandemente favorita dalla favorevole congiuntura economica, che grazie agli alti prezzi petroliferi ha posto Putin in una situazione incomparabilmente migliore di quella in cui si era trovato El’cin nel decennio precedente, consentendogli di elaborare una vera e propria strategia energetica globale 53 . Al tempo stesso, però, Putin ha dovuto confrontarsi con il ridispiegamento strategico di Washington verso il cosiddetto Grande Medio Oriente seguito all’11 settembre 2001, che ha ovviamente coinvolto anche il Caucaso (e l’Asia Centrale).

L’incondizionato avvicinamento, almeno verbale, agli Stati Uniti e l’opportunistica adesione allo slogan della “lotta al terrorismo internazionale” dettati dalla possibilità di migliorare in maniera sostanziale la posizione della Russia nei confronti dell’Occidente, nella sfera economica come in quella strategica54, hanno consentito alla Russia di avere un sostanziale via libera alla repressione militare della Cecenia, che continua ad essere portata avanti con sistemi particolarmente detestabili. Questo, tuttavia, non ha certo portato ad un progresso della situazione nella regione. Sul fronte militare l’esercito russo ha ottenuto notevoli successi negli ultimi, portando duri colpi alla resistenza cecena ed eliminando alcuni tra i leader principali (sono stati uccisi gli arabi Khattab e Abu Walid, Jandarbiev, quest’ultimo nel Qatar con una discussa operazione dei Servizi di Sicurezza, mentre Charbiev è stato costretto alla resa). Ma questi progressi sul fronte bellico, pagati peraltro a durissimo prezzo dalla popolazione civile, non hanno certo prevenuto l’organizzazione di gravissimi atti terroristici, sia in Cecenia e nelle regioni limitrofe del Caucaso (in particolare Ossetia e Inguscetia) sia in Russia (come hanno dimostrato soprattutto i tragici eventi del teatro Dubrovka a Mosca, 23-25 ottobre 2002 – costati la vita non solo all’intero commando ceceno che se ne era impadronito, ma anche a 129 civili russi). Anche in Cecenia, inoltre, si è diffuso negli ultimi anni la pratica di origine vicino-orientale degli attentati suicidi, compiuti talvolta da donne.

52 D. TRENIN, Russia’s Security Interests and Policies in the Caucasus Region, in B. COPPETIERS (ed.), Contested Borders in the Caucasus, cit., (consultabile in rete: http://poli.vub.ac.be/publi/ContBorders/eng/contents.htm). 53 Per la politica energetica di Putin si veda M. OLCOTT, Vladimir Putin and the Geopolitics of Oil, in The Energy Dimension in Russian Global Strategy, The James A. Baker III Institute for Public Policy at Rice University, 2004, http://www.carnegie.ru/en/pubs/workpapers/71963.htm. 54 Su questo tema si veda P. SINATTI, La Russia dopo l’11 settembre, in «Affari Esteri», 2002, 133, pp. 125-140 e il mio articolo I dilemmi del Cremlino tra eurasismo e occidentalismo, in «Limes. Rivista italiana di Geopolitica», 2002, 3, pp. 227-236.

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Nonostante l’ostentata sicurezza delle dichiarazioni delle autorità di Mosca, la questione cecena è tuttora tragicamente aperta. Oltre alla mancanza di una politica di sviluppo dell’intera regione nord-caucasica, che pure potrebbe essere favorita dall’odierno momento positivo dell’economia russa 55 , il nodo cruciale della situazione è dato dalla totale mancanza di legittimazione da parte di Mosca della controparte separatista, definita tout court terroristica e con la quale si rifiutano trattative politiche per tentare di risolvere in conflitto in ogni maniera che non sia la resa incondizionata. Tanto gli elementi irriducibili come Basaev, ucciso il 10 luglio di quest’anno, quanto quelli politicamente più moderati – come il presidente Maschadov – sono stati esclusi da ogni trattativa, mentre Mosca ha puntato tutte le sue carte sul consolidamento di Kadyrov, inviso a buona parte della popolazione locale. Nel marzo 2003 ha avuto luogo un referendum con il quale è stata approvata – con una sospetta percentuale favorevole del 96% – la nuova costituzione, che conferma l’inserimento della Cecenia nella Federazione Russa e ne sancisce un ordinamento fortemente presidenziale. Quest’ultimo aspetto è determinato dalla volontà di Mosca che il proprio proconsole in Cecenia disponga di forti poteri, ma al tempo stesso non corrisponde alla struttura clanica della società cecena, che richiederebbe invece una amministrazione il più possibile condivisa e rappresentativa. Neppure l’amnistia concessa nel maggio 1993 a tutti i combattenti non coinvolti in atti criminali – omicidi, rapimenti, stupri – ha contribuito ad una ricomposizione della situazione politica in Cecenia. Kadyrov combatteva aspramente i radicali islamici (i wahabiti, come vengono chiamati solitamente in Russia), cercando al tempo stesso di avvicinare a sé i capi dei vari clan. Tuttavia le sue forze di sicurezza, alla cui testa aveva nominato il figlio Ramzan, si rendevano responsabili di tali violenze ed arbitri da renderne sempre più impopolare la guida. La sostanziale mancanza di legittimità del potere di Kadyrov venne confermata proprio dalle grottesche elezioni dell’ottobre 2003, in cui egli è stato eletto presidente dopo che gli altri principali candidati erano stati convinti dalle pressioni russe a ritirarsi e con una affluenza alle urne altissima secondo le autorità federali ma quasi inesistente nella realtà56.

Nei mesi successivi alle elezioni la popolarità di Kadyrov è rimasta bassissima, cosicché l’attentato che il 9 maggio 2004 pose fine alla sua vita non ha certo costituito una sorpresa. La scomparsa di Kadyrov ha inferto realmente un duro colpo alla politica russa in Cecenia, basata esclusivamente sulla repressione e priva di una visione di lunga durata. La sua morte – seguita da una nuova ondata di violenze e arbitri, nonché dall’intensificazione delle azioni della guerriglia, sia

55 Anzi, il perdurare del conflitto in Cecenia ostacola pesantemente lo sviluppo dell’intera area, che pure avrebbe interessanti prospettive. Cfr. al riguardo A. FERRARI, La regione del Mar Nero e la politica estera russa, in A. COLOMBO et al., Il Grande Medio Oriente. Il nuovo arco dell’instabilità, cit., soprattutto pp. 92-93. 56 T. ALIYEV, Chechen Election Goes just about to Plan, in «Caucasus Reporting Service», n. 9 October 9, 2003, 199, http://www.iwpr.net.

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contro le truppe federali che contro le forze di polizia locale fedeli a Mosca57 – avrebbe potuto indicare alle autorità russe la necessità di un cambiamento di strada nella loro politica verso la Cecenia. Ma non sembra che questa svolta abbia avuto luogo. Inizialmente il presidente Putin aveva dato l’impressione di voler semplicemente sostituire il presidente ucciso con suo figlio Ramzan, ricevendolo al Cremlino poche ore dopo l’attentato e nominandolo primo vicepremier. In seguito ha però abbandonato questo progetto, che con ogni probabilità avrebbe peggiorato ulteriormente la situazione, non tanto per la giovane età del personaggio, quanto per l’odio che la sua temuta milizia gli ha procurato. Alla successione di Kadyrov Mosca ha designato Alu Alchanov, in precedenza ministro degli Interni. Le elezioni presidenziali sono state precedute da una serie di violente operazioni militari della guerriglia, sia in Cecenia che nelle regioni limitrofe, nonché dai due attentati aerei della notte tra il 23 ed il 24 agosto, probabilmente di matrice cecena, che hanno provocato 89 vittime. Le elezioni del 29 agosto ratificarono la scelta delle autorità russe, ma senza certo porre fine alla tragedia della Cecenia.

Non è certo un caso che immediatamente dopo queste elezioni la cittadina di Beslan, nell’Ossetia settentrionale, sia stata vittima della più grave tragedia del Caucaso post-sovietico. Il primo settembre, un commando ceceno prese in ostaggio un migliaio di persone. I terroristi chiedevano il ritiro delle truppe russe dalla Cecenia e la liberazione dei prigionieri accusati di terrorismo. Dopo inutili trattative, l’intervento dei militari russi ha causato centinaia di vittime, soprattutto bambini. Questo tragico episodio ha dimostrato come sia tutt’altro che tramontato il rischio che dalla Cecenia il conflitto possa estendersi alle vicine regioni caucasiche58.

Una politica di “cecenizzazione” che si fondi essenzialmente sul potere di un presidente imposto dalla Russia ed appoggiato da una milizia brutale non può certo ottenere il consenso necessario ad avviare questa regione sulla via di una pacificazione che sarà comunque difficile e irta di problemi di ogni genere. In Cecenia tale consenso può essere raggiunto solo coinvolgendo nella maggior misura possibile nel governo le entità claniche (tejp) che ne costituiscono tuttora il fondamento sociale. Un organo collettivo, una sorta di “Loya Jirga” locale, corrisponderebbe alla tradizione politica e sociale cecena assai più di un presidente-proconsole59. Per quanto non certo esente da rischi, un processo di questo tipo – magari sanzionato in seguito da una modifica costituzionale che 57 U. DUDAEV, Killings on the Increase, in «Caucasus Reporting Service», 9 June, 2004, 237, http://www.iwpr.net. 58 In seguito anche la repubblica cabardino-balcara è stata di recente sanguinosamente coinvolta nel conflitto, quando - il 15 ottobre 2005 - un numeroso reparto di miliziani ceceni ha attaccato la capitale Nal'cik, provocando decine di vittime. Negli ultimi mesi, inoltre la situazione politica ed interetnica si è visibilmente deteriorata anche nel Dagestan e non è da escludere che nei prossimi mesi la relativa tranquillità di questa repubblica possa venir meno. 59 T. DE WAAL, Chechnya: Time for an International Role?, in «Caucasus Reporting Service», 16 June, 2004, 238, http://www.iwpr.net.

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trasformi la repubblica cecena da presidenziale a parlamentare – potrebbe contribuire al miglioramento della situazione. Inoltre, non si vede come la Russia possa pensare di giungere ad una pacificazione definitiva della Cecenia senza riconoscere il diritto di sedere al tavolo delle trattative anche ai leader separatisti, o almeno a quelli di essi – come Maschadov e Zakaev – che, oltre a mantenere una legittimità politica, non sono influenzati dall’islamismo radicale.

Un processo di questo tipo richiederebbe però da parte russa e cecena una volontà politica di comprensione reciproca che sembra essere del tutto assente. La conclusione della tragedia della Cecenia appare in effetti lontana. Nelle sue diverse fasi il conflitto dura ormai da oltre un decennio ed ha prodotto una profonda radicalizzazione da entrambe le parti. Nel campo ceceno si trovano indubbiamente numerosi estremisti, tra i quali i fondamentalisti islamici che considerano i russi “infedeli” da sterminare e perseguono l’obbiettivo politico di costituire uno stato islamico nel Caucaso settentrionale. Si tratta evidentemente di uno scenario politico che potrebbe avere conseguenze disastrose per la Russia, alla quale non può quindi essere negato il diritto di opporvisi. Al tempo stesso, come è stato osservato, non tutti coloro che cercano l’indipendenza possono essere considerati come terroristi o fanatici, benché, naturalmente, elementi del genere possano essere presenti60. Mosca continua invece a rifiutare ogni soluzione politica che non consista nella completa sconfitta dei “terroristi” per mezzo di una brutale repressione – che non può neppure essere definita militare – e la creazione di un governo fantoccio. La demonizzazione del nemico determina una percezione non politica, bensì metafisica e strumentale al tempo stesso del conflitto in corso. In questo senso l’inserimento della resistenza cecena nella onnicomprensiva categoria del “terrorismo internazionale” è un’arma a doppio taglio, che aiuta a legittimare la repressione militare, ma allontana al tempo stesso la soluzione politica. L’imbarbarimento di entrambi i contendenti ed il loro rifiuto di riconoscere alla controparte ogni legittimità non possono non indurre al pessimismo riguardo alla possibilità che il conflitto che da oltre dieci anni devasta la Cecenia possa concludersi in tempi brevi. Dalle autorità della Russia post-sovietica, che sta pagando questo conflitto con un altissimo prezzo – umano e morale, prima ancora che economico – sembra legittimo attendersi un atteggiamento differente da quello avuto sinora, senza che lo schermo della lotta al terrorismo internazionale impedisca ancora la ricerca di una soluzione indubbiamente difficile, ma necessaria.

L’incapacità di trovare una soluzione politica alla resistenza cecena, ridotta unicamente a questione terroristica, rende ancor più difficile per Mosca opporsi alla penetrazione statunitense nelle repubbliche indipendenti della Transcaucasia. La politica di Putin in questa regione ha tuttavia segnato un cambiamento significativo rispetto a quanto era avvenuto nel decennio precedente. In particolare Putin si è sforzato di superare la mancata coincidenza tra la politica 60 R. MENON - G.E. FULLER, Russia’s Ruinous Chechen War, in «Foreign Affairs», 79, 2002, 2, p. 44.

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estera dello stato e l’interesse delle grandi compagnie petrolifere russe che aveva ostacolato l’azione di Mosca nella regione. La decisa, se non brutale, opera di riappropriazione delle compagnie petrolifere russe da parte dello stato ha avuto ripercussioni notevoli nella regione 61 , soprattutto per quel che riguarda l’Azerbaigian. Qui, oltre a sanare diversi contenziosi accumulatisi in precedenza e a legittimare la transizione ereditaria del potere, Putin ha finalmente acconsentito alla costruzione del contestato oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan. Tanto in Georgia quanto in Armenia, inoltre, la politica russa ha iniziato a far leva sull’economia. Tra il 2002 ed il 2003 Mosca acquisì il controllo pressoché totale dell’energia elettrica in Georgia62, estendendo ulteriormente la sua penetrazione economica in Armenia, della quale controlla ora circa la metà dell’energia elettrica e – dal settembre 2003 – anche la centrale nucleare di Metzamor63. Questo spregiudicato uso politico dell’economia da parte della Russia appare in effetti collegato all’idea di “impero liberale” elaborato dall’influente Anatolij Čubais, noto per avere guidato le liberalizzazioni nei primi anni Novanta ed attualmente a capo di una vasta holding energetica di Stato, la Rao Ues. A partire dalla fine del 2003 Čubais si è più volte espresso a favore di questa prospettiva, che consentirebbe al paese più industrializzato e maggiormente dotato di risorse energetiche, umane e militari fra gli stati membri della Csi, di tornare ad assumere il ruolo che gli compete e di edificare un moderno impero basato sui principi liberali della tolleranza e della cooperazione. In maniera non dissimile dagli Stati Uniti, la Russia dovrebbe ricostituire la sua egemonia sull’area ex-sovietica su queste nuove basi, con un accorto utilizzo degli strumenti a sua disposizione, primo fra tutti la leva delle risorse energetiche, ma anche accordando sostanziale libertà di movimento e di lavoro in territorio russo alle intense correnti migratorie in provenienza principalmente dall'area caucasica e centroasiatica64.

Al di là della discutibile consistenza dell’idea della Russia come “impero liberale”, non vi è dubbio che la politica estera di Mosca negli ultimi anni si stia servendo ampiamente delle leve energetiche, in particolare – ma non solo – nei confronti delle repubbliche ex-sovietiche. Assai prima del conflitto con l’Ucraina per il gas a cavallo tra 2005 e 2006, la Transcaucasia può in effetti essere considerata il banco di prova di questa nuova strategia russa.

Un altro aspetto importante di questa politica estera basata principalmente sugli strumenti economici, è il riavvicinamento alla Turchia, con la quale aveva avuto in precedenza forti contenziosi sia in Europa (Bosnia e Kosovo) sia nello stesso 61 P. BAEV, Russia’s Policy in North and South Caucasus, cit., p. 45. 62 M. TSERETELI, Russian Energy Expansion in Caucasus: Risks and Mitigation Strategy, 27 August 2003, http://www.cacianalyst.org/viewarticlephp?articleid=1675. 63 H. KHACHATRIAN, Russian Moves in Caucasus Energy and Power Sectors Could Have Geopolitical Impact, in «Eurasia Insight», 25 September 2003, http://www.eurasianet.org/ departments/business/articles/eav092502.shmtl. 64 I. TORBAKOV, Russian Policymakers Air Notion of “Liberal Empire” in Caucasus, Central Asia, in «Eurasia Insight», 27 October 2003, http://www.eurasianet.org/departments/insight/ articles/eav102703.shtml.

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Caucaso (Alto Karabakh e Cecenia). Da alcuni anni Mosca e Ankara hanno invece trovato opportuno migliorare i loro rapporti. A livello economico è da segnalare soprattutto la costruzione del gasdotto sottomarino Blue Stream, che porta il gas russo in Turchia attraversando il Mar Nero, nonché il forte intensificarsi del flusso turistico tra i due paesi. A livello strategico, invece, Russia e Turchia – quest’ultima soprattutto dopo il peggioramento dei rapporti con Washington in seguito alla Guerra del Golfo – trovano conveniente limitare la penetrazione statunitense nel Caucaso65

Oltre a perseguire queste nuove strategie di carattere prevalentemente economico, Mosca continua peraltro a portare avanti nel Caucaso alcuni aspetti della politica precedente. In particolare ha riconfermato il suo appoggio alle regioni separatiste, soprattutto ad Abkhazia e Ossetia meridionale, che fanno parte della sempre meno controllabile Georgia. Un altro aspetto importante di questa politica è il tentativo di mantenere il più a lungo possibile le proprie basi militari in Georgia ed Armenia. E’ evidente che Mosca si è servita di queste basi per preservare la propria declinante presa sulla Georgia. In ogni caso il parlamento georgiano non ha mai ratificato il trattato del 1995, il che ha consentito al governo di chiedere in seguito la chiusura delle basi russe. Nel novembre 1999, durante il vertice Osce di Istanbul, Georgia e Russia firmarono un nuovo trattato per la graduale riduzione della presenza militare russa. Le basi di Gudauta e Vaziani avrebbero dovuto chiudere, ma questo è avvenuto solo per la seconda. La prima, situata in Abkhazia, ha continua ad ospitare una forza militare russa di peace-keeping, tanto gradita agli abkhazi quanto invisa al governo di Tbilisi. La presenza delle basi russe in Armenia non è invece mai stata messa in discussione a causa del perdurare della percezione della minaccia turca da parte di Erevan. Nel complesso tuttavia, la reale rilevanza strategica di queste basi è discutibile. In particolare, da più parti vengono sollevate “…questions about the purpose and the rationale of the Russian military bases in Georgia and Armenia, since their dismal status stands in sharp contrast to the strategic importance that is often ascribed to them. Indeed, the few thousand troops stationed in those bases are at a low state of readiness and increasingly resemble lost legions that have few chances of seeing reinforcements arriving swiftly in a time of crisis”66.

In ogni caso, la presenza di queste basi e la pressione energetica non hanno potuto impedire la penetrazione statunitense in Georgia, avvenuta – almeno ufficialmente – sotto il segno della lotta al terrorismo. Sin dal febbraio 2002, infatti, gli Stati Uniti hanno inviato in Georgia un contingente militare, sia pur limitato (200 uomini) e preposto all’addestramento anti-terroristico (progetto Train and Equip). Il dispiegamento di militari statunitensi in Georgia è seguito alla “scoperta” di militanti di al-Qaeda nella repubblica ex-sovietica di Georgia, precisamente nella valle settentrionale del Pankisi, che costituisce da anni il principale canale 65 F. HILL - O. TASPINAR, La Russie et la Turquie au Caucase: se rapprocher pour préserver le statu quo?, in «Russie.Nei. Visions», 2006, 8, pp. 4-5. 66 P. BAEV, Russia’s Policy in North and South Caucasus, cit., p. 48.

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attraverso cui si alimenta la guerriglia separatista cecena. Nonostante Putin abbia cercato di far buon viso a cattivo gioco dichiarando che l’arrivo di militari statunitensi in Georgia non preoccupa il governo russo, tale fatto – che segue di poco il loro più consistente dislocamento nelle repubbliche centroasiatiche ex sovietiche – ha un significato strategico molto preoccupante per la Russia. Viene in effetti ad essere compromessa la dottrina strategica, affermata a partire dalla fine del 1993, secondo la quale Mosca rivendica funzioni di peacekeeping e mantenimento della stabilità nel territorio dell’intera CSI e la formazione di una fascia di “buon vicinato” lungo i confini russi. La presenza americana in Georgia, in una regione di vitale importanza strategica per la Russia, costituisce inoltre un fattore che inquieta larga parte dell’opinione pubblica russa, nonché i vertici militari67. Da parte russa si sospetta infatti in primo luogo che questi istruttori possano addestrare le truppe georgiane in vista di una riconquista di Abkhazia e Ossetia meridionale, prospettiva assai poco gradita a Mosca68. Più in generale, la Russia teme che – nonostante le smentite ufficiali di Washington – l’operazione Train and Equip abbia costituito un primo passo per l’insediamento stabile di truppe statunitensi nella regione.

Nel corso del 2002 e del 2003 i rapporti tra la Georgia e la Russia hanno conosciuto fasi alterne. Alcuni segnali positivi si sono avuti nella sfera economica, ma in quella politica i rapporti russo-georgiani sono sempre tesissimi. Mosca ha mantenuto il regime di visto obbligatorio con la Georgia, emettendo al tempo stesso passaporti russi in Abkhazia e Ossetia. Ma è soprattutto la presenza di guerriglieri ceceni nella valle di Pankisi ad aver avvelenato i rapporti tra Mosca e Tbilisi. Dopo un misterioso bombardamento aereo di questa località il 23 agosto 2002, attribuito dalle autorità georgiane alla Russia (che ha ufficialmente smentito), il presidente Putin è giunto a minacciare un’azione militare russa, provocando una forte preoccupazione a Tbilisi, che – nonostante i gravi problemi di budget – incrementò immediatamente le sue spese militari69. Un incontro tra Putin e Shevarnadze avvenuto a Chisinau (Moldavia) il 6 ottobre dello stesso anno sembrò aver in parte migliorato la situazione. I presidenti dei due paesi raggiunsero un accordo sul controllo congiunto della valle di Pankisi per controllare lo sconfinamento in Russia di guerriglieri ceceni e Shevarnadze si spinse a definire la Russia uno dei due principali partner strategici del suo paese,

67 I. TORBAKOV, Putin Faces Domestic Criticism over Russia’s Central Asia Policy, in «Eurasia Insight», 2 December 2002, http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/eav021202. shtml. 68 J. SILVERMAN, Russian Manoeuvring in Kodori Exposes Tangle of Georgian Interests, in «Eurasia Insight», 17 April 2002, http://www.eurasianet.org/departments/insight/artcles/ eav041702a.shtml. 69 I. ARESHIDZE - I. CHKHENKELY, Georgian Diplomats, Blaming Russia, Invite Important Questions, in «Eurasia Insight», 27 November 2002, http://www.eurasianet.org/departments/ insight/articles/eav112702.shtml.

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ovviamente insieme agli Stati Uniti 70 . Tale dichiarazione, peraltro, suscitò immediatamente le reazioni negative degli oppositori del presidente, che vi lessero un pericoloso cedimento alle pressioni russe71. La politica di equilibrio tra Russia e Occidente condotta da Shevarnadze risultava ormai insoddisfacente sia verso l’interno che verso l’esterno. Mentre in Russia la sempre più stretta cooperazione militare di Tbilisi con gli Stati Uniti (e la Turchia)72 suscitava una crescente irritazione, così come l’esplicito appoggio alla guerra in Irak, per altri aspetti la posizione di Shevarnadze appariva a Washington eccessivamente succube a Mosca, come nelle questioni energetiche.

Nel 2003 la popolarità di Shevarnadze era ormai molto bassa, soprattutto alla luce di una situazione economica sempre difficilissima. A partire dalle elezioni locali, che si svolsero il 2 giugno in un’atmosfera di disordine e violenza, il potere dell’anziano presidente iniziò a sgretolarsi rapidamente. Gli Stati Uniti cominciarono ad appoggiare direttamente e indirettamente i suoi oppositori (soprattutto con i finanziamenti di George Soros a movimenti giovanili e reti televisive)73. La “rivoluzione di velluto” è stata guidata principalmente da persone di netto orientamento filo-occidentale, come Nino Burjanadze, Zurab Zhvania e soprattutto Mikhail Saakashvili, impostosi come la figura dominante dell’opposizione. Dopo i clamorosi brogli elettorali nelle elezioni parlamentari del 2 novembre, che avevano visto la contestatissima vittoria delle forze filo-presidenziali, la situazione è sfuggita di mano a Shevarnadze, costretto alle dimissioni il 23 novembre del 2003. Dimissioni in qualche modo concordate con la Russia, il cui ministro degli esteri – Igor’ Ivanov – era in quei giorni a Tbilisi per seguire l’evolvere della situazione. Dopo una presidenza pro-tempore di Nino Burjanadaze, le elezioni del 4 gennaio 2004 hanno visto il trionfo di Mikhail Saakashvili, che ha ottenuto il 97,5% dei voti.

Questa evoluzione politica della Georgia è avvenuta indubbiamente con il favore ed il sostegno degli Stati Uniti. Washington è intenzionata a fare della Georgia il paese chiave del suo ridispiegamento strategico e militare nella regione caucasica, più di quanto – per differenti ragioni – possano divenirlo l’Armenia e l’Azerbaigian. Non a caso il ministro della difesa Donald Rumsfeld visitò Tbilisi già nel dicembre 2003, invitando tra l’altro la Russia a chiudere le sue basi militari in questo paese. A Mosca è diffuso il timore che le truppe russe possano essere sostituite da quelle statunitensi, magari all’interno delle stesse basi tanto a lungo contestate. Nonostante le smentite di Washington, non vi è dubbio che 70 Georgian President revises Foreign Policy concept, in «Caucasus Report», 24 October 2002, http://www.rferl.org/Caucasus-report/2002/10/ 35-241003.html. 71 G. KANDELAKI, Shevarnadze’s Chisinau Concessions Shatter Georgia’ Political Unity, in «Eurasia Insight», 10 September 2002, http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/ eav100902.shtml. 72 I. TORBAKOV, Expanding Turkish-Georgian Strategic Ties Rankle Russia, in «Eurasia Insight», 25 April 2003, http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/eav042503.shtml. 73 P. SINATTI, La Georgia tra Mosca e Washington, in «Limes. Rivista di geopolitica», 2004, 1, p. 292.

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proprio la Georgia sia il punto di partenza del processo di transizione egemonica che sta avvenendo nella Transcaucasia ed alla quale Mosca si oppone peraltro strenuamente74.

Si tratta comunque di un processo non esente da rischi. Il più immediato può provenire dalla tentazione, oggi forte a Tbilisi, di sfruttare l’appoggio statunitense per riprendere la politica micro-imperiale di Gamsakhurdia e porre fine in maniera violenta alla virtuale indipendenza delle repubbliche secessioniste. Questo potrebbe determinare una ripresa dei conflitti inter-etnici, raffreddatasi ormai da dieci anni ma sostanzialmente irrisolti. Lo slogan “Riprendiamoci la Georgia” utilizzato dal blocco elettorale guidato da Saakashvili, Movimento Nazionale, risulta non poco inquietante per abkhazi e osseti. Soprattutto dopo quel che è avvenuto in Agiaria. Il presidente di questa repubblica, Abashidze, che da oppositore di Shevarnadze era divenuto suo alleato nel corso del 2003, aveva assunto una posizione decisamente ostile alla nuova dirigenza di Tbilisi, facendo affidamento sulla base militare russa dislocata a Batumi. Nel maggio 2004, però, è stato costretto alla resa, rifugiandosi in Russia. L’Agiaria è quindi ritornata sotto il controllo di Tbilisi, segnando l’inizio della riconquista del territorio nazionale che faceva parte del programma elettorale di Saakashvili. Va però tenuto presente che, per quanto prevalentemente musulmani, gli abitanti dell’Agiaria sono georgiani e non hanno nei confronti di Tbilisi la forte ostilità di abkhazi e osseti. La partita per riprendere il controllo dei territori abitati da queste popolazioni potrebbe quindi risultare più difficile e foriero di gravi complicazioni internazionali. Tuttavia la determinazione di Saakashvili di proseguire in questa direzione è fuori questione. Poco dopo aver vinto la partita in Agiaria, il presidente georgiano ha iniziato quella in Ossetia meridionale, per mezzo di una campagna consistente tanto in dimostrazioni di buona volontà (donazioni di fertilizzanti, offerte di pagare le pensioni agli abitanti della regione, tentativi di organizzare incontri culturali e sportivi, trasmissioni televisive in lingua osseta), quanto in esibizioni di forza militare. Nell’estate del 2004 la tensione in questa regione aumentò sensibilmente, con tutta una serie di incidenti frontalieri, scaramucce ed accuse reciproche tra le parti. La situazione è ancora oggi estremamente delicata e non è escluso che in nell’immediato futuro possa precipitare verso un vero e proprio scenario di guerra75.

L’intensificazione delle rivendicazioni georgiane su queste regioni dopo la “rivoluzione delle rose” ha infatti ravvivato la prospettiva di un loro incorporamento nella Federazione Russa. Più volte sollecitata dai dirigenti di 74 A questo riguardo si veda A. FERRARI, La Georgia tra Federazione Russa e Stati Uniti: un modello di transizione egemonica?, in A. COLOMBO (a cura di), La sfida americana. Europa, Medio Oriente e Asia Orientale di fronte all’egemonia globale degli Stati Uniti, Milano, 2005, pp. 56-78. 75 I. TORBAKOV, South-Ossetia Crisis Stokes Tension between Russia and Georgia, in «Eurasia Insight», 25 August 2004, http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/eav082504. shtml; S. SMITH, South Ossetia Conflict Heats up, in «Caucasus Reporting Service» 12 August 2004, 246, http://www.iwpr.net.

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Abkhazia e Ossetia meridionale, questa sorta di annessione di territori giuridicamente appartenenti alla Georgia sembra peraltro scarsamente praticabile, soprattutto alla luce delle forti ripercussioni interne ed internazionali che un’operazione del genere potrebbe avere. Si pensi solo al caso della Cecenia. Non vi è dubbio, tuttavia, che Mosca appaia ancora intenzionata a sostenere l’ufficiosa indipendenza di queste repubbliche da Tbilisi. Tra l’altro, la possibilità di un mutamento di status del Kosovo viene interpretato dalle autorità russe anche alla luce di una analoga prospettiva riguardante la regioni secessioniste di Abkhazia e Ossetia meridionale76.

L’invito alla prudenza rivolto da uno specialista statunitense dell’area alla nuova leadership georgiana, ma anche ai policy-makers di Washington, appare pertanto del tutto condivisibile: The United States should now help Georgia’s new leadership think creatively about basic questions of sovereignty, territorial control, and institutional design. The central government must recognize the multiethnic and multireligious reality of the country. It must accept a decade of state-building in the secessionist regions and allow local government to be empowered. If these efforts succeed, Georgia could well become the positive example for Eastern Europe and Eurasia that observers have long hoped for 77.

In effetti la situazione in Georgia rischierebbe di diventare estremamente pericolosa se si acutizzasse la rivalità tra la Russia e gli Stati Uniti per il controllo di questo paese, soprattutto sfruttandone le tensioni interne. Un ulteriore dispiegamento militare statunitense, magari con l’obbiettivo di difendere il nuovo oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, confermerebbe i timori russi sulla volontà di Washington di insediarsi stabilmente nel Caucaso ed inasprirebbe senza dubbio la situazione. Tuttavia il rapporto tra Mosca e Tbilisi continua ad essere estremamente teso, con segnali di schiarita rapidamente seguiti da momenti di irrigidimento. L’annuncio, avvenuto il 30 maggio 2005, della chiusura delle ultimi basi russe in Georgia entro il 2008 ha senz’altro contribuito a distendere i rapporti tra i due paesi. Tuttavia l’aumento del prezzo del gas imposto da Mosca alla fine dell’anno e gli attentati, non chiariti, che il 22 gennaio del 2006 hanno provocato l’interruzione per alcuni giorni del rifornimento energetico alla repubblica caucasica hanno di nuovo portato ad un peggioramento della situazione. Il successivo blocco da parte di Mosca di prodotti agricoli georgiani (in particolare vino e acqua minerale), ha mostrato ancora una volta quanto difficile sia il

76 I. TORBAKOV, Russia Plays up Kosovo Precedent for Potential Application in the Caucasus, in «Eurasia Insight», 12 April 2006, http://www.eurasianet.org/departments/insigh/articles/ eav041206pr.shtml. 77 C. KING, A Rose Among Thorns. Georgia Makes Good, in «Foreign Affairs», 2004, 2, pp. 13-18.

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cammino verso l’instaurazioni di stabili rapporti di collaborazione tra Georgia e Russia78.

Le relazioni della Russia con l’Armenia sono completamente diverse. Da un punto di vista economico questa repubblica è in netto miglioramento, con tassi di sviluppo intorno al 10% nel 2001-2002. L’evoluzione della situazione internazionale dopo l’11 settembre 2001 ha però posto l’Armenia in una situazione estremamente complessa. I tradizionali rapporti positivi con l’Iran – uno dei paesi del cosiddetto “asse del male” – hanno creato alcune difficoltà con Washington 79 . Inoltre, il dislocamento di militari statunitensi nella vicina repubblica georgiana è stato osservato a Erevan con una certa inquietudine80, in quanto potrebbe preludere ad una completa esclusione dalla Transcaucasia della Russia, che dell’Armenia resta il sostegno principale contro l’Azerbaigian e soprattutto la Turchia. E’ vero peraltro che negli ultimi anni vi sono stati alcuni importanti segnali di distensione tra l’Armenia e la Turchia. Il 15 maggio 2002 i ministri degli esteri dei due paesi (e dell’Azerbaigian) si sono incontrati ai margini del summit della Nato di Reykjavik e altri colloqui hanno avuto luogo a giugno a Istanbul, in occasione di una conferenza della Comunità economica del Mar Nero. Un ulteriore elemento positivo è costituito dalla vittoria alle elezioni turche del 2002 del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, meno legato all’eredità kemalista e quindi – almeno in teoria – alla tradizionale posizione negazionista riguardante il genocidio armeno del 1915. Anche se una svolta in questo senso appare al momento ancora remota, l’eventuale soluzione del complesso contenzioso turco-armeno modificherebbe in effetti radicalmente le prospettive geopolitiche del Caucaso. Anche nella mutata situazione internazionale il principale alleato dell’Armenia rimane tuttavia la Russia. Nella sfera militare la stretta alleanza con Mosca è stata riconfermata da una serie di nuovi accordi firmati nel novembre 2003 tra i ministri della difesa dei due paesi81. La specificità storica e geopolitica dell’Armenia continua dunque a farne un fedele alleato di Mosca ed ha sinora impedito una penetrazione strategica degli Stati Uniti in questo paese. Ciononostante anche qui la situazione potrebbe conoscere un’evoluzione poco gradita a Mosca. Va comunque segnalato come a livello di opinione pubblica anche l’Armenia sembri indirizzarsi più chiaramente che in passato verso Occidente piuttosto che verso la Russia. In un sondaggio condotto nel dicembre 2004 dall’Armenian Center for National and International Studies (Acnis) su un

78 Sul significato, non solo economico, che questa misura ha per la Georgia si veda l’articolo di M. CORSO, To Georgia, Wine War with Russia: A Question of National Security, in «Eurasia Insight», 13 April 2006, http://www.eurasianet.org/departments/insigh/articles/eav041306pr.shtml. 79 E. DANIELYAN, U.S. Sanctions Expose Unease over Warm Ties between Yerevan and Tehran, in «Eurasia», 18 May 2002, http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/pp051802. shtml. 80 J-C. PEUCH, Possible US Military Buildup in Georgia Raises Armenian Concerns, in «Eurasia Insight», 14 March 2002, http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/pp031402.shtml. 81 S. BLAGOV, Armenia and Russia Reassert Bonds amid Georgia’s Crisis, in «Eurasia Insight», 17 November 2003, http://www.eurasianet.org/departments/insigh/articles/eav111703.shtml.

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campione di duemila persone, due terzi degli intervistati si sono detti favorevoli all’ingresso nell’Unione Europea e solo il 12% contrari. Tutti i cento politici e specialisti di politica internazionale contattati dall’Acnis hanno dato la stesa risposta. Esito analogo ha dato un altro sondaggio, organizzato dall’agenzia “Vox populi”, secondo il quale il 72% della popolazione di Erevan preferirebbe far parte dell’Unione Europea anziché della CSI 82 . In una repubblica tradizionalmente filo-russa si tratta di un dato rilevante, che risente certo degli avvenimenti georgiani. La percezione del diminuito peso della Russia nella regione sembra aver parzialmente influenzato anche l’orientamento dei vertici politici armeni, che negli ultimi anni hanno rafforzato i legami con Nato, Stati Uniti e Unione Europea.

In Azerbaigian il cambiamento delle prospettive geopolitiche dopo l’11 settembre ha avuto conseguenze relativamente limitate. La leadership autoritaria e clanica di Heydar Aliyev aveva stabilito rapporti preferenziali con gli Stati Uniti e la Turchia senza però pregiudicare le relazioni con l’Iran e la Russia. Il presidente Putin ha cercato sin dall’inizio del 2001 di migliorare le relazioni della Russia con l’Azerbaigian, acconsentendo, sia pure in maniera ambigua, alla costruzione del tanto contestato oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan. Per la Russia è in effetti di particolare importanza economica la soluzione dei problemi di divisione del Mar Caspio, dove è di gran lunga la maggior potenza militare (come mostrano le ripetute, e a volte imponenti, manovre militari)83. Da parte di Baku la volontà di migliorare i rapporti con Mosca deriva anche dal fatto che numerosi azeri lavorano in Russia, contribuendo non poco con le loro rimesse all’economia dl paese. Il miglioramento delle relazioni russo-azere ha in qualche modo limitato la penetrazione statunitense, che pure è indubbiamente aumentata. In particolare si è rafforzata la cooperazione militare, soprattutto per migliorare la flotta, principalmente in funzione anti-iraniana84. Ciononostante, nel corso della guerra in Iraq del 2003 l’atteggiamento dell’Azerbaigian è stato alquanto prudente, in quanto Aliyev, la cui salute era ormai minata, non voleva sacrificare all’alleanza con gli Stati Uniti il sentimento di solidarietà per l’Iraq ampiamente diffuso in un paese musulmano come l’Azerbaigian. Benché la possibilità di accogliere basi statunitensi non sia esclusa dalla dirigenza azera85, si ha in effetti l’impressione che Baku abbia ceduto definitivamente alla Georgia la chance di divenire il paese-chiave della penetrazione statunitense nella regione.

82 E. DANIELYAN, Polls Show Pro-Western Shift in Armenian Public Opinion, in «Eurasia Insight», 11 January 2005, http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/eav011105. shtml. 83 P. BAEV, Russia’s Policy in North and South Caucasus, cit., pp. 46-47. 84 S. BLANK, U.S. Military in Azerbaijan, to Counter Iranian Threat, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 10 April 2002, http://www.cacianalyst.org/2002-04-10/20020410_US_AZERBAIJAN_ IRAN.htm. 85 F. ISMAILZADE, Heightened Geopolitical Competition over the Caucasus?, in «Central Asia- Caucasus Analyst», 17 December 2003, http://www.cacianalyst.org/view_article.php?articleid= 1977.

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La discutibile operazione politica che ha visto la trasmissione ereditaria del potere da Heydar Aliyev – morto alla fine del 2003 – a suo figlio Ilham, è stata bene accolta sia dalla Russia che dagli Stati Uniti. Mosca spera evidentemente che Ilham Aliyev, il quale per rafforzare la sua ancora debole posizione ha un forte bisogno dell’appoggio del grande vicino settentrionale, abbia ereditato l’equilibrio politico del padre. Per quel che riguarda Washington, gli interessi connessi al transito petrolifero ed al controllo del radicalismo islamico sono troppo grandi perché si guardi eccessivamente alle incerte credenziali democratiche del nuovo presidente.

Mentre la Georgia è ormai apertamente proiettata verso gli Stati Uniti e l’Armenia rimane in larga misura sotto il controllo di Mosca perché obbligata dalle sue particolari questioni geopolitiche, l’Azerbaigian sembra quindi poter costituire una sorta di modello delle nuove relazioni internazionali, in cui la superpotenza statunitense agisce in parziale accordo con quella locale, in questo caso la Russia86.

4. Conclusioni

La recente politica della Russia post-sovietica nei confronti del Caucaso si sviluppa dunque secondo due linee differenti. Nel Caucaso settentrionale, Mosca ha dimostrato anche sotto la presidenza di Putin di non saper concepire una vera alternativa alla politica di repressione in Cecenia (sia pure affidata ad una fazione locale filo-russa), né di portare avanti un effettivo sviluppo economico dell’intera regione. Da questo punto di vista il Caucaso continua a costituire davvero il punto debole della Russia putiniana, anche se non si deve sottovalutare l’importanza che a livello di politica interna continua ad avere la manifestazione di “fermezza” manifestata verso questa regione. Nella Transcaucasia, invece, rispetto al decennio di El’cin, all’uso spregiudicato delle rivalità interetniche ed al mantenimento di basi militari nella regione ovunque possibile la Russia ha iniziato ad aggiungere lo sfruttamento sempre più intenso delle leve economiche, in particolare per quel che riguarda l’energia. Questa strategia, legata alla nuova concezione di un “impero liberale” che sembra stare prendendo piede a Mosca, non è tuttavia servita ad impedire che in seguito alla cosiddetta “rivoluzioni delle rose” la Georgia si allontanasse ulteriormente dall’orbita russa, avvicinandosi ancor più agli Stati Uniti ed all’Unione Europea. Nella stessa Armenia, tradizionalmente l’alleato più fedele nella regione, si hanno crescenti segnali di un desiderio di disimpegno dallo stretto e pur strategicamente indispensabile legame con la Russia. Il paese in cui tale politica sembra aver dato frutti migliori è forse l’Azerbaigian, che nonostante il completamento dell’oleodotto Baku-Ceyhan, ha oggi migliorato i suoi rapporti con Mosca. 86 I. TORBAKOV, Russia Backs Dynastic Political Succession Scenario in Azerbaijan, in «Eurasia Insight», 7 August 2003, http://www.eurasianet.org/department/insight/articles/ eav0800703a.shtml.

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Nel complesso sembra possibile affermare che la politica russa nel Caucaso appare rivolta essenzialmente al mantenimento dello status quo, per molti aspetti favorevole a Mosca grazie all’eredità imperiale e sovietica, ma senza la capacità di adattarsi realmente alla mutata situazione internazionale, in primo luogo all’indipendenza delle tre repubbliche transcaucasiche. In particolare la Russia sembra ancora soggetta ad una tentazione cripto-imperiale, che tende a ricondurre sotto il suo controllo questi paesi che tendono invece, con particolare forza nel caso della Georgia, a proiettarsi vero l’Europa e l’Occidente. In effetti, tanto sotto la guida di El’cin quanto sotto quella di Putin la Russia non ha saputo dimostrarsi un valido polo di attrazione per queste repubbliche (se non per l’Armenia, costretta dalla sua particolare situazione geopolitica a mantenersi stretta a Mosca). In particolare, la politica brutale in Cecenia e l’incapacità di realizzare un adeguato sviluppo socio-economico del Caucaso settentrionale costituiscono un biglietto da visita assai poco gradevole nei confronti dei paesi transcaucasici. Questo ha reso con ogni probabilità irreversibile il distacco di Georgia e Azerbaigian dall’orbita politica diretta della Russia.

Sia per la crescente penetrazione degli Stati Uniti sia per l’accresciuto interesse dell’Unione Europea, la situazione politica e strategica del Caucaso meridionale sta rapidamente cambiando. E qui, forse più che in ogni altra regione dell’ex-Urss, Mosca deve trovare un difficile equilibrio tra la difesa dei suoi consistenti interessi strategici e la nuova realtà politica internazionale.

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LA DIMENSIONE STRATEGICA DELL’ASIA CENTRALE TRA RUSSIA, CINA E USA

Matteo Fumagalli

Introduzione

La fine della guerra fredda e dell’era bipolare hanno portato ad uno stravolgimento delle relazioni strategiche in Asia centrale. In epoca sovietica le relazioni tra la regione ed il mondo esterno passavano da Mosca. Non vi erano rappresentanze diplomatiche nella regione, l’accesso alla quale era interdetto alla quasi totalità dei cittadini non sovietici, non vi erano élites diplomatiche centroasiatiche e soprattutto non vi era alcuna sistematica riflessione teorica sul ruolo che la regione potesse occupare nel sistema internazionale in quanto non se ne vedeva la necessità: l’ordine nella regione era garantito da Mosca e l’input delle élites regionali nel definire questo ordine pareva minimo. L’implosione dello stato sovietico e la conseguente indipendenza delle cinque repubbliche centroasiatiche hanno rimesso in discussione non solo questa certezza, ma anche l’importanza strategica della regione.

Nell’immediato (i primi anni Novanta) il consolidamento statuale e dell’identità nazionale costituivano le priorità delle élites centroasiatiche. Per le potenze (geograficamente1) esterne alla regione, oltre al consolidamento della statualità delle cinque repubbliche (che avrebbe evitato irredentismo e secessionismo), l’accesso alle risorse energetiche (petrolio e gas naturale) rappresentava la principale ragione per allacciare rapporti con gli attori regionali. Verso la fine degli anni Novanta apparve incofuntabile che la minaccia posta dal radicalismo islamico avrebbe occupato un ruolo centrale nelle relazioni tra le repubbliche post-sovietiche e ogni altro attore che avrebbe voluto interagire con loro.

Come avrebbero risposto le repubbliche centroasiatiche a questo crescente interesse per la regione ha dato vita a una serie di dibattiti, accademici e non. Sarebbero rimaste a gravitare nell’orbita russa o avrebbero optato per l’allacciamento di rapporti più o meno stretti con altri attori, più o meno vicini? Di contro, come avrebbe reagito l’unica superpotenza globale rimasta, gli Stati Uniti, alla comparsa di un nuovo teatro regionale?

1 Chiarisco subito che il mio uso dei termini interno ed esterno alla regione è puramente geografico. Infatti quello che mi propongo di mostrare è come l’appartenenza di un attore alla regione sia stato oggetto di aspra contestazione, ma soprattutto l’articolazione della alterità di un attore rispetto al contesto centroasiatico è stato utilizzato come giustificazione per ridurne la presenza.

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Al fine di rispondere a queste domande esaminerò il ri-allineamento strategico dell’Asia centrale dall’indipendenza a oggi, facendo particolare attenzione alle dinamiche successive agli attacchi dell’11 settembre 2001. E’ bene chiarire subito che chi scrive non ritiene che gli attacchi dell’11 settembre abbiano costituito o generato un cambiamento strutturale nel sistema internazionale. L’impatto degli attacchi sulle relazioni strategiche in Asia centrale è stato tutt’altro che secondario, ma rimangono forti elementi di continuità con il periodo sovietico e irrisolte tensioni rendono prematuro ogni giudizio sull’effettivo consolidamento del sistema regionale centroasiatico.

Policy-makers e analisti hatto fatto uso frequente di metafore e nuovi strumenti di analisi per riferirsi alle dinamiche strategiche e di sicurezza dei paesi centroasiatici e di quegli attori che hanno cercato di espandere la propria presenza e influenza nella regione. Complesso di sicurezza regionale 2 e comunità di sicurezza 3 sono i due concetti più comunemente usati nel corso degli ultimi quindici anni per ripensare la formazione del sistema regionale in Asia centrale. Esaminerò queste dinamiche guardando all’Asia centrale quale esempio di quelli che Alessandro Colombo definisce “sistemi regionali post-unitari”4. Nella prima parte del saggio in particolare mi concentrerò sulle strategie degli unici attori che hanno mostrato di avere sia le risorse che la visione strategica per imporsi nella regione (Russia, Cina e Stati Uniti) 5 , nonché sugli orientamenti internazionali delle repubbliche della regione, evidenziandone somiglianze e differenze.

La seconda parte del saggio esamina due casi studio specifici: la nascita e crisi della Partnership Strategica tra Stati Uniti e Uzbekistan (2001-2005) e il consolidamento della Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco, 2001-2007). L’analisi di questi processi (di ascesa e declino statunitense, consolidamento della egemonia russa e simultanea crescita dell’influenza economica cinese) costituiscono due casi studio rappresentativi dei processi di contestazione cui è stato soggetto il sistema regionale centroasiatico. Discutere i due casi studio mi consentirà di esaminare uno dei fattori di instabilità che secondo Colombo affliggono tali sistemi regionali: i deficit di legittimità che gravano sui confini del sistema, sul numero e sull’identità dei suoi attori e

2 Si vedano: B. BUZAN - O. WÆVER, Regions and Power: The Structure of International Security, Cambridge, 2003; R. ALLISON - L. JONSON (eds.), Central Asian Security: The New International Context, London, 2001. 3 Si vedano: E. ADLER - M.N. BARNETT, Governing Anarchy: A Research Agenda for the Study of Security Communities, in «Ethics and International Affairs», 10, 1996; J. HEATHERSHAW, Worlds Apart: The Making and Remaking of Geopolitical Space in the US-Uzbekistan Strategic Partnership, in «Central Asian Survey», 18, 2007, 1. 4 A. COLOMBO, Frammentazione e ordine internazionale. I sistemi regionali post-unitari e il nuovo arco dell’instabilità, in «Quaderni di Relazioni Internazionali», 2006, 3. 5 Non sto sottintendendo che questa visione strategica sia sempre stata coerente o coerentemente applicata.

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sull’esistenza del sistema stesso 6 . Oggetto di contestazione nell’Asia centrale post-sovietica, al pari di altri sistemi post-unitari, sono stati i confini (dove finisce l’Asia centrale?), il numero e l’identità degli attori (gli Usa sono una potenza centroasiatica? Che dire della Russia e della Cina?), nonché il sistema stesso (esiste un sistema regionale centroasiatico separato da altri sistemi limitrofi?).

Concluderò questo contributo sostenendo che il recente ri-allineamento strategico è il risultato di una convergenza normativa delle élites regionali, russe e cinesi. Il concetto di comunità di sicurezza sviluppato da Adler e Barnett (e applicato al contesto centroasiatico da Heathershaw 7 ) appare pertinente per cogliere l’elemento coagulante della Organizazzione per la Cooperazione di Shanghai. Al tempo stesso appare prematuro sostenere che il sistema regionale centroasiatico sia ormai consolidato. Come sostiene Colombo con riferimento alla formazione dei sistemi regionali sorti sulle ceneri del sistema unitario, la statualità tanto difesa (assieme a una autentica gelosia della propria sovranità) dalle cinque repubbliche centroasiatiche appare tuttora debole. Proprio questa debolezza e le tensioni irrisolte costituiscono e anzi richiedono cooperazione tra attori regionali ed extra-regionali.

1. Ripensare le dinamiche di integrazione e frammentazione regionali8

Il crollo del sistema bipolare ha portato a una autentica proliferazione degli studi sul regionalismo9 e a un ripensamento di questioni relative alla sicurezza a livello regionale10. Le teorie delle relazioni internazionali offrono una ricca selezione di approcci che cercano di spiegare le dinamiche di frammentazione ed integrazione seguiti alla fine del bipolarismo. Le teorie (neo)realiste11 hanno tradizionalmente sminuito il ruolo delle istituzioni internazionali e delle dinamiche cooperative fra gli stati a favore di una presunzione del sistema quale anarchico, in cui il comportamento degli attori (stati) è il risultato della distribuzione di potenza (militare o economica). Negli approcci neorealisti le forme di cooperazione più comuni sono le alleanze militari in cui gli attori più deboli collaborano e cercano di bilanciare quell’attore che costituisce una minaccia. Se gli assunti neorealisti fossero validi, nel contesto centroasiatico dovremmo aspettarci una cooperazione

6 A. COLOMBO, Frammentazione e ordine internazionale. I sistemi regionali post-unitari e il nuovo arco dell’instabilità, cit., pp. 86-87. 7 J. HEATHERSHAW, Worlds Apart: The Making and Remaking of Geopolitical Space in the US-Uzbekistan Strategic Partnership, cit. 8 A. COLOMBO, Frammentazione e ordine internazionale. I sistemi regionali post-unitari e il nuovo arco dell’instabilità, cit. 9 A.J. HURRELL, Explaining the Resurgence of Regionalism in World Politics, in «Review of Iternational Studies», 21, 1995, 4. 10 P. KUBICEK, Regionalism, Nationalism and Realpolitik in Central Asia, in «Europe-Asia Studies», 49, 1997, 4, p. 638. 11 K.N. WALTZ, Theory of International Politics, Reading, 1979; S.M. WALT, The Origins of Alliances, Ithaca, 1987.

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tra le repubbliche post-sovietiche al fine di controbilanciare una minaccia comune (effettiva o immaginata). La conseguenza di questo comportamento sarebbe una forte spinta integrativa verso la cooperazione regionale. In realtà non solo le repubbliche dell’Asia centrale non hanno cooperato per bilanciare l’influenza russa (il Turkmenistan si è dichiarato permanentemente neutrale, l’Uzbekistan ha cercato di ridurre al minimo il retaggio culturale russo sul paese), ma alcuni mantenevano stretti legami con Mosca (Kirghizistan e Kazachstan, pur all’interno di una politica multivettoriale), e il Tagikistan entrava in una relazione di tipo clientelare con questa. Un altro principio neorealista vedrebbe negli stati più deboli i più accesi entusiasti di strutture multilaterali per bilanciare minacce regionali. Di nuovo, il Tagikistan avrebbe dovuto farsi promotore di una serie di strutture regionali per bilanciare il vicino Uzbekistan e le ambizioni di egemonia regionale di questo stato, mentre invece Dushanbe ha preferito una stretta relazione bilaterale con Mosca. L’intreccio della questione del degrado ambientale con la proprietà e l’uso delle risorse naturali avrebbe dovuto mostrare il riscontro empirico delle teorie dell’interdipendenza12 . Poiché gli stati centroasiatici non sono in grado di risolvere tali problemi (la dessiccazione del lago d’Aral e dei due immissari, l’Amu Darya e il Syr Darya; la gestione e distribuzione delle risorse naturali) tramite azioni unilaterali in quanto essi affliggono tutte le repubbliche della regione (ad esempio l’Uzbekistan dipende dalle risorse idriche kirghize e tagike e questi stati dipendono dal gas uzbeko), una soluzione richiede un’azione congiunta, regionale e multilaterale. Ciò significa limitare la sovranità di stati che quella stessa sovranità l’hanno acquisita solo recentemente. Aldilà di un certo livello di cooperazione nel settore ambientale13, mancano invece esempi di come superare tali problemi di azione collettiva.

A differenza degli approcci (neo)realisti, le teorie della stabilità egemonica vedono nella presenza di un “attore privilegiato” o “federatore esterno” 14 un elemento necessario per superare i problemi di azione collettiva. Tali teorie prevedono che gli stati più deboli si allineino all’attore più forte (bandwagoning). Negli anni Novanta la Russia non ha né voluto né ha avuto le risorse per prendere l’iniziativa di promuovere una cooperazione inter-statuale su base regionale, intrattendendo relazioni bilaterali ad hoc. Non sono mancate strutture multilaterali (che anzi abbondano, perlomeno sulla carta15), ma gli effetti pratici di queste sono apparsi di scarsa sostanza. Al tempo stesso le teorie della stabilità egemonica hanno una certa utilità se applicate al contesto centroasiatico. Come in altri

12 E. WEINTHAL, State Making and Environmental Cooperation: Linking Domestic and International Politics in Central Asia, Cambridge (Mass.), 2002. 13 S. HORSMAN, Uzbekistan’s Involvement in the Tajik Civil War 1992-1997: Domestic Considerations, in «Central Asian Survey», 18, 1999, 1, pp. 37-48; E. WEINTHAL, State Making and Environmental Cooperation: Linking Domestic and International Politics in Central Asia, cit. 14 P. KUBICEK, Regionalism, Nationalism and Realpolitik in Central Asia, cit., p. 639. 15 Per una rassegna dei vari tentativi di regionalismo e regionalizzazione si veda A. LIBMAN, Regionalisation and Regionalism in the Post-Soviet Space: Current Status and Implications for Institutional Development, in «Europe-Asia Studies», 59, 2007, 3.

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sistemi regionali di recente formazione, anche quello centroasiatico ha mostrato come l’ordine regionale sia esogeno in quanto le potenze internazionali – Usa e Russia soprattutto – hanno giocato un ruolo fondamentale nel dar forma al sistema regionale centroasiatico. Il problema di queste teorie, come pure di quelle esaminate in precedenza, sostiene Kubicek, è che considerano gli attori centroasiatici dei “non attori”, ossia dei recipienti passivi delle azioni e strategie provenienti dall’esterno. Sia gli approcci costruttivisti alle relazioni internazionali16 che quegli studi di politica estera che affermano l’importanza di fattori interni per comprendere le relazioni strategiche tra gli stati17 sopperiscono a questa mancanza. Due concetti appaiono pertinenti alla presente analisi: innanzitutto il riconoscimento che l’ordine in Asia centrale non è solo esogeno, ma al tempo stesso endogeno, nel senso che è anche il risultato delle strategie elaborate dalle élites centroasiatiche. In secondo luogo le interazioni tra attori interni ed esterni e le dinamiche che ne risultano possono essere comprese appieno solo prendendo in considerazioni questioni di identità, norme e valori che – se condivisi – danno vita a forme di comunità o, nel contesto dell’Asia centrale, “regioni-comunità”18. Prima di procedere oltre, guarderò a come le dinamiche di frammentazione e integrazione nella regione nell’era post-bipolare sono state ripensate tenendo conto di questi elementi (esogenia o endogenia dell’ordine e questioni identitarie).

1.1 La teoria del complesso di sicurezza regionale (regional security complex)

Alcuni degli elementi di novità più significativi che hanno seguito la fine dell’era bipolare sono costituiti dalla prominenza assunta dalle regioni come attori di politica internazionale e dalla regionalizzazione della sicurezza. Un modo di ripensare la trasformazione della sicurezza internazionale e la sua regionalizzazione è stato proposto da Buzan e Wæver attraverso la teoria del complesso di sicurezza regionale (regional security complex theory, Rsct) 19 . L’assunto principale della Rsct è che poiché le minacce alla sicurezza “viaggiano” più rapidamente lungo brevi distanze che non attraverso spazi più estesi, l’interdipendenza della sicurezza è strutturata su base regionale, intorno a quelli che Buzan e Wæver chiamano “complessi di sicurezza regionali”. Gli stati che

16 E. ADLER - M.N. BARNETT, Governing Anarchy: A Research Agenda for the Study of Security Communities, cit. 17 Si vedano: M.N. BARNETT, High Politics is Low Politics: The Domestic and Systemic Sources of Israeli Security Policy, 1967-1977, in «World Politics», 42, 1990, 4; M.N. BARNETT - J.S. LEVY, Domestic Sources of Alliances and Alignments: The Case of Egypt, 1962-1973, in «International Organization», 45, 1991, 3; R.D. PUTNAM, Diplomacy and Domestic Politics: The Logic of Two-level Games, in «InternationalOrganization», 42, 1988, 3. 18 E. ADLER, Imagined (Security) Communities: Cognitive Regions in International Relations, in «Millennium: Journal of International Studies», 26, 1997, 2. 19 B. BUZAN - O. WÆVER, Regions and Power: The Structure of International Security, cit., p. 4.

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appartengono a un complesso di sicurezza regionale condividono preoccupazioni in relazione alla sicurezza e sono interconnessi al punto che le azioni di uno hanno un impatto diretto sulla sicurezza degli altri attori 20 . La Rsct effettua una distinzione tra un livello sistemico in cui operano gli attori globali e uno sub-sistemico, quello regionale. Il vantaggio del concetto di complesso di sicurezza regionale è costituito dalla possibilità di esaminare l’interazione tra questi due livelli di analisi. I cambiamenti all’interno del complesso sono infatti dettati da fattori interni ed esterni al sistema.

Allison e Jonson riprendono tale concetto e lo applicano al contesto centroasiatico al fine di comprendere le cause della riconfigurazione strategica in atto nella regione. L’analisi di Allison e Jonson è pertinente al contesto centroasiatico perché interroga la capacità delle repubbliche centroasiatiche di rispondere con efficacia alle minacce di varia natura in maniera autonoma o attraverso il sostegno di una potenza esterna che interviene ai fini di mantenere pace e stabilità nella regione. Le dinamiche strategiche sono influenzate da fattori sia esterni (alleanze tra potenze esterne e attori regionali) che interni (potenza economica o militare delle repubbliche regionali). L’intensificazione di contatti tra interno ed esterno può anche risultare nella formazione di una “comunità di sicurezza”, fondata su valori e interessi comuni. Alla luce dell’alto livello di competizione intra-regionale, questo esito – in Asia centrale – è considerato improbabile da Allison e Jonson. In realtà la recente evoluzione strategica nella regione, che ha visto la presenza statunitense diminuire a favore di una maggiore influenza sino-russa, e una simultanea affermazione della Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai sembra mostrare che, dopotutto, una identità di valori e interessi possono emergere nella regione. Il problema è costituito dal fatto che gli studi delle comunità di sicurezza hanno tradizionalmente guardato a comunità liberali o alla trasformazione di regioni illiberali in comunità liberali21, mentre le società centroasiatiche si discostano palesemente da questo modello di trasformazione lineare, come verrà mostrato in seguito.

1.2 Il nesso tra identità e sicurezza: le comunità di sicurezza

La nozione di comunità di sicurezza (una «regione transnazionale che comprende stati sovrani le cui popolazioni condividono aspettative di cambiamento pacifico»22), sviluppata originariamente da Karl Deutsch e poi ripresa da Adler e Barnett, ha avuto un impatto fondamentale sullo studio della politica internazionale. Come notano Adler e Barnett, fino a poco più di un decennio fa, gli studiosi di relazioni internazionali erano decisamente a disagio nell’utilizzare 20 R. ALLISON - L. JONSON (eds.), Central Asian Security: The New International Context, cit., p. 5 21 E. ADLER - M.N. BARNETT, Governing Anarchy: A Research Agenda for the Study of Security Communities, cit. 22 Ibidem.

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nozioni di identità, valori, norme e simboli, in particolare il fatto che attori – statuali e non – possano condivere questi elementi che ne definiscono l’identità sociale. Adler e Barnett distinguono tra le comunità di sicurezza “amalgamate” e quelle “pluralistiche”, a seconda della porzione di sovranità che viene ceduta. L’idea di comunità di sicurezza pluralistica appare più pertinente a una discussione dei sistemi regionali post-unitari in quanto il processo di state-building è di recente origine e gli stati membri di questa comunità sono restii a cedere anche solo porzioni della sovranità appena acquisita. La nozione di comunità di sicurezza costituisce un importante passo in avanti per comprendere la formazione del sistema centroasiatico e gli elementi che lo definiscono. Ci sono però delle peculiarità nel contesto in questione. Le differenze sono essenzialmente due. In primo luogo la cessione di porzioni di sovranità è una “non possibilità” in Asia centrale, in quanto l’unica eccezione è costituita dalla relazione clientelare tra Russia e Tagikistan durante e nel periodo immediatamente successivo alla guerra civile in cui il Tagikistan aveva di fatto ceduto la propria sovranità a Mosca. Nonostante la presenza di una vasta gamma di organizzazioni regionali, il regionalismo centroasiatico è apparso, per larga parte del periodo post-sovietico, simile più alla somma delle parti che non a un sistema di governance regionale23. In secondo luogo ciò che accomuna le comunità di sicurezza, secondo Adler, è dato dalle aspettative che eventuali episodi di cambiamento a livello politico avvengano senza ricorrere all’uso della violenza. Di contro, la violenza, o meglio la possibilità della violenza in Asia centrale non è mai esclusa. Il separatismo, terrorismo e fondamentalismo islamico, identificati dalle potenze regionali come le maggiori minacce alla sicurezza regionale, indicano come la possibilità della violenza incomba sul sistema. Tale violenza, va ricordato, non è esclusivamente di natura anti-sistema, ma può manifestarsi come violenza di stato, legittimata dalle élites al potere come misura necessaria per rispondere a minacce alla propria esistenza24. La crisi di Andijan in Uzbekistan nel maggio 2005, quando scontri fra forze governative e dimostranti hanno causato un numero imprecisato di morti, ne è un chiaro esempio.

1.3 Comunità di sicurezza immaginate e comunità di sicurezza illiberali

Dopo aver occupato un ruolo a dir poco marginale negli studi strategici e di sicurezza durante la guerra fredda, le questioni identitarie e il ruolo di queste nel definire le politiche di sicurezza sono state finalmente riconosciute negli studi di sicurezza. La ricerca di Adler e Barnett è focalizzata su comunità liberali o sul processo attraverso cui comunità di sicurezza non liberali diventano tali, come già osservato in precedenza. L’Asia centrale si pone in contrasto a tale idea, in quanto

23 A. LIBMAN, Regionalisation and Regionalism in the Post-Soviet Space: Current Status and Implications for Institutional Development, cit. 24 M. FUMAGALLI, The Andijan Events: State Violence, Popular Resistance and the Rhetoric of Terrorism in Uzbekistan, in «ISIM Newsletter», 18, 2006, pp. 28-29.

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è proprio l’opposizione a questo processo di trasformazione politica e cognitiva che “tiene insieme” gli stati membri della comunità di sicurezza che fa capo alla Sco (secondo caso studio esaminato in questo saggio). Se per alcuni la Partnership Strategica tra Stati Uniti ed Uzbekistan (primo caso studio) poteva costituire un meccanismo attraverso cui l’Uzbekistan – pur all’interno della guerra globale al terrorismo – diventava parte di una comunità di sicurezza immaginata liberale, in realtà il legame tra identità e norme da un lato e sicurezza dall’altro appare applicabile anche a regioni che liberali non sono. Le élites centroasiatiche (e russe) hanno articolato la regione come un luogo in cui gli attori membri di tale comunità difendono strenuamente l’idea di sovranità e minacce alla stabilità provenienti da gruppi militanti islamici, organizzazioni non governative dedite alla democratizzazione della regione, nonché potenze esterne alla regione. Queste concezioni di statualità e sovranità si fondano su una radicale demarcazione tra interno ed esterno, e il rispetto di quanto avviene all’interno (di ogni stato) costituisce uno degli elementi caratterizzanti questa comunità di sicurezza immaginata.

1.4 I sistemi regionali post-unitari

In questo saggio l’Asia centrale verrà esaminata come esempio di quelli che Alessandro Colombo definisce “sistemi regionali post-unitari”. Al pari di altri sistemi post-unitari, il sistema centroasiatico si pone in forte antitesi a quello europeo occidentale per una serie di motivi. Innanzitutto una prima differenza sta nella origine anomala del sistema regionale europeo, fortemente consolidato anche grazie al fatto che il processo di integrazione risale a diversi secoli fa (e che la statualità dei paesi membri è forte e dunque cessioni di sovranità non sono percepite come un indebolimento della statualità). L’origine dei sistemi regionali post-unitari risale all’implosione del centro, in questo caso quello sovietico intorno a cui gravitava la periferia centroasiatica. Colombo inoltre sottolinea l’origine esogena dell’ordine regionale. Il crollo del centro, all’origine della formazione del nuovo sistema, non ha portato a una situazione di indipendenza della periferia dal centro. Al contrario la «forza gravitazionale dello spazio unitario precedente»25 si fa sentire eccome in Asia centrale, forse più in questo decennio che in quello precedente in cui la debolezza dello stato russo era evidente. Le relazioni di sicurezza in Asia centrale sono inevitabilmente influenzate dalla politica russa verso la regione26.

Al pari di Adler e Barnett, Colombo condivide l’attenzione a nozioni di comunità e identità, il collante del nascente sistema regionale. Colombo nota pure come gli 25 A. COLOMBO, Frammentazione e ordine internazionale. I sistemi regionali post-unitari e il nuovo arco dell’instabilità, cit., p. 79. 26 Questo non significa che l’ordine sia esclusivamente esogeno e nella fattispecie di origine russa. La tesi qui sostenuta è che il “vecchio” centro esercita una forza gravitazionale molto forte, ma questa viene soggetta a negoziazione (pur su base ineguale) da parte degli attori regionali.

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stati membri del sistema siano riluttanti a cedere porzioni di sovranità a strutture sovrastatali. Questo, viene sottolineato, non è dovuto al fatto che la statualità di questi stati è particolarmente forte; al contrario, è proprio la debolezza della statualità centroasiatica – il riconoscimento implicito delle élites regionali di questa debolezza e il tentativo di farvi riparo – a essere il maggiore ostacolo a ogni processo integrativo. Questo, è chiaro, si pone in forte contrasto con il sistema regionale “forte” per eccellenza: quello europeo27. I due elementi centrali del sistema europeo, ossia la cessione di porzioni di sovranità e la forte statualità, sono assenti nel caso centroasiatico. Come mostrerò nelle pagine seguenti, le repubbliche post-sovietiche dell’Asia centrale sono apparse del tutto riluttanti a cedere anche porzioni minime della propria sovranità a organizzazioni regionali o supra-regionali.

Questo aspetto, anziché essere una anomalia del nascente sistema centroasiatico, appare una normalità nelle fasi formative dei sistemi regionali post-unitari. Analizzare quindi l’origine del nascente e fragile sistema regionale centroasiatico significa interrogare le determinazioni di questo sistema (i confini, le identità degli attori e l’esistenza del sistema stesso), come scrive Colombo, e verificarne la legittimità. Ed è proprio questo deficit di legittimità che mina alle fondamenta la definizione dei confini, l’identità degli attori e l’esistenza stessa del sistema internazionale come sistema interstatuale. Gli attori che appartengono e definiscono tali sistemi, sostiene Stefanachi a proposito del sistema regionale est-asiatico, sono accomunati da una forte affermazione della sovranità statuale, dalla ricerca di sicurezza e da una aspirazione multipolare28 . Nelle pagine seguenti esaminerò due casi studio che mostreranno come anche il sistema centroasiatico soffra di un deficit di legittimità plurimo che colpisce le tre determinazioni sopra citate, e come il recente consolidamento della Sco abbia dato vita a quanto di più vicino la regione abbia espresso a un sistema regionale in cui la Sco ambisce a determinare l’ordine del sistema e costituire un polo in un sistema internazionale multipolare. Prima di procedere oltre, è opportuno rivisitare le tre ragioni principali per cui la regione centroasiatica è diventata di importanza strategica dopo il crollo dell’Urss: la questione dell’accesso agli idrocarburi, la sicurezza, e le instabili relazioni tra stato e società.

2. L’importanza strategica del sistema regionale centroasiatico

Che cos’è dunque l’Asia centrale e da dove deriva la sua importanza strategica? A livello geografico l’Asia centrale comprende una porzione significativa della massa eurasiatica, che racchiude non solo le cinque repubbliche post-sovietiche di 27 A. COLOMBO, Frammentazione e ordine internazionale. I sistemi regionali post-unitari e il nuovo arco dell’instabilità, cit., p. 75. 28 C. STEFANACHI, L’Asia orientale tra regionalizzazione e leadership americana, in A. COLOMBO (a cura di), La sfida americana. Europa, Medio Oriente e Asia orientale di fronte all’egemonia globale degli Stati Uniti, Milano, 2006, pp. 108-114.

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Kazachstan, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan, ma anche la Mongolia, il Xinjiang e l’Afghanistan29. I problemi sorgono quando si cerca di definire la regione a livello politico. La regione era nota come “Asia di mezzo e Kazachstan” (srednyaya Aziya i Kazakhstan) in epoca sovietica in quanto le autorità sovietiche differenziavano tra la parte meridionale della regione, marcatamente distinta a livello geografico e culturale dalla Russia, e il Kazachstan, più simile – o meno dissimile, almeno nelle regioni settentrionali – alle zone della Siberia centrale. E’ solo in epoca post-sovietica che i leader delle cinque repubbliche post-sovietiche resero noto che la categoria “Asia centrale” avrebbe sostituito quella precedente e che ne avrebbero fatto parte le cinque repubbliche di Kazachstan, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan30.

Per gran parte degli anni Novanta per gli Stati Uniti, la Russia e la Cina (come pure per l’Unione Europea) le repubbliche centroasiatiche sono state percepite come «un collettaneo di “stan” non proprio degni di nota» 31 . Come osserva Legvold, la disintegrazione dello spazio sovietico rendeva i rischi provenienti dalla regione meno prevedibili, ma tutto sommato l’incertezza sembrava porre una minaccia meno “temibile” rispetto alla presenza della potenza sovietica. Come far fronte a questo nuovo spazio politico in via di formazione non era ben chiaro, né era chiara la strategia che le potenze internazionali avrebbero adottato nei confronti della regione. L’attenzione cinese continuava a essere monopolizzata da quel che succedeva nella zona del Pacifico e in particolare dai rapporti con Taiwan. La Russia sprofondava in un caos decisionale in cui le relazioni con l’Occidente e il conflitto ceceno gettavano il vecchio “ventre molle” dell’Unione Sovietica (la periferia meridionale, appunto) nell’ombra, considerato come un peso di cui liberarsi al più presto32. Gli Stati Uniti da parte loro parevano oscillare tra le critiche allo scarso progresso in tema di democrazia, pluralismo e diritti umani e i tentativi invece di integrare le repubbliche centroasiatiche nelle strutture di una Nato a sua volta in via di ridefinizione. L’accesso alle riserve di idrocarburi, specialmente di Kazachstan e Turkmenistan (e Azerbaigian) e le difficoltà connesse al trasporto di queste verso ovest tenevano impegnati governi e multinazionali. L’Unione Europea era presente solo “per interposta persona”, nelle vesti della Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa e altri programmi ad hoc33.

29 I. ZVIAGEL’SKAYA, Russia and Central Asia: Problems of Security, in B. RUMER (ed.), Central Asia at the End of Transition, London, 2005, p. 72. 30 Ibidem. 31 R. LEGVOLD, Great Power Stakes in Central Asia, in R. LEGVOLD (ed.), Thinking Strategically: The Major Powers, Kazakhstan and the Central Asian Nexus, Cambridge (Mass.), 2003, p. 1. 32 Solo con l’avvento di Evgenij Primakov al Ministero degli Esteri cominciava un serio ripensamento dell’importanza strategica delle repubbliche centroasiatiche per il Cremlino. 33 Questi comprendono i programmi Tacis (scaduto nel 2006), Bomca, Cadap.

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Gli attacchi dell’undici settembre 2001 hanno cambiato la percezione dell’Asia centrale e della sua importanza strategica. Non si sono risparmiate iperboli per riferirsi alla regione: l’Asia centrale era diventata improvvisamente un «teatro centrale della prima guerra globale del ventunesimo secolo»34 ed aveva acquisito una «nuova rilevanza strategica»35. Il riferimento a un presunto nuovo “Grande Gioco” diventava la spiegazione delle dinamiche in corso, invece che una analogia il cui potere esplicativo avrebbe dovuto essere soggetto a verifica empirica.

Gli eventi che si sono succeduti dalla fine del 2004 e nel corso degli anni successivi (2005-2007) hanno mostrato come il ruolo statunitense nella regione fosse assai più precario di quanto fosse possibile immaginare nell’autunno 2001. L’espulsione delle forze statunitensi dall’Uzbekistan, le crescenti critiche alla presenza Usa in Kirghizistan, l’affermazione della Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai come importante attore regionale nonché l’efficacia delle compagnie cinesi e soprattutto russe nel rafforzare la presenza politica ed economica di Pechino e Mosca nella regione sembrano dare ragione a chi, specialmente in Cina e Russia, sosteneva l’alterità di Washington alla regione. Questa sezione ripercorre brevemente il percorso e gli ostacoli incontrati dalle repubbliche centroasiatiche verso il consolidamento della propria indipendenza. Così facendo illustrerò le problematiche che hanno preoccupato il policy-making non solo delle élites locali, ma anche delle maggiori potenze internazionali, ossia gli Stati Uniti, la Russia e la Cina.

2.1 State-building, autoritarismo e contratto sociale.

Un elemento che accomuna le repubbliche centroasiatiche è la presenza di regimi autoritari più o meno consolidati 36 . A parte qualche timido esperimento con riforme volte a introdurre una certa misura di pluralismo e liberalizzazione politica mentre l’Unione Sovietica volgeva al tramonto (Tagikistan) e nei primi anni di indipendenza (Kirghizistan, 1991-1994; Tagikistan, 1991-1992), gli stati e le popolazioni dell’Asia centrale sono rimasti “immuni” dal processo di democratizzazione che ha contraddistinto il crollo del comunismo in Europa centro-orientale e nelle repubbliche baltiche. I regimi più repressivi sono stati quelli di Turkmenistan e Uzbekistan, ma nel complesso le élites al potere hanno fatto di tutto per preservare e consolidare la propria posizione e isolarsi da possibili sfide da parte dell’opposizione.

34 D. LOVELACE, Foreword, in E. WISHNICK, Strategic Consequences of the Iraq War: US Security Interests in Central Asia Reassessed, Strategic Studies Institute, US Army War College, Carlisle, 2004, p. i. 35 R. GIRAGOSIAN, The Strategic Central Asian Arena, in «China and Eurasia Forum Quarterly», 4, 2006, 1, p. 133. 36 S.N. CUMMINGS (ed.), Power and Change in Central Asia, London, 2002.

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Come ha notato Deniz Kandiyoti a proposito del rapporto stato-società in Uzbekistan, per gran parte del periodo post-sovietico una sorta di “contratto sociale” tra élites e popolazione ha garantito ordine e stabilità sociale37. Le élites assicuravano che l’assenza di opposizione sarebbe stata ricompensata con un sistema di sussidi che avrebbe consentito alla popolazione di fronteggiare le difficoltà economiche associate all’indipendenza. Di contro, la popolazione avrebbe rinunciato a far sentire il proprio malcontento. Questo sistema, strutturalmente precario, ha garantito che episodi di protesta di massa e disordini civili rimanessero ai minimi livelli. Quando però, come gli episodi di Andijan nel maggio 2005 dimostrano, lo stato non appare più in grado di garantire anche i fabbisogni minimi della popolazione che anzi continua a vessare, il malcontento non è più contenibile e il conflitto politico si fa violento. Se questa situazione è in buona sostanza una questione interna alle repubbliche della regione, la incessante pressione politica e le difficoltà economiche hanno reso ogni forma di opposizione non clandestina impossibile, contribuendo alla crescita in popolarità dell’islamismo radicale e alle ramificazioni internazionali di questo fenomeno.

2.2 Sicurezza e islamismo radicale

La questione della minaccia posta dai movimenti radicali islamici nella regione è collegata al deterioramento delle relazioni tra stato e società esaminate qui sopra.

La crescita e la minaccia posta dai movimenti islamisti in Asia centrale e Afghanistan sono stati oggetto di un numero crescente di pubblicazioni accademiche e non. L’Islam politico post-sovietico ha assunto varie forme e manifestazioni. Il Partito di rinascita islamico del Tagikistan ha giocato un ruolo centrale nella guerra civile che ha distrutto il paese dal 1992 al 1997. La presenza di un movimento islamico fra i ranghi della opposizione tagika ha consentito alla fazione “governativa” – ma anche alle autorità delle repubbliche confinanti, soprattutto a Tashkent – di agitare lo spettro del fondamentalismo islamico, facendo della lotta all’estremismo religioso una priorità delle politiche della sicurezza delle repubbliche centroasiatiche. Anche nel vicino Uzbekistan, la popolarità di organizzazioni come Adolat (concentrata nella valle di Ferghana) nel 1991-1992 contribuì ad alimentare la percezione di una crescente minaccia ai regimi laici della regione38. Di scarso rilievo in Turkmenistan e sostanzialmente marginale anche in Kazachstan, la cosiddetta minaccia islamica nella regione si è concentrata in Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan, e particolarmente nella regione transfrontaliera della valle di Ferghana. L’opposizione islamica nella regione include sia movimenti violenti che non violenti. Questi ultimi comprendono il Partito di rinascita islamico in Tagikistan (dopo gli accordi di 37 D. KANDIYOTI, Andijan: Prelude to a Massacre, OpenDemocracy.net, 20 May 2005, http://www.opendemocracy.net/globalization-institutions_government/Andijan_2527.jsp. 38 A. KHALID, Islam after Communism. Religion and Politics in Central Asia, London, 2007, p. 140.

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pace del 1997), ma anche l’Hizb-ut Tahrir, una organizzazione transnazionale dalla retorica fortemente antisemita e antiamericana, ma che professa un cambiamento politico e l’instaurazione del califfato nella regione tramite metodi pacifici (proselitismo e cambiamento graduale). L’opposizione violenta in Asia centrale è stata tradizionalmente identificata con il Movimento islamico dell’Uzbekistan (Imu), fondato nel 1998 da Tohir Yuldash e Juma Namangani. L’Imu è stato protagonista di ripetute incursioni in Uzbekistan nelle estati del 1999 e 2000 e ha costituito una spina nel fianco del regime di Islam Karimov. I suoi militanti hanno tradizionalmente operato dalle valli del Tagikistan centrale (Tavildera e Karategin) e quando poi gli accordi di pace che hanno posto fine alla guerra civile nel paese hanno imposto ai militanti di lasciare la repubbliche, l’Imu ha trovato rifugio nell’Afghanistan talebano, salvo poi essere coinvolta (e decimata) nella guerra al terrorismo che ha colpito le basi di gruppi al-qaedisti e fazioni talebane nell’inverno 2001. Scontri tra truppe governative e militanti si sono poi verificati negli anni successivi in Uzbekistan (attentato nel 2004), in Kirghizistan (2005) e Tagikistan (2006), senza però dar mai l’impressione che potessero costituire una seria minaccia alla posizione dei regimi al potere. La presenza di questi episodi è stata ciononostante utilizzata dalle élites locali (ma anche da Cina e Russia) come giustificazione per una azione sempre più repressiva nei confronti della opposizione, religiosa e laica, violenta e non.

2.3 Dimensione energetica

La questione energetica costituisce un’altra importante ragione per cui le potenze internazionali, attori statuali e non (compagnie petrolifere in primis) hanno riposto una crescente attenzione verso la regione. Nonostante la regione disponga anche di risorse idriche (Tagikistan e Kirghizistan), è la presenza di idrocarburi che ha destato l’attenzione internazionale per l’Asia centrale. Kazachstan, Turkmenistan e Uzbekistan, in misura diversa, dispongono di gas naturale, mentre Turkmenistan e soprattutto Kazachstan possiedono ingenti riserve petrolifere. Le riserve kazake si aggirano intorno ai 39,8 miliardi di barili di petrolio (metà delle riserve russe e l’undici per cento di quelle saudite39). Il Turkmenistan dispone invece di circa 600 milioni di barili40. E’ il gas naturale la maggiore risorsa di cui dispone lo stato turkmeno, visto che le sue riserve ammontano a circa 2.860 miliardi di metri cubi. Le riserve kazake sono di pari entità, mentre quelle uzbeke sono leggermente inferiori (1.870 miliardi di metri cubi41 ). Le tre questioni sollevate dal crollo sovietico sono innanzitutto quella relativa all’accesso alle risorse, nonché il loro trasporto al di fuori della regione e l’impatto sulle economie e società locali. Storia e geografia hanno tradizionalmente legato la questione energetica alle

39 INTERNATIONAL CRISIS GROUP, Central Asia’s Energy Risks, «Asia Report» n. 133, 24 May 2007, p. 6, http://www.crisisgroup.org/home/index.cfm?id=4866&l=1. 40 Ibidem, p. 8. 41 Ibidem, p. 12.

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relazioni con la Russia, attraverso cui venivano trasportati gli idrocarburi. La possibilità di sfruttare gli idrocarburi centroasiatici ha riscontrato il prevedibile interesse di quegli attori, quali gli Stati Uniti, l’Unione Europea e più recentemente la Cina, alla ricerca della sicurezza energetica. Il consolidamento delle relazioni con le repubbliche centroasiatiche è favorito in parte dai fabbisogni energetici degli attori esterni alla regione, e la diversificazione delle importazioni di idrocarburi passa necessariamente dalla regione. Le controversie relative alla fattibilità, ai costi e alle opportunità politiche di costruire nuovi oleodotti o gasdotti per trasportare le risorse verso ovest, sud o est o ammodernare le strutture sovietiche che trasportano gas naturale e petrolio via territorio russo hanno preoccupato e affascinato al tempo stesso analisti, politici, compagnie private e governi di mezzo mondo. La Russia, come si vedrà nella prossima sezione, ha cercato di creare un “cartello” controllato dalla compagnia Gazprom (ufficialmente indipendente dal Cremlino, anche se in pratica l’uso politico di questa appare sempre più evidente) al fine di controllare non solo le infrastrutture (che permettono il trasporto delle risorse via Russia), ma anche i giacimenti stessi tramite la firma di una serie di contratti con i governi locali. La Cina ha cercato di rispondere costruendo un oleodotto che trasporta petrolio dal Kazachstan, mentre Usa e Ue hanno sviluppato pipelines alternative cercando di ridurre la dipendenza dalle risorse e infrastrutture russe42. Non vanno poi dimenticati aspetti più deleteri di questa ricchezza energetica, ossia il fatto che l’economia locale viene distorta da una dipendenza da queste risorse. Non vi sono in altre parole incentivi per diversificare l’economia. Ciò che è ancor più preoccupante è che le élites al potere non hanno mostrato alcun segno di volere ridistribuire le ricchezze acquisite alla popolazione che invece è rimasta esclusa dai vari contratti del secolo firmati da compagnie occidentali e ristretti circoli di potere nella regione.

3. Russia: verso la ricostituzione di un ordine esogeno?

La presenza russa nella regione risale alla seconda metà del diciannovesimo secolo, allorché l’impero zarista si espanse verso sud, conquistando le steppe kazake e turkmene, i khanati di Kokand e Khiva e l’emirato di Bukhara. Con la conquista di Tashkent (1876) e la battaglia di Goek-tepe (1881), la conquista russa dell’Asia centrale era pressoché totale. Il periodo sovietico ha poi consolidato i legami tra la regione e la Russia al punto tale che, nonostante l’implosione dello stato sovietico, vi era una fitta rete di interdipendenze che avrebbero continuato a determinare le relazioni tra il centro (la Russia) e la periferia (l’Asia centrale)43.

42 Per una analisi più dettagliata della questione energetica in Asia centrale si vedano S. TOSI, Fonti energetiche e infrastrutture di trasporto, «ISPI Working Paper» n. 4, ottobre 2006, http://www.ispionline.it/it/documents/wp_4_2006.pdf e INTERNATIONAL CRISIS GROUP, Central Asia’s Energy Risks, cit. 43 Quella che è comunemente nota come “eredità sovietica” racchiude non solo la prossimità geografica ed esperienze storiche condivise, ma anche la complementarietà e dipendenza delle

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Negli anni Novanta le relazioni russo-centroasiatiche sono state contraddistinte da una radicale perdita di influenza da parte russa a livello politico e culturale. Questa perdita di influenza era dovuta alla volontà delle élites centroasiatiche di difendere la propria indipendenza da Mosca, ma anche alle difficoltà incontrate dalla Russia nello stabilire i parametri del proprio disimpegno e alla ridefinizione delle proprie priorità strategiche. In un primo momento (allorché Kozyrev era ministro degli Esteri durante la presidenza Eltsin) sembrò che l’Asia centrale non fosse altro che un peso, specialmente economico, per la Russia. Un peso di cui disfarsi al più presto. Al tempo stesso l’asse strategico russo era decisamente orientato verso la definizione di relazioni privilegiate con l’Occidente. Certo il Cremlino si rendeva conto che un ritiro totale dalla regione sarebbe stato non solo impraticabile, ma controproducente. Il controllo dei confini afghano-sovietici rimase infatti una priorità russa. Ciò non era tanto dovuto a una riflessione strategica riguardo al ruolo che la Russia avrebbe potuto giocare in quella parte del mondo, quanto più a esigenze di sicurezza. Un confine poroso avrebbe portato a degli spillover di instabilità dall’Afghanistan verso l’Asia centrale post-sovietica e da questa entro i confini russi. Il radicalismo religioso, ma anche il traffico di stupefacenti e di armi costituivano minacce non solo alla sicurezza di Tagikistan e Uzbekistan, fra gli altri, ma anche alla sicurezza russa. Che il vecchio confine afghano-sovietico era diventato un confine afghano-tagiko sembrava una differenza impercettibile. Truppe russe (la 201-esima divisione motorizzata) rimasero stazionate nella piccola repubblica montana a garantire la sicurezza tagiko e per estensione della Federazione Russa. Nel settore della sicurezza la Russia è rimasta il principale attore nella regione, anche se la sua capacità di garantire la sicurezza è stata progressivamente erosa. Il riconoscimento di questa realtà ha portato le repubbliche centroasiatiche alla ricerca di nuovi partner in grado di colmare queste percezioni di insicurezza. A livello culturale l’influenza russa era in declino. Migliaia di russi o russofoni hanno lasciato la regione negli anni Novanta alla ricerca di maggiori fortune (economiche) e maggiore sicurezza (anche solo a livello psicologico) entro i confini russi. L’Asia centrale diventava progressivamente meno russa, e più uzbeka, kazaka, kirghiza e così via.

Il biennio 1999-2000 ha costituito un autentico spartiacque tra le due fasi di politica e concettualizzazione del ruolo russo in Asia centrale. Nel giro di breve tempo l’influenza russa è passata da una situazione di declino inarrestabile a un recupero di una influenza perduta. I fattori decisivi che hanno portato a questo mutamento radicale sono stati essenzialmente due: - il cambio alla presidenza della Federazione Russa; - la rinascita economica russa dovuta a un aumento dei prezzi del petrolio.

economie, identità, culture e valori condivisi, come pure infrastrutture create in funzione dell’unità dello spazio sovietico e non nell’assunto che un giorno le repubbliche sarebbero diventate indipendenti.

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Vladimir Putin ha razionalizzato l’allora assai caotica formulazione della politica estera (e non solo) russa, in gran parte grazie alla verticalizzazione del potere (vertikal vlasti). Il ripensamento strategico russo comincia nel 1999 e si manifesta nella bozza della Dottrina militare (poi adottata nel 2000) e nel Concetto di sicurezza nazionale in cui gli obiettivi strategici del paese vengono dichiarati in maniera inequivocabile: la vocazione multipolare e il contenimento dell’influenza straniera nello spazio post-sovietico. La Russia ha proceduto a definire i sui obiettivi strategici nella regione: - reintegrare la regione nella propria sfera di influenza e mantenere la stabilità regionale; - prevenire la crescita di influenza di potenze esterne44.

I tentativi per raggiungere il primo obiettivo non sono mai mancati nemmeno nel corso degli anni Novanta. Il tentativo di creare delle strutture militari integrate tramite il Trattato di sicurezza collettiva (Tsc) firmato a Tashkent nel 1992 costituisce l’esempio più lampante di questi tentativi e del loro fallimento dovuto sia ad una mancanza di volontà da parte di alcune repubbliche post-sovietiche di cedere nuovamente porzioni di sovranità alla Russia, ma anche alla mancaza di reali capacità da parte russa di tradurre in pratica le dichiarazioni retoriche di tali trattati. Nel ridefinire la posizione russa nella regione – e più in generale nello spazio post-sovietico – Putin ha fatto meno uso di retorica e ha invece insitito su una risorsa più efficace: il controllo da parte russa (fosse questo governativo o di compagnie russe più o meno allineate al Cremlino) delle risorse energetiche e delle infrastrutture attraverso cui queste devono essere trasportate come strumento di politica estera45. Per assicurare la propria influenza nella regione la Russia ha di fatto creato un cartello in campo energetico 46 . L’improvvisa disponibilità finanziaria di Mosca dovuta all’alto prezzo del petrolio ha consentito alle autorità russe di riversare miliardi di dollari sulle repubbliche centroasiatiche. Un atteggiamento filo-russo manifestato tramite la partecipazione a strutture di sicurezza (Tsc o Sco) o economiche (Comunità Economica Eurasiatica, Eurasec) sarebbe stato ricompensato con investimenti ingenti e una intensificazione negli scambi commerciali. A differenza delle politiche occidentali che hanno tentato di far uso della condizionalità, l’unica condizionalità russa consiste nel posizionamento internazionale delle repubbliche post-sovietiche senza manifestare interesse alcuno per le dinamiche interne al paese. Che questi paesi

44 L. JONSON, Russia and Central Asia, in R. ALLISON - L. JONSON (eds.), Central Asian Security: The New International Context, cit., pp. 98-114. 45 Alcuni analisti hanno anche notato come la Russia abbia cercato di fare uso di un certo “soft power”: cfr. N. POPESCU, Russia’s Soft Power Ambitions, «CEPS Policy Brief» n. 115, October 2006 e F. HILL, Moscow Discovers Soft Power, in «Current History», 105, October 2006, pp. 341-347. 46 S. BLANK, Russia Realizes its Cartel, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 30 November 2005, http://www.cacianalyst.org e M. BRILL OLCOTT, The Great Powers in Central Asia, in «Current History», 104, October 2005, pp. 331-335.

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siano autoritari o democratici poco importa a Mosca che tramite le proprie azioni garantisce lo status quo (trattato come sinonimo di stabilità) nella regione.

4. Gli Stati Uniti e i dilemmi di sicurezza e democratizzazione

La presenza statunitense è una novità assoluta nella regione. Per l’intero decennio 1991-2001 Washington non ha elaborato alcuna strategia nei confronti della regione. Privilegiando rapporti bilaterali anziché una strategia regionale, l’attenzione statunitense era finalizzata al rafforzamento dell’indipendenza delle repubbliche centroasiatiche (obiettivo alquanto vago) e soprattutto al contenimento della proliferazione nucleare (Kazachstan). Solo verso la seconda metà degli anni Novanta gli Stati Uniti hanno cominciato a guardare alla regione come una possibile fonte alternativa di approvvigionamento di energia. Fino ad allora le repubbliche centroasiatiche apparivano del tutto marginali e periferiche agli interessi strategici americani. Geograficamente distante e remota e difficilmente accessibile, l’Asia centrale non presentava alcuna minaccia per Washington, che infatti non esitava a criticare il lento progresso a livello economico e politico, nonché gli abusi in tema di diritti umani. Nel periodo 1991-1994 il consolidamento dell’indipendenza della repubbliche centroasiatiche da Mosca ha monopolizzato l’attenzione statunitense. Di fatto ciò ha avuto conseguenze pratiche minime. Nel corso degli anni Novanta (1994-2001) è stato possibile riscontrare un interesse crescente nei confronti delle questioni energetiche, manifestato tra l’altro, con il sostegno per la costruzione della pipeline Baku-Tbilisi-Ceyhan (Btc) che avrebbe trasportato il petrolio dal Caspio al Mediterraneo evitando il territorio e le strutture russe. La diversificazione delle fonti di energia, la riduzione della dipendenza dal petrolio mediorientale (e in seguito dalle pipelines russe) hanno guidato la politica Usa verso la regione. Vi erano indubbiamente altre considerazioni. Mentre infatti la Nato era in via di ridefinizione ma anche di allargamento verso est, gli Usa hanno cercato di integrare gli stati della regione nelle strutture militari occidentali, principalmente tramite il programma Partnership for Peace della Nato. L’assistenza militare e la creazione di un battaglione centroasiatico hanno contribuito ad alimentare le paure russe di un accerchiamento occidentale ai propri danni. Al tempo stesso gli Usa hanno finanziato una serie di programmi che avrebbero dovuto portare alla creazione di una robusta società civile e in ultima analisi di società democratiche nella regione. La continua resistenza delle autorità locali a pressioni americane in tema di democrazia, pluralismo, diritti civili e umani, ha però costituito una “incessante” doccia fredda. Le possibilità che Uzbekistan o Turkmenistan per esempio seguissero l’esempio degli stati post-comunisti dell’Europa centro-orientale sono sempre state assai remote. In sostanza per il primo decennio dell’indipendenza la politica Usa nella regione è stata contraddistinta da un uso congiunto di cooperazione militare e assistenza economica.

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Gli interessi strategici statunitensi nella regione sono mutati radicalmente in seguito agli attacchi dell’11 settembre. Gli Usa hanno ratificato accordi con Uzbekistan e Kirghizistan circa l’uso di basi militari nei due paesi (Karshi-Khanabad e Manas, rispettivamente), ottenuto diritti di sorvolo dal Kazachstan, nonché l’avallo tagiko per l’uso temporaneo dell’aeroporto della capitale Dushanbe47. Nei primi mesi del 2003 gli Stati Uniti contavano circa tremila unità nella regione ed avevano concluso accordi di intelligence-sharing con tutti gli stati della regione ad eccezione del Turkmenistan. Se le operazioni in Afghanistan sono state il fattore catalizzatore dell’attenzione americana per la regione centroasiatica, la trasformazione strategica si è rivelata di portata globale, come evidenziato nella Strategia per la sicurezza nazionale (2002). Lo spazio post-sovietico è diventato uno dei fronti principali in cui la guerra globale al terrorismo viene combattuta. Il cambiamento radicale nelle priorità strategiche ha causato un ripensamento delle relazioni con le repubbliche della regione, con l’Uzbekistan in particolare, come vedremo nelle pagine successive.

Bilateralismo, anziché un approccio regionale, continua a contraddistinguere le relazioni tra Usa e repubbliche regionali in questa fase. Le relazioni con il Turkmenistan rimangono minime, ma nel complesso la presenza e il ruolo statunitense nella regione aumentano a tal punto da preparare il terreno a una controffensiva russa e cinese, sempre più insofferenti alla presenza americana48.

Il periodo che va dal 2005 in poi è quello analiticamente di maggiore semplicità per il puro fatto che Washington non ha ancora iniziato un serio dibattito sul come reagire alla propria marginalizzazione nella regione, nonché alla apparente egemonia sino-russa istituzionalizzata attraverso la Sco. Il dibattito strategico negli Usa è paralizzato a causa della inconciliabilità di due fazioni, una che chiede a gran voce la riapertura del dialogo senza condizioni con Tashkent, e l’altra che considera riforme e regime behaviour change una conditio sine qua non per riallacciare i rapporti con l’Uzbekistan. Tornerò sull’argomento nella discussione di uno dei due casi studio.

Quello che comunque appare evidente è come la politica Usa nella regione sia stata contraddistinta da un continuo vacillamento frutto di una mancanza di riflessione strategica su quali siano effettivamente gli obiettivi primari americani. Il cambiamento più significativo degli ultimi anni riguarda il modo in cui la presenza Usa è percepita da parte delle élites al potere in Asia centrale. Da alleati nella lotta al radicalismo islamista, i regimi centroasiatici hanno progressivamente visto gli Usa come una ulteriore minaccia alla propria sopravvivenza al potere (il

47 I. BERMAN, The New Battleground: Central Asia and the Caucasus, in «The Washington Quarterly», 28, 2004/2005, 1, p. 60. 48 In seguito agli attacchi dell’11 settembre e in controtendenza rispetto a vari circoli politici e militari russi, Vladimir Putin non manifestò alcuna opposizione all’uso americano delle basi in Kirghizistan e Uzbekistan, contando sulla dichiarazione che l’uso di queste fosse temporaneo e limitato alla durata delle operazioni in Afghanistan. Su questo faranno poi leva Mosca e Pechino per chiedere a gran voce il ritiro americano dalla regione.

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regime di Tashkent ha perfino sostenuto l’esistenza di una inverosimile alleanza tra Washington e l’opposizione islamista dietro agli eventi di Andijan nel maggio 2005).

5. Cina: stabilità e sicurezza energetica

Al fine di portare a termine il proprio processo di modernizzazione, la Cina necessita di un ambiente internazionale stabile e pacifico. Nello sviluppare una politica regionale nei confronti dei paesi centroasiatici la Cina ha tenuto in considerazione i seguenti aspetti. In primo luogo la Cina ha impostato le relazioni con i paesi confinanti alla luce della questione uigura e della stabilità della regione autonoma dello Xinjiang49. Se da un lato Pechino sta cercando di accelerare lo sviluppo economico della regione, dall’altro le autorità cinesi guardano sempre con circospezione e sospetto le attività dei gruppi separatisti uiguri che occasionalmente hanno trovato rifugio in Kazachstan o Kirghizistan. In secondo luogo la Cina ritiene che le risorse energetiche della regione saranno oggetto del desiderio di un crescente numero di attori alla ricerca di una diversificazione delle fonti di energia e di una maggiore sicurezza energetica. In questo senso è da intendersi l’intensa attività cinese sia in Asia centrale che in Africa, alla ricerca di mercati alternativi al Medio Oriente. Politicamente, le repubbliche centroasiatiche hanno mostrato di essere particolarmente sensibili a interferenze nella propria sovranità e la Cina ha mostrato sensibilità analoghe in tema di difesa della propria sovranità da interferenze esterne. La difesa di sovranità, stabilità e statualità accomunano Pechino e le élites della regione. La questione potenzialmente più controversa era quella relativa alle dispute territoriali tra la Cina e l’Unione Sovietica. Un accordo firmato nel 1991 chiuse sostanzialmente la questione dei confini sino-russi, eccezion fatta per i tremila chilometri di confine tra la Cina e tre repubbliche centroasiatiche. Le parti si accordarono per risolvere le dispute tramite negoziati, ma mentre la questione è stata risolta nel caso del confine sino-kazako, le dispute relative ai confini sino-kirghisi e sino-tagiki rimangono, con Bishkek e Dushanbe periodicamente irritate da quella che viene percepita come una inesorabile annessione cinese di territorio kirghizo e tagiko. E’ invece in tema di commercio e cooperazione economica che i legami tra Pechino e le repubbliche centroasiatiche si sono fatti sempre più stretti. Se le cifre ufficiali parlano di scambi commerciali in crescita, è soprattutto a livello di economia informale (shuttle trade e importazione di prodotti cinesi a basso costo e rivendita di questi sui mercati centroasiatici da parte di singoli individui) che la penetrazione economica cinese in Asia centrale diventa inarrestabile per proporzioni e per potenzialità. Infine, a livello della cooperazione militare e di sicurezza l’evento di maggiore rilevanza è senza dubbio la creazione della Organizzazione per la

49 G. XING, China and Central Asia, in R. ALLISON - L. JONSON (eds.), Central Asian Security: The New International Context, cit., pp. 152-153.

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Cooperazione di Shanghai, in cui per la prima volta la Cina partecipa a una struttura centroasiatica multilaterale.

6. Orientamenti strategici delle repubbliche centroasiatiche

Il “ritiro volontario” russo50 di fine 1991 e inizio 1992 ha di fatto costretto le repubbliche centroasiatiche a sviluppare politiche estere indipendenti per le quali erano impreparate sia a livello di riflessione strategica (il foreign policy-making era di stretto dominio russo in epoca sovietica) che pratico, dato che vi erano pochi centroasiatici nel corpo diplomatico sovietico, nonché poche risorse per aprire e sostenere ambasciate e consolati. Le nuove repubbliche hanno reagito e interagito in maniera diversa alle pressioni, sfide e opportunità offerte dalla possibilità di avere relazioni con paesi limitrofi e non e ai segnali contrastanti provenienti da Mosca, come già osservato nelle pagine precedenti. La sezione riassume brevemente le scelte strategiche delle cinque repubbliche centroasiatiche dall’indipendenza ad oggi.

6.1 La neutralità permanente del Turkmenistan

Delle cinque repubbliche, il Turkmenistan è quello che meno ha “oscillato” in termini di alleanze, almeno fino alla morte di Saparmurat Niyazov, il leader indiscusso del paese, nel dicembre 2006. Fino ad allora l’elemento centrale della politica estera turkmena era costituito dalla ufficiale neutralità del paese, dichiarata da Niyazov al momento dell’indipendenza dall’Unione Sovietica e poi riconosciuta dalle Nazioni Unite nel dicembre 1995. I rapporti con la Comunità di Stati Indipendenti rimasero a livelli minimi per l’intero periodo successivo al crollo dell’Urss al punto che nel 2005 il paese riuscì a fare declassare la propria partecipazione alla Csi al livello di “paese associato”.

Niyazov decise the il paese non avrebbe fatto parte né della Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (unico paese della regione a non farne parte) né della Comunità Economica Eurasiatica o di altre organizzazioni regionali. Ashgabat ha mantenuto contatti assai circoscritti con la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e il programma Partnership for Peace della Nato.

La neutralità turkmena è giustificata con riferimento a tre motivi51. Innanzitutto, l’adesione a organizzazioni internazionali è stata interpretata da Niyazov come una cessione di sovranità. Ciò avrebbe avuto ripercussioni sulle relazioni con Iran e Afghanistan; quando quest’ultimo era sotto controllo talebano il Turkmenistan era l’unico stato post-sovietico con il quale manteneva relazioni ufficiali. Questo

50 L. JONSON, Russia and Central Asia, cit. 51 M.J. DENISON, Turkmenistan in Transitino: A Window for EU Engagement?, «CEPS Policy Brief» n. 29, May 2007.

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aspetto è significativo in quanto l’organizzazione che ha preceduto la Sco (Shanghai-5) aveva nella lotta al terrorismo e nella opposizione al regime dei talebani uno degli elementi fondanti l’organizzazione. In secondo luogo, le minacce alla sicurezza turkmena hanno una origine più probabile nelle dispute di frontiera con l’Uzbekistan (membro della Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva 52 ); il Tsc prevede situazioni in cui l’attacco a uno stato membro si traduce in un attacco alla organizzazione stessa e prevede meccanismi di risoluzione dei conflitti qualora una parte sia esterna alla organizzazione, mentre non sono previsti meccanismi di risoluzione dei conflitti qualora entrambe le parti siano stati membri. La terza priorità strategica consiste nell’assicurare che nessuna via di transito degli idrocarburi (attuale o potenziale) venga messa a repentaglio dall’intrappolamento del paese in una particolare alleanza53.

La morte del Turkmenbashi e la rapida successione di Gurbanguly Berdimukhammedov (eletto nel febbraio 2007) hanno aperto una finestra di opportunità alle élites del paese per riconsiderare l’isolamento imposto da Niyazov. Come sostiene Denison, è improbabile che la nuova leadership turkmena proceda a un riorientamento strategico a centottanta gradi54. Sarà molto probabile che gli stretti rapporti con la Russia continuino, anche se maggiore considerazione verrà data anche ad altri attori, inclusa la Cina e l’Ue. La visita a Mosca del neopresidente turkmeno Gurbanguly Berdimukhammedov nell’aprile 2007 ha mostrato come la strategia russa di consolidare un cartello energetico nella regione anche tramite la politica energetica incontrerà degli ostacoli nel Turkmenistan. Il Turkmenistan ha infatti resistito alla richiesta di intensificare le relazioni di sicurezza tra i due paesi né ha acconsentito alla richiesta del presidente russo Putin di muoversi in direzione di una reintegrazione economica ed energetica con Mosca 55 , per esempio bloccando l’ipotesi di un oleodotto transcaspico (osteggiato dal Cremlino) in favore di un riorientamento delle pipelines verso nord56. L’improvvisa scomparsa del Turkmenbashi ha aperto un periodo di incertezza, ma anche di opportunità per il paese per aprirsi al mondo esterno. I rapporti con la Cina, ma anche con l’Ue, potrebbero intensificarsi nel medio periodo, anche se non vi sono segnali che la nuova dirigenza turkmena possa rinunciare alla politica di neutralità permanente che peraltro ha giovato al paese, che ha evitato di trovarsi intrappolato in alleanze internazionali, beneficiando dell’interesse globale per le proprie risorse energetiche.

52 Già Trattato di Sicurezza Collettiva. 53 M.J. DENISON, Turkmenistan in Transitino: A Window for EU Engagement?, cit. 54 Ibidem. 55 Peraltro già stretta, visto che l’ex presidente Niyazov aveva siglato un accordo nel 2003 che prevedeva che gran parte delle esportazioni di gas turkmeno sarebbero state dirette verso la Russia per i successivi venticinque anni. 56 S. BLAGOV, Russia Presses for More Caspian Cooperation with Turkmenistan, in «Eurasia Daily Monitor», 30 April 2007.

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6.2 Relazioni clientelari con Mosca? Tagikistan e Kirghizistan

Le repubbliche del Kirghizistan e Tagikistan hanno goduto di spazi di manovra assai più ristretti rispetto ai vicini. Privi delle riserve di idrocarburi di cui dispongono Turkmenistan e Kazachstan e dell’importanza strategica dell’Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan hanno mantenuto un simile orientamento strategico per gran parte del periodo post-indipendenza.

Le autorità kirghize hanno tradizionalmente guardato alla Russia come lo stato che garantisce la sicurezza del paese. Mosca non è mai stata percepita come una minaccia e anzi la Russia è vista come l’unico baluardo contro i percepiti tentativi di egemonia uzbeka nella regione. Le relazioni con il vicino Uzbekistan sono invece state piuttosto tese, in particolare a partire dalla fine degli anni Novanta57. Le dispute riguardano questioni territoriali, proprietà, uso e allocazione delle risorse idriche, pagamenti del gas uzbeko, nonché la situazione della considerevole minoranza uzbeka nel sud del paese.

La percezione kirghiza della Russia come stato garante della propria sicurezza spiega molte delle scelte di politica estera di Bishkek dal 1991 ad oggi. Il Kirghizistan ha fatto parte della maggior parte delle organizzazione regionali sorte sulle ceneri dell’Urss, dal Tcs alla Sco e l’Eurasec. Buoni rapporti sono rimasti anche a livello culturale. Nonostante l’emigrazione di migliaia di persone in quella che è stata una autentica emorragia dal paese della popolazione russofona negli anni Novanta, la cultura e la lingua russa non sono mai state oggetto di discriminazione, a differenza del vicino Uzbekistan e del Turkmenistan, dove la nazionalizzazione della cultura del paese è andata di pari passo con la riduzione della presenza pubblica del russo. Il russo continua a essere correntemente parlato nel paese e nel 2000 il suo status di lingua ufficiale è stato finalmente riconosciuto58.

In seguito all’implosione dello stato sovietico, la Russia ha ridimensionato la propria presenza nel paese, limitando questa al personale stazionato in una piccola base aerea a Kant dal 2003, quando le autorità kirghize hanno concluso un accordo con la controparte russa simile a quello precedentemente raggiunto con gli americani. Con tale mossa l’allora presidente Akaev intendeva rassicurare sia i russi che le élites kirghize che la concessione della base agli Usa (contestata dalle élites kirghize pro-russe) non andava interpretata come una volontà di disimpegno di Bishkek dall’orbita russa.

La dipendenza energetica del paese, la russificazione delle regioni settentrionali e la presenza di vari lavoratori stagionali provenienti dal Kirghizistan sul territorio

57 N.W. MEGORAN, The Borders of Eternal Friendship? The Politics and Pain of Nationalism and Identity along the Uzbekistan-Kyrgyzstan Ferghana Valley Boundary 1999-2000, tesi di dottorato, Cambridge, 2002. 58 Tale status è stato negato all’uzbeko, nonostante sia parlato da quasi un abitante su cinque e da uno su due nel sud del paese.

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della Federazione Russa lasciano alle autorità kirghize uno spazio di manovra assai limitato. Anche in occasione della cosiddetta “rivoluzione dei tulipani” (marzo-aprile 2005) quando il regime di Akaev fu rovesciato da una coalizione alquanto eterogenea di élites in rottura con il regime, boss locali di dubbia reputazione e proteste popolari, il cambiamento di regime a Bishkek non ha seguito i modelli georgiano e ucraino che in seguito a brogli elettorali nel 2003 e 2004 avevano portato alla fine dei regimi autoritari filo-russi di Shevarnadze e Kuchma, e a un riorientamento strategico filo-occidentale dei due paesi. Le questioni di politica estera e alleanze internazionali rimasero estranee alla “rivoluzione” kirghiza.

Le tensioni con la Cina durante gli anni Novanta (a causa di dispute territoriali) e una ambivalente relazione con gli Stati Uniti (circa l’uso e in particolare il pagamento dell’affitto della base) non hanno mai reso credibile la possibilità di un riallineamento che distanziasse Bishkek dalla zona di influenza russa. Ciò non significa che Bishkek non abbia cercato di massimizzare i profitti derivanti dalle necessità logistiche imposte dalla guerra in Afghanistan. Al contrario, la concessione dell’uso della base di Ganci (presso Manas, vicino alla capitale Bishkek) alle truppe statunitensi ha portato del contante prezioso nelle esangui casse del governo kirghizo. Quello che rende il caso kirghizo unico è che le basi Usa e russe si trovano a pochi chilometri di distanza. La base russa ha però un valore puramente simbolico dato l’esiguo numero di mezzi e personale che staziona nella base di Kant.

Nonostante la particolarità della situazione, è probabile che questa non cambi nel prossimo futuro. Bishkek ha più volte minacciato gli Usa di espulsione, ma il bluff è stato più volte rivelato da Washington che si rende conto di come la situazione della base di Manas sia ben diversa dalla situazione di Karshi-Khanabad in Uzbekistan, allorché gli Usa ricevettero l’ordine da Tashkent di chiudere la base. Non è negli interessi di Bishkek che gli Usa lascino il paese. Al cuore del problema c’è molto più semplicemente un tentativo kirghiso di “alzare il prezzo” della collaborazione di Bishkek. Nonostante il Kirghizistan avesse richiesto il pagamento di circa 200 milioni di dollari per l’affitto della base, le parti si sono accordate per una cifra più ragionevole (17 milioni) 59 . A differenza della situazione di Karshi, la Sco ma anche Cina e Russia non hanno mai esercitato pressione su Bishkek affinché le truppe americane venissero espulse. Questo riflette probabilmente lo scarso peso strategico che i vari attori esterni assegnano al Kirghizistan. La relazione tra Russia e Kirghizistan può per certi versi essere definita di tipo clientelare in quanto il sostegno economico russo viene scambiato con un orientamento filo-russo. La liberalizzazione del sistema economico kirghizo ha attratto un considerevole numero di investitori russi, e l’immancabile

59 Kyrgyzstan Says It Gets $17 Million Rent For US Base, Radio Free Europe/Radio Liberty, 13 February 2007, http://www.rferl.org/featuresarticle/2007/02/FA73D47E-6BFA-4133-9896-88A4169F789C.html.

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Gazprom ha acquisito una quota di maggioranza della compagnia statale kirghiza di idrocarburi Kyrgyzneftegaz.

Di ancor più stretta dipendenza dalla Russia è la situazione del Tagikistan. La posizione ai confini di Cina e Afghanistan ha fatto del paese un prezioso partner strategico sia per la Russia che per gli Usa a discapito dell’isolamento geografico e della scarsità di risorse naturali del paese (risorse idriche a parte60). Nella fase terminale del periodo sovietico la repubblica appariva fra quelle più inclini a una liberalizzazione del sistema politico locale. La guerra civile che ha travolto il paese (1992-1997) e lo ha reso una sorta di failed state ha interrotto queste riforme facendo del Tagikistan uno degli stati più poveri al mondo. L’intervento russo ha giocato un ruolo fondamentale nel porre fine al conflitto. Formalmente neutrale e presente con forze di peacekeeping, la Russia in realtà non ha mai nascosto il proprio sostegno politico alla fazione del presidente Rakhmonov e la contemporanea preoccupazione per il ruolo giocato dalla opposizione (United Tajik Opposition), una variegata coalizione di forze islamiche, democratiche, liberali, nonché elementi criminali (peraltro presenti anche nella coalizione pro-governativa)61.

Di tutte le repubbliche ex sovietiche (forse con l’eccezione della sola Bielorussia), il Tagikistan è stato l’alleato più fedele di Mosca. Il Tagikistan era fra le repubbliche che più dipendevano economicamente dai sussidi russi in epoca sovietica; nel periodo post-sovietico il legame è stato esteso a questioni politiche e di sicurezza. Senza l’intervento risolutore russo la guerra civile tagika avrebbe continuato a sconvolgere il paese. L’intervento russo, beninteso, non era guidato da motivazioni umanitarie, bensì strategiche. Nel momento in cui le altre repubbliche centroasiatiche sembravano ritagliarsi sfere di autonomia da Mosca (specialmente Turkmenistan e Uzbekistan, entrambi ai confini con l’Afghanistan), il Tagikistan costituiva per la Russia un tassello importante per continuare a presidiare i confini instabili e strategicamente importanti con l’Afghanistan e mantere di conseguenza una presenza militare in Asia centrale. Il traffico di droga, armi e la crescente minaccia posta dal radicalismo islamico rendevano il Tagikistan un alleato strategico importantissimo per Mosca. Di contro, il sostegno finanziario e soprattutto politico per la coalizione al potere a Dushanbe apparivano imprescindibili: senza l’appoggio esterno russo l’ordine in Tagikistan sarebbe crollato in breve tempo. Pur in minor misura se paragonato ai vicini Uzbekistan e Kirghizistan, anche il Tagikistan ha beneficiato della necessità statunitense di aver accesso a strutture, aeroporti e basi in Asia centrale all’indomani degli attacchi dell’11 settembre. Dushanbe decise di non concedere agli Usa l’uso delle proprie basi (peraltro inadeguate a livello strutturale alle necessità americane), ma acconsentì alla richiesta dell’uso dell’aeroporto della 60 E. MARAT, Russia and China Unite Forces in “Peace Mission 2007”, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 4 April 2007, http://www.cacianalyst.org. 61 K. NOURZHANOV, Saviours of the Nation or Robber Barons? Warlord Politics in Tajikistan, in «Central Asian Survey», 24, 2005, 2.

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capitale Dushanbe e alla richiesta di diritto di sorvolo. La collaborazione tagika venne garantita tramite un corposo programma di assistenza finanziaria 62 . Beninteso, l’influenza di Mosca non è necessariamente diminuita. Se le truppe di frontiera russe hanno lasciato il paese nel 2005 e la sicurezza dei confini è ora gestita dall’esercito tagiko, le autorità locali hanno acconsentito a che Mosca stabilisse una base militare nella capitale Dushanbe (dove sono di stanza cinquemila soldati), che in futuro potrebbe essere trasformata in base aerea. Nemmeno sono cessati il sostegno e i finanziamenti russi. Nel 2004 la Russia ha cancellato i debiti tagiki per un valore di 330 miliardi di dollari e promesso investimenti per circa 2 miliardi di dollari63. In sostanza la Russia ha fatto uso di un sostegno sia militare che economico per evitare che il paese cadesse nella zona di influenza Nato/statunitense. Le autorità tagike da parte loro non hanno mai negato come la Russia fosse da considerarsi il partner strategico nonché alleato del Tagikistan.

6.3 Il Kazachstan e la politica multivettoriale

Al pari degli orientamenti internazionali delle altre repubbliche centroasiatiche, anche la politica estera kazaka non ha contenuti ideologici, ma è definita da una combinazione di pragmatismo e di desiderio di distogliere l’attenzione dai problemi interni verso le relazioni internazionali del paese. A livello strategico il Kazachstan ha intrapreso una “via di mezzo”, autodefinendosi un paese che unisce est e ovest, ossia un paese “eurasiatico” nel senso letterale del termine. Nazarbaev enfatizza al tempo stesso le radici turche della popolazione (etnia) kazaka e i legami con la Russia64.

Nel consolidare lo stato kazako Nazarbaev ha fatto uso di strumenti autoritari nel trattare problemi interni, mentre a livello internazionale lo stato kazako ha condotto una politica estera “pragmatica” in cui Astana cerca di mantenere relazioni cordiali con tutti i paesi, confinanti e non65. Le autorità kazake hanno fatto della multivettorialità l’elemento caratterizzante la politica estera del paese. La natura multivettoriale della politica estera kazaka è dovuta principalmente ai seguenti fattori66. In primo luogo vi è la collocazione geografica del paese nel cuore della massa eurasiatica, privo di accesso al mare: ciò rende i rapporti di buon vicinato con Russia e Cina imprescindibili. Inoltre va ricordato come la 62 Questa ammontava a circa 60 milioni di dollari nel 2005 (Dipartimento di Stato Usa, http://dushanbe.usembassy.gov/pr_012006.html). 63 M. TORFEH, Central Asia: Putin Visit Takes Russian-Tajik Relations to New Level, Radio Free Europe/Radio Liberty, 20 October 2004, http://www.rferl.org/features/features_Article.aspx? m=10&y=2004&id=0F926680-1249-4DDA-9CEF-17651746D876. 64 S.N. CUMMINGS, Eurasian Bridge or Murky Waters between East and West? Ideas, Identity and Output in Kazakhstan’s Foreign Policy, in «Journal of Post-Communist Studies and Transition Politics, 19, 2003, 3. 65 Ibidem, p. 139. 66 Ibidem, pp. 142-143.

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leadership del paese fosse alla ricerca di una nuova identità post-sovietica per il paese. Questa ricerca di una nuova identità è conseguenza di una indipendenza non cercata ma subita, di un processo di state-building incompiuto, della collocazione geografica del paese e della composizione multietnica della popolazione 67 . La comunità kazaka, considerata “nazione titolare” della repubblica in epoca sovietica, costituiva una semplice maggioranza relativa fino al crollo sovietico; la presenza di numerose comunità russofone nel paese (soprattutto nel nord ai confini con la Siberia e nei centri urbani) rendeva di fatto il Kazachstan uno stato binazionale, dalla identità incerta per molti aspetti, ma deciso nel non volere (e potere) fare a meno di mantenere buoni rapporti con la vicina Russia. Infine, gli stessi kazaki si mostravano maggiormente a proprio agio con espressioni identitarie non etniche. Il paese oscillava in sostanza tra una identità kazaka entro i propri confini, affermata con sempre maggiore visibilità e decisione, e una identità kazachstana (non etnica) in campo internazionale. La flessibilità resa possibile da una politica estera multivettoriale e non ideologica veniva inoltre utilizzata a fini di politica interna come strumento di legittimazione del regime al potere. Una politica multivettoriale, sostiene Sally N. Cummings, indica che l’identità nazionale del paese è debole e racchiude in sé una serie di contraddizioni68. Lo stesso anno in cui il paese aderì a una unione doganale con Russia e Bielorussia, Astana si mostrò favorevole a una più stretta integrazione economica su base regionale. La simultanea ricerca di più partner a livello internazionale genera non solo una politica estera incerta e contraddittoria, ma indebolisce anche l’identità del paese che più che ancorare oriente e occidente “galleggia” fra questi69.

6.4 L’Uzbekistan e la strategia di omnibalancing

Al pari delle altre repubbliche centroasiatiche (con l’unica eccezione del Kirghizistan nei primi anni Novanta), l’indipendenza non ha portato a una liberalizzazione del sistema politico uzbeko né alla introduzione di riforme democratiche. Le autorità uzbeke hanno introdotto qualche timida riforma che ha portato alla formazione di un sistema partitico e un (limitato) livello di competizione elettorale negli anni 1991-1992. Il consolidamento della opposizione laica al regime di Islam Karimov e l’emergere di una opposizione islamista nella regione della valle di Ferghana (in cui le sensibilità religiose sono particolarmente forti) portarono questo breve esperimento a una drastica conclusione. La formazione di uno stato “forte” e il conseguimento di una effettiva (e non solo de jure) indipendenza dalla Russia sono stati gli obiettivi principali del regime di Islam Karimov in Uzbekistan.

67 Peraltro queste sono considerazioni che valgono anche per le altre repubbliche nella regione. 68 S.N. CUMMINGS, Eurasian Bridge or Murky Waters between East and West? Ideas, Identity and Output in Kazakhstan’s Foreign Policy, cit. 69 Ibidem, p. 152.

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Karimov ha guidato l’Uzbekistan verso l’indipendenza dalla Russia tramite la riduzione dell’influenza russa a livello culturale, ma soprattutto distanziando il paese da Mosca in termini di relazioni politiche e di sicurezza70. Ciò non si è tradotto in una scelta strategica filo-occidentale. Tashkent ha alternato l’adesione a organizzazioni multilaterali russo-centriche (Csi e Tsc) a una parallela partecipazione a strutture occidentali. Nonostante l’Uzbekistan avesse aderito immediatamente alla Comunità di Stati Indipendenti ed avesse firmato il Trattato di Sicurezza Collettiva a Tashkent nel 1992, la repubblica centroasiatica aderì al programma Nato Partnership for Peace nel 1994. Le truppe uzbeke entrarono a far parte del battaglione centroasiatico (Centrazbat) nel 1995. Nel 1999 il paese non ha rinnovato la propria partecipazione nel Tsc, preferendo invece aderire al Guam (poi diventato Guuam in seguito alla adesione uzbeka), il forum multilaterale di cui fanno parte Georgia, Ucraina, Azerbaigian e Moldova, percepito in Russia come un gruppo esplicitamente anti-russo.

Nonostante questo sia stato letto come un ri-allineamento occidentale del paese, la strategia uzbeka era invece quella di bilanciare fra loro tutte le potenze esterne ai fini di mantenere una notevole autonomia. Le relazioni con Mosca si raffreddarono notevolmente durante gli anni Novanta; questo però non impedì ai due paesi di collaborare nella prima fase della guerra civile tagika per porre fine al conflitto (1992-1994)71. Le relazioni fra i due paesi si deteriorarono negli anni seguenti allorché divenne chiaro alle autorità di Tashkent che l’ordine emerso in Tagikistan alla fine della guerra civile non sarebbe stato favorevole all’Uzbekistan che aveva tradizionalmente dominato la vita politica della piccola repubblica montana per l’intero periodo sovietico.

L’attentato al presidente Karimov del febbraio 1998 nel centro di Tashkent e soprattutto l’intensificarsi delle incursioni da parte di movimenti radicali islamisti verso la fine degli anni Novanta portarono le élites uzbeke alla consapevolezza che non sarebbe stato possibile garantire la sicurezza del paese (e della regione) senza il sostegno esterno di una qualche potenza internazionale. Ciò ha portato a una prima collaborazione a livello di intelligence tra il paese e gli Stati Uniti, ma anche a un progressivo miglioramento nelle relazioni con la Russia, in particolare in seguito alla elezione di Putin a presidente. Nel 2001 Tashkent ha aderito alla

70 Il processo di state-building in Uzbekistan è stato contraddistinto da una graduale, ma decisa uzbekizzazione del paese anche a livello culturale. L’uso ufficiale della lingua russa è stato ridotto drasticamente a favore dell’uzbeko che è stato promosso. L’iconografia nelle strade e piazze delle città dell’Uzbekistan ha visto nel corso degli anni scomparire le scritte in russo e in cirillico a favore di quelle in uzbeko e in caratteri latini (dal 1993 l’uso dell’alfabeto cirillico è stato ufficialmente abbandonato, nonostante in pratica sia possibile trovare la lingua scritta in entrambi gli alfabeti, cosa che crea non poca confusione fra la popolazione). A livello economico invece i legami tra Russia e Uzbekistan non sono mai venuti meno. La Russia è tradizionalmente la destinazione principale delle esportazioni uzbeke, mentre il mercato uzbeko è sempre stato egemonizzato da compagnie e prodotti russi. 71 Sulla guerra civile tagika si veda S. HORSMAN, Uzbekistan’s Involvement in the Tajik Civil War 1992-1997: Domestic Considerations, cit.

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Sco, una organizzazione che fa della lotta al terrorismo uno dei propri obiettivi. Il primo decennio di indipendenza è stato dunque caratterizzato da una totale concentrazione sul rafforzamento della statualità uzbeka e del regime al potere. La giustificazione è stata trovata nella minaccia (reale o immaginata) di un pericolo islamista che minacciava la sicurezza del paese. L’orientamento strategico del paese è la logica derivazione di due assunti: primo, che il processo di state-building doveva passare attraverso il raggiungimento di una totale indipendenza da Mosca; e secondo, che l’autonomia uzbeka sarebbe stata garantita solo attraverso una strategia di omnibalancing, ossia evitando di legarsi eccessivamente ad altri attori. In secondo luogo, quando l’incapacità uzbeka di far fronte alla minaccia islamista divenne lampante, ciò ha portato ad allacciare più stretti legami con l’attore esterno (qualunque esso fosse) che sembrava in grado di garantire la sicurezza uzbeka. Dal 2001 al 2004 gli Usa rappresentavano lo stato garante della sicurezza uzbeka, mentre negli anni successivi la Russia soppiantò gli Stati Uniti nel ruolo di partner strategico del paese. L’impatto degli attacchi dell’11 settembre sull’allineamento strategico uzbeko è oggetto di analisi in una sezione successiva.

6.5 Sintesi: continuità e discontinuità

Il breve excursus negli orientamenti strategici delle cinque repubbliche centroasiatiche nel periodo post-sovietico ha evidenziato le seguenti dinamiche.

1. In primo luogo il processo di state-building ha dominato l’agenda delle cinque repubbliche. Nessuna di queste vantava un precedente di statualità indipendente. Anzi è solo con la creazione dello stato sovietico e la politica di delimitazione nazionale (1924-1936) che le repubbliche assumono le sembianze pseudo-statuali entro i confini attuali 72 . Vennero creati parlamenti nazionali, costituzioni, bandiere e inni; insomma tutte le vestigia formali della statualità, tranne ovviamente la sovranità, che rimaneva soggetta a Mosca. Le istituzioni formali della statualità centroasiatica pre-esistevano dunque al crollo dell’Urss, ma è solo con il dicembre 1991 che le repubbliche diventarono soggetti di diritto internazionale. Tutte le repubbliche si mostrarono ben presto assai gelose della sovranità appena acquisita e assai riluttanti a cederne anche porzioni minime per dar vita a strutture regionali per far fronte a problemi comuni (questione ambientale, gestione delle risorse naturali, ma anche della sicurezza).

2. La strenua difesa della propria sovranità si è tradotta, in campo internazionale, in una riluttanza ad entrare in nuove alleanze con attori esterni alla regione. Questo contribuisce a far luce sul fallimento di strutture multilaterali e della Csi, percepite come strumento russo per rinnovare la propria egemonia sulla regione. Con l’eccezione del Tagikistan, sprofondato nella guerra civile, le altre

72 Cfr. F. HIRSCH, Empire of Nations, Ithaca, 2005 e T. MARTIN, The Affirmative Action Empire. Nations and Nationalism in the Soviet Union, 1923-1939, Ithaca, 2001.

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repubbliche si sono ritagliate spazi di autonomia più o meno decisi. Turkmenistan e Uzbekistan sono stati gli stati più decisi a evitare l’intrappolamento in alleanze, mentre Kazachstan e Kirghizistan hanno cercato, per pragmatismo più che per convinzione, di bilanciare la dipendenza dalla Russia in tema di sicurezza con il sostegno finanziario Usa (specialmente il Kirghizistan).

3. Va inoltre osservato come la situazione strategica nella regione sia cambiato non una, ma ben due volte dall’11 settembre 2001 a oggi. La presenza e l’influenza statunitense sono cresciute significativamente dal 2001 al 2004 e le repubbliche centroasiatiche si sono in varia misura ri-allineate in modo da beneficiare economicamente (tramite i programmi di assistenza militare e di sicurezza) e politicamente (tramite il sostegno politico ai regimi al potere) dai nuovi legami con Washington. Negli ultimi anni, invece, la Russia, forte di una economia più forte e dunque più attraente e meno preoccupata delle implicazioni di una strategia volta alla preservazione dello status quo politico, ha soppiantato gli Usa come partner strategico.

4. Infine l’impatto maggiore dell’11 settembre sulle relazioni strategiche nella regione e fra le repubbliche centroasiatiche e gli attori esterni è stato l’acuirsi delle tensioni tra le esigenze di sicurezza e quelle di riforma dei sistemi politici ed economici nella regione. La sicurezza ha dominato l’agenda delle relazioni tra gli attori regionali e quelli esterni a discapito della pressione per introdurre riforme e liberalizzazione politica ed economica.

7. Il ri-allineamento strategico dalla partnership tra Usa e Uzbekistan al consolidamento della Sco

Come già notato nella prima parte di questo saggio, la dimensione strategica dell’Asia centrale nel 2007 appare molto diversa da quella di inizio decennio. Allora la presenza e l’influenza statunitense erano in visibile crescita, con le repubbliche centroasiatiche che “offrivano” collaborazione agli Usa (dietro compenso, ovviamente). Oggi la situazione non potrebbe essere più diversa. L’influenza statunitense è in declino, mentre Russia e Cina sembrano saldamente in controllo. Questa sezione esamina il caso studio del ri-allineamento strategico ai fini di illustrare due tesi: 1. in primo luogo gli allineamenti strategici in Asia centrale sono tuttora sostanzialmente fluidi, come mostrano la repentina crisi tra Usa e Uzbekistan e il voltafaccia di Tashkent che nel novembre 2005 ha siglato un trattato di alleanza con la Russia; 2. in secondo luogo questo repentino cambiamento mostra come il sistema regionale centroasiatico sia tuttora non consolidato.

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7.1 Le relazioni tra Stati Uniti e Uzbekistan dalla “illusione della partnership” alla “crisi della illusione” (2001-2005)73

Gli attacchi dell’11 settembre hanno costituito un’autentica manna dal cielo per le autorità uzbeke. Dopo aver lamentato lo scarso sostegno alla propria lotta contro il terrorismo per anni (in particolare dal 1998 in poi), Tashkent vedeva finalmente riconosciuta la “bontà” delle proprie tesi. Il radicalismo islamico costituiva una minaccia non solo per la stabilità statuale uzbeka o regionale, ma per il sistema internazionale nel suo complesso. Il 5 ottobre 2001 il governo uzbeko acconsentì alla richiesta Usa di utilizzare la base di Karshi-Khanabad (precedentemente usata in epoca sovietica dall’Armata Rossa durante la guerra in Afghanistan). La collaborazione tra Washington e Tashkent diventò sempre più stretta, con Tashkent che era fra i pochi paesi al mondo a sostenere l’invasione dell’Iraq mentre al tempo stesso riceveva decine di milioni di dollari in assistenza di varia natura (militare e non) dagli Usa 74 . Nel marzo del 2002 Karimov e Bush si ritrovano a Washington per siglare la Partnership strategica fra Usa e Uzbekistan. In apparenza il documento non faceva altro che conferire ufficialità a una comunanza di interessi strategici fra i due paesi.

La crisi delle relazioni tra Usa e Uzbekistan non ha origine in un evento preciso, bensì in una serie cumulativa di processi che hanno reso la partnership imbarazzante e controproducente per entrambe le parti. I primi segnali di un deterioramento delle relazioni uzbeko-statunitensi sono datati 2004, allorché il Dipartimento di Stato americano pubblicò un rapporto critico della situazione uzbeka in tema di diritti umani e stato delle riforme politiche nel paese75. Le critiche non pervenivano esclusivamente da parte statunitense. I motivi che avevano spinto le autorità uzbeke (radicalismo islamista; bilanciamento anti-russo; comunanza di obiettivi strategici con gli Stati Uniti nella lotta al terrorismo) non apparivano più validi. La presenza statunitense – contrariamente a quanto inizialmente sperato, ossia che la collaborazione portasse maggiore sicurezza all’Uzbekistan – ha peggiorato la situazione. Il ripetersi sempre più frequente di attentati da parte di organizzazioni clandestine nella primavera ed estate 2004 che sono poi culminate negli eventi di Andijan nel maggio 2005 hanno portato il regime di Islam Karimov a percepire la partnership con Washington come una seconda minaccia alla sicurezza uzbeka, o meglio alla sicurezza del proprio regime e alla propria sopravvivenza (politica). Questo mutamento di percezioni aveva luogo proprio mentre le autorità di Tashkent osservavano, con

73 J. HEATHERSHAW, Worlds Apart: The Making and Remaking of Geopolitical Space in the US-Uzbekistan Strategic Partnership, cit. 74 M. FUMAGALLI, Alignments and Re-alignments in Central Asia: Rationale and Implications of Uzbekistan’s Rapprochement with Russia, in «International Political Science Review», 28, 2007, 3, p. 267. 75 G. GLEASON, The Uzbek Expulsion of US Forces and Realignment in Central Asia, in «Problems of Post-Communism», 53, 2006, 2.

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preoccupazione, le ondate di proteste popolari in Georgia (2003), Ucraina (2004) e Kirghizistan (2005) che avevano rovesciato i regimi al potere.

La crisi di Andijan, in cui una insurrezione nella città ha portato a degli scontri tra l’opposizione e le forze di sicurezza uzbeke, conclusa con una repressione governativa particolarmente dura, rappresenta l’emblema più che la causa o il fattore catalizzatore della crisi tra Usa e Uzbekistan. La reazione statunitense alla reazione del governo uzbeko, dopo un primo tentennamento, fu quella di richiedere una investigazione internazionale e indipendente, richiesta sempre rifiutata alle autorità uzbeke che vedevano nella cosa un’interferenza nelle proprie questioni interne e dunque una lesione della propria sovranità. Contrariamente a quanto Usa, Unione Europea e organizzazioni di diritti umani si aspettavano, la crisi di Andijan non ha portato all’isolamento internazionale dell’Uzbekistan. Al contrario Tashkent ricevette un pronto e deciso sostegno da Mosca, Pechino, e dagli altri paesi della Sco. A quel punto le relazioni con Washington (e Bruxelles) sono apparse come un peso di cui era possibile fare a meno. Il 29 luglio 2005 le autorità uzbeke comunicavano alle controparti statunitensi che avrebbero dovuto lasciare la base di Karshi-Khanabad entro centottanta giorni. Il 12 novembre 2005, mentre a Mosca Putin e Karimov firmavano un trattato di alleanza (dando vita ad una collaborazione «senza precedenti», secondo le parole di Islam Karimov76), le ultime truppe americane lasciavano in tono sommesso il territorio uzbeko.

7.2 L’Organizzazione per Cooperazione di Shanghai

L’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai viene costituita come organizzazione internazionale intergovernativa nel giugno 2001 con lo scopo di rispondere ai fenomeni che mettono a repentaglio la pace, stabilità e sicurezza nella regione centroasiatica77. La Sco nasce nell’accordo di cooperazione militare nelle zone di confine siglato da Russia, Cina, Kazachstan, Kirghizistan e Tagikistan nel 1996, accordo che aveva dato vita al cosiddetto Gruppo di Shanghai o Shanghai-5, dalla città in cui era stato firmato. A questo aveva fatto seguito l’anno seguente un secondo accordo per la riduzione delle forze militari nelle zone di confine.

Privo di una vera e propria organizzazione e ancora lontano da una vera e propria istituzionalizzazione, il Gruppo di Shanghai sembrava essere destinato a diventare l’ennesimo esempio di vacua struttura multilaterale post-sovietica, questa volta con l’aggiunta cinese. Invece, e con sorpresa di molti, a partire dal 1999 il Gruppo di Shanghai ha progressivamente ampliato il proprio raggio di azione e i propri

76 «Novosti Uzbekistana», 24 novembre 2005. 77 Della Sco al momento fanno parte sei stati (Russia, Cina, Uzbekistan, Kazachstan, Tagikistan e Kirghizistan), mentre Mongolia, Iran, Pakistan e India hanno ottenuto nel corso degli anni lo status di paesi osservatori.

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obiettivi. La cooperazione tra gli stati membri è stata estesa da quella militare (prevista negli accordi firmati nel 1996-97), a quella economica e culturale78. Gli obiettivi sono stati estesi a forme di cooperazione in settori “non tradizionali” come la lotta al terrorismo, al separatismo ed all’estremismo religioso. Questa nuova e più intensa cooperazione è stata formalizzata tramite l’istituzionalizzazione del gruppo in una organizzazione internazionale nel 2001. Tali accordi prevedevano anche la creazione di una Segreteria permanente con sede a Pechino (a testimonianza dell’importanza conferita dalla Cina alla organizzazione) e di una struttura regionale per l’anti-terrorismo (Rats), con sede a Tashkent, in Uzbekistan79.

L’ampliamento del raggio d’azione della Sco nasce dalle forti (e crescenti) preoccupazioni degli stati membri relativamente alla sicurezza. Le incursioni di militanti islamici nella valle di Ferghana nelle estati del 1999-2000 e nel 2004-2005 ed il crescente timore dei paesi della regione e di Russia e Cina circa la crescente minaccia rappresentata da gruppi radicali islamici hanno portato gli stati membri a coordinare i propri sforzi per far fronte a fenomeni che mettono a repentaglio la pace, la stabilità e la sicurezza regionale.

Gli obiettivi strategici della Sco sono sostanzialmente due: 1. la già precedentemente citata cooperazione nella lotta al terrorismo, al

separatismo e all’estremismo religioso; 2. la volontà di contenere la presenza e l’influenza degli Stati Uniti nella

regione80.

Il primo obiettivo non pone la Sco in opposizione agli Usa, in quanto entrambi gli attori condividono queste preoccupazioni. Ciò spiega come, all’indomani degli attacchi dell’11 settembre e durante la prima fase della guerra in Afghanistan, né la Sco né alcuno dei paesi membri abbia sollevato obiezioni alla presenza americana nella regione e al ruolo che gli Usa svolgevano nel raggiungere quell’obiettivo strategico che la Sco si era posto (combattere il terrorismo) senza raggiungere nessun traguardo di rilievo in proposito. Il secondo obiettivo della organizzazione pone invece la Sco in radicale contrapposizione alla presenza statunitense in Asia centrale. La volontà di contenere, se non ridurre, la presenza statunitense della regione costituisce un forte collante strategico per tutti i paesi

78 Nel 2003 è stato siglato un accordo volto a facilitare gli scambi commerciali al fine di creare una zona di libero scambio e ad agevolare la cooperazione nel settore energetico. Nel 2006 è stata poi adottata una risoluzione che istituisce il Business Council e la Interbank Association all’interno del framework della Sco, cfr. E. CALZA, L’evoluzione della Shanghai Cooperation Organization, in «Quaderni di Relazioni Internazionali», 2006, 3, p. 94. 79 Originariamente il centro avrebbe dovuto aver sede in Kirghizistan, a Bishkek, ma in seguito venne deciso di spostarlo a Tashkent, anche alla luce della adesione dell’Uzbekistan, della rilevanza strategica di questo stato e della priorità che Tashkent conferisce alla lotta contro il terrorismo. 80 C.P. CHUNG, The Shanghai Cooperation Organization: China’s Changing Influence in Central Asia, in «The China Quarterly», 2004, 180, pp. 990-993.

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membri. Risponde sia alle priorità strategiche russe e cinesi, che vedevano la presenza Usa ai propri confini come una minaccia, che all’istinto di sopravvivenza delle élites al potere nella regione, che hanno scelto le proprie alleanze in funzione del sostegno politico ai propri regimi. Qualora questo sostegno fosse apparso in dubbio, come nel periodo delle rivoluzioni colorate post-sovietiche, i paesi in questione non avrebbero esitato a compiere un ri-allineamento in favore della Russia o della Cina. Al fine di evitare che la presenza statunitense nella regione si traducesse in una realtà permanente, la Sco ha cominciato a chiedere a gran voce, tramite comunicati ufficiali, che Washington fissasse una data entro la quale gli Usa si sarebbero ritirati dalla regione. Poiché il motivo dietro l’uso statunitense della basi era l’appoggio alle operazioni in Afghanistan, il fatto che queste fossero state dichiarate concluse nel 2003 andava interpretato – secondo Russia e Cina – come se le condizioni che ne avevano permesso l’uso non fossero più valide. Due dichiarazioni sono apparse di forte valenza simbolica.

In occasione del summit di Astana nel luglio 2005 la Sco aveva richiesto agli Stati Uniti di fissare i tempi per il ritiro delle proprie truppe dalle basi nella regione. A questa dichiarazione aveva poi fatto seguito l’ultimatum uzbeko in cui venivano concessi centottanta giorni agli Usa per lasciare la base di Karshi-Khanabad. La seconda (comunicato del 15 giugno 2006) si riallaccia al comunicato del summit di Astana dell’anno precedente e sottolinea l’efficacia della azione della Sco (nel ridurre l’influenza di attori esterni nella regione).

Che cosa è (diventata) dunque la Sco? Secondo Chung la Sco costituisce una partnership, non una alleanza81. Una alleanza, sostiene Chung, si definisce per opposizione ad altri attori (gli Stati Uniti sono il riferimento neanche troppo velato), mentre invece la Sco è una struttura aperta, un meccanismo che si propone di creare un clima di fiducia reciproca e cooperazione nella regione. A controprova di come gli stati membri della Sco percepiscano l’alterità Usa alla regione, gli Stati Uniti si sono visti negare lo status di paese osservatore, concesso invece alla Mongolia e al Pakistan.

I paesi membri della Sco fanno proprio quello che viene definito “spirito di Shanghai” (Shanghai Jingshen) che si fonda sui seguenti principi: «fiducia reciproca, comunicazione, cooperazione, co-esistenza e comunanza di interessi fra gli stati membri»82. Chung sostiene che la Sco costituisce un nuovo modello di regionalismo che si pone in antitesi al “vecchio” regionalismo, di cui l’Ue rappresenta l’esempio più evidente. A differenza del vecchio regionalismo, il nuovo regionalismo non richiede cessioni di sovranità, ma anzi nasce sul principio di riconoscimento della sovranità degli stati membri. Questo nuovo tipo di regionalismo unisce stati dai diversi sistemi politici, con diverse tradizioni culturali e religiose, ma con interessi comuni. Nel corso degli anni la Sco si è affermata come una organizzazione di cui fanno parte stati uniti da una

81 Ibidem, p. 991. 82 Ibidem.

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consonanza normativa, ossia quella che Kimmage definisce una posizione non conservatrice, ma “conservazionista” (conservationist), orientata al mantenimento dello status quo83. Questo obiettivo è funzionale alle priorità strategiche cinesi e russe, come agli interessi di autosopravvivenza dei regimi al potere nella regione. Oltre che consentire il mantenimento dello status quo nell’immediato e di osteggiare la presenza Usa nella regione, la Sco deve anche essere considerata nel contesto delle relazioni sino-russe. Le relazioni tra Mosca e Pechino sono migliorate progressivamente già all’epoca di Gorbachev nella seconda metà degli anni Ottanta e le due potenze hanno in seguito firmato un accordo di partnership strategica. Le priorità strategiche dei due paesi convergono al momento, come già osservato nella prima parte di questo saggio: ridurre la presenza americana ai propri confini, contenere separatismo, terrorismo e estremismo religioso sono obiettivi largamente condivisi dai due attori 84 . Entrambi inoltre aspirano alla costituzione di un mondo multipolare. La Sco sembra essere un meccanismo volto al raggiungimento di questo obiettivo. A partire dal 2005 Cina e Russia hanno condotto esercitazioni militari congiunte (Peace Mission 2005 e 2006) che verranno ripetute nuovamente nella estate del 2007.

Vi sono al tempo stesso alcune osservazioni che suggeriscono alcuni dubbi sulla lunga durata di questa partnership e sulla identità di vedute tra Russia e Cina85. La Russia considera le repubbliche centroasiatiche parte della propria sfera d’influenza e la regione un’area in cui esercitare la propria egemonia. Questo significa che Mosca non desidera che la Cina diventi eccessivamente coinvolta negli affari della regione. Sinora la Cina ha accettato lo status russo di primus inter pares, anche in considerazione del fatto che il tempo è tutto dalla parte della Cina. In prospettiva la ricchezza russa dovuta agli alti prezzi del petrolio diminuirà, mentre invece l’espansione economica cinese sembra inarrestabile. Basta solo attendere per vedere le relazioni sino-russe capovolte, con Pechino nelle vesti di senior partner. Più in generale, come osserva Lo, le economie russa e cinese non sono per nulla complementari e sono destinate ad entrare in competizione, come sta già accadendo in Siberia orientale e in prospettiva in Asia centrale86.

7.3 Sintesi: i deficit di legittimità del sistema regionale centroasiatico

La discussione dei due casi studio nelle pagine precedenti ha evidenziato come i tre deficit di legittimità di cui soffrono i sistemi regionali post-unitari identificati

83 D. KIMMAGE, SCO: Shoring up the Post-Soviet Status Quo, Radio Free Europe/Radio Liberty, 8 July 2005, http://www.rferl.org/features/features_Article.aspx?m=07&y=2005&id= 9A8D1C5F-B72B-4A40-AEDC-08ED11AAA34F. 84 G. XING, China and Central Asia, cit., p. 166. 85 B. LO, The Long Sunset of Strategic Partnership: Russia’s Evolving China Policy, in «International Affairs», 80, 2004, 2. 86 Ibidem.

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da Colombo (confini, identità degli attori, esistenza del sistema) sono stati una costante del periodo post-sovietico e sono stati costantemente soggetti a definizione, negoziazione e contestazione.

Confini

In epoca sovietica il termine “Asia di mezzo” (srednyaya Aziya) veniva utilizzato per indicare quella parte della periferia sovietica in Asia che comprendeva le repubbliche di Uzbekistan, Kirghizistan (allora Kirghizia), Turkmenistan (Turkmenia) e Tagikistan. Il Kazachstan ne era escluso in quanto parte di una regione stepposa di confine tra l’Asia centrale vera e propria e la Siberia. E’ solo nel 1992 che il Kazachstan è entrato ufficialmente a far parte dell’Asia centrale (Tsentral’naya Aziya/O’rta Oziyo). Se i confini della regione appaiono più o meno definiti a livello geografico (Kazachstan e Turkmenistan possono anche appartenere alla regione del Caspio), meno certi e sicuramente meno stabili sono apparsi i confini del sistema regionale centroasiatico. Gli Stati Uniti hanno articolato la concezione più “elastica” di questi confini. Per gran parte del periodo post-sovietico gli Stati Uniti hanno promosso una visione di un macro-sistema regionale i cui confini andavano dal Caucaso al Caspio all’Asia centrale fino ai confini della Cina (esclusa). Di questa facevano parte attori che centroasiatici non sono (Georgia, Armenia e Azerbaigian), mentre non vi facevano parte la Cina o perfino la Russia il cui ruolo nelle dinamiche di sicurezza regionali è rimasto cruciale nonostante il crollo dell’Urss. In seguito alla guerra in Afghanistan gli Stati Uniti hanno allargato i confini del sistema regionale verso sud, in modo da comprendere anche l’Afghanistan (se non pure il Pakistan). La visione del sistema regionale centroasiatico appare ben più contenuta secondo la visione strategica della Sco. Del sistema fanno parte quattro repubbliche centroasiatiche (Turkmenistan escluso), Cina e Russia. Qui le questioni critiche sono due: l’espulsione degli Usa dal sistema, la cui alterità viene più volte proclamata dalla Sco, e il ruolo del Turkmenistan, de jure e de facto neutrale, ma che per il peso nella politica energetica di ogni attore globale risulta difficile escludere da una strategia per l’Asia centrale.

Numero e identità degli attori

Il numero stesso degli attori rimane incerto. L’incertezza circa i confini dell’Asia centrale come sistema si riflette sui dibattiti circa il numero e l’identità degli attori che appartengono a questo sistema. Come già notato la concezione Usa vedeva includere non solo Washington, ma anche l’Afghanistan (integrando di fatto Asia centrale e meridionale), la regione del Caspio e il Caucaso meridionale, aumentando a dismisura il numero di attori. Russia e Cina hanno propeso per una concezione più “esclusiva” del sistema regionale centroasiatico, escludendo gli Usa, ma anche l’Afghanistan e cercando di fare a meno del Turkmenistan. Il Caucaso costituisce un sistema a parte per Mosca mentre risulta di minimo interesse a Pechino.

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Esistenza del sistema

Esiste dunque un sistema regionale centroasiatico? Da quanto discusso in precedenza, appare difficile stabilire se esista o meno un sistema regionale centroasiatico la cui esistenza sia riconosciuta come legittima da tutte le parti interessate. Probabilmente ne esiste più di uno, il che mostra come sia impossibile decretare l’esistenza di un sistema tramite criteri oggettivi. L’esistenza o meno di un sistema regionale centroasiatico appare piuttosto il prodotto di un processo di costruzione sociale, soggetto in quanto tale a ridefinizione continua.

8. Conclusioni

I primi anni del nuovo secolo sono stati contraddistinti da rapidi ri-allineamenti strategici in Asia centrale. La rapidità e la drammaticità con cui si sono susseguiti rendono ogni previsione azzardata. Possiamo perciò solo avanzare qualche riflessione conclusiva. Questo saggio ha mostrato come nessuno degli attori esterni qui esaminati (Russia, Cina e Stati Uniti) abbia mostrato di avere una coerente strategia verso l’Asia centrale.

La Russia ha alternato fasi di disimpegno impostole dalla trasformazione post-sovietica a tentativi di imporsi come l’egemone “naturale”. Per gli Stati Uniti l’Asia centrale ha cessato di essere un «collettaneo di “stan” trascurabili» per diventare uno dei teatri principali nella lotta al terrorismo. Washington ha ripetutamente oscillato in maniera più che incerta tra tentativi di promuovere riforme politiche e difendere i propri interessi in politica energetica e politiche funzionali alla guerra al terrorismo. L’apertura di basi in Uzbekistan e Kirghizistan all’indomani della guerra in Afghanistan comunicò a Mosca e Pechino in lettere chiarissime come il mondo fosse radicalmente mutato. Gradualmente le repubbliche centroasiatiche, pur in diversa misura, hanno cominciato a vedere nei legami con Washington un peso (liability), invece che un vantaggio (asset). Il fallimento della gestione post-invasione in Iraq e l’implosione strategica della amministrazione Bush durante il secondo mandato hanno indebolito la posizione statunitense al punto che il regime di Islam Karimov a Tashkent non ha esitato a dare il benservito alle truppe statunitensi e alla partnership con Washington. Più in generale ciò che è imputabile a Washington è l’aver fallito nel comprendere il proprio fallimento nella regione.

Il fallimento strategico statunitense in Asia centrale è dovuto da un lato alla continua incertezza tra gli obiettivi della sicurezza e della democratizzazione, obiettivi che in questo decennio sono entrati in rotta di collisione. Dall’altro è dovuto alla mancata capacità americana di rendersi conto di quanto abbia fallito nel comprendere le dinamiche politiche, sociali e di sicurezza nella regione. Se dunque una rentreé americana nella regione appare improbabile (e Washington si accontenterà al momento di mantenere la base in Kirghizistan e coltivare buone relazioni con il Kazachstan, anche per l’importanza di questo a livello energetico),

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la fluidità della situazione presenta una opportunità unica a un attore che fino ad ora è rimasto ai margini delle dinamiche strategiche nella regione: l’Unione Europea. Il ripensamento in atto circa la strategia da adottare per impegnarsi in Asia centrale dimostra che l’Ue potrebbe giocare un ruolo di rilievo in futuro87.

Tutto sommato, di fronte ai succedanei capovolgimenti che hanno contraddistinto le relazioni di Mosca e Washington con le repubbliche centroasiatiche, Pechino ha mantenuto una politica coerente nel corso degli ultimi quindici anni. Al momento in cui questo saggio viene scritto, i paesi centroasiatici, Cina e Russia condividono una visione strategica che enfatizza i principi di stabilità, difesa della sovranità statuale da ogni interferenza straniera, la lotta all’estremismo islamico e il multipolarismo come strumento antiegemonico (in chiave anti-Usa). La razionalizzazione nel processo decisionale e l’improvvisa e cospicua disponibilità finanziaria resa possibile dall’alto costo degli idrocarburi ha permesso alla Russia di re-imporre la propria egemonia nella regione attraverso una strategia che unisce l’uso della dipendenza energetica come strumento di politica estera e una politica di sicurezza che ricompensa un atteggiamento pro-russo e punisce un orientamento filo-occidentale. La riduzione della presenza occidentale è anche obiettivo cinese che vede la presenza statunitense ai propri confini come una minaccia. La Sco esprime questa nuova consonanza strategica fondata sulla difesa di statualità, sovranità (da interferenze straniere) e in sostanza dello status quo, definito come sopravvivenza dei regimi al potere. La convergenza normativa ha contribuito a creare un senso di identità tra i paesi membri. Lo spazio centroasiatico è diventato, come sostiene Heathershaw, il luogo in cui i principi di sovranità e autorità (statuale) vengono rispettati e difesi contro tentativi da parte di potenze esterne. La demarcazione tra interno/esterno (appartenenza/alterità alla regione) è diventato oggetto di discussione. Essere definiti come esterni alla regione priva di legittimità le proprie azioni. Russia e Cina hanno insistito sulla alterità degli Usa nella regione e sui tentativi di penetrarvi ai fini di stabilire la propria egemonia in “spazi che non competono loro”.

Al momento la situazione appare meno fluida che in tutto il periodo post-sovietico. Il saggio sostiene però che è prematuro considerare “chiuso” il capitolo centroasiatico. Questo perché la regione si trova di fronte a una serie di crocevia che ne segneranno la traiettoria per i prossimi anni e decenni. Tre mi sembrano di particolare rilevanza per le implicazioni non solo sulla stabilità statuale, ma regionale nel suo complesso.

Successione politica

La prima sfida che si presenta riguarda la successione politica. Per questioni biologiche la questione è inevitabile. Nessuna delle repubbliche centroasiatiche ha 87 Sulla strategia Ue in Asia centrale si vedano A. FERRARI, L’Unione Europea e l’Asia centrale, «ISPI Policy Brief» n. 52, maggio 2007, http://www.ispionline.it/it/documents/ pb_52_2007.pdf e N.J. MELVIN, The European Union Strategic Role in Central Asia, «CEPS Policy Brief» n. 128, March 2007.

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predisposto meccanismi istituzionali per far fronte a questa evenienza, nel caso di scomparsa del presidente di turno.

Riforme

Con l’unica eccezione del Kazachstan, la cui situazione economica è sensibilmente migliorata grazie ai costi degli idrocarburi, la situazione economica delle altre repubbliche rimane stagnante. Lo stato rimane in controllo dell’economia e, nei casi in cui non lo è, clan, gruppi regionali e network criminali competono per spartirsi le poche risorse. Le implicazioni di questa spartizione iniqua sono politiche in quanto le fazioni escluse dalla ridistribuzione delle risorse (economiche, ma anche politiche) possono presentare una minaccia alla stabilità del paese, come già mostrato in occasione della guerra civile tagika, della “rivoluzione dei tulipani” in Kirghizistan, e delle ripetute lotte di potere in Uzbekistan.

Radicalizzazione della protesta

Questa possibilità è diretta conseguenza delle prime due questioni. La centralizzazione del potere in circoli ristretti di élites, il consolidamento dell’autoritarismo e il procrastinarsi della introduzione di riforme politiche ed economiche contribuiscono all’acuirsi di malesseri e frustrazioni fra la popolazione locale. In mancanza di possibilità di dar voce al malcontento alcuni elementi marginali si sono rivolti a organizzazioni militanti islamiche che nel corso degli anni sono diventate vieppiù popolari. Questa popolarità è dovuta più alla carenza di alternative che non a un reale desiderio di sostituire gli attuali regimi laici con un califfato. Pur tuttavia, la stagnazione protratta non fa altro che alimentare il malcontento e rendere la possibilità che il conflitto politico diventi violento sempre più probabile.

Questi cambiamenti profondi toccheranno la dimensione interna, regionale e statuale. Come i regimi e i popoli della regione affronteranno le sfide e opportunità che si presentano, dipenderà anche da come le potenze esterne alla regione (Russia, Cina, Stati Uniti, ma anche l’Unione Europea) sapranno loro porsi e proporsi.

In conclusione, nonostante i vari ri-allineamenti strategici che si sono ripetuti negli ultimi quindici e più anni, rimangono, come sostiene Martha Brill Olcott, fondamentali linee di continuità nella regione. Queste continuità comprendono irrisolte tensioni tra stato e società, tra élites e resto della popolazione e le rivalità tra attori regionali e potenze internazionali (e tra queste ultime fra loro). Tali tensioni, qualora rimangano irrisolte, preannunciano nuove scosse. La chiusura del sistema politico, le frustrazioni socio-economiche e la gestione della successione politica ai vari leader/regimi costituiscono alcune tra le sfide che nessun attore, interno o esterno alla regione, è ancora apparso né in grado né deciso ad affrontare.

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CONTINUITÀ POST-SOVIETICA, AUTORITARISMO POLITICO E DIRITTI UMANI IN ASIA CENTRALE

Fabrizio Vielmini

Introduzione

Con il crollo del sistema sovietico, sull’esempio degli altri paesi già parte del Patto di Varsavia, le repubbliche d’Asia centrale, hanno intrapreso una serie di riforme politico-istituzionali aventi l’obiettivo dichiarato d’uniformare i propri sistemi interni a quelli dei paesi dell’area atlantica. Da parte di questi ultimi vi fu un’adesione interessata alle richieste provenienti da questi neofiti della scena internazionale. Le repubbliche dell’Asia centrale vennero allora considerate terreno d’espansione del modello liberal-democratico.

Tuttavia, l’esperienza degli ultimi 15 anni ha dimostrato la vacuità delle aspettative iniziali: nonostante innumerevoli sforzi, programmi e iniziative varie finalizzate all’apertura e alla trasformazione dei sistemi politici centroasiatici secondo i principi dello stato di diritto, il panorama regionale resta caratterizzato da pratiche autoritarie e da magistrature corrotte e inefficienti, nel cui quadro il numero di violazioni quotidiane dei diritti fondamentali dei cittadini si è mantenuto costante, mentre in una parte considerevole della regione sono venute allargandosi le zone grigie di non-diritto legate alla deliquescenza delle istruzioni pubbliche.

A tutt’oggi, il rapporto dei regimi ai programmi di democratizzazione si trova in una condizione paradossale. Nonostante i dirigenti dichiarino che l’instaurazione della democrazia rappresentativa e il rispetto delle libertà fondamentali siano obiettivi delle loro politiche, la realtà di queste ultime testimonia di una precisa volontà volta a impedire concrete evoluzioni in tale direzione. Negli ultimi anni tale divergenza è stata giustificata nei termini della costruzione di una cosiddetta “democrazia guidata” (upravljaemaja demokratija). Pretesa quale via nazionale alla democrazia, tale formula viene piuttosto intesa quale “democrazia imitata”, un paravento per regimi non completamente dittatoriali e preoccupati di mantenere un dialogo con i sistemi considerati autenticamente democratici.

Per indagare le ragioni di questa permanenza dell’autoritarismo nella regione, il presente studio, piuttosto che sull’enucleazione dei punti in cui la divergenza di fondo fra teorie delle democratizzazione e pratica politica centroasiatica si manifesta, si concentra sui motivi che ne stanno alla base. Questi vanno in primo luogo individuati nell’approccio, normativo e universalistico, delle teorie della cosiddetta transizione, le quali hanno soprasseduto ai tentativi di cambiamento

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influenzandone in profondità il percorso, nella complessità dei sistemi socio-politici centroasiatici, con la loro capacità atipica di far convivere differenti sostrati culturali, nelle concrete sfide alla tenuta dei regimi posti dalla congiuntura geopolitica post-sovietica. Quest’ultima in particolare emerge come una determinante d’ordine principale dato che le fragili repubbliche si sono trovate ad essere oggetto di una complessa interazione fra potenze esterne volta al controllo delle loro risorse strategiche.

L’analisi parte da una descrizione delle teorie della democratizzazione e della transizione nel momento in cui esse intervengono ad occupare il vuoto ideologico post-comunista. Si allarga quindi ad una panoramica dei percorsi seguiti da ciascuno dei soggetti statali centroasiatici constatando la vacuità del concetto di democrazia se applicato a tali esperienze. Spiegazioni per la divergenza vengono cercate nei precipui caratteri socioculturali che definiscono la politica nella regione. In tale sezione viene posta la questione di quanto la democrazia occidentale sia compatibile con lo sfondo storico e antropologico della regione. Inoltre, alla luce della dissoluzione del regime centroasiatico che più aveva fatto ricorso alle risorse delle democratizzazione, quello di Askar Akaev in Kirghizistan, lo studio s’interroga su quanto gli effetti delle pratiche importate siano benefici per la stabilità e le possibilità di tenuta dei soggetti statali della regione.

1. Dietro gli sforzi della democratizzazione: il paradigma della transizione

La congiuntura dell’inizio degli anni Novanta favorì l’applicazione alla regione di un complesso di dottrine ed idee per essa completamente nuove. Dal punto di vista centroasiatico, le élite locali si ritrovarono spinte in un’indipendenza che lungi dall’essere un’aspirazione endogena costituiva una fatalità dovuta alla volontà d’abbandono della regione da parte del centro moscovita. Non solo esse dovevano improvvisamente gestire tale nuova situazione e le sue immense sfide, ma ciò avveniva in un contesto di assoluto vuoto ideale causato dalla parallela scomparsa del quadro concettuale marxista-leninista. Questi, seppur profondamente modificato dall’adattamento alla realtà locale, aveva non di meno costituito l’ideologia alla base del sistema, la fonte dell’universo mentale e culturale di apparatčiki rigidamente formati per servire il medesimo. Avendo l’ideologia monopolizzato così a fondo e a lungo il campo della riflessione politica, si avvertiva un acuto bisogno di modelli alternativi per la gestione della nuova situazione e la necessaria riforma delle esistenti strutture amministrative. Mancando una memoria istituzionale precedente all’integrazione imperiale e poi sovietica, l’adozione dei modelli democratico-liberali dell’Occidente “vincitore” della guerra fredda, emergeva quasi automaticamente quale una strada obbligata da percorrere.

Da parte occidentale, una tale impostazione venne accolta con entusiasmo, soprattutto al centro del campo vincitore, gli Stati Uniti. Qui da oltre un decennio,

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quale elemento centrale della politica estera globale1, si era fatto strada il concetto di “rivoluzione democratica mondiale”, strumento ideologico adottato dalle amministrazioni Reagan in contrapposizione all’internazionalismo comunista usato dell’Urss. Alla base di tale ideologia stava un paradigma teorico a pretesa scientifica, quello della “transizione alla democrazia”, il quale, in una visione teleologica, propugnava la possibilità di un percorso lineare di passaggio dall’autoritarismo alla democrazia, percorso sul quale avrebbe potuto avviarsi qualsiasi società attraverso l’applicazione di schemi standard, a prescindere dalle condizioni di partenza e dal suo tipo di struttura interna 2 . In virtù della sua funzionalità ad una politica estera di superpotenza, tale visione è stata sviluppata da ampi settori del mondo accademico statunitense che la hanno arricchita di un discorso articolato su una serie di concetti precipui, fino a influenzare in senso egemonico il campo degli studi del cambiamento politico. Dopo oltre vent’anni, tale egemonia è lungi dall’avere esaurito i suoi effetti, contribuendo inoltre a nascondere gli interessi geopolitici che sin dall’inizio sono stati alla base del suo sviluppo3.

Da parte europea l’approccio è stato più pragmatico. Di fronte ad un interesse iniziale scarso o inesistente per questi lembi dell’ex Urss, ci si è limitati ad auspicare trasformazioni in senso democratico quali gli sviluppi le più adatti a garantire la sicurezza del nuovo ambiente internazionale nonché la stabilità delle società centroasiatiche. Nondimeno, sotto l’influenza della visione transitologica, nella prospettiva cosmopolitica kelnesiana di globalismo giuridico dominante negli anni Novanta, anche gli europei sono convenuti nel considerare il neoliberalismo e la rappresentazioni ad esso precipue di stato di diritto (Rule of law) e diritti umani quali principi superiori, fondamenti normativi della legittimità di qualsiasi governo.

Emergeva così una visione comune occidentale volta a realizzare una “terza ondata di democratizzazione” così da completare l’uniformazione planetaria sotto

1 Nella visione dei suoi sostenitori, tali principi configurano un diritto universale ad una governance democratica il quale deve essere protetto da parte di collective international processes. Cfr. T. FRANCK, The Emerging Right to Democratic Governance, in «The American Journal of International Law», 86, 1992, 1, pp. 46-91. Si veda N. GUILHOT, The Democracy Makers. Human Rights and the Politics of Global Order, New York, 2005, per un’analisi del fenomeno nelle condizioni storiche della sua istituzionalizzazione. 2 T. CAROTHERS, The end of the Transition Paradigm, in «Journal of Democracy», 13, 2002, 1, p. 6. 3 Si veda le considerazioni elaborate in riferimento all’esperienza egiziana da D. PIOPPI, Il “paradigma della democratizzazione” e il cambiamento politico in Egitto, in M. TORRI (a cura di) Il Grande Medio Oriente nell’era dell’egemonia americana, Milano, 2006, pp. 4-21. L’autrice mette bene in evidenza il parallelo fra il carattere egemonico del discorso della democratizzazione “transitologica” e altre dottrine prodotte storicamente nell’ambito del mondo accademico allo scopo di servire quale strumentario teorico d’imprese coloniali.

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il solo dei possibili sistemi socio-politici4.

Tale pulsione è stata applicata all’interno dei confini dell’ex Urss con un’intensità volontarista particolare, spinta da un vero e proprio trionfalismo5 , il quale ha alimentato una convinzione rinnovata dell’inevitabilità del percorso che le repubbliche avrebbero dovuto seguire per raggiungere il doppio approdo al libero mercato e alla democrazia e una ancor più ridotta considerazione dei limiti strutturali dell’esportazione del modello nelle condizioni precipue alla regione.

Va inoltre tenuto presente che, per la realizzazione del proprio disegno nelle periferie del mondo, di riflesso a quanto avveniva presso lo scomparso avversario comunista, il paradigma della transizione poteva disporre di un concreto apparato (democracy-promotion communities), in primo luogo attraverso il sistema internazionale degli aiuti allo sviluppo rappresentanti dei quali sbarcarono in forze nella regione. A questa, quale parte del blocco sovietico, vennero applicati gli stessi schemi utilizzati nell’Europa orientale. Al centro, l’attenzione per le trasformazioni istituzionali improntate ai principi del buon governo (good governance)6. L’essenza di questi ultimi deriva da un altro elemento chiave del paradigma della “transizione”, il suo “pregiudizio totalitario”, la convinzione che alla radice dei presunti mali del sistema sovietico ci fosse uno stato onnipotente, un Leviatano che andava ora ingabbiato per favorire una idealizzata società civile e la liberalizzazione dell’economia da esso negate. Di conseguenza, una parte consistente delle attività implementate dall’apparato internazionale dispiegato nella regione si è concentrata sugli aspetti formali della definizione della politica interna, in particolari sui parlamenti e i meccanismi elettorali.

Come vedremo nei dettagli in seguito, tali programmi hanno ricalcato le esperienze della cooperazione allo sviluppo nel terzo mondo negli anni Sessanta e Settanta. Come allora, l’adozione formale di leggi e strutture di facciata non ha potuto interagire con i comportamenti e le pratiche alla base della società e delle istituzioni realmente definenti il campo politico, le quali, seppur trasformandosi per rispondere alle sfide del post-indipendenza, sono risultate in definitiva rafforzate 7 . Le numerose forzature del modello generarono una crescente resistenza e avversione all’interno della regione, dove si è constatata una non recepibilità da parte di stati di recente formazione di elementi quali il deperimento delle specificità nazionali e l’esaurimento del ruolo dello stato.

4 S. HUNTINGTON, The Third Wave: Democratization in the Late Twentieth Century, Norman (Ok.)/London, 1991. 5 M. LIU, Detours from Utopia on the Silk Road: Ethical Dilemmas of Neoliberal Triumphalism, in «Central Eurasian Studies Review», 2, 2003, 2. 6 L. DE MARTINO, Désillusions des donateurs? La coopération internationale en Asie Centrale, in Conference Proceedings: The Illusions of Transition: Which Perspectives for Central Asia and the Caucasus?, CIMERA, 9 December 2004, pp. 152-161, http://www.cimera.org/publications/cp6/popup.html. 7 M. BAIMYRZAEVA, Institutional Reforms in Kyrgyzstan, in «Central Eurasian Studies Review», 4, 2005, 1, pp. 29-35.

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Nella degradazione delle condizioni generali di vita e dato il fatto che essa riduceva la democrazia ad una procedura formale, l’ideologia importata della trasformazione è stata percepita in misura crescente quale sistema concepito non per lo sviluppo ma piuttosto per l’apertura di queste economie periferiche al capitale globale 8 , il quale, sempre secondo schemi già consolidati, tramite l’agenda delle istituzioni finanziarie internazionali può influenzare le politiche nazionali senza curarsi particolarmente delle popolazioni dei paesi beneficiari.

Un fattore a cui tutti hanno dovuto portare attenzione è che nel trascurare la dimensione statuale, senza il rafforzamento delle istituzioni e delle autorità responsabili d’organizzare le elezioni e le giurisdizioni d’applicazione della legge non sarebbe stato possibile a priori parlare di democrazia, nemmeno nei termini formali previsti dal “pacchetto standard” della transizione9.

Per tutta la seconda metà degli anni Novanta, si consolida così il citato paradosso per cui, pur a fronte a scarsi o nulli risultati sul terreno, la “transizione” viene assunta come fenomeno compiuto, a parte qualche “effetto collaterale” trascurabile, in una sicurezza che tradiva la volontà politica di continuare a dare definitivamente per scontato l’impossibilità di un modello altro rispetto alla democrazia liberale di stampo anglosassone, quale punto d’arrivo ineliminabile del convivere politico delle società umane. Dal canto loro, con il venir meno degli entusiasmi e delle aspettative proprie al primo periodo post-indipendenza, pur continuando a dichiarasi a favore di un discorso che costituiva la via obbligata dell’accesso agli aiuti finanziari internazionali, i dirigenti centroasiatici hanno iniziato a contrapporre un’argomentazione sottolineante i limiti di una democratizzazione incondizionata ed a tempi accelerati. Tale argomentazione si fonda sul particolarismo culturale, sui principi di non ingerenza e sovranità e, soprattutto, sui rischi che un’apertura incondizionata del campo politico potrebbe comportare per la stabilità dei giovani stati.

In tal modo, continuava ad essere accettata la visione della transizione così come l’idea dell’uscita da un passato di totalitarismo, il quale, in virtù delle tracce profonde da esso lasciate, avrebbe richiesto un lungo periodo d’adattamento alle politiche di democratizzazione da parte delle realtà locali10.

8 Ossia quale «veicolo attraverso cui inglobare i paesi in ritardo di sviluppo nel nuovo progetto di espansione globale del capitalismo», cfr. M. CERIMELE, A che serve la democrazia? Stato, mercato e sviluppo nel Kazachstan post-sovietico, in «Meridione. Sud e Nord del Mondo», 5, 2005, 3, pp. 144. 9 O. CAPPELLI, Democratizzazione o state-building? Riletture critiche della transizione postcomunista, in Oltre la democratizzazione, «Meridione. Sud e Nord del Mondo», 5, 2005, 3, pp. 5-59. 10 P. GEISS, Political Discourse on Authority Relations in Central Asia. A Sociological Elucidation, in «Central Asia Monitor», 2000, 6, pp. 1-6.

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2. Le traiettorie istituzionali delle cinque repubbliche dopo l’indipendenza

Osserviamo ora le esperienze concrete affrontate dalle repubbliche centroasiatiche dopo l’indipendenza. Vedremo come l’evoluzione dei sistemi politici presenta caratteristiche tali da configurare la regione quale un blocco omogeneo, così come già essa si differenziava all’interno del contesto sovietico. Dopo una serie di iniziali esercizi elettorali relativamente aperti si assiste ad un crescente accentramento del potere da parte degli apparati presidenziali. Tutte le esperienze post-sovietiche convergono su scioglimenti dall’alto delle legislature, ripetute modifiche costituzionali, ricorso allo strumento del referendum per ottenere conferme plebiscitarie nonché altre misure eccezionali finalizzate a mantenere il potere presidenziale in una posizione dominante. Nondimeno, è possibile differenziare le traiettorie seguite dopo il 1991 individuando differenti gradi differenti di apertura nelle 5 repubbliche. Se esse restano tutte regimi ibridi mescolanti qualche elemento (per lo più formale) di democrazia con un solido impianto autoritario, è possibile tuttavia collocare i cinque soggetti in una scala discendente che va dal quadro di relativa tolleranza del Kazachstan fino all’impostazione totalitaria del Turkmenistan. In tutti e cinque i casi, caratteri e personalità dei segretari di partito riciclatisi in presidenti hanno profondamente influenzato le traiettorie d’evoluzione del sistema politico11.

2.1 Kazachstan

Il sistema instaurato dal presidente Nursultan Nazarbaev si pone quale effettivo di “democrazia guidata”12 o autoritarismo illuminato. Durante tutto il corso della propria esperienza post-sovietica, la dirigenza si è prestata a vari esperimenti di transizione istituzionale e state-building, con e senza il supporto di istituzioni internazionali, senza tuttavia permettere che questi andassero a toccare in profondità gli equilibri interni del paese.

Dopo le prime, esitanti aperture, con la costituzione del 1995 Nazarbaev fissa le regole del gioco del sistema ponendo i tre rami del potere sotto il suo saldo controllo. Reso bicamerale ma privato dell’iniziativa legislativa, il parlamento può essere sciolto in qualunque momento per decisione presidenziale ed avrà quindi cura di lavorare conformemente alla sua volontà13.

Le vicende parlamentari sono state indicative delle tendenze politiche e del ricorso sistematico alla manipolazione istituzionale quale forma di legittimazione del regime. Così, nella stessa occasione, un referendum veniva indetto per l’estensione del mandato del leader per altri cinque anni. E da quel momento in 11 R. TARAS (ed.), Postcommunist Presidents, Cambridge, 1997. 12 Secondo le parole dello stesso Nazarbaev, in «Nezavisimaja Gazeta», 12 gennaio 2004, p.1. 13 Per una analisi di questa svolta nella vita politica interna kazaka: B. BALCI, Les élections législatives de decémbre 1995 au Kazakhstan, in «Bulletin de l’Observatoire de l’Asie centrale et du Caucase», février 1996, 1, pp. 18-20.

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poi il paese ha conosciuto una lunga serie d’emendamenti costituzionali e plebisciti volti a modellare il dettato legislativo con l’ordine delle cose e gli interessi del regime. Questi ha altresì esercitato un’accorta e puntuale rotazione dei quadri la quale, unita ad una centralizzazione crescente e a rimaneggiamenti territoriali delle unità amministrative, ha permesso d’instaurare un controllo effettivo sull’insieme del campo politico.

La forza del sistema di Nazarbaev è stata nell’abilità nel neutralizzare tutte le potenziali forze antagoniste attraverso metodi differenziati che comprendono sia la repressione che la cooptazione nei ranghi del potere. Nel corso degli anni, Nazarbaev ha compiuto altri passi volti ad assicurare al proprio regime il pieno controllo del potere politico e fissa quest’ordine di cose facendo adottare dal parlamento la cosiddetta Legge del primo presidente (27 giugno 2000), la quale garantisce l’immunità perpetua di Nazarbaev e la sua futura influenza sul sistema politico anche dopo l’uscita formale dalla scena istituzionale.

Regnando su un paese immenso, sottoposto a numerose forze centrifughe, Nazarbaev ha operato una modifica sapiente del rapporto fra centro e periferie, dialettica essenziale ereditata dal sistema sovietico. Se il centro ha mantenuto il controllo diretto tramite la nomina dei governatori regionali (akim), i poteri di questi ultimi sono rafforzati in modo che essi fungano da garanzia della necessaria mobilitazione dei votanti in occasione dei numerosi esercizi elettorali e più in generale della legittimazione del regime a livello regionale. Questa decentralizzazione de facto deriva anche dal relativo, a confronto dei vicini, pluralismo partitico, il quale ha permesso ai leader regionali di appropriarsi di risorse già a disposizione dell’apparato del Pcus, ciò che ne ha ulteriormente aumentato il potere e il margine di manovra nell’implementazione delle politiche del centro.

Parallelamente, quale apertura formale alla decentralizzazione, è stato conservato il principio dell’eleggibilità delle assemblee regionali. Il potere centrale è stato favorito dalle difficoltà oggettive che incontrava la formazione di una contro-élite proprio in virtù dell’immensità delle distanze tra i diversi centri urbani, così che potenziali leader alternativi venivano facilmente cooptati nell’élite o marginalizzati dall’impossibilità di strutturare reti di supporto su scala nazionale.

Un altro elemento strutturale che va tenuto presente è come il sistema si sia ristrutturato accentuando il principio etno-nazionalista in nuce nella costruzione nazionale sovietica. In tal modo l’appartenenza all’etnia kazaka è divenuto un pre-requisito importante per trovare lavoro o fare carriera. In un contesto in cui la nazionalità eponima del paese costituiva solo una risicata maggioranza, tale situazione ha posto una parte consistente della popolazione in una zona grigia di non diritto sottolineata dall’ambiguità della definizione ufficiale della cittadinanza, oscillante fra ius solis e ius sanguinis.

A livello generale, il principale fattore che ha dato forma al sistema è stata la piena affermazione del controllo del clan presidenziale sulla vita economica del

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paese. Di fronte alla precarietà della tenuta interna, la chiave del successo di Nazarbaev in tale impresa è in larga misura risieduta nel bilanciamento delle fonti di supporto interne con quelle internazionali. Accondiscendendo all’introduzione di un indirizzo di politica economica generale d’ispirazione liberista, così come richiesto dal grande capitale transnazionale che si andava allora installando nel settore energetico del paese, il regime si è assicurato il silenzio dei censori internazionali della democratizzazione14. Allo stesso tempo, il regime ha tratto dal contesto internazionale solo quegli elementi che potevano essergli utili nell’opera di consolidamento interno, scartando allo stesso tempo quanto avrebbe rimesso in gioco rendite e monopoli controllati dall’élite.

Sulla falsariga di quanto avveniva contemporaneamente in Russia, Nazarbaev ha così eliminato la vecchia guardia contraria alle privatizzazioni e ai programmi del Fondo Monetario Internazionale (Fmi). A determinare la vita del paese sono dunque sorti alcuni grandi gruppi finanziari, fra i quali primeggiano quelli controllati da parenti di Nazarbaev15, i quali si sono anche ripartiti i principali media spingendosi in alcuni casi fino ad operazioni d’ingegneria partitica volte ad assicurare i loro interessi all’interno delle istituzioni.

Nonostante il fatto che alcuni rappresentanti dei gruppi oligarchici abbiano sfidato il sistema cercando di creare un’opposizione politica strutturata, Nazarbaev ha dato finora prova della massima abilità politica riuscendo a neutralizzare le fronde successive tramite un utilizzo disinvolto della giustizia e di altri strumenti extra-legali16, ciò che fa giustizia di anni di retorica riformista nel senso dello stato di diritto.

Ciononostante, all’interno del girone ex sovietico, ma anche al di là di esso, con gli anni il regime di Nazarbaev è andato acquistando un crescente prestigio frutto sia del finora riuscito sviluppo economico che della capacità ineguagliata di soddisfare il capitale internazionale presente nel paese, distribuire risorse per arricchire la propria sfera famigliare e clientelare, coordinare le spinte centrifughe ed evitare i nefasti scenari di conflitto che venivano prescritti come quasi inevitabili nei primi anni d’indipendenza.

14 M. CERIMELE, A che serve la democrazia? Stato, mercato e sviluppo nel Kazachstan post-sovietico, cit. 15 EVRAZIJSKIJ CENTR POLITICESKIKH ISSLEDOVANIJ, AGENSTVO “EPICENTR”, “Gruppy vliyaniya” v vlastno-političeskoj sisteme Respubliki Kazakhstan (I “gruppi d’influenza” nel sistema politico di potere della repubblica del Kazachstan), 29 noiab’r 2005, http://www.mizinov.net/articles/10280. 16 In particolare, fra il 2001 e il 2002 quando gli ex uomini del regime Murat Abljazov e Galimžan Žakjanov vennero arrestati dopo che erano riusciti a riunire i principali oppositori del paese nel blocco Dvk (Scelta democratica del Kazachstan).

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2.2 Kirghizistan

A fronte dei successi e dell’equilibrio nell’implementazione delle ristrutturazioni capitalistiche propri all’esperienza kazaka, quella del Kirghizistan offre l’esempio di un paese che dal primo momento della scomparsa della struttura federale sovietica, non ha cessato di oscillare fra differenti esperimenti istituzionali teoricamente destinate a sviluppo, democratizzazione e effettiva governance ma portatori nei fatti di profondo disordine, per il paese così come per l’insieme della regione.

A lungo il Kirghizistan è stato considerato il modello per l’applicazione del paradigma della transizione alla regione centroasiatica. Anche qui molto è dipeso dalla figura del primo presidente, Askar Akaev, l’unico leader centroasiatico all’alba dell’indipendenza a non provenire dalla nomenklatura del Pcus, ma bensì dal mondo accademico. Cosciente delle simpatie che tale fatto gli procurava in ambito internazionale, Akaev aveva sognato nella prima metà degli anni Novanta di fare del suo paese un’“isola di democrazia” sullo sfondo autoritario della regione. Per qualche anno sembrò funzionare. La prima Costituzione, emanata nel maggio 1993, era interamente modellata sui principi del liberalismo anglosassone, con la connessa enfasi sui diritti umani, a cui il paese venne dedicato17. Akaev condannava duramente il “totalitarismo” introducendo le più disparate riforme con il plauso e l’assistenza di differenti istituzioni sopranazionali. Fra queste, il Fmi il quale suggerì una riforma d’aggiustamento strutturale con effetti devastanti per la struttura economica del paese. Su tale sfondo, al centro divenne rapidamente chiaro che con gli strumenti propri dei regimi liberali non sarebbe stato possibile governare un paese profondamente diviso da una frattura generale nord/sud e, all’interno di queste macroregioni, da una struttura clanica particolarmente frammentata (all’incirca una quarantina di gruppi). In tale contesto, data la scarsità di risorse materiali e le stridenti contraddizioni regionali, gli istituti democratici non potevano che risultare un guscio vuoto, secondario rispetto all’esigenza di assicurare la tenuta del paese nelle frontiere ereditate dall’Urss. Da un lato, Akaev dovette fare sempre più riferimento ai suoi sponsor internazionali. A tal punto, in una condizione che perdura ancora oggi, che il Kirghizistan può essere descritto quale un “protettorato internazionale” 18 . La differenza rispetto al periodo precedente al 1991 sta nel fatto che invece di doversi rapportare a un’unica potenza ordinatrice, il paese deve ora far riferimento a un’insieme di soggetti trans-nazionali (ma in maggioranza anglo-americani), senza il supporto dei quali lo stato non sarebbe in grado di assicurare le funzioni più basilari dell’amministrazione pubblica quali l’educazione, le strutture di sicurezza e la sanità. Tuttavia l’appoggio internazionale da un lato non era 17 Secondo lo slogan “Kyrgyzstan strana prav čeloveka” (Il Kirghizistan paese dei diritti dell’uomo), cfr. S. ISLAM, Capitalism on the Silk Route?, in M. MANDELBAUM, Central Asia and the World, New York, 1994, pp. 147-176. 18 B.M. PÉTRIC, Post-Soviet Kyrgyzstan or the Birth of a Globalized Protectorate, in «Central Asian Survey», 24, 2005, 3, pp. 319-332.

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sufficiente, dall’altro i suoi referenti interni, la collettività degli operatori delle Ong create dai programmi di cooperazione, premeva per la continuazione delle riforme, senza tenere in considerazione gli effetti profondi per la società, per alcuni in preda ad una sorta di “surriscaldamento da modernizzazione”19.

Il regime cominciò dapprima ad applicare pressioni crescenti sui media20, poi, con il crescere dei disastri sociali provocati dal nuovo corso economico e il conseguente innalzamento del livello delle critiche da parte delle opposizioni, dovette cercare di ricostruire una linea verticale di potere in grado di mantenere il contatto fra il centro e le regioni. Akaev cominciò un crescente ricorso allo strumento referendario, allo scopo di scavalcare il legislativo e poter così procedere con la linea di transizione prescelta. Sull’esempio di Nazarbaev, mise in piedi un sistema piramidale al cui vertice stavano i membri ed i prossimi della famiglia presidenziale i quali a loro volta garantivano il tornaconto di una serie di clan e gruppi d’interesse economici. Tuttavia, la più elevata frammentazione interna e povertà rendevano molto più difficile la tenuta interna del sistema. A poco servì anche fare ricorso ai miti mobilizzatori del nazionalismo i quali trovarono un’eco soffusa, non sufficiente a superare né la frammentazione clanica regionale né l’alienazione crescente delle masse rurali sempre più esposte agli effetti delle ristrutturazioni liberali21.

Il sistema di Akaev entrò in crisi con l’avvicinarsi delle elezioni per il rinnovo del parlamento e della presidenza del 2005. Da un lato, gli interessi consolidatisi intorno al regime compirono innumerevoli e goffi tentativi volti a mantenere inalterati i propri privilegi. Dall’altro la lunga serie di scontenti dello stato corrente delle cose iniziò a uscire dai ranghi. Il risultato finale fu il primo cambio di regime nell’area centroasiatica. Attori principali ne furono le masse di diseredati mobilitati verso i palazzi del potere dagli oppositori, contadini o sotto-proletari di recente urbanizzazione i quali espressero una sorta di vendetta delle campagne contro una capitale percepita come indifferente al degrado delle loro condizioni di vita.

Il successivo evolversi della vita politica del paese ne conferma la crisi strutturale, frutto in buona parte di un erronea applicazione di schemi alieni alla sua realtà. Il nuovo regime di Kurmanbek Bakiyev si è rapidamente ritrovato nella condizione di Akaev.

Le pratiche nepotistiche e la corruzione sono continuate, allargandosi e corrodendo sempre più l'insieme della cosa pubblica. Al fine di essere eletto senza complicazioni ed evitare di approfondire le tensioni fra il nord e il sud del paese,

19 Secondo un’espressione dell’ex direttore del Centro di Studi strategici del paese, V.B. Bogatyrev. Intervista dell’autore, Bishkek, 23 marzo 2007. 20 Sin dal 1994 si segnala il perseguimento giudiziario di giornalisti scomodi al regime. Cfr. B. PANNIER, Backsliding in Kirgyzstan, in «Transition», 1, 1995, 18, pp. 80-81. 21 E. HUSKEY, An Economy of Authoritarianism? in IDEM (ed.), Power and Change in Central Asia, London, 2002, pp. 76-96.

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Bakiyev sottoscrisse un patto pre-elettorale con l’unica altra personalità che potesse aspirare alla presidenza nel dopo-Akaev, il generale e anch’egli ex ministro Felix Kulov. Molto dubbio in termini costituzionali, l’accordo riservava a questi la guida del governo. Nel frattempo il nuovo regime si è trovato a condurre un costante braccio di ferro con l’opposizione, la quale ha continuato a fare ricorso alla piazza, paralizzando più volte la vita della capitale. Alla fine del 2006, Bakiyev aveva accettato di ridurre le prerogative della presidenza con l’introduzione di una costituzione di stampo parlamentare. Tuttavia, dopo poco più d’un mese, il presidente ribaltava il compromesso raggiunto e faceva votare dal parlamento (da lui largamente controllato) una nuova carta fondamentale che in pratica restaurava l’egemonia della massima carica. A quel punto, dopo un anno e mezzo d’intesa, Bakiyev ha anche estromesso il Primo ministro facendo in modo che non venisse riconfermato dal parlamento dopo che Kulov aveva presentato le dimissioni dell’esecutivo in seguito alla crisi costituzionale. Kulov ha così raggiunto il fronte delle opposizioni portando ad un confronto ancora in corso mentre scriviamo. L’accusa principale rivolta al presidente continua ad essere l’incapacità a portare a termine le riforme. In realtà il problema del Kirghizistan sta nel fallimento del tentativo di creare un apparato statale funzionante, ciò che induce una condizione di crisi a carattere endemico nell’assenza di un élite dirigente e d’una opposizione in grado di avanzare proposte concrete. Al suo posto troviamo una costellazione frammentata di piccoli capi regionali e tribali, privi di programmi politici, i quali piuttosto che dirigere subiscono anch’essi il corso degli eventi. Le richieste di riforme celano con difficoltà esigenze di redistribuzione di ricchezza e potere mentre i partiti con i loro programmi politici sono solo un involucro per gruppi d’interesse finanziario o regionale, in una prospettiva in cui la politica è in primo luogo un’arena in cui si gioca per inserire i propri rappresentanti all’interno delle strutture di potere in modo da poter meglio affermare i propri interessi a livello locale.

2.3 Tagikistan

In un’ipotetica graduatoria regionale del grado d’apertura politica, il Tagikistan si colloca in una posizione intermedia fra la precedente coppia più pluralista e il blocco autoritario rappresentato da Uzbekistan e Turkmenistan. Il paese si erge quale esperienza a sé poiché marcata dal conflitto civile che lo ha devastato fra il 1992 e il 1997, un fatto che ha impedito al sistema politico di assumere tratti ben definiti.

La delimitazione nazionale sovietica degli anni Trenta creò in Tagikistan un soggetto particolarmente squilibrato, dove il problema principale era il basso grado di auto-identificazione delle province con il centro22. Le rivalità regionali

22 Si veda il numero speciale (Le Tadjikistan existe-t-il?) di «Cahiers d’Etudes sur la Méditerranée Orientale et le monde Turco Iranien», 18, juillet-décembre 1994.

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esplosero in conflitto non appena l’improvvisa indipendenza fece venire meno il fattore esterno che aveva assicurato la tenuta del sistema. Nondimeno, la guerra civile venne interpretata erroneamente quale un confronto fra forze del vecchio regime e gruppi d’ispirazione democratica.

La figura di Imomali Rakhmonov, un oscuro quadro di secondo livello, venne innalzata alla presidenza da parte della coalizione al potere, probabilmente nella convinzione che, dato il suo basso profilo e l’assenza di una rete strutturata di supporto a livello nazionale, questi sarebbe stato più facilmente manipolabile in una fase di passaggio. Al contrario, Rakhmonov è riuscito sorprendentemente a sopravvivere alle sue eminenze grigie e giostrando fra l’alto livello di conflittualità all’interno della stessa coalizione governativa, a mantenere il potere presentandosi quale artefice della riconciliazione nazionale.

La congiuntura successiva alla guerra civile suscitò elevate aspettative fra gli attori della democratizzazione in Asia centrale. La cessazione delle ostilità si fondava su un Accordo di riconciliazione nazionale il quale prevedeva meccanismi istituzionali e pratiche volti ad assicurare l’accesso al potere ai membri dell’opposizione, per i quali veniva riservato il 30 per cento delle cariche pubbliche. La singolarità della situazione tagika sta anche nel riconoscimento di una legittimità politica ai membri dell’opposizione islamista (Partito della rinascita islamica, Pri), un unicum in una regione in cui le forze rifacentesi all’islam politico vengono represse in ogni modo in quanto presentate quale minaccia alle istituzioni laiche.

Se la presidenza è stata in qualche modo costretta a confrontarsi con eletti dal popolo per la composizione dell’esecutivo, tale situazione è stata più che altro il portato di un conflitto intestino che ha lacerato il paese senza che nessuna delle parti fosse in grado di prevalere sugli oppositori. Nella misura in cui la situazione è andata stabilizzandosi, il regime ha cercato di espellere gli avversari politici quasi li considerasse un corpo estraneo, così che il paese ha conosciuto una “normalizzazione” autoritaria, in linea con le più generali tendenze centroasiatiche23 . L’élite al potere con Rakhmonov ha continuato a far uso di strumenti repressivi per affermare ed allargare la propria sfera di controllo tramite il costante rafforzamento dell’istituto della presidenza. La costituzione in vigore, che di base è ancora quella adottata nel 1994, ha subito continui rimaneggiamenti così che contiene numerose contraddizioni. Essa assegna al presidente la nomina dei sindaci e dei governatori regionali, prerogativa di cui Rakhmonov ha più volte usufruito per allontanare ex membri dell’opposizione, distorcendo in tal modo il dettato dell’accordo di riconciliazione nazionale. Il potere giudiziario è dichiarato indipendente ma il presidente può dimettere e nominare i giudici, oltre che influenzare la Corte costituzionale tramite il controllo sul parlamento del partito presidenziale (Partito democratico del popolo). D’altronde, in violazione alla

23 J. GRÄVINGHOLT, Statehood and Governance: Challenges in Central Asia and the Southern Caucasus, Deutsches Institut für Entwicklungspolitik, «Briefing Paper», February 2007.

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Legge sull’amnistia parte degli accordi del 1997, molti ex antagonisti del presidente sono stati portati innanzi alla giustizia per presunti crimini commessi prima della pacificazione.

La “guerra al terrorismo” ha costituito un’occasione inattesa per Rakhmonov, il quale ne ha ricavato risorse aggiuntive per consolidare la propria presa sul paese. Nel 2003, l’attuale presidente ha riguadagnato il distacco dai suoi colleghi regionali, estendendo il proprio mandato da cinque a sette anni ed introducendo per se stesso la possibilità di concorrere per due mandati aggiuntivi. Il tutto tramite un referendum dove i cittadini erano chiamati contemporaneamente ad esprimersi su un pacchetto di 50 emendamenti costituzionali, le cui modalità sfidavano qualsiasi decenza internazionale24.

Il clima creato nella regione dall’emergenza “anti-terrorista” post-2001 ha favorito il riemergere di un rinnovato discorso pubblico sulla “minaccia islamica”, anche questo una costante nei percorsi istituzionali regionali. Rakhmonov ha comunque cura a bilanciare le proprie mosse liberticide con atti d’apertura, dovendo tenere in considerazioni che le fonti esterne di finanziamento – soprattutto quelle destinate al cospicuo terzo settore - restano fra le voci principali del bilancio nazionale25.

Il sistema vanta ancora un certo pluralismo politico ma esso è sempre meno sostanziale. Esemplare il rapporto del potere con il Partito della rinascita islamica, il quale, pur avendo perduto presa nel sociale viene mantenuto quale interlocutore privilegiato, proprio perché inoffensivo nei confronti del regime in forza delle sue crescenti divisioni interne. In ogni caso, i partiti si sono sempre più svuotati di senso e gli equilibri dell’élite si determinano facendo affidamento sui legami di solidarietà e di parentela piuttosto che sulle alleanze politiche26.

Negli ultimi due anni, mentre la presidenza ha ulteriormente accentrato la sua presa su politica ed economia, assorbita dai problemi crescenti nel confinante Afghanistan, la comunità internazionale è sembrata accettare l’interpretazione che dipinge Rakhmonov quale principale e unico garante della stabilità e dunque di una gradualità del cambiamento, che tuttavia non sembra portare ad alcun sviluppo positivo nell’apertura del sistema politico.

Così, a un decennio dalla firma degli accordi di pace, il paese appare tuttora in una situazione di stallo, nella quale rimangono aperte le cause da cui la guerra civile era emersa, con il presidente che a tratti appare inconsapevole della reale situazione delle periferie, dove cresce alienazione nei confronti dello stato a causa della corruzione generale e della mancanza d’accesso a cariche e ricchezze 24 Z. ABDULLAEV - S. NAZAROVA, Tajikistan: Referendum Result Controversy, Institute for War and Peace Reporting, 28 June 2003. 25 M.B. OLCOTT, Central Asia’s Second Chance, Carnegie Endowment for International Peace, Washington, 2005. 26 INTERNATIONAL CRISIS GROUP, Tajikistan’s Politics: Confrontation or Consolidation, «Asia Briefing», 19 May 2004.

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monopolizzate dalla burocrazia centrale.

2.4 Uzbekistan

In virtù della propria posizione centrale e del peso demografico (oltre la metà della popolazione centroasiatica), l’Uzbekistan influenza in profondità la vita della regione, tendenze politiche incluse. Dopo l’uscita dalla compagine federale, l’élite al potere ha effettuato una chiara scelta basata sul ruolo centrale dello stato nel condurre il passaggio all’indipendenza. Durante il periodo sovietico, lo stato uzbeko, che quale perno del sistema d’amministrazione dell’Asia centrale aveva potuto disporre di ingenti risorse economiche nel migliorare le condizioni di vita delle masse, si è radicato in profondità fra la popolazione.

Benché l’attuale Uzbekistan sia una creatura geopolitica artificiale composta da territori appartenuti nel corso della storia a differenti formazioni politiche, sul suo territorio si concentra la memoria storica dei principali sistemi statali preesistenti l’entrata della regione nella compagine imperiale russa. Il mantenimento della centralità dell’apparato direttivo burocratico-amministrativo è stato analizzato da esperti locali alla luce delle considerazioni di Karl Wittfogel sulla permanenza di tali strutture nelle cosiddette società idrauliche27. Tanto è vero che lo stato uzbeko controlla tuttora il settore agricolo (produzione di cotone) attraverso una rete di comunità locali (makhalla) integrate nell’amministrazione pubblica come già in precedenza nel sistema dei kolchoz.

Ad un livello più esteso, la vita politica nazionale si organizza su clan a base regionale, i cui principali sono quelli di Samarcanda, Ferghana e Bukhara. La rete dei gruppi politici regionali si collega con gli interessi economici e commerciali per via del mantenimento del controllo statale sulle principali attività economiche del paese. L’intreccio di potere politico ed economico esprime un elevato livello di interdipendenza fra tutte le classi privilegiate e le strutture statali formando la base di sostegno del presidente Islam Karimov28. In uno schema patrimonialista, la lealtà a Karimov è tradotta in privilegi nella sfera economica, per mantenere i quali le élite hanno offerto qualsiasi supporto il vertice richiedesse loro.

La forza degli interessi consolidati in tale blocco è stata tale da sabotare i tentativi di democratizzazione, che aumentando la trasparenza del sistema e la partecipazione popolare, sarebbero andati ad intaccare privilegi consolidati. L’accentramento è stato favorito dal contesto dei primi anni d’indipendenza quando il crollo della situazione di sicurezza in Tagikistan e la degradazione delle

27 K. A. WITTFOGEL, Oriental Despotism. A Comparative Study of Total Power, New Haven, 1957 (tr. it., Il dispotismo orientale, I-II, Firenze, 1968). Per la sua applicazione al contesto uzbeko post-sovietico Cfr. E. ABDULLAEV, Uzbekistan between Traditionalism and Westernization, in B. RUMER (ed.), Central Asia at the End of Transition, New York/London, 2005, pp. 267-66. 28 E. AKERMAN, Power & Wealth in Central Asian Politics: Clan Structures versus Democratisation, The Conflict Studies Research Centre, Royal Military Academy, London, 2002.

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condizioni di vita presso i vicini per effetto delle “terapie shock” neoliberali sembravano giustificare il corso politico di Karimov. In parallelo questi ha tratto un’altra importante risorsa volta al consolidamento del proprio regime dalla manipolazione storiografica e propagandistica del passato uzbeko. Con un’intensità a tratti di carattere totalitario, è stata elaborata un ideologia dell’“indipendenza nazionale” la quale ha ripreso meccanismi della propaganda sovietica, quali la lotta alle idee “aliene e distruttive” e la glorificazione dell’autorità presidenziale in un’assimilazione analogica che proietta un’irreale grandezza passata sul radioso futuro che la guida del leader fornirà al paese al fine di giustificare tutte le forzature del sistema.

Se il sistema di clientelismo di stato con i suoi meccanismi di propaganda ha presentato nel corso degli anni Novanta un elevato grado di coerenza, con l’esaurirsi delle risorse economiche in virtù della forte crescita demografica e del corso di politica estera improntato all’autarchia e al contrasto con la Russia, le cose hanno cominciato a deteriorarsi. Le chiusure del sistema hanno cominciato a costituire un serio freno allo sviluppo delle attività imprenditoriali con la creazione di contrasti fra i gruppi dediti ai settori rentier dell’economia e quelli emergenti legati al commercio e alla finanza. La degradazione economica ha dato un forte impulso alla corruzione. In un contesto di crescente ricorso a misure coercitive a livello di politica generale, i pubblici ufficiali e le forze dell’ordine sono stati incoraggiati a comportamenti di tipo predatorio a tutti i livelli. Soprattutto, il ristagno ha incrinato l’equilibrio fra i principali clan del paese. A farne le spese è stato quello della valle di Ferghana, il punto più sensibile del paese dove risiede oltre un terzo della popolazione e si concentrano le principali attività agricole e industriali. Sempre qui, sono maggiormente marcati i problemi sociali e demografici che vanno a intrecciarsi con la presa più salda dell’Islam sulla collettività, una concentrazione di condizioni per lo sviluppo di forme virulente di protesta che costituisce il maggior motivo di apprensione per le autorità centrali.

Un’espressione del crescente contrasto fra la valle di Ferghana ed il potere centrale sono stati i fatti di Andijan 29 , quando sullo sfondo dell’anarchia nel vicino Kirghizistan, i gruppi economici colpiti dalle manovre del centro non hanno esitato a manipolare il malcontento popolare per cercare di rafforzare la propria posizione nei confronti del governo il quale ha risposto con pugno di ferro alla sfida locale.

I fatti di Andijan hanno indicato come il regime sia sempre più incline ad usare la violenza quale mezzo di risoluzione delle controversie politiche. Sin dai primi anni di sovranità, Karimov ha sfruttato a fondo il tema della stabilità politica e

29 Venerdì 13 maggio 2005, in circostanze che restano ancor da chiarire, le forze dell’ordine uzbeke comandate dal presidente Karimov in persona aprono il fuoco sulla folla radunatisi nella cittadina di Andijan (valle di Ferghana uzbeka). I resoconti sul numero delle vittime variano dalle 150 alle migliaia.

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delle minaccia islamista, reale o percepita, incombenti sul paese e di converso sulla regione tutta. Tali temi sono stati “securitizzati”30, ossia sottratti al dibattito e al campo della politica e volutamente esasperati per giustificare ogni genere di repressione interna. La sicurezza è assurta a valore assoluto, al quale è stata sacrificata ogni prospettiva di riforma politica, con un parallelo rafforzamento delle strutture di sicurezza e una chiusura delle possibilità d’accesso ai vertici dell’élite. Allo stesso tempo è cresciuta la volontà di controllo totale sulle organizzazioni sociali e non-governative le quali sono state represse tramite restrizioni legali, blocchi delle disponibilità finanziarie e varie misure intimidatorie.

2.5 Turkmenistan

Il Turkmenistan occupa il punto estremo dello spettro politico centroasiatico – in verità non ampio – avvicinandosi di molto alla definizione di un sistema totalitario. Va detto che anche prima dell’indipendenza questa era fisicamente e culturalmente una delle parti più isolate dell’Urss, dove conseguentemente furono meno avvertiti i rinnovamenti dell’epoca della perestrojka, così che mancava il materiale sociale attraverso cui tentare una democratizzazione del paese31.

Il fattore personale ha giocato un ruolo considerevole nel definire il profilo politico del Turkmenistan post-sovietico. Per 21 anni, fino alla sua scomparsa nel dicembre 2006, la vita pubblica è stata dominata dalla figura del presidente Saparmurat Niyazov. Nominatosi Turkmenbashi (“padre dei turkmeni”), Niyazov si è differenziato dai suoi colleghi e vicini per una certa onestà intellettuale nei confronti del discorso della democratizzazione. Pur seguendo le tendenze regionali volte a creare istituzioni formali sul modello occidentale, l’ex presidente ha sempre messo in chiaro che l’influenza internazionale sarebbe stata subordinata alla sua concezione degli interessi nazionali, vantando la necessità di preservare il carattere “orientale” del paese in quanto maggiormente indicato al carattere ed alle esigenze della popolazione32.

Facendo seguire i fatti alle parole, solo fra tutti gli eredi del sistema sovietico, Niyazov ha conservato il sistema a partito unico (ribattezzando il Partito comunista quale Partito democratico), ha organizzato plebisciti referendari per dapprima estendere e poi promulgare a vita il proprio mandato presidenziale e introdotto un culto della propria personalità che estremizzava i fasti staliniani. 30 Secondo la terminologia di B. Buzan, che con essa definisce una precisa strategia dei gruppi di potere volta a definire alcune questioni politiche quali minacce esistenziali per l’ordine pubblico, da delegare all’ambito esclusivo dell’azione delle forze dell’ordine¸ B. BUZAN, People, States and Fear, Boulder, 1991. 31 Čto budet v Turkmenistane? (Cosa avverrà in Turkmenistan?), «Carnegie Working Paper», Moscow Center, n. 1, 2007. 32 Si veda ad esempio l’intervista concessa dal presidente a «L’Unità» (La democrazia, roba da Occidente), 2 novembre 1994.

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Il risultato politico conseguito è una forma estremamente accentrata di potere patrimoniale personale, definibile quale “sultanistica” in virtù dell’assenza di strutture d’intermediazione fra il vertice e le masse, in cui l’apparato amministrativo e militare agiscono quali puri strumenti personali del presidente sulla base di pulsioni elementari quali il timore della punizione e il desiderio di ricompensa 33 . Niyazov è riuscito a controllare sapientemente l’equilibrio dei cinque principali clan del paese e a impedire il consolidamento di poli di potere alternativi attraverso una rotazione ininterrotta di personalità differenti alle principali cariche pubbliche.

Sul piano costituzionale, il presidente è contemporaneamente capo dello stato, del governo e delle forze armate e dispone inoltre di una facoltà illimitata d’emissione di decreti aventi immediato valore di legge, del diritto esclusivo di nomina dei magistrati, dei procuratori e di tutte le cariche direzionali regionali.34 Il potere legislativo inizialmente rappresentato da un parlamento (Mejlis) di 50 deputati è stato svuotato di senso tramite l’introduzione di un Consiglio del popolo (Khalq Maslikhaty) dove si radunano oltre ai normali parlamentari, i rappresentanti dei distretti e gli hakim nominati dal presidente. Il Consiglio, organo di rappresentanza suprema ma senza poteri effettivi, presenta similarità con strutture analoghe del Barhein e della Giordania, ma, data la composizione allargata a 2507 persone e il fatto che sia prevista una sola sessione annua, rappresenta più un’assemblea tribale che altro35.

Niyazov non si è limitato ad estendere il suo controllo a tutti gli ambiti della vita pubblica e a costruire un culto stalinista della personalità. Nel quadro di una propaganda massiccia sul suo ruolo nel riportare i turkmeni ad una presunta perduta grandezza, il presidente aveva, con la pubblicazione del Rukhnama (Libro dell’anima) nel 2002, tentato di attribuire caratteri sacrali alla propria persona36. L’assiduità con cui questo e un ristretto numero di messaggi decisi dal vertice bombarda le masse, l’ubiquità della figura del presidente, l’assenza di qualsiasi contenuto impegnato danno al sistema mediatico turkmeno un carattere surreale, degno di Orwell.

Va da sé che un tale sistema presenta uno dei peggiori record mondiali in termini di rispetto dei diritti umani – libertà personali gravemente ristrette, serie limitazioni alla libertà di movimento sia all’interno che all’estero, negazione dei diritti delle minoranze etniche e religiose. Prima della scomparsa di Niyazov, la morte in detenzione della giornalista O. Muradova ha messo in evidenza

33 H.E. CHEHABI - J.J. LINZ, Sultanistic Regimes, Baltimore, 1998. La definizione è di Weber che in Economia e società (tr. it., Milano, 1957) caratterizzava tali regimi per la loro assenza di fondamento ideologico e carismatico. 34 Cfr. A. GIROUX, Les Etats d’Asie centrale face à l’indépendance, in «Le courrier des pays de l’Est», avril 1994, 388, pp. 3-43. 35 Cfr. J. ANDERSON, Authoritarian Political Development in Central Asia: The Case of Turkmenistan, in «Central Asian Survey», 14, 1995, 4, pp. 509-527. 36 Esiste, ovviamente, anche un sito: http://ruhnama.info.

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l’isolamento totale del sistema carcerario (con uno dei numeri di detenuti fra i più elevati al mondo) e l’uso sistematico della tortura per i crimini d’opinione37. Il tutto nell’ambito di uno sforzo sistematico volto a isolare il paese da qualsiasi influenza proveniente dal resto del mondo – incluse quelle provenienti dalla sfera religiosa, nella quale il Turkmenistan spicca quale sola repubblica ex sovietica dove siano stati demoliti luoghi di culto appartenenti a confessioni “aliene”, ossia tutte quelle al di fuori dell’Islam ufficiale e della Chiesa ortodossa.

La situazione del Turkmenistan induce quindi ad una serie di interessanti riflessioni a riguardo della tematica della democratizzazione e dell’evoluzione dei sistemi politici centroasiatici.

Innanzitutto appare evidente come, in presenza di ingenti risorse energetiche, la comunità internazionale sia incline ad un ampio grado d’indulgenza. L’autoritarismo dei regimi petroliferi può essere perdonato nel momento in cui serve ad assicurare uno stabile quadro interno quale precondizione all’entrata del capitale internazionale.

Ciò pone la questione della coerenza e della reputazione di organizzazioni quale l’Osce, le quali traggono la propria raison d’être anche dall’essere una comunità di valori, nei consessi della quale il Turkmenistan ha continuato a sedere senza che alle critiche verbali seguisse alcun risultato effettivo. Tale contraddizione è apparsa in maniera stridente nell’inverno del 2002, quando a seguito di un dubbio attentato contro Niyazov questi scatenò una repressione generale delle rimanenti sacche di dissenso. Dieci stati partecipanti decisero allora di avviare il cosiddetto “Meccanismo di Mosca”, prevedente la nomina di una commissione per l’esame di una situazione attinente a gravi violazioni dei diritti fondamentali. Ma Ashgabat si limitò a rifiutare di collaborare all’avvio del meccanismo e l’intera questione cadde nel dimenticatoio con grave danno d’immagine per l’organizzazione di Vienna38.

La situazione turkmena emerge quale particolarmente rilevante dopo la morte improvvisa di Niyazov, quando viene seguita con attenzione per valutare quali siano le possibilità di tenuta dei regimi centroasiatici dopo anni di accentramento dei sistemi attorno alle persone dei presidenti. Nonostante il fatto che tale elemento con Niyazov avesse raggiunto la massima intensità, ciò che faceva prevedere scenari di caos e paralisi, il passaggio si è finora svolto in modo tranquillo, benché la chiusura ermetica del paese agli sguardi esterni impedisca di valutare esattamente cosa si stia muovendo nei retroscena del potere. L’unica cosa certa è che il passaggio delle cariche si è svolto in spregio del dettato costituzionale, che, in caso di scomparsa del presidente, prevedeva che la sua carica venisse assunta ad interim dal presidente del parlamento. Questi, O. Ataev,

37 INTERNATIONAL CRISIS GROUP, Turkmenistan after Niyazov, «Asia Briefing» n. 60, 12 February 2007, p. 24. 38 E. ATHANASIOU, La dimension humaine de l’OSCE et la lutte contre le terrorisme, in «Droits fondamentaux», janvier-décembre 2004, 4.

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è stato al contrario incriminato ed arrestato, mentre lo scettro del potere è passato a Gurbanguly Berdymukhammedov, un alto funzionario “sopravvissuto” alle innumerevoli purghe niyazoviane, confermato nella carica da una tipica votazione plebiscitaria, sullo sfondo di una sostanziale condiscendenza da parte della comunità internazionale. La rapidità di tale processo fa inoltre sospettare che la scomparsa del tiranno non sia stata naturale ma che vada piuttosto interpretata quale effetto di una rivolta di “palazzo”, la quale potrebbe altresì servire da modello per altre successioni nella regione.

Tutte le ipotesi sul futuro della repubblica restano in ogni caso aperte. Il nuovo regime si trova di fronte ad enormi problemi, per affrontare i quali sarà probabilmente costretto ad introdurre mutamenti nel sistema di potere modellato sulla personalità del defunto presidente .

Va comunque notato che il Turkmenistan è il solo sistema centroasiatico con il Kazachstan a poter vantare un livello di capacità d’esercizio del potere uniforme sull’insieme del territorio nazionale, seppure ciò abbia preso la forma di un sistema poliziesco, tale successo sul piano della creazione delle istituzioni potrebbe rivelarsi quale il fattore decisivo nel garantire la tenuta del sistema, nonché un’importante lezione per le altre repubbliche.

3. Problemi nella definizione della sfera politica centroasiatica: sfide interne

Da questa rapida panoramica appare evidente che la vera scelta istituzionale effettuata dai regimi centroasiatici dopo la fine dell’Urss è stata nel senso di un sistema di tipo autoritario in cui, pur nel quadro dell’osservanza formale di un dettato costituzionale, la sede del potere è stata consapevolmente posta al di fuori degli ambiti normativi.

L’insuccesso degli schemi di democratizzazione applicati all’Asia centrale, così come le particolarità dello sviluppo politico delle 5 repubbliche, vanno esaminati comparando le contraddizioni fra i presupposti teorici del paradigma della transizione e le realtà culturali e politiche della regione. Come già accennato, la “transitologia” ha comportato un approccio estremamente ideologizzato ai problemi della regione, in cui ad alcuni fattori veniva assegnata un’importanza eccessiva mentre altri venivano oltremisura sottostimati 39 . Tra gli elementi sopravvalutati sicuramente l’impatto “totalitario” del sistema sovietico sulle realtà locali40 e la speranza di poter formare una base sociale che si facesse vettore del cambiamento in alternativa alle piramidi di potere delle presidenze. Tra quelli sottovalutati, la persistenza di caratteri premoderni nei sistemi di valori locali, la

39 C. POUJOL, How Can We Use the Concept of Transition in Central Asian Post-Soviet History? An Attempt to Set a New Approach, in Conference Proceedings: The Illusions of Transition: Which Perspectives for Central Asia and the Caucasus?, cit., pp. 7-19. 40 O. CAPPELLI, Democratizzazione o state-building? Riletture critiche della transizione postcomunista, cit.

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specificità e la profondità dell’impresa sovietica di gestione della politica, le particolarità delle segmentazioni tribali interne. Da quest’insieme di distorsioni deriva l’inconsistenza degli elementi di democrazia formale introdotti nelle pratiche di potere post-sovietiche, così come una serie di rischi sulle prospettive future di tenuta dei sistemi.

3.1 Assenza di ricettori interni, opposizioni e società civile

Fra i principali malintesi derivanti dall’approccio normativo della transizione vi è stata la pretesa d’individuare delle forze sociali locali pronte a farsi portatrici del cambiamento in senso democratico, sulla falsariga dell’esperienza in questo senso nei paesi dell’Europa orientale.

Se le aperture della breve stagione della perestrojka avevano infatti dato origine anche in Asia centrale a degli abbozzi di “processi endogeni di democratizzazione”41, questi non avevano però in alcun modo rappresentato dei movimenti popolari di massa paragonabile a quelli sorti nelle sezioni caucasica ed est-europea della federazione sovietica. Le opposizioni centroasiatiche hanno preso piede in alcuni settori della vecchia intelligencija sovietica, ossia fra minoranze urbane educate alla cultura russa e dunque profondamente sradicate dalla massa della popolazione – a confronto, i quadri dei partiti presidenziali successori del Pcus, in virtù del loro radicamento nei corpi sociali rurali, hanno sempre presentato un grado notevolmente più elevato di rappresentatività popolare. In Uzbekistan era ben visibile come i sedicenti partiti democratici liquidati da Karimov rappresentassero associazioni socioculturali radicate nei circoli letterari piuttosto che reali opposizioni politiche operative 42 . La democrazia appare quindi quale uno slogan tattico utilizzato a fini di lotta politica. Va infatti notato come sin dai loro esordi, a fianco delle rivendicazioni ecologiche e della contestazione del ruolo del Pcus, tali opposizioni non avessero esitato a manipolare slogan di stampo etno-nazionalista la cui evoluzione incontrollata, sullo sfondo degli scontri interetnici che caratterizzarono la dissoluzione dei sistemi comunisti, avrebbe potuto causare conseguenze imprevedibili per la delicata struttura della convivenza interetnica centroasiatica. In ogni caso, i partiti d’opposizione hanno mantenuto atteggiamenti massimalisti e intransigenti nei confronti dei regimi, favorendo così la propaganda di questi ultimi volta a bollarli come pericolosi per la stabilità, fatto di cui si può dubitare dato che tali soggetti si sono sempre più trovati emarginati, incapaci come sono stati di superare i loro personalismi e divisioni interne nonché di presentare un discorso pubblico in grado di trascendere le divisioni interetniche e interregionali tipiche del contesto centroasiatico. 41 C. POUJOL, Le concept de démocratie est-il applicable à l'Asie centrale post-soviétique? Réflexions sur la transition démocratique, in «Défense», janvier-février 2001, 91, pp. 32-36. 42Cfr. S. AKBARZADEH, Nation-Building in Uzbekistan, in «Central Asia Survey», 15, 1996, 1, pp. 23-32.

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Alla luce degli scarsi risultati sul piano partitico e mediatico, le speranze per il processo di democratizzazione si sono concentrate sulla società civile quale sua principale forza propulsiva43. Concretamente si è trattato qui di rappresentanti del terzo settore. La presenza di Ong è stata richiesta come obbligatoria per tutta una serie di programmi d’aiuto delle organizzazioni internazionali che hanno creato così la domanda per un loro sviluppo. Così come nel resto dello spazio post-sovietico, si è formata in Asia centrale una classe di operatori di Ong (npošniki), le quali, con supporto economico occidentale, si sono impegnate esattamente nelle funzioni lasciate scoperte dal ritiro della cosa pubblica supportato dallo stesso committente. Ci si può dunque chiedere quanto una tale classe sarebbe capace di sussistere in assenza della sua fonte ispiratrice. Nella visione di quest’ultima la società civile è evidentemente riferita all’eredità della dissidenza al regime sovietico, e dunque in opposizione allo stato “totalitario” e alla sua sfera d’azione nel campo economico e politico. Ma proprio una tale nozione di corpo sociale separato dalle sfere della politica e dell’economia è qualcosa di quanto mai assente dalla cultura della regione44.

Secondo alcuni autori la presenza di una società civile relativamente alla regione potrebbe dedursi distinguendo al suo interno una componente neo-liberale (ossia il settore indotto dalla cooperazione internazionale) da una comunitaria precipua a forme di autorganizzazione sociale riscontrabili in certe tradizioni secolari dei popoli della regione e esplicantisi in forme di mutuo soccorso (quale la corvée per la costruzione di piccole infrastrutture, denominata ašar presso i kazaki e i kirghizi) o di presa di decisioni a livello locale45. Tuttavia tali tradizioni informali sono precipuamente non antagoniste nei confronti del potere e dunque difficilmente classificabili in una concezione classica di società civile. Sotto tale categoria restano quindi le sole Ong, i cui leader risultano spesso anch’essi largamente alieni rispetto alle comunità locali dove si trovano a operare e dunque dubbi quali reali attori di cambiamenti sostanziali. Al contrario, nella loro totale dipendenza dai sussidi internazionali, piuttosto che agenti positivi di cambiamento essi sono stati in misura crescente percepiti dalla popolazione quali vettori di un modello estraneo e negativo, in un clima di risentimento e apatia che ha portato alla svalutazione dei valori democratici. Tale percezione si è acuita dopo gli eventi del marzo 2005 in Kirghizistan, dove gli operatori delle Ong sono apparsi quale una contro-élite manipolata dall’intervento straniero per determinare la politica nazionale 46 . In definitiva, appare come buona parte dell’azione

43 Ad esempio J. ANDERSON, Kyrgyzstan. Central Asia’s Island of Democracy, Amsterdam, 1999. 44 B.M. PÉTRIC, Post-Soviet Kyrgyzstan or the Birth of a Globalized Protectorate, cit. 45 B. BABAJANIAN et al., Civil Society in Central Asia and the Caucasus, in «Central Asia Survey», 24, 2005, 3, pp. 209-224. 46 A. MATVEEVA, Central Asia: A Strategic Framework for Peacebuilding, International Alert, February 2006.

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internazionale volta a stimolare la crescita della società civile sia frutto di una ricerca fuorviante, sovente un modo per spendere i fondi stanziati, ignorando, di nuovo, la complessa alterità della realtà centroasiatica rispetto alle società occidentali47.

Da notare ancora come questi settori d’opposizione, benché repressi, sono stati contemporaneamente manovrati dai regimi poiché necessari alla loro legittimità democratica di fronte all’audience internazionale, così che la presenza di surrogati d’opposizione con un diritto di partecipazione limitata alla vita pubblica e funzionanti a finanziamento occidentale ha contribuito a creare il sipario dietro a cui il potere controlla privatamente le risorse dello stato.

3.2 Il conflitto di valori fra paradigma della transizione e cultura locale

Osservando dall’esterno lo scarto esistente fra i valori dichiarati dai regimi e la realtà autoritaria dell’esercizio del potere, gli attori occidentali in Asia centrale si stupiscono di come questo possa venire accettato dai cittadini locali. Non è possibile spiegare il mantenimento di queste pratiche autoritarie prescindendo dagli orientamenti culturali precipui delle società centroasiatiche. Uno sguardo in questa direzione fornisce una prova aggiuntiva di come un’esperienza di adozione della modernizzazione di matrice occidentale non ha speranza di successo se non considera i sottili meccanismi interni tramite cui ogni società si pensa e si riproduce così che la trasformazione possa adattarsi al tipo di rapporti sociali esistente48.

Preannunciando l’argomento del paragrafo successivo, va notato come il considerevole grado di successo conseguito dalla modernizzazione sovietica nella regione sia consistito proprio nella sua capacità d’adattamento alle particolarità delle società locali le quali, sotto la sovrastruttura socialista hanno confermato elementi profondamente tradizionali e in alcuni casi addirittura definibili quali “pre-moderni.” Dal canto loro, le società centroasiatiche hanno dimostrato di avere un’attitudine a mantenere tratti specifici e antichi pur adattandosi a nuove tendenze, «una capacità speciale di mescolare in maniera abbastanza armoniosa concetti apparentemente antagonistici» in cui sta una delle chiavi principali per comprendere la storia della regione nel corso del XX secolo49.

Così, nel suo profondo l’Asia centrale è rimasta islamica nei suoi valori e nelle sue rappresentazioni collettive. Scomparsa la sovrastruttura precedente, settant’anni di ciò che nel suo impatto per la popolazione locale può essere assimilato a una sorta di “globalizzazione socialista”, questa, più che sforzarsi nei

47 O. ROY, The Predicament of “Civil Society” in Central Asia and the “Greater Middle East”, in «International Affairs», 81, 2005, 5. 48 A. CAILLÉ, Critique de la raison utilitaire, Paris, 1989. 49 C. POUJOL, How Can We Use the Concept of Transition in Central Asian Post-Soviet History? An Attempt to Set a New Approach, cit., p. 18.

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nuovi standard liberali a pretesa universale, è tornata a riscoprire le proprie pratiche ancestrali. Tanto più che, complice l’esposizione mediatica in negativo tipica del primo decennio post-sovietico, l’individualismo e le libertà senza freni della democrazia occidentale sono stati bollati da molti quali distruttivi per i valori tradizionali e destabilizzanti per la vita sociale. Da ciò è derivata una nuova attenzione all’etica della giustizia propria alla tradizione musulmana, dove un valore più accentuato è dato alla stabilità politica piuttosto che alla libertà di per sé. In tal senso, come altrove nel mondo, la concezione occidentale dei diritti umani si oppone alla cultura comunitaria di derivazione islamica la quale, e in questo in armonia con i valori del periodo socialista, pone l’accento sui doveri di collaborazione e di identificazione del singolo nella comunità piuttosto che su diritti individuali pensati in contrapposizione alla sfera collettiva50.

Ancora più a fondo dei valori islamici, in terre marcate dalla memoria dell’appartenenza all’impero mongolo di Gengis Khan, si possono trovare echi del principio patrimoniale della trasmissione dei feudi (ulus), sulla base di lignaggi associati a un “mandato dal Cielo”. Da qui una certa percezione sacrale di un potere a cui gli individui si sottomettono per evitare intromissioni “celesti” nella loro vita51, percezione mantenutasi largamente anche nel periodo comunista data la carica ideale del sistema e quindi riaffiorata – al massimo, come osservato, in Turkmenistan.

La capacità dei presidenti a mantenersi in carica non si spiega se non si tiene conto di queste particolarità antropologiche dell’area centroasiatica. Per la massa della popolazione, la figura presidenziale è apparsa quale garante dei resti del welfare socialista e degli argini contro una radicalizzazione di tipo islamico o etno-nazionalista. Tale elemento è ben evidente nell’esperienza del Kirghizistan sotto Akaev. A tutti era ben evidente come il presidente fosse un inetto la cui gestione era responsabile del degrado del paese. Non di meno Akaev poté reggersi al potere per 15 anni poiché, nelle parole di un analista della regione, la sua figura veniva “totemizzata” da parte della maggioranza della popolazione (ma in primo luogo dalle minoranze) che la percepiva quale principale garante della stabilità52.

Largamente rilevabile è poi una percezione del potere quale esercizio incontrastato della forza, necessariamente inflessibile a garanzia del mantenimento della stabilità. Dopo la scomparsa del sistema sovietico, quest’ultima è un valore primario. I centroasiatici condividono infatti con i russi la memoria di una storia millenaria intervallata da invasioni e altri cataclismi epocali.

50 D. ZOLO, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Milano, 1998. 51 N.N. KRADIN, Èlementy tradicionnoj vlasti v postsovetskoj političeskoj culture: antropologičeskij podxod (Elementi di potere tradizionale nella cultura politica post-sovietica: un approccio antropologico), Dumaem.ru, 10 mart 2006. Sull’eredità moderna dell’Impero mongolo dello stesso autore N.N. KRADIN, Imperia Čingis-khana (L’Impero di Gengis-Khan), Moskva, 2006. Sullo stesso tema cfr. C. LEMERCIER-QUELQUEJAY, La paix mongole, Paris, 1970. 52 O. BONDARENKO, Razmyšlenija o Kirgizskoj revoljucii.“Sistema Akaeva” i eë mogil’ščiki, janvar’ 2005, http://www.CentrAsia.org/newsA.php4?st=1106994900.

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Da ciò deriva un bisogno diffuso di sicurezza, il quale dopo essere stato a lungo soddisfatto dall’appartenenza alla potenza dotata del più forte esercito del mondo, è riemerso impetuosamente con la scomparsa di quest’ultima causando un profondo trauma per la società nel suo complesso.

Un’altra caratteristica antropologica basilare delle società centroasiatiche, altrettanto decisiva nell’influenzare il cambiamento politico, è costituito da patriarcalismo tanto più solido e radicato procedendo da nord verso sud. Esso deriva dall’influsso della famiglia allargata, la quale crea un profondo rispetto della gerarchia e dell’anzianità, il quale si riproduce nella segmentazione sociale su gruppi di solidarietà. Qui i consigli degli anziani (aksakal) sono venuti assumendo un peso crescente quali istanze consultative e di arbitraggio dei conflitti.

Da non trascurare inoltre fattori provenienti dalla dialettica fra il nomadismo delle steppe e il sedentarismo agricolo del sud, da sempre un filo rosso dell’evoluzione politica dell’area e come tale uno spartiacque culturale che si riconferma a ogni svolta storica dei destini locali. Non a caso è stato fra due popoli fuoriusciti dalla tradizione nomadica, kazaki e kirghizi, che i sistemi politici hanno dato prova di una più ampia apertura. Fra queste genti vige il cosiddetto principio della öldža, secondo cui, una volta che un gruppo sociale, tribù o clan, conquista l’egemonia interna alla collettività, nessuno deve contestare la stessa fino a quando il dominante sarà in grado d’assicurare l’ordine53. Tale principio pone l’obbligo al dominante di mantenere la lealtà dei subordinati. Non va inoltre dimenticato come, soprattutto nei contesti urbani, l’Unione Sovietica avesse creato con i suoi consolidati meccanismi di welfare un elevato livello di civiltà, il quale è andato seriamente degradandosi dopo il 1991 (con la particolare eccezione del Kazachstan) e il ricordo del quale mantiene non solo elevate aspettative presso la popolazione nei confronti dei governi ma anche l’avversione per i principi del liberalismo economico.

Di fronte a quest’insieme di fattori storici, antropologici e culturali, è evidente come un percorso d’instaurazione della democrazia debba seguire un approccio pensato per riflettere gli stessi al suo interno e in alcun modo non possa rifarsi all’imitazione dell’esperienza delle società occidentali.

3.3 La permanenza dei gruppi informali alla base della struttura del potere in Asia centrale

Non avendo preso in considerazione gli orientamenti culturali delle società locali, gli schemi della transizione hanno perseguito la democratizzazione dei sistemi politici centroasiatici concentrandosi sui loro aspetti formali. Esse concepivano in 53 A. BUISSON, La difficile exportation de la démocratie en Asie centrale, inadaptation du projet ou extranéité du concept?, juin 2006, http://www.institut-gouvernance.org/fr/dossiers/motcle-dossiers-24.html.

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termini weberiani l’esistenza di un autorità razionale e impersonale prendendo misure per il suo rafforzamento. Ma da quanto osservato deriva che tradizionalmente le relazioni di potere centroasiatiche si fondano su obbligazioni di tipo personale e informale le quali trascendono le divisioni amministrative ufficiali54 . Questi poteri personali si strutturano su gruppi locali di solidarietà fondati sul fattore etnico-tribale e/o regionale, componendo le loro differenti pulsioni in sistemi di favoritismo variamente articolati. Queste reti tradizionali (diversamente definite a seconda del contesto quali clan o tribù) rappresentano forme d’interazione sociale basate sulla fiducia e lealtà da cui l’individuo attende protezione e aiuto. Esse hanno origini diverse a seconda se sorte nel contesto sedentario o in quello nomadico. Nel primo rappresentano confraternite basate sul controllo risorse chiave, idriche in primo luogo, e l’osservazione delle pratiche della sharia (il modello essendo la mahalla uzbeka) 55 , mentre nel secondo costituivano un mezzo di trasmissione del sapere e di adattamento alla rigidità della vita di transumanza. Nelle aree sedentarie l’appartenenza ai gruppi di solidarietà deriva dal luogo di residenza mentre nel secondo da tradizionali legami tribali e di parentela (autentici o percepiti come tali). Dato il radicamento nel tessuto sociale, la legittimità del potere in Asia centrale è sempre derivata dal rispetto dell’autorità delle figure chiave di tali segmentazioni.

La permanenza di tali segmentazioni fino ai giorni nostri aiuta a far luce sulla natura reale del sistema sovietico a queste latitudini nonché sulla sua pretesa natura totalitaria. A dispetto della sua capacità di penetrazione e dell’estensione delle sue funzioni, l’impresa sovietica fu lungi dall’ingabbiare società ed economia nella cappa oppressiva presupposta da una visione totalitarista. Prima e dopo gli eccessi staliniani, appare al contrario come essa incontrò sempre enormi difficoltà ad affermare un controllo monolitico e centralizzato sull’immenso paese. Sin dall’inizio la terminologia ufficiale riconobbe infatti tale difficoltà quale mestničestvo, “localismo”, indicando con ciò la «frammentazione del potere decisionale tra contrapposte alleanze di interessi aggregate in piramidi corporative la cui influenza giungeva fino al cuore del partito-stato»56. Il regionalismo, la strutturazione verticale dello spazio su unità amministrative in competizione per l’assegnazione di risorse fu un elemento cardine della politica sovietica di gestione delle periferie asiatiche 57 . Qui, se da un lato l’ideologia ufficiale imponeva ai gruppi di solidarietà di uscire dalla sfera pubblica ufficiale, le penurie

54 P.G. GEISS, Demokatisierung und gesellschaftliche Reformen in Zentralasien, Bonn, 2002, pp. 17, http://library.fes.de. 55 P.G. GEISS, Mahallah and kinship relations. A study on residential communal commitment structures in Central Asia of the nineteenth century, in «Central Asian Survey», 20, 2001, 1, pp. 97-106. 56 O. CAPPELLI, Democratizzazione o state-building? Riletture critiche della transizione postcomunista, cit., p. 32. L’autore osserva come tale realtà fosse evidente già dagli anni Settanta, cfr. J.F. LOUGH, The Soviet Union and Social Science Theory, Cambridge (Mass.), 1977. 57 P. JONES LUONG, Institutional Change and Political Continuity in Post-Soviet Central Asia: Power, Perceptions, and Pacts, New York, 2002, pp. 321.

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dell’economia mobilizzata mantenevano viva la domanda per la loro funzione di canali d’allocazione delle risorse, favorendo così le condizioni per una loro riproduzione all’interno delle strutture collettiviste e di partito58. Non potendo eliminarle, il sistema sovietico si servì delle segmentazioni interne preesistenti a base clanica o regionalista per costruire un complesso sistema d’equilibri fra centro e periferia in cui, i confini fra stato e società risultarono confusi. In questo esso diede prova di una capacità unica di riorganizzare le società locali sulla base di un esperimento sociale del tutto inedito in cui il modello dello stato nazione europeo, nella comprensione marxista-leninista, venne impresso sulla realtà multietnica turco-iranica e musulmana locale integrando le sue segmentazioni interne su nuove basi59.

In definitiva, in quanto principale elemento di continuità con il passato pre-sovietico della regione, la segmentazione della società su gruppi di solidarietà e le relazioni di potere che da esso emanano costituiscono un elemento essenziale e strutturale dell’ordine politico e sociale dell’Asia centrale. Queste dunque, lontano dall’essere trattate quali difetto da superare come nell’approccio “transitologico”, costituiscono un terreno di confronto obbligato per l’azione di modernizzazione statale avviata dopo l’indipendenza60. Tanto più che il fattore clanico e tribale si è ulteriormente rafforzato dopo la scomparsa dell’Urss. Infatti, con il loro impatto sulla vita della maggioranza della popolazione, le politiche neoliberali condotte nel corso anni Novanta hanno ridato nuova linfa al senso dei legami clanici sulla base dei quali, come negli anni Trenta, le persone hanno costruito nuovi sistemi di scambio informali per far fronte alle carenze della vita quotidiana. In molte zone della regione l’appartenenza a un determinato gruppo tribale è divenuta un importante momento per l’ingresso nel mondo politico ed economico. Più in generale, lungo tutta la fascia sud dell’ex Urss si assiste tuttora a una complessa dialettica in cui l’azione statale e quella delle strutture claniche inerenti alle società indigene interagiscono l’una sull’altra61.

Osservando tale stato di cose, si può in particolare comprendere le ragioni dell’inefficacia dei programmi normativi volti ad affermare nella regione il concetto di stato di diritto (rule of law). Se il sistema sovietico aveva fondato un sistema giudiziario di corti formalmente simile a quelli europei, il suo funzionamento era sottomesso ai meccanismi informali del partito e delle sue segmentazioni interne. Tuttora, l’influenza del fattore clanico determina una preferenza diffusa per la risoluzione informale delle dispute piuttosto che per il loro affidamento alla rigidità della legge. Pratiche che allo sguardo occidentale appaiono in negativo come corruzione si rivelano, se analizzate in una prospettiva

58 O. ROY, La Nouvelle Asie Centrale ou la fabrication des nations, Paris, 1997. 59 P. JONES LUONG (ed.), The Transformation of Central Asia. States and Societies from Soviet Rule to Independence, Ithaca, 2004, pp. 332. 60 P.G. GEISS, Demokatisierung und gesellschaftliche Reformen in Zentralasie, cit. 61 E. SCHATZ, Modern Clan Politics. The Power of “Blood” in Kazakhstan and Beyond, Seattle/London, 2004, p. 250.

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di antropologia sociale priva di pregiudizi, quale una “cultura del dono” endemica al vissuto locale62 . In quanto tale si tratta di uno degli elementi fondanti del sistema poiché sovrintende al meccanismo di distribuzione delle risorse che assicura la tenuta della catena d’amministrazione. Così le procedure formali e democratiche mutuate da Occidente possono intervenire nel mutare gli equilibri interni, ma in nessun caso risultare decisive per la loro definizione, come pretendevano i fautori della transizione.

3.4 Gli adattamenti dei sistemi politici al contesto post-sovietico

Alla luce delle caratteristiche sopra enucleate possiamo dunque accingerci all’analisi del funzionamento della vita politica centroasiatica dopo l’indipendenza.

Il primo elemento da prendere in considerazione è l’estrema difficoltà della situazione che le élite al governo si sono trovate a gestire avendo a disposizione risorse drasticamente ridotte. In tali condizioni era naturale che i dirigenti continuassero a fare ricorso alle tecniche sviluppate durante il periodo sovietico riciclando le strutture organizzative di partito e sostituendo il marxismo-leninismo con il nazionalismo.

In generale la precarietà delle entità formatesi dal collasso della struttura unitaria era tale da far ritenere l’autoritarismo quale sola possibile variante. Seguendo l’esempio russo, le élite post-sovietiche hanno istituito un quadro istituzionale dove la forza della presidenza si confronta a parlamenti talmente deboli da permettere al vertice di dominare completamente la vita pubblica.

Va notato inoltre che l’indipendenza insorse a culmine degli sconvolgimenti della perestrojka, durante i quali l’amministrazione Gorbachev aveva distrutto l’integrità dello stato per tentare d’imporre nuove regole senza rispettare quelle già stabilite alla base della sua autorità. I nuovi presidenti erano quindi espressione di un patto conservatore fra clan, espressione di un equilibrio d’interessi che non si poteva permettere di rimettere in discussione tramite elezioni libere63. Conformemente, essi hanno operato per adattare l’architettura di potere delle reti informali e delle regioni alle nuove condizioni. Di conseguenza, l’efficienza e il grado di rappresentatività di un presidente centroasiatico si fonda sulla propria capacità d’assicurare tale equilibrio. Il suo compito è quello di rinegoziare costantemente i patti informali che determinano la partecipazione e il grado d’influenza dei differenti gruppi dispensando premi e punizioni ai membri della clientela. Finalmente egli deve essere summa di tutte le tendenze interne e fungere da arbitro super partes fra di esse, autentica chiave di volta dell’edificio politico e del suo funzionamento. L’amministrazione presidenziale è dunque il vero centro decisionale ed esecutivo del paese, il governo essendo piuttosto un 62 B. PETRIC, Pouvoir, réseaux et don en Ouzbékistan. post-soviétique, Paris, 2002. 63 S.F. STARR, Clans Authoritarians Rulers, and Parliaments in Central Asia, «Silk Road Paper», June 2006.

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gabinetto di tecnici incaricati dell’esecuzione delle decisioni presidenziali. Lo schema si ripete a livello regionale, dove i capi delle amministrazioni rispondono al solo presidente del loro operato.

Mancando di una linea di demarcazione fra la sfera pubblica e quella economica, tale sistema può essere definito quale neo-patrimonialista 64 . Attorno alle amministrazioni presidenziali, in uno schema piramidale, si collocano a differenti livelli i differenti gruppi clientelari e regionali in funzione del tipo di legami personali e del grado di vicinanza al vertice. A seconda delle risorse disponibili, essi corrispondono a conglomerati economici, sovente controllati da prossimi del presidente, i quali si dividono l’essenziale della ricchezza del paese. In Kazachstan la gestione delle risorse petrolifere è stata il fattore principale della ristrutturazione delle reti clientelari in uno sistema di tipo neo-liberale. In Turkmenistan e Uzbekistan e, seppur sui generis, in Tagikistan, vi è stato un grado di continuità più forte con il vecchio regime. Qui lo stato ha mantenuto il proprio carattere autarchico e ha rinvigorito l’apparto centrale di pianificazione per resistere contemporaneamente alla penetrazione neo-liberista e all’apertura del sistema politico.

Di fronte a meccanismi di potere talmente strutturati è ovvio che le istituzioni formate sui modelli importati da Occidente non rappresentano che strutture formali sovrapposte ai meccanismi endogeni. I partiti ad esempio esistono nella misura in cui sono connessi con la stratificazione clanica-patrimoniale su cui poggia la piramide di potere presidenziale. Essi costituiscono raggruppamenti politici instabili e momentanei e non potrebbe essere altrimenti dato che la competizione politica più che fra stato e società avviene all’interno dello stato stesso.

Le elezioni avvengono per ratificare il corso presidenziale ed esprimono parlamentari che non rappresentato cittadini individuali ma blocchi e comunità territoriali. Particolarmente “blindate” sono le elezioni presidenziali dalle quali non è ragionevole attendersi alcun elemento di cambiamento.

Non di meno i regimi continuano a dichiarare la loro dedizione alle “riforme” per godere della legittimazione e del sostegno materiale che proviene loro dall’accettazione sul piano internazionale. A tal fine essi devono conservare una parvenza democratica, ciò che impone loro uno sforzo costante volto alla produzione di un pluralismo controllato, che lontano dal rispondere alle esigenze dei cittadini è in primo luogo atto a placare le pressioni riformatrici provenienti dall’esterno. Tale sforzo si esprime nella creazione di ulteriori istituzioni formali quali ombudsman e commissioni varie per il rispetto dei diritti umani, adozione di testi legislativi e altre regole corrispondenti agli “standard internazionali”, creazione di surrogati d’organizzazioni politiche e sociali indipendenti, periodiche 64 J. ISHIYAMA, Neopatrimonialism and the Prospects for Democratization in the Central Asian Republics, in S.N. CUMMINGS (ed.), Power and Change in Central Asia, London, 2002, pp. 42-56.

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dichiarazioni di lotta alla corruzione.

3.5 Rischi per la tenuta dei sistemi

I sistemi politici centroasiatici sono dunque strutture complesse e ricche di contraddizioni. Tale natura nel contesto di competizione geopolitica in cui l’area s’è venuta a trovare per effetto del ritiro sovietico presenta seri problemi per la tenuta complessiva di questi fragili edifici i quali nonostante il loro accentramento, permangono estremamente fragili. Tale elemento è stato largamente tralasciato dai programmi internazionali d’assistenza che hanno continuato a insistere per l’implementazione effettiva del pacchetto di riforme, il quale, come ha dimostrato nei fatti l’esperienza del Kirghizistan, può aggiungere in molti casi ulteriori elementi di destabilizzazione fino a portare al crollo complessivo dell’edificio.

Vediamo ora quali fattori oggi nella regione agiscono in questo senso.

Un problema riconosciuto unanimemente da tutti gli osservatori è quello della successione dei presidenti. Dato che attorno alla loro personalità si è di fatto costruito l’intero edificio del potere è evidente che una loro repentina scomparsa potrebbe portare a uno scontro generalizzato fra i vari clan su cui il potere presidenziale è basato – il criterio di rappresentatività reale del sistema essendo l’uniforme presenza di clan e regioni all’interno delle istituzioni centrali. Con il passare degli anni e l’esaurimento delle risorse (o al contrario, come in Kazachstan, a causa dell’aumento della ricchezza e dunque della posta in gioco) la “lotta per il trono” è in intensificazione in tutte le repubbliche. La preoccupazione comune alle élite al governo di tutta la regione è dunque quello d’istituzionalizzare il carisma personale in stabili meccanismi di potere. In mancanza di formule di legittimità gradite erga omnes per il passaggio di potere da una persona all’altra65, l’unica soluzione sembra essere nel rafforzamento delle istituzioni dello stato, un dato il cui banco di prova sarà la tenuta della successione turkmena, ma che tuttavia è ancora troppo poco preso in considerazione dai programmi internazionali.

Ne consegue dunque che il problema principale della regione è la degradazione della cosa pubblica. Nonostante la costante ricerca d’espansione della propria

65Un modello dinastico – sull’esempio dell’Azerbaigian, dove l’ex presidente già membro del politburo sovietico, Heydar Aliyev, è riuscito prima del suo decesso a mettere sul trono il figlio Ilham - sarebbe idealmente considerato quale una variante ottimale dagli attuali inquilini dei palazzi presidenziali, anche in considerazione della legittimità con cui in definitiva è stato accettato sia da parte dell’“Occidente” che della Russia, nonostante gli eccessi di repressione delle opposizioni a cui si è accompagnato. Tale variante viene pubblicamente discussa in Kazachstan ma sembra che scatenerebbe una reazione incontrollata fra i gruppi oligarchici interni. Il modello di successione Eltsin-Putin sembra più realistico ma incontra limiti oggettivi nell’assoluta chiusura dei presidenti, nella loro fobia dei cambiamenti e nell’assenza di figure con il dovuto phisique du rôle. Resta la variante del colpo di palazzo, la quale non è da escludere sia stata applicata in Tukmenistan lo scorso dicembre.

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autorità formale, nei fatti il potere effettivo dei governi è andato ovunque diminuendo. Il degrado della macchina amministrativa è stato un portato diretto del venir meno dei precedenti criteri di professionalità nella selezione del personale. I nuovi vertici hanno selezionato troppi quadri sulla base del solo criterio della fedeltà personale producendo burocrazie che spiccano per la loro bassa qualità e lo scollamento dalla realtà e dagli interessi della popolazione. Al di là del fattore personale va però notato che l’accanimento contro il sistema sovietico si è risolto anche in un attacco a quello che, pur con tutti i suoi limiti, era stato un tentativo volto a proiettare nella regione elementi mutuati dal concetto di servizio pubblico dell’Europa continentale. E ciò che preme notare qui è che proprio le organizzazioni internazionali hanno favorito questo processo spingendo per lo smantellamento della sfera pubblica e influenzando il contenuto dei programmi di formazione (spesso fornita direttamente attraverso innumerevoli programmi di training) non secondo i bisogni dell’amministrazione ma degli obiettivi del paradigma della transizione66.

Tale sviluppo porta a una crescita eccessiva del fattore clanico. Di fronte all’aumento dell’incertezza generale, i vari gruppi d’interesse cercano di allargare i propri margini di manovra al fine di proteggere i propri domini di fronte a possibili varianti inattese. Sono così aumentate le depredazioni della cosa pubblica ed è cresciuto il peso di gruppi parassitari, fondati sullo sfruttamento delle rendite da materie prime e formati da membri dell’élite dirigente in connessione col vertice del mondo degli affari. Questi nuovi intrecci sono ovviamente interessati a mantenere minime le capacità dello stato e contribuiscono così a creare un circolo vizioso. Nonostante il peggioramento delle condizioni di vita, tali blocchi sono dominati dal timore che l’apertura di nuovi spazi in campo economico apra la via a gruppi di potere alternativi67. Essi sono così tesi a mantenere a tutti i costi lo status quo impedendo così il trasferimento di risorse alle esigenze di sviluppo dell’economia reale indispensabili per stabilizzare la situazione generale sul lungo periodo.

Il potenziale pernicioso di tale situazione è aumentato dal fatto che esso crea circoli viziosi nelle possibilità di modernizzazione dell’apparto di stato e nella privatizzazione di risorse che sarebbe indispensabile mettere al servizio dei bisogni comuni.68

Fermo restando quanto detto a proposito dell’eccessivo accento sulla corruzione da parte occidentale, resta che la degradazione delle condizioni di vita e dei

66 R. ABAZOV, The Collapse of Public Service and Kyrgyzstan’s Endemic Instability, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 15 November 2006, http://www.cacianalyst.org/view_article.php? articleid=4560. 67 E. EFEGIL, Avtoritarnye Konstitucionnye patrimonial’nye režimy v gosudarstvax Central'noj Azii (I regimi autoritari costituzionali patrimoniali dell’Asia centrale), in «Central'naia Azija i Kavkaz», 2006, 5, pp. 107-115. 68 A. BUISSON, Clanisme et factionalisme en Asie centrale, in IDEM, La difficile exportation de la démocratie en Asie centrale, inadaptation du projet ou extranéité du concept?, cit.

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rapporti sociali ha effettivamente raggiunto livelli preoccupanti e omnipervasivi, aumentando l’inefficienza generale dei sistemi e un approccio nichilistico verso le possibilità della cosa pubblica. In particolare tale involuzione è evidente nell’amministrazione della giustizia, la quale serve essenzialmente potere e ricchezza aumentando di conseguenza la disaffezione della popolazione verso lo stato. Di nuovo l’influsso neo-liberale ha giocato un suo ruolo in negativo, dato che i tagli ai benefici goduti dai funzionari pubblici hanno fatto del ricorso a pratiche di corruzione una questione di sopravvivenza per questi ultimi.

Un fenomeno preoccupante per il futuro della regione è la crescita dell’importanza del crimine organizzato. Tale crescita si alimenta dell’aumento del peso dell’economia nera – si calcola che, mediamente, un terzo delle attività economiche resti al di fuori delle statistiche69 – nonché dal fatto che la regione è divenuta un crocevia fondamentale per il narcotraffico proveniente dal vicino Afghanistan, intensificatosi in particolare dopo l’intervento anglo-americano nel paese 70 . Il punto che a noi interessa rilevare alla luce dei citati fenomeni d’occupazione della sfera pubblica da parte delle fazioni, è che si assiste a una generale sovrapposizione fra il piano politico e quello criminale. In particolare in Kirghizistan e Tagikistan, interconnesse con le segmentazioni sociali e in un contesto di degradazione sociale crescente, le narcomafie vedono loro aperte tutte le strade per accrescere la propria impresa sulla politica nazionale – tramite l’acquisto di seggi parlamentari in occasione delle elezioni o delle cariche pubbliche messe in vendita da ministri corrotti – fino a configurare un assalto allo stato “dall’esterno”, volto a penetrare le istituzioni e il processo di decisione politica in modo da fissare le regole più adatte ai propri interessi.

Il rafforzamento del crimine organizzato aumenta la probabilità che consistenti sezioni del territorio nazionale sfuggano definitivamente al controllo delle capitali, un rischio di feudalizzazione che è già in nuce e si alimenta in parallelo al processo di occupazione della cosa pubblica da parte delle fazioni regionali. Da notare come, solo in parte paradossalmente, l’espansione dell’impresa criminale è avvenuta più in profondità nelle zone dove è più sentito il bisogno di sicurezza da parte della popolazione, quali la valle di Ferghana e il Tagikistan, sconvolti o aventi avuto un assaggio della guerra civile. Come osservato, le società centroasiatiche nutrono un elevato livello d’aspettativa nella capacità dello stato a provvedere ai loro bisogni. Nel momento in cui le speranze che la cosa pubblica si manifesti scompaiono definitivamente, sono gli stessi gruppi criminali, i quali distribuiscono una parte dei loro profitti per provvedere alle necessità essenziali delle comunità locali, ad apparire quali un’alternativa al fallimento dello stato71. Tanto più che a volte, come dimostrano certe esperienze nella parte kirghiza della valle

69 B. RUMER, Overview, in IDEM (ed.), Central Asia at the End of Transition, New York/London, 2005, pp. 3-66. 70 ASSESSMENT RISK GROUP, Nelegal’nyj rynok Central’noj Azii (Il mercato illegale dell’Asia centrale), Almaty, 2005, pp. 330. 71 E. MARAT, The State-Crime Nexus in Central Asia, «Silk Road Paper», October 2006.

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di Ferghana, questi stessi soggetti si spingono fino a fissare nuove regole di convivenza intercomunitaria.

A questo proposito va notato come l’insistenza da parte dei donatori internazionali sullo sviluppo della società civile tramite la crescita del numero delle Ong non abbia contribuito al miglioramento della situazione, rafforzando in certi casi le pratiche clientelari e le tendenze centrifughe regionali. Ancora una volta l’esempio del Kirghizistan fa scuola. Qui, il processo di formazione delle Ong spesso avviene a cascata a partire da grosse strutture centrali fondate nella capitale da ex politici di rilievo, i quali si fanno garanti dei finanziamenti internazionali. Lungi dal crearsi nuove forze sociali, emergono così nuove strutture gerarchiche, parallele a quelle gestite dallo stato. Nel momento in cui tali organizzazioni si ritrovano a occuparsi di funzioni vitali per le comunità locali quali la gestione delle risorse idriche nelle aree rurali, i loro dirigenti (ora rispondenti a Washington piuttosto che a Bishkek) assumono un potere politico superiore a quello delle autorità elette 72 . Ecco un’altra dimostrazione di come l’azione internazionale “destatalizzatrice” crei l’humus per nuovi conflitti.

Le cose sono complicate dal fatto che, in un contesto di crescente distacco dei regimi dalla società, degradazione delle condizioni di vita e in cui i benefici del processo di sedicente democratizzazione sono avvertiti solo da una ristrettissima élite, si assiste ad un crescente ricorso all’uso della forza quale strumento di regolazione delle questioni politiche. Tale tendenza è stata favorita dal clima di diffuso consenso “antiterrorista” creato dall’intervento statunitense nella regione il quale ha permesso ai regimi di estendere l’ambito delle questioni “securitizzate” nel dibattito pubblico così da intensificare la repressione delle dissidenze.73 Tale situazione restringe sempre di più gli spazi leciti di contestazione e questo in un contesto già caratterizzato dal difetto di organizzazioni politiche in grado d’incanalare e dar voce pubblica al dissenso.

In tali condizioni, data l’impossibilità d’ottenere qualsiasi cambiamento attraverso le urne, si stanno sviluppando gruppi antagonisti che si rifiutano apertamente di partecipare a una vita politica ufficiale in cui i giochi sono largamente predeterminati al di là degli esercizi elettorali di facciata periodicamente organizzati dall’élite al potere per soddisfare gli interessi occidentali. In questo scollamento fra le élite interne va cercata la ragione di base del fenomeno delle “rivoluzioni colorate” osservato negli ultimi mesi in vari punti dello spazio post-sovietico, il quale ha parzialmente toccato anche il Kirghizistan. Qui, come anche nei fatti uzbeki d’Andijan, è stato possibile vedere come il potenziale centroasiatico di protesta resta escluso dal campo politico, assumendo al limite caratteri di jaqueries, destinate in avvenire a manifestarsi in forme sempre più violente, prive d’obiettivi e di qualsiasi slancio ideale.

Tale discorso pone la questione della crescita dei gruppi islamisti nella regione. Di 72 B.M. PÉTRIC, Post-Soviet Kyrgyzstan or the Birth of a Globalized Protectorate, cit. 73 Cfr. nota 29.

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per sé l’Islam permane una forza marginale sul piano politico. Anche in Uzbekistan, lo spazio dove storicamente la sharia aveva messo radici, l’Islam politico continua a essere irrilevante nei centri decisionali. Per il momento, oltre a non essere in grado di superare le profonde segmentazioni etniche, sociali e localiste dello spazio centroasiatico 74 , la presenza dei gruppi islamisti è stata sfruttata dagli apparati del potere per poter compiere disparate operazioni politiche altrimenti di difficile esecuzione. Coscienti che le loro mosse avrebbero trovato un’accoglienza compiaciuta a Mosca in particolare e in Occidente in generale, i dirigenti locali hanno applicato ampiamente e con disinvoltura l’etichetta di “estremista” (come sinonimo di fondamentalista islamico) a tutte le figure per essi politicamente scomode 75 , giustificandone l’eliminazione quale mossa necessaria della loro lotta a salvaguardia del carattere secolare dei loro regimi.

La crescita islamista va quindi letta quale fenomeno compensatorio. In primo luogo del dissenso altrove represso o che i gruppi d’opposizione “democratica” non sono in grado d’esprimere. In secondo luogo di tutti quei contesti sociali che sono rimasti a margine dei processi avviati dalla nefasta indipendenza delle repubbliche. Si tratta in particolare delle zone rurali, sempre più in contrasto con città che da luoghi di irradiazione del socialismo reale sono divenute i ricettori del capitalismo più sfrenato, il quale è denunciato dagli islamisti assieme agli altri aspetti deleteri della modernizzazione occidentale adottati in blocco con il pacchetto della democratizzazione. L’islamismo si diffonde poi nelle regioni escluse a livello nazionale dalla redistribuzione del potere. Non a caso nel contesto kirghizo e uzbeko, esso si sviluppa nella valle di Ferghana, per entrambi la regione più disgiunta dal centro. E non a caso proprio qui dopo il 1991 si è assistito al più drammatico degradarsi delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione al quale gli islamisti rispondono assicurando una parte di quei servizi che nel periodo sovietico erano forniti dallo stato.

La crescita dell’islamismo eversivo va altresì letta quale un effetto del restringimento progressivo dell’apparato educativo, che unito alla riduzione delle spese di ricerca ha avviato processi negativi le cui conseguenze saranno gravissime sul lungo periodo e renderanno presto ancora più avvertibili le carenze di personale qualificato. Anche qui è avvertibile un effetto dei programmi di democratizzazione i quali da un lato hanno favorito lo studio di scienze umanitarie, dall’altro premuto per la derussificazione dell’educazione. Tale fatto ha portato a indebolire quello che era stato il principale strumento d’accesso al diritto e alla cultura moderni, essendo quella della Russia l’unica esperienza direttamente accessibile di trasformazione in tal senso, allontanando contemporaneamente le

74O. ROY, Evolution dans un environnement complexe, in Ex-URSS: les Etats du divorces, «Les Etudes de la Documentation française», 1993, p. 144. 75Cfr. B. BROWN, Post-Soviet States: Central Asia, «Radio Free Europe/Radio Liberty Research Report», 12 March 1994, p. 14.

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masse dalla cultura di stampo europeo76.

4. Il contesto esterno. La “democratizzazione” nel contesto della competizione geopolitica regionale. L’effetto delle “rivoluzioni colorate”

Le sorti locali della promozione della democrazia vanno anche analizzate alla luce delle evoluzioni degli equilibri geopolitici centroasiatici prodotti dall’interazione delle potenze. Come abbiamo trattato all’inizio di questo studio, la democratizzazione è un elemento dichiarato della politica seguita dagli Stati Uniti nella regione, sin dal primo momento dell’instaurazione di relazioni diplomatiche con le neonate repubbliche indipendenti 77 . Appare come Washington abbia perseguito in tal modo due obiettivi principali. Da un lato impedire l’integrazione delle repubbliche all’interno di altri poli regionali, in primo luogo la Russia. Dall’altro creare le condizioni più favorevoli per la “sovranità del capitale”. In tal senso, l’azione del principale agente democratizzatore si è accontentata di ridurre il senso della democrazia al suo valore formale e procedurale, escludendo che essa comportasse elementi di trasformazione economica e sociale. L’esempio del Kazachstan dimostra come il rafforzamento dell’autoritarismo del regime sia andato alimentandosi di pari passo con la penetrazione del settore petrolifero del paese da parte del capitale globale78 , il quale ha influito negativamente sulle riforme politiche esprimendo la propria preferenza per un sistema autoritario in grado di garantire i propri interessi79. In tal modo l’essenziale da parte americana era fornire un quadro legale a sostegno dell’esistenza di questi deboli soggetti internazionali, ciò che venne fatto nella misura in cui i regimi, indipendentemente dalla loro capacità empirica di gestire la sovranità, mostravano la loro aderenza formale a certe regole internazionali, pur sapendo che non vi era alcuna capacità di implementare il contenuto degli impegni sottoscritti.

Allo stesso tempo, in un ambiguo rapporto con la diplomazia ufficiale, nella regione si è dispiegata tutta l’industria statunitense della democratizzazione e del “cambio di regime” (regime change)80, composta da Ong, accademici, giuristi e altri consultants internazionali. Si tratta in primo luogo dell’Open Society Institute di George Soros, dello Usaid (agenzia di stato statunitense per la cooperazione allo sviluppo) e di una serie di organizzazioni emananti dal National Endowment for Democracy, finanziato dal congresso Usa: in particolare la Freedom House, il 76 E. ABDULLAEV, Uzbekistan between Traditionalism and Westernization, cit. 77 Un’azione esplicitata dall’adozione di strumenti legislativi quali il Freedom Support Act, votato dal Congresso già nel 1992 per regolare gli aiuti americani a favore dei paesi dell’area Csi. 78 D. CERIMELE, A che serve la democrazia? Stato, mercato e sviluppo nel Kazachstan post-sovietico, cit. 79 E. WEINTHAL - P. JONES LUONG, Energy Wealth and Tax Reform in Russia and Kazakhstan, in «Resources Policy», 27, 2002, 4, pp. 1-9. 80 Il termine industria non è un’iperbole in quanto gli Stati Uniti spendono mediamente 700 milioni dollari per l’“esportazione della democrazia”, principalmente tramite Usaid. Cfr. N. GUILHOT, The Democracy Makers. Human Rights and the Politics of Global Order, cit.

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National Democratic Institute (Ndi, struttura satellite dal Partito democratico) e l’International Republican Institute (Iri, analogo repubblicano del Ndi)81. Queste e altre numerose organizzazioni, assimilabili nei fatti una sorta di komintern della democratizzazione, hanno proposto, con slanci al limite del missionario, lezioni di democrazia per differenti attori sociali locali, cercando di formare un’élite alternativa a quella dei regimi in carica.

La dinamica dell’azione di queste strutture nelle repubbliche centroasiatiche è già stata accennata. Allo scollamento progressivo della realtà politica locale dal dettato teorico, le organizzazioni statunitensi hanno risposto mantenendo fermezza sull’adesione normativa alla democrazia in sé, non quale processo ma come totalità da adottare incondizionatamente. Questo ha creato le premesse per una relazione antagonistica e conflittuale.

Tale evoluzione è segnata dal fatto che l’azione geopolitica statunitense nella regione è fortemente determinata dalla competizione con la Russia, un confronto che attraversando le repubbliche ha influenzato anch’esso in maniera decisiva la natura dei sistemi82. Mano a mano che Mosca riprendeva a condurre una linea di politica estera centroasiatica coerente con i propri interessi nazionali, gli Usa hanno accentuato le loro pressioni sui regimi, con interventi diretti e dichiarazioni ufficiali sempre più configurabili quali interferenze negli affari interni delle repubbliche – come testimoniano le reazioni a seguito delle elezioni presidenziali svoltesi fra 1999 e 2000 in Kazachstan, Uzbekistan e Kirghizistan – le quali hanno di conseguenza sempre più percepito la presenza dell’apparato di democratizzazione quale un elemento destabilizzante. Con l’avvio della cosiddetta guerra al terrorismo, d’altronde, tale presenza si ritrovò sempre più discreditata. Gli Usa da un lato hanno promosso con la loro azione pratiche in contrasto con la concezione dei diritti umani83, dall’altro si sono ritrovati quale principale alleato del campione regionale dell’autoritarismo, l’Uzbekistan (facendo inoltre capire di essere pronti ad accordarsi anche con il Turkmenistan, se questo avesse prestato il proprio territorio per il trasferimento delle strutture militari espulse da Tashkent alla fine del 2005), rendendo così chiaro che il loro sostegno alla democratizzazione sarebbe stato effettivo fintanto che non in contrasto con i loro interessi e obiettivi geopolitici nella regione.

Il discredito portato dall’azione americana all’idea di democrazia è divenuto completo con l’avvio della stagione delle “rivoluzioni colorate” post-sovietiche, organizzato dalle citate organizzazioni transnazionali del regime change e inaugurato nel girone post-sovietico dall’impresa di Mikhail Saakashvili in Georgia alla fine del 2003. Di fronte al crollo a livello mondiale dell’immagine della diplomazia americana e nel tentativo di calmierare le contraddizioni fra la retorica 81 B. RAMAN, The National Endowment for Democracy of US, South Asia Analysis Group, 13 April 2000, http://www.saag.org/papers2/paper115.html. 82 B. RUMER (ed.), Central Asia at the End of Transition, cit. 83 E. ZHOVTIS, 11th September: Consequences for Human Rights in Central Asia, in «Helsinki Monitor», 13, January 2002.

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ufficiale e una pratica sempre più compromessa, l’amministrazione Bush ha ritenuto conveniente sostenere un rilancio alla grande del tema dell’“estensione della democrazia”. A quel punto, il Kirghizistan, nel quale nel corso del 2005, a ridosso degli eventi d’Ucraina, sarebbe dovuto passare attraverso una serie di esercizi elettorali per il rinnovo dell’intero corpo politico, si presentò quale un terreno di prova per tentare di estendere l’onda delle “rivoluzioni colorate” e riconfermare il Kirghizistan quale modello della propria influenza in Asia centrale84.

L’ulteriore degradarsi della situazione in Kirghizistan quale effetto del cambio di regime, e il connesso strascico insanguinato in Uzbekistan dei fatti di Andijan, hanno avuto precisi effetti negativi sui processi politici dei vicini (Russia inclusa). Ovunque la lezione imparata è stata che la repressione paga e che la cosa più importante è di non seguire l’esempio di Akaev. Di conseguenza si è assistito a un profondo discredito dell’idea stessa di democrazia e ad un’ondata di misure repressive preventive contro le opposizioni e le organizzazioni finanziate dagli Usa, in un attacco al terzo settore che dato il suo carattere indiscriminato ha avuto quale risultato collaterale di fragilizzare ulteriormente la situazione interna dei regimi. Gli effetti delle “rivoluzioni colorate” sono stati ben evidenti in Uzbekistan, dove fino a prima del colpo di stato georgiano, Karimov aveva ceduto ad una serie di pressioni occidentali (allentamento della censura, apertura alle richieste contro l’applicazione della tortura provenienti dall’Onu, aumento del numero delle Ong, convertibilità della valuta nazionale) per ritornare rapidamente sui propri passi sin dalla fine del 200385.

Una digressione va fatta per seguire l’atteggiamento europeo verso questi sviluppi. Pur seguendo un approccio più equilibrato, sostanzialmente i paesi dell’Unione Europea sono andati al seguito della politica statunitense per la regione. Difficile sarebbe stato attendersi un comportamento diverso. Infatti a differenza dei paesi anglosassoni, quelli europei sono sprovvisti di quadri specializzati sull’Asia centrale nonché di rappresentanze diplomatiche sul terreno, ciò che ha prodotto un’azione disordinata e incoerente 86 . Se pur con tutte le contraddizioni a cui hanno dato adito gli Usa hanno seguito una linea conforme ai loro interessi geopolitici, gli europei hanno così perso di vista il più ampio contesto in cui le proprie risorse venivano utilizzate.

Nell’ambito dell’azione europea va anche inquadrata quella dell’Osce,

84Sebbene il collasso del regime di A. Akaev sia dovuto in primo luogo all’incapacità dello stesso a gestire il paese, gli Usa hanno indubbiamente accelerato il corso degli eventi tramite il supporto logistico dell’opposizione e pressioni diplomatiche dirette sull’ex presidente. Sulla questione: P. ESCOBAR, The Tulip Revolution Takes Root, in «Asian Times», 26 March 2005; R. CAGNAT, Asie centrale: la poudrière, les allumettes et les apprentis sorciers, in «Défense nationale», juin 2005; e anche il mio (sotto pseudonimo, F. VILLIER) Les États-Unis en Asie centrale: Chronique d’une défaite annoncée, in «Outre-terre – Revue française de géopolitique», 2006, 17. 85 E. ABDULLAEV, Uzbekistan between Traditionalism and Westernization, cit. 86 INTERNATIONAL CRISIS GROUP, Central Asia: What Role for the European Union?, «Asia Report» n. 113, 10 April 2006.

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organizzazione che ha occupato un ruolo importante fra gli attori della democratizzazione in virtù della propria presenza sul terreno in tutte le repubbliche e dell’accesso diretto ai massimi vertici delle stesse. Se l’Osce ha fornito un importante piattaforma di dialogo fra Europa e Asia centrale, essa si è altresì trovata in seria difficoltà nella comprensione della realtà locale, stretta fra il particolarismo di quest’ultima e l’universalismo della concezione normativa dei diritti dell’uomo, mancando di una strategia atta al dialogo interculturale e all’integrazione di norme derivanti da differenti universi interpretativi 87 . Tale contraddizione è evidente nel contrasto a riguardo della richiesta del Kazachstan di presiedere l’Organizzazione, le tergiversazioni sulle quali hanno approfondito le linee di frattura interne alla stessa. Con la crescita della carica “missionaria” dell’azione internazionale statunitense, l’Osce è stata inoltre percepita quale uno strumento aggiuntivo dell’agenda geopolitica regionale degli Usa volta a utilizzare strumentalmente i processi di democratizzazione a fini geopolitici88. Sia verso l’Osce che l’Ue i regimi centroasiatici esprimono una crescente frustrazione derivante dall’essere sotto scrutinio senza che corrispondenti attenzioni vengano rivolte alle involuzioni all’interno dell’area atlantica nella sfera dei diritti fondamentali, involuzioni acceleratisi dopo l’apertura della “guerra al terrorismo.” Soprattutto alla luce degli sviluppi degli ultimi mesi, quando si riscontra una crescita dell’interesse europeo per la regione giustificato nei termini esclusivi della sicurezza energetica, ciò che ha portato in più di un’occasione a soprassedere sull’importanza dei principi democratici per accordarsi con i regimi dotati di materie prime, l’Europa ha visto sgretolarsi la propria presunta superiorità morale. L’atteggiamento paternalista e la politica dei due pesi e due misure hanno aumentato la disillusione sia fra le élite che fra la massa della popolazione centroasiatica nei confronti della democratizzazione mettendo allo stesso tempo i regimi ancora di più sulla difensiva89.

Dagli insuccessi dell’azione occidentale è emersa una crescente gravitazione delle repubbliche verso Russia e Cina, le quali, sullo sfondo delle “rivoluzioni colorate”, si sono mosse sulla base di una percezione del processo di democratizzazione quale tentativo diretto a espellere la loro influenza da questi paesi90.

Per effetto della pressione occidentale, la Russia è apparsa quale un modello antropologicamente più vicino sul piano politico, sulla base dei valori comuni quali la tolleranza religiosa e il multi-culturalismo su cui si fondano storicamente le formazioni politiche eurasiatiche. Da notare come vi siano anche stati tentativi di avanzare concezioni specifiche dei diritti umani, sulla base di una declinazione 87 A. KREIKEMEYER, Learning by Doing – The OSCE in Central Asia, «NIASnytt», 2, 2004 http://nias.ku.dk/nytt. 88 P. DUNAY, The OSCE in Crisis, «Chaillot Paper» n. 88, April 2006, http://www.iss.europa.eu/public/content/chaile.html. 89 A. MATVEEVA, EU stakes in Central Asia, «Chaillot Paper» n. 91, July 2006, http://www.iss.europa.eu. 90 Come nuovamente riconosciuto dagli stessi autori del paradigma della transizione, cfr. T. CAROTHERS, The Backlash Against Democracy Promotion, in «Foreign Affairs», 85, 2006, 2.

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del concetto meno individualista e universalista e associata alla comprensione precipua di esso all’interno di altre civiltà, tentavi di cui ad esempio si è fatta interprete la Chiesa ortodossa.91 La dottrina della “democrazia sovrana” è poi divenuta un elemento di strutturazione alleanze nel campo ex sovietico in particolare fra Russia e Kazachstan, specialmente nel contesto delle polemiche sulla candidatura della repubblica alla presidenza dell’Osce92.

Se la Russia resta un riferimento obbligato per le repubbliche locali, è sorprendente notare come l’aggressività della democratizzazione sia stata tale da spingere prepotentemente i centroasiatici in direzione della Cina, un processo esemplificato dal voltafaccia strategico dell’Uzbekistan da “partner strategico” di Washington ad alleato di punta di Pechino. Nel complesso, la dinamica dei rapporti sino-centroasiatici testimonia della profonda disillusione nei confronti della retorica democratica occidentale, una disillusione diffusa a tutti i livelli delle società centroasiatiche che sembra oggi persino in grado di superare la secolare diffidenza storica nei confronti del grande vicino orientale.93 La Cina è divenuta un alleato nella difesa del principio di non interferenza negli affari interni e con essa si è formata una concezione comune di “sicurezza ideologica”, basata sulla convinzione che qualsiasi tentativo d’installare nella regione strutture sociali e politiche avulse dal suo percorso d’evoluzione storica non potrà che risolversi nel crollo del fragile equilibrio centroasiatico. L’esperienza kirghiza ha rafforzato questa persuasione agli occhi dei più.

Allo stesso modo, in parallelo al rifiuto dei modelli destabilizzanti di derivazione occidentale, è cresciuta l’interazione con altri poli delle relazioni internazionali quali l’India, l’Iran, la stessa Turchia, portatori di differenti modelli di statualità e convivenza civica.

Tali sviluppi rivestono oggettivamente un’importanza enorme, pari solo alla trascuratezza con cui sono stati recepiti e commentati in Europa, il che denota la profondità dell’incomprensione con cui nel nostro continente si guarda a quanto si svolge sulla scena regionale. Ciò è particolarmente evidente osservando come la politica europea abbia seguito per inerzia la linea anti-russa statunitense tralasciando di considerare come ciò abbia contribuito a recidere arterie vitali con i processi democratici che hanno continuato a operare in Russia, la quale non può essere sostituita quale motore di democratizzazione effettiva della regione.

91 Si veda per esempio un’intervista al metropolita Kirill in «Rossijskaja Gazeta», 21 april 2006. 92 D. SATPAEV, Duèt medvedja i barsa (Il duetto dell’orso e del ghepardo), «Nezavisimaja Gazeta», 11 decab’r 2006. 93 Una buona analisi di questo sviluppo fondamentale per la geopolitica regionale nello sguardo di un osservatore indiano: M.K. BHADRAKUMAR, Foul Play in the Great Game, in «Asia Times», 12 July 2005.

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5. Conclusioni

Le vicende della democratizzazione in Asia centrale forniscono dunque un quadro frammentato e contraddittorio. Oltre quindici anni di sforzi in questa direzione hanno finora prodotto risultati estremamente limitati. Di fronte al quadro di crisi offerto dal Kirghizistan, piuttosto che una tendenza verso maggiore apertura nella regione si è registrato una diffusa aspettativa per un forte potere e carismatico, in grado d’imporre delle regole a società fortemente destrutturate. In Kazachstan è evidente come, accompagnandosi a distruzioni e saccheggi, i fatti d’Uzbekistan e Kirghizistan abbiano avuto l’effetto di rafforzare i sentimenti conservatori dei cittadini: molti dei rappresentanti della nascente classe media che prima desideravano l’attuazione di riforme politiche in tempi stretti temono ora che un’eventuale forzatura della mano del regime possa ripercuotersi sul proprio livello di vita.

A livello regionale, l’autoritarismo connesso a queste tendenze è percepito dalla maggioranza quale precondizione necessaria per la tenuta dell’economia e in ogni caso quale male minore di fronte alla prospettiva crescente di un’“afghanizzazione” della sicurezza regionale. Tale prospettiva è in effetti pericolosamente reale. La tendenza all’utilizzo della violenza da parte dei regimi e dei loro oppositori conserva tutta la sua attualità. Per quanto ci si possa attendere una certa liberalizzazione, indispensabile dopo gli eccessi dell’epoca di Niyazov, l’evoluzione del Turkmenistan resta un’incognita dalla quale sembra ragionevole attendersi l’esercizio di un’influenza regressiva sulle tendenze regionali. In Kazachstan, nonostante i brillanti risultati dell’economia degli ultimi anni, l’aumento della ricchezza ha significato anche un’impennata del livello dello scontro fra élite, il quale può anch’esso produrre risultati imprevedibili al momento dell’uscita di Nazarbaev dalla scena politica.

Il quadro generale è dunque quello di una crisi sistemica dei sistemi politici regionali, dove élite dirigenti e opposizioni sono assorbiti nella lotta per il potere e sempre più distanti dalla gente comune. Sul piano esterno è chiaro che le repubbliche post-sovietiche rimangono oggetti più che soggetti della vita internazionale, incapaci nel complesso a smarcarsi dalle reti d’influenze esterne interessate a controllarne la posizione strategica.

Vi è quindi indubbiamente un ruolo per un’assistenza internazionale all’evoluzione dei panorami politici interni. E’ però essenziale ripensare le basi intellettuali di tale ruolo. Le tendenze regressive aperte dagli eventi del 2005 segnalano l’esistenza di una deviazione sistematica nel modello di sviluppo finora applicato. Sono necessarie nuove chiavi di lettura e paradigmi d’interpretazione della realtà regionale in modo da uscire dalla gabbia interpretativa e dal peso ideologico del paradigma della transizione. Lo stesso concetto di “democratizzazione” resta un termine incerto nella sua applicazione alla regione. Il concetto di modernizzazione appare in questo senso più appropriato e in ogni caso viene meglio percepito a livello locale, dove costituisce il minimo comune denominatore di consenso fra i regimi e la massa della popolazione a proposito di ciò che si cerca di raggiungere attraverso gli sforzi di riforma. Parlare di democrazia, di conformità a standard

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internazionali, impostare sulla loro presenza o meno l’analisi dei fenomeni è fuorviante: vi sono come vi erano elementi d’apertura, ma il problema principale è come utilizzare questi elementi nella (ri)costruzione delle istituzioni che devono assicurare il funzionamento del sistema e imporre la legalità indispensabile a proteggere i diritti umani. I tentativi di riforma concentrati sugli aspetti formali delle istituzioni sono destinati a fallire poiché da un lato, si rifiutano di prendere in considerazione i potenti aspetti informali della vita politica locale mentre dall’altro vengono realizzati da strutture che al momento vengono percepite come estranee da parte delle comunità dove la loro azione si esplica94.

La prima priorità è dunque quella di concentrare gli sforzi sulla ricostituzione di un servizio pubblico efficiente in grado di far fronte all’instabilità cronica delle regioni periferiche agendo concretamente per il rispetto dei diritti fondamentali. A tal fine, l’attenzione va portata, piuttosto che sulla delegazione del potere e l’espansione del terzo settore, sul rafforzamento della catena di comando e l’interazione fra centro e periferia, principio su cui si è costruita nel periodo sovietico l’amministrazione pubblica, la quale oggi va riportata sotto controllo effettivo. Affermare l’effetto stabilizzante del centro è indispensabile per evitare le derive anarchiche di cui si possono osservare i risultati in Tagikistan e Kirghizistan. Importante è anche rivedere i principi di formazione dei funzionari statali, la quale oggi è frammentata in differenti programmi internazionali e va riportata sotto l’alveo di istituti pubblici nazionali, coadiuvati eventualmente da consigli in cui le istanze internazionali siano rappresentate.

In secondo luogo, è necessario riprendere il cammino dell’assistenza nella coscienza che questo potrà seguire innumerevoli vie, senza percorsi “necessari” e lineari. I requisiti dei sistemi istituzionali locali non possono essere definiti in base a valori assoluti ma devono essere valutati sulla base delle esperienze concrete, dell’assenza storica di pratiche democratiche e del fatto che l’applicazione delle leggi è qui sottomessa a regole informali, in un contesto dove i concetti stessi della democratizzazione sono lungi dall’essere percepiti quali legittimi.

E’ quindi necessario rompere con l’universalismo e il determinismo astratto della razionalità utilitarista che ha sovrinteso finora agli sforzi dell’assistenza internazionale. L’esperienza dimostra che strategie di successo sono solo quelle capaci di fondersi con le strutture informali preesistenti in un modo complementare e consensuale integrando differenti approcci, antropologici e sociologici. Nelle parole di Jaques Sapir, «il successo di qualsiasi strategia di modernizzazione passa attraverso l’attitudine a riutilizzare le forme tradizionali e non attraverso la proiezione e l’applicazione, diretta e integrale, dell’insieme delle forme reputate moderne, direttamente prese in prestito da società considerate come più avanzate»95.

94 M. BAIMYRZAEVA, Institutional Reforms in Kyrgyzstan, cit. 95 J. SAPIR, La guerre civile et l’économie de guerre, origines du système soviétique, in «Cahiers du monde russe et soviétique», 1997, p. 11.

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Una premessa indispensabile è quella di re-inventare le forme tradizionali, di pensare la gestione della diversità locale senza negare la portata universale di certi avanzamenti economici e giuridici. Le strategie di sviluppo devono basarsi su ricerche sulle strutture effettive di legittimità proprie al contesto centroasiatico in modo da elaborare un’equazione dell’esercizio del potere che prenda in considerazione i meccanismi tradizionali di selezione delle élite. Tutto ciò richiede non solo l’effettuarsi dell’emancipazione degli individui ma una sapiente opera d’adattamento ai meccanismi tradizionali inerenti alle società eurasiatiche. Come dimostra l’esperienza del Giappone, un nuovo ed efficace ordine normativo può solo emergere dall’interpenetrazione fra gli orientamenti culturali comunitari e le innovazioni politico-economiche della modernità. Una via da percorrere è sicuramente quella che cerca di rendere espliciti i legami informali sottesi alle architetture tribali e ai gruppi di solidarietà. Se effettivamente la presenza di tali segmentazioni pone una sfida all’ordine delle società centroasiatiche, le istituzioni devono affrontare la stessa ingaggiandosi nella gestione di queste divisioni, dando forma al loro significato e al ruolo che possono giocare nella vita pubblica contemporanea, attraverso la creazione di soluzioni istituzionali in grado di riflettere e gestire il pluralismo culturale. Uno sforzo rivolto in questo senso può risultare più effettivo nel preservare la stabilità sociale nonché nell’aumentare la rappresentatività delle forme di governo, piuttosto che un approccio volto a negare questi fenomeni secondo paradigmi che prevedono l’inevitabile assimilazione delle particolarità nell’alveo della cultura ufficiale promossa dallo stato96.

Analoghe considerazioni dovrebbero sovrintendere a una “gestione” dell’Islam, il quale, in qualità di fattore strutturante le reti di solidarietà, dà forma alle aspettative individuali a riguardo della legittimità dell’ordine politico. Anche qui, un’evoluzione effettiva e stabilizzante dei sistemi politici locali richiede quindi un’integrazione selettiva di elementi della cultura giuridica islamica nei diritti nazionali – questo è vero principalmente in Tagikstan e Uzbekistan, dove la sharia era stata integrata dalle formazioni statali precedenti l’arrivo dei russi nella regione.

In definitiva è necessario pensare un quadro istituzionale che si misuri direttamente con le peculiarità della regione, che se ne avvalga selettivamente al posto di stigmatizzarle, riflettendole nella sfera pubblica in modo da introdurre un’effettiva trasparenza. Un tale approccio può disinnescare in modo molto più effettivo il potenziale esplosivo delle segmentazioni interne alle società centroasiatiche, che rimane nella misura in cui esse sono negate e relegate nel sottosuolo.

E’ necessario infine introdurre cambiamenti nel modello di sviluppo economico, dato che non è verosimile attendersi reali cambiamenti delle istituzioni senza una corrispondente attivazione delle dinamiche sociali a supporto degli stessi.

In tale complesso percorso, l’Europa potrebbe avere un ruolo decisivo da giocare. 96 E. SCHATZ, Modern Clan Politics. The Power of “Blood” in Kazakhstan and Beyond, cit..

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Nella competizione geopolitica in atto, essa potrebbe affermarsi quale forza moderante e per l’affermazione di valori quale la cooperazione e il multilateralismo, in cui l’apertura reale e il pluralismo restano quale una visione di lungo periodo. Tuttavia, dal punto di vista europeo, tale evoluzione richiede: − una valutazione più adeguata del significato strategico dell’area centroasiatica sulla scena internazionale, evitando cioè di considerare la regione dal solo punto di vista delle sue materie prime; − un’uscita dalla visione securitaria che ha portato a distogliere risorse reali verso i programmi militari a partire dall’11 settembre; − la consapevolezza che sarà possibile giocare un ruolo effettivo e costruttivo in una regione di talmente difficile accesso solo in cooperazione con la Russia.

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L’ISLAM IN ASIA CENTRALE TRA RECUPERO DELLA TRADIZIONE E MOVIMENTI RADICALI: IL CASO UZBEKO

Paolo Sartori

Introduzione

Fondamentalismo e radicalismo islamico sono comunemente considerati due dei maggiori ostacoli posti sulla strada verso la democratizzazione delle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale e comprensibilmente suscitano particolare interesse in chi si interroga sul futuro di questi paesi. L’attenzione accordata dagli analisti alle espressioni radicali riferibili alla cultura islamica di questa regione non è, però, un fenomeno post-sovietico. Già negli anni Ottanta, di fronte agli insuccessi dell’Armata rossa in Afghanistan, alcuni avvertivano che un’ondata islamista avrebbe travolto il socialismo sovietico partendo proprio dall’Asia centrale. Contrariamente a tale previsione, ai popoli che abitavano la regione è bastato un referendum per conquistare – almeno formalmente – l’indipendenza da Mosca senza scomodare i locali imam; infatti, con la sola eccezione del Tagikistan dove un partito islamico è parte integrante della compagine di governo, in Asia centrale l’Islam fondamentalista e radicale non è riuscito a mobilitare le masse verso un percorso politico alternativo a quello praticato dagli attuali regimi. Ciononostante il timore dell’islamismo radicale centroasiatico resta; se non altro perché, 11 settembre a parte, imperversa la guerra al terrorismo nel vicino Afghanistan e perché le notizie ufficiali che giungono dalla regione ci avvertono della presenza di gruppi islamisti, più o meno legati ad al-Qaeda. L’ultima eclatante manifestazione di tale sinistra presenza risale a non molto tempo fa. Il 13 maggio 2005 in Uzbekistan, ad Andijan, le forze armate spararono su una manifestazione anti-governativa uccidendo un numero di civili ad oggi imprecisato e impossibile da verificare. La protesta era avvenuta in seguito a un assalto del carcere cittadino da parte di un commando armato che aveva liberato alcune centinaia di prigionieri. Tra questi figuravano ventitré imprenditori locali che attendevano di essere giudicati per fondamentalismo e separatismo sulla base di legami con l’Akromiya, considerata dalle autorità uzbeke un’organizzazione di matrice islamista.

Non tutti, però, concordano con tale versione dei fatti. Chi critica la posizione governativa sostiene che l’Akromiya sia solo una rete composta da individui reciprocamente solidali che, probabilmente grazie ai proventi dell’elemosina

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rituale, assiste l’imprenditoria locale1 – fatto non eccezionale in Asia centrale – e che l’accusa di fondamentalismo mascheri invece una lotta tra il potere centrale e alcuni gruppi locali per il controllo delle risorse finanziarie e delle attività commerciali2. Come dunque definire l’Akromiya, un’organizzazione radicale o un gruppo filantropico? Sulla base di fonti ufficiali si è ripetutamente detto che essa è un’organizzazione nata da una costola del ben più noto Hizb ut-Tahrir al-Islami (Il partito della liberazione islamica)3, che predica l’eversione del regime uzbeko e la costituzione di un califfato. A leggere Iymonga yo’l4 (La via alla fede), considerato il pamphlet dell’organizzazione, possiamo con sufficiente certezza affermare che tali idee brillano per la loro assenza: evidentemente l’opera di un autodidatta nelle scienze islamiche tradizionali, il testo si limita a esortare i musulmani a riscoprire il Corano e le tradizioni profetiche proponendo il primato della fede sull’etica islamica 5 ; elementi che non possono che suggerire un ragionevole dubbio sull’orientamento radicale del gruppo che si ispira a tale testo6.

A nostro parere i dubbi sorti sulla natura dell’Akromiya rappresentano eloquentemente lo stato della ricerca sul fondamentalismo e sul radicalismo islamico d’Asia centrale: ad oggi bisogna ammettere che più che le caratteristiche di tali fenomeni, si conoscono le iniziative assunte dai governi centroasiatici per “contenere” qualsivoglia istanza politica di natura islamica. In condizioni di diffusa repressione l’accesso alle fonti, sia scritte che orali, resta di primaria importanza; se non altro per verificare l’attendibilità delle argomentazioni usate dalle autorità governative in Asia centrale per rappresentare la minaccia islamista. 1 OSCE, Preliminary Findings on the Events in Andijan, Uzbekistan, 13 May 2005, Warsaw, 20 June 2005, p. 9, http://www.osce.org/item/15234.html. 2 Sul tema, da ultimo, s.v. M. FUMAGALLI, State Violence and Popular Resistance in Uzbekistan, in «ISIM Review», (2006), 18, pp. 28-29. 3 Partito politico e movimento transnazionale fondato a Gerusalemme nel 1953 che si prefigge attraverso il proselitismo l’organizzazione di una società islamica organizzata secondo le regole della sharia, condizione necessaria per la costituzione di un califfato islamico, cfr. http://www.hizb-ut-tahrir.org/index.php/EN/def. Per un ragguaglio sull’attività di tale partito in Asia centrale s.v. M. FUMAGALLI, Un califfato in Ferghana? L’islamismo centroasiatico continua a sognare, in «Limes», 2002, 3, pp. 133-142. 4 I termini uzbeki si riproducono secondo una trascrizione semplificata dell’odierno alfabeto. Quindi si avrà il grafema “kh” in luogo di “x”. 5 Cfr., per chi non leggesse l’uzbeko, la traduzione inglese di Iymonga yo’l offerta da A.J. FRANK - J. MAMATOV (eds.), Uzbek Islamic Debates. Texts, Translations, and Commentaries, Springfield, 2006, in specie le pp. 372-374. È bene ricordare che in passato anche figure autorevoli dell’erudizione islamica d’Uzbekistan avevano apertamente criticato l’Akromiya; allora, però, le argomentazioni in sfavore di tale gruppo non venivano dalla sua pretesa natura radicale, bensì dal fatto che un gruppo o un partito potesse costituire un motivo di scissione, cioè di “eresia”, all’interno della comunità dei fedeli musulmani. Le critiche venivano soprattutto dall’imam della moschea To’khtaboy di Tashkent, Obidkhon-Qori, cfr. Ibidem, pp. 146-150; sulle accuse di “eresia” mosse da Shaykh Muhammad-Soqid Muhammad-Yusuf ad Akram Yo’ldoshev si veda I. ROTAR, What is known about Akramia and the uprising?, http://www.forum18.org/Archive.php?article_id=586. 6 Sulla questione s.v. A. KHALID, Islam after Communism. Religion and Politics in Central Asia Today, Berkeley, 2007, p. 194.

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A tal proposito dobbiamo purtroppo constatare che la letteratura prodotta da individui e da gruppi che in modo e a titolo diverso sono stati considerati rappresentativi dell’islamismo radicale centroasiatico resta accessibile quasi esclusivamente agli studiosi locali 7 ; quand’anche questa fosse reperibile, accertarne la diffusione e la percezione tra le diverse comunità musulmane dell’Asia centrale è per ora al di fuori delle possibilità di chi indaga su questo campo 8 . Non deve dunque stupire se in generale si ha una conoscenza assai approssimativa del pensiero dei più autorevoli rappresentanti dell’islamismo radicale regionale e se non si riesce a quantificare la consistenza di tale fenomeno9.

Tali considerazioni hanno necessariamente influenzato l’elaborazione di questo contributo conducendola verso una discussione attorno a ciò che in Asia centrale, e nello specifico in Uzbekistan, occupa effettivamente lo spazio compreso tra la “tradizione” e il “radicalismo islamico”, estremi solo apparentemente opposti della medesima cultura. In questo modo la nostra attenzione si è rivolta verso ciò che è autorevole e, di conseguenza, rilevante per i musulmani d’Uzbekistan, ovvero verso ciò che possiede la capacità di influire direttamente sul modo di concepire e di rappresentare l’Islam da parte della comunità dei fedeli musulmani. Per tale ragione presenteremo le principali e più autorevoli correnti di pensiero che riteniamo particolarmente caratterizzanti la storia della cultura islamica centroasiatica nonché utili per orientarci nell’interpretazione dell’attualità. Da qui proseguiremo esaminando le fasi diverse delle trasformazioni istituzionali islamiche avvenute in epoca sovietica prestando particolare attenzione alle diverse voci dell’autorità religiosa islamica. Indi prenderemo in esame la fase di re-islamizzazione e la comparsa di un ambiente fondamentalista chiamato mujaddidiyya; concluderemo con alcune osservazioni sulla predicazione odierna nelle moschee di Tashkent e sull’attività giurisprudenziale online di un autorevole esponente dell’Islam uzbeko.

1. Alcuni elementi caratteristici dell’Islam in Asia centrale

Ancora oggi in Italia, come altrove in Occidente, l’Asia centrale resta una terra dai tratti distintivi ancora piuttosto incerti, spesso confusa tra regioni limitrofe più facilmente identificabili. Rispetto alla storia di queste ultime l’Asia centrale viene 7 A titolo esemplificativo s.v. B. BABAJANOV - M. BRILL OLCOTT, The Terrorist Notebooks, in «Foreign Policy», March/April 2003, 135, pp. 31-40; N. ALNIAZOV, La communauté musulmane du Kazakhstan, acteurs officiels et groups officieux, in M. LARUELLE - S. PEYROUSE (sous la direction de), Islam et politique en ex-URSS (Russie d’Europe et Asie centrale), Paris, 2005, pp. 297-308. 8 Cfr., da ultimo, E. KARAGIANNIS, Political Islam in Uzbekistan: Hizb ut-Tahrir al-Islami, in «Europe-Asia Studies”, 58, 2006, 2, pp. 261-280. 9 Si consideri la lezione tenuta recentemente da Igor Rotar alla Jamestown Foundation sul tema The Future of Islamic Radicalism and Religious Freedom in Central Asia, http://www.jamestown.org/events_details.php?event_id=23.

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comunemente considerata meno civilizzata – ad esempio se confrontata con le culture sedentarie dell’antichità persiana e cinese – o meno conforme a una determinata fede – sia questa all’occorrenza il socialismo sovietico, la democratizzazione post-sovietica o l’Islam medio-orientale10.

A dispetto del luogo comune ereditato dalle rappresentazioni coloniali che vuole i territori caratterizzati dal nomadismo pastorale islamizzati più recentemente e più tiepidamente di altri, l’Asia centrale, pur nella sua eterogeneità geografica e nella stretta interdipendenza di culture sedentarie e nomadi, viene considerata (almeno dai musulmani) uno dei centri storici di elaborazione in materia di giurisprudenza islamica (fiqh) 11 , di irradiazione del pensiero sufi (tasavvuf) e di produzione libresca12. Anzi, proprio la memoria della conversione all’Islam gioca ancora oggi, come nel passato13, un ruolo di primissimo piano nelle strategie di legittimazione che alcune comunità musulmane centroasiatiche adottano per rinegoziare la propria identità allorquando devono fare fronte a trasformazioni politiche e istituzionali che potrebbero portare a un loro depotenziamento14.

Un impulso decisivo alla diffusione della religione islamica in Asia centrale non fu dato dalle conversioni forzate dai conquistatori arabi, bensì dalla corrente di pensiero chiamata murji‘a. Durante l’epoca formativa dell’Islam tale termine venne impiegato per designare una categoria di musulmani contraddistinti da una posizione neutrale nei confronti della lotta per il potere. Più tardi il suo utilizzo fu associato ad una serie di scuole dogmatiche che identificavano la fede (imān) 10 Devo questa riflessione a S.A. DUDOIGNON, Central Eurasian Studies in the European Union: A Short Insight, in S.A. DUDOIGNON – H. KOMATSU (eds.), Research Trends in Modern Central Eurasian Studies (18th-20th Centuries). A Selective and Critical Bibliography of Works Published Between 1985 and 2000, Part 1, Tokyo, 2003, p. 158. Sovente, infatti, meraviglia l’interlocutore non appassionato di cose orientali scoprire che Samarcanda o Bukhara si trovano in Uzbekistan; come se tali sofisticati esempi della civiltà islamica non potessero trovare una collocazione naturale in una regione frontaliera situata ai margini delle – e in parte inglobante le – steppe dell’Eurasia abitate un tempo dai pastori nomadi. 11 Non meravigli dunque ritrovare opere manoscritte dedicate alla prosopografia dei dottori della legge islamica di Bukhara del XIII sec. redatte tra i secoli XIV e XIX tra Egitto e Siria, cfr. A. MUMINOV, Le rôle et la place des juristes hanafites dans la vie urbane de Boukhara et de Samarcande entre le XIe et le début du XIIIe siècle, in «Cahiers d’Asie centrale», 9, 2001, p. 131. 12 Attività questa, non disgiunta da quella dei giuristi e dei sufi. I conventi (khānqāh) di dervisci, ad esempio, furono tra i luoghi più importanti per la riproduzione del patrimonio manoscritto, cfr. L. DODKHUDOEVA, La bibliothèque de Khwâja Muhammad Pârsâ, in «Cahiers d’Asie centrale», 5-6, 1998, pp. 125-132. 13 D. DEWEESE, Islamization and Native Religion in the Golden Horde. Baba Tükles and Conversion to Islam in Historical and Epic Tradition, University Park, 1994, pp. 516-532; A.J. FRANK, Muslim Religious Institutions in Imperial Russia. The Islamic World of Novouzensk District & the Kazakh Ineer Horde, 1780-1910, Leiden, 2001, pp. 274-278. 14 Si consideri, ad esempio, il caso dei “Qoja” del Kazachstan – discendenti diretti di ‘Ali e quindi degli arabi dei Quraysh –, B.G. PRIVATSKY, ‘Turkistan Belongs to the Qojas’: Local Knowledge of a Muslim Turkistan, in S.A. DUDOIGNON (ed.), Devout Societies vs. Impious States? Transmitting Islamic Learning in Russian, Central Asia and China, through the Twentieth Century, Berlin, 2004, pp. 161-212; S. ABASHIN, The Logic of Islamic Practice: A Religious Conflict in Central Asia, in «Central Asian Survey», 25, 2006, 3, pp. 267-286.

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soltanto con una professione verbale (ikrār; tasdīq bi’l-qawl) indipendentemente dalle azioni (‘amal) dell’individuo. Alla fine del secolo VII i murji‘iti ricoprirono un ruolo politico di grande rilievo nel Khurasan e nella Transoxiana, in particolare nella lotta delle popolazioni non arabe locali convertite all’Islam (mawāli) per essere esenti dalla tassa (jizya) imposta ai non musulmani dall’élite araba che rappresentava il potere del califfato umayyade. In ambito dottrinale l’istanza delle popolazioni indigene faceva leva sulla tesi murji‘ita che, come si è detto, considerava la professione di fede di per sé sufficiente perché un individuo fosse considerato un musulmano a tutti gli effetti. Per ovvie ragioni, ciò aveva un’immediata ricaduta nella sfera del giuridico, visto che l’indigeno convertitosi all’Islam sarebbe stato sollevato dall’onere del pagamento dell’imposta. Benché le comunità arabe utilizzassero qualsiasi pretesto per ostacolare la popolazione locale nel processo di conversione all’Islam, l’islamizzazione dell’Asia centrale ebbe successo appunto perché strettamente legata alla murji‘a: la tesi della divisione tra fede e pratica rese possibile alla popolazione locale di accogliere l’Islam senza eccessive complicazioni, di conquistare pari diritti all’interno delle comunità di nuova formazione e, infine, di mantenere il proprio status pur non dominando del tutto la lingua araba15. Non è questo un elemento di poco conto se consideriamo che all’inizio del Novecento, quando si disputava sulla possibilità che il sermone del venerdì (khutba) venisse pronunciato in turco in luogo dell’arabo considerate le difficoltà di comprensione manifestate dalla comunità dei fedeli 16 , un’associazione di giuristi musulmani di Tashkent indicò quale modello di tolleranza il generale arabo Qutayba ibn Muslim (m. 715) il quale, divenuto governatore per i califfi umayyadi del Khurasan, aveva fondato moschee aperte alla preghiera in persiano17.

Caduta l’Urss, si è riscoperto che l’opera di proselitismo (da‘wa) favorita dai murji’iti ebbe un ruolo significativo per favorire la diffusione dell’Islam nella regione. Sembra testimoniare tale riscoperta il fatto che negli anni Novanta a Tashkent gli imam mettevano in guardia i fedeli dall’eventualità che i fanciulli studiassero «sui libri di storia [scritti] da bugiardi, dai russi e dai miscredenti (yolghonchi, uruscha, kofircha tarikhlar), che sostengono che l’Islam fu diffuso in Asia centrale dagli arabi con la forza»18.

La storia dell’Islam d’Asia centrale fu profondamente influenzato dalla scuola giuridica (madhhab) hanafita. Tale dottrina nacque in Iraq, a Kufa, verso la metà dell’VIII sec., cioè in un’epoca travagliata da polemiche, spesso violente, nei confronti delle Tradizioni (sunna) del Profeta. Rispetto alle altre scuole giuridiche,

15 Islam na territorii byvšej Rossiskoj imperii. Ênciklopedičeskij slovar’, vypusk 4, Moskva, 2003, s.v. «al-Murdji’a» [S. KUTLU]. 16 Turkī khutba ūqūmak khusūsinda, in «al-Islāh», 1916, 10, p. 305; NAMANGĀNLĪ KHWĀJA JAHĀNGĪR MUFTĪ, Turkī khutba khusūsinda, in «al-Islāh», 1916, 13, pp. 420-423. 17 HAY’AT-I TAHRĪRĪYYA, Maslak wa maqsad, in «Izhār al-Haqq», 1918, 8, pp. 7-8. 18 OBIDKHON-QORI, Musulmon-arablar bosqinchmi?, http://muslimuzbekistan.net/uz/special/ audio/detail.php?ID=3344.

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il madhhab hanafita lascia una maggiore autonomia nella risoluzione di questioni giuridiche, che non sono documentate nei testi sacri. Il principio (asl) caratteristico dell’esercizio giurisprudenziale nel milieu hanafita è sempre stato il ragionamento analogico (qiyās), che favorisce al dottore della legge islamica il pronunciamento su casi non evidentemente contemplati dal Corano o dalla sunna o per il quale non vi sia un manifesto consenso (ijmā‘) dei giurisperiti. L’opera dei giuristi hanafiti d’Asia centrale sta alla base della nota tolleranza verso le pratiche devozionali o costumi religiosi (‘urf wa ‘ādat) pre-islamici, assimilati durante la conversione delle popolazioni locali all’Islam.

Lo sforzo di razionalità della scuola hanafita si fonda su uno studio rigoroso delle Tradizioni del Profeta. Essa nasce da un’attenzione del tutto particolare per la raccolta e la sistematizzazione dei detti e dei fatti (hadith) del Profeta, che va riconosciuta agli eruditi musulmani locali, e si accompagna allo sviluppo di grandi centri di riproduzione del sapere islamico (madrasa) nelle regioni centro-meridionali dell’Asia centrale. Sviluppo che – è bene ricordare – inizia con i Karakhanidi (999-1212), cioè nel momento in cui, per la prima volta dopo la prima ondata di conquistatori arabi, il Mawarannahr entra a far parte dei domini di uno stato tribale che comprende anche le regioni a nord e a est dell’attuale Asia centrale, fortemente eterogenee quanto a grado di islamizzazione. L’acquisizione di importanza da parte delle madrasa è favorita dal fatto che il sistema di governo in uso nello stato karakhanide era fondato sulla divisione in appannaggi. Fatto che aveva incoraggiato uno sviluppo più spontaneo dei centri urbani e sostenuto il processo di potenziamento indipendente dei centri locali di scienze musulmane. I giuristi hanafiti, che erano gli eredi della scuola murji‘ita e che appoggiavano la conversione all’Islam, esercitavano una grande influenza nelle città del Mawarannahr. Essi ebbero a cuore la difesa degli interessi della popolazione, ed essendo appunto a questa integrati provenendo dalla classe media, divennero progressivamente i capi spirituali dei cittadini: portatori della legge sacra della nuova religione, e disposti a rendere il messaggio di quest’ultima comprensibile alla gente. Per questo durante il secolo XI non furono rari i conflitti tra il sovrano karakhanide di Bukhara e la gilda dei giurisperiti hanafiti della città operavano in difesa degli interessi della popolazione19 ; al contempo andò consolidandosi la tendenza a trovare nel controllo e nella protezione delle istituzioni giuridiche islamiche un potente strumento di legittimazione del potere20.

Caratterizza ulteriormente l’Islam centroasiatico la pluralità di letture e risposte elaborate dai musulmani nei confronti di governi non islamici. Rispetto alla dominazione della regione da parte di poteri che esprimevano una cultura allogena conosciamo esempi di resistenza sia violenta che passiva. Per quanto riguarda i primi, si tenga presente la sollevazione capeggiata da un maestro della 19 Per alcuni esempi in proposito si veda A. MUMINOV, Le rôle et la place des juristes hanafites dans la vie urbane de Boukhara, cit., pp. 133-134. 20 Si leggano in questo modo anche alcune forme di mecenatismo come l’istituzione a Bukhara di una biblioteca pubblica destinata all’uso dei giuristi musulmani della città, cfr. ibidem, p. 136.

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confraternita sufi naqshbandiyya – Duchi Ishon – nel 1892 e l’attività di resistenza armata alla sovietizzazione (il cosiddetto basmachestvo), un fenomeno che impegnò militarmente l’autorità sovietiche sul largo fronte centroasiatico (valle di Ferghana e regione di Bukhara) per più di un decennio (1918-1930). Vanno poi tenuti in debito conto anche i fenomeni di resistenza passiva alla campagna di forzata secolarizzazione – denominata “assalto” (hujūm) – che prevedeva, ad esempio, manifestazioni pubbliche in cui le donne venivano “liberate” dal velo islamico. In proposito vanno rilevati i risultati di uno studio recente che mette in luce come una resistenza all’abbandono del velo o di altri costumi come il pagamento della dote da parte della famiglia della sposa (mahr/qalim) a quella dello sposo si registrasse anche presso attivisti comunisti centroasiatici, vale a dire all’interno di quegli ambienti che avrebbero dovuto facilitare sul campo la realizzazione di tale progetto di emancipazione femminile21. Nei diversi casi di resistenza attiva e passiva i dottori della legge islamica e, in più in generale, le autorità religiose sembrano avere occupato solo ruoli marginali o tutt’al più strumentali. Ad esempio, alla politica di chiusura dei tribunali islamici e di lotta al “tradizionalismo” islamico intrapreso nella seconda metà degli anni venti, alcuni gruppi di ulema reagirono – beninteso laddove essi disponevano ancora di un auditorium – esortando la popolazione a contrastare la trasformazione della società musulmana, a unirsi in una guerra santa per la creazione di uno stato islamico (musulmānābād)22. Allo stesso modo vanno letti i casi in cui le autorità religiose islamiche fiancheggiarono la resistenza dei Basmachi, emettendo delle fatwa in favore della guerra contro il governo sovietico.

Se restiamo all’ambito delle istituzioni e della cultura islamica dominato dai giurisperiti, dobbiamo registrare una tendenza di lunga durata al pragmatismo che si declina, da un lato, nel tentativo di armonizzare la sharia a sistemi di diritto allogeni e, dall’altro, nell’evitare uno scontro diretto con l’invasore di altra fede (ghayr dīn) qualora esso si dovesse risolvere a detrimento dei musulmani. Portiamo qualche esempio: tra le cronache della conquista russa dell’Asia centrale, la Storia dei Sultani Manghit occupa un posto degno di menzione. Il suo autore, Mīrzā ‘Abd al-‘Azīz Sāmī, storiografo alla corte dell’emiro Muzaffar (1860-1885), racconta i giorni successivi all’avvicinamento del sovrano bucariota a Samarcanda, interessato a sfruttare il consolidamento delle posizioni dei russi a Tashkent e nei territori limitrofi per guadagnare terreno sul rivale khan di Kokand. L’arresto di un ambasciatore del governatore russo Kaufman, la successiva

21 C. DE SANTI, Cultural Revolution and Resistance in Uzbekistan during the 1920s. New Perspectives on the Woman Question, in P. SARTORI - T. TREVISANI (eds.), Patterns of Transformation In and Around Uzbekistan, Reggio Emilia, 2007, pp. 40-76, i.c.s. Per ulteriori approfondimenti su questo ed altre aspetti della “questione femminile” nell’Uzbekistan sovietico s.v. M. KAMP, The New Woman in Uzbekistan. Islam, Modernity, and Unveiling Under Communism, Seattle, 2006. 22 P. SARTORI, The Taškent ‛Ulamā’ And the Soviet State. A Preliminary Research Note Based on NKVD Documents, in P. SARTORI - T. TREVISANI (eds.), Patterns of Transformation In and Around Uzbekistan, cit., pp. 143-166 i.c.s.

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chiamata al jihād (guerra santa) contro i “cristiani” e le sollevazioni delle madrasa di Samarcanda vengono descritte come i frutti della scelleratezza e del fanatismo delle guardie dell’emiro e dei mullā locali. All’evidente inutilità di tali azioni l’autore della cronaca contrapponeva l’opinione di un saggio dignitario bucariota, il quale, posto di fronte all’ipotesi di un confronto armato, suggeriva di stringere un accordo di pace (sulh) coi russi visto che l’esercito bucariota non aveva mai incontrato prima di allora un nemico così forte, non disponeva di armi al pari dei “cristiani” (nasārā) e sarebbe stato inevitabilmente sconfitto 23 . Simili gli argomenti di un erudito musulmano originario di Tashkent – Muhammad Yunus Khwaja (n. 1830) – che all’indomani della conquista russa lasciò l’Asia centrale per l’India perché «la fonte della sharia si era estinta». Tornato a Kokand – probabilmente dopo avere osservato gli effetti delle controversie attorno alle rivolte musulmane contro i britannici nell’India settentrionale24 – si dedicò alla compilazione di un testo in persiano in cui si dice che nei territori dell’Asia centrale conquistati dai russi era ancora possibile giudicare e dirimere questioni secondo la “nobile legge” (shar‘-i sharif), condizione sufficiente per considerare la regione una “casa dell’Islam” (dār al-Islām). L’autore proseguiva mettendo in guardia i funzionari dei tribunali islamici che sottrarsi ai propri compiti avrebbe indotto l’amministrazione coloniale ad adottare misure tali da contrastare l’Islam. In questo modo l’Asia centrale sarebbe diventata una “casa della guerra” (dār al-harb), fatto che avrebbe gettato i musulmani nella sedizione (fitna)25. Tali temi – l’inferiorità militare dei musulmani e la possibilità per questi di assolvere ai propri obblighi religiosi pur essendo assoggettati a un potere allogeno non islamico– verranno recuperati dai giurisperiti musulmani nei primi anni di dominio sovietico dell’Asia centrale. Essi, infatti, servirono a giustificare gli accordi di collaborazione tra i dottori della legge islamica e i sovietici quando in Asia centrale imperversava la resistenza armata dei Basmachi.

23 Mīrzā ‘Abd al-‘Azīz Sāmī, Tārīkh-i salātin-i manghitiyya, izdanie teksta, predislovie, perevod i primečanija L.M. Epifanovoj, Moskva, 1962, pp. 60; 68; 72. Per ulteriori riflessioni attorno a quest’opera e al suo autore s.v. J.A. GROSS, Historical Memory, Cultural Identity, and Change: Mirza ‘Abd al-‘Aziz Sami’s Representations of the Russian Conquest of Bukhara, in D.R. BROWER - E.J. LAZERINI, Russia’s Orient. Imperial Borderlands and Peoples, 1700-1917, Bloomington/Indianapolis, 1997, 203-226. 24 B. BABADJANOV, Russian Colonial Power in Central Asia as Seen by Local Muslim Intellectuals, in B. ESCHMENT - H. HARDER (eds.), Looking at the Coloniser. Cross-Cultural Perceptions in Central Asia and the Caucasus, Bengal, and Related Areas, Würzburg, 2004, p. 78, n. 10. 25 Cfr. MUHAMMAD YŪNUS KHWĀĞA B. MUHAMMAD AMĪN-KHWĀĞA (TĀ’YB), Tuhfa-i Tā’yb, podgotovka k izdaniju i predislovie B.M. Babadžanova, Š.Ch. Vachidova, H. Komatcu, Islamic Area Studies Project – Central Asian Research Series n. 6, Tashkent/Tokyo, 2002, folia 36a/b.

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2. L’Islam in Asia centrale durante l’epoca sovietica

2.1 La prima fase sovietica (1917-1938): dalla “collaborazione” alla “de-islamizzazione”

A cambiare notevolmente il volto dell’Islam centroasiatico contribuirono in misura di gran lunga maggiore della rivoluzione bolscevica le politiche di azione affermativa (1923-1932) e il Grande Terrore staliniano (1937-1938). Gli anni Venti si aprirono con molte incertezze: in Asia centrale il potere sovietico era ancora molto debole, istanze autonomiste erano state soffocate nel sangue nel 1918 e da quegli eventi era nata una resistenza armata; il panorama istituzionale e culturale di riferimento era ancora precipuamente islamico: al codice sovietico e all’autorità dei tribunali rivoluzionari spesso si preferiva la sharia o il diritto consuetudinario (‘ādat), i curricula scolastici restavano quelli della tradizione islamica, non veniva diversamente regolamentata la frequentazione delle moschee, dei conventi per sufi e il pellegrinaggio a luoghi santi. Per favorire l’avvio delle campagne di promozione delle culture nazionali e di realizzazione dei progetti di trasformazione istituzionale elaborati da Mosca, all’inizio venne favorito l’accesso dei “comunisti musulmani” al potere, cioè a incarichi all’interno dei vari commissariati del popolo e degli uffici politici. Per costruire un consenso tra la popolazione musulmana ciò non bastava. Per tale motivo venne riconosciuto de jure l’esercizio del diritto islamico, disciplinata l’autorità giuridica dei tribunali e degli organi giuridici collegiali islamici (mahkama-i shar‘iyya); e al contempo si decise in favore della restituzione delle proprietà del waqf (fondazioni pie) e la creazione di una Direzione generale del waqf incaricata della loro gestione. L’esistenza di tribunali islamici, di waqf, e di madrasa nell’Asia centrale sovietica presupponeva una “collaborazione” tra i dottori della legge islamica26 e le autorità sovietiche. Gli intellettuali musulmani non svolgevano solo la funzione di mediatori tra il potere centrale e la popolazione della periferia, non erano passivi esecutori di direttive dall’alto in cambio dei privilegi che accordava loro l’amministrazione sovietica. Essi avevano un comune interesse: la riforma della società islamica, non solo in senso progressista, ma anche rispetto a un recupero dei valori della tradizione in modo conforme alle esigenze dell’epoca. In pratica ciò si traduceva in una critica feroce a costumi religiosi e a forme di pietismo assai diffuse tra la popolazione musulmana locale quali, ad esempio, l’elargizione di danaro a figure d’autorità (shaykh) ai quali di solito si chiedeva di intercedere presso i santi, o a prezzolati predicatori apologeti (maddoh e qalandar) che si davano alla questua nei luoghi pubblici come il bazar; al contempo si biasimava esplicitamente l’attività di alcuni maestri sufi (ishon) itineranti che reclutavano discepoli e invocavano il pellegrinaggio (ziyorat) a tombe dei santi in cambio di

26 Per ulteriori approfondimenti sul tema si veda il mio Tashkent 1918, giurisperiti musulmani e autorità sovietiche contro “i predicatori del bazar”, in «Annali di Ca’ Foscari», 2006, Serie Orientale 37, XLV/3, pp. 113-139.

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danaro. Intellettuali e ulema giudicavano tali manifestazioni della religiosità popolare alla stregua di “biasimevoli innovazioni e superstizioni” (bid‘at wa khurofot). Il che offriva un punto di saldatura con la critica degli ideologi sovietici alle superstizioni e alle sopravvivenze religiose pretese pre-islamiche.

Tale collaborazione era destinata a una brevissima durata: la realizzazione delle campagne più aggressive per la modernizzazione del paese, l’incalzare dell’ateismo militante e l’attività repressiva della polizia politica misero in moto un processo di progressiva de-islamizzazione della sfera pubblica in Asia centrale che si tradusse nella chiusura delle madrasa, nell’eliminazione dei tribunali islamici a partire dal 1927, e nella definitiva nazionalizzazione del waqf nel 1930. Si tenga presente che, mentre venivano prese tali misure, procedeva il flusso migratorio – peraltro iniziato all’inizio degli anni Venti – degli ulema dall’Asia centrale verso l’India, la Turchia e l’Arabia Saudita e si succedevano le ondate di arresti che culminarono con le operazioni di massa tra ’37 e ’3827.

2.2 Il secondo dopoguerra e la creazione della nomenklatura islamica

Il 1943 fu l’anno che segnò la svolta nelle relazioni tra lo stato e le comunità musulmane dell’Urss, incluse quelle dell’Asia centrale. Stalin, pare su iniziale richiesta del muftì di Ufa Abdurrahman Rasulev che mirava a normalizzare i rapporti tra il governo sovietico e l’Islam 28 , permise la creazione di quattro direttorati spirituali per le maggiori comunità musulmane dell’Urss (Transcaucasia, Caucaso settentrionale e Daghestan, Russia europea e Siberia, Asia centrale e Kazachstan).

Dopo la morte di Stalin, prese lentamente avvio il processo di riabilitazione dei molti ulema arrestati dalla polizia politica e condannati ai lavori forzati durante gli anni Trenta o spediti al fronte durante la seconda guerra mondiale. In generale si tratta di individui che, per il fatto di essere tra i pochi ad avere avuto una formazione classica all’interno delle madrasa e a dominare le lingue orientali in caratteri arabi, vennero assunti per svolgere mansioni all’interno degli Istituti di Studi Orientali, a Dushanbe e Tashkent, quando iniziò l’opera di catalogazione dei fondi manoscritti delle filiali tagika e uzbeka dell’Accademia delle Scienze.

Tra gli ulema scampati alle purghe alcuni furono scelti per coniugare la propria competenza in materia di diritto islamico alle politiche di ingerenza dello stato sovietico nell’ambito confessionale. È il caso degli ulema reclutati all’interno dell’Amministrazione spirituale dei musulmani dell’Asia centrale, istituzione nota con l’acronimo russo Sadum (Sredneaziatskoe duchovnoe upravlenie musul’man) 27 O. HLEVNJUK, Les mécanisme de la «Grande Terreur» des annés 1937-1938 au Turkménistan, «Cahiers du monde russe», 39, 1998, pp. 197-208. 28 J.A. GROSS, The Polemic of Official and “Unofficial” Islam: Sufism in Soviet Central Asia, in F. DE JONG - B. RADTKE (eds.), Islamic Mysticism Contested: Thirteen Centuries of Controversies and Polemics, Leiden, 1999, p. 524.

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che gestiva i rapporti tra il Consiglio per gli affari dei culti religiosi e la popolazione musulmana centroasiatica29. In pratica, esso costituiva uno strumento utilizzato dallo stato per controllare e monitorare l’Islam. Al Sadum facevano capo le due uniche madrasa esistenti in Asia centrale situate una a Tashkent, l’altra a Bukhara. Esso assegnava gli imam-khatib alle moschee ufficialmente registrate presenti sul territorio repubblicano e trasmetteva loro le direttive che giungevano “dall’alto” sulla gestione dei luoghi di culto. I contenuti dei sermoni e dei discorsi degli imam-khatib delle moschee registrate dovevano attenersi all’agenda dal Sadum, le fatwa – opinioni autorevoli in materia di giurisprudenza islamica – che il muftì, capo del Sadum, aveva facoltà di emettere. In questo modo, le moschee registrate fungevano da ripetitori del “discorso islamico” ufficiale elaborato dal Sadum che, a sua volta, veniva direttamente influenzato dalle indicazioni che giungevano dal Comitato per gli affari religiosi e del culto.

La consulta del Sadum rappresentava l’apice di un’organizzazione gerarchica30, una sorta di «nomenklatura clericale»31, istituzione evidentemente non conforme alla concezione non verticistica che nell’Islam si ha dell’autorità. Essa era costituita da una “direzione” (upravlenie/hay’at) e da una commissione di revisione (taftish hay’ati) composte rispettivamente da undici e cinque membri. L’Amministrazione spirituale dei musulmani dell’Asia centrale era suddivisa in alcune sezioni, tra le quali ricordiamo, ad esempio, quelle dedicate alle fatwa32 e all’attività delle moschee. Ciascuna delle cinque repubbliche ospitava una qoziyyat, un ufficio in cui operava un “giudice”, senza però che questi avesse riconosciuta l’autorità vincolante in materia giuridica di cui solitamente dispone chi porta tale titolo nel mondo musulmano. Nel 1968 prese avvio la rivista ufficiale del Sadum, «I musulmani dell’Oriente sovietico» (Sovet sharqi musulmonlari), in cui si pubblicavano le fatwa e le ordinanze emesse dalla direzione, nonché i commenti ai decreti emanati dalle autorità governative aventi qualche relazione con la vita religiosa dei musulmani.

Dal 1943, anno di fondazione del Sadum per decreto della corte suprema dell’Urss, fino al 1989 tale istituzione venne diretta dalla famiglia Bobokhonov33. Il primo a essere eletto a capo del Sadum fu Ishon-Khon Bobokhonov (1856-1957), discendente da una famiglia di “dignitari” (kho’ja) sayrami, legata a una genealogia di maestri sufi della confraternita yasawiyya. Era una delle personalità 29 Y. RO’I, Islam in the Soviet Union. From the Second World War to Gorbachev, New York, 2000, pp. 11-12. 30 Cfr. B. BABADJANOV, Sredneaziatskoe duchovnoe upravlenie musul’man: predystorija i posledstvija raspada, in Mnogomernye granicy Central’noj Azii, Moskva, 2000, p. 56. 31 B. BABADJANOV, Islam officiel contre Islam politique en Ouzbékistan aujourd’hui: la Direction des Musulmans et les groupes non-hanafî, «Revue d’études comparatives Est-Ouest», 31, 2000, 3, p. 161. 32 Nel 1948 venne anche istituito un collegio di giurisperiti incaricato di dare responsi a questioni in materia di diritto islamico provenienti dalla popolazione. 33 Islam na territorii byvšej Rossiskoj imperii. Ênciklopedičeskij slovar’, vypusk 4, s. v. «Babachanovy» [B. BABADJANOV].

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più note – certamente non la più autorevole – tra gli ulema di Tashkent, avendo svolto saltuariamente la funzione di cadì nel quartiere Sibzar di Tashkent tra gli anni 1899 e 1916. Successivamente il posto di muftì, capo del Sadum, venne ereditato di padre in figlio fino al 1989. In questo modo si succedettero Ziyavuddin-Khan Bobokhonov (1908-1982) e suo figlio Shamsuddin-Khan Bobokhonov (1937), ritiratosi in seguito ad una manifestazione di piazza organizzata a Tashkent contro l’establishment religioso il 3 febbraio 1989. Perché i Bobokhonov furono scelti quali interlocutori del governo sovietico e rappresentanti dell’Islam centroasiatico? A nostro avviso il rapporto tra i Bobokhonov e lo stato era caratterizzato da più elementi. Anzitutto Ishon-Khon era stato, si dice, uno dei più disponibili tra i muftì e i giurisperiti musulmani di Tashkent all’adattamento del diritto musulmano alla nuova condizione istituzionale prodottasi in Asia centrale dopo la rivoluzione bolscevica e la costituzione del potere sovietico nel 1918. In secondo luogo, i Bobokhonov furono negli anni Trenta confidenti della polizia politica34.

Veniamo all’attività dei Bobokhonov all’interno del Sadum. A fianco dell’opera di costituzione stessa dell’Amministrazione spirituale dei musulmani dell’Asia centrale, Ishon-Khon Bobokhonov diede inizio all’emissione di fatwa “su richiesta” (po zakazu) del Comitato per gli affari religiosi. Si tratta di opinioni autorevoli perlopiù conformi alle campagne di modernizzazione culturale lanciate dallo stato sovietico. Nel 1947, ad esempio, egli emise una fatwa sulla non obbligatorietà dell’uso del velo (paranja) per le donne, apparentemente un tentativo di coinvolgere le autorità musulmane nella realizzazione del progetto di emancipazione femminile iniziato negli anni Venti; nello stesso anno venne pubblicata un’altra fatwa che invitava a ignorare la celebrazione della conclusione del mese dedicato al pellegrinaggio alla Mecca con la “festa del sacrificio” (qurbon hayit) – che notoriamente è, assieme a quella in cui si festeggia la rottura del digiuno (ramazon hayit), una delle “due feste” (al-‘īdān) per eccellenza del calendario islamico35.

Il lascito di Ziyovuddin-Khon è, per il ristretto ambito giurisprudenziale e di conseguenza per la storia del pensiero islamico centroasiatico, di grande interesse. Anzitutto si tenga presente che, oltre ad avere appreso le scienze religiose dal padre e nelle madrasa tashkenite Baraq-khon e Kukaldosh, egli fu uno dei discepoli di Sa‘id ibn Muhammad ibn ‘Abd al-Wahid ibn ‘Ali al-‘Asali at-Tarablusi al-Shami al-Dimashqi, meglio conosciuto in Uzbekistan con il soprannome Shomi Domlo (o Shami Domulla), un teologo di origine siriana, istallatosi a Kashghar tra il 1901 e il 1904 in seguito ad una condanna di

34 Per qualche informazione in più si veda P. SARTORI, La sovietizzazione e l’Islam in Asia centrale: gli ulema d’Uzbekistan in prospettiva storica, in: M. NORDIO (a cura di), Sguardo a Oriente. Asia centrale, Pakistan, Afghanistan, Turchia, Venezia, 2006, p. 93. 35 Questi due documenti sono reperibili in Qurbānlīqning wājib imāslīgī haqīda 1947nči yil 20nčī yānwār tārīkhlī 2nčī plīnūm qārārī; Faranjīning majbūrī īmasligī haqīda, in «Ūrtā Asiyā wa Qāzāghistān musulmānlārīnīng dīniyya nazārat zhūrnālī», 5-6, 1947, pp. 5 e 8-10.

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wahhabismo venuta dal sovrano ottomano Abdulhamid II 36 . Compiuti viaggi attraverso il Turkestan orientale e la Cina, da Pechino Shomi Domlo giunse a Tashkent il 13 febbraio nel 1919 dove rimase, ospite di diverse famiglie, fino al 1932, allorquando, accusato di spionaggio al servizio della Gran Bretagna, si darà alla fuga; arrestato, morirà in carcere nello stesso anno. Agli inizi degli anni Venti Shomi Domlo diventò una delle maggiori autorità religiose a Tashkent, dopo avere dimostrato pubblicamente la sua eccellenza sulla scienza degli hadith. In quegli anni, a dispetto delle sue inclinazioni fondamentaliste, egli fu il principale, se non addirittura, l’unico interlocutore delle autorità sovietiche durante le discussioni sull’armonizzazione del diritto islamico a quello sovietico e sulla riforma dell’ordinamento dei tribunali islamici. L’intensa attività pedagogica di Shomi Domlo a Tashkent portò alla creazione di una vera e propria scuola di pensiero – la jamā‘at ahl al-hadith – all’interno del dominio delle scienze religiose islamiche, fondata sul recupero della conoscenza delle tradizioni del Profeta, quale principio essenziale per l’orientamento del giudizio su temi non menzionati dal Corano o discussi in modo divergente dalle scuole giuridiche. Ziyovuddin Bobokhonov, dopo aver studiato nella celebre madrasa cairota al-Azhar nel 1947 e compiuto un pellegrinaggio alla Mecca nello stesso anno, inizierà a mettere in pratica gli insegnamenti degli ahl al-hadith: la lotta contro i costumi e le pratiche rituali locali, denunciate come non islamiche. Si leggano, alla luce di tale formazione religiosa, le fatwa emesse da Ziyovuddin contro il pellegrinaggio alle tombe dei santi e dei maestri sufi, nonché quelle che consideravano illegali le pratiche taumaturgiche e di divinazione. Tali opinioni autorevoli sono state commentate in diversi modi. In esse alcuni hanno rintracciato, come nel caso di quelle emesse dal padre, la sottomissione del muftì alle autorità sovietiche e un’esplicita aderenza alle campagne ideologiche contro le sopravvivenze pre-islamiche; altri, invece, hanno visto l’influenza del periodo trascorso in Arabia Saudita e i successivi contatti con i teologi provenienti dal Maghreb (durante le conferenze e gli incontri ufficiali) 37 . In particolare, si è scritto che le sue fatwa contrarie alle pratiche devozionali locali erano basate su una letteratura giuridica non conforme a quella della tradizione del diritto hanafita locale, ma sulle opere di Taqi ad-Din Ahmad ibn Taymiyya (1263-1328)38. Per le

36 Laddove non specificatamente annotato, le notizie sulla vita di Shomi Domlo provengono da A. MUMINOV, Chami-Damulla et son rôle dans la constitution d’un “Islam soviétique, in M. LARUELLE - S. PEYROUSE (sous la direction de), Islam et politique en ex-URSS (Russie d’Europe et Asie centrale), cit., pp. 241-61. 37 Islam na territorii byvšej rossiskoj imperii. Ênciklopedičeskij slovar’, vypusk 4, s. v. «Babachanovy» [B. BABADJANOV]. 38 B. BABADJANOV, Islam in Uzbekistan : From the Struggle for « Religious Purity » to Political Activism, in B. RUMER (ed.), Central Asia: A Gathering Storm?, New York/London, 2002, p. 305; B. BABADJANOV, Islam et activisme politique. Le cas Ouzbek, in «Annales. Histoire, Sciences Sociales», 59, septembre-décembre 2004, 5-6, p. 1144. Non è chiaro se tra le opinioni autorevoli espresse da Ziyovuddin Bobokhonov, a riferirsi alle opere di Ibn Taymiyya sia una sola fatwa, che condanna esplicitamente l’adesione alle confraternite sufi, cfr. B. BABADJANOV, O fetvakh SADUM protiv “neislamskikh obychaev”, in M. BRILL OLCOTT -

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sue posizione esplicitamente critiche nei confronti delle pratiche religiose tollerate dalla dottrina hanafita, Ziyovuddin Bobokhonov è ancora oggi considerato da alcuni in Uzbekistan il primo muftì “wahhabita” del periodo sovietico 39 . Dobbiamo osservare che, a dispetto di tale accusa, la maggior parte delle fatwa contrarie ai costumi religiosi locali si basa sui testi più noti e diffusi della produzione giudica hanafita40.

Shamsuddin-Khon Bobokhonov, terzo muftì del Sadum, combinò una formazione al contempo sovietica e islamica: studiò nella moschea cairota di al-Azhar negli anni 1962-1966, specializzandosi in filologia araba e poi difese una tesi di dottorato nella stessa disciplina all’Istituto moscovita di orientalistica nel 1972. Nel 1982 in mancanza di reali alternative e grazie al sostegno del padre, egli salì alla guida della Direzione spirituale del musulmani dell’Asia centrale. Una conoscenza assai limitata delle scienze religiose e comportamenti non sempre conformi al contegno richiesto a una personalità così importante per la comunità musulmana della regione furono tra i motivi principali che intaccarono l’autorità di Shamsuddin-Khon presso i fedeli musulmani dell’Asia centrale. La liberalizzazione della politica religiosa negli anni della perestrojka permisero ai detrattori di Bobokhonov di avere la sua destituzione dal posto di muftì nel 1989. Fino al 1993 lavorò come consulente presso l’Istituto di orientalistica uzbeko.

3. L’Islam non ufficiale

La creazione di una “nomenklatura islamica”, direttamente assoggettata al Comitato per gli affari religiosi e del culto, costituì il primo passo verso la divisione in Asia centrale tra i rappresentanti di un Islam ufficiale, espressione moderna ed emancipata dal tradizionalismo e dal fanatismo grazie al contributo decisivo del socialismo reale, e di un Islam non ufficiale, altrimenti detto “Islam parallelo” 41 . Nella letteratura specialistica sull’Islam in Urss prodotta in Occidente durante la guerra fredda, alla categoria “Islam non ufficiale” – beninteso descrittiva e non analitica – è stata fatto frequente ricorso per designare diversi fenomeni, pertinenti alla gestione del sacro nella sfera pubblica musulmana d’Asia centrale, caratteristici di spazi istituzionali non ufficiali. Anzitutto tale espressione è stata e viene tuttora usata per designare in modo assai generico le attività di imam, predicatori, e insegnanti di scienze religiose svolte da individui non ufficialmente abilitati dal Comitato per gli affari religiosi allo

A. MALASHENKO (eds.), Islam na postsovetskom prostranstve: vzgliad iznutri, Moskva, 2001, pp. 172-173. 39 B. BABADJANOV, Islam in Uzbekistan: From the Struggle for «Religious Purity» to Political Activism, cit., p. 306. 40 Cfr. Š. BABACHANOV, Muftij Zijavuddinchan Ibn Êshon Babachan. Žizn i dejatelnost’, Tashkent, 1999, pp. 203-213. 41 Per l’uso della categoria “Islam parallelo” come sinonimo di “sufismo s.v. A. BENNIGSEN - Ch. LEMERCIER-QUELQUEJAY, L’Islam parallelo, Genova, 1990.

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svolgimento di tali funzioni. L’espressione “Islam non ufficiale” rimanda anche a luoghi, diversi da quelli occupati dalla moschee registrate e dalle madrasa ufficiali, dedicati alla celebrazione di rituali e di insegnamenti religiosi; si dà il caso di comunità di quartiere (mahalla) che, non avendo la propria moschea, usavano il cortile domestico per riunire i fedeli nella preghiera del venerdì, oppure per celebrare funerali e feste per la circoncisione (khatna-to’y) in occasione delle quali la comunità musulmana si adunava alla presenza di un mullā non ufficiale chiamato a guidare la preghiera non rituale (du‘ā/duo). Visto che lo svolgimento di cerimonie non organizzate dalla Direzione spirituale era illegale, tali attività erano considerate un fenomeno clandestino, underground.

Se inizialmente tali manifestazioni di religiosità islamica erano considerate “popolari”, dalla seconda metà degli anni Settanta in poi, tanto in Urss quanto in Occidente, andò sempre più consolidandosi l’idea che l’Islam non ufficiale fosse cresciuto e maturato nell’alveo delle confraternite sufi (tariqa). L’Islam parallelo dei sufi diventò, e per molti ancora rimane, un fenomeno confessionale e politico provvisto di una propria ideologia e di una rete di gruppi reciprocamente solidali impenetrabili a chi non fosse adepto di una certa tariqa42. Benché tali idee fossero evidentemente frutto della macchina ideologica sovietica, esse fornirono le argomentazioni per fare dell’Islam non ufficiale il probabile antagonista del potere sovietico in Asia centrale e per individuare nel sufismo, prima ancora del fontamentalismo, la corrente di pensiero che avrebbe ispirato una politica alternativa a quella socialista. Nel 1983, ad esempio, uno dei più autorevoli esperti in materia scriveva:

The political and religious activity of the Sufi brotherhoods does present a serious threat to the Soviet system for two reasons. First, Sufi groups form small decentralized, closed societies, bound by a rigorous discipline. They exist more or less completely outside the official system. Their very existence serves as proof that other models of communal life are possibile outside the Soviet one, models based on Islam instead of Marxism. This is, in itself, an intolerable crime to the authorities. Second, the tariqa represents the hard-core of anti-Russian and anti-communist sentiments. Their adepts conduct permanent intense religious and nationalistic propaganda, numerous example of which are given in the Soviet press. In Central Asia they are probably the only outspoken adversaries of the communist regime43.

Meraviglia come allora la difficoltà di reperire fonti di prima mano inducesse alcuni studiosi a considerare in quegli anni la stampa sovietica, sulle cui note funzioni propagandistiche qui non insisteremo, una fonte sufficientemente affidabile per dare una rappresentazione inequivocabile della potenzialità eversiva del sufismo centroasiatico. La relazione tra Islam non ufficiale e sufismo è stata utilizzata per suffragare improbabili ipotesi. Taluni hanno addirittura cercato di

42 Per queste ed ulteriori osservazioni in proposito s.v W. MIYER, Islam and Colonialism. Western Perspectives on Soviet Asia, London/New York, 2002, pp. 180-181. 43 Ch. LAMERCIER-QUELQUEJAY, Sufi Brotherhoods in the USSR: A Historical Survey, «Central Asian Survey», 2, 1983, 4, p. 29.

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rintracciare nel passato la pericolosità delle confraternite, riesumando pretestuosamente gli episodi di resistenza e di ribellione armata all’impero zarista guidate da maestri sufi nel Caucaso e nell’Asia centrale; altri hanno visto un filo rosso “islamista” percorrere la storia della regione e unire i Basmachi, l’Islam parallelo e i mujāhidīn afghani degli anni Ottanta44.

Ad ogni modo, va riconosciuto che dei rapporti tra l’establishment religioso musulmano ufficiale e le personalità autorevoli dell’Islam non ufficiale in Asia centrale si conosce ancora molto poco. Solo occasionali erano infatti le notizie che riuscivano a filtrare dalle maglie della censura sulla circolazione di letteratura religiosa illegale, samizdat e materiale audio islamico, confiscato dalla polizia45. Tra i fenomeni a noi noti da mettere in relazione all’Islam non ufficiale, probabilmente il più rilevante è quello comunemente chiamato khujra, termine con il quale si denota un metodo itinerante illegale di insegnamento delle scienze religiose islamiche. Esso apparve già alla fine degli anni Trenta a Tashkent e nelle maggiori città della valle di Ferghana (Uzgent, Osh, Namangan) in reazione alla chiusura completa di maktab e madrasa. A quei tempi gli insegnanti che si dedicavano a tale attività erano generalmente individui di riconosciuta autorità religiosa che, per nascondersi alla polizia politica, cercavano un rifugio provvisorio presso famiglie – solitamente si trattava di gruppi che vantavano una genealogia profetica o alide (riconoscibili da termine kho’ja, to’ra, miyon)46 – svolgendo all’interno di queste le comuni funzione del precettore. Allora il numero dei partecipanti alle lezioni dei maestri (domulla/domlo) itineranti erano assai ridotti per il comprensibile timore di delazioni. La partecipazione a tali gruppi di studio crebbe considerevolmente durante la perestrojka. Il programma dei corsi dipendeva dalla preparazione del maestro. Alcuni si limitavano alla lettura del Corano e alle lezioni elementari di grammatica araba; altri inserivano un corso superiore di morfologia e sintassi dell’arabo, scienza degli hadith, dogmatica, etica e diritto islamico. Fu tale sistema di insegnamento, alternativo a quello impartito nelle madrasa ufficiali, che permise al pensiero legale hanafita tradizionale di sopravvivere, in particolare agli attacchi che venivano dall’establishment religioso ufficiale e dalle fatwa di Ziyovuddin Bobokhonov.

La figura più importante legata all’attività della khujra e, per questo, spesso messa in relazione al cosiddetto Islam non ufficiale, è stata Muhammadjon Rustamov detto Hindustani (1892-1989) 47 . Egli nacque nel villaggio di Chorbogh, nella provincia di Kokand, nella famiglia di Rustam hojji Kokandi, un giurista (faqīh) 44 M. BROXUP, Islam in Central Asia since Gorbachev, in «Asian Affairs», 18, 1987, 3, pp. 283-93. 45 H.B. PAKSOY, The Deceivers, in «Central Asiatic Journal», 3, 1984, 1, pp. 123-132. 46 Da una conversazione dell’autore con uno studioso tagiko, il cui apprendistato negli studi islamologici venne fatto in una khujra. 47 Per ulteriori notizie su Hindustani s.v. Islam na territorii byvšej Rossiskoj imperii. Ênciklopedičeskij slovar’, tom I, Moskva, 2006, s.v. «Chindustani» [B. BABADJANOV]; M. BRILL OLCOTT, Roots of Radical Islam in Central Asia, «Carnegie Paper» n. 77, 2007, pp. 11-13.

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di fama regionale; la formazione di Hindustani iniziò presso alcuni insegnanti di Kokand e dal 1913 si svolse a Bukhara, nella madrasa situata presso il convento sufi (khānqāh) di Ishan Sayahsin, e poi presso l’erudito di Balkh, in Afghanistan, Muhammad Gaws Sayyid-zāda. Sopraggiunta la morte di questi nel 1921, egli continuò i propri studi in una madrasa, detta Usmaniyya, nel Kashmir; da qui il suo soprannome – Hindustani – l’“Indiano”. Nel 1928 compì il pellegrinaggio alla Mecca e fece ritorno in patria solo l’anno successivo; dal 1933 al 1953 venne arrestato tre volte e spedito in confino in varie regioni dell’Urss. Servì l’Armata rossa per circa un anno, dal 1943 al 1944, fino al momento in cui fu ferito vicino a Minsk. Dalla metà degli anni Cinquanta fino a quasi la fine dei suoi giorni egli svolse le funzioni di imam della moschea Maulano Yaqub Charkhi a Dushanbe. Dopo la morte di Stalin, Hindustani venne collocato nell’Istituto di studi orientali di Dushanbe, come insegnante di urdu e per dedicarsi alla catalogazione di manoscritti. Si dice che verso la fine degli anni Cinquanta abbia iniziato a dedicarsi all’insegnamento illegale (khujra) e, al contempo, alla redazione di alcuni trattati, alcuni di genere mistico (Isharat al-Sabba’a; Pand-nama-i Hazrat-i Mawlawi); la più importante tra le sue opere è la traduzione uzbeka e commento (tafsir) del Corano in sei volumi, completata nel 1984. L’ultimo decennio della sua vita è di straordinario interesse per la storia del pensiero islamico in Asia centrale e in Uzbekistan in particolare. Sono celebri le critiche che lui mosse nel contesto di dibattiti pubblici contro le azioni e le opinioni di alcuni imam delle moschee della valle di Ferghana che – secondo Hindustani – allontanavano la comunità dei fedeli dalla dottrina hanafita. Si tratta, in particolare, di alcune abitudini diffuse presso le comunità musulmane locali durante la preghiera rituale collettiva. Ad esempio egli sosteneva la necessità di pronunciare solo internamente (makhfi) l’amen alla fine della preghiera, e non ad alta voce (jahri) come invece invitavano a fare i suoi oppositori, oppure si batteva perché alcune pratiche devozionali locali come quella di recitare alcuni versetti del Corano e altre preghiere (du‘ā) in favore di un ammalato, per reclamare l’intercessione favorevole di un santo o durante i funerali, fossero considerate conformi alla tradizione islamica.

4. Dalla perestrojka all’indipendenza: l’epoca della re-islamizzazione

Gli anni della perestrojka furono caratterizzati in Asia centrale dall’affermazione di istanze identitarie di matrice nazionalista e dalla progressiva liberalizzazione del culto islamico. La funzione di controllo e di manipolazione dell’opinione pubblica in materia religiosa svolta dal Sadum aveva dimostrato alla fine degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta di non essere efficace. Anzitutto, tra le persone che in tutta autonomia continuarono a coltivare l’erudizione islamica in Uzbekistan maturò una crescente insofferenza per l’inattualità delle posizioni dottrinarie assunte dal Sadum, insofferenza che sfociò a volte in manifesto

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dissenso48. Non va dimenticato che la mancanza di un profilo etico esemplare da parte del vertice della “nomenklatura clericale” e lo scollamento tra i vertici del Sadum e la base sociale che costituiva la comunità dei fedeli musulmani dell’Asia centrale provocarono a Tashkent nel 1989 proteste pubbliche che portarono, come si è detto, alle dimissioni del muftì Shamsuddin Bobokhonov49.

In seguito a tali proteste, alla guida del Sadum venne eletto Muhammad Sodiq Muhammad Yusuf. Nato nel 1952 nella provincia di Andijan, maturò la sua prima formazione religiosa presso il padre Muhammad Yusuf Qori, incaricato dal Sadum nel 1953 a svolgere funzioni di shaykh-guardiano principale del mausoleo di Bahā ad-Dīn Naqshband a Bukhara. Dopo avere terminato le scuole medie Muhammad Sodiq Muhammad Yusuf venne accolto nella madrasa Mīr-i ‘Arab di Bukhara e proseguì i suoi studi religiosi nell’Istituto superiore islamico al-Bukhāri di Tashkent. Tra il 1975 e il 1976 svolse la funzione di redattore presso la rivista Sovet Sharqi Musulmonlari. Non diversamente dai suoi predecessori, la formazione di Muhammad Sodiq beneficiò dei rapporti tra l’Urss e alcuni paesi del Medio Oriente; nel 1976, infatti, entrò alla facoltà di propaganda islamica (al-da‘wa al-islāmī) dell’Università nazionale di Libia. Nel 1980 prese servizio presso il Sadum al Dipartimento di relazioni internazionali e al contempo iniziò a insegnare all’Istituto al-Bukhari, di cui, dopo circa due anni, divenne vice-direttore. Nel marzo del 1989 al congresso (qurultoy) straordinario del Sadum Muhammad Sodiq Muhammad Yusuf venne eletto muftì; nello stesso anno divenne membro del Soviet supremo dell’Urss. Occupando tali posizioni, egli iniziò progressivamente a liberare l’istituzione dallo stretto controllo degli organi governativi, in particolare dalle pretese del Comitato per gli affari religiosi presso il Consiglio dei ministri dell’Urss di correggere le fatwa emesse dal Sadum, promovendo al contempo il recupero della tradizione della popolazione musulmana locale. Grazie ai suoi contatti personali con Gorbachev egli riuscì a favorire un’apertura al pellegrinaggio alla Mecca dei musulmani dell’Urss, nonché alla fondazione di nuove moschee e di istituti di insegnamento islamici.

La liberalizzazione della politica religiosa durante la perestrojka contribuì alla ricomparsa di svariate pratiche devozionali, cui Muhammad Sodiq Muhammad Yusuf reagì emettendo una serie di ordinanze mirate alla loro limitazione. In proposito, va considerato che l’amministrazione spirituale si dimostrò immediatamente insofferente nei confronti della comparsa di alcuni rituali quali, ad esempio, l’accensione di candele o lumini presso le tombe dei santi, oppure quella di cospargersi il capo e il viso della polvere delle stesse tombe. Per questo

48 A. ABDUVAKHITOV, Islamic Revivalism in Uzbekistan, in D.F. EICKELMAN (ed.), Russia’s Muslim Frontiers. New Directions in Cross-Cultural Analysis, Bloomington/Indianapolis, 1993, pp. 79-97; B. BABADJANOV, Debates over Islam in Contemporary Uzbekistan. A View from Within, in S.A. DUDOIGNON (ed.), Devout Societies vs. Impious States? Transmitting Islamic Learning in Russia, Central Asia and China, through Twentieth Century, Berlin, 2004, pp. 39-60. 49 M. BRILL OLCOTT, Islam and Fundamentalism in Indipendent Central Asia, in Y. Ro’i (ed.), Muslim Eurasia. Conflicting Legacies, London, 1995, p. 26.

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motivo in quell’epoca presso ogni considerevole mausoleo venne posto ufficialmente un imam, incaricato dal Sadum di spiegare quelle norme che il fedele fosse tenuto a seguire durante il pellegrinaggio (ziyorat) a tali siti.

La posizione occupata da Muhammad Sodiq si complicò notevolmente all’indomani dell’indipendenza acquisita dall’Uzbekistan nel settembre 1991 e durante la guerra civile in Tagikistan. Benché riconosciuto e apprezzato dai governi per essere un rappresentante dell’Islam moderato e privo di ambizioni politiche, Muhammad Sodiq dovette scontare la contiguità con le autorità religiose della valle di Ferghana – in specie quelle di Namangan che erano apertamente polemiche verso l’operato del presidente Islam Karimov – e con Turajon-zoda, cadì (qozi) del Tagikistan in epoca sovietica e leader del Partito della rinascita islamica (Hizbi nahzoti Islomi)50.

In quegli stessi anni Muhammad Sodiq tentò anche di svolgere il ruolo di mediatore tra i difensori dell’ortodossia hanafita e nuove figure d’autorità religiosa seguaci di una corrente di “rinnovamento” della fede e dell’etica islamica chiamata mujaddidiyya.

5. Mujaddidiyya e vahhobiylar

Considerata la diffusione degli scritti e delle registrazioni dei suoi maggiori teorici, la mujaddidiyya ha costituito il fenomeno culturale islamico più rilevante dell’Asia centrale tardo-sovietica che, non senza una certa approssimazione, possiamo definire fondamentalista. Per mujaddidiyya oggi51 in Uzbekistan e nei paesi limitrofi si intende una corrente di pensiero rappresentata da un gruppo di ulema della valle di Ferghana, critico nei confronti dei costumi religiosi assimilati dalla dottrina hanafita e incline a sviluppare tendenze riformatrici basate sul rigorismo nell’ambito del culto e dell’etica islamica52 . I rappresentanti di tale 50 M. BRILL OLCOTT, The Roots of Radical Islam in Central Asia, cit., pp. 19-27. 51 Il termine mujaddid (innovatore) è nell’ambito delle scienze islamiche assai evocativo, visto che si riferisce alla credenza secondo la quale all’inizio di ogni secolo del calendario islamico verrà mandata una persona incaricata di “rinnovare” l’Islam. Dall’epoca moderna l’utilizzo di tale termine è legato ad Ahmad Sirhindi (m. 1624), il rinnovatore del secondo millennio (mujaddid-i alf-i thānī), un teologo musulmano naqshbandi di origine indiana che riconciliò il misticismo con la stretta osservazione della sharia. Le critiche alle pratiche devozionali sufi, oggi comunemente considerate l’espressione del “sufismo popolare”, ebbero origine in Asia centrale a partire dal XVIII sec., con il costituirsi di una corrente chiamata naqshbandiyya-mujaddidiyya a Bukhara che ebbe notevole diffusione nella regione fino all’inizio del Novecento e che si fondava sulla rielaborazione del pensiero di Sirhindi e dei suoi epigoni riformatori. Su questo punto cfr. S. ABASHIN, Le soufisme “populaire” en Asie centrale, in M. LARUELLE - S. PEYROUSE (sous la direction de), Islam et politique en ex-URSS (Russie d’Europe et Asie centrale), cit., p. 318; P. SARTORI, Tashkent 1918: giurisperiti musulmani e autorità sovietiche contro i “predicatori del bazar”, «Annali di Ca’ Foscari», Serie orientale 37, 45, 2006, 3, p. 130, passim. 52 Altrimenti detto “neo-hanbalita” da S.A. DUDOIGNON, Islam d’Europe? Islam d’Asie? En Eurasie centrale (Russie, Caucase, Asie centrale), in A. FEILLARD (sous la direction de), L’Islam en Asie, Paris, 2001, p. 49.

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corrente predicavano la purificazione dell’Islam da alcuni costumi religiosi largamente diffusi tra la popolazione come il pellegrinaggio ai luoghi santi o la recitazione del Corano accanto ai defunti; al contempo essi accusavano di “idolatria” (shirk) i “tradizionalisti” hanafiti, inclini invece a preservare tali costumi. Paradossalmente ciò produsse una convergenza di interessi tra i rappresentanti della mujaddidiyya, il Sadum e i funzionari sovietici propensi ad estirpare le pretese sopravvivenze pre-islamiche nella regione. Dall’altro lato, probabilmente in concomitanza con l’invasione sovietica dell’Afghanistan, alcuni imam del Ferghana iniziarono a contestare il quietismo politico e l’accondiscendenza di Hindustani nei confronti delle autorità sovietiche. In particolare essi sono noti per avere predicato in favore della “guerra santa” (jihād), che loro consideravano un dovere collettivo della comunità musulmana dell’Asia centrale, da ottemperare combattendo contro il governo sovietico allo scopo di costituire uno “stato islamico” (musulmonobod)53. Hindustani, che considerava un favore divino l’attenuazione della repressione religiosa dell’era brezhneviana e della perestrojka, accusò i suoi detrattori di essere dei “wahhabiti” (in uzbeko vahhobiy), cioè dei fanatici, argomentando che nel periodo zarista simili atteggiamenti di manifesta ostilità nei confronti dei russi avevano prodotto esiti assai infausti per i musulmani54.

Ma chi sono i rappresentanti della mujaddidiyya? Colui che oggi viene considerato la figura di riferimento per il pensiero riformatore della mujaddidiyya è Hakimjon-Qori, nato nel 1898 e famoso a Margilan per avere insegnato in una khujra vicino al bazar principale della città. Fuggito col padre a Uzgent, fece ritorno a Margilan solo nel secondo dopoguerra. Attorno al 1960 si unì al gruppo di studio di Hindustani, ma senza successo: i due entrarono immediatamente in conflitto, fatto che condusse all’inevitabile loro divisione. Non si sa quali siano stati i testi che influenzarono il pensiero di Hakimjon-Qori; si dice che alla base delle sue sferzanti critiche nei confronti della dottrina hanafita vi sia stata certa letteratura saudita che entrava in Uzbekistan con i pellegrini di ritorno dalla Mecca, in particolare testi di Ibn Taymiyya e un commentario (tafsir) al Corano di

53 In evidente continuità con gli ulema di Tashkent perseguitati dalla polizia politica negli anni trenta. 54 B. BABADJANOV - M. KAMILOV, Muhammadjan Hindustani (1892-1989) and the Beginning of the “Great Schism” Among the Muslims of Uzbekistan, in S.A. DUDOIGNON - H. KOMATSU (eds.), Islam in Politics in Russia and Central Asia (Early Eighteenth to Late Twentieth Centuries), London/New York, 2001, pp. 210-219. Per alcuni anni si è detto che Hindustani fosse stato il primo a usare il termine “wahhabi” (uzb. “Vahhobiylar”) per designare gli ulema critici nei confronti dei costumi religiosi locali. Ulteriori studi hanno dimostrato come il termine fosse già in uso a Tashkent prima del 1917, in specie da Nordikhon Domlo (1899-1975), un erudito musulmano tashkenita, tra i più anziani fondatori del Sadum nonché incaricato della redazione delle prime fatwa emesse da tale istituzione. Sull’uso del termine “vahhobiy” s.v. B. BABADJANOV, Debates over Islam in Contemporary Uzbekistan, cit., pp. 39-60; la biografia di Nodirkhon-Domlo è reperibile in Islam na territorii byvšej Rossiskoj imperii. Ênciklopedičeskij slovar’, tom I, Moskva, 2006, s.v. «Nodirchon-domla» [N.R. MIRMAKHMUDOV].

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Ibn al-Kathir55; ipotesi che, in assenza di suoi scritti e di registrazione dei suoi sermoni, pare piuttosto concessiva.

Tra i più autorevoli rappresentanti della mujaddidiyya meritano di essere annoverati Rahmatulloh-Qori Alloma (1950-1981) e Abduvali Qori Mirzoyev (1952- scomparso all’aeroporto di Tashkent nel 1995, dopo essersi imbarcato su un volo per Mosca). Il primo, originario di Kokand e studente nella khujra di Hindustani, fu accusato da quest’ultimo di essere un vahhobiy e ripudiato durante un pubblico anatema (duoi bad)56; il secondo, nato ad Andijan, fu discepolo di Hakimjon-Qori a Margilan e per qualche tempo fece parte della khujra di Hindustani a Dushanbe. Tenendo conto di alcune testimonianze che sono giunte sino ai nostri giorni, pare che entrambi avessero partecipato a gruppi di studio non ufficiali organizzati da studenti di scambio egiziani a Tashkent alla fine degli anni Settanta; inoltre si sostiene fossero particolarmente influenzati dal trattato sull’unità divina al-Tawhīd del teologo settecentesco hanbalita ‘Abd al-Wahhab e da due intellettuali fondamentalisti contemporanei, l’egiziano Sayyid Qutb e il pakistano Abū’l-‘Alā Mawdūdī57.

Alla fine degli anni Settanta Rahmatulloh-Qori e Abduvali-Qori polemizzarono col maestro Hindustani in materia di giurisprudenza islamica. Di qui l’idea dello studioso uzbeko Bobojonov che tali polemiche abbiano costituito la premessa al “grande strappo” tra hanafiti tradizionalisti – rappresentati da Hindustani – e i seguaci dei due suddetti riformisti della mujaddidiyya.

Con l’implosione dell’Urss Abduvali-Qori – nel frattempo divenuto imam presso la maggiore moschea di Andijan – e i vahhobiy crebbero in numero e aumentarono la propria influenza. All’inizio degli anni Novanta l’autorità del primo raggiunse un punto apicale, tanto che sembrò in lizza per il posto di muftì, a capo del Sadum. Nel 1993 egli sostenne, assieme all’ex muftì Shamsuddin Bobokhonov, le accuse di corruzione indirizzate a Muhammad Sodiq Muhammad Yusuf. Tra questi e Abduvali-Qori non correva buon sangue: nel 1990 il muftì aveva tentato di conciliare le conseguenza dello “scisma” e i ripetuti confronti tra i gruppi della mujaddiddiyya e i radicali hanafiti.

L’acquisizione dell’indipendenza da parte dell’Uzbekistan, e il consolidamento della posizione di Islam Karimov alla guida del paese a detrimento dei partiti che avevano costellato lo scenario politico uzbeko scoraggiarono Abduvali-Qori dall’esprimere qualsivoglia ambizione politica e dal condannare apertamente l’attuale regime. Della sua popolarità cresciuta a dismisura tra la comunità dei fedeli uzbeki restano numerosissime tracce. In larga misura le più importanti sono costituite da una serie considerevole di registrazioni audio. Queste sono divise in

55 M. BRILL OLCOTT, The Roots of Radical Islam in Central Asia, cit., p. 13. 56 A. MUMINOV, Theological Schools in Central Asia, in L. JONSON - M. ESENOV (eds.), Political Islam and Conflict in Russian and Central Asia, Stockholm, 1999, p. 109, nota 14. 57 M. BRILL OLCOTT, The Roots of Radical Islam in Central Asia, cit., p. 14. Su queste due figure s.v., in italiano, M. CAMPANINI, Il pensiero islamico contemporaneo, Bologna, 2005.

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tre gruppi. Il primo raccoglie le registrazioni di tafsir del Corano; il secondo lezioni (darslar) e discorsi (nuqtlar, beninteso diversi dai sermoni – khutba) pronunciati di venerdì in moschea; il terzo è un commento (sharh) agli hadith raccolti dall’erudito damasceno Nawawi Imam Muhi al-Din Abu Zakariya Yahya Damashqi (1233-1277) nella celebre opera Riyādh al-Sālihīn 58 . Tutto questo materiale audio, che si vuole registrato nel 1992 e solo successivamente raccolto e sistematizzato in Arabia Saudita 59 , è reperibile direttamente sul web, da siti uzbeki fondamenta 60listi .

Nelle sue lezioni si individuano immediatamente i temi cari alla mujaddidiyya, quali, ad esempio, la necessità del recupero della conoscenza dei fondamenti dell’Islam come le tradizioni del Profeta61, e la trattazione dell’idolatria (shirk). Per avere un esempio di come l’erudito di Andijan fosse solito presentare il decadimento dello studio degli hadith nell’Asia centrale sovietica, si consideri la lezione Sulla storia degli hadith e dell’Islam d’Uzbekistan (Hadis va O’zbekistondagi Islom tarixi haqida) in cui si afferma:

[Per noi] è un vanto che la maggior parte di questi eruditi [muhaddith – i raccoglitori delle Tradizioni del Profeta] si formarono in questo nostro paese. Queste collezioni di hadith resteranno la base dell’insegnamento islamico in tutto il mondo fino al giorno del Giudizio. È proprio un peccato [riconoscere] che, pur essendo i maestri (ustozlar) degli hadith vissuti qui, negli ultimi tempi questo paese sia tra quelli meno osservanti. Ciò è vero e non è un caso. Gli acerrimi nemici dell’Islam hanno voluto in poco tempo sbarazzarsi dei più brillanti maestri prodotti da questo paese nell’ambito della sharia, individui eccellenti che avevano saputo scuotere il mondo intero quanto a conoscenze scientifiche. L’effetto è stato notevole. Al posto degli ulema rimasero vive solo persone comuni; solo quelli che Iddio, sia lodato e glorificato, fece salvi. Ecco fu questa la ragione per cui alla gente comune fu impedito di osservare l’Islam vero (haqiqiy Islom). Il risultato di tale grande pressione fu il divieto nel nostro paese di osservare la sunna e il Libro che sono i fondamenti del vero Islam (haqiqiy Islomning asosi). I nemici dell’Islam approfittarono dell’assenza degli ulema per stampare libri stranieri, in turco; il

58 La traduzione uzbeka in caratteri cirillici è stata recentemente ripubblicata, cfr. ABU ZAKARIYO YAHYO IBN SHARAF NAVAVIY, Riyozus-Solihiyn (Solihlar gulshani), Tashkent 2006. 59 M. BRILL OLCOTT, The Roots of Radical Islam in Central Asia, cit., p. 18. 60 http://www.islomyoli.com/audio/uzbek/Abduwali/default.htm;http://www.islamnuri.com/audio/ index.html; http://muslimuzbekistan.net/uz/special/audio/detail.php?ID=3540. Cinque lezioni (darslar) di Abduvali-Qori sono reperibili in trascrizione conforme all’attuale alfabeto uzbeko-latino e in traduzione inglese in A.J. FRANK - J. MAMATOV (eds.), Uzbek Islamic Debates, cit., pp. 9-94. 61 Con tutta probabilità questo costituisce il motivo per cui lo studioso uzbeko Ashirbek Muminov distingue nella mujaddidiyya due maggiori direttrici, rappresentante dai Ahli Hadis cioè da chi, come Hakimjon-Qori e Abduvali-Qori, ha insistito sul primato dello studio della sunna rispetto alla tradizionale letteratura giuridica afferente alla dottrina hanafita, e dai Ahli Qur’on, ovvero da chi incoraggiava la diretta consultazione del Libro e della sunna rifiutando di riconoscere l’autorità delle scuole giuridiche (mazhab), cfr. A.J. FRANK - J. MAMATOV (eds.), Uzbek Islamic Debates, cit., p. xi.

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risultato è la diffusione di hadith deboli. Orbene fratelli, gli hadith deboli sono una cosa; ma essi inserirono anche quelli falsi nei nostri libri, cioè tradizioni riguardanti il Messaggero di Dio (la pace sia su di lui) completamente inventate. Il risultato è che la nazione (millat) è stata privata dei suoi ulema, gli uomini chiamati a distinguere gli hadith veri dell’Islam in favore della gente; è stata privata dei suoi martiri (shahidlar), e le persone che non conoscevano il vero Islam iniziarono a poco a poco a riportare hadith assolutamente infondati62.

Nelle lezioni di Abduvali-Qori riecheggiano spesse volte le accuse di miscredenza (kufr). Se alcune di queste sono indirizzate verso coloro che in generale dileggiano l’Islam63, altre – quelle più frequenti – sono associate agli idolatri (mushriklar): «Iddio ha premiato l’uomo con un culto giusto (shar’iy ibodat); il giorno del Giudizio colui che avrà rifiutato tale culto sarà condannato. Tale [culto] esige la sottomissione volontaria nella vita a Dio, sia lodato e glorificato. In questo ambito l’uomo si divide in due gruppi (ikki toyfa). Credenti e miscredenti. Tra questi ultimi si contano gli idolatri e gli atei (zindiq)»64. Secondo Abduvali-Qori l’idolatria va distinta in «maggiore e minore» (katta va kichik), ed egli sostiene che pratiche devozionali quali fare offerte alle tombe dei santi, richiedere la mediazione di uno shaykh presso lo spirito di un morto65, sacrificare animali o pregare presso le tombe66 sono azioni che non verranno perdonate. Considerato il grande attaccamento delle comunità musulmane dell’Asia centrale a tali costumi religiosi è comprensibile che le posizioni di Abduvali-Qori – per la verità alcune volte esplicitamente estreme, come la condanna della musica67 – possano avere prestato l’occasione per dibattiti e polemiche tra i suoi seguaci e gli hanafiti radicali, nonché l’attenzione degli apparati di sicurezza governativi uzbeki68.

Un’altra figura di riconosciuta autorità intellettuale nella sfera dell’erudizione islamica in Uzbekistan è Obidkhon-Qori Nazarov (n. 1968), originario di Namangan. Identificato anch’egli come uno dei rappresentanti eccellenti della mujaddidiyya essendo stato discepolo di Rahmatulloh Alloma69, Obidkhon-Qori fu incaricato nel 1991 dal Sadum al posto di imam della moschea To’khtaboy di Tashkent, luogo di preghiera situato a ridosso del mercato centrale (Chorsu bozori) e frequentato assiduamente dalla comunità musulmana cittadina. La fama di Obidkhon-Qori crebbe a dismisura tra il 1990 e il 1991 grazie alla conduzione di programmi televisivi e radiofonici strutturati attorno alla discussione di 62 Cfr. A.J. FRANK - J. MAMATOV (eds.), Uzbek Islamic Debates, cit., pp. 88-92. 63 Cfr. il discorso Alloh Allohning oyatlari Rasul va uning sunnatlarini maskhara qilishlik kufrdur [Dileggiare Dio, i suoi versetti, il Profeta e la sua sunna è miscredenza], scaricabile da http://www.islomyoli.com/audio/uzbek/Abduwali/qo'shimcha.htm. 64 Cfr. A.J. FRANK - J. MAMATOV (eds.), Uzbek Islamic Debates, cit., pp. 10, 35. 65 Ibidem, p. 56 66 Ibidem, p. 79. 67 Ibidem, p. 79. 68 La scomparsa di Abduvali-Qori all’aeroporto di Tashkent nell’agosto del 1995 è ammantata di mistero. Per un quadro generale della vicenda s.v. HUMAN RIGHTs WATCH, Creating Enemies of the State. Religious Persecution in Uzbekistan, 2004, pp. 23-24. 69 A.J. FRANK - J. MAMATOV (eds.), Uzbek Islamic Debates, cit., p. 5.

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tematiche religiose. Nel 1996 fu accusato dalla Direzione dei musulmani dell’Uzbekistan (O’zbekiston Musulmonlar Idorasi) – l’istituzione succeduta al Sadum nel 1993 che dispone dell’autorità religiosa sul solo territorio uzbeko – per avere assunto delle posizioni in contrasto con le linee guida sulla predicazione emanate della Direzione stessa 70 . Obidkhon-Qori fuggì nel marzo del 1998; accusato in contumacia per gli attentati terroristici del 1999 e considerato ad oggi uno degli ideologi della pretesa corrente wahhabita (vahhobiylik) in Uzbekistan71 è tuttora ricercato72. Recentemente ha ricevuto lo stato di rifugiato politico dalle Nazioni Unite e da un paio d’anni vive in Europa73.

Benché accomunato ai teorici della mujaddidiyya, il pensiero di Obidkhon-Qori difficilmente può essere considerato simile a quello di Abduvali-Qori. Anzitutto va considerato che nelle registrazioni audio delle prediche e delle lezioni del primo il tema dell’idolatria (shirk) e la conseguente critica diretta ai costumi religiosi locali occupano uno spazio di gran lunga ridotto rispetto a quello occupato nei discorsi del secondo. Bisogna poi tenere conto del fatto che la predicazione di Obidkhon-Qori è in generale più moderata rispetto a quella di Abduvali-Qori. Così sembra dall’ascolto di una parte considerevole delle registrazioni dei suoi interventi, in cui egli risponde a delle domande poste dall’auditorio della moschea dopo il sermone del venerdì. Portiamo qui qualche esempio per dimostrare come Obidkhon-Qori fosse evidentemente favorevole al recupero e alla ri-definizione di un’etica islamica (axloq), ma come fosse al contempo sensibile al rischio che i fedeli percepissero solo il carattere normativo dei suoi responsi. Interpellato sull’eventualità che una donna debba divorziare da una marito che si dà alla vodka Obidkhon-Qori risponde:

Ora, la regola … questa è una questione delicata; suggerirti di fare immediatamente questa o quella cosa non va bene (yaramaydi). Un dottore non prescrive delle cure senza aver prima esaminato il paziente. […] Il dottore lo esaminerà, gli misurerà la febbre e farà e misurerà altre cose; gli tasterà il collo, misurerà la pressione del sangue, e solo allora, su questa base, farà una diagnosi e gli darà delle medicine. Allo stesso modo, uno non può risolvere qualsiasi problema immediatamente in modo generico. “Separati! Non lo fare!” Uno non può rispondere in questo modo.

70 HUMAN RIGHTs WATCH, Creating Enemies of the State. Religious Persecution in Uzbekistan, cit., p. 24. Secondo tale fonte, l’incompatibilità tra la Direzione dei musulmani dell’Uzbekistan e Obidkhon-Qori Nazarov avrebbe solo fornito un pretesto per il suo allontanamento dal posto di imam, voluto dalle autorità governative allorquando Obidkhon-Qori, in odore di elezione all’incarico di muftì, si rifiutò di collaborare con i servizi segreti. 71 Da un comunicato della versione uzbeka di Radio Free Europe/Radio Liberty – Ozodlik Radiosi, Obidxon qori – Ozodlik radiosi lavhasi-1 (03-04-2006), cfr. http://muslimuzbekistan.net/uz/ special/audio/detail.php?ID=3393. 72 Sulle pareti degli uffici governativi la sua foto segnaletica figura tra quelle dei ricercati dalla Direzione generale del ministero degli Affari Interni della città di Tashkent per reati contro la Costituzione della Repubblica d’Uzbekistan (Toshkent shahar Ichki ishlar Bosh Boshqarmasi tomonidan O’zbekiston Respublikasi Konstitutsiyaviy tuzumiga qarshi qaratilgan jinoyatlarni sodir etganlar qidirilmoda). 73 http://uzbek.ferghana.ru/article.php?id=311.

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Perciò ognuno deve osservare la situazione, considerare le circostanze; essere cauto. Quello che chiamiamo “separazione” è una brutta cosa. È l’ultima cosa da farsi74.

Interrogato sulla possibilità che siano uomini a lavorare nei reparti di maternità degli ospedali l’imam risponde:

È lecito se necessario; si dice che è permesso. Fondamentalmente sono gli uomini a dover curare gli uomini e così le donne dovrebbero prestare cura alle donne. Ciò vale anche per i dottori; ma se le circostanze lo impongono gli uomini possono prendersi cura delle donne e il contrario75.

La questione dell’obbligatorietà del velo viene discussa da Obidkhon-Qori in modo del tutto particolare, dimostrando di prestare attenzione non solo ai principi fondamentali che devono orientare il comportamento dei musulmani, ma anche alla contingenza sociale che caratterizza la vita del fedele. In questo modo si spiegano le opinioni conciliatorie espresse dall’imam sulla liceità per le donne di un hijāb nero:

Uno ha il diritto di vestire ciò che vuole; noi non stiamo dicendo nulla a coloro che si oppongono al velo! In linea di massima essere contrari al velo è cosa contraria anche all’Islam. Intendo andare in giro scoperti. Vanno in giro vestite in questo o quest’altro modo; non una cosa si dice in proposito. Perché devono godere di tale diritto? Hanno il diritto di andare in giro mezze nude, vestite di giallo, di rosso o piene di gioielli; perché dunque una non dovrebbe avere il diritto di vestirsi di nero? Questa è incoscienza, è un’ingiustizia. Orbene fratelli, non va bene. Voi occupate lo stesso mondo che occupano gli altri; che lo vogliate o no. Ora [ci] dovete tollerare, almeno un po’. E noi tollereremo voi. Le osserviamo camminare mezze nude per le strade; e se ne vanno in giro come se si stessero mostrando al bazar; camminiamo accanto a quelli che vendono vodka senza proferir parola. Insomma loro fanno ogni sorta di cosa e noi non diciamo niente: stiamo in silenzio, pazienti, tolleranti; ma siate anche voi tolleranti! Se voi diventerete intolleranti, allora non noi, bensì qualcuno da qualche altro paese risponderà a tale forma di intolleranza; che Dio ce ne scampi! Non è necessario. Quindi la buona condotta (yaxshi yo’l) va bene; predicare va bene; spiegare va bene; [quindi] se [qualcosa] non dovesse piacervi, spiegatelo con belle parole, dite che non vi piace. Tuttavia se non dovessero piacere, la risposta è chiara: “ora non mi sta bene quello che fate voi”. Cosa farai? Io non ho intenzione di combattere contro di voi. Se non ti sta bene che io mi vesta di nero, allora nemmeno a me piace che tu vada in giro mezza nuda. Questa è la natura delle cose; il mondo è vario. Anzi, al mondo si trovano pietanze per tutti i gusti. […] Perciò di per sé non è giusto dire che il velo nero non va bene, che bisogna fare

74 Cfr. Savollarga javoblar in http://www.islamnuri.com/audio/index.html; http://www.islomyoli.com/audio/uzbek/Obid/aralash.htm; A.J. FRANK - J. MAMATOV (eds.), Uzbek Islamic Debates, cit., pp. 131-132; 152-153. 75 Cfr. Savollarga javoblar in http://www.islamnuri.com/audio/index.html; http://www.islomyoli.com/audio/uzbek/Obid/aralash.htm; A.J. FRANK - J. MAMATOV (eds.), Uzbek Islamic Debates, cit., pp. 137; 158.

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questa o quest’altra cosa. Ci si metta quel che si vuole: l’uomo è libero; è venuto al mondo libero; che viva libero l’uomo e si vesta come vuole76.

Gli intellettuali e le figure d’autorità religiosa – ufficiale e non – vicini ai circoli della mujaddidiyya sono spesso accusati, non solo dalle autorità governative ma anche dalle gente comune, di essere dei wahhabiti. Come è già stato detto tale termine fu inizialmente usato da Hindustani per accusare alcuni suoi studenti di rigorismo e di opinioni divergenti da quelle della consolidata tradizione hanafita. Una testimonianza dell’utilizzo pretestuoso del termine “wahhabita” per reprimere moschee e imam non ossequiosi nei confronti del governo viene da Obidkhon-Qori. In una pubblica audizione – la relativa registrazione pare sia del ’92 – l’imam sostenne che:

il termine vahhobiy si incontra presso tra chi, attaccandosi alla propria scuola giuridica, anche a quello hanafita, intende diffamare chi opera in modo conforme alla sharia e chi a volte vive in stretto accordo con la religione. Ciò avviene, però, soprattutto per incoscienza e ingiustizia77.

In seguito, dai primi anni Novanta in poi, vahhobiy fu assunto nel linguaggio delle autorità politiche uzbeke per caratterizzare negativamente i movimenti e i gruppi islamisti che mostrarono di nutrire aspirazioni politiche ed elaborare programmi alternativi a quelli degli attuali regimi. È il caso, ad esempio, di un gruppo chiamato Islom lashkarlari (Milizie dell’Islam), che in pratica costituì un’agenzia di vigilantes nella città di Namangan. La sua base era localizzata nella moschea Otavalixon To’ra, il cui imam, Abdulahat, era stato studente di Rahmatulla Alloma, uno dei più feroci oppositori di Hindustani. Il gruppo venne immediatamente identificato dal Sadum come vahhobiy e accusato di avere legami economici con i Sauditi.

6. Uno sguardo alla predicazione e all’Islam online

6.1 In moschea

Frequentare oggi una moschea a Tashkent significa anzitutto osservare la progressiva riappropriazione della dimensione pubblica del “sacro” da parte delle varie componenti della società musulmana. Non raramente si incontrano in moschea persone adulte contente di potere esprimere apertamente la propria devozione in pubblico, senza i timori e le inquietudini che in epoca sovietica tale esibizione portava con sé; dall’inizio degli anni Novanta le moschee uzbeke non

76 Cfr. Savollarga javoblar in http://www.islamnuri.com/audio/index.html; http://www.islomyoli.com/audio/uzbek/Obid/aralash.htm; A.J. FRANK - J. MAMATOV (eds.), Uzbek Islamic Debates, cit., pp. 136-137; 157-158. 77 Cfr. Savollarga javoblar in http://www.islamnuri.com/audio/index.html; http://www.islomyoli.com/audio/uzbek/Obid/aralash.htm; A.J. FRANK - J. MAMATOV (eds.), Uzbek Islamic Debates, cit., pp. 142, 164.

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hanno conosciuto solo dispute islamologiche e la repressione degli apparati governativi; esse hanno anche testimoniato il complesso processo di ricomposizione della società musulmana, diventando il luogo dedicato alle riconciliazioni famigliari, al recupero della coesione nella sfera del simbolico da parte del gruppo.

Certo, non deve essere dimenticato che la predicazione nelle moschee registrate esprime il pensiero di un’autorità religiosa ufficiale – l’Ufficio dei musulmani dell’Uzbekistan – che, a sua volta, risponde alle istanze e alle sollecitazioni del Comitato per gli affari religiosi – un organo di controllo istituito presso il Consiglio dei ministri. In questo modo i contenuti della predicazione sono inevitabilmente influenzati, per non dire suggeriti, dalle autorità religiose. Fatto che, per ovvie ragioni, non sempre suscita approvazione nell’auditorium delle moschee uzbeke. Tuttavia, sarebbe assai riduttivo affermare che gli imam in Uzbekistan fungono da portavoce del governo nelle moschee; essi, oltre a tenere conto delle indicazioni che vengono dall’alto, sono chiamati dalla popolazione della moschea a svolgere più di una funzione: “predicare il bene e proibire il male”, a definire un’etica esemplare, e a offrire consolazione a chi la chiede. Quindi essi rispondono del proprio operato tanto al governo quanto ai fedeli.

Annoverato tra i più apprezzati giovani imam della parte antica, a stragrande maggioranza musulmana, di Tashkent è Isohjon Domlo. Nato ad Andijan e formatosi a Tashkent, dopo brevi esperienze di studio nel Medio Oriente arabo, Isohjon Domlo è stato assegnato al posto di imam della moschea To’khtaboy. Lì, data la grande frequentazione, capita sovente che durante la preghiera di mezzogiorno (peshin) i fedeli debbano prendere posto sui marciapiedi, lungo la strada, perché non c’è posto all’interno. I ristoranti vicino alla moschea rimangono chiusi al pubblico durante la preghiera; di norma lì si servono solo pietanze permesse (halol), non si bevono alcolici né si può fumare.

Isohjon Domlo è giovane, ha trentacinque anni, e le sue prediche, spesso urlate, sono particolarmente apprezzate dai giovani; si esprime nel dialetto uzbeko di Tashkent sottolineando la corretta pronuncia dei termini di origine araba, fenomeno comune a molti giovani imam uzbeki. I suoi sermoni del venerdì vengono regolarmente registrati in audiocassette e rivenduti, assieme ad altri, davanti alla moschea. Tra quelle che abbiamo raccolto 78 due ci sono parse particolarmente interessanti. Esse contengono due sermoni, il primo registrato il 3 marzo 2006, il secondo l’11 agosto dello stesso anno. Proprio quest’ultimo è stato letto in preparazione alla festa dell’indipendenza (mustaqillik) dell’Uzbekistan (1 settembre). Ne riportiamo qui un brano:

Certo è possibile che molti si sentano in qualche modo offesi quando noi diciamo che la libertà è un favore divino. E certamente è anche possibile che molti abbiano pensato male quando abbiamo detto che avremmo discusso del tema dell’indipendenza, dicendo che questa è un’eccelsa manna. Però colui che è

78 Quattro registrazioni che vanno da marzo a settembre 2006.

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provvisto di vera fede e che ha completamente appreso le nozioni sciaraitiche mai potrà disprezzare l’indipendenza, né potrà mai disprezzare la libertà (ammo haqiqiy chin e’tiqod bilan shar’i ma’lumotlar to’liq urganib chikkan ilmli-ma’rifatli inson hech qachon mustaqillikni qoralaolmaydi hech qachon ozodlik hurriyatni qoralaolmaydi). Perciò [va considerato che] uno dei primi comandi introdotti dalla religione islamica è stato l’annientamento della schiavitù; nella religione islamica si è iniziato a curarsi della schiavitù e a combattere i suoi regimi in modo tale che secondo la nostra legge liberare uno schiavo è un modo per espiare i peccati. Ad esempio, se un signore insulta il proprio schiavo oppure lo colpisce di proprio pugno, la sharia ha disposto che la pena corrispondente deve essere la liberazione dello schiavo. Forse questo testimonierà in favore del contributo dell’eccelsa sharia alla libertà e alla condizione di indipendenza di ogni uomo. Se voi rompete il digiuno di proposito, dovreste liberare uno schiavo; anche se commettete atti impuri dovreste dare la libertà a uno schiavo; insomma detto in breve secondo la nostra legge la maggior parte delle colpe si espia proprio dando la libertà a uno schiavo; e se la sharia ha imposto di riconoscere a una persona che è schiava il diritto alla libertà, allora considereremo un favore divino il fatto che ogni uomo possa godere del diritto di una vita libera, indipendente. […] È anche possibile che tra di noi siano sedute persone – molte delle quali fanatiche o [influenzate] da erronee convinzioni – che danno da intendere che l’indipendenza non sia un favore divino, bensì una sventura che ci è finita sulla testa. Ecco a queste persone noi ripetiamo che è Dio che fa questa grazia e che se noi non pregheremo soltanto Iddio, allora egli ci toglierà di mano questo favore e ci priverà della grazia della libertà; […] Adesso dobbiamo capire che, Dio volendo, noi possiamo starcene qui in moschea a pregare in libertà grazie a questa indipendenza. Questo non è l’elogio di una qualche personalità, né di un certo regime: dobbiamo intendere correttamente che ciò è [l’applicazione di] un vero comando sciaraitico (bu haqiqiy shar’iy bir hukm ekanligini to’g’ri tushunub yetishimiz kerak). Se in seguito all’indipendenza sono occorse alcune situazioni negative, non è colpa questa dell’indipendenza, divino favore; dovete invece capire che semmai è colpa di qualcuno.

L’obiettivo di questo sermone è evidente: presentare “l’indipendenza” come una cosa “giusta” dal punto di vista islamico in ossequio a direttive che con tutta probabilità vengono dall’alto, dalle autorità governative, e in modo conforme alle indicazioni che, sul tema, provengono dall’Ufficio dei musulmani dell’Uzbekistan. Insomma si tratta di un sermone letto “su richiesta” (po zakazu).

Rispetto a questo, il sermone sul tema delle «malevoli innovazioni e delle superstizioni che hanno danneggiato la fede islamica» (sof islomiy e’tiqodni har xil bid’atu xurofotlar wa islomi i’tiqodga zarar qiltirilgan aziatlar) offre lo spazio a ulteriori osservazioni. In questo caso l’imam identifica la superstizione con l’attività di astrologi (folbin; munajjim) e di predicatori semi-analfabeti (chala-savod duokashlar). Contro tali figure, peraltro tuttora assai diffuse nella regione, Isohjon-Domlo lancia il proprio anatema. Il sermone inizia mettendo in guardia i fedeli che si tratta di attività esistenti alla Mecca ai tempi degli idolatri arabi (arab mushriklar), prima del Profeta; indi procede sostenendo che la rivelazione islamica e l’insegnamento di Maometto hanno portato una cura (muolaja) per il malanno procurato dalle suddette superstizioni; infine Isohjon-Domlo chiude con

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una considerazione sull’epoca attuale, osservando che nel XXI secolo non si fa nulla se non consultando gli oroscopi. Per l’imam questo è un segno di inequivocabile ritorno all’epoca dell’ignoranza (johiliyyat), cioè all’epoca precedente alla rivelazione islamica.

Questo sermone rende più complessa l’interpretazione del pensiero di Isohjon-Domlo e la sua eventuale collocazione nella storia dell’autorità religiosa in Uzbekistan. Si tenga presente che in Asia centrale tutte le pratiche legate alla divinazione, all’esorcismo, alla guarigione dal malocchio o dalla possessione degli spiriti – appunto materia di individui chiamati folbin/tabib, è stata fortemente contrastata in epoca sovietica dalla propaganda ateista, dagli ulema ufficiali e da quelli della mujaddidiyya. Con l’indipendenza e il consolidamento del processo di re-islamizzazione iniziato con la perestrojka tali attività hanno conosciuto una riscoperta – si dice anche – favorita dal recupero delle svariate rappresentazioni del folklore considerate parti integranti dell’eredità culturale nazionale 79 . Ciò considerato, parrebbe che Isohjon-Domlo fosse – beninteso limitatamente a questo tema – vicino alle opinioni di chi in passato contrastava le superstizioni religiose, cioè i cosiddetti “fondamentalisti”, rappresentati da alcuni ulema del Sadum e da quelli della mujaddidiyya ferghanese.

6.2 Giurista in internet

Una delle novità nell’attuale panorama islamico d’Uzbekistan è la presenza a Tashkent di Shaykh Muhammad Sodiq Muhammad Yusuf e la crescente influenza che in tutta evidenza egli esercita in seno alla comunità nazionale musulmana. Ritornato in patria dopo un volontario esilio durato più di otto anni – nel 1993 andò in Libia a causa delle crescenti pressioni da parte governativa –, egli non occupa una posizione all’interno dell’Ufficio dei musulmani dell’Uzbekistan. Egli non fa parte ufficialmente dell’establishment religioso, ma è unanimemente considerato il più autorevole rappresentante dell’Islam d’Uzbekistan80.

Il ritorno dell’ex muftì non sembra però casuale, bensì fortemente favorito dal governo. Oggi infatti l’assoluto assoggettamento dell’Ufficio dei musulmani dell’Uzbekistan all’apparato governativo costituisce un fattore che contribuisce fortemente ad aumentare insofferenza e indifferenza verso l’operato del muftì e dei suoi collaboratori. A questo si aggiunga che è asseverato il valore puramente amministrativo della loro produzione giuridica che non riesce a riattivare in alcun

79 Per uno studio in proposito esemplare s.v. K. KEHL-BODROGI, Religiöse Heilung und Heiler in Choresm, Uzbekistan, «Max Planck Institute for Social Anthropology Working Papers» n. 73, 2005, scaricabile dal sito http://www.eth.mpg.de/pubs/wps/pdf/mpi-eth-working-paper-0073.pdf. 80 Per uno studio preliminare su Muhammad Sodiq, apparentemente troppo incline a considerare il supporto di questi a Karimov, s.v. E.M. McGLINCHEY, Islamic Leaders in Uzbekistan, in «Asia Policy», January 2006, 1, pp. 134-140.

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modo un dibattito religioso capace di coinvolgere “l’opinione pubblica”81. Inoltre i fedeli, allorquando interpellati sulle figure che rappresentano l’Ufficio dei musulmani dell’Uzbekistan, non esitano a discutere il profilo intellettuale degli ultimi due muftì. Il timore che un malcontento strisciante potesse in qualche modo favorire la coagulazione di un consenso attorno a nuove figure d’autorità religiosa apertamente critiche nei confronti del governo uzbeko non deve essere stato un elemento secondario nella valutazione che presso le alte sfere governative ha favorito il rientro di Muhammad Sodiq. In cambio il governo ne trae un consistente vantaggio. Si tenga anzitutto presente che Muhammad Sodiq Muhammad Yusuf rappresenta agli occhi della popolazione musulmana una figura religiosa di conclamata erudizione, la cui autorità nel campo delle scienze islamiche viene riconosciuta e apprezzata da diversi gruppi della popolazione. Più e più volte, almeno a Tashkent, il nostro interesse per Muhammad Sodiq Muhammad Yusuf è stato accolto da un moto di emozione e dall’approvazione da parte della gente. Proprio in virtù di tale popolarità, l’ex muftì viene impiegato dal governo per calmierare il crescente bisogno di manifestazione del religioso nella sfera pubblica. Non si spiega altrimenti come i suoi scritti – beninteso tutti pubblicati con il permesso del Comitato per gli affari religiosi 82 , quindi con l’approvazione del governo – siano reperibili quasi ovunque, nei grandi magazzini, per strada di fronte alla moschea; sorprendentemente, benché apparentemente si tratti di cultura alta, la gente comune consuma le opere di Muhammad Sodiq Muhammad Yusuf, soprattutto quelle dedicate alla giurisprudenza. Va letteralmente a ruba una serie di libretti intitolati Zikr Ahlidan So’rang (Chiedetelo ai sapienti), in cui si pubblicano i responsi di Muhammad Sodiq a svariate questioni di giurisprudenza.

Benché si tratti di un fenomeno assai limitato, che dipende cioè da un pubblico perlopiù giovane e ristretto agli individui che hanno la disponibilità economica di accedere a internet, la popolarità dell’attività di giurisperito di Muhammad Sodiq si coglie immediatamente consultando il web. Dal 2004 egli effettivamente svolge la funzione di giurista gestendo una pagina di “domande e risposte”, oggi chiamata Zikr ahlidan so’rash … Shaykh Muhammad Sodiq Muhammad Yusuf savol-javoblari sahifasi, all’interno di una sezione di un sito internet uzbeko dedicato a vari forum sull’Islam83.

Le questioni cui Muhammad Soqid è chiamato a rispondere sono di varia natura. La maggior parte rappresenta eloquentemente le dinamiche della re-

81 B. BABADJANOV, Islam officiel contre Islam politique en Ouzbékistan aujourd’hui, cit., p. 163. 82 Sui libri e i cd che contengono le sue opere si legge: O’zbekiston Republikasi Vazirlar Mahkamasi huzuridagi Din ishlari qo’mitasi […] chop etildi. 83 http://forum.islom.uz/smf/index.php. La sezione dedicata alle fatwa è stata strutturata all’interno di questo sito solo attorno alla fine dello scorso dicembre. Prima Shaykh Muhammad Soqid Muhammad Yusuf svolgeva la stessa funzione all’interno del portale islamico http://www.islam.uz, oggi versione russa di http://www.islom.uz.

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islamizzazione della società uzbeka. Infatti sono numerose le questioni relative alla corretta esecuzione di un rituale (ibodat) quale l’abluzione o la preghiera, e che dimostrano come una conoscenza ancora approssimativa dell’Islam sia tuttora diffusa tra i giovani musulmani utenti della rete; fatto che non scoraggia Muhammad Sodiq a prodigarsi in consigli e a esortare alla lettura dei testi necessari ad approfondire la conoscenza in materia.

Spesso si è indotti a pensare alla re-islamizzazione come un fenomeno che caratterizza precipuamente la vita spirituale di chi “consuma” cultura islamica, vale a dire dei fedeli. La re-islamizzazione, invece, coinvolge anche l’establishment religioso, cioè chi è ufficialmente incaricato di ri-produrre e di diffondere la cultura islamica. Capita sovente, infatti, che a Muhammad Sodiq venga chiesto quali debbano essere le qualità di un buon imam84, visto che quelle dell’individuo che guida la preghiera nella moschea del quartiere o del villaggio lasciano un po’ a desiderare. Con tutta probabilità, a distanza di tempo dal crollo dell’Urss e dell’entusiastica riscoperta del religioso, non è diminuito il numero di mullā autodidatti, spesso persone cresciute nelle scuole sovietiche e che, dopo l’indipendenza dell’Uzbekistan, hanno recuperato un’identità islamica solo formale 85 . Similmente compaiono questioni che toccano ancora la religiosità popolare, le cui pratiche, come già si è detto, restano ancora particolarmente legata a figure religiose di dubbia formazione, per le quali Muhammad Sodiq dimostra di nutrire insofferenza: «L’individuo che lei chiama domla, maestro non è. […]. Quello che fa non è giusto»86.

Numerosissime restano le questioni attorno alla liceità sciaraitica di certi comportamenti come, ad esempio, sedersi a una tavola imbandita in cui trovano posto bevande alcoliche87, oppure dedicarsi all’allevamento di maiali che saranno venduti a non musulmani88. Questioni solo apparentemente banali che indicano, invece, quanto duraturi sono gli effetti della russificazione: come cent’anni fa89, durante l’epoca zarista, così ancora oggi l’allevamento del maiale – in verità perlopiù gestito dalla minoranza coreana – e l’utilizzo di prodotti suoi 84 MUHAMMADBOBUR, Kimlar? Imom bulishga haqqli?, 15 febbraio 2007, http://forum.islom.uz/smf/index.php?topic=3855.0. 85 B.-M. PETRIC, Pouvoir, don et réseaux en Ouzbékistan post-soviétique, Paris, 2002, pp. 227-229. 86 Sheruz, Hozirgi kundagi domlalarning jamiyatdagi o’rni, 26 dicembre 2006, http://forum.islom.uz/smf/index.php?topic=3225.0. 87 Dasturxonda turli spiritli ichimliklar bor edi, 13 gennaio 2007, http://islom.uz/index.php?option=com_content&task=view&id=62&Itemid=36. 88 ABU MUSLIM, Cho’chqani g’ayridinlarga sotsa bo’ladimi?, 8 gennaio 2005; ABDULAZIZ, G’ayridinga cho’chqa yetishtirib sotsa bo’ladimi?, 10 gennaio 2005, http://www.islam.uz/fatvo/, visitato il 28 novembre 2006. 89 Per un raffronto s.v. P. SARTORI, Note sui tribunali islamici nel Turkestan russo (1865-1918), in G. GIRAUDO - A. PAVAN (a cura di), Atti del convegno “Integrazione, assimilazione, esclusione e reazione etnica” del Centro di studi balcanici (Cesbi) e dell’Associazione per lo Studio in Italia dell’Asia centrale e del Caucaso (asiac), Università di Ca’ Foscari, Venezia (22-26 novembre 2006), Napoli, 2007, i.c.s.

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succedanei90 costituiscono un’ossessione per il musulmano che ha a cuore un comportamento conforme alle prescrizioni islamiche. Accanto a queste assumono particolare rilevanza le questioni sull’elemosina rituale (zakot)91, sull’istituzione di fondazioni pie (vaqf) e sulla possibilità di eseguire transazioni attraverso istituti di credito islamici, comportamenti impensabili in epoca sovietica e che oggi diventano la principale fonte di sussistenza laddove spadroneggia il neo-patrimonialismo dei gruppi di potere.

Da una panoramica delle questioni prospettate a Muhammad Sodiq emerge in tutta evidenza un dato: la cultura islamica che oggi caratterizza la società uzbeka non è solo espressione di una cultura periferica, relegata tra i confini della regione centroasiatica. Al persistere di fenomeni come il pagamento del mahr, il prezzo della sposa – pratica tradizionale che, come l’uso del velo, fu fortemente contrastata all’inizio del periodo sovietico per promuovere spesso con la forza l’emancipazione femminile92 –, si intrecciano le storie di famiglie travagliate da conversioni alle chiese cristiane 93 – fenomeno da non sottovalutare in Asia centrale. Parimenti contribuiscono alla definizione di Islam uzbeko anche le esperienze che pervengono dall’emigrazione, nonché dalle rappresentazioni che dell’Islam si danno a livello globale. Se, da un lato, Muhammad Sodiq è chiamato a rassicurare l’Uzbeko della diaspora preoccupato dall’impurità dei piatti della mensa usati dai colleghi non musulmani 94 , dall’altro, nulla oggi ostacola il musulmano uzbeko a sentirsi parte dell’ecumene islamica e a sollecitare Muhammad Sodiq a esprimere indignazione per l’esecuzione di Saddam Hussein avvenuta in coincidenza con la celebrazione della “festa del sacrificio”95.

Nel gennaio del 2005 un tale da Margilan pose a Muhammad Sodiq le seguenti questioni:

Mi meraviglia una cosa, ovvero che ultimamente siano aumentate fatwa di vario tipo; nulla di male se ce ne sono tante, ma cosa fare se una contraddice l’altra? Di chi sono le fatwa che vanno osservate? Chi ha il diritto di emettere una fatwa? Se alcune fatwa sono in contraddizione l’una con l’altra cosa dobbiamo fare?.

90 FARHOD, Cho’chqa terisidan ishlangan qiyimlar, 15 dicembre 2004, http://www.islam.uz/fatvo/, visitato il 28 novembre 2006. 91 QORAKA, Sadaqai Joriya yoki Zakot?, 3 febbraio 2007, http://forum.islom.uz/smf/index.php?topic=3673.0. Per farsi un’idea sulla rilevanza dell’elemosina rituale nell’ambito rurale s.v. H. FATHI, Islamisme et pauvreté dans le monde rural de l’Asie centrale post-soviétique. Vers un espace de solidarité islamique?, «Documents du programme de l’UNRISD, Société civile et mouvements sociaux», novembre 2004, 14, pp. 26-30. 92 R.M. SANJAR, Mahr haqida, 9 febbraio 2007, http://forum.islom.uz/smf/index.php?topic= 3762.0. 93 JAFAR, Oli imron surasi 55 oyat, 15 febbraio 2007, http://forum.islom.uz/smf/index.php? topic=3810.0. 94 ANSORIY, Halol yoki harom?, 12 febbraio 2007, http://forum.islom.uz/smf/index.php?topic= 3798.0. 95 HANIF, Saddam qatli haqida, 16 gennaio 2007, http://forum.islom.uz/smf/index.php?topic= 3289.0.

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L’ex mufti rispose anzitutto che di norma si chiede una fatwa a una persona sapiente, devota e giusta (ilmli, taqvoli va adolatli kishi); nel caso in cui più persone corrispondessero a tale profilo – continuava la risposta del giurista – nulla vieta il richiedente di rivolgersi a chi meglio crede96.

Se fosse così come sostiene Muhammad Sodiq, allora che rimarrebbe dell’autorità dell’Ufficio dei musulmani dell’Uzbekistan? La possibilità di interpellare direttamente una qualsiasi figura autorevole nell’ambito della giurisprudenza islamica, di conclamata devozione e di comprovata giustizia, ma che non fosse assoggettata al governo uzbeko, farebbe di quest’ultima un’effettiva alternativa all’Ufficio dei musulmani dell’Uzbekistan, il cui capo/muftì, come si è detto, è per legge l’unico individuo a godere dell’autorità necessaria ad emettere delle fatwa. Muhammad Sodiq costituisce dunque un’alternativa all’odierno mufti? Solo apparentemente. Per ora Muhammad Sodiq si limita a rappresentare un pensiero islamico moderato e fortemente critico delle alternative politiche islamiste97 e del radicalismo98 così come piace al governo e, in sostanza, in modo non diverso da quello dell’Ufficio dei musulmani. A questo si aggiunga che il servizio svolto sul web da Muhammad Sodiq propone un Islam secolarizzato e saldamente ancorato alla tradizione e all’eredità (meros); fattori che in Uzbekistan contribuiscono a mantenere l’Islam come un elemento caratteristico della cultura nazionale 99 . Al contempo, però, la diffusa accessibilità del web nonché l’immediata funzionalità di forum e siti costruiti sulla formula dialogica “domanda-risposta” (savol-javoblar) veicola una definizione dell’identità islamica in modo diverso da come ciò avviene nella madrasa, nella moschea o all’interno della comunità di quartiere. Non solo il web esalta l’esperienza religiosa individuale a sfavore di quella collettiva100, ma tende necessariamente anche a ridurre la cultura islamica a un sistema normativo, nonché a promuovere una conoscenza della dottrina basata quasi esclusivamente sulla distinzione tra ciò che è lecito e ciò che non lo è.

96 MARG’ILONIY, Kimning fatvosiga…, 6 gennaio 2005, http://www.islam.uz/fatvo/, visitato il 28 novembre 2006. 97 Cfr. le critiche recentemente mosse all’Hizb ut-Tahrir in SHAYKH MUHAMMAD SODIQ MUHAMMAD YUSUF, Din nasihatdir, Tashkent, 2006, pp. 50-94. 98 Cfr. SHAYKH MUHAMMAD SODIQ MUHAMMAD YUSUF, Vasatiya – hayot yo’li, Tashkent, 2006, in specie i capitoli che biasimano le accuse di miscredenza e il terrorismo, pp. 227-230; 226-275. 99 Sul tema s.v. A. KHALID, A Secular Islam: Nation, State, and Religion in Uzbekistan, in «International Journal of Middle Eastern Studies», 35, 2003, p. 579; S.A. DUDOIGNON, Djadidisme, Mirasisme, Islamisme, in Le réformisme musulman en Asie Centrale: du «primier renouveau» à la soviétization, 1788-1937, in «Cahiers du Monde Russe», 37, 1996, 1-2, pp. 13 e 14. 100 Come descritto da O. ROY, Globalized Islam. The Search for a New Ummah, New York, 2004, pp. 183-184.

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7. Conclusioni

Il frequente ricorso al termine haqiqiy (“vero, genuino”) che riecheggia dai media e per strada – risuonano spesso espressioni quali “vera fede”, “vero credente” e “vero Islam” (haqiqiy imon, haqiqy mo’min, haqiqiy islom) – uniforma – e in larga misura anche appiattisce – i discorsi che, a vario livello, si elaborano sull’Islam in Uzbekistan. Senza dubbio tale fenomeno testimonia, ancora una volta, come l’Uzbekistan sia uno spazio in cui è in atto una contesa per la definizione dell’Islam fra attori molto diversi. Se un secolo fa la definizione del capitale culturale islamico era l’esclusivo oggetto del contendere degli ambienti intellettuali e dei gruppi che dominavano la riproduzione del sapere, oggi reclamano il diritto di rappresentare l’Islam il governo, i rappresentanti dell’Islam ufficiale, le figure d’autorità religiose che stanno al di fuori dell’Ufficio dei musulmani e la stessa comunità dei fedeli. Tali attori si proclamano – beninteso a diverso titolo – difensori dei comuni fondamenti dell’Islam nazionale: la dottrina hanafita con la sua tradizione giuridica, la cultura del misticismo, le pratiche devozionali e i costumi religiosi popolari. Fatto che inevitabilmente porta ad occasionali dispute sulla conformità o meno di una certa idea alla tradizione e causa la divisione della comunità dei fedeli tra “tradizionalisti” e “fondamentalisti/wahhabiti”.

Ciò avviene perché, secolarizzazione e nazionalizzazione a parte, l’esperienza sovietica sembra avere lasciato in eredità un complesso di inferiorità nei confronti dell’Islam arabo, percepito come affidabile interprete del messaggio divino, ma anche una diffusa insofferenza per ciò che potrebbe in qualche modo inquinare la genuinità dei prodotti tipici. Non meravigli dunque se in Uzbekistan basta un libro di un qualche autore arabo – non fa poi tanta differenza che sia un razionalista alla Muhammad ‘Abduh o un fondamentalista alla Sayyid Qutb - per essere accusati di sostenere l’Islam politico101, mentre la gente comune continua ad andare in moschea dove, tra le altre cose, si ripropone il pensiero dei tele-predicatori arabi come Amr Khaled102 o frequenta i siti islamici ufficiali uzbeki per conoscere le opere di Yusuf al-Qaradhawi103 - famoso giurista nonché rettore dell’università islamica del Qatar – tradotte in uzbeko da Shaykh Muhammad Sodiq Muhammad Yusuf104.

101 Cfr. B. BABADJANOV - M. BRILL OLCOTT, Sécularisme et Islam politique en Asie centrale, in M. LARUELLE - S. PEYROUSE (sous la direction de), Islam et politique en ex-URSS (Russie d’Europe et Asie centrale), cit., p. 329. 102 Dal sermone Gunohdan saqlanish (Preservare dal peccato) pronunciato da Yorqinjon-Qori, imam della moschea Balandmasjid di Tashkent, disponibile in audio-cassetta e scaricabile anche da http://www.uzislam.com/forum/index.php?topic=1830.msg%25msg_id%25. Per un recente approfondimento sulla figura di Amr Khaled in italiano s.v. S. SHAPIRO, Il volto dell’islam, in «Internazionale», 22 giugno 2006, 12, pp. 30-37; E. MARIANI, Dal Corano al web. La carriera mediatica di Amru Khaled, in «Meridiana», 52, 2005, pp. 117-138. 103 http://forum.islom.uz/smf/index.php?topic=1839.msg21842#msg21842. 104 Si tratta del testo Islomda halol va harom (Lecito e illecito nell’Islam) scaricabile dal sito http://www.islom.uz.

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LE RISORSE ENERGETICHE E LE ECONOMIE CENTROASIATICHE

Silvia Tosi

Introduzione

La regione centroasiatica si è imposta negli ultimi anni all’attenzione internazionale grazie alla crescente importanza strategica da essa rivestita nell’ambito di quella che spesso viene definita come una “riedizione” del Grande Gioco che nel corso del XIX secolo ha visto confrontarsi la Russia zarista e la Gran Bretagna imperiale. All’inizio del XXI secolo, la posta in gioco in questa partita è costituita in buona misura dalla possibilità di accedere ai vasti giacimenti di idrocarburi di cui alcuni paesi della regione sono ricchi.

Questo paper analizza la dimensione energetica del Grande Gioco centroasiatico esaminando le performance economiche dei singoli paesi dell’area soprattutto in riferimento allo sviluppo del loro settore energetico, le diverse opportunità di esportazione delle risorse in relazione agli ostacoli che esse incontrano e ai diversi soggetti interessati ad averne il controllo, e infine le diverse posizioni assunte dai paesi della regione all’interno delle dinamiche internazionali che contribuiscono a definire i contorni del Great Game energetico.

1. La transizione economica post-sovietica

L’analisi dell’evoluzione post-sovietica delle economie centroasiatiche deve inevitabilmente tenere conto della difficoltà di reperire statistiche attendibili riguardanti le performance economiche recenti dei singoli paesi, soprattutto in riferimento a Turkmenistan e Uzbekistan. Nel complesso è comunque possibile fare alcune considerazioni, generalmente valide per i paesi dell’Asia centrale come per tutte le repubbliche un tempo appartenenti all’Unione Sovietica.

In epoca sovietica le economie dell’Asia centrale dipendevano dai generosi sussidi concessi dal governo centrale, beneficiavano di costi artificialmente bassi per le materie prime e le risorse energetiche e potevano contare sulla pianificazione centralizzata della direzione degli scambi commerciali all’interno dell’Urss, tutti fattori che favorivano la produzione industriale locale. Come era prevedibile, le conseguenze della dissoluzione dell’Urss sulle performance economiche delle repubbliche centroasiatiche sono state particolarmente gravi, avviando una fase recessiva prolungata (con l’eccezione dell’Uzbekistan) che ha coinvolto tutti i settori economici e ha avuto effetti drammatici sulla produzione

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interna, sulla dotazione di infrastrutture e, nel complesso, sui livelli di vita della popolazione. Se il Pil pro capite cominciò a ridursi già alla fine degli anni Ottanta, a causa della crescente incertezza politica ed economica1, la rottura dei legami commerciali tra le repubbliche sovietiche ha poi privato le economie dell’Asia centrale del proprio principale mercato di esportazione, esponendole ai meno favorevoli prezzi del mercato mondiale e rivelandone l’assoluta mancanza di competitività. L’interruzione dei flussi commerciali ha anche escluso i cinque paesi dall’accesso alle proprie principali fonti di approvvigionamento di materie prime e/o risorse energetiche, provocando una grave crisi che ha influito negativamente sulla produzione industriale. Allo stesso modo, anche il settore agricolo si è trovato in difficoltà, principalmente a causa della riluttanza con cui gli Stati post-sovietici hanno intrapreso radicali riforme della proprietà terriera, che avrebbero potuto risollevare la bassa produttività del settore.

TASSO DI CRESCITA PIL REALE (%)

1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2004 vs.

1989

Kazachstan -1,0 -11,0 -5,3 -9,2 -12,6 -8,2 0,5 1,7 -1,9 2,7 9,8 13,5 9,8 9,3 9,4 9,7 10,6 2,4

Kirghizistan 4,8 -7,9 -13,8 -15,5 -20,1 -5,4 7,1 9,9 2,1 3,7 5,4 5,3 0,0 7,0 7,1 -0,2 2,7 -15,8

Tagikistan 0,2 -8,5 -32,3 -16,3 -21,3 -12,4 -16,7 1,7 5,3 3,7 8,3 10,2 9,5 10,2 10,6 6,7 7,0 -47,2

Turkmenistan 1,8 -4,7 -15,0 1,5 -17,3 -7,2 6,7 -11,4 7,1 16,5 5,5 4,3 0,3 3,3 4,5 6,0 6,0 -9,8

Uzbekistan -0,8 -0,5 -11,1 -2,3 -5,2 -0,9 1,7 5,2 4,4 4,4 4,0 4,5 4,2 4,4 7,7 7,0 7,2 19,5

Totale Asia centrale -0,2 -7,4 -10,6 -7,2 -12,1 -6,0 1,2 1,8 1,5 4,8 7,1 9,0 6,4 7,1 8,3 n.d. n.d. 0,1

Federazione Russa -3,0 -5,0 -14,5 -8,7 -12,7 -4,1 -3,6 1,4 -5,3 6,4 10,0 5,1 4,7 7,3 7,2 6,4 6,6 -17,5

Csi (senza Fed. russa) -3,4 -8,1 -12,9 -11,8 -17,7 -9,1 -3,3 1,5 1,5 2,6 6,3 8,3 6,1 8,4 10,1 n.d. n.d. -23,9

Fonte: UNECE, EIU

1 J. FALKINGHAM, The End of the Rollercoaster? Growth, Inequality and Poverty in Central Asia and the Caucasus, in «Social Policy and Administration», 39, 2005, 4, p. 341.

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TASSO DI CRESCITA PIL REALE (% )

-50,0

-40,0

-30,0

-20,0

-10,0

0,0

10,0

20,0

1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006

Armenia Kirghizistan TagikistanTurkmenistan Uzbekistan

Fonte: UNECE; per il 2005 e 2006: EIU

A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, tuttavia, tutte e cinque le economie hanno cominciato a sperimentare tassi di crescita generalmente positivi – pur con una flessione tra il 1997 e il 1998, dovuta alla crisi finanziaria che ha investito la Russia e più in generale l’Asia in tale periodo – e nel 2004 il Pil complessivo dei cinque paesi ha raggiunto i livelli del 1989 (dati Unece, vedi tabella) 2 . Ciononostante, tale dato, in apparenza incoraggiante, maschera una situazione ben più eterogenea: con l’eccezione dell’Uzbekistan (il cui Pil, secondo i dati dell’Unece, nel 2004 superava del 19,5 per cento il Pil del 1989) e del Kazachstan (+2,4 per cento rispetto al 1989), nel 2004 il Pil delle altre economie centroasiatiche era ancora ben lontano dai livelli degli ultimi anni del periodo sovietico (-47,2 per cento nel caso del Tagikistan). Per avere un’idea delle prospettive di sviluppo economico dell’Asia centrale è quindi opportuno soffermarsi sull’andamento delle singole economie nazionali dopo l’indipendenza.

Prima dell’indipendenza il Kazachstan era, tra i paesi centroasiatici, quello economicamente più legato alla Russia, che assicurava input e risorse energetiche a basso costo indispensabili per lo sviluppo della base industriale kazaka (i cui settori principali erano costituiti dall’industria metallurgica e da quella estrattiva). Oltre a ciò, l’economia kazaka era caratterizzata anche da un ampio settore agricolo, dominato dalla coltivazione di cereali (frumento in particolare) destinati alla distribuzione all’interno dell’Unione Sovietica. Non sorprende quindi che con la scomparsa dell’Urss il Kazachstan abbia dovuto affrontare una grave recessione (con una contrazione del Pil reale pari al 36 per cento tra il 1990 e il 1995, mediamente il 7 per cento annuo) caratterizzata da un vero e proprio crollo della produzione industriale (la quota del settore industriale rispetto al Pil totale è 2 UNITED NATIONS ECONOMIC COMMISSION FOR EUROPE, Economic Survey of Europe 2005 n. 2. Statistical Appendix, Geneva, 2005, pp. 70 e ss.

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passata dal 31 per cento nel 1992 al 21 per cento nel 1996)3. A partire dal 1999 l’economia kazaka ha iniziato a registrare stabilmente tassi di crescita del Pil reale positivi, sostenuti in particolare dall’alto prezzo del petrolio: a partire dal 2000 il comparto industriale è tornato a essere la voce più importante del Pil (33 per cento) e il Pil reale è cresciuto a un ritmo annuo superiore al 9 per cento (le stime relative al 2006 indicano una crescita annua del 10,6 per cento).

Il merito di tali performance positive è da attribuire indubbiamente alla ricca dotazione di idrocarburi del paese: secondo le stime Bp il Kazachstan possiede a fine 2006 riserve di petrolio pari a 39,8 miliardi di barili, il 3,3 per cento delle riserve mondiali, e riserve di gas naturale pari a 3.000 miliardi di metri cubi, l’1,7 per cento delle riserve mondiali. Per quanto non sia ancora autosufficiente a livello energetico, soprattutto a causa di una rete di infrastrutture di distribuzione, risalente all’epoca sovietica, obsoleta e in parte in stato di abbandono, il paese centroasiatico si sta avviando a diventare un produttore importante sul mercato mondiale. Il boom petrolifero degli ultimi anni è stato trainato e sostenuto da una rapida crescita degli investimenti (che nel 2006 sono cresciuti del 19 per cento rispetto all’anno precedente e hanno costituito il 26 per cento del Pil), che ha avuto ricadute positive anche su altri settori, quali il settore delle costruzioni (soprattutto di infrastrutture destinate al settore degli idrocarburi), che nel periodo gennaio-settembre 2006 ha registrato una crescita del 35 per cento rispetto allo stesso periodo del 2005, e quello dei servizi (anche in questo caso collegato all’esplorazione e allo sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi). Lo sviluppo del settore petrolifero ha anche consentito al Kazachstan di avere il reddito pro capite più alto di tutti i paesi della Csi, dopo la Federazione Russa. Il motore del boom petrolifero è costituito indubbiamente dagli investimenti diretti esteri effettuati soprattutto da compagnie occidentali, che al momento producono più dell’80 per cento del greggio del paese: dall’indipendenza, il settore petrolifero kazako è riuscito ad attrarre oltre l’80 per cento di tutti gli Ide destinati all’Asia centrale, e circa il 10 per cento degli Ide destinati ai paesi dell’ex Unione Sovietica. L’afflusso di Ide occidentali non accenna a diminuire nonostante l’atteggiamento non sempre favorevole da parte del governo kazako: soprattutto a seguito del continuo rialzo del prezzo del petrolio il governo ha infatti iniziato a chiedere con sempre maggiore insistenza di rinegoziare i contratti di esplorazione e sfruttamento stipulati con gli investitori stranieri, come nel caso della nuova legge sui production sharing agreements (Psa), approvata nel 2004, che ha fissato per i nuovi progetti di esplorazione una quota di partecipazione obbligatoria del 50 per cento per la compagnia petrolifera statale Kazmunaigaz.

Il settore petrolifero domina anche la struttura del commercio con l’estero: gli idrocarburi costituiscono oltre il 70 per cento delle esportazioni kazake e sono principalmente destinati ai mercati occidentali (anche se la Russia rappresenta per 3 I dati statistici relativi all’economia del Kazachstan sono tratti da ECONOMIST INTELLIGENCE UNIT, Country Profile Kazakhstan, London, July 2006 e da IDEM, Country Report Kazakhstan, London, January 2007.

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il paese il terzo mercato di esportazione), mentre più del 40 per cento delle importazioni del paese è costituito da macchinari destinati all’industria estrattiva, importati prevalentemente dalla Russia (che fornisce al Kazachstan il 38 per cento delle sue importazioni ed è tuttora il fornitore principale anche per quanto riguarda i beni di consumo, la cui domanda non può essere soddisfatta dalla fragile industria manifatturiera locale).

Anche il Turkmenistan possiede una significativa dotazione di petrolio e gas naturale, tanto che sin dall’indipendenza si è assistito a un massiccio spostamento della base industriale del paese dal settore manifatturiero ad alta intensità di lavoro al settore degli idrocarburi. Tuttavia, l’esistenza di generosi sussidi statali e lo stato di decadenza in cui versano gli impianti produttivi e le infrastrutture di trasporto hanno reso il settore degli idrocarburi vittima di sprechi e inefficienze. In particolare, poiché circa l’85 per cento della produzione di gas del paese viene prodotto dalla compagnia statale Turkmenneftegaz, la crescita economica del paese ha finito per dipendere, sin dai primi anni successivi all’indipendenza, dall’abilità del governo di Ashgabat di assicurare al gas turkmeno nuovi mercati di esportazione. L’attuale forte presenza statale nel settore degli idrocarburi è coerente con la scelta fatta dal paese all’indomani dell’indipendenza, in favore del mantenimento di un sistema di pianificazione economica di stampo sovietico: unico paese della Csi a non aver avviato un programma di sviluppo in collaborazione con il Fondo monetario internazionale (Fmi), il Turkmenistan si è affidato, per il proprio sviluppo, a un programma di industrializzazione basato sulla sostituzione delle importazioni, con piani di crescita pluriennali, scarse privatizzazioni (nel 2005 il contributo del settore privato al Pil era stimato intorno al 25 per cento, il livello più basso di tutta la regione centroasiatica4), forniture gratuite dei servizi (comprese le forniture energetiche), meccanismi di controllo dei prezzi, restrizioni agli investimenti stranieri.

La dotazione di risorse energetiche del paese, insieme alla costante priorità assegnata dal governo allo sviluppo del settore, ha consentito al Turkmenistan di beneficiare di una crescita sostenuta negli ultimi anni: nonostante i dati ufficiali relativi alla crescita del Pil reale siano scarsamente attendibili, le stime dell’Economist Intelligence Unit (Eiu) valutano il tasso di crescita annua del Pil reale per il 2005 e il 2006 intorno al 6 per cento. Tuttavia, è bene notare che nel periodo gennaio-luglio 2006 in termini di volumi la produzione di gas naturale del paese è cresciuta solo del 2 per cento, mentre la produzione di petrolio si è addirittura ridotta del 13 per cento: alla luce di questi dati è evidente come la crescita economica turkmena sia più che altro effetto degli alti prezzi delle esportazioni di risorse energetiche. E’ probabile che questa tendenza non cambi nei prossimi anni, anche alla luce dell’accordo firmato con la Russia alla fine del 2006, in base al quale è stato rinegoziato il prezzo delle importazioni russe di gas 4 I dati statistici relativi all’economia turkmena sono tratti da ECONOMIST INTELLIGENCE UNIT, Country Profile Turkmenistan, London, August 2006 e IDEM, Country Report Turkmenistan, London, January 2007.

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naturale turkmeno (rialzato da 65 dollari a 100 dollari per mille metri cubi; la Russia si è anche impegnata ad acquistare una maggiore quantità di gas in termini di volumi: 50 miliardi di metri cubi all’anno, contro 42 miliardi negli anni precedenti). I dati relativi alla struttura del commercio con l’estero confermano il predominio del settore degli idrocarburi nell’economia turkmena: nonostante i dati ufficiali più recenti disponibili siano relativi al 2001, l’Eiu stima che nel 2005 le esportazioni di idrocarburi (dirette principalmente verso l’Ucraina, attraverso la rete di distribuzione russa) costituissero circa il 90 per cento delle esportazioni totali del paese, mentre le importazioni di beni capitali destinati allo sviluppo dell’industria petrolifera e gasifera (provenienti tradizionalmente dalla Russia, anche se nell’ultimo biennio gli Emirati Arabi Uniti hanno acquisito maggiore importanza come paese fornitore, in virtù degli investimenti effettuati dalla compagnia Dragon Oil nell’esplorazione dei giacimenti petroliferi turkmeni nel Caspio) nello stesso anno rappresentavano circa il 60-70 per cento delle importazioni totali.

Lo sviluppo del settore energetico nazionale, tuttavia, continua a risentire in maniera accentuata di alcuni ostacoli strutturali. Il livello degli Ide è rimasto molto basso negli ultimi anni (circa 350 milioni di dollari nel 2004 e circa 300 milioni di dollari nel 2005, secondo le stime della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, un livello molto inferiore a quello degli Ide effettuati nell’altro paese centroasiatico ricco di risorse energetiche, il Kazachstan, che nel periodo 2001-2005 ha ricevuto una media di 2,7 miliardi di dollari all’anno sotto forma di Ide). Lo scarso interesse mostrato finora dagli investitori stranieri nei confronti del Turkmenistan è principalmente dovuto al clima degli affari poco favorevole che caratterizza il paese. Oltre a questo, la capacità di esportazione del paese è piuttosto limitata e dipende quasi esclusivamente dall’ormai obsoleto sistema di gasdotti russo5, per l’accesso al quale il Turkmenistan deve competere con gli altri produttori regionali di gas naturale (Federazione Russa, Kazachstan e Uzbekistan).

Sebbene le sue riserve di idrocarburi non siano sufficienti a sostenere un’esportazione su larga scala, anche l’Uzbekistan possiede una discreta dotazione di gas naturale, secondo le stime più o meno equivalente all’1 per cento delle riserve mondiali. Dopo l’indipendenza lo sviluppo del settore degli idrocarburi è stato una priorità per il governo di Tashkent, impegnato a raggiungere l’autosufficienza energetica, tanto che negli ultimi anni il paese è divenuto anche un esportatore regionale di gas naturale (verso Russia, Kirghizistan e Tagikistan). Ciononostante, la principale risorsa naturale del paese centroasiatico è costituita dai suoi giacimenti auriferi, le cui riserve sono stimate

5 Il Turkmenistan esporta il proprio gas anche attraverso il sistema di distribuzione iraniano e Tehran si sta sempre più imponendo come partner importante anche per quanto riguarda le (per ora scarse) esportazioni petrolifere turkmene, grazie alla conclusione di oil swaps tra i due paesi.

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intorno alle 2.100 tonnellate (l’Uzbekistan è il sesto paese al mondo) e la cui produzione è pari all’incirca al 3 per cento della produzione mondiale6.

Nel complesso l’economia uzbeka è ancora fortemente legata al settore agricolo, che nel 2004 costituiva il 31 per cento del Pil ed è tuttora dominato dalla coltivazione del cotone, che costituisce anche la voce principale delle esportazioni (22 per cento nel 2003). Il settore industriale viceversa costituiva, sempre nel 2004, il 25,2 per cento del Pil: al suo interno, il settore energetico costituisce la componente principale (24 per cento), mentre l’oro è la seconda componente principale delle esportazioni del paese (13,5 per cento). All’indomani dell’indipendenza, i dati ufficiali (sulla cui attendibilità, come si è accennato, è peraltro lecito nutrire qualche dubbio) hanno registrato una recessione più contenuta rispetto alle altre economie dell’Asia centrale: questo è da attribuire in gran parte agli alti prezzi mondiali dell’oro e del cotone, che hanno contribuito in misura determinante a sostenere le esportazioni. A sua volta la possibilità di beneficiare di una bilancia commerciale in attivo ha disincentivato l’adozione di riforme strutturali e l’avvio di un programma di privatizzazioni: dopo il crollo dell’Unione Sovietica l’Uzbekistan si è orientato infatti verso politiche di sviluppo guidate dallo stato, basate in particolare sulla promozione dell’industrializzazione attraverso la sostituzione delle importazioni e sull’adozione di misure protezionistiche attraverso barriere tariffarie e non tariffarie. Lo scarso sviluppo del settore privato e la presenza pervasiva dello stato in tutti i settori produttivi non solo ha reso particolarmente difficili i rapporti con le istituzioni finanziarie internazionali, Fmi in primis, ma ha anche creato un clima degli affari particolarmente ostile agli investimenti stranieri: secondo il rapporto Doing Business 2007 della Banca Mondiale, l’Uzbekistan occupa la 147° posizione su 175 paesi, la posizione più arretrata tra tutti i paesi dell’ex Urss7.

Gli alti tassi di crescita del Pil reale registrati dal paese negli ultimi anni (dal 2004 il Pil reale è cresciuto a un tasso vicino o superiore al 7 per cento annuo) sembrano quindi essere sostenuti da una combinazione di alti prezzi delle esportazioni, politiche di “compressione” delle importazioni e ampi investimenti statali per lo sviluppo delle infrastrutture nel settore degli idrocarburi, finanziati con i ricavi derivanti dall’esportazione di oro e cotone da parte di imprese statali. Accanto alla tradizionale riluttanza del governo a cedere il controllo sulle attività ritenute di importanza “strategica” (come appunto oro, cotone e idrocarburi) si è assistito più recentemente a una maggiore disponibilità ad attirare Ide soprattutto nel settore energetico e soprattutto provenienti dalla Federazione Russa: la Russia è tra l’altro il tradizionale partner commerciale del paese, assorbendo il 22 per

6 I dati statistici relativi all’economia uzbeka sono tratti da ECONOMIST INTELLIGENCE UNIT, Country Profile Uzbekistan, London, April 2006; IDEM, Country Report Uzbekistan, London, December 2006 e IDEM, Country Report Uzbekista. Update, London, February 2007. 7 WORLD BANK, Doing Business 2007. Economy Rankings, Washington D.C., 2007, http://www.doingbusiness.org/EconomyRankings.

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cento delle esportazioni – e il 70 per cento delle esportazioni di gas naturale – e fornendo il 26,8 per cento delle importazioni del paese (dati relativi al 2004).

La crescente attenzione riservata allo sfruttamento delle risorse energetiche della regione ha progressivamente marginalizzato le due economie che di tali risorse sono sostanzialmente prive, Kirghizistan e Tagikistan.

Nel primo paese, nei primi quattro anni dopo l’indipendenza il Pil reale ha subito una contrazione complessiva del 50 per cento; a partire dal 1996 il paese ha sperimentato tassi di crescita del Pil positivi, soprattutto grazie all’esplorazione e allo sfruttamento del giacimento aurifero di Kumtor, che è stimato l’ottavo giacimento mondiale. L’estrazione dell’oro ha sostenuto la crescita economica del paese (tanto che nel 2005 tale settore costituiva il 40 per cento della produzione industriale e il 35 per cento delle esportazioni) e contrastato il declino del settore manifatturiero. Ciononostante l’economia del paese centroasiatico è ancora fortemente dipendente dal settore agricolo (che sempre nel 2005 costituiva il 34 per cento del Pil), caratterizzato soprattutto da agricoltura di sussistenza, e lo stesso sviluppo del settore estrattivo resta vulnerabile, come dimostrato dalla contrazione della produzione verificatasi nel 2005 e 2006 (-15,6 per cento e -12,8 per cento rispettivamente) a causa dell’adozione di misure legislative a tutela dei lavoratori osteggiate dalla compagnia canadese Centerra Gold, che possiede la licenza per lo sfruttamento del giacimento di Kumtor8.

In seguito all’indipendenza, il Kirghizistan si è impegnato a perseguire un programma di ristrutturazione economica in collaborazione con le istituzioni finanziarie internazionali, ma le dispute interne hanno rallentato l’adozione di adeguate misure di riforma, con il risultato che il processo di privatizzazione è stato lento e insufficiente – a causa dell’opposizione interna alla cessione delle attività economiche gestite dallo stato e della sostanziale mancanza di interesse da parte degli investitori stranieri – e soprattutto a partire dalla fine degli anni Novanta il paese si è trovato gravato da un pesante debito detenuto nei confronti tanto delle istituzioni multilaterali, quanto di creditori bilaterali. L’afflusso di Ide nel paese, dopo aver segnato qualche anno di crescita positiva grazie agli investimenti effettuati per lo sviluppo della miniera di Kumtor, a partire dal 1999 ha subito un brusco declino, per poi recuperare lievemente negli ultimi anni, pur rimanendo sempre a livelli molto bassi (gli Ide netti ammontavano a 42,6 milioni di dollari nel 2005). Nonostante gli sforzi delle autorità volti a migliorare il grado di apertura economica del paese (il Kirghizistan è stato il primo paese dell’ex Unione Sovietica a entrare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, nel 1998) e sebbene il clima degli affari sia nel complesso migliore rispetto ai suoi vicini Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan (nel rapporto Doing Business 2007, il Kirghizistan figura in 90° posizione, dietro al Kazachstan – 63° – ma meglio

8 I dati statistici relativi all’economia del Kirghizistan sono tratti da ECONOMIST INTELLIGENCE UNIT, Country Profile Kyrgyz Republic, London, September 2006 e IDEM, Country Report Kyrgyz Republic, London, February 2007.

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della Federazione Russa – 96°) 9 , per il momento la quasi totalità degli Ide effettuati nel paese proviene da soggetti che hanno una certa “familiarità” con l’economia kirghiza, in particolare Federazione Russa e Kazachstan. La Russia è anche il principale partner commerciale del paese, fornendo il 34,2 per cento delle importazioni e assorbendo il 20 per cento delle esportazioni kirghize (dati relativi al 2005). Un possibile miglioramento per quanto riguarda la situazione degli Ide (il cui incoraggiamento costituisce una priorità per il governo di Bishkek) potrebbe derivare dall’approvazione da parte del Fmi, a fine marzo 2007, della richiesta delle autorità di Bishkek di entrare a far parte del programma del Fmi per i paesi fortemente indebitati (Hipc): per quanto stia crescendo all’interno della classe politica del paese l’opposizione al programma Hipc, l’adesione a esso comporterebbe per il Kirghizistan la necessità di rispettare una serie di condizionalità molto più rigide rispetto al tradizionale Poverty Reduction and Growth Facility, favorendo forse l’adozione di riforme difficili.

In epoca sovietica il Tagikistan era una delle repubbliche più povere dell’Unione e beneficiava dunque di un livello particolarmente alto di trasferimenti dal governo centrale: con il crollo sovietico questi trasferimenti sono venuti a mancare, e la guerra civile che ha devastato il paese dal 1992 al 1997 ha ulteriormente aggravato la recessione economica, provocando una contrazione annua del Pil reale mediamente pari al 17 per cento tra il 1991 e il 199610. Nel 1992 il Pil reale era già sceso al 60 per cento dei livelli del 1989, e tra il 1992 e il 1996 si è verificata un’ulteriore contrazione complessiva del 50 per cento, mentre la produzione industriale si è ridotta del 70 per cento tra il 1990 e il 1997. A partire dal 1998 il paese ha iniziato a registrare tassi di crescita del Pil sostenuti grazie alla relativa stabilità politica del paese, al recupero di alcuni settori industriali e alla forte crescita delle rimesse dei lavoratori tagiki emigrati soprattutto nella Federazione Russa (che secondo le stime Eiu nel 2005 costituivano più del 20 per cento del Pil): nonostante il tasso di crescita annua del Pil reale tra il 2000 e il 2005 sia stato mediamente del 9 per cento, nello stesso 2005 il livello del Pil tagiko era ancora all’incirca la metà del livello del 1989.

L’agricoltura resta ancora un settore importante dell’economia tagika, costituendo all’incirca un quarto del Pil (24,2 per cento; dati relativi al 2004) e assorbendo i due terzi della forza lavoro, prevalentemente impiegata nella coltivazione del cotone. Il settore industriale, che costituisce il 28 per cento del Pil (dati 2004) è dominato dall’estrazione e lavorazione dell’alluminio (che costituisce più del 40 per cento della produzione industriale). Insieme, cotone e alluminio rappresentavano nel 2005 il 77,7 per cento delle esportazioni del paese: gli alti prezzi mondiali dell’alluminio negli ultimi anni hanno sostenuto la crescita facendo crescere le esportazioni, ma hanno anche ridotto gli incentivi alla 9 WORLD BANK, Doing Business 2007. Economy Rankings, cit. 10 I dati statistici relativi all’economia tagika sono tratti da ECONOMIST INTELLIGENCE UNIT, Country Profile Tajikistan, London, April 2006 e IDEM, Country Report Tajikistan, London, December 2006.

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diversificazione delle esportazioni e mantenuto il paese in una condizione di vulnerabilità rispetto alle fluttuazioni dei prezzi mondiali delle materie prime. Va detto che la crescita dei consumi nel paese ha beneficiato non solo della crescita marcata delle rimesse dall’estero, ma è stata sostenuta anche dai crescenti proventi del traffico internazionale di droga, all’interno del quale il Tagikistan è un importante paese di transito.

Il governo si è potuto dedicare all’avvio di riforme strutturali solo al termine della guerra civile, ma tali riforme hanno proceduto lentamente e con risultati deludenti, soprattutto per quanto riguarda le privatizzazioni (l’industria dell’alluminio, la più importante del paese, è ancora nelle mani dello stato), con il risultato che il paese dipende tuttora fortemente dagli aiuti internazionali e beneficia di uno dei più bassi livelli di Ide di tutta l’Asia centrale. Nel 2003 l’afflusso di Ide ammontava a soli 32 milioni di dollari, mentre l’anno successivo sono aumentati a 272 milioni di dollari, pressoché esclusivamente a causa di un debt-for-equity swap stipulato con la Russia, che ha cancellato circa 300 milioni di dollari di debito detenuto da Dusanbe nei confronti di Mosca in cambio della cessione di attività nel comparto energetico. Proprio gli investimenti russi nel settore energetico tagiko potrebbero contribuire a sviluppare il vasto potenziale idroelettrico del paese (che è sfruttato ora solo al 5 per cento proprio a causa della mancanza di investimenti) e a ridurre la dipendenza del Tagikistan dalle importazioni di petrolio e gas provenienti da Kazachstan, Turkmenistan e Uzbekistan.

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PRINCIPALI PARTNER COMMERCIALI (%)

COMMERCIO ESTERO PER SETTORE (%)

Esportazioni Importazioni Esportazioni Importazioni Kazachstan (2005) Kazachstan (2005) Svizzera 19,8 Russia 38,0 Idrocarburi 73,8 Macchinari 43,8 Italia 15,0 Germania 7,5 Metalli 15,9 Metalli 14,7 Russia 10,5 Cina 7,2 Prodotti chimici 3,3 Idrocarburi 13,4 Francia 9,6 Stati Uniti 6,9 Alimentari 2,4 Prodotti chimici 11,5 Cina 8,7 Ucraina 4,9 Kirghizistan (2005) Kirghizistan (2005) Metalli e pietre preziose 35,1 Idrocarburi 27,9 Emirati Arabi 25,8 Russia 34,2 Prodotti minerari 14,4 Macchinari 13,1 Russia 20,0 Kazachstan 16,3 Tessile 11,5 Prodotti chimici 10,9 Kazachstan 17,3 Cina 9,3 Tagikistan (2005) Svizzera 15,5 Stati Uniti 6,1 Alluminio 61,9 Allumina 27,2Tagikistan (2004) Cotone 15,8 Petrolio 9,5 Paesi Bassi 41,4 Russia 24,2 Energia elettrica 5,8 Energia elettrica 4,3 Turchia 15,3 Kazachstan 15,2 Turkmenistan (1999-2001) Uzbekistan 7,2 Uzbekistan 12,3 Gas naturale 57,0 Macchinari 60,0 Lettonia 7,1 Azerbaigian 6,3 Petrolio 26,0 Alimentari 15,0 Svizzera 6,9 Stati Uniti 5,8 Uzbekistan (2003) Turkmenistan (2001-2003) Cotone 22,4 Macchinari 44,4 Ucraina 49,0 Russia 21,0 Oro 13,5 Materie plastiche 12,8 Italia 18,0 Ucraina 15,0 Risorse energetiche 9,8 Alimentari 9,9 Iran 11,0 Turchia 9,0 Russia 6,0 Emirati Arabi 8,0

Fonte: EIU

Turchia 5,0 Germania 4,0 Uzbekistan (2004) Russia 22,0 Russia 26,8 Cina 14,7 Corea del Sud 12,6 Turchia 6,4 Stati Uniti 8,0 Tagikistan 6,1 Germania 7,7 Kazachstan 4,2 Kazachstan 6,3

Fonte: EIU

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2. Le risorse energetiche centroasiatiche: entità e localizzazione

Fonte: EIA, Le Monde diplomatique

I paesi dell’Asia centrale negli ultimi anni hanno attirato l’attenzione internazionale in misura crescente in virtù delle risorse energetiche (petrolio e gas naturale) da esse possedute in misura consistente, soprattutto nell’area del bacino del Mar Caspio. Merita tuttavia sottolineare che non sono disponibili statistiche ufficiali relative alle riserve e alla produzione di idrocarburi del bacino del Caspio, e anche le stime esistenti variano considerevolmente. Tanto in Russia quanto in Iran (due dei cinque stati rivieraschi) lo sfruttamento delle risorse situate nel bacino del Caspio è stato finora relativamente ridotto: la quasi totalità della produzione di idrocarburi della regione proviene infatti dalle repubbliche un tempo appartenenti all’Unione Sovietica, che nel complesso possiedono riserve petrolifere stimate tra i 17 e i 48 miliardi di barili, equivalenti circa a un sesto delle riserve dei paesi non appartenenti all’Opec, e nel 2006 secondo i primi dati hanno prodotto quasi 2 milioni e 300mila barili di petrolio al giorno, pari

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all’incirca al 5 per cento della produzione non-Opec11. Secondo gli analisti nel 2010 la produzione petrolifera della regione dovrebbe assestarsi tra i 2 milioni e mezzo e i 6 milioni di barili al giorno (superiore nel complesso alla produzione del Venezuela, il principale produttore petrolifero dell’America latina)12.

Tra i paesi centroasiatici, il Kazachstan è indubbiamente quello con le più vaste riserve petrolifere, stimate tra i 9 e i 40 miliardi di barili (all’incirca pari rispettivamente a quelle di Algeria e Libia, entrambi membri dell’Opec), che sono concentrate principalmente in quattro enormi giacimenti – Tengiz, lungo la costa nordorientale del Caspio, Karachaganak, nel nord del paese vicino al confine con la Russia, Kashagan, giacimento offshore nel nord del Mar Caspio, nonché, secondo le stime del consorzio Agip KCO che sta conducendo le attività di esplorazione, il più grande giacimento situato al di fuori del Medio Oriente e il quinto giacimento mondiale, e Kurmangazy, situato anch’esso offshore, al confine tra Russia e Kazachstan 13 – ne fanno l’undicesimo paese al mondo 14 . La produzione petrolifera kazaka, pari a oltre 1,4 milioni di barili al giorno nel 2006, costituisce quasi i due terzi dell’intera produzione petrolifera della regione: Kazachstan e Azerbaigian insieme producono attualmente quasi il 90 per cento del petrolio proveniente dal bacino del Caspio15. Da solo, il Kazachstan produce nel complesso all’incirca i due terzi degli idrocarburi prodotti nell’intera regione del Caspio16: tale performance produttiva è stata possibile soprattutto grazie ai massicci investimenti americani di cui ha beneficiato il settore a partire dall’indipendenza del paese, per un totale di 20 miliardi di dollari. In effetti più del 60 per cento degli investimenti nel settore degli idrocarburi del paese è stato effettuato da compagnie americane (Chevron Texaco in testa): Chevron Texaco ed Exxon Mobil detengono nel complesso il 75 per cento (50 e 25 per cento rispettivamente) delle quote di partecipazione al consorzio internazionale che nel 1993 ha iniziato l’esplorazione e lo sfruttamento del giacimento (sia di petrolio che di gas) di Tengiz, il principale giacimento onshore del paese, mentre la stessa Exxon Mobil insieme a Conoco Phillips fa parte di un secondo consorzio internazionale (di cui fra l’altro l’italiana Eni costituisce l’operatore unico, dopo che la britannica British Gas ha ceduto la propria quota ai partner nel 2004)

11 BP, Statistical Review of World Energy 2007, London, 2007, pp. 6-8 e 22-24, http://www.bp.com, e UNITED STATES ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION, Country Analysis Brief. Caspian Basin, Washington D.C., January 2007, http://www.eia.doe.gov. 12 Ibidem. 13 UNITED STATES ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION, Country Analysis Brief. Kazakhstan, Washington D.C., October 2006, http://www.eia.doe.gov. 14 UNITED STATES CENTRAL INTELLIGENCE AGENCY, CIA World Factbook 2007, https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/docs/rankorderguide.html. 15 BP, Statistical Review of World Energy 2007, cit., p. 8. 16 R. WINSTONE - R. YOUNG, The Caspian Basin, Energy Reserves and Potential Conflicts, cit., p. 38.

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costituito per lo sfruttamento del giacimento (sia di petrolio che di gas) di Kashagan, il principale giacimento offshore17.

Per quanto la regione centroasiatica stia diventando un importante fornitore di petrolio sul mercato mondiale, ancora più rilevante è il potenziale dell’area per quanto riguarda il gas naturale. Le riserve di gas di Kazachstan, Turkmenistan e Uzbekistan ammontano (secondo le statistiche di Bp e dell’Energy Information Administration americana – Eia, relative al 2006) a circa 7.730 miliardi di metri cubi, più o meno equivalenti a quelle dell’Arabia Saudita (il quarto paese al mondo per riserve di gas) e pari all’incirca al 4 per cento delle riserve mondiali18.

Turkmenistan e Uzbekistan sono i principali produttori di gas della regione: il primo ha sviluppato il proprio settore gasifero soprattutto a partire dal 2000, dopo l’entrata in vigore di un accordo con la Russia che ha posto fine alla disputa esistente tra i due paesi sul prezzo di esportazione del gas turkmeno (che dipende quasi esclusivamente dalla rete di gasdotti gestita dalla russa Gazprom per raggiungere i mercati internazionali) e ha permesso al paese centroasiatico di diventare nel 2006 l’undicesimo produttore mondiale di gas, con una produzione di 62,2 miliardi di metri cubi, pari al 2,2 per cento della produzione mondiale (poco più del vicino Uzbekistan, che nello stesso anno ha prodotto 55,4 miliardi di metri cubi di gas)19 . Nonostante nel paese siano presenti alcuni dei più vasti giacimenti del mondo (in particolare Dauletabad e Shatlyk), essi sono stati sfruttati sin dagli anni Settanta e tendono quindi inevitabilmente ad esaurirsi: questo, unito alla mancanza di statistiche indipendenti sull’effettiva entità delle riserve di gas turkmene, getta non poche ombre sulle prospettive future del Turkmenistan come importante fornitore di gas naturale per il mercato internazionale, soprattutto in riferimento alla validità economica di alcuni nuovi progetti infrastrutturali per l’esportazione del gas turkmeno.

Diversamente dal Turkmenistan, l’Uzbekistan ha mantenuto livelli produttivi piuttosto alti anche durante gli anni Novanta (superiori ai 40 miliardi di metri cubi annui) concentrandosi sulla produzione per il mercato interno e per l’esportazione verso i propri vicini Kirghizistan, Kazachstan e Tagikistan. Le sue vaste riserve (1.870 miliardi di metri cubi nel 2006) sono distribuite in 52 diversi giacimenti situati principalmente nel bacino del fiume Amu Darya (uno dei due affluenti del Lago d’Aral) e nelle regioni sudorientali del paese20. Il loro sfruttamento tuttavia è minacciato dalla scarsa disponibilità di investimenti stranieri nel settore, dopo che nel 2005 la compagnia statale Uzbekneftegaz ha sciolto il primo e unico production sharing agreement stipulato con una compagnia occidentale (la britannica Trinity Energy): al momento le uniche compagnie straniere impegnate

17 Ibidem, p. 21. 18 BP, Statistical Review of World Energy 2007, cit., p. 22 e UNITED STATES CENTRAL INTELLIGENCE AGENCY, World Factbook 2007, cit. 19 BP, Statistical Review of World Energy 2007, cit., p. 24. 20 Ibidem, p. 22.

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nelle attività di esplorazione e sviluppo dei giacimenti uzbeki sono le russe Gazprom e Lukoil21.

Le riserve gasifere del Kazachstan sono più vaste di quelle turkmene e uzbeke (con 3mila miliardi di metri cubi nel 2006 il Kazachstan è l’undicesimo paese al mondo per riserve di gas, il secondo tra i paesi dell’ex Unione Sovietica dopo la Russia), ma sono composte prevalentemente da gas associato, e quindi sono state sfruttate relativamente poco visto che spesso il gas è stato reiniettato nel sottosuolo per facilitare l’estrazione del petrolio. Il paese è infatti divenuto un esportatore netto di gas naturale solo nel 2005, con una produzione annua di 23,3 miliardi di metri cubi (23,9 miliardi di metri cubi nel 2006), meno della metà della produzione dei suoi due vicini centroasiatici22.

I dati presentati fanno riferimento alle statistiche disponibili per le riserve accertate di idrocarburi nell’Asia centrale e nel bacino del Caspio: tuttavia il potenziale energetico della regione sembra essere molto maggiore, dato che molti dei giacimenti non sono ancora stati completamente esplorati. Le stime dell’Eia per il bacino del Caspio (che tuttavia non includono l’Uzbekistan) fissano le riserve petrolifere probabili a circa 184 miliardi di barili, che potrebbero portare le riserve complessive a un livello cinque volte maggiore di quello attuale e di poco inferiore alle attuali riserve dell’Arabia Saudita (che è il primo paese al mondo e possiede il 15 per cento delle riserve mondiali), mentre le riserve probabili di gas naturale della regione sono stimate intorno agli 8.400 miliardi di metri cubi, e porterebbero le riserve complessive a oltre il doppio del livello attuale23. RISERVE DI PETROLIO (dati alla fine del 2006):

miliardi di barili

quota sul totale (%)

rapporto riserve/ produzione (anni)

Azerbaigian 7,0 0,6 29,3 Federazione Russa 79,5 6,6 22,3 Iran 137,5 11,4 86,7 Kazachstan 39,8 3,3 76,5 Turkmenistan 0,5 <0,1 9,2 Uzbekistan 0,6 <0,1 13,0 Totale ex-Unione Sovietica 128,2 10,6 28,6 Totale ex-Urss (esclusa Russia) 48,7 4,1 n.d. Totale Medio Oriente 742,7 61,5 79,5 Totale OPEC 905,5 74,9 72,5 Totale non-OPEC 174,5 14,4 13,6 TOTALE MONDIALE 1200,7 100,0 40,6 Fonte: BP 2007 21 UNITED STATES ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION, Country Analysis Brief. Central Asia, Washington D.C., September 2005, http://www.eia.doe.gov. 22 BP, Statistical Review of World Energy 2007, cit., p. 22 e 24. 23 UNITED STATES ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION, Caspian Sea Region: Survey of Key Oil and Gas Statistics and Forecasts, Washington D.C., July 2006.

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RISERVE DI GAS NATURALE (dati alla fine del 2006):

miliardi di metri cubi

quota sul totale (%)

rapporto riserve/ produzione (anni)

Azerbaigian 1350 0,7 > 100 Federazione Russa 47650 26,3 77,8 Iran 28130 15,5 > 100 Kazachstan 3000 1,7 > 100 Turkmenistan 2860 1,6 46,0 Uzbekistan 1870 1,0 33,7 Totale Europa e Eurasia 64130 35,3 59,8 Totale Medio Oriente 73470 40,5 > 100 TOTALE MONDIALE 181460 100 63,3 Fonte: BP 2007

PRODUZIONE PETROLIO (migliaia di barili al giorno):

2001 2002 2003 2004 2005 2006 quota sul totale (%, dati 2006)

Azerbaigian 301 311 313 315 452 654 0,8 Federazione Russa 7056 7698 8544 9287 9552 9769 12,3 Iran 3794 3543 4183 4248 4268 4343 5,4 Kazachstan 836 1018 1111 1297 1356 1426 1,7 Turkmenistan 162 182 202 193 192 163 0,2 Uzbekistan 171 171 166 152 126 125 0,1 Totale ex-Unione Sovietica 8660 9533 10499 11407 11840 12299 15,3

Totale ex-Urss (esclusa Russia) 1604 1835 1955 2120 2288 2530 3,1

Totale Medio Oriente 23107 21642 23395 24764 25352 25589 31,0 Totale OPEC 30857 29031 30884 33175 34068 34202 41,9 Totale non-OPEC 44075 45466 46172 47068 47183 47461 58,1 TOTALE MONDIALE 74932 74496 77056 80244 81250 81663 100,0

Fonte: BP 2007

PRODUZIONE DI GAS NATURALE (miliardi di metri cubi):

2001 2002 2003 2004 2005 2006 quota sul totale (%, dati 2006)

Azerbaigian 5,2 4,8 4,8 4,7 5,3 6,3 0,2 Federazione Russa 542,4 555,4 578,6 591,0 598,0 612,1 21,3 Iran 66,0 75,0 81,5 91,8 100,9 105,0 3,7 Kazachstan 10,8 10,6 12,9 20,6 23,3 23,9 0,8 Turkmenistan 47,9 49,9 55,1 54,4 58,8 62,2 2,2 Uzbekistan 53,6 53,5 53,6 55,8 55,0 55,4 1,9 Totale Europa e Eurasia 967,7 989,1 1024,7 1055,6 1060,0 1072,9 37,3 Totale Medio Oriente 224,8 244,7 259,9 290,7 317,5 335,9 11,7 TOTALE MONDIALE 2482,1 2524,6 2614,3 2703,1 2779,8 2865,3 100,0 Fonte: BP 2007

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3. L’esportazione delle risorse: vincoli geografici, esigenze economiche e obiettivi politico-strategici

Se è vero che le risorse energetiche centroasiatiche hanno attirato l’attenzione internazionale negli ultimi anni, la questione chiave da risolvere in questo particolare contesto riguarda la necessità di individuare corridoi e infrastrutture in grado di far arrivare efficacemente tali risorse sui mercati internazionali. La questione dell’esportazione delle risorse energetiche situate in una regione priva di sbocchi diretti sui mari aperti è infatti cruciale per la soluzione del problema della sicurezza energetica, intesa come possibilità di avere «accesso a una quantità sufficiente di risorse energetiche a costi ragionevoli per il prossimo futuro, senza gravi rischi di interruzione delle forniture»24.

Tradizionalmente, gli idrocarburi provenienti dall’Asia centrale sono stati trasportati per mezzo del sistema di oleodotti e gasdotti russo, costruito in epoca sovietica e controllato dalle compagnie statali Transneft e Gazprom. Si tratta di una rete di trasporto che risente pesantemente dell’eredità sovietica, caratterizzata da un sistema “imperiale” che imponeva alle risorse energetiche provenienti dal Caspio e dalle repubbliche periferiche il transito attraverso il territorio russo, per poi raggiungere i terminali situati sul Baltico e sulle coste ucraine del Mar Nero, oppure collegarsi all’oleodotto Druzba, il principale canale di esportazione del petrolio russo verso l’Europa. In mancanza di gasdotti e oleodotti che collegassero direttamente il bacino del Caspio ai mercati di esportazione, la Russia ha quindi per lungo tempo mantenuto il controllo sul trasporto del gas e del petrolio al di fuori dell’ex-Unione Sovietica, e in particolare verso Occidente 25 . Tuttora la compagnia russa Gazprom detiene un sostanziale monopolio sull’esportazione del gas centroasiatico (kazako, turkmeno e uzbeko), che viene convogliato verso nord attraverso i due rami del vecchio Central Asia-Center Pipeline – costruito nel 1974 – per poi immettersi nella rete di distribuzione russa e dirigersi in Ucraina. Un dato innegabile tuttavia riguarda lo stato di obsolescenza della rete russa di oleodotti e gasdotti: all’incirca i tre quarti delle condotte ha più di vent’anni e quasi la metà ne ha più di trenta, richiedendo quindi nel complesso una vasta e costosa opera di manutenzione e riparazione della rete esistente, nonché l’elaborazione di progetti di costruzione di nuove infrastrutture in grado di assorbire l’incremento produttivo derivante dal crescente sfruttamento delle risorse estratte dal Caspio26.

24 G. BAHGAT, Central Asia and Energy Security, in «Asian Affairs», 37, 2006, 1, p. 1. 25 S.F. STARR - S.E. CORNELL, The Politics of Pipelines: Bringing Caspian Energy to Markets, in Saisphere 2005, Washington D.C., 2005, http://www.sais-jhu.edu/pubaffairs/publications/saisphere/winter05. 26 H.A. SADRI - A.Y. VOLKOV, The Russian Pipeline System: Between Globalization and Localization, in «East European Quarterly», 38, 2004, 3, pp. 383-384.

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Fonte: EIA

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3.1 La sicurezza energetica europea e le risorse centroasiatiche

Con riferimento alle risorse centroasiatiche, la questione della sicurezza energetica viene in effetti generalmente intesa in termini europei e più in generale occidentali, come necessità di diversificare le fonti di approvvigionamento energetico dei paesi europei, alleviando la loro dipendenza dalle risorse provenienti dal Golfo Persico e da quelle che transitano sul territorio russo. In questo senso l’importanza delle risorse del Caspio risiede non tanto e non solo nella loro entità, indubbiamente notevole ma non certo in grado di modificare in misura sostanziale la dipendenza energetica globale dal Medio Oriente, ma nella possibilità che esse raggiungano il mercato mondiale restando complessivamente sotto il controllo delle compagnie internazionali che hanno investito nella regione e degli stati esportatori, grazie a un adeguato livello di investimento non soltanto nello sviluppo delle risorse e della capacità produttiva, ma anche nella costruzione delle relative infrastrutture di trasporto in grado di evitare i cosiddetti chokepoints, le “strozzature” geografiche costituite in particolare dagli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli tra Mar Nero e Mediterraneo, che rallentano il transito delle petroliere verso i mari aperti, e dall’altro le aree a maggiore rischio di instabilità politica27.

Un primo passo verso l’acquisizione di una maggiore indipendenza degli approvvigionamenti energetici europei dal vecchio sistema di trasporto sovietico è stato compiuto nel 2001, con l’inaugurazione dell’oleodotto Caspian Pipeline Consortium (Cpc). Lungo 1.510 kilometri, da Tengiz, sulla costa orientale del Mar Caspio, fino a porto russo di Novorossijsk, sulla sponda nordorientale del Mar Nero, l’oleodotto Cpc è stato realizzato come strumento principale per il trasporto del petrolio estratto dai giacimenti kazaki di Tengiz, di cui l’americana Chevron Texaco costituisce il principale operatore, sui mercati internazionali, con una capacità iniziale di 560mila barili di greggio al giorno. La decisione di esportare attraverso questo oleodotto anche il petrolio di altri giacimenti kazaki, in particolare di Karachaganak, ha fatto sì che negli ultimi anni esso trasportasse fino a 700mila barili al giorno, e la sempre crescente produzione petrolifera kazaka ha spinto alcuni membri del consorzio che gestisce l’oleodotto a proporre un ulteriore ampliamento della sua capacità fino a raggiungere 1,3 milioni di barili al giorno entro il 201528. Si tratta naturalmente di un primo passo molto parziale verso l’indipendenza dal controllo russo, dato che l’oleodotto transita comunque sul territorio della Federazione Russa e lo stesso governo di Mosca possiede il 24 per cento delle quote di partecipazione all’interno del consorzio incaricato della sua gestione. Tuttavia va detto che l’oleodotto Tengiz-Novorossijsk è stato il primo, nella regione, gestito da un consorzio internazionale istituito tramite un vero e proprio trattato multilaterale tra i governi di tre stati (Federazione Russa,

27 G. BAHGAT, Central Asia and Energy Security, cit., pp. 2-3 28 Caspian/Iraq Export Pipelines, in «Middle East Economic Survey», 49, 2006, 52, http://www.mees.com.

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Kazachstan e Oman) e otto compagnie petrolifere private (Chevron Texaco è la principale e detiene il 15 per cento delle quote del consorzio)29.

Tra l’altro, l’oleodotto Cpc resta ancora il principale canale di esportazione del petrolio kazako: la questione dell’espansione della sua capacità per la verità ha finora incontrato l’opposizione del governo russo, che ha condizionato il suo consenso all’aumento delle tariffe di transito e alla partecipazione dei membri del Cpc al progetto dell’oleodotto che dal porto bulgaro di Burgas sul Mar Nero dovrebbe estendersi fino alla città greca di Alexandroupolis (oleodotto Bap). Nel settembre 2006 Russia, Bulgaria e Grecia hanno firmato un memorandum d’intesa per raggiungere una decisione finale entro il 2007 sulla costruzione dell’oleodotto, che dovrebbe iniziare nel 2009-2010 e costare 1,3 miliardi di dollari, per una capacità iniziale di 700mila barili di greggio al giorno. Il progetto fa parte anche dell’Interstate Oil and Gas Transport to Europe (Inogate), il programma finanziato dall’Unione Europea per promuovere l’integrazione regionale dei sistemi di trasporto delle risorse energetiche e facilitarne il transito all’interno delle repubbliche ex sovietiche e verso i mercati europei30. In effetti la costruzione dell’oleodotto Bap come prosecuzione dell’oleodotto Cpc sull’atra sponda del Mar Nero, pur non risolvendo il problema del transito del petrolio kazako su territorio russo, potrebbe costituire una valida opportunità in quanto risolverebbe almeno il problema del transito attraverso gli Stretti turchi.

Una via alternativa verso ovest per il petrolio kazako è costituita dalla possibilità di esportare il greggio attraverso il Caucaso grazie all’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (Btc), che dal luglio 2006 scarica il petrolio azero ai terminali del porto turco direttamente sul Mediterraneo. In effetti, dopo ripetuti annunci in questo senso da parte del presidente kazako Nazarbaev, nel giugno 2006 il governo di Astana ha firmato un accordo che prevede il trasporto di 53 milioni di barili all’anno via nave fino al terminale azero di Sangachal, da cui poi il petrolio kazako dovrebbe raggiungere il Mediterraneo proprio attraverso il Btc31. Per il momento il Kazachstan si è impegnato a costruire una nuova flotta di petroliere destinate al trasporto del greggio attraverso il Caspio nell’ambito del Trans-Caspian Crude Oil Export System (o Kazakhstan-Caspian Transportation System, Kcto), un progetto di rete di trasporto multimodale destinata a collegare Kazachstan, Azerbaigian e Georgia e finanziata nell’ambito del programma Inogate. Questo sistema multimodale dovrebbe secondo le previsioni raggiungere la piena operatività tra il 2009 e il 2010, in coincidenza con l’avvio della produzione petrolifera nel giacimento di Kashagan, e potrebbe raggiungere una

29 M. BRILL OLCOTT, Kazmunaigaz: Kazakhstan’s National Oil and Gas Company. Appendix II, James A. Baker III Institute for Public Policy of Rice University, Houston, March 2007, p. 75. 30 INTERSTATE OIL AND GAS TRANSPORT TO EUROPE, INOGATE Developments 2001-2004 and New Perspectives, Kiev, June 2004, p. 19, http://www.inogate.org/inogate/en/ resources/publications. 31 M. DENISON, Kazakh Decision to Join BTC Pipeline May Alter Delicate Regional Dynamics, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 28 June 2006, http://www.cacianalyst.org.

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capacità di trasporto massima di 500mila barili al giorno. La possibilità di esportare il petrolio kazako attraverso l’oleodotto Btc, che si estende per 1.760 kilometri con una capacità attuale di 500mila barili al giorno (destinata a raddoppiare tra il 2008 e il 2009), sembra essere fondamentale anche per la validità economica dello stesso oleodotto caucasico, costato quasi quattro miliardi di dollari (un miliardo in più del previsto): dati la dimensione e il ritmo di sfruttamento dei giacimenti di Azeri-Chirag-Gunashli, le prospettive di lungo periodo dell’oleodotto dipendono dalla possibilità di trasportare anche il petrolio kazako proveniente dai giacimenti di Kashagan, al fine di evitare il rischio di un prematuro esaurimento delle riserve petrolifere azere. Non deve sorprendere quindi che quattro compagnie petrolifere impegnate nello sfruttamento del giacimento di Kashagan (Eni, Total, ConocoPhilips e Inpex possiedono all’incirca il 55 per cento delle quote dell’Agip Kazakhstan North Caspian Operating Company) possiedano anche il 15 per cento delle quote dell’Aioc, il consorzio che gestisce l’oleodotto Btc. Il petrolio di Kashagan in definitiva potrebbe anche costituire la variabile determinante per l’eventuale realizzazione di un vero e proprio oleodotto transcaspico, proposto da più parti, che sarebbe sostenibile sul piano economico solo nel caso in cui il volume del petrolio kazako trasportato giornalmente attraverso il Caspio superasse i 500mila barili – e per il quale, comunque, sarebbe necessario anche il consenso di Mosca, che finora si è sempre opposta alla sua realizzazione, ufficialmente adducendo ragioni di sostenibilità ambientale32.

L’idea di esportare il petrolio kazako tramite l’oleodotto Btc ha ricevuto naturalmente il forte appoggio occidentale, degli Stati Uniti in particolare: non solo infatti, come si è detto, la validità dell’intero progetto Btc dipende dalla possibilità che a esso partecipi anche il Kazachstan, ma anche per il paese centroasiatico (e, soprattutto, per le compagnie petrolifere occidentali che operano nel paese) diventa sempre più pressante l’esigenza di trovare canali di trasporto alternativi in grado di assorbire l’incremento produttivo atteso nei prossimi anni, dato che l’oleodotto Cpc non sembra avere capacità sufficiente per esportare il petrolio proveniente dal più vasto giacimento del bacino del Caspio, quando esso avrà raggiunto la piena operatività. E in questo senso, un sistema transaspico che colleghi i ricchi giacimenti kazaki direttamente al Mediterraneo attraverso Azerbaigian Georgia e Turchia – con il non trascurabile doppio pregio, tra l’altro, di evitare la “strozzatura” costituita dagli Stretti turchi del Bosforo e dei Dardanelli e di essere sottratto al capriccioso e imprevedibile controllo russo – rappresenta una pedina fondamentale nel complesso della strategia centroasiatica di Washington, di cui la questione della sicurezza energetica europea è parte integrante33. Tale strategia, attraverso la creazione di un corridoio di trasporto delle risorse energetiche sviluppato lungo la direttrice est-ovest, libero da

32 Caspian/Iraq Export Pipelines, cit. 33 A. COHEN, U.S. Interests and Central Asia Energy Security, The Heritage Foundation, Washington D.C., November 2006.

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interferenze russe e in grado di negare all’Iran la possibilità di proporsi come rotta di transito per gli idrocarburi del Caspio verso l’Oceano Indiano, mira a creare uno spazio continuo dalla Turchia attraverso l’Asia centrale fino ai confini con la Cina che garantirebbe agli Stati Uniti quell’accesso diretto all’heartland centroasiatico indispensabile in vista di una possibile presenza americana di lungo periodo nell’area 34 . Nell’ambito di questa visione strategica, la minaccia più preoccupante, oltre a quella di un incremento degli oil swaps per mezzo dei quali il Kazachstan invia per ora modeste quantità di petrolio attraverso il Caspio fino al porto iraniano di Neka, è evidentemente costituita dalla possibilità, ventilata dal governo di Tehran e dalla compagnia francese Total e ben vista dallo stesso governo di Astana, che il sistema multimodale transcaspico sia esteso anche alle sponde settentrionale e meridionale del Caspio, a comprendere quindi anche Russia e Iran35.

Viceversa, il naturale completamento del corridoio energetico est-ovest costituito dal Kcts-Btc all’interno della strategia americana per la sicurezza energetica europea potrebbe essere la realizzazione di un gasdotto transcaspico che facesse confluire il gas centroasiatico nel gasdotto parallelo all’oleodotto Btc (South Caucasus Pipeline, Scp), completato alla fine del 2006, che con una capacità prevista di 20 miliardi di metri cubi di gas all’anno (8 miliardi di metri cubi all’anno come capacità iniziale) dal 2007 porta il gas naturale estratto dal giacimento azero di Shah Deniz fino alla città turca di Erzurum, dalla quale poi il gas confluirebbe nella rete di distribuzione del paese 36 . Nel corso degli anni Novanta la compagnia Shell aveva compiuto alcuni studi volti alla realizzazione di un gasdotto tra Turkmenistan e Azerbaigian, inevitabilmente accantonati a causa dell’atteggiamento di chiusura del governo di Ashgabat nei confronti delle compagnie petrolifere occidentali. Tuttavia nel 2006 l’idea è stata riesumata da Stati Uniti e Unione Europea, con la differenza che a essere collegati al gasdotto Scp attraverso il Caspio sarebbero non i giacimenti turkmeni ormai vecchi e di incerta entità, ma quelli apparentemente più promettenti del Kazachstan, paese indubbiamente anche meglio disposto nei confronti degli investimenti occidentali37. L’eventuale realizzazione di un gasdotto transcaspico collegato al Scp sarebbe senza ombra di dubbio il naturale punto di partenza di un sistema che, collegandosi al progettato gasdotto Nabucco, possibile chiave di volta della politica energetica dell’Unione Europea, porterebbe il gas del bacino del Caspio attraverso il Caucaso meridionale, Turchia, Bulgaria, Romania, Ungheria e

34 V. MACHAVARIANI, U.S. Policies and Russian Responses to Developing the East-West Transportation Corridor, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 18 June 2003, http://www.cacianalyst.org. 35 M. DENISON, Kazakh Decision to Join BTC Pipeline May Alter Delicate Regional Dynamics, cit. 36 Caspian/Iraq Export Pipelines, cit. 37 Ibidem.

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Austria fino al cuore dell’Europa continentale, garantendo almeno nelle intenzioni la sicurezza energetica del Vecchio Continente nel medio-lungo periodo38.

3.2 “Going East”: le risorse dell’Asia centrale e i mercati asiatici

Questa visione sostanzialmente eurocentrica della sicurezza energetica deve però necessariamente essere rivista tenendo conto dell’esistenza di altri potenziali mercati di esportazione delle risorse del bacino del Caspio, costituiti dai paesi asiatici: secondo le previsioni infatti nel 2015 la domanda di risorse energetiche dei paesi non appartenenti all’Ocse supererà la domanda dei paesi Ocse, e di tale incremento saranno in gran parte responsabili proprio i paesi asiatici, la cui domanda di energia è destinata a triplicare entro il 203039. In particolare, Cina e India vedranno aumentare le proprie importazioni di idrocarburi per sostenere la propria crescita economica; già nel 2004 la stessa Cina aveva sorpassato il Giappone come secondo consumatore mondiale di petrolio, alle spalle degli Stati Uniti.

E’ quindi naturale che Pechino guardi agli idrocarburi del Caspio e dell’Asia centrale come a una riserva particolarmente rilevante per la propria sicurezza energetica, costituita da risorse non appartenenti a paesi Opec, situate in una regione direttamente confinante con le province occidentali del paese e quindi trasportabili in modo relativamente sicuro via terra. Inizialmente l’approccio cinese al “Grande Gioco” per le risorse del Caspio è stato caratterizzato da un’enfasi sui legami bilaterali con i singoli paesi asiatici. Tuttavia la forte e ingombrante presenza russa nella regione centroasiatica ha spinto Pechino a cambiare strategia, impostando un approccio multilaterale e sostenendo una politica di cooperazione energetica nell’ambito della Shanghai Cooperation Organisation (Sco), di cui fa parte anche la Federazione Russa40. Parte di questa politica dovrebbe essere anche lo studio di proposte volte alla costruzione di oleodotti e gasdotti che colleghino i vari membri della Sco. Già dal XVI Congresso del Partito comunista cinese, tenutosi nel 2002, in effetti Pechino ha iniziato a sviluppare una strategia energetica diretta verso occidente, impegnandosi in discussioni con le varie repubbliche centroasiatiche per la costruzione di condotte per il trasporto degli idrocarburi e per la conduzione di operazioni di esplorazione e sfruttamento in questi stessi paesi. I principali benefici che Pechino cerca di ottenere grazie alla propria politica di investimenti

38 B. O’ROURKE, Caspian: EU Invests in New Pipeline, in «News and Analysis», Radio Free Europe/Radio Liberty, 27 June 2006, http://www.rferl.org; INTERSTATE OIL AND GAS TRANSPORT TO EUROPE, INOGATE Developments 2001-2004 and New Perspectives, cit., p. 12. 39 UNITED STATES ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION, International Energy Outlook 2006, Washington D.C., 2006. 40 S. BLANK, China’s Emerging Energy Nexus with Central Asia, in «China Brief», 6, 2006, 15, pp. 8-10.

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nel settore energetico dei paesi centroasiatici sono principalmente connessi da un lato alla possibilità di ridurre la dipendenza energetica del paese dalle forniture energetiche provenienti dal Golfo Persico, dall’altro lato alla minore vulnerabilità che il trasporto via terra attraverso il continente asiatico presenterebbe nei confronti della proiezione di potenza globale perseguita da Washington soprattutto per mezzo della propria flotta militare.

La strategia cinese verso l’Asia centrale e le sue risorse energetiche ha finora colto discreti successi: in buona misura il merito dell’accoglienza positiva che le repubbliche ex sovietiche hanno riservato alle iniziative di Pechino è senza dubbio da attribuire al fatto che gli investimenti effettuati nel settore degli idrocarburi dalla China National Petroleum Corporation (Cnpc), la compagnia petrolifera di stato, rappresentano un’opportunità importante per gli esportatori della regione centroasiatica per diversificare le direttrici del proprio export energetico. Dal punto di vista cinese, una componente importante nella strategia centroasiatica della Repubblica popolare (che condivide circa tremila kilometri di confine con Kazachstan, Kirghizistan e Tagikistan) è inoltre rappresentata dalla necessità di favorire il mantenimento della stabilità al di là dei propri confini occidentali, esigenza fondamentale per la sicurezza nazionale cinese soprattutto in considerazione della difficile situazione di instabilità politica presente nelle regioni occidentali del paese, caratterizzate da spinte centrifughe41. Il governo di Pechino ha quindi un forte interesse a garantire la stabilità e la continuità dei regimi esistenti nelle repubbliche centroasiatiche, per quanto autoritari.

Nell’ambito della propria politica energetica verso l’Asia centrale, Pechino ha individuato il Kazachstan come interlocutore privilegiato. Sin dalla seconda metà degli anni Novanta gli investimenti cinesi nel paese hanno subito un forte incremento: nel 1997 Cnpc ha avviato le prime attività di esplorazione petrolifera, attraverso l’acquisizione di una parte della compagnia locale Aktobemunaigaz, che gestisce le attività di esplorazione e sfruttamento dei giacimenti petroliferi situati nella regione centrale di Aktobe; nel 2003 Sinopec e Cnooc (China National Offshore Oil Corporation) hanno cercato di intensificare la presenza cinese nel settore degli idrocarburi kazako offrendosi di rilevare la quota detenuta da British Gas all’interno del consorzio di sfruttamento del giacimento misto di Kashagan (tentativo fallito a causa dell’opposizione degli altri membri del consorzio); due anni più tardi, nel 2005, Cnpc ha rilevato la compagnia kazako-canadese PetroKazakhstan, acquisendo i diritti di sfruttamento dei giacimenti petroliferi di Kumkol, nel Kazachstan centrale, e del bacino del fiume Turgai, nel Kazachstan occidentale, e il controllo congiunto (insieme a Kazmunaigaz) del complesso di Shymkent, il principale impianto di raffinazione del paese42.

41 X. GUO, The Energy Security in Central Eurasia: The Geopolitical Implications to China’s Energy Strategy, in «China and Eurasia Forum Quarterly», 4, 2006, 4, p. 134, http://www.cacianalyst.org. 42 M. BRILL OLCOTT, “Friendship of Nations” in the World of Energy, in «Pro et Contra», 10, 2006, 2-3, pp. 7-8.

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La pedina fondamentale della politica energetica cinese è però costituita dell’oleodotto sino-kazako, lungo oltre 3000 kilometri, che una volta completato collegherà il terminale di Atyrau, sulla costa settentrionale del Mar Caspio, alla città di Alashankou, nello Xinjiang cinese 43 . La realizzazione del progetto prevede tre fasi: la prima, completata nel 2003, ha collegato Kenkyiak, nella regione di Aktobe, dove Cnpc dirige le attività di sfruttamento di alcuni giacimenti, al terminale di Atyrau tramite un oleodotto lungo 450 kilometri e con una capacità di 12mila barili al giorno. La seconda fase è stata completata nel dicembre 2005 con l’inaugurazione di un oleodotto lungo 1.200 kilometri che si estende da Atasu, nell’ovest del paese, ad Alashankou, poco oltre il confine cinese. L’oleodotto è divenuto operativo nel luglio 2006 e attualmente ha una capacità di 200mila barili al giorno: al momento il petrolio esportato in Cina attraverso questa condotta proviene principalmente dai giacimenti del Turgai e di Kumkol, di cui come si è detto Cnpc è la compagnia operatrice. Tuttavia si tratta di giacimenti di dimensioni relativamente ridotte rispetto ai giacimenti situati nel bacino del Caspio, tanto che per poter sfruttare appieno il potenziale dell’oleodotto, almeno fin tanto che non sarà completata anche la terza fase, si rende necessario individuare fornitori alternativi: a questo proposito nel corso del 2006 la compagnia russa Rosneft ha esternato in più occasioni il proprio interesse a esportare il petrolio russo verso la Cina attraverso il Kazachstan, più precisamente attraverso l’oleodotto di epoca sovietica che collega Omsk a Pavlodar, nel Kazachstan settentrionale, e infine ad Atasu, da dove confluirebbe nel nuovo oleodotto sino-kazako. I vertici di Rosneft hanno in effetti sostenuto che la compagnia russa potrebbe fornire alla Cina attraverso l’oleodotto Atasu-Alashankou poco più di 51 milioni di barili di petrolio nel 200744. Tuttavia questa ipotesi incontra alcuni ostacoli, legati in primo luogo alla necessità di ammodernare e in gran parte ricostruire l’oleodotto sovietico, e in secondo luogo alla sostanziale diffidenza con la quale Mosca guarda alla politica di differenziazione dei mercati di esportazione perseguita da Astana come strumento per accrescere la propria indipendenza economica dall’ex madrepatria. La terza e ultima fase del progetto sino-kazako prevede la costruzione, a partire dal 2011, di un oleodotto tra Kenkiyak e Atasu, che dovrebbe collegare i giacimenti di Aktobe al complesso di Shymkent e ai giacimenti di Kumkol – raddoppiando anche la capacità di trasporto dell’intera infrastruttura, che dovrebbe raggiungere i 400mila barili al giorno – ma soprattutto creerebbe un unico corridoio continuo dai più ricchi giacimenti del Caspio direttamente fino al confine cinese. Anche in questo caso, come per il progetto Btc, la validità e sostenibilità economica del progetto sino-kazako sembra dipendere dalla possibilità che una parte del petrolio di Kashagan prenda la via della Cina; non a caso il completamento dell’oleodotto e il raddoppio della sua capacità sono previsti non prima del 2011, in coincidenza cioè

43 Caspian/Iraq Export Pipelines, cit. 44 Russian Oil Transit via Kazakhstan to China to Hit 51 mln bbl in 2007, RIA Novosti Business, http://en.rian.ru/business/20061031/55263095.html.

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con l’avvio delle attività di estrazione e di sfruttamento commerciale del più grande deposito petrolifero offshore del Kazachstan.

Il naturale complemento dell’oleodotto Atyrau-Alashankou è costituito dal progetto di costruzione di un gasdotto che dovrebbe collegare Kazachstan e Cina. Nell’agosto 2005 Cnpc e Kazmunaigaz hanno firmato un accordo per la sua realizzazione: il percorso del gasdotto non è ancora stato precisato, mentre la sua capacità iniziale dovrebbe essere di circa 10 miliardi di metri cubi annui, destinata a triplicare una volta che il gasdotto avrà raggiunto la sua piena operatività45.

Un discorso analogo a quello appena descritto per la sicurezza energetica cinese può essere fatto anche per l’India, la cui economia è destinata a crescere rapidamente nei prossimi anni, sostenendo a sua volta la crescita della domanda di risorse energetiche del paese. Lo stesso Primo ministro indiano Manmohan Singh dichiarava nel 2005 che «la sicurezza energetica nella nostra scala di priorità è seconda solo alla sicurezza alimentare»46. Come la Cina, anche l’India è dunque

45 UNITED STATES ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION, Country Analysis Brief. Kazakhstan, cit. 46 Citato in S. BLANK, India’s Energy Offensive in Central Asia, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 9 March 2005, http://www.cacianalyst.org.

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interessata a ridurre la propria dipendenza dalle riserve energetiche del Medio Oriente e, soprattutto, dell’Iran, anche nel contesto della partnership che Nuova Delhi sta sviluppando con Washington. E’ questa esigenza di diversificazione delle fonti energetiche che determina l’interesse indiano per le risorse centroasiatiche, interesse peraltro rafforzato da considerazioni di ordine diverso: nella possibilità di avere accesso al forziere energetico dell’Asia centrale Nuova Delhi ravvisa infatti l’opportunità di stabilire legami con i paesi dell’area allo scopo di rafforzare la propria sicurezza interna contro la minaccia costituita dal radicalismo islamico, di sfruttare il potenziale di nuovi mercati di sbocco per la propria produzione e più in generale di espandere la propria influenza in un’area strategica per gli equilibri globali, in linea con la propria parabola di ascesa al rango di potenza mondiale.

In questo contesto l’interesse indiano si è concretizzato in particolare nell’appoggio a un progetto tanto innovativo e ambizioso, quanto fantasioso e azzardato, quel progetto di gasdotto transafghano (Trans-Afghan Pipeline, Tap) destinato a portare il gas turkmeno fino all’Oceano Indiano. L’idea di costruire un gasdotto attraverso Turkmenistan, Afghanistan e Pakistan risale già alla metà degli anni Novanta, ma l’instaurazione del regime talebano a Kabul e il conseguente clima di ostilità internazionale e instabilità interna ne hanno inevitabilmente causato il preventivo accantonamento. La caduta dei talebani e il cambio di regime nell’Afghanistan occupato dalle forze internazionali hanno condotto alla riesumazione dell’ambizioso disegno, e nel dicembre 2002 il presidente afghano Hamid Karzai e i suoi omologhi del Pakistan Pervez Musharraf e del Turkmenistan Saparmurat Niyazov hanno firmato l’accordo che prevede la costruzione del Tap per un costo complessivo di 3,5 miliardi di dollari, sottolineando l’importanza vitale di tale opera per dare slancio alle economie della regione. Per quanto l’effettiva realizzazione del progetto sia inevitabilmente pregiudicata dal permanere di una situazione di diffusa instabilità regionale, esso è stato salutato con un certo entusiasmo tanto dai governi dei paesi interessati quanto dalle istituzioni finanziarie multilaterali, in particolare l’Asian Development Bank (Adb) e la Islamic Development Bank, che hanno concesso generosi finanziamenti, mentre nel 2005 il governo indiano ha espresso ufficialmente l’intenzione di partecipare al progetto. Nel 2005 è stato anche completato il relativo studio di fattibilità, commissionato dall’Adb, che ha proposto la costruzione di un gasdotto lungo quasi 1.700 kilometri con una capacità di circa 33 miliardi di metri cubi all’anno, che dal giacimento turkmeno di Dauletabad dovrebbe dirigersi a sud, attraversare l’Afghanistan passando per Herat e Kandahar e il Pakistan passando per Quetta e Multan, per giungere infine alla città indiana di Fazilka, poco distante dal confine indo-pakistano. In effetti dallo studio dell’Adb emerge chiaramente la necessità di coinvolgere anche

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l’India affinché l’intero progetto Tap possa considerarsi economicamente valido e sostenibile nel medio-lungo periodo47.

Tuttavia, nonostante il diffuso entusiasmo e nonostante il cambiamento avvenuto negli ultimi anni nell’orientamento degli Stati Uniti, ora favorevoli alla realizzazione del gasdotto soprattutto in contrapposizione alla possibile alternativa costituita da un gasdotto dal Turkmenistan al Pakistan attraverso l’Iran, il progetto Tap è rimasto finora niente più di un’ipotesi suggestiva. Sulla sua costruzione pesa soprattutto l’instabilità afgana, ma va detto che la stessa India, nonostante il recente miglioramento nei rapporti bilaterali, è piuttosto riluttante ad affidare nelle mani del Pakistan il proprio approvvigionamento di gas proveniente dall’Asia centrale 48 . Su tutto poi incide anche l’incognita relativa all’impossibilità di conoscere con relativa sicurezza e attraverso analisi indipendenti l’entità delle riserve del Turkmenistan, che dovrebbero fornire il gas destinato a transitare nel Tap, e le reali capacità produttive del paese.

3.3 La posizione della Russia tra politica di influenza e monopolio energetico

Oltre ai mercati europei e a quelli asiatici, spesso si dimentica che sempre più negli ultimi anni anche la Federazione Russa ha acquisito importanza come importatore, e non solo come paese di transito e concorrente nell’esportazione, delle risorse energetiche centroasiatiche. Quello russo non è solo un generico interesse a mantenere (o recuperare) spazi di influenza in quello che considera il proprio “estero vicino”, nel cui contesto il controllo su un settore vitale per le economie delle repubbliche di nuova indipendenza rappresenta uno strumento utilizzato per legare a Mosca i regimi locali e un complemento della politica di presenza politica e militare impostata dal Cremlino per mantenere la stabilità dell’area. A ben vedere per Gazprom la possibilità di importare gas naturale dai paesi centroasiatici è fondamentale per sopperire al declino produttivo atteso nei giacimenti siberiani, molti dei quali sono in via di esaurimento, e per garantire le forniture energetiche all’Europa mantenendo la propria posizione di sostanziale monopolio.

A tale scopo la Russia ha proceduto a stipulare una serie di nuovi accordi e a rinnovare (e rafforzare) quelli già esistenti con i singoli paesi centroasiatici, in particolare Uzbekistan, Turkmenistan e Kazachstan. Al primo dei tre, all’indomani degli eventi di Andijan Mosca ha promesso ingenti investimenti nel settore energetico, parallelamente a un trattato di reciproca assistenza militare che ha consentito alla Russia di riempire prontamente il vuoto lasciato dagli Stati Uniti, espulsi dalla base di Karshi-Khanabad. Con il Kazachstan, nell’ottobre 2006 la Russia ha creato una nuova joint venture per processare il gas estratto dal

47 S. BLANK, India’s Continuing Quest for Central Asian Energy, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 13 July 2005, http://www.cacianalyst.org. 48 Ibidem.

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giacimento kazako di Karachaganak presso un impianto della Russia meridionale, assicurandosi quindi che una porzione rilevante del gas kazako venga poi esportata attraverso il proprio territorio (a un prezzo superiore di quello precedente: tra i 100 e i 140 dollari per 1000 metri cubi, contro i 47 dollari pagati precedentemente). Con il Turkmenistan, lo scorso settembre Gazprom ha infine raggiunto un accordo per l’importazione di 50 miliardi di metri cubi annui di gas per il triennio 2007-2009, dovendo però cedere alle richieste di Ashgabat di aumentare il prezzo del gas importato da 65 a 100 dollari per mille metri cubi (comunque meno della metà del prezzo al quale Gazprom rivende il gas ai paesi europei). Infine, durante una visita ufficiale in Kazachstan e Turkmenistan, nel maggio 2007 Putin, Nazarbaev e il neo-presidente turkmeno Berdymukhammedov hanno raggiunto un accordo preliminare per l’ampliamento e l’ammodernamento del Central Asia-Center Pipeline, il gasdotto di epoca sovietica che dal Turkmenistan e dall’Uzbekistan attraverso il Kazachstan si collega al sistema di distribuzione russo e che tutt’ora costituisce il pressoché esclusivo canale di esportazione del gas centroasiatico; il presidente russo, insieme con i suoi omologhi di Astana e Ashgabat, ha poi annunciato, in occasione della stessa visita, l’intenzione, già ventilata in passato ma finora mai rispettata, principalmente a causa dell’atteggiamento capriccioso dell’ex presidente turkmeno Niyazov, di costruire un nuovo gasdotto lungo le coste del Mar Caspio, che dovrebbe far confluire in Russia volumi crescenti di gas turkmeno e kazako.

Se finora Mosca ha cercato di perseguire i propri obiettivi in materia energetica attraverso il rafforzamento dei legami bilaterali con i paesi della regione, le ambizioni russe si indirizzano in realtà verso lo sviluppo di forme di cooperazione energetica multilaterale. A questo proposito nei disegni russi la Sco riveste un’importanza del tutto particolare, e potrebbe diventare il nucleo di una sorta di Opec del gas che abbia in Mosca il suo centro, un nuovo “club dell’energia” che consentirebbe alla Russia non solo di influire sul prezzo mondiale del gas, ma anche di esercitare un’influenza dominante sulle politiche energetiche degli altri produttori centroasiatici 49 . Le aperture lasciate intravedere da Mosca verso un’eventuale partecipazione iraniana a pieno titolo alla Sco (ora Tehran partecipa al Gruppo di Shanghai con lo status di osservatore) possono intendersi anche come funzionali a contrastare il progetto, sostenuto da Washington, di gasdotto trans-afghano e a sostenere viceversa l’ipotesi di realizzare un corridoio energetico lungo la direttrice nord-sud diretto come il Tap verso Pakistan e India, ma attraverso l’Iran. La costruzione di un simile gasdotto non solo costituirebbe una delle opere infrastrutturali più grandiose all’interno dell’ambizioso disegno russo, ma permetterebbe anche a Gazprom di avere accesso ai lucrosi mercati dell’Asia meridionale.

49 S. BLANK, The Shanghai Cooperation Organisation as an “Energy Club”, Portents for the Future, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 4 October 2006, http://www.cacianalyst.org.

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4. Le repubbliche centroasiatiche all’interno della partita energetica: allineamenti e politiche multivettoriali

La complessa partita internazionale per l’accesso alle risorse energetiche dell’Asia centrale e il loro controllo ha inevitabilmente finito per inserire i paesi centroasiatici all’interno di queste difficili dinamiche regionali, obbligandoli a districarsi tra le diverse e a volte contrastanti esigenze di sviluppo economico, indipendenza politica, stabilità interna ed equilibrio regionale. All’interno di questo contesto le repubbliche ex sovietiche hanno assunto atteggiamenti e impostato politiche diverse, ma tutte tese, almeno nelle intenzioni, a massimizzare i benefici derivanti dal crescente interesse internazionale per le risorse da essi possedute. I diversi gradi con cui questi paesi hanno saputo finora seguire politiche multi-vettoriali hanno determinato quanto ciascuno di essi ha potuto effettivamente trarre vantaggio dalla propria posizione di produttore ed esportatore di idrocarburi e in quale misura, viceversa, è stato “risucchiato” nell’orbita di questa o quella potenza.

Sin dal 2001 l’Uzbekistan ha cercato di sviluppare una politica di apertura verso l’Occidente, presentandosi come partner strategico degli Stati Uniti nella guerra contro il terrorismo: come risultato di questo avvicinamento, volto a consentire al paese di recuperare una maggiore autonomia nei confronti di Mosca, alcune compagnie petrolifere britanniche avevano potuto entrare in joint ventures con la compagnia petrolifera statale e firmare production sharing agreements per l’esplorazione e lo sfruttamento di alcuni giacimenti del paese. Tuttavia gli eventi di Andijan del 2005 e soprattutto le critiche piovute sul governo di Tashkent dalle cancellerie occidentali hanno indotto il presidente Karimov a temere per la stabilità del proprio regime e a compiere una brusca inversione di rotta. Tashkent ha quindi ristrutturato la propria politica estera con un deciso riavvicinamento a Mosca e, in misura minore, Pechino, tanto che alla fine del 2005 Russia e Uzbekistan hanno siglato un trattato di assistenza militare che di fatto ha imbrigliato la politica estera uzbeka all’interno di uno stretto allineamento con Mosca. Al paese, quindi, è rimasto poco spazio di manovra anche nel settore energetico, privato ormai degli investimenti occidentali, ancora poco interessante per quelli cinesi (che si sono concentrati finora nel più ricco Kazachstan) e dominato inevitabilmente dalla presenza crescente delle russe Gazprom e Lukoil. Il tutto a scapito dell’ambizioso disegno di Karimov di fare del paese lo snodo fondamentale per il transito delle risorse energetiche all’interno della regione centroasiatica50.

Diverso destino, ma non per questo più favorevole, ha incontrato il tentativo spesso incoerente del Turkmenistan di sviluppare diverse alternative per l’esportazione del proprio gas per alleggerire la necessità di dover esportare quasi esclusivamente attraverso la Federazione Russa. Ashgabat ha quindi esplorato 50 D. KIMMAGE, Central Asia: The Fate of the Multivector Model, Radio Free Europe/Radio Liberty, 2 June 2006, http://www.rferl.org.

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«tutte le possibili rotte per portare le risorse energetiche sui mercati internazionali»51 , compreso il già citato gasdotto trans-afghano e un possibile gasdotto trans-caspico verso l’Azerbaigian e la Turchia, nonché un gasdotto attraverso l’Uzbekistan e verso la Cina. Proprio con il governo cinese Niyazov ha firmato nell’aprile 2006 un accordo per l’esportazione di 30 miliardi di metri cubi di gas all’anno a partire dal 2009 e per i successivi trent’anni, attraverso un gasdotto ancora da costruire (ma che l’ex presidente turkmeno prevedeva di poter completare proprio entro il 2009). Il percorso di tale gasdotto è ancora indeterminato, e sembra anche destinato a incontrare non pochi ostacoli, dato che i due paesi che esso dovrebbe attraversare prima di giungere al confine cinese (Uzbekistan e Kazachstan) sono entrambi concorrenti del Turkmenistan. Tuttavia la firma di un accordo che impegna Ashgabat e Pechino in tal senso è una chiara indicazione della volontà turkmena di giocare la carta energetica per massimizzare la propria libertà di azione in campo internazionale e al contempo rafforzare la propria posizione nei confronti di Mosca. Una strategia, peraltro, che sembra essere portata avanti anche dal nuovo presidente Gurbanguly Berdymukhammedov, che ha ribadito nel gennaio scorso l’intenzione di proseguire sulla strada per la Cina, ma ha altresì salutato con favore, quattro mesi più tardi, l’accordo con Vladimir Putin relativo all’ampliamento e ammodernamento del Central Asia-Center Pipeline e alla costruzione del nuovo gasdotto lungo le coste del Caspio, attraverso cui dovrebbe transitare una porzione consistente del gas estratto dai giacimenti turkmeni. Semmai, l’incognita principale per il paese centroasiatico riguarda la reale entità delle sue riserve di idrocarburi e la sua effettiva capacità di far fronte a tutti gli impegni presi dalla compagnia di stato Turkmenneftegaz con i diversi paesi importatori. In effetti, se si considera che nel 2005 il Turkmenistan ha prodotto poco meno di 59 miliardi di metri cubi di gas, è lecito nutrire qualche dubbio sulla possibilità che, senza una maggiore apertura agli investimenti esteri, il paese possa realmente fornire nel corso dei prossimi anni 50 miliardi di metri cubi di gas all’anno alla Russia (e indirettamente all’Europa), 30 miliardi di metri cubi alla Cina e altrettanti ai mercati dell’Asia meridionale attraverso il Tap, e 8 miliardi di metri cubi all’Iran attraverso il già operativo gasdotto Korpezhe-Kurt Kui.

Nel complesso, il Kazachstan sembra l’unico paese ad aver perseguito una politica multivettoriale in campo energetico con un discreto successo. Ne è la prova il fatto che Astana è riuscita a non compromettere le relazioni con Mosca, che in precedenza era il suo unico interlocutore per quanto riguarda l’esportazione degli idrocarburi della repubblica centroasiatica. Anzi, in numerose dichiarazioni ufficiali il presidente kazako Nazarbaev ha ribadito la priorità assegnata al mantenimento di relazioni amichevoli con la vicina Russia52. All’interno di queste

51 Riportato in D. KIMMAGE, Analysis: Turkmen Government Steps up Gas Diplomacy, Radio Free Europe/Radio Liberty, 2 February 2006, http://www.rferl.org. 52 2005 in Review: The Geopolitical Game in Central Asia, Radio Free Europe/Radio Liberty, 29 December 2005, http://www.rferl.org.

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relazioni amichevoli naturalmente una posizione importante è rivestita dalla comune intenzione di sostenere l’ampliamento del Central Asia-Center Pipeline e la costruzione del nuovo gasdotto lungo il Caspio, ma anche dalla necessità di trovare un compromesso tra la volontà di Astana di ampliare la capacità dell’oleodotto Cpc e le pressioni russe nella direzione dell’ammodernamento e dell’ampliamento del vecchio oleodotto sovietico Atyrau-Samara. Il dato di fatto resta comunque la quantità di petrolio kazako che, nonostante i tentativi di diversificazione delle rotte di esportazione, ogni anno viene ancora esportato attraverso il territorio russo, superiore ai due terzi della produzione petrolifera totale (nel 2005 circa 45 milioni di tonnellate di greggio sono state esportate attraverso gli oleodotti Cpc e Atyrau-Samara, su una produzione di circa 63 milioni di tonnellate 53 ) e destinata a crescere a seguito degli ampliamenti e ammodernamenti previsti. Questo dato è indicativo della gradualità con cui il paese ha cercato di sviluppare rotte alternative per le proprie esportazioni petrolifere, parallelamente all’espansione della propria capacità produttiva, al fine di ridurre il rischio da un lato di un’indesiderata eccessiva dipendenza dalla Russia e dall’altro di un sovrainvestimento in una specifica direzione. La strategia kazaka ha in definitiva permesso al paese di proporsi come punto di partenza di quattro diverse direttrici di esportazione: non solo verso (e attraverso) la Federazione Russa, ma anche verso la Cina per mezzo del nuovo oleodotto Atasu-Alashankou (e in futuro per mezzo del suo prolungamento fino ad Atyrau), verso il Mediterraneo attraverso il sistema transcaspico e il Btc e verso l’Iran grazie alla stipulazione di oil swap agreements (per la verità di entità piuttosto limitata). Nell’ambito di questa strategia l’abilità kazaka è consistita finora principalmente nell’utilizzo di una efficace politica di “pesi e contrappesi”, che ha visto il paese aprirsi agli investimenti cinesi offrendo al contempo alle compagnie russe la possibilità di partecipare al progetto di oleodotto sino-kazako, e occhieggiare all’Europa e agli Stati Uniti appoggiando i progetti transcaspici ma solo a condizione che si trovi un accordo tra tutti e cinque gli stati rivieraschi.

L’evoluzione della politica energetica kazaka sembra dimostrare che la scelta di un’equilibrata strategia multidirezionale che tenga realisticamente conto dei vincoli geopolitici che determinano le dinamiche regionali può arrecare benefici tanto ai paesi produttori di risorse energetiche quanto ai potenziali mercati di destinazione. Di certo il grado di apertura economica superiore rispetto agli altri paesi dell’area e il migliore clima per gli investimenti si è rivelato indispensabile affinché il Kazachstan potesse efficacemente coltivare diverse opzioni in maniera funzionale al proprio sviluppo economico. Si tratta dunque di una lezione importante anche per gli altri produttori dell’Asia centrale, le cui prospettive di sviluppo economico riposano sulla capacità di sfruttare il proprio potenziale energetico: alla luce di questo, è quanto mai indispensabile che essi individuino strategie nazionali solide e coerenti che permettano loro di inserirsi nel “Grande

53 Kazakhstan: China Pipeline Boosts Multivector Option, in «Oxford Analytica», 6 June 2006, http://www.oxan.com.

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Gioco” dell’Asia centrale e, soprattutto, di presentarsi come interlocutori affidabili nei confronti dei soggetti interessati ad avere accesso alle risorse energetiche della regione.

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L’UNIONE EUROPEA E L’ASIA CENTRALE

Aldo Ferrari

Introduzione

Dopo Moldavia, Bielorussia, Ucraina, Georgia, Armenia ed Azerbaigian, che nel 2004 sono state inserite nella Politica Europea di Vicinato (European Neighbourhood Policy, Enp), la Ostpolitik dell’Unione Europea comincia a riguardare anche le cinque repubbliche dell’Asia centrale post-sovietica. Un passo fondamentale in questa direzione è stata la nomina di un Rappresentante Speciale per l’Asia centrale nel luglio 2005, ma con la presidenza tedesca l’Unione Europea ha ulteriormente intensificato il suo interesse per la regione. Nel suo discorso del 17 gennaio al Parlamento Europeo di Strasburgo, in cui ha reso note le priorità della presidenza tedesca dell’Unione Europea1, il cancelliere Angela Merkel ha compiuto un passo ulteriore e molto significativo nei confronti dell’Asia centrale, parlando di una possibile estensione ad essa della Politica di Prossimità. Secondo il Cancelliere tedesco, infatti, «The EU has to show a greater will to shape events in its neighbourhood, for we cannot always comply with the desire of many countries to join the EU. Neighbourhood policy is the sensible and attractive alternative. We intend to develop such a neighbourhood policy particularly towards the Black Sea region and Central Asia during our Presidency»2.

Sulla base di questo orientamento generale, è attualmente in preparazione il documento che definirà la nuova strategia europea nei confronti di questa regione per il periodo 2007-2013. Il documento finale, che sarà ultimato nel giugno 2007,

1 Tra l’altro la Germania è particolarmente indicata a svolgere questo ruolo di spinta verso l’Asia centrale, in quanto è l’unico stato europeo che possiede un’ambasciata in tutte e cinque le repubbliche della regione. Cfr. A. SCHMITZ, A Political Strategy for Central Asia, in V. PERTHES - S. MAIR (eds.), European Foreign and Security Policy. Challenges and Opportunities for German EU Presidency, «SWP Research Paper» n. 10, October 2006, http://www.swp-berlin.org/common/get_document.php?asset_id=3366. 2 Speech by Angela Merkel, Chancellor of the Federal Republic of Germany, to the European Parliament in Strasbourg on Wednesday, 17 January 2007, http://www.eu2007.de/en/News/Speeches_Interviews/January/Rede_Bundeskanzlerin2.html; si veda anche il commento di A. LOBJAKAS, Merkel Sets out Vision for EU Presidency, 17 January 2007, Radio Free Europe/Radio Liberty, http://www.rferl.org/featuresarticle/2007/01/6e348993-cd44-4034-a294-df9a1e16685c.html.

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dovrebbe segnare un notevole mutamento dell’approccio dell’Unione Europea verso la regione centroasiatica3.

L’Asia centrale è costituita nella sua accezione più comune dalle cinque repubbliche di Kazachstan, Kirghizistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Tagikistan, sorte in epoca sovietica sul territorio dell’antico Turkestan e divenute indipendenti nel 1991. Si tratta di una regione molto vasta, relativamente poco popolata, ricca di risorse naturali, in primo luogo petrolio e gas. Questo territorio, abitato quasi esclusivamente da popoli musulmani, prevalentemente di lingua turca, ha costituito in effetti l’ultima frontiera dell’espansione imperiale russa, quella alla quale è più corretto applicare l’epiteto di coloniale4. Una situazione che, mutatis mutandis, si è protratta anche in epoca sovietica. Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, in tutti questi paesi il potere è rimasto sostanzialmente in mano all’antica classe dirigente comunista, riciclatasi nel nuovo contesto politico con modalità di governo di tipo clanico e autoritario5. Negli ultimi anni, tuttavia, l’evoluzione del Kazachstan verso un maggior pluralismo politico e sociale, la caduta del presidente kirghizo Akaev nel 2005 e la morte del presidente-dittatore turkmeno Niyazov alla fine del 2006, sembrano aprire importanti prospettive di cambiamento e possono favorire una più attiva politica europea nell’intera regione6.

Geograficamente e storicamente, ma anche per quel che riguarda le dinamiche politiche, sono strettamente collegati all’Asia centrale anche paesi cruciali nell’odierna scena internazionale come l’Iran, l’Afghanistan ed il Pakistan. Un rapporto particolare ha poi con l’intera regione la Federazione Russa, erede dell’Urss, che considera questi paesi parte del proprio “estero vicino”. Come anche nel Caucaso, la presenza russa è stata ed è minacciata dalla penetrazione strategica degli Stati Uniti, particolarmente interessati al controllo delle risorse energetiche dell’area. La rivalità post-sovietica tra Washington e Mosca ha fatto parlare di una riedizione del “Gran Gioco” di ottocentesca memoria, un paragone suggestivo che non deve però essere utilizzato acriticamente 7 . Occorre tener presente che dopo la gravissima crisi seguita alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, da alcuni anni Mosca sta invertendo questa tendenza negativa grazie

3 A. LOBJAKAS, Central Asia: EU to Unveil “Strategy” Aimed at Wooing Region, 14 February 2007, http://www.rferl.org/featuresarticle/2007/02/9bb37852-b0ff-4ce9-bbf7-e53275c297c6.html. 4 Cfr. A. KAPPELER, La Russia. Storia di un impero multietnico, ed. it. a cura di A. FERRARI, Roma, 2006, pp. 190-191. 5 Su questo tema è di particolare interesse il recente studio di S.F. STARR, Clans, Authoritarian Rulers, and Parliaments in Central Asia, «Silk Road Paper», June 2006, http://www.silkroadstudies.org/new/docs/Silkroadpapers/0605Starr_Clans.pdf. Si veda anche J. KOHLER - Ch. ZURCHER, Conflict and the State in the Caucasus and Central Asia: An Empirical Research Challenge, Institut der Freien Univesität, Berlin, 2004, soprattutto pp. 56-67. 6 Cfr. N.J. MELVIN, Building Stronger Ties, Meeting New Challenges: The European Union’s Strategic Role in Central Asia, «CEPS Policy Brief», 28 March 2007. 7 A questo riguardo si veda l’articolo di M. EDWARDS, The New Great Game and the New Great Gamers: Disciples of Kipling and Mackinder, in «Central Asian Survey», 22, 2003, 1, pp. 83-102.

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all’accorta dirigenza di Putin e soprattutto all’alto costo di petrolio e gas, dei quali la Russia è tra i maggiori produttori mondiali. Nell’Asia centrale come nel Caucaso questo ritorno in forze di Mosca sembra oggi essere in grado di contrastare efficacemente quella “transizione egemonica” a favore degli Stati Uniti che solo pochi anni fa appariva ineluttabile. Anzi, in Asia centrale più ancora che nel Caucaso, gli Stati Uniti stanno perdendo terreno, nella sfera politica come in quella militare 8 , mentre la Russia riconquista rapidamente importanti posizioni politiche, economiche e strategiche 9 . In Asia centrale la Russia collabora in maniera proficua con la Cina, in particolare nell’ambito della Shanghai Cooperation Organization (Sco). In tutta la regione, tuttavia, il ruolo di Pechino sembra destinato a crescere rapidamente nei prossimi decenni.

1. L’Unione Europea e la “Nuova via della seta”

La complessità geopolitica dell’area, la lontananza dell’Europa, la sostanziale mancanza di consolidati rapporti politici e culturali, nonché l’assenza di paesi membri particolarmente interessati all’inserimento delle repubbliche dell’Asia centrale all’interno delle strutture dell’Unione Europea, hanno limitato l’azione di Bruxelles nella regione per oltre un decennio dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica.

Nei primi anni post-sovietici l’Asia centrale non costituiva una priorità per l’Europa, che tuttavia era naturalmente molto interessata alle enormi ricchezze energetiche presenti in quest’area. Per più di dieci anni l’azione europea nella regione è stata dunque essenzialmente “petrocentrica”, priva cioè di un meditato approccio politico 10 . Tale interesse si è espresso principalmente attraverso il colossale progetto di un nuovo asse geoeconomico, noto con l’immaginifica denominazione di “Via della seta del XXI secolo”. Questo progetto è stato portato avanti attraverso l’ambizioso programma interstatale noto come Traceca (Transport Corridor Europe Caucasus Asia), il cui obiettivo dichiarato è lo sviluppo politico ed economico della vasta area che va dal Mar Nero al Caucaso all’Asia centrale attraverso la creazione di una nuova rete di trasporti internazionali11. Gli obiettivi di questo programma sono stati fissati sin dal 1993 a Bruxelles dalla Commissione Europea e dai governi di Armenia, Azerbaigian, Georgia, Kazachstan, Kirgizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. In 8 Cfr. S. BLANK, Beyond Afghanistan: The Future of American Bases in Central Asia, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 26 July 2006, http://www.cacianalyst.org/view_article.php? articleid=4349. 9 Cfr. S. BLANK, America Strikes Back? Geopolitical Rivalry in Central Asia and Caucasus, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 17 May 2006, http://www.cacianalyst.org/view_article.php? articleid=4233. 10 Cfr. F. VIELMINI, Parigi-Berlino-Mosca. Prove d’intesa in Asia centrale, in «Limes. Rivista italiana di geopolitica», 2004, 6, p. 272. 11 Si veda il sito ufficiale di questo programma – http://www.traceca.org – invero un po’ trionfalistico e auto-promozionale.

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seguito, tra il 1996 ed il 1998, anche Ucraina e Moldavia entrarono a far parte del programma, quindi – nel 2000 – fu la volta di Bulgaria, Romania e Turchia. Il programma Traceca – che comprende quindi cinque stati europei, tre caucasici e cinque centroasiatici – è stato concepito ufficialmente come uno strumento per l’integrazione e lo sviluppo economico dei paesi coinvolti all’interno dei mercati mondiali. Non si può tuttavia non osservare che tale progetto tendeva non solo a ridurre o eliminare del tutto il tradizionale ruolo di controllo economico esercitato dalla Russia nella regione, ma anche a escludere la partecipazione di paesi “non graditi” come Iran e Siria, mentre l’Armenia – che pure fa parte del Traceca, ma costituisce il più fedele alleato di Mosca nella regione – è stata aggirata dai principali gasdotti e oleodottipresenti nel corridoio12.

Il documento fondamentale del Progetto Traceca (Basic Multilateral Agreement, Mla) fu sottoscritto al summit “Restoration of the Historic Silk Route", che si svolse nel 1998 a Baku, in Azerbaigian, mentre nel 2000 venne creata a Tbilisi, in Georgia, la Intergovernmental Commission (Igc). Gli obiettivi del programma Traceca sono dunque i seguenti:

- stimolare la cooperazione tra gli stati membri in tutte le materie concernenti lo sviluppo del commercio nella regione; - promuovere l’integrazione ottimale del corridoio Traceca nelle reti di trasporto trans-europee; - individuare problemi e debolezze dei sistemi di trasporto e di commercio nella regione; - promuovere i diversi progetti Traceca come strumenti per attrarre finanziamenti, partner di sviluppo e investitori privati; - definire contenuti e tempi di un Programma di assistenza tecnica da finanziare attraverso la Commissione europea.

L’assistenza tecnica fornita dal programma Traceca ha aiutato la raccolta di investimenti da diversi partner di sviluppo. Tra questi la European Bank for Reconstruction and Development (Ebrd), che ha fornito fondi per grandi progetti riguardanti porti, ferrovie e strade lungo la direttrice Traceca; la World Bank (Wb), che ha finanziato importanti progetti stradali in Armenia and Georgia; la Asian Development Bank (Adb), che ha investito notevoli fondi destinati al miglioramento di strade e autostrade; e anche la Islamic Development Bank (Idb), che ha investito nello sviluppo del settore dei trasporti nei paesi che aderiscono al Traceca. Oltre a ciò, alcuni investitori privati dell’Unione Europea stanno costituendo joint ventures con compagnie di trasporti appartenenti a paesi del Caucaso e dell’Asia centrale. L’Unione Europea sostiene il programma Traceca insieme ad altri progetti europei miranti a sviluppare ulteriormente la

12 Cfr. M.O. ZARDARJAN, Velikij šelkovyj put’: istorija, kon’junktura, perspektivy (La grande via della seta: storia, congiuntura, prospettive), in «Central’naja Azija i Kavkaz», 5, 1999, 4, pp. 175-183, http://www.ca-c.org/journal/cac-05-1999/st_29_zardaryan.shtml.

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cooperazione e la sostenibilità economica della regione, quali il Southern Ring Air Routes Project e l’Oil and Gas Pipeline Project (Inogate)13.

Dal 1996 al 2006 il programma Traceca ha sostenuto 61 Progetti di assistenza tecnica e 15 Progetti di investimento, per una spesa totale di circa 160 milioni di euro. Tutti questi progetti sono stati individuati, elaborati e sviluppati nell’ambito degli Action Programmes e in accordo con le regole ed il ciclo di programmazione Tacis (Technical Assistance to the Commonwealth of Indipendent States), che riguardava tutti i paesi ex sovietici 14 . Gli stati centroasiatici che sono divenuti membri di questo programma lo considerano di fondamentale importanza strategica per raggiungere i mercati europei e integrarsi nel commercio globale. Anche l’Europa, del resto, è ovviamente interessata ad avere un collegamento funzionale con i paesi del programma Traceca, la maggior parte dei quali non ha sbocchi sul mare, per incrementare gli scambi commerciali. Una politica comune di trasporti e facilitazioni commerciali può migliorare in effetti non solo le prospettive economiche, ma anche la sicurezza dell’intera regione. Il Traceca è in effetti la direttrice orientale-occidentale di terra più breve e potenzialmente più economica, ma non certo l’unica 15 . In effetti questo programma ha determinato l’avvio di un processo di cooperazione e dialogo tra i governi coinvolti e gli imprenditori dei trasporti per mantenere basse le tariffe di transito e semplificare le procedure di attraversamento dei confini. Inoltre, le nuove richieste di adesione, la frequente organizzazione di conferenze e seminari regionali, la stretta interazione con altri programmi europei, l’aumento degli investimenti e l’utilizzo crescente del corridoio testimoniano la rilevanza del Traceca.

Occorre tuttavia rilevare i risultati ottenuti sinora da questo programma risultano inferiori alle speranze. In effetti sì è riusciti solo in parte a migliorare il sistema di trasporti e servizi della regione Mar Nero-Caucaso-Asia centrale dopo la grave crisi sopraggiunta negli anni successivi alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Questo parziale fallimento deriva soprattutto dal fatto che il programma Traceca risente di alcune debolezze strutturali, derivanti proprio dalla sua impostazione di base. Non si tratta solo della «tortuosità del percorso (richiedente numerosi passaggi mare-terra con ripetuti scambi di vettore) e della strutturale incapacità ad

13 L’Inogate riunisce 21 paesi in una serie di accordi sull’integrazione dei sistemi di trasporto di gas e petrolio. In Asia centrale questo progetto comprende il controllo tecnico delle pipelines, la riabilitazione dei sistemi di trasporto di gas e il coordinamento delle politiche energetiche nazionali. Anche questo programma, come il Traceca, esclude la Russia. Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, in «Chaillot Papers» n. 91, July 2006, pp. 86-87, n. 241. 14 Si veda il sito http://www.ec.europa.eu/comm/external_relations/ceeca/tacis/index.htm 15 Sulla problematica politica ed economica dei corridoio di trasporto cfr. F. VIELMINI, I corridoi di trasporto trans-eurasiatici: non solo economia, «ISPI Policy Brief» n. 28, dicembre 2005, http://www.ispionline.it/it/documents/pb_28_2005.pdf. Per la variante russa, “settentrionale”, di questo progetto si veda anche il mio articolo La Russia come «ponte eurasiatico» tra l’Europa e il Pacifico. Un progetto alternativo di sviluppo, in G. JANNINI (a cura di), Cina e Russia. Due transizioni a confronto, Milano, 2005, soprattutto pp. 57-62.

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intendersi tra loro dei molti (per alcuni troppi) paesi attraversati», ma anche del fatto che «l’implementazione del progetto è infatti ostacolata dai paesi rimasti tagliati fuori, in primo luogo la Russia»16.

Si tratta di un punto molto importante. Per rendere più funzionale il programma Traceca, ma questo vale per tutta l’azione europea in Asia centrale, Bruxelles dovrebbe cioè coordinarlo maggiormente con i progetti analoghi portati avanti dagli altri grandi attori locali, in particolare dalla Russia, superando in questo modo l’impostazione degli anni Novanta che sottovalutava le potenzialità di questo paese e tendeva comunque a ridimensionarne il ruolo. Gli eventi degli ultimi anni mostrano invece che Mosca è destinata a rimanere anche nei prossimi decenni non solo la principale fornitrice di risorse energetiche, ma più un generale un partner politico e strategico fondamentale dell’Unione Europea17.

2. Altri accordi di cooperazione

Oltre al programma Traceca, negli anni Novanta la pur limitata politica dell’Unione Europea nei confronti dell’Asia centrale ha condotto anche alla stipula di altri accordi di cooperazione con i paesi della regione. Vanno ricordati in particolare gli Accordi di partenariato e cooperazione (Partnership and Cooperation Agreements, Pca) con Kazachstan, Kirghizistan, Uzbekistan e Turkmenistan18. Questi accordi, stipulati nel 1996, sono entrati in vigore nel 1999 e scadranno nel 2009. L’Accordo di partenariato e cooperazione con il Turkmenistan, peraltro, non è mai entrato in vigore; le procedure sono state congelate, soprattutto a causa della particolare situazione politica del paese nell’era del presidente Niyazov, da poco scomparso. Le conseguenze della guerra civile degli anni Novanta hanno invece impedito la stipula di questo accordo con il Tagikistan, le cui relazioni con l’Unione Europea sono dunque limitate al più ristretto Accordo di commercio e cooperazione (Trade and Cooperation Agreement, Tca)19. Come è noto, gli Accordi di partenariato e cooperazione sono riservati ai cosiddetti “paesi in via di transizione” e denotano un impegno limitato da parte dell’Unione Europea, senza costituire cioè un quadro di riferimento strategico. Tuttavia, nel periodo 1991-2004 l’Unione Europea è stata il principale donatore della regione, fornendo 1.132 milioni di euro, 516 dei quali nell’ambito Tacis20.

16 Cfr. F. VIELMINI, I corridoi di trasporto trans-eurasiatici: non solo economia, cit. 17 Si veda a questo riguardo lo studio a cura di A. ROSATO, La Sicurezza energetica nella relazioni tra Unione Europea (Italia) e Federazione Russa, ricerca CeMiSS 2006, http://www.difesa.it/backoffice/upload/allegati/2007/{3A6111B0-76E4-4617-8D56-F62D3EA798E3}.pdf. 18 Si veda il sito http://www.ec.europa.eu/comm/external_relations/ceeca/pca/index.htm 19 Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 85. 20 Cfr. http://www.europa.eu.int/comm/external_relations/kyrgyz/intro/index.htm

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L’Unione Europea ha avviato anche altri programmi di minore rilevanza con alcuni paesi dell’Asia centrale. In particolare, il Tagikistan e il Kirghizistan sono stati assistiti con un programma di sicurezza alimentare (Food Security Assistance) e di riduzione della povertà (Poverty Reduction Strategy). Il Tagikistan, il più povero tra i paesi ex sovietici, ha ricevuto dal 1992 al 2002 350 milioni di euro, mentre tra il 1997 ed il 2004 74,5 milioni di euro sono stati erogati al Kirghizistan, che ha ricevuto anche aiuti dalla Iniziativa europea su democrazia e diritti civili (European Iniziative on Democracy and Civil Rights, Eidhr), volti a sviluppare principalmente i media e la società civile. Nonostante il suo profondo isolamento politico, anche il Turkmenistan ha ricevuto aiuti europei, di circa 2 milioni di euro l’anno sino al 2004, mentre in seguito sono raddoppiati21. Si tratta tuttavia di progetti di portata limitata, che non hanno consentito un reale sviluppo di questi paesi, che invece avrebbero un estremo bisogno di essere aiutati ad accedere più facilmente al mercato europeo22.

E’ molto importante, inoltre, che il sostegno europeo alle asfittiche economie della regione avvenga senza creare strutture parallele ai già deboli governi centro-asiatici, per non minarne l’autorità. Occorrerebbe cioè agire in stretta collaborazione con le autorità locali, ma questo è sinora risultato estremamente problematico a livello tanto politico quanto tecnico. Vi è infatti una reale difficoltà da parte dei governi centroasiatici a orizzontarsi tra le numerose e complesse procedure per l’accesso ai finanziamenti internazionali ed europei in particolare. L’ufficio di cooperazione EuropAid ha iniziato ad affrontare la questione con un seminario organizzato a Almaty nell’ottobre 2005, ma il problema è di difficile soluzione. Al di là di queste problematiche tecniche ed informative, occorre anche tener presente che esiste in tutta l’Asia centrale un problema particolarmente grave di corruzione, che non costituisce solo un ostacolo allo sviluppo economico, ma pone anche seri problemi di sicurezza, soprattutto quando si annida negli apparati di polizia. Il miglioramento, se non la soluzione, di questo problema costituisce evidentemente una priorità per l’Unione Europea, che ha messo in atto un progetto sui “passi fondamentali” legislativi miranti a eliminare o ridurre le opportunità di corruzione23.

Nonostante tutte queste difficoltà, l’Unione Europea continuerà anche in futuro a sostenere progetti di cooperazione con i paesi dell’Asia centrale, ma su basi differenti rispetto al passato. A partire dal 2007, infatti, il finanziamento non avverrà più sulla base del Programma di azione Tacis, che è scaduto nel 2006, ma adeguandosi ai recenti cambiamenti nell’erogazione dei fondi europei.

21 Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 86. 22 Cfr. A. SCHMITZ, A Political Strategy for Central Asia, cit. 23 Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 105.

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3. La questione della sicurezza

Se nei primi anni post-sovietici l’interesse dell’Unione Europea per l’Asia centrale è stato rivolto prevalentemente agli aspetti energetici e alla cooperazione allo sviluppo, soprattutto a partire dall’11 settembre 2001 Bruxelles ha iniziato a dedicare una crescente attenzione alle questioni riguardanti la sicurezza della regione24.

L’Asia centrale costituisce per l’Unione Europea un capitolo aperto soprattutto riguardo ai seguenti punti:

− la stabilizzazione della regione, con particolare riferimento alla debolezza politica degli stati locali e al pericolo del terrorismo; − la lotta al crimine organizzato, soprattutto nell’ambito del traffico di armi e stupefacenti. − il sostegno alle azioni militari nel vicino Afghanistan.

Da molti punti di vista, in effetti, la stabilità della regione centroasiatica è solo apparente e potrebbe venir improvvisamente meno. Il problema della debolezza interna di questi stati deve in effetti essere tenuto presente. Con la parziale eccezione del Kazachstan, le altre repubbliche centroasiatiche non hanno avuto sinora molto successo nell’impresa di state-building e continuano a presentare una realtà di declino delle infrastrutture e degli indicatori sociali. Lo sviluppo degli stati post-sovietici della regione è inoltre pregiudicato dagli alti livelli di corruzione e criminalità25. Il rafforzamento degli stati centro-asiatici è dunque una priorità per l’Unione Europea. L’eventualità di nuovi disordini, come quelli avvenuti di recente in Uzbekistan e Kirghizistan, potrebbe riproporsi e l’Unione Europea deve essere preparata per saperla eventualmente fronteggiare. Sino ad ora, tuttavia, la sua capacità di monitoraggio e analisi politica dell’area è stata alquanto limitata. Uno sviluppo di queste capacità è ovviamente indispensabile per una crescita del ruolo politico dell’Unione Europea in Asia centrale.

In caso di crisi lo strumento da utilizzare sarebbe naturalmente la Politica Europea di Sicurezza e Difesa (Pesd), ovviamente in collegamento con il Rappresentante Speciale per l’Asia centrale. Anche l’Osce, che è impegnata in Kirgizistan in un programma di riforma delle forze di polizia, potrebbe peraltro avere un suo ruolo in tale eventualità. Un altro strumento potenzialmente applicabile nella regione sarebbero le Squadre di risposta alle crisi (Crisis Response Teams, Crts), ma solo in caso di crisi acuta. La Commissione potrebbe affrontare una situazione di emergenza anche per mezzo del Meccanismo di reazione rapida (Rapid Reaction Mechanism, Rrm), istituito nel 2001, che – differenza del Tacis – può erogare

24 Cfr. A. SCHMITZ, A Political Strategy for Central Asia, cit. 25 Si veda al riguardo lo studio di E. MARAT, The State-Crime Nexus in Central Asia: State Weakness, Organized Crime and Corruption in Kyrgyzstan and Tajikistan, Central Asia-Caucasus Institute, «Silk Road Paper», October 2006, http://www.silkroadstudies.org/new/docs/ Silkroadpapers/0610EMarat.pdf.

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fondi con grande rapidità. Questo è avvenuto, tra l’altro, in occasione dell’assistenza elettorale in Kirghizistan nel 2005, che aveva carattere di urgenza26.

Per conseguire tali obiettivi, l’Unione Europea ha istituito diversi programmi in collaborazione con gli stati centroasiatici. Il primo a essere attuato è stato il Programma di assistenza droga in Asia centrale (Central Asia Drug Assistance Programme, Cadap), istituito sulla base della convinzione che il traffico di droga attraverso i paesi centroasiatici costituisse una minaccia particolare per l’Unione Europea e i cui primi passi sono stati mossi già nel 1996. Il suo funzionamento reale è tuttavia iniziato solo nel 2001, mentre nel 2002 è stato firmato il Piano di azione sulle droghe (Action Plan on Drugs, Apd) tra l’Unione Europea e quattro dei paesi della regione (ad eccezione del Turkmenistan). In seguito, collegato al Cadap, ma con obiettivi più vasti, soprattutto in conseguenza dell’11 settembre 2001, è partito il Programma di gestione delle frontiere in Asia centrale (Border Management Programme in Central Asia, Bomca), per una spesa complessiva di 44 milioni di euro nel quinquennio 2004-2009 27 . Il suo obiettivo è quello di assistere i paesi della regione a rendere sicuri i loro confini, in particolare quello con l’Afghanistan. Non era invece prevista nessuna cooperazione con le forze russe impegnate nella sorveglianza delle frontiere del Tagikistan. Dopo la partenza delle forze russe dal confine afghano-tagiko, tuttavia, il Bomca si è fatto

28

cacia dei programmi, soprattutto nell’ambito della lotta alla

carico anche di questo settore .

Il problema principale di Cadap e Bomca, entrambi attuati attraverso il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Undp), sembra essere il loro carattere squisitamente tecnico, in assenza di una chiara strategia politica da parte dell’Unione Europea. In particolare, soprattutto a causa della ristrettezza dei tempi a disposizione, la Commissione europea non ha negoziato con i governi centroasiatici i termini e le obbligazioni reciproche. Questo ha ovviamente limitato l’efficorruzione29.

La questione della sicurezza è troppo delicata per essere gestita dall’Unione Europea soltanto in termini tecnici e finanziari, ma richiede una precisa volontà politica che l’Unione Europea fatica a darsi, in particolare in Asia centrale. In primo luogo perché il Bomca è gestito dalla Commissione e risente quindi del suo indebolimento dopo il fallimento della costituzione europea. In questo momento la Commissione ha difficoltà a gestire in proprio i programmi legati alla sicurezza nella regione e tende ad affidarli a una agenzia esterna come l’Undp. Si tratta di un problema che condiziona tutta la strategia europea di sicurezza, al cui interno continua a esistere una notevole distanza tra gli obiettivi dichiarati e il loro

26 Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., pp. 100-101. 27 Si veda il sito ufficiale di questo programma: http://www.bomca.eu.org 28 Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 89. 29 Ibidem, p. 90.

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conseguimento. Come è naturale, la politica di sicurezza dell’Unione Europea in Asia centrale risente di tali difficoltà, ma proprio questa regione potrebbe costituire un importante banco di prova per le potenzialità di sviluppo di una

che

e – dovrebbe pertanto impegnarsi

a, che ttualmente non esiste ancora, soprattutto con Turkmenistan e Uzbekistan.

strategia europea di sicurezza30.

Un punto di fondamentale importanza appare il collegamento tra l’assistenza finalizzata alla sicurezza e quella rivolta più in generale allo sviluppo dei paesi della regione. Oltre al rafforzamento del controllo sui confini per prevenire la minaccia terroristica e il traffico di armi e stupefacenti, occorre cioè che Bruxelles individui e metta in atto misure volte a elevare il livello di vita delle popolazioni locali. Un approccio di questo tipo è stato sinora portato avanti in un’area particolarmente critica come la valle di Ferghana, nella quale l’Unione Europea ha avviato un programma di alleviamento della povertà in considerazione sia dell’elevata densità della popolazione che dei rilevanti danni economici provocati dalla comparsa, dopo la dissoluzione dell’Urss di frontiere interstatali che dividono territori strettamente collegati tra loro. L’idea guida di questo progetto era di stabilizzare una regione strategicamente molto delicata, ma i violenti disordini scoppiati nel 2005 a Andijan – di carattere peraltro più politicoeconomico – hanno dimostrato quanto sia difficile ottenere risultati concreti.

Lo stesso discorso può essere fatto nell’ambito della lotta alla coltivazione ed al traffico di droga. Tali attività appaiono derivare infatti in primo luogo dalla povertà delle popolazioni locali, che ne ricavano importanti fonti di reddito. La semplice repressione poliziesca è dunque insufficiente se le operazioni di polizia anti-droga non sono integrate da misure di sostegno e sviluppo dell’economia di queste regioni post-sovietiche, che sono tra l’altro particolarmente depresse. Poiché il narcotraffico fornisce importanti entrate al radicalismo islamico e al terrorismo, l’Unione Europea – dalla quale, per inciso, giunge la maggior domanda della droga prodotta nella regionintensamente nella lotta a tale commercio31.

Una ragione sempre più fondamentale dell’impegno dell’Unione Europea in Asia centrale è la vicinanza della regione all’Afghanistan, con il quale confinano direttamente Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan. Occorre tuttavia considerare che, sebbene diversi paesi europei abbiano schierato forze militari in Afghanistan nell’ambito Nato/Isaf, questo paese non è ancora chiaramente collegato all’Asia centrale nelle strategie e nelle strutture europee. Invece, in vista della probabile lunga durata della missione militare in Afghanistan, appare quanto mai opportuno stabilire una stabile cooperazione militare e di sicurezza con i paesi centroasiatici. Questo richiederebbe naturalmente anche una solida cooperazione politica

30 Ibidem, pp. 97-98. 31 Cfr. Z. BARAN et al., Islamic Radicalism in Central Asia and the Caucasus: Implications for the EU, Central Asia-Caucasus Institute, «Silk Road Paper», July 2006, http://www.silkroadstudies.org/new/docs/Silkroadpapers/0607Islam.pdf

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Quest’ultimo paese, anzi, ha informato il governo tedesco che potrebbe perdere l’uso della base di Termez se non interverrà con sostanziosi investimenti per migliorarne le infrastrutture32. Ovviamente non si tratta tanto di una questione economica, quanto politica. Come la maggior parte dei paesi europei la Germania ha una posizione estremamente critica nei confronti del governo di Tashkent, soprattutto dopo il massacro di Andijan del maggio 2005 33 . In effetti la concezione autoritaria e repressiva della sicurezza che caratterizza i governi centroasiatici sembra difficilmente compatibile con le nozioni europee di una sicurezza “comprensiva” e “umana”. In questa ottica, un analista come N.J. Melvin ritiene che «In its dialogue with the authorities in Central Asia, the EU must move beyond narrow definitions of security and not be constrained by the anti-terrorism agenda promoted by many of the security services in the region. The EU should seek though dialogue to broaden concepts of security in Central Asia and also to strengthen cooperation in the area of regional security and

o ione sempre più radicale e principalmente legata

essioni dall’esterno in questo ambito. Si tratta invero di un compito non agevole.

conflicts prevention activities»34.

Il punto è che alla luce delle esigenze militari in Afghanistan, l’Unione Europea si trova nella necessità di sviluppare una strategia regionale efficace, e questo nonostante le evidenti divergenze politiche con i governi centroasiatici. La questione è complicata anche dal fatto che l’atteggiamento di Bruxelles nei confronti del radicalismo islamico in Asia centrale è condizionata dalla difficile lettura di questo fenomeno e dei suoi rapporti con la minaccia terrorista. Il problema principale sembra essere rappresentato a questo riguardo dalle crescenti tendenze autoritarie dei governi regionali, che appaiono a loro volta destinate a determinare un’opp sizall’opzione islamista35.

Proprio per cercare di spezzare questo circolo vizioso, l’Unione Europea dovrebbe tentare di sostenere una svolta nella politica interna dei paesi centroasiatici, al fine di migliorare sensibilmente la situazione economica e la diffusa sensazione di ingiustizia socio-politica. E questo senza alienarsi definitivamente le simpatie dei governi locali, ben poco favorevoli a pr

32 Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 117. 33 Su questi eventi si veda l’articolo di F. INDEO, Urzbekistan e diritti umani: la questione dei rifugiati di Andijan, in «Medeura. Rivista di Relazioni Internazionali», 2, dicembre 2005, 7, http://www.relint.org/public/medeura/MEDEURA-2005-7.pdf. 34 N.J. MELVIN, Building Stronger Ties, Meeting New Challenges: The European Union’s Strategic Role in Central Asia, cit. 35 Cfr. Z. BARAN et al., Islamic Radicalism in Central Asia and the Caucasus: Implications for the EU, cit.

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4. Quale strategia europea per l’Asia centrale?

Come è accaduto anche nel Caucaso, che pure è geograficamente e culturalmente assai meno remoto, l’impegno politico dell’Unione Europea in Asia centrale ha risentito negativamente dell’assenza di paesi sponsor che ne favorissero l’avvicinamento. Negli ultimi anni, tuttavia, il cambiamento della situazione politica internazionale ha indotto Bruxelles a intensificare il suo impegno nella regione.

Oltre alla questione della sicurezza, divenuta più rilevante dopo l’11 settembre 2001 e ancora ben lontana dall’essere risolta in Afghanistan, la situazione ha iniziato a cambiare con l’accresciuta attenzione da parte dell’Europa nei confronti della turbolenta evoluzione politica in Kirghizistan e Uzbekistan. Per evitare che l’isolamento e il degrado economico rendano più instabile l’intera regione, l’Unione Europea si sta ora impegnando per tentare di inserirla maggiormente nella vita politica ed economica internazionale36. Ma per spiegare l’accresciuta rilevanza dell’Asia centrale nell’agenda europea occorre considerare un altro aspetto estremamente importante, vale a dire il complicarsi della questione energetica negli ultimi anni. In particolare, il conflitto sul gas esploso all’inizio del 2006 tra Russia e Ucraina ha infatti sicuramente contribuito in misura rilevante a indurre l’Unione Europea ad accrescere il suo interesse per la regione. L’Asia centrale è ormai divenuta un’area quanto mai rilevante per quel che riguarda la sicurezza energetica, in particolare nell’ambito di una maggiore diversificazione delle fonti energetiche e delle rotte di trasporto verso i mercati europei. In questa ottica la collaborazione con i paesi dell’Asia centrale ha evidentemente acquisito una crescente importanza. Tuttavia appare imprudente riporre eccessive speranze sulla possibilità che in questo modo l’Europa possa effettivamente ridurre la sua dipendenza energetica dalla Russia, che a sua volta dipende ampiamente dalla produzione centroasiatica per soddisfare la domanda europea e deve di conseguenza difendere con fermezza i propri interessi nella regione37.

Alla luce di questa situazione non è certo facile per Bruxelles impostare una politica centroasiatica davvero efficace, soprattutto dopo che il limitato impegno del periodo precedente ne ha fortemente limitato la presenza e la visibilità. La Commissione europea ha una limitata rappresentanza in Asia centrale, costituita dalle Delegazioni di Almaty (destinata tuttavia a trasferirsi ad Astana), Bishkek e Dushanbe. Queste ultime due hanno un capo-delegazione non residente, ma è previsto che nel 2007 quella di Bishkek diventi una Delegazione a pieno titolo. Gli eventi di Andijan hanno fatto abbandonare il progetto di costituire una Delegazione europea in Uzbekistan. A Tashkent esiste soltanto una “Europa House”, che però non rappresenta ufficialmente l’Unione Europea38. La visibilità 36 Ibidem. 37 Cfr. A. SCHMITZ, A Political Strategy for Central Asia, cit. 38 Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 87.

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locale dell’Unione è quindi alquanto scarsa. Per anni, inoltre, sono completamente mancati incontri di vertice con i presidenti delle repubbliche centro-asiatiche ed i contatti politici si sono limitati a sporadici incontri a livello ministeriale. Ha in effetti costituito un’eccezione il coinvolgimento nella crisi del Kirghizistan del 2005 di Javier Solana, Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune (Pesc) che chiamò il ministro degli esteri Rosa Utumbaeva poco dopo gli avvenimenti di marzo e incontrò in seguito il nuovo presidente, Bakiyev39.

Per tentare di superare questa situazione, già nel 2004 la presidenza olandese promosse una politica di dialogo tra l’Unione Europea e i paesi dell’Asia centrale al fine di creare un clima di fiducia al cui interno sia più agevole sviluppare i programmi europei. Gli obiettivi primari di questo dialogo sono quattro:

1. aiutare i paesi della regione a delineare i problemi comuni e contribuire all’instaurazione di un clima di reciproca fiducia; 2. sostenere la strategia di assistenza regionale della Commissione; 3. rispondere al desideri dei paesi centroasiatici di stabilire legami più intensi con l’Unione Europea; 4. completare e rinforzare le relazioni bilaterali tra i paesi dell’Unione Europea e quelli centroasiatici, in particolare quelli con cui sono già stati sottoscritti Accordi di partenariato e cooperazione.

A tale scopo sono stati organizzati tre incontri: a Bishkek nel dicembre 2004, a Bruxelles nel giugno 2005 e ad Almaty nell’aprile 2006. Nel corso di tali incontri sono stati discussi prevalentemente temi di cooperazione commerciale ed economica, di giustizia, emigrazione, sicurezza e gestione delle risorse idriche. In questa fase, tuttavia, il dialogo è sembrato essere ancora più procedurale che sostanziale, in attesa che la Commissione dell’Unione Europea chiarisse le linee della nuova strategia di assistenza per il periodo 2007-2013.

Nel frattempo, tuttavia, un segnale particolarmente chiaro dell’intensificarsi della politica europea nei confronti della regione è stata la nomina nel luglio 2005 di un Rappresentante Speciale per l’Asia centrale nella persona del diplomatico slovacco Jan Kubiś, sostituito nell’ottobre 2006 dal francese Pierre Morel. Il mandato del Rappresentante Speciale dell’Unione Europea (Eusr) per l’Asia centrale prevede: «To follow political developments in Central Asia by developing and maintaining close contacts with governments, parliaments, judiciary, civil society and mass media; encourage the countries to cooperate on regional issues of common interest, develop contacts and cooperation with the main interested actors in the region, contribute, in close cooperation with the OSCE, to the conflict prevention and resolution by developing contacts with the authorities and other local actors; promote overall coordination of the Union in Central Asia and ensure consistency of the external action of the Union without

39 Ibidem, p. 91, n. 254.

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prejudice to Community competence; assist the Council in further developing a comprehensive policy toward Central Asia»40.

Anche la presidenza austriaca (primi sei mesi del 2006) è stata molto attiva verso l’Asia centrale, focalizzando la sua attenzione soprattutto sul Kazachstan, che sembra essere stato individuato come il più valido referente regionale dell’Unione Europea41. Nel frattempo il numero delle ambasciate di paesi europei aperte nelle repubbliche dell’Asia centrale è aumentato notevolmente, mentre Bruxelles ha cominciato a cooperare più efficacemente con gli Stati Uniti e l’Osce nella regione. Anche se nel complesso la regione è ancora meno attivamente coinvolta dalle attività europee di quanto non sia il Caucaso meridionale, nel 2006 l’impegno economico dell’Unione Europea nelle diverse repubbliche dell’Asia centrale ha raggiunto la cifra considerevole di 66 milioni di euro42.

Lo scorso autunno, il commissario per le relazioni esterne della Commissione europea, Benita Ferrero-Waldner ha pronunciato un discorso all’università della capitale kazaka, Astana, in cui ha illustrato i pilastri della cooperazione in Asia centrale: energia, lotta al traffico di droga e all’Aids, politica di sicurezza e riforme democratiche43 . E, come si è già visto, la presidenza tedesca ha dato nuovo impulso in questa direzione. Il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier, lo scorso novembre, ha effettuato un lungo viaggio in tutte le repubbliche, proprio in preparazione del semestre di presidenza del suo paese, prima tappa di un impegno che sino alla fine di giugno vedrà una serie di appuntamenti tra le autorità europee ed i massimi esponenti politici di tutte le repubbliche centroasiatiche.

Nonostante queste iniziative, le strategie adottate da Bruxelles non sono egualmente condivise dagli stati membri, alcuni dei quali antepongono gli interessi nazionali a una politica estera comune. Tra l’altro occorre tener presente che non certo tutti i paesi europei sono interessati nella stessa misura all’Asia centrale né tutti hanno la possibilità concreta di intervenirvi. In questo senso l’esistenza di un Rappresentante Speciale dell’Unione Europea per la regione può aiutare gli stati membri ad articolare i loro interessi44.

L’intensificazione dei rapporti politici di Bruxelles con i paesi centroasiatici si è in effetti dimostrata faticosa, soprattutto con l’Uzbekistan. La nomina del rappresentate speciale dell’Unione Europea per l’Asia centrale avvenne in un momento particolarmente delicato per la regione, poco dopo la caduta del 40 Appointing a Special Representative pf the EU for Central Asia, Council Joint Action L 199/100, 2005/544CFSP, in «Official Journal of the European Union», 29 July 2005. 41 Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 91; N.J. MELVIN, Building Stronger Ties, Meeting New Challenges: The European Union’s Strategic Role in Central Asia, cit. 42 Cfr. R. WELTZ, Can the EU Resolve the Uzbekistan Dilemma in 2007?, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 24 January 2007, http://www.cacianalyst.org/view_article.php?articleid=4680. 43 Cfr. http://www.europa.eu/rapid/pressReleasesAction.do?reference=IP/06/1420&format=HTML &aged=0&language=EN&guiLanguage=en. 44 Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 121.

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presidente Akaev in Kirghizistan e in corrispondenza con la violenta repressione dei disordini scoppiati nel maggio 2005 a Andijan, in Uzbekistan. Per oltre un anno l’Unione Europea ha fatto pressione sul presidente di questa repubblica, Karimov, perché consentisse l’instaurarsi di una inchiesta internazionale indipendente su tali fatti, giudicati assai gravi da Bruxelles. In mancanza di risposte adeguate da parte delle autorità dell’Uzbekistan, l’Unione Europea prese la decisione inconsueta di sospendere almeno parzialmente gli Accordi di partenariato e cooperazione siglati nel 1999 con il governo di Tashkent45. Nel novembre 2005 si giunse anche ad un embargo europeo sulla vendita di armi a questo paese – reso peraltro del tutto inefficace dalla possibilità di acquistare armi dalla Russia e dalla Cina –, al congelamento del Patto di partenariato e cooperazione, al blocco dei visti per diversi funzionari uzbeki ritenuti coinvolti nella repressione. Come ritorsione il governo di Tashkent decise di proibire lo spazio aereo e l’uso delle basi uzbeke ai militari europei impegnati in Afghanistan. Inoltre vennero chiuse una decine di Ong occidentali operanti nel paese. Non si arrivò tuttavia a una sospensione completa dei rapporti dell’Unione Europea con l’Uzbekistan che, insieme al Kazachstan, è il paese più importante della regione46. Nel novembre 2006 le sanzioni europee sono state parzialmente attenuate. Ciononostante, il contrasto tra Bruxelles e Tashkent resta elevato ed esemplifica le difficoltà politiche dell’Unione Europea in Asia centrale47. Gli stati della regione sono infatti dei partner difficili. Si tratta in effetti di paesi ancora lontani dall’essere delle democrazie reali e delle economie di mercato in senso pieno. Inoltre, le élites dominanti hanno sfruttato la crescente importanza strategica dell’area per rafforzarsi al potere con metodi sempre più autoritari in nome della “sicurezza nazionale” o della “lotta al terrorismo”. Il modello politico potenzialmente alternativo rappresentato dalle rivoluzioni colorate in Georgia e Ucraina – che nella primavera 2005 sembrò raggiungere anche l’Asia centrale – ha amplificato queste tendenze, culminate nel massacro di Andijan48 . Occorre tener presente che in questa svolta autoritaria i paesi centroasiatici possono agevolmente appoggiarsi alla Russia, a sua volta orientata in senso analogo e che negli ultimi anni ha riconquisto importanti posizioni nella regione attraverso politiche di cooperazione economica e di sicurezza sia bilaterali sia nelle strutture regionali. E lo stesso discorso vale per la Cina. Al tempo stesso, l’evoluzione del Kazachstan ed i cambiamenti in corso in Kirghizistan e Uzbekistan potrebbero delineare scenari differenti. L’intensificazione della politica europea nella regione avviene dunque in un momento cruciale dell’evoluzione dell’Asia centrale, in bilico tra una recrudescenza di tendenze autoritarie e repressive (soprattutto in

45 Cfr. http://www.ue.eu.int/ueDocs/cms_Data/docs/pressData/en/gena/86441.pdf 46 Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 93. 47 Di recente Tashkent sembra però lanciare segnali postivi in questa direzione. Cfr. A. LOBJAKAS, EU Gets Rights Pledges from Taskent, in «Central Asia Report», 7, March 2007, 3, http://www.rferl.org/reports/FullReport.aspx?report=568#592858. 48 Cfr. A. SCHMITZ, A Political Strategy for Central Asia, cit.

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Uzbekistan e Tagikistan ) e la timida comparsa di prospettive contrarie negli altri tre paesi49.

In una situazione così complessa e ancora in assenza di una chiara strategia europea, il compito del Rappresentante Speciale dell’Unione in Asia centrale incontra inevitabilmente molti ostacoli. In particolare non ci si deve attendere troppo dalle collaborazioni bilaterali con i singoli stati centroasiatici, che sono assai spesso guidati da calcoli di breve termine, soprattutto di carattere interno. In effetti la politica europea nella regione è ancora intralciata dalla loro definizione di “paesi in transizione”, che è stata coniata negli anni Novanta del XX secolo per designare gli stati dell’Europa orientale, ma si mostra sostanzialmente inconsistente se riferita a diverse repubbliche post-sovietiche, in particolare a quelle dell’Asia centrale. In questa regione, infatti, è molto dubbio che si possa descrivere il processo politico di questi anni come una “transizione” verso il modello politico, economico e sociale occidentale50. Occorre piuttosto pensare questi paesi in un’ottica simile a quella che si usa per studiare i loro vicini regionali, quali l’Iran o il Pakistan. Inoltre, la stessa percezione dell’Asia centrale come una “regione” con valori comuni e strutture unitarie è in un certo senso fuorviante. Le repubbliche centroasiatiche, infatti, hanno sinora mostrato una limitata tendenza verso la cooperazione e l’integrazione regionale51 . In questo senso il desiderio dell’Unione Europea di interagire con una realtà regionale integrata e omogenea rischia seriamente di scontrarsi con una situazione assai differente. Pertanto, pur rimanendo auspicabile e forse realizzabile nel lungo periodo, l’approccio “regionale” di Bruxelles all’Asia centrale deve essere ridefinito, adeguandolo maggiormente alla concreta realtà locale. Una realtà nella quale, inoltre, esistono inoltre diverse strutture regionali al cui interno il ruolo della Russia è forte o dominante – in particolare l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Collective Security Treaty Organization, Csto) e l’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai (Shanghai Cooperation Organization, Sco) – e che dovrebbero essere tenute in maggiore considerazione di quanto sia avvenuto sinora52. E’ cioè necessario che l’Unione Europea fissi un’agenda realistica della sua azione in Asia centrale, valutando esattamente la situazione dei paesi della regione e i propri interessi. Solo in questo caso l’attuale fase che la vede coinvolta essenzialmente in progetti di tipo tecnico potrà essere superata nel senso di un intervento più accentuatamente politico.

Secondo alcuni osservatori, in Asia centrale l’Unione Europea gode di una notevole libertà di azione in quanto agiscono nella regione meno attori

49 Cfr. N.J. MELVIN, Building Stronger Ties, Meeting New Challenges: The European Union’s Strategic Role in Central Asia, cit. 50 Si vada questo riguardo quanto scrive Th. CAROTHERS, The End of the Transition Paradigm, in «Journal of Democracy», 13, 2002, 1, p. 9. 51 Cfr. R. ALLISON, Regionalism, Regional Structures and Security Management in Central Asia, in «International Affairs», 80, 2004, 3, pp. 463-483. 52 Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 106.

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internazionali di quelli presenti, per esempio, nel Caucaso meridionale53. Questa considerazione può essere in parte corretta, ma al tempo stesso c’è da dubitare che l’Unione Europea riesca ad agire in Asia centrale con maggiore efficacia di quanto possano fare attori più prossimi alla regione e più attrezzati politicamente e militarmente come Russia, Cina e Stati Uniti. Per questa ragione sembra invece auspicabile che l’Unione Europea eviti di partecipare alla rivalità geopolitica che investe la regione, mirando piuttosto a salvaguardare i propri interessi per mezzo di una politica di cooperazione multilaterale e di interdipendenza. In particolare sarebbe opportuno che Bruxelles si impegnasse a convincere anche gli altri attori, locali e non, della convenienza – almeno nel lungo periodo – della politica di cooperazione rispetto a quella di competizione. In questo senso l’Unione Europea dovrebbe sforzarsi di coinvolgere non solo gli Stati Uniti e la Russia, ma anche la Cina, l’India e il Giappone in un dialogo politico capace di instaurare una solida stabilità regionale. Un dialogo di questo tipo può essere impostato a partire dagli interessi condivisi, in particolare quelli economici e di sicurezza, per poi espandersi ad altri aspetti, inclusi quelli politici e sociali.

E’ ovvio che tale approccio richiede pazienza e soprattutto l’instaurazione di regole precise che invece sono ancora di là da venire 54 . Occorre anche tener presente che i paesi centroasiatici tendono a vedere nell’Unione Europea essenzialmente una fonte di sostegno finanziario, ma non gradiscono che intervenga nei loro affari interni, soprattutto in materia di diritti civili. Il suo ruolo deve dunque essere almeno per il presente alquanto prudente, essenzialmente rivolto alla non semplice opera di costruzione dei canali sui quali impostare una proficua collaborazione politica con questi paesi.

5. L’Unione Europea e la società civile in Asia centrale

Da questo punto di vista la questione della democrazia e dei diritti umani costituisce tanto una chance quanto un ostacolo. Gli Accordi di partenariato e cooperazione siglati tra l’Unione Europea e gli stati della regione includono numerosi riferimenti al consolidamento della democrazia, dei diritti umani, dell’indipendenza dei media e del rispetto delle minoranze etniche. Tuttavia questi richiami devono necessariamente fare i conti con una realtà che sembra assai restia ad adeguarvisi e da questo punto di vista gli stati centroasiatici sono dei partner effettivamente difficili. Anche se da più parti si insiste sulla necessità che l’Unione Europea si mantenga credibile sul piano dei valori democratici, occorre considerare che in Asia centrale i richiami a una democrazia pluralistica o all’indipendenza dei media sono assai poco realistici e una eccessiva insistenza su di essi rischia di rivelarsi controproducente, limitando le possibilità di intervento concreto nella regione. Come hanno dimostrato gli eventi del 2005, i governi

53 Ibidem, p. 95. 54 Cfr. A. SCHMITZ, A Political Strategy for Central Asia, cit.

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centroasiatici non esitano a porre restrizioni all’attività delle Ong e dei media indipendenti 55 . Inoltre occorre ricordare che in questi paesi sta crescendo un’ondata di generale risentimento anti-occidentale, rivolto principalmente contro gli Stati Uniti, ma che coinvolge anche le Ong, le attività di monitoraggio elettorale dell’Osce e le prescrizioni dell’Ifi.

Anche per la sua limitata visibilità nella regione, l’Unione Europea non è ancora divenuta oggetto di tale risentimento, tuttavia è opportuno che Bruxelles tenga ben presente una situazione nella quale il fatto che istituzioni finanziate dall’esterno svolgano spesso attività di opposizione politica non le rende certo popolari agli occhi delle autorità della regione, che le considerano spinte da ambizioni neo-coloniali mascherate da slogan umanitari. Inoltre, le persone che lavorano in queste istituzioni possono trovarsi anche in situazioni difficili e spesso sono costrette ad abbandonare i loro paesi. Alla luce di tale situazione, c’è da chiedersi se sia opportuno continuare a finanziare strutture che vengono ampiamente percepite come eterodirette e quindi ostacolate nella loro azione dai governi della regione. Sarebbe invece preferibile sostenere strutture e persone meglio inserite nella società locale, anche se più controllate dalle autorità locali. Questo renderebbe naturalmente più lenti i tempi dell’auspicata evoluzione politico-sociale, ma la renderebbe con ogni probabilità più attuabile56. Più in generale, la situazione politica della regione rende poco praticabile l’insistenza europea (ma anche statunitense) sulle questioni riguardanti i diritti umani, l’indipendenza dei media e così via, in quanto i governi autoritari dell’Asia centrale possono facilmente voltare le spalle all’Unione Europea (oltre che a Washington) per instaurare una collaborazione preferenziale con Russia e Cina, già fortemente presenti nella regione e assai meno sensibili a tali istanze. In particolare, le istanze occidentali di democrazia e diritti civili sono molto lontane dalla realtà politica locale e l’insistenza preliminare su di esse rischia di essere controproducente, soprattutto se alimentata attraverso l’azione di Ong finanziate dall’esterno e percepite dalle autorità locali come vettori di sovversione politica. In questo senso è molto importante che l’azione dell’Unione Europea nella regione sia il più possibile realista, evitando un approccio astrattamente moralistico, che viene sovente interpretato come espressione di una nuova e subdolamente coloniale “ideologia occidentale”57. In questo senso, le pur comprensibili rimostranze sulla insufficiente attenzione europea nei confronti della questione dei diritti umani in Asia centrale, in particolar modo per quel che riguarda l’Uzbekistan 58 , non possono dettare l’agenda della politica di Bruxelles nella regione. L’Unione Europea deve invece trovare il modo di collaborare con i governi locali e con i 55 Si veda al riguardo l’articolo di V. KASYMBEKOVA - Ch. OROZOBEKOVA, Central Asia NGOs Under Fire, in «Reporting Central Asia», 439, 18 March 2006, http://iwpr.net/?p=rca&s=f&o=260432&apc_state=henirca2006. 56 Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 108. 57 Ibidem, p. 122. 58 Cfr. The EU Isn’t Taking Sanctions against Uzbekistan Seriously, in «Eurasia insight», 6 February 2007, http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/eav020607a.shtml.

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partiti legalmente riconosciuti per sostenere un’evoluzione graduale ma percorribile sulla base di obiettivi limitati. Tra questi obiettivi possono essere indicati i seguenti:

− incoraggiare i contatti tra i partiti politici locali e quelli europei; − organizzare contatti diretti tra i parlamenti dei paesi centroasiatici e quelli europei; − osservare e promuovere la regolarità dello svolgimento delle elezioni, in particolare di quelle parlamentari59.

6. Conclusioni

L’Unione Europea si trova dunque in una situazione quanto mai complessa nei confronti dell’Asia centrale. Il suo peso nella regione è ovviamente limitato dalla distanza geografica e dalla scarsa quantità e qualità dei rapporti tradizionali, nonché dall’assenza di stati europei che si propongano come sponsor nei confronti di quelli locali. Al tempo stesso, tuttavia, l’Unione Europea ha forti e crescenti interessi economici in Asia centrale, soprattutto per quel che riguarda la necessità di trovare forniture energetiche alternative. Di grande rilievo sono anche le questioni di sicurezza, riguardanti in primo luogo il vicino Afghanistan, nonché le dinamiche terroristiche, il traffico di armi e stupefacenti e così via. La crescita di interesse dell’Unione Europea verso l’Asia centrale manifestatasi negli ultimi anni e ulteriormente rafforzata dalla presidenza tedesca ha quindi pienamente ragion d’essere. Tanto più che l’Unione Europea può sfruttare il vantaggio di essere percepita come portatrice di aspirazioni egemoniche assai meno di quanto avvenga per stati come Russia, Cina e Stati Uniti. In Asia centrale come in altre parti del mondo, in particolare di quello islamico, l’Unione Europea viene infatti largamente percepita come un modello “occidentale”, cioè avanzato dal punto di vista politico e economico, ma meno aggressivo di quello statunitense e quindi per molti aspetti più attraente. Si tratta in effetti di un vantaggio notevole, ma non semplice da gestire. Le repubbliche post-sovietiche dell’Asia centrale hanno infatti dinamiche politiche e sociali molto particolari, che li distaccano completamente dal paradigma dei “paesi in transizione” dell’Europa orientale e li avvicinano per certi aspetti piuttosto ad altri stati asiatici e musulmani come il Pakistan o l’Iran. Da questo punto di vista è molto importante che l’Unione Europea riesca in tempi brevi ad aumentare sensibilmente la propria capacità di analisi politica e culturale, oltre che economica, di una regione così complessa60.

Occorre soprattutto che Bruxelles individui con attenzione i suoi concreti interessi strategici, che devono per quanto possibile raccordarsi e non porsi in contrasto con quelli di altri attori che agiscono nella regione. Con gli Stati Uniti, 59 Cfr. S.F. STARR, Clans, Authoritarian Rulers, and Parliaments in Central Asia, cit. 60 Cfr. Z. BARAN et al., Islamic Radicalism in Central Asia and the Caucasus: Implications for the EU, cit.

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naturalmente, ma anche con la Russia, che ha superato la devastante crisi post-sovietica che l’aveva attanagliata negli anni Novanta e si pone invece adesso come indispensabile referente politico ed economico in Asia centrale. E ancora con la Cina, il cui ruolo nella regione è destinato a crescere, e che per molti aspetti sta trovando un linguaggio comune con Mosca. Il punto cruciale è quindi che l’Unione Europea in Asia centrale si ponga non come competitore geopolitico – un ruolo al quale non è attrezzata in assoluto e tanto meno in questa regione – quanto come fattore di cooperazione ed integrazione tra i diversi attori esterni ed interni.

In attesa che la strategia europea venga completamente e ufficialmente delineata, occorre basarsi sulla versione preliminare per individuarne gli obiettivi e le modalità. Questo documento spiega preliminarmente la necessità di rafforzare i legami con l’Asia centrale con il fatto che le dinamiche strategiche, politiche ed economiche della regione la stanno sempre più avvicinando all’Unione Europea. L’interesse, viene anche sottolineato, riguarda in larga misura l’opportunità di rafforzare in questo modo la sicurezza energetica dell’Europa. Il documento individua anche i passi fondamentali che dovrebbero essere compiuti per rafforzare la stabilità della regione, promuovere il commercio e gli investimenti. E’ anche sottolineata la necessità che la politica dell’Unione Europea verso l’Asia centrale sia portata avanti in collaborazione con le altre entità statuali attive nella regione (soprattutto Usa, Russia, Cina e Giappone) e con le varie organizzazioni regionali, in particolare quella di Shanghai. Dal punto di vista operativo il documento insiste sulla necessità di elevare il profilo e la visibilità della presenza europea nella regione, essenzialmente sulla base di incontri regolari di alto livello che dovrebbero iniziare a svolgersi due volte l’anno. Al tempo stesso si può osservare come alcuni passaggi di questo testo lascino perplessi riguardo alla comprensione europea delle dinamiche della regione. Una certa astrattezza, ma si potrebbe parlare anche di retorica eurocentrica, si legge in espressioni come «nothing will be possibile in Central Asia states without the consolidation of stable, just and open societies, moving gradually towards European norms», sia pure con l’aggiunta «taking into account historical specificities of each country». Questo genere di retorica non è molto produttivo, soprattutto in un’area come l’Asia centrale. Le repubbliche di questa regione, infatti, non solo sono assai lontane da valori e norme europei, ma possono contare su partner come Russia e Cina, più vicine non solo geograficamente, ma anche politicamente e culturalmente.

In conclusione, la capacità di individuare una strategia efficace, quindi realista e concreta, verso l’Asia centrale costituisce un importante ma non semplice banco di prova delle potenzialità dell’Unione Europea come attore internazionale capace di operare nelle aree più difficili del globo.

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IL GRUPPO DI RICERCA

Aldo Ferrari insegna Lingua e Letteratura armena presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia ed è responsabile del Programma di Ricerca Caucaso-Asia centrale dell’Ispi. Carlo Frappi è dottorando in Storia Internazionale presso l’Università degli Studi di Milano. Matteo Fumagalli è Postdoctoral Fellow presso la School of Social and Political Studies dell’Università di Edimburgo, Regno Unito. Paolo Sartori insegna all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Silvia Tosi è ricercatrice presso l’Ispi. Fabrizio Vielmini è ricercatore associato presso l’Ispi.