fici impresa sociale

download fici impresa sociale

of 28

Transcript of fici impresa sociale

www.judicium.it

Antonio Fici () LA LEGGE DELEGA SULLIMPRESA SOCIALE E I FUTURI SCENARI PER IL TERZO SETTORE (CON PARTICOLARE RIGUARDO ALLE COOPERATIVE SOCIALI) SOMMARIO: Parte I. Lo status quo. 1. Analisi della legislazione sul terzo settore. 2. (segue). Il terzo settore come categoria indistinta sotto il profilo della natura dellattivit svolta. 3. (segue). Lemersione della sotto-categoria degli enti erogativi. 4. (segue). Lanaloga esigenza di emersione della sotto-categoria degli enti imprenditori: la legge delega sullimpresa sociale. Parte II. I futuri scenari. 5. Le finalit specifiche della legge 13 giugno 2005, n. 118. 6. I tratti distintivi della categoria dellimpresa sociale. 6.1. Le finalit. 6.2. La struttura del soggetto. 6.3. Loggetto sociale. 6.4. Lorganizzazione interna. 7. Conclusioni. Il terzo settore dopo la legge sullimpresa sociale. Parte III. La cooperazione sociale tra riforma del diritto societario e disciplina dellimpresa sociale. 8. La finalit delle cooperative sociali. Rapporti tra cooperazione sociale e cooperazione ordinaria e tra cooperazione sociale e impresa sociale. 9. Lattivit delle cooperative sociali. 10. La lucrativit delle cooperative sociali. 11. La governance delle cooperative sociali. 11.1. La disciplina applicabile. 11.2. Gli organi societari. 11.3. La partecipazione degli stakeholder. 11.4. La trasparenza. 11.5. I controlli esterni. Parte I. Lo status quo. 1. Analisi della legislazione sul terzo settore. Del c.d. terzo settore non esiste una definizione normativa, dunque, in quanto tale, vincolante per linterprete, ancorch limitatamente a certi fini o ambiti.La formula terzo settore compare invero nella legge 8 novembre 2000, n. 328, Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali (c.d. legge quadro sullassistenza). Al terzo settore infatti dedicato lart. 5 della legge che, al comma 1, impone ad enti locali, regioni e stato di promuovere azioni per il sostegno e la qualificazione dei soggetti operanti nel terzo settore per favorire lattuazione del principio di sussidiariet; ai commi 2 e 3 si occupa delle modalit di affidamento dei servizi previsti dalla legge dagli enti pubblici ai soggetti operanti nel terzo settore; al comma 4 si tratta di valorizzazione del volontariato nellerogazione dei servizi. La legge 328 non definisce direttamente i soggetti operanti nel terzo settore, ma in modo indiretto allorch allart. 1, comma 4, fa riferimento agli organismi non lucrativi di utilit sociale, agli organismi della cooperazione, alle associazioni e agli enti di promozione sociale, alle fondazioni e agli enti di patronato, alle organizzazioni di volontariato, agli enti riconosciuti delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese operanti, quali soggetti il cui ruolo nella programmazione, nella organizzazione e nella gestione del sistema integrato di interventi e servizi sociali gli enti locali, le regioni e lo stato sono tenuti a riconoscere ed agevolare. Diverso invece il disposto dellart. 1, comma 5, dove si afferma che alla gestione ed allofferta dei servizi provvedono soggetti pubblici nonch, in qualit di soggetti attivi nella progettazione e nella realizzazione concertata degli interventi, organismi non lucrativi di utilit sociale, organismi della cooperazione, organizzazioni di volontariato, associazioni ed enti di

promozione sociale, fondazioni, enti di patronato e altri soggetti privati: compare infatti unelencazione conclusa con la clausola di apertura altri soggetti privati, che potrebbe dilatare eccessivamente i confini del terzo settore o meglio mettere nel nulla la stessa categoria. Le disposizioni sopra citate sollevano i seguenti interrogativi: il terzo settore di cui allart. 5 della legge 328 deve ritenersi composto, almeno ai fini della legge 328, dagli organismi indicati ai commi 4 e 5 dellart. 1 della medesima legge? E, pi specificamente, dagli organismi di cui al comma 4 o da quelli di cui al comma 5? Come si valuta, a tal riguardo, il riferimento ad altri soggetti privati nel comma 5? Probabilmente per il comma 5 non fa riferimento a quei soggetti del terzo settore che ai sensi dellart. 5 e dellart. 1, comma 4, devono essere riconosciuti e agevolati, ma semplicemente ai soggetti che possono realizzare interventi e servizi sociali, e dunque, inevitabilmente, a tutti i soggetti privati, posta la libert di assistenza privata ai sensi dellart. 38, comma 5, della Costituzione. Pertanto, il comma 4 dellart. 1, in combinazione con lart. 5, che fornisce la nozione di organizzazioni del terzo settore (quanto meno) ai sensi della legge 328.

Quella di terzo settore dunque innanzitutto una nozione stipulativa mediante la quale si fa comune riferimento a tutte le i) organizzazioni ii) private iii) senza scopo di lucro iv) che forniscono beni e/o servizi di utilit sociale ovvero che perseguono finalit collettive o che agiscono nellinteresse generale. Il carattere privato e non lucrativo alla base della stessa denominazione del settore, l dove la terziet data dal suo giustapporsi al settore pubblico da un lato e a quello lucrativo dallaltro.Quando, tuttavia, unorganizzazione pu ritenersi privata? In primo luogo potrebbe affermarsi che, in negativo, sono private tutte le organizzazioni che non sono pubbliche. Il quadro per complicato dal fatto che unorganizzazione avente forma giuridica privatistica (ad es., una societ per azioni) pu essere interamente o parzialmente di propriet pubblica (s.p.a. di propriet o a partecipazione pubblica). Quando si parla di enti non profit o senza scopo di lucro ci si riferisce al c.d. lucro soggettivo, ovverosia alla distribuzione degli utili/avanzi di gestione ai soci di una societ o, pi genericamente, ai membri/partecipanti di unorganizzazione. Dal lucro soggettivo va dunque tenuto distinto il c.d. lucro oggettivo, ovverosia lavanzo di gestione, il surplus risultante dalla differenza tra costi e ricavi dellattivit posta in essere dallorganizzazione. Gli enti senza scopo di lucro non sono quelli che non realizzano, e non possono realizzare, utili oggettivi dallattivit che svolgono, ma sono quelli che non assegnano ai soci/membri/partecipanti gli utili oggettivi eventualmente ricavati dallattivit svolta. Vedremo in seguito come questo chiarimento sia importante soprattutto in sede di definizione degli enti del terzo settore con natura imprenditoriale, cio delle c.d. imprese sociali. Un ulteriore problema posto dallassenza di scopo di lucro quello di impedire legislativamente che il divieto sia aggirato mediante distribuzioni indirette di utili (eccessiva remunerazione del lavoro, eccessivi compensi agli amministratori, vendite a prezzo di favore, ecc.): a tal fine stata elaborata la nozione di lucro indiretto, su cui ci si soffermer oltre.

Quanto ai soggetti, si ritiene normalmente che il terzo settore sia composto da organizzazioni, cio enti giuridici, e non gi direttamente da individui. Gli individui operano nel terzo settore solo attraverso organizzazioni, e dunque mediatamente (quali volontari, lavoratori, ecc.). Al fine dellidentificazione delle organizzazioni del terzo settore normalmente non si ritiene sufficiente il carattere privato e non lucrativo dellente, ma si richiede un quid pluris individuato sulla base del bene o servizio prodotto, che dovrebbe essere di utilit sociale, o delle finalit (linteresse collettivo o generale) perseguite in positivo dallorganizzazione, o da entrambi i due elementi, peraltro in astratto difficilmente distinguibili tra loro. Rimane poco chiaro, tuttavia, come e sulla base di quali criteri sia possibile definire di utilit sociale un certo bene o servizio, nonch cosa significhi agire per il perseguimento dellinteresse collettivo o generale, se ci dipenda (dallipotesi pi restrittiva a quella pi ampia): i) dai destinatari dellattivit (solo i soci/membri/partecipanti o anche i terzi esterni allorganizzazione) a prescindere da quale sia

lattivit, o ii) dalla natura del bene o servizio prodotto, o iii) dal settore nellambito del quale si agisce, o iv) dal modo in cui si produce un qualsiasi bene o servizio, o v) da una combinazione di uno o pi dei suddetti criteri.Questa nozione convenzionale di terzo settore sostanzialmente confermata dalla legislazione, in materia di singole organizzazioni o categorie di organizzazioni, cui normalmente si fa riferimento come legislazione del terzo settore (verificheremo in seguito se lo sar anche dalla recente legge delega sullimpresa sociale). Limitiamo la nostra analisi, in ordine cronologico, a: la legge 11 agosto 1991, n. 266, Legge-quadro sul volontariato la legge 8 novembre 1991, n. 381, Disciplina delle cooperative sociali il d. lgs. 4 dicembre 1997, n. 460, Riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilit sociale (ONLUS) la legge 7 dicembre 2000, n. 383, Disciplina delle associazioni di promozione sociale.

-

La legislazione sopra richiamata non uniforme bens frastagliata al suo interno, perch alcuni provvedimenti sono istitutivi di singoli tipi (o sotto-tipi) di enti (cooperative sociali), altri di categorie o gruppi di enti (lorganizzazione di volontariato, lassociazione di promozione sociale), tra cui categorie fiscali (lONLUS). Ci detto, vi sono per delle notevoli similitudini con riguardo ai tratti identificativi del soggetto o della categoria di soggetti riconducibili al terzo settore, e dunque, in definitiva, di tale terzo settore. Innanzitutto, i soggetti di cui si tratta sono sempre enti giuridici, con esclusione dunque degli individui: organizzazione di volontariato considerato ogni organismo (art. 3, comma 1, l. 266/91); le cooperative sociali sono societ; organizzazioni non lucrative di utilit sociale sono le associazioni, i comitati, le fondazioni, le societ cooperative e gli altri enti di carattere privato, con o senza personalit giuridica (art. 10, comma 1, d.lgs. 460/97); associazioni di promozione sociale sono considerate le associazioni riconosciute e non riconosciute, i movimenti, i gruppi e i loro coordinamenti o federazioni (art. 2, comma 1, l. 383/00). Il carattere privato delle organizzazioni considerate talvolta espressamente ribadito dalla legge istitutiva (cfr. art. 10, comma 1, d.lgs. 460/97), talaltra implicito nella natura giuridica dellorganizzazione (associazione; cooperativa); nonostante la forma giuridica sia senzaltro privatistica, normalmente per la disciplina non si sofferma sulla possibilit e i limiti di una partecipazione pubblica nellente. La natura non lucrativa , anche qui, talvolta espressamente ribadita (art. 3, comma 3, l. 266/91; art. 10, comma 1, lett. d, d.lgs. 460/97; art. 2, comma 1, l. 383/00), talaltra implicita nella natura giuridica dellorganizzazione (le cooperative sociali, in quanto cooperative, non agiscono per fini di lucro; esse per di pi sottostanno al limite di distribuzione di utili di cui allart. 3, comma 1, della loro legge istitutiva). Quanto a quel quid pluris cui si accennava nel testo, lart. 3, comma 2, l. 266/91, riferisce alle organizzazioni di volontariato uno scopo solidaristico (mentre lart. 2, comma 1, riferisce al volontario e allattivit di volontariato fini di solidariet), senza identificazione dei settori/materie di intervento o dei beni/servizi prodotti; lart. 1, comma 1, l. 381/91 attribuisce alle cooperative sociali lo scopo di perseguire linteresse generale della comunit alla promozione umana e allintegrazione sociale dei cittadini mediante lo svolgimento di determinate attivit, specificamente indicate; gli statuti delle ONLUS devono espressamente prevedere lesclusivo perseguimento di finalit di solidariet sociale (art. 10, comma 1, lett. b, d.lgs. 460/97): i commi 2, 3 e 4 declinano questo requisito sulla base di diversi criteri (tipo di attivit svolta, talvolta in collegamento con la natura dei destinatari di questa), come avremo in seguito modo di dire; le associazioni di promozione sociale svolgono attivit di utilit sociale a favore di associati o di terzi (art. 2, comma 1, l. 383/00).

2. (segue). Il terzo settore come categoria indistinta sotto il profilo della natura dellattivit svolta.

Un elemento da prendere in considerazione nellanalizzare il terzo settore quello della natura imprenditoriale o erogativa dellattivit svolta dallente. Si considera dimpresa (e, conseguentemente, viene definito imprenditore chi tale attivit pone in essere) lattivit che soddisfi i requisiti di cui allart. 2082, c.c., essendo: a) professionale, cio stabile, anche se non continuativa (vedi attivit stagionali); b) economica, cio condotta quanto meno con metodo economico, in modo tale cio che i ricavi siano almeno pari ai costi; c) organizzata, cio svolta impiegando fattori della produzione, lavoro e/o capitale, propri e/o altrui; d) destinata alla produzione di beni o servizi, ovverosia produttiva, e non dunque di mero godimento di beni.Art. 2082, c.c.: imprenditore chi esercita professionalmente unattivit economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.

Allattivit dimpresa si pu contrapporre quella erogativa, in cui v fornitura di beni o di servizi ma non gi secondo il metodo economico. Qual il rapporto tra forme giuridiche e attivit? In che modo si evoluto questo rapporto nella prassi? A livello di codice civile, nota la distinzione tra enti del quinto libro del codice, da una parte, ed enti del primo libro dallaltra. Gli enti del quinto libro sono le societ, che sono enti che si caratterizzano per lo scopo lucrativo e per il fatto di svolgere attivit dimpresa (cfr. art. 2247, c.c.).Art. 2247, c.c.: Con il contratto di societ due o pi persone conferiscono beni o servizi per lesercizio in comune di unattivit economica allo scopo di dividerne gli utili. Il discorso si fa pi complesso per quanto riguarda le societ cooperative. Esse, come tutte le altre societ, non possono che svolgere attivit dimpresa. Ma perseguono uno scopo mutualistico (art. 2511, c.c.), ovverosia lobiettivo di realizzare scambi mutualistici con i propri soci a condizioni il pi possibile favorevoli a questi ultimi. Il vantaggio attribuito dalle cooperative ai soci non consiste dunque, come nelle societ lucrative, nella remunerazione del capitale conferito, ma nella maggiore (rispetto al mercato) remunerazione della prestazione (di lavoro o daltro tipo) fornita dal socio alla cooperativa o, per quanto riguarda le cooperative di servizi, nel minore costo (rispetto al mercato) della prestazione fornita dalla cooperativa al socio.

Gli enti del primo libro sono le associazioni, le fondazioni e i comitati (cosiddetti, in negativo, enti non societari), che sono enti con scopo non lucrativo, ma per cui, quanto allattivit, nessuna disposizione impedisce (ed ha impedito nei fatti) lo svolgimento (accanto ad attivit erogativa, anche) di attivit dimpresa. Nella prassi, anche del terzo settore, si assiste sempre pi ad ipotesi in cui lattivit dimpresa condotta mediante forme giuridiche del primo libro del codice civile. Il che, come detto, ormai pacificamente ritenuto legittimo. Il problema sta per nel fatto che la disciplina degli enti non societari non sufficientemente articolata come quella degli enti societari e come daltronde dovrebbe essere qualsiasi disciplina che regolamenti enti destinati a svolgere attivit dimpresa (per ragioni di tutela dei creditori, del mercato e della concorrenza, dellintegrit patrimoniale, degli apportatori di capitale, dei lavoratori, ecc.). Ci perch, nelle intenzioni del legislatore, gli enti del primo libro non avrebbero dovuto svolgere attivit dimpresa, ma attivit ideale ovvero erogativa. Si detto per come la prassi (e anche la teoria) sia andata nella direzione opposta. A ci si aggiunga lincertezza circa lestensione agli enti non societari della disciplina dellimprenditore (registro delle imprese, fallimento, ecc.).

Ecco dunque una prima esigenza (non esclusiva peraltro del terzo settore): dettare una disciplina pi sostanziosa (e pi rigorosa) per gli enti non societari che svolgono attivit dimpresa. Nel giudicare lattuale legislazione sul terzo settore molti autori hanno poi denunciato limpropriet di raggruppare (e disciplinare) in unico contesto (seppur a determinati fini) enti svolgenti attivit dimpresa ed enti svolgenti attivit erogativa, cos come accade nel decreto ONLUS. Si sostiene infatti che il loro trattamento dovrebbe essere diverso non essendo opportuno attribuire le medesime agevolazioni a soggetti che rischiano, perch svolgono attivit dimpresa, e sono economicamente indipendenti, e soggetti che non rischiano e dipendono da donazioni, lavoro volontario, ecc. Il discorso potrebbe andare oltre la normativa fiscale e riguardare ad esempio la disciplina dei rapporti tra enti pubblici ed enti privati con riguardo allaffidamento di determinati servizi, ad esempio quelli sociali (cfr. art. 5, l. 328/00). Anche qui, mettere insieme soggetti imprenditori e soggetti non imprenditori non consentirebbe allente pubblico di (o di fatto non incentiverebbe lente pubblico ad) effettuare le scelte pi efficaci in vista del perseguimento dellinteresse generale. Ecco che dunque, negli ultimi anni, le riflessioni degli studiosi si sono concentrate sulla necessit, a diversi fini, di distinguere allinterno del terzo settore tra imprese e non imprese, rectius: tra enti imprenditori ed enti non imprenditori (ovvero di erogazione). 3. (segue). Lemersione della sotto-categoria degli enti erogativi. Agli enti erogativi (o comunque non imprenditoriali) del terzo settore sono dedicati alcuni specifici provvedimenti legislativi. Enti di erogazione sono le organizzazioni di volontariato, in quanto esse traggono le proprie risorse economiche da entrate derivanti da attivit commerciali e produttive marginali (art. 5, comma 1, lett. g, l. 266/91): il che vuol dire che le organizzazioni di volontariato non possono svolgere attivit dimpresa in via esclusiva o principale, bens appunto soltanto marginale. Enti erogativi sono anche le associazioni di promozione sociale, in quanto esse traggono le proprie risorse economiche da proventi delle cessioni di beni e servizi agli associati e a terzi, anche attraverso lo svolgimento di attivit economiche di natura commerciale, artigianale o agricola, svolte in maniera ausiliaria e sussidiaria e comunque finalizzate al raggiungimento degli obiettivi istituzionali (art. 4, comma 1, lett. f, l. 383/00): anche le associazioni di promozione sociale, dunque, non possono svolgere attivit dimpresa in via esclusiva o principale, ma solo in via ausiliaria e sussidiaria allattivit istituzionale di tipo erogativo. Il sotto-insieme degli enti del terzo settore di tipo erogativo dunque sufficientemente individuato legislativamente. 4. (segue). Lanaloga esigenza di emersione della sotto-categoria degli enti imprenditori: la legge delega sullimpresa sociale. Con riguardo invece alle organizzazioni imprenditoriali di terzo settore, lunica normativa rilevante la legge 381/91 sulle cooperative sociali, che individua un particolare tipo di ente preposto al perseguimento di finalit sociali mediante lo svolgimento di attivit dimpresa. Il perseguimento di finalit sociali mediante svolgimento di attivit dimpresa o si realizza dunque mediante la forma giuridica della cooperativa sociale o mediante le forme deboli (dal punto di vista disciplinare, come si detto) dellassociazione e della fondazione.

La legge delega sullimpresa sociale chiamata dunque a riconoscere e distinguere, nellambito del terzo settore complessivamente considerato, quale categoria generale, quella di tutti i soggetti che svolgono attivit di impresa sociale senza fini di lucro. Il suo obiettivo generale dunque far emergere laltro pezzo del terzo settore, quello imprenditoriale, e cos distinguerlo da quello non imprenditoriale e, naturalmente, da quello imprenditoriale non sociale. Cos facendo, si ottengono almeno i seguenti risultati positivi: lemersione di un particolare fenomeno interno al c.d. terzo settore: lesercizio di impresa a finalit sociali; la conseguente distinzione, allinterno del terzo settore, tra soggetti non imprenditori (organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, altri enti) e imprenditori (le imprese sociali); una concorrenza pi leale, allinterno del terzo settore, tra enti non imprenditori ed enti imprenditori, con diversificazione dei rispettivi ruoli, ambiti e forme di intervento; un chiarimento a livello fiscale e di rapporto con gli enti pubblici; la prevenzione di possibili abusi (soggetti che si spacciano non profit senza esserlo, ecc.); lintroduzione di una disciplina minima (registro delle imprese, procedure concorsuali, organizzazione interna, ecc.) degli enti imprenditori (per sopperire a quelle carenze che si hanno allorch lattivit dimpresa sia svolta da enti non societari); il rafforzamento della mission e della tutela degli utenti dei servizi, attraverso particolari regole di governance (informazione, trasparenza, bilancio sociale, partecipazione, ecc.). Parte II. I futuri scenari. 5. Le finalit specifiche della legge 13 giugno 2005, n. 118. Conformemente a quanto rilevato sopra, la legge delega non individua un nuovo tipo di ente chiamato a svolgere attivit dimpresa sociale, ma una nuova categoria di enti, comprensiva di (ed aperta a) tutti i soggetti che presentano determinate caratteristiche.Ci emerge (oltre che dal quadro generale della legge), in via immediata, dalla disposizione di apertura della legge 118, allorch delega il Governo ad adottare una disciplina organica relativa alle imprese sociali, intendendosi come tali le organizzazioni private senza scopi di lucro che esercitano in via stabile e principale unattivit economica di produzione o di scambio di beni o di servizi di utilit sociale, diretta a realizzare finalit di interesse generale (art. 1, comma 1); e chiarisce che tale disciplina deve definire il carattere sociale dellimpresa nel rispetto del quadro normativo e della specificit propria degli organismi di promozione sociale, nonch della disciplina generale delle associazioni, delle fondazioni, delle societ e delle cooperative, e delle norme concernenti la cooperazione sociale e gli enti ecclesiastici (art. 1, comma 1, lett. a).

-

-

Quella di impresa sociale, allo stato (vedremo cosa far il legislatore delegato), appare dunque come una qualifica che pu essere assunta dagli enti che abbiano gi o si dotino dei requisiti richiesti dalla legge per essere considerati imprese sociali. A tal riguardo si potranno porre i seguenti problemi (che gi il decreto delegato potrebbe/dovrebbe risolvere):

-

come si ottiene la qualifica, se si tratta di un riconoscimento automatico oppure occorra una qualche domanda; se alcuni enti per le caratteristiche che presentano a livello di legislazione ordinaria civilistica non siano gi a monte esclusi dalla possibilit di essere riconosciuti come imprese sociali: si allude alle societ, comprese le cooperative (diverse da quelle sociali); se, al contrario, alcuni enti (in particolare, si pensa alle cooperative sociali) non possano considerarsi imprese sociali di diritto.

-

Trattandosi di qualifica, possibile operare un parallelo tra questa qualifica e quella ONLUS. Anche lONLUS, infatti, non un tipo autonomo di ente, bens una categoria con rilevanza per fiscale. Limpresa sociale sar invece una categoria di tipo sostanziale, che poi, naturalmente, il legislatore fiscale potr assumere come base per eventuali suoi provvedimenti, anche di riordino dellattuale quadro fiscale del terzo settore. La legge delega e la categoria che essa istituisce sono allora, da questo punto di vista, pi vicine alla legge 266 sulle organizzazioni di volontariato, perch anche questultima legge istituisce una categoria, quella delle organizzazioni di volontariato, che ha rilievo innanzitutto sostanziale. Anzi, sotto questo profilo, la categoria delle organizzazioni di volontariato e quella delle imprese sociali sono categorie sostanziali contrapposte, soprattutto (ma non soltanto) in ragione della natura, rispettivamente non imprenditoriale e imprenditoriale, dellattivit svolta dagli enti che in ciascuna categoria possono essere compresi. Se dunque si potr in futuro avere, ad esempio, unassociazione impresa sociale ONLUS, sar impossibile avere unassociazione impresa sociale organizzazione di volontariato o, pi semplicemente, unorganizzazione di volontariato impresa sociale (questultima conclusione vale anche con riguardo ai rapporti tra imprese sociali e associazioni di promozione sociale). 6. I tratti distintivi della categoria dellimpresa sociale. Vediamo dunque quali sono le caratteristiche distintive della categoria dellimpresa sociale. Esse possono essere raggruppate in base al particolare profilo preso in considerazione: 1) finalit (scopo; mission) del soggetto; 2) struttura del soggetto; 3) natura dellattivit svolta dal soggetto (oggetto sociale); 4) modalit organizzative (governance) del soggetto. 6.1. Le finalit. Possono rientrare nella categoria delle imprese sociali soltanto le organizzazioni senza scopo di lucro, come si evince gi dalla definizione contenuta nellart. 1, comma 1, della legge delega. chiaro che ci si riferisce qui al c.d. lucro soggettivo e non gi al c.d. lucro oggettivo: potr dunque considerarsi impresa sociale unorganizzazione che tragga un profitto (ricavi meno costi) dallattivit dimpresa svolta, purch non destini questo profitto ai propri soci/associati/partecipi. Il divieto di scopo di lucro totale e non gi soltanto parziale. Il legislatore non ha dunque accolto quelle opinioni della dottrina secondo cui consentire una limitata distribuzione di utili sarebbe stato positivo perch avrebbe consentito di attrarre capitale di rischio senza snaturare lanima non lucrativa, specie quando debbano essere intraprese attivit che richiedono ingenti investimenti. Non ammettere una limitata distribuzione di utili condannerebbe le imprese sociali ad operare soltanto nei settori o

nelle produzioni a bassa rilevanza di capitale. Se si considera che la distribuzione di utili casualmente collegata ai conferimenti di capitale, si potrebbe forse ritenere ancora compatibile con lassenza di scopo di lucro una ragionevole o giusta remunerazione del capitale, quale fattore della produzione, cos come una ragionevole o giusta remunerazione del fattore lavoro non contrasta con lassenza di scopo di lucro. Tale divieto riguarda poi tutti i soci, sia quelli ordinari sia quelli finanziatori: la legge delega, infatti, non prevede la possibilit che le imprese sociali abbiano, ancorch in numero limitata, soci finanziatori cui non si applica il divieto di distribuzione (o si applica solo parzialmente), come invece avviene ad esempio per le societ cooperative (cfr. art. 2514, comma 1).Il divieto totale di lucro porr problemi in particolare per le cooperative sociali, che, in quanto cooperative, possono distribuire utili in misura limitata (v. art. 2514, c.c.: in misura pari o inferiore allinteresse massimo dei buoni postali fruttiferi aumentato di due punti e mezzo) ai propri soci.

La legge delega, poi, al fine di rafforzare e salvaguardare nei fatti lassenza di scopo di lucro specifica in diversi modi tale divieto.divieto di ridistribuire, anche in forma indiretta, utili e avanzi di gestione nonch fondi, riserve o capitale, ad amministratori e a persone fisiche o a persone giuridiche partecipanti, collaboratori o dipendenti, al fine di garantire in ogni caso il carattere non speculativo della partecipazione allattivit dellimpresa (art. 1, comma 1, lett. a, n. 2).

Dalla disposizione sopra citata si ricava infatti che: il divieto di distribuzione di utili riguarda non soltanto gli utili netti annuali risultanti dal conto economico, ma anche le poste attive del patrimonio, quali fondi o riserve. Sarebbe infatti irragionevole se da un lato si vietasse lassegnazione ai soci degli utili netti annuali e dallaltro si consentisse lassegnazione agli stessi di fondi o riserve formati tramite accumulazione di utili;Il legislatore gi altrove ha posto il divieto di distribuire fondi o riserve quale corollario dellassenza di scopo di lucro. Ad esempio, per le cooperative a mutualit prevalente allart. 2514, comma 1, lett. c) e per le ONLUS allart. 10, comma 1, lett. d).

-

molto problematico il fatto che il legislatore delegante aggiunga la parola capitale perch il capitale in senso proprio il capitale sociale di una societ ovverosia quellelemento del patrimonio costituito dai conferimenti dei soci, cui i soci hanno diritto in caso di recesso o di scioglimento della societ (a meno che, naturalmente, tale capitale non sia stato nel frattempo perduto). Ecco perch il capitale si iscrive in bilancio al passivo, in quanto costituisce un debito futuro della societ verso i soci. Ma certo se le societ imprese sociali non potessero distribuire il capitale ai propri soci ci vorrebbe dire che non di conferimento in senso tecnico si tratta ma di donazione. Non solo gli apportatori di capitale nelle imprese sociali non potrebbero essere remunerati ma essi non avrebbero neanche diritto alla mera restituzione del capitale versato! Il decreto delegato dovr certamente risolvere questo aspetto, che particolarmente problematico per le societ imprese sociali, quali le cooperative sociali (non invece per le associazioni e le fondazioni, dove gi, sulla base della legislazione vigente, gli apporti sono a fondo perduto); gli utili, chiarisce la legge delega, non possono essere distribuiti neanche in forma indiretta. Cosa significa? Lassegnazione in forma diretta si realizza mediante dividendo, ovverosia attribuendo una somma quale remunerazione del (e in proporzione al) capitale conferito in societ. Lassegnazione in forma indiretta presuppone invece una manovra di aggiramento del divieto, che si pu realizzare con modalit diverse, ad esempio mediante un contratto (di

-

lavoro, di scambio, di mandato, di mutuo, ecc.) tra la societ e il socio a condizioni eccessivamente vantaggiose per il socio. Qui lo scambio incorpora unassegnazione di utili, non effettuata in via diretta a causa del divieto di distribuzione di utili cui sottoposta lorganizzazione.La nozione di lucro indiretto e il relativo divieto sono stati elaborati per la prima volta dal decreto ONLUS del 1997. Al comma 6 dellart. 10 si legge: Si considerano in ogni caso distribuzione indiretta di utili o di avanzi di gestione: a) le cessioni di beni e le prestazioni di servizi a soci, associati o partecipanti, ai fondatori, ai componenti gli organi amministrativi e di controllo, a coloro che a qualsiasi titolo operino per lorganizzazione o ne facciano parte, ai soggetti che effettuano erogazioni liberali a favore dellorganizzazione, ai loro parenti entro il terzo grado ed ai loro affini entro il secondo grado, nonch alle societ da questi direttamente o indirettamente controllate o collegate, effettuate a condizioni pi favorevoli in ragione della loro qualit ; b) lacquisto di beni o servizi per corrispettivi che, senza valide ragioni economiche, siano superiori al loro valore nominale; c) la corresponsione ai componenti gli organi amministrativi e di controllo di emolumenti individuali annui superiore al compenso massimo previsto dal d.p.r. 10 ottobre 1994, n. 645, e dal d.l. 21 giugno 1995, n. 336, convertito dalla l. 3 agosto 1995, n. 336, e successive modificazioni e integrazioni, per il presidente del collegio sindacale delle societ per azioni; d) la corresponsione a soggetti diversi dalle banche e dagli intermediari finanziari autorizzati, di interessi passivi, in dipendenza di prestiti di ogni specie, superiori di 4 punti al tasso ufficiale di sconto; e) la corresponsione ai lavoratori dipendenti di salari o stipendi superiori del 20 per cento rispetto a quelli previsti dai contratti collettivi di lavoro per le medesime qualifiche.

Altro corollario della non lucrativit il divieto di distribuire il patrimonio residuo in caso di scioglimento ai soci: se cos non fosse, essi infatti si approprierebbero ex post di tutte quelle utilit di cui non potrebbero appropriarsi prima. Opportunamente dunque la legge delega si preoccupa della destinazione del patrimonio residuo in caso di scioglimento dellimpresa sociale, mirando a far s che esso permanga, per cos dire, nel circuito del sociale (salvo che per le cooperative sociali, dove la destinazione ai fondi mutualistici di per s non esclude il reimpiego delle risorse in favore della cooperazione, anche non sociale).Obbligo di devoluzione del patrimonio residuo, in caso di cessazione dellimpresa, ad altra impresa sociale, ovvero ad organizzazioni non lucrative di utilit sociale, associazioni, comitati, fondazioni ed enti ecclesiastici, fatto salvo, per le cooperative sociali, quanto previsto dalla legge 31 gennaio 1992, n. 59, e successive modificazioni (art. 1, comma 1, lett. b, n. 5, l. 118/2005). V. anche art. 10, comma 1, lett. f), d.lgs. 460/97.

Si noter come anche la disposizione sopra citata non chiarisca se nellobbligo di devoluzione sia compreso il capitale sociale versato dai soci oppure no. Il patrimonio residuo, infatti, potrebbe di per s ritenersi comprensivo anche del capitale sociale, se non si specifica altrimenti, come ad esempio avviene con riguardo alle societ cooperative ai sensi della disposizione sotto riportata.lobbligo di devoluzione, in caso di scioglimento della societ, dellintero patrimonio sociale, dedotto soltanto il capitale sociale e i dividendi eventualmente maturati, ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione (art. 2514, comma 1, lett. d), c.c.).

La legge delega fa di pi: oltre che vietare la distribuzione di utili, impone allimpresa sociale una certa destinazione del patrimonio. Limpresa sociale infatti obbligata a reinvestire gli utili o avanzi di gestione nello svolgimento dellattivit istituzionale o ad incremento del patrimonio (art. 1, comma 1, lett. a), n. 3). La disposizione forse inutile, posto che, se gli utili non si possono assegnare ai soci, la loro destinazione non pu che essere ad incremento del patrimonio o a svolgimento dellattivit istituzionale. Con questa per sintende forse allora evitare che limpresa sociale effettui donazioni o erogazioni, contaminando la sua natura di ente imprenditoriale del terzo settore. Ed in tal senso la disposizione riacquista quindi un significato particolare. La previsione per cui sintendono come imprese sociali le organizzazioni senza scopo di lucro pone il problema della possibilit che anche le societ (diverse dalle cooperative sociali) possano acquisire la

qualifica di imprese sociali. Il problema si pone sia con riguardo alle societ lucrative che alle societ cooperative (diverse dalle sociali di cui alla legge 381). Le societ, infatti, hanno scopo di lucro, come chiarisce lart. 2247, c.c. E si potrebbe dunque ritenere che, come tali, esse non possano acquisire la qualifica di imprese sociali. Ma quid iuris nellipotesi in cui una s.p.a. si costituisca con clausola di non lucrativit? Il problema sta nel fatto che, pi in generale, si discute circa la possibilit di costituire una societ non lucrativa al di fuori di unespressa previsione di legge che autorizzi tale costituzione. Di conseguenza, per eliminare qualsiasi perplessit, il legislatore delegato dovrebbe chiarire che in questo settore autorizzata la costituzione di societ senza scopo di lucro (cfr., ad esempio, art. 11, comma 1, l. 59/1992). Altrimenti, lipotesi pi plausibile che le societ per azioni, le s.r.l., ecc., non possano rivestire la qualifica di imprese sociali perch istituzionalmente (art. 2247, c.c.) esse agiscono per fini lucrativi e perch, se costituite senza scopo di lucro, esse sarebbero societ nulle per contrasto con lart. 2247, c.c. Pi delicato il discorso per le societ cooperative. Queste societ infatti non hanno scopo di lucro, bens scopo mutualistico (gestione di servizio con e in favore dei soci, come si capisce dagli artt. 2512 e 2513, c.c.). Avvantaggiare i soci mediante scambi mutualistici ricade per nel concetto di lucro indiretto (vietato) di cui si parlava in precedenza? 6.2. La struttura del soggetto. Imprese sociali possono essere soltanto le organizzazioni, come si evince dalla definizione di cui allart. 1, comma 1, l. 118/2005. Non esiste dunque limprenditore individuale sociale, o meglio: limpresa individuale non pu aspirare ad essere considerata sociale ai sensi e per gli effetti della legge 118 e della disciplina di attuazione. La persona fisica potr partecipare al terzo settore, indirettamente, quale componente a diverso titolo dellorganizzazione. Ci detto, per, rimarrebbe la possibilit, sempre nella misura in cui le societ possano essere considerate imprese sociali, di costituire s.p.a. o s.r.l. unipersonali da parte di organizzazioni o di individui, a meno che il legislatore delegato non risolva negativamente il nodo dellammissibilit delle societ alla qualifica di imprese sociali o non stabilisca espressamente che le organizzazioni imprese sociali debbano essere formate da un numero minimo di partecipanti (ad es., tre). La societ unipersonale, in ogni caso, pu essere unutile soluzione per la costituzione di gruppi di imprese sociali (ad esempio, unassociazione o una cooperativa sociale costituiscono unilateralmente due o pi imprese sociali per diversificare la gestione in base ai diversi settori di attivit), per cui la negazione incondizionata della possibilit di avere organizzazioni con partecipante unico sarebbe non opportuna.Le uniche organizzazioni unipersonali (cio costituite e partecipate da un unico soggetto) sono nel nostro ordinamento le societ per azioni e le societ a responsabilit limitata. Cfr. art. 2328, comma 1; 2463, comma 1, c.c.

La legge delega si interessa altres della composizione dellimpresa sociale sotto un diverso profilo. Le organizzazioni devono essere private. Saranno esclusi dunque dalla categoria tutti gli enti formalmente pubblici. Mentre un problema si pone per gli enti sostanzialmente pubblici, perch aventi forma giuridica privatistica (associazione, fondazione, societ) ma costituiti o partecipati esclusivamente, prevalentemente o parzialmente da enti pubblici.

La legge delega risolve la questione prevedendo che i soggetti pubblici non possano detenere il controllo delle imprese sociali, anche attraverso la facolt di nomina maggioritaria degli organi di amministrazione (art. 1, comma 1, lett. a), n. 4). La partecipazione di enti pubblici dunque consentita ma nei limiti del controllo. Rimane invero da stabilire cosa debba intendersi per controllo.La nozione ordinaria di controllo quella di cui allart. 2359, c.c. Si ha controllo societario allorch una societ 1) disponga della maggioranza dei voti esercitabili nellassemblea ordinaria di unaltra societ, oppure 2) disponga di voti sufficienti per esercitare uninfluenza dominante nellassemblea ordinaria; oppure 3) possa esercitare uninfluenza dominante sullaltra in virt di specifici vincoli contrattuali. Ma altre normative adottano una diversa nozione di controllo, anche pi stringente, come ad esempio il T.U.B. (cfr. art. 23, d.lgs. 385/1993).

Sempre in merito alla struttura proprietaria del soggetto impresa sociale, la legge delega stabilisce che limpresa sociale non possa parimenti essere controllata da imprese private con finalit lucrative, anche attraverso la facolt di nomina maggioritaria degli organi di amministrazione (art. 1, comma 1, lett. a), n. 4). Sintende evidentemente evitare che la partecipazione di soggetti istituzionalmente animati da intento lucrativo possa in concreto fuorviare lazione delle imprese sociali e il perseguimento della loro mission. Si dimentica per che lassenza di scopo di lucro gi sufficiente presidio, perch inevitabilmente disincentiva la partecipazione a fini lucrativi. Ma evidentemente il legislatore ha temuto che tale partecipazione potesse mettere a rischio lassenza di scopo di lucro sotto il profilo del lucro indiretto, peraltro anchesso oggetto di specifica attenzione legislativa. Anche attraverso questa disposizione si limita nei fatti una capitalizzazione sufficiente delle imprese sociali (si pensi, ad esempio, ad una s.p.a. che per qualsiasi ragione, ad esempio attuare politiche di responsabilit sociale dimpresa, intenda agire nellambito dellimprenditorialit sociale, volendo per controllare lorganizzazione da essa costituita). 6.3. Loggetto sociale. Limpresa sociale tale solo in quanto svolga una determinata attivit. Non dunque sufficiente lo scopo non lucrativo o la sua particolare struttura a connotare unorganizzazione come impresa sociale, ma anche necessario indagare circa la natura dellattivit svolta. La legge delega considera tale soltanto lorganizzazione che svolga unimpresa di utilit sociale, diretta a realizzare finalit di interesse generale, in via principale e nei confronti di tutti i potenziali fruitori (art. 1, comma 1). Quanto allattivit delle imprese sociali, va detto dunque che: essa deve essere attivit dimpresa ai sensi dellart. 2082, c.c., cosicch non saranno imprese sociali le organizzazioni il cui oggetto sociale non consista nello svolgimento di unattivit che abbia le caratteristiche di cui allart. 2082, trattandosi di attivit erogativa o di attivit di mero godimento di un patrimonio o di attivit economica occasionale; limpresa deve essere principale, cosicch non saranno considerate imprese sociali le organizzazioni che svolgano s attivit dimpresa ma solo in via marginale o secondaria rispetto ad unattivit principale di natura non imprenditoriale; limpresa deve essere svolta nei confronti di tutti i potenziali fruitori e non soltanto nei confronti dei soci, associati o partecipi dellimpresa sociale (art. 1, comma 1, lett. a), n. 1), cosicch non potranno considerarsi imprese sociali le organizzazioni che limitino la propria attivit ai propri partecipanti;

-

-

-

loggetto dellimpresa deve essere di utilit sociale, ovverosia riguardare materie di particolare rilievo sociale (art. 1, comma 1, lett. a), n. 1), cosicch non potranno considerarsi imprese sociali le organizzazioni che pongano in essere unattivit priva di rilevanza sociale.

Quello delle materie o settori di intervento un punto nevralgico della disciplina, confrontandosi al riguardo diverse posizioni su ci che il legislatore delegato sarebbe opportuno che facesse: quella di chi ritiene necessario elencare specificamente i settori di intervento delle imprese sociali e quella di chi, allopposto, ritiene inopportuno individuare ex ante tali settori. Non mancano posizioni intermedie di chi, ad esempio, ritiene preferibile unelencazione aperta destinata ad essere successivamente e progressivamente completata, eventualmente grazie allintervento di unautorit pubblica. noto che la legislazione oggi vigente in materia di terzo settore presenta entrambe le ipotesi, quella di unelencazione tassativa delle materie di intervento (legge 381/91) e quella di unassenza di elencazione (legge 266/91). Unelencazione non pare in realt opportuna, perch non coglie la novit dellimpresa sociale quale diversa forma di fare impresa (cos come una diversa forma di svolgere attivit erogativa quella del volontariato). complicato del resto individuare ex ante materie di rilievo sociale: fermo restando che non si tratti soltanto dei servizi sociali di cui alla legge 328/2000, quali beni o servizi hanno infatti rilevanza sociale? I beni c.d. pubblici? (tali sono i beni che sono economicamente caratterizzati dalla non rivalit nel consumo e dalla non escludibilit dei benefici che generano, talch, causando problemi di free-riding, essi non possono essere prodotti dai privati). I beni che il mercato non offre? (molto dipende infatti dalle condizioni socio-economiche di una comunit, cosicch anche lattivit di commercio di beni di consumo pu essere sociale se svolta in piccole comunit che senza tale intrapresa ne rimarrebbero prive). Se, poi, si sposta lattenzione sulle modalit di svolgimento dellattivit, qualsiasi attivit (linformazione, il credito, ecc.) potrebbe assumere rilievo sociale se condotta con modalit tali che privilegino linteresse dei beneficiari.La legge 328/2000 individua gli interventi e servizi sociali per rinvio allart. 128, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, che parla di tutte le attivit relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficolt che la persona umana incontra nel corso della sua vita. evidente come questa nozione non esaurisca il campo delle attivit di utilit sociale. Unelencazione di settori di intervento si ha nel decreto ONLUS. Esso (art. 10, comma 1, lett. a) si riferisce a: 1) assistenza sociale e socio-sanitaria; 2) assistenza sanitaria; 3) beneficenza; 4) istruzione; 5) formazione; 6) sport dilettantistico; 7) tutela, promozione e valorizzazione delle cose dinteresse artistico e storico; 8) tutela e valorizzazione della natura e dellambiente; 9) promozione della cultura e dellarte; 10) tutela dei diritti civili; 11) ricerca scientifica di particolare interesse sociale. Da notarsi che, mentre alcune di queste attivit hanno senzaltro rilievo sociale (numeri 1, 3, 7, 8, 11, nonch 9 se sovvenzionata dallo stato) altre lo acquisiscono solo qualora gli utenti abbiano determinate caratteristiche: le attivit di cui ai numeri 2), 4), 5), 6), 9), 10) perseguono infatti finalit di solidariet sociale solo se dirette ad arrecare benefici a persone svantaggiate (anche se siano soci, amministratori, fondatori, ecc.) in ragione di condizioni fisiche, psichiche, economiche, sociali o familiari oppure a componenti collettivit estere, limitatamente agli aiuti umanitari (art. 10, comma 2). Altra elencazione si ha nella disciplina delle fondazioni bancarie. Questi enti, che perseguono scopi di utilit sociale e di promozione dello sviluppo economico, possono operare solo in massimo cinque dei settori ammessi di cui allart. 1, lett. c-bis, d.lgs. 153/1999. Come detto, le organizzazioni di volontariato non sono tenute a svolgere una attivit specifica, purch si avvalgano del volontariato ad agiscano per fini di solidariet. Le associazioni di promozione sociale svolgono attivit di utilit sociale, ma la legge istitutiva non specifica questa attivit.

Unelencazione si ha invece per le cooperative sociali nella legge 381: esse gestiscono servizi socio-sanitari ed educativi o svolgono linserimento lavorativo delle persone svantaggiate di cui allart. 4 nellattivit dimpresa (che pu consistere nella produzione o scambio di qualsivoglia bene o servizio). Per il settore della cooperazione potrebbe porsi un problema: ammesso che le societ cooperative (diverse dalle sociali) possano essere riconosciute come imprese sociali, si potrebbero avere cooperative imprese sociali e cooperative sociali imprese sociali nel caso in cui non vi fosse un contestuale ampliamento dei settori dintervento della cooperazione sociale. Lobbligo di svolgere lattivit non solo nei confronti dei soci (mutual benefit) ma anche nei confronti di tutti i potenziali fruitori (public benefit) qualcosa in pi della mera possibilit di cui alla legge sulle associazioni di promozione sociale (cfr. art. 2, comma 1, l. 383/2000). Tale previsione di cui alla legge delega ci fa innanzitutto capire che le imprese sociali possono s svolgere attivit nei confronti dei propri soci, associati, partecipi, purch non esclusivamente nei loro confronti.

Il quid pluris dellimpresa sociale, che ne determina appunto la socialit, non sta dunque in un particolare requisito, essendo la socialit una sintesi dello scopo non lucrativo, della necessaria eterodestinazione dellattivit, dellutilit sociale dellattivit svolta.La socialit di cui alla formula impresa sociale dunque cosa ben distinta dalla socialit di cui alla formula responsabilit sociale dimpresa. La socialit connota intimamente le imprese sociali, ne costituisce lessenza. La responsabilit sociale uno strumento (di management o di marketing) per perseguire fini diversi.

6.4. Lorganizzazione interna. In diretto rapporto con la socialit dellimpresa anche il profilo organizzativo interno delle imprese sociali. La legge delega, infatti, dopo aver individuato le organizzazioni imprese sociali mediante riferimento al loro scopo non lucrativo, alla loro struttura soggettiva, alla natura dellattivit svolta, impone al legislatore delegato di prevedere, in coerenza con il carattere sociale dellimpresa e compatibilmente con la struttura dellente, omogenee disposizioni in ordine a diversi aspetti attinenti alla governance di tali organizzazioni. Scopo del legislatore disegnare una struttura di governance delle imprese sociali non solo compatibile, ma coerente con il loro carattere, ed idonea dunque non solo a salvaguardare, ma altres ad assicurare il perseguimento delle loro finalit istituzionali. Si prevede cos lelettivit delle cariche sociali e lenunciazione di particolari situazioni di incompatibilit di assumere tali cariche (art. 1, comma 1, lett. b, n. 1); che vi siano regole in merito allammissione ed esclusione dei soci (n. 3); che limpresa sociale rediga e renda pubblico un bilancio economico e un bilancio sociale, che sia sottoposta a controllo contabile e a forme di controllo circa losservanza delle finalit sociali (n. 4); che nellimpresa sociale sussista un organo di controllo (n. 9); che nellimpresa sociale abbiano luogo forme di partecipazione nellimpresa dei prestatori dopera e dei destinatari dellattivit (n. 10). 7. Conclusioni. Il terzo settore dopo la legge sullimpresa sociale. La legge sullimpresa sociale potrebbe essere daiuto nellindividuare i tratti distintivi del terzo settore allinterno del generale panorama delle organizzazioni private, nonch nellillustrare le articolazioni interne del terzo settore. Distinguendo le organizzazioni private secondo il criterio dello scopo perseguito, abbiamo infatti:

1) organizzazioni con scopo di lucro (le societ); 2) organizzazioni con scopo mutualistico (le societ cooperative) 3) organizzazioni senza scopo di lucro Allinterno delle organizzazioni senza scopo di lucro, bisognerebbe poi distinguere a seconda della finalit in positivo perseguita dallorganizzazione: 3a) organizzazioni con finalit di utilit sociale (o di interesse generale) 3b) organizzazioni con finalit diverse Quelle di cui al punto 3a) possono considerarsi le organizzazioni di terzo settore, l dove lutilit sociale delle finalit perseguite data, come si avuto modo di verificare dallanalisi della legge 118, dalla natura dellattivit svolta e dalla non limitazione dellattivit ai soci, nonch dalla presenza di unorganizzazione interna coerente con le finalit perseguite. Ci detto, evidente come lindividuazione delle organizzazioni di terzo settore non sia comunque operazione semplice, dal momento che necessario stabilire cosa sintenda per finalit di utilit sociale (quali attivit? Quali regole di governance?). Allinterno del terzo settore, emerge invece chiaramente la distinzione tra: 1) organizzazioni imprenditoriali; 2) organizzazioni non imprenditoriali. Parte III. La cooperazione sociale tra riforma del diritto societario e disciplina dellimpresa sociale. 8. La finalit delle cooperative sociali. Rapporti tra cooperazione sociale e cooperazione ordinaria e tra cooperazione sociale e impresa sociale. Le cooperative sociali sono organizzazioni ordinariamente comprese nellambito del terzo settore e, pi specificamente, dellimprenditorialit sociale, di cui costituirebbero lunico modello normativo prima della legge delega sullimpresa sociale. Daltro canto, le cooperative sociali sono inserite nel settore cooperativo, costituendo un particolare tipo di cooperativa. Si tratta di una collocazione impossibile o contraddittoria? Come pu una stessa organizzazione essere sia parte del terzo settore sia parte del settore cooperativo? Non hanno terzo settore e settore cooperativo unidentit diversa? Oppure vi pu essere parziale sovrapposizione tra settore cooperativo e terzo settore? Le cooperative sociali sono state interessate, di recente, da due novit normative: da un lato la riforma del diritto societario che, direttamente o indirettamente, riguarda le cooperative sociali in quanto cooperative e in quanto cooperative speciali; dallaltro la legge delega sullimpresa sociale che inevitabilmente si riflette sulla cooperazione sociale in quanto attore, lunico sinora espressamente regolato, dellimprenditorialit sociale.

In che modo questi due atti legislativi incidono sulla comprensione del fenomeno della cooperazione sociale? In che senso indirizzano nellindividuazione delle finalit e dellorganizzazione delle cooperative sociali? Quello delle finalit delle cooperative sociali tema controverso e di notevole rilevanza perch dalla sua soluzione dipende lesatta collocazione della cooperazione sociale tra settore cooperativo e terzo settore. Quali siano i termini del problema evidenziato dal trattamento giurisprudenziale, ante legge 381/91, delle cooperative sociali in sede di omologa. Alcuni giudici, infatti, non omologavano gli statuti delle allora nominate cooperative di solidariet sociale perch contrastanti con lo scopo mutualistico delle societ cooperative. La legge 381/91, istituendo le cooperative sociali, risolve il problema dellomologa dei loro statuti. Ma offre, questa legge, un definitivo contributo allaccertamento dello scopo istituzionale delle cooperative sociali? Invero, secondo lart. 1, comma 1, legge 381/91, le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire linteresse generale della comunit alla promozione umana e allintegrazione sociale dei cittadini. Non chi non veda la diversit rispetto allart. 2511, c.c., che riferisce alle societ cooperative uno scopo mutualistico, e al contrario la sintonia con lart. 1, comma 1, l dove individua lo scopo delle imprese sociali.Il nuovo art. 2511 e soprattutto i successivi artt. 2512 e 2513, c.c., sembrano avere definitivamente contribuito allindividuazione dello scopo delle societ cooperative. La cooperativa persegue infatti lobiettivo di realizzare scambi (acquisto, fornitura, lavoro) con i propri soci tentando di massimizzare il loro benessere o in via immediata, al momento dello scambio, o successiva, mediante attribuzione del ristorno. Le cooperative si distinguono in a mutualit prevalente e non prevalente a seconda che questi scambi mutualistici siano prevalenti o meno. La maggiore meritoriet, anche ai sensi dellart. 45 Cost., delle cooperative a mutualit prevalente ha condotto il legislatore della riforma del diritto societario a limitare a queste ultime i benefici fiscali attribuiti in favore della cooperazione.

Tuttavia, linterpretazione della disposizione di apertura della legge 381 non stata univoca n nella teoria n nei fatti. Eppure da essa dipendono fortemente le sorti della cooperazione sociale, nellalternativa tra suo inquadramento nel settore cooperativo o nel terzo settore. Dellart. 1, comma 1, legge 381/91 sono state fornite uninterpretazione debole ed una forte. Linterpretazione debole tende a considerare il riferimento legislativo allinteresse generale una mera declamazione o comunque una formula riassuntiva della socialit dellimpresa, cio dellattivit, esercitata dalle cooperative sociali. Socialit che sarebbe dunque insita, senza che sia necessario accertare alcunch di ulteriore, nel fatto di condurre imprenditorialmente le attivit di gestione di servizi socio-sanitari ed educativi (cooperative c.d. di tipo a) o altre attivit finalizzate allinserimento lavorativo di persone svantaggiate (cooperative c.d. di tipo b).Dallaccoglimento di questa teoria deriverebbero le seguenti conclusioni: le cooperative di cui alla legge 381/91 sono sociali (solo) in ragione dellattivit esercitata; ai fini della qualificazione come sociali non necessario riscontrare particolari modalit e forme di conduzione dellattivit, n accertare una particolare destinazione dei risultati economici dellattivit dimpresa;

-

le cooperative sociali si distinguerebbero dunque da tutte le altre cooperative solo per il tipo di attivit svolta, trattandosi, a seconda dei casi, di cooperative di produzione o di cooperative di lavoro che si caratterizzano unicamente per il fatto di condurre le attivit indicate alle lettere a) e b) dellarticolo 1, comma 1, della legge 381/91; conseguentemente, anche le cooperative sociali, come le altre cooperative, sarebbero contraddistinte da scopo mutualistico, ovverosia dalla finalit di intrattenere scambi/rapporti mutualistici con i propri soci alle condizioni pi vantaggiose per questi ultimi, essendo i soci i beneficiari dellimpresa (non elimina questo dato la circostanza che le cooperative sociali, come tutte le altre cooperative a mutualit prevalente, sarebbero imprese non lucrative in forza dellart. 3, comma 1, legge 381/91. Infatti, la non lucrativit non incide o incide solo parzialmente e indirettamente sulla destinazione dei risultati economici nelle imprese cooperative, stante la possibilit per le cooperative di realizzare illimitatamente linteresse economico dei soci tramite lassegnazione di ristorni, cui non si applica il limite di cui al citato art. 3).

-

In definitiva, facendo propria la lettura debole dellarticolo 1, comma 1, della legge 381/91, le cooperative sociali sarebbero societ cooperative caratterizzate unicamente dal settore sociale di intervento (gestione di servizi socio-sanitari ed educativi, da un lato, inserimento lavorativo di persone svantaggiate, dallaltro). Ed in quanto societ cooperative, esse sarebbero caratterizzate da finalit egoistiche, essendo tenute a perseguire linteresse economico dei propri soci. Questa lettura compatibile con un modello (come diremo, errato) di legislazione che, da un lato, collega, senza riserva alcuna, cooperativa e scopo mutualistico interno (cio gestione di servizio), dallaltro, riconosce agli enti privati la qualifica di imprese sociali soltanto in ragione dellattivit svolta, a prescindere da ulteriori requisiti organizzativi e soprattutto dalle modalit di destinazione dei risultati economici della gestione dellimpresa. Linterpretazione forte della disposizione di apertura della legge 381/91 invece quella secondo cui la formula dellinteresse generale ha rilevanza prescrittiva, caratterizzando causalmente lorganizzazione privata cui si riferisce, di cui individua lo scopo istituzionale. Tale scopo consisterebbe nel dovere di perseguire gli interessi degli utenti dei servizi socio-sanitari ed educativi (nelle cooperative di tipo a) e delle persone svantaggiate (nelle cooperative di tipo b), indipendentemente dalla circostanza che essi siano soci della cooperativa sociale (come peraltro pu accadere, e anzi dovrebbe accadere nelle cooperative di tipo b, stante la disposizione di cui allarticolo 4, comma 2, legge 381/91). Le cooperative di cui alla legge 381/91 sarebbero dunque sociali non solo in quanto svolgono determinate attivit sociali, ma anche (e soprattutto) perch ci fanno nellinteresse generale, ovverosia dei destinatari di queste attivit, cio gli utenti di servizi socio-sanitari ed educativi e le persone svantaggiate, che conseguentemente assurgono al rango di beneficiari o stakeholder della cooperativa sociale. La natura di beneficiari in capo ad utenti e svantaggiati impone di indirizzare lattivit della cooperativa sociale nellinteresse di questi ultimi e di destinare loro (in forma diretta o indiretta) i risultati della gestione sociale.Dallaccoglimento della lettura forte dellarticolo 1, comma 1, della legge 381/91 deriverebbero le seguenti conseguenze: le cooperative di cui alla legge 381/91 sono sociali in quanto conducono determinate attivit di rilevanza sociale ed agiscono nellinteresse dei destinatari di queste attivit, gli utenti e le persone svantaggiate; utenti e persone svantaggiate sono sia destinatari dellattivit sia beneficiari dei risultati delle cooperative sociali;

-

-

le cooperative sociali si distinguono dalle altre cooperative non solo perch agiscono nei settori di cui alle lettere a) e b) dellarticolo 1, comma 1, della legge 381/91, ma anche perch non hanno scopo mutualistico (interno), bens altruistico-solidaristico (o mutualistico esterno), essendo tenute a perseguire linteresse non gi dei soci ma di una categoria di soggetti, siano o non siano soci della cooperativa stessa; in forza di quanto sopra, le cooperative sociali dovrebbero operare in modo tale da massimizzare lutilit di utenti e persone svantaggiate (siano o non siano soci), in termini di qualit, prezzo, ecc., con lunico vincolo derivante dal fatto di essere imprese del c.d. metodo economico, cio dellequilibrio tra costi e ricavi dellattivit dimpresa.

-

In definitiva, la lettura forte sgancia maggiormente la cooperativa sociale dalle altre cooperative (specie di lavoro) e ne accentua in modo notevole la socialit. A tale stregua, le cooperative sociali diventano un fenomeno giuridico e sociale affatto peculiare. Tale lettura compatibile con un modello di legislazione che, da un lato, non collega necessariamente cooperativa e scopo mutualistico interno, ammettendo cooperative che non sono dirette ad attuare una gestione di servizio nei confronti dei soci, dallaltro individua le imprese sociali non solo in ragione dellattivit svolta o dei settori di intervento, ma anche in base ad una definizione positiva degli obiettivi (altruistico-solidaristici) che esse sono chiamate a perseguire. Ma la recente riforma del diritto societario fornisce indicazioni idonee a confortare la surriferita versione forte del fenomeno della cooperazione sociale? Interpretazione che, ad avviso di chi scrive, appare come lunica capace di attribuire alla cooperazione sociale una precisa identit nellambito della cooperazione da un lato e dellimprenditorialit sociale o a finalit sociali dallaltro, e con ci accrescerne la qualit, anche se a scapito di un (secondo chi scrive, per niente preoccupante) ridimensionamento numerico nel breve periodo. Alle cooperative sociali il legislatore della riforma del diritto societario ha espressamente dedicato il nuovo articolo 111 septies delle disposizioni di attuazione del codice civile. Secondo tale articolo, le cooperative sociali che rispettino le norme di cui alla legge 8 novembre 1991, n. 381, sono considerate, indipendentemente dai requisiti di cui allart. 2513 del codice, cooperative a mutualit prevalente. Con la disposizione citata, dunque, le cooperative sociali sono qualificate ope legis societ cooperative a mutualit prevalente, e con ci ammesse incondizionatamente, salvo il rispetto delle norme di cui alla loro legge istitutiva (cio la legge 381/91), ai benefici previsti per questa categoria, ovverosia alle agevolazioni fiscali di cui alle leggi speciali (art. 223 duodecies, disp. att., c.c.). Qual il senso di questa disposizione? Quali sono gli obiettivi che larticolo 111 septies si propone e quale ne la ratio? In prima battuta, potrebbe sostenersi che il legislatore della riforma, con larticolo 111 septies, abbia inteso estendere senzaltro, e senza che permanga alcun profilo di dubbio, a cooperative considerate particolarmente meritevoli il regime di agevolazioni che il nuovo diritto societario circoscrive adesso alle cooperative a mutualit prevalente. In tal senso, larticolo 111 septies svolgerebbe pertanto la medesima funzione dellarticolo 10, comma 8, del d. lgs. 460/97 in tema di ONLUS. Ma la disposizione in commento ha rilevanza pi ampia, apparendo decisiva ai fini della comprensione del fenomeno giuridico delle cooperative sociali e della corretta individuazione degli scopi istituzionali di queste ultime. Il punto che larticolo 111 septies si spiega solo se si muove dal presupposto della preoccupazione legislativa di estendere il regime agevolativo ad alcune cooperative particolari, come le sociali, perch

non contraddistinte dallo scopo di intrattenere rapporti mutualistici con i propri soci, bens da quello di agire nellinteresse di una particolare categoria di soggetti anche non soci. Se una cooperativa si propone infatti lobiettivo di operare nellinteresse di determinati soggetti anche non soci, diventa allora a priori impossibile realizzare quella prevalenza di scambi mutualistici che qualifica le cooperative a mutualit prevalente ai sensi degli articoli 2512 e 2513, c.c. Ecco perch si detta larticolo 111 septies, proprio per evitare che determinate cooperative, come le sociali, che istituzionalmente sono chiamate a perseguire uno scopo diverso da quello di mutualit interna, rimangano sistematicamente escluse dal regime agevolativo, non potendo neanche per ipotesi raggiungere la soglia della prevalenza della mutualit che consente laccesso ai benefici fiscali. Quanto detto, peraltro, non esclude lappartenenza formale e sostanziale delle cooperative sociali al settore cooperativo, poich tale settore ammette (oggi, in modo espresso) anche enti cooperativi non egoistici. La riforma del diritto societario delinea, infatti, non due bens tre tipologie di cooperative: le cooperative a mutualit prevalente, le cooperative a mutualit non prevalente e le cooperative a mutualit esterna. Le prime sono quelle che intrattengono scambi con i soci in misura prevalente, secondo i criteri di prevalenza analiticamente individuati dallarticolo 2513, c.c. Le seconde sono quelle, pur essendo tenute ad intrattenere scambi con i propri soci, non sono tenute a farlo in misura prevalente (anche se si pone qui il problema di quale sia la soglia minima di scambi). Le terze sono quelle, come le cooperative sociali, che sono destinate a procurare beni o servizi a soggetti appartenenti a particolari categorie anche di non soci, come recita larticolo 2520, comma 2, c.c., il cui scopo ammettere questa tipologia di cooperative che possibile chiamare a mutualit esterna a condizione che siano contemplate da una legge speciale (con riguardo alle cooperative sociali tale legge speciale esiste gi, ed la legge 381/91). Se dunque le cooperative ordinarie di cui al codice civile sono cooperative a mutualit interna in quanto agiscono con e nellinteresse dei propri soci (c.d. gestione di servizio), la legge pu prevedere la costituzione di cooperative speciali a mutualit esterna, che agiscono con e nellinteresse di determinate categorie di soggetti, a prescindere dal fatto che essi siano soci della cooperativa. Il legislatore italiano, in definitiva, colloca le cooperative sociali di cui alla legge 381/91 nellambito della sottocategoria delle cooperative a mutualit esterna, e proprio in ragione di ci, come rilevato, detta larticolo 111 septies, volendo che le cooperative sociali, ritenute meritevoli di ammissione ai benefici fiscali, non siano da essi escluse a causa dellimpossibilit (giuridica) di agire sempre con e nellinteresse dei propri soci. Appare chiaro, dunque, come la riforma del diritto societario offra adeguato supporto giuridico a quella che precedentemente si individuata come lettura forte dellarticolo 1, comma 1, l. 381/91, e degli scopi della cooperazione sociale. Non si potrebbe infatti comprendere larticolo 111 septies se non assumendo che la cooperativa sociale sia una societ cooperativa a mutualit esterna in forza della previsione di cui allarticolo 1, comma 1, della sua legge istitutiva.Ci detto, sembra necessario svolgere alcune precisazioni. Innanzitutto, se si guarda al dato oggettivo di un ente privato che si propone di destinare i risultati della gestione sociale ad un gruppo di persone, anche non socie dello stesso, la mutualit esterna si qualifica senzaltro come scopo altruistico, non essendo rilevanti a tal fine i motivi individuali (anche egoistici) che possono animare coloro che partecipano

allorganizzazione. importante per sottolineare che laltruit dello scopo dellente non ne determina automaticamente la sua socialit, che non pu che farsi dipendere anche dal tipo di attivit svolta, e dunque dalloggetto sociale, o dalla natura dei destinatari dellattivit e dei vantaggi. La cooperativa sociale dunque cooperativa a mutualit esterna sotto il profilo causale ed impresa sociale avuto riguardo allattivit condotta e ai beneficiari della stessa. In secondo luogo, scopo di mutualit esterna e scambi con i soci possono convivere: ci che infatti rileva per la qualificazione della mutualit esterna lagire in favore di una determinata categoria di soggetti, i quali possono in certe cooperative anche essere soci delle stesse. Una cooperativa sociale (o altra cooperativa a mutualit esterna) potrebbe dunque, sulla base di una scelta di autonomia statutaria, anche (ed anzi nel caso di cooperative sociali di tipo b, non gi pu ma dovrebbe in linea di principio) svolgere attivit con e in favore dei propri soci, e dunque intrattenere con questi ultimi scambi mutualistici, purch essi appartengano alla categoria beneficiata. Ad una cooperativa sociale, invece, non sarebbe consentito escludere statutariamente la possibilit di svolgimento di attivit in favore di terzi non soci, cos come stabilire per statuto di agire esclusivamente o prevalentemente nellinteresse dei propri soci piuttosto che di una categoria di beneficiari anche non soci. Opportunamente, allora, il legislatore francese, regolando di recente le societ cooperative di interesse collettivo (SCIC), ha espressamente previsto che i terzi non soci possono beneficiare dei beni e dei servizi di tale societ.

Venendo ai rapporti tra la cooperazione sociale, cos come ricostruita secondo una lettura combinata della legge 381 e del nuovo diritto societario, e la legge delega sullimpresa sociale, appare chiara la compatibilit (altrimenti da porsi seriamente in discussione) dal punto di vista finalistico/causale tra le due figure. Sia nella 381 che nella 118, v menzione dellinteresse generale; la 118 vincola limpresa sociale a svolgere lattivit anche nei confronti dei terzi non soci, cos come leterodestinazione dellattivit elemento della dimensione esterna della mutualit delle cooperative sociali.La compatibilit invece soltanto parziale con riguardo ad altri profili che saranno discussi in seguito, e cio loggetto sociale, lassenza di scopo di lucro e la governance interna.

9. Lattivit delle cooperative sociali. Le cooperative sociali sono tali solo in quanto svolgano determinate attivit: socio-assistenziali o educative (lett. a) e qualsiasi altra attivit dimpresa finalizzata allinserimento lavorativo di persone svantaggiate (lett. b). La distinzione tra coop. soc. di tipo a) e di tipo b) ha rilevanza anche disciplinare (vedi art. 5, l. 381). Nel tempo si avvertita lesigenza di ampliare i settori di intervento della cooperazione sociale ad altri servizi di interesse collettivo o di utilit sociale, come la valorizzazione dellambiente, della cultura, ecc. Limpresa sociale, ai sensi della legge 118, sar tale in quanto svolger attivit di utilit sociale in materie di particolare rilievo sociale. Sicuramente il legislatore delegato, nellattuare la delega, inserir le attivit delle cooperative sociali tra i settori di rilievo sociale. Ma altrettanto sicuramente i settori di cui al decreto legislativo sullimpresa sociale saranno pi numerosi (o pi ampia la schiera delle persone considerate svantaggiate ai fini dellattivit di inserimento lavorativo). Cosa produrr ci? Che le cooperative sociali non potranno sfruttare le opportunit concesse dalla legislazione sullimpresa sociale perch non potranno operare nei settori di cui la legge 381 non parla (tali settori non compresi saranno di competenza esclusiva di forme giuridiche diverse dalla cooperazione sociale). Nonch che alle cooperative sociali potrebbero affiancarsi le cooperative ordinarie con riguardo a quei settori riguardo a cui la 381 tace. Ci rende necessaria una modifica della 381 in modo da estendere i settori di

intervento delle cooperative sociali a tutti i settori o materie individuate dal legislatore delegato ai sensi della 118. 10. La lucrativit delle cooperative sociali. Le cooperative sociali sono organizzazioni senza scopo di lucro, o meglio in cui la divisione di utili consentita in misura limitata. Il discorso che si svolge con riguardo agli utili nelle cooperative sociali presuppone la differenziazione tra il concetto di utile e quello di ristorno.Il ristorno una corresponsione economica attribuita al socio di cooperativa al momento dellapprovazione del bilancio, ma non costituisce assegnazione di utili, perch non remunerazione del capitale conferito dal socio e non proviene dallattivit svolta dalla cooperativa con terzi (tanto vero che in una cooperativa a mutualit pura non ci sarebbero neanche per ipotesi utili da distribuire), bens costituisce un minor ricavo o un maggior costo per la societ cooperativa da imputarsi allo scambio mutualistico intrattenuto col socio, cui viene restituito parte del prezzo pagato alla cooperativa o cui viene integrato il corrispettivo per la prestazione lavorativa o daltro tipo fornita alla cooperativa. Nella cooperativa sociale, al ristorno (o, pi in generale, al trattamento economico dei soci cooperatori negli scambi mutualistici) dovrebbe porsi un limite perch lobiettivo di questa societ, a differenza di tutte le altre cooperative, non , come si in precedenza sostenuto, massimizzare lutilit dei soci bens degli utenti dei beni o servizi resi.

Nonostante infatti la parificazione ope legis alle cooperative a mutualit prevalente, va ribadito che le cooperative sociali sono comunque soggette alla disposizione di cui allarticolo 2514, c.c., sulla non lucrativit (o meglio, limitata lucrativit) delle societ cooperative. Il dubbio riguardo a questaspetto potrebbe sorgere proprio in ragione dellavvenuta parificazione ope legis delle cooperative sociali alle cooperative a mutualit prevalente. Se infatti il legislatore ha una volta per tutte e a priori posto le cooperative sociali sullo stesso piano delle cooperative a mutualit prevalente, si potrebbe pensare che le prime non siano soggette agli obblighi imposti alle seconde, tra cui il vincolo di non lucrativit (o limitata lucrativit) di cui allarticolo 2514, c.c. Questa lettura non sarebbe per corretta, sulla base di due ordini di ragioni. Primo, lo stesso articolo 111 septies attribuisce alle cooperative sociali la qualifica di cooperative a mutualit prevalente a prescindere s dal rispetto dellarticolo 2513, ma non anche dal rispetto dellarticolo 2514, di cui dunque dovrebbe prospettarsi lapplicabilit diretta anche alle cooperative sociali. Secondo, anche volendo negare lapplicazione diretta dellarticolo 2514 a cooperative che sono ope legis a mutualit prevalente, non si potrebbe per escludere lapplicabilit in via indiretta di questa disposizione. Infatti, secondo larticolo 111 septies, citato, le cooperative sociali si considerano a mutualit prevalente solo ove rispettino le norme di cui alla legge che le istituisce. Ora, tra queste, figura la disposizione di cui allarticolo 3, comma 1, secondo cui alla cooperative sociali si applicano le clausole mutualistiche di cui allarticolo 26, l. Basevi, oggi trasfuse (seppur con modifiche di non poco rilievo) nellarticolo 2514, che rimane pertanto, anche per questa via, punto di riferimento altres per le cooperative sociali. In alcun modo, dunque, si potr dubitare della natura solo limitatamente lucrativa delle cooperative sociali anche dopo la riforma del diritto societario, come peraltro chiarisce la relazione ministeriale a tale riforma.

Ci detto, dal confronto con la disciplina sullimpresa sociale emerge un problema di compatibilit. La legge 118, infatti, ritiene imprese sociali solo le organizzazioni senza scopo di lucro (totale). Ed allora: o il legislatore delegato preveder una deroga con riguardo alle cooperative sociali (ma, a questo punto, difficilmente si giustifica il divieto totale per tutte le altre organizzazioni, specie quelle societarie) oppure la non lucrativit delle cooperative sociali dovr essere modificata statutariamente nel senso del divieto assoluto (dunque non tutte le cooperative sociali sarebbero imprese sociali, ma solo quelle che per statuto ed effettivamente applichino il divieto assoluto di distribuzione di utili). 11. La governance delle cooperative sociali. La legge sullimpresa sociale, come si detto, mira a far s che le imprese sociali abbiano una struttura di governance coerente con le finalit perseguite, cos da salvaguardare, se non garantire, il perseguimento degli obiettivi istituzionali. La legge sullimpresa sociale potr avere un effetto positivo sul rafforzamento della governance delle cooperative sociali, le quali, allo stato della legislazione vigente, non sono soggette a particolari vincoli giuridici, anche se gi oggi potrebbero sfruttare statutariamente alcune opportunit offerte dal nuovo diritto societario per realizzare spontaneamente una struttura organizzativa appropriata alle finalit perseguite. La legislazione vigente infatti carente. Da un lato, infatti, la legge sulle cooperative sociali connota e promuove questa organizzazioni private ma non si preoccupa di regolare i loro profili organizzativi; dallaltro, il codice civile incentrato sulla cooperativa ordinaria, quella cio a mutualit interna, e non presenta soluzioni dirette a regolare specificamente le cooperative a mutualit esterna, tra cui appunto le cooperative sociali. In assenza di puntuale disciplina, e in attesa di una riforma della legge 381/91, che il dibattito sulla disciplina dellimpresa sociale potrebbe senzaltro contribuire a promuovere, la ricerca di soluzioni organizzative in grado di favorire lattuazione degli scopi istituzionali dunque compito demandato allautonomia privata, cio agli statuti delle cooperative sociali. 11.1. La disciplina applicabile. La disciplina applicabile alle cooperative sociali si ricava da diverse fonti normative che devono essere coordinate tra loro, operazione, questultima, non sempre agevole. Il criterio di maggiore rilevanza ai fini della determinazione della disciplina applicabile alle societ cooperative quello posto dal nuovo articolo 2519, c.c. Secondo questultimo articolo: alle societ cooperative, per quanto non previsto dal presente titolo, si applicano in quanto compatibili le disposizioni sulla societ per azioni (comma 1). Latto costitutivo pu prevedere che trovino applicazione, in quanto compatibili, le norme sulla societ a responsabilit limitata nelle cooperative con un numero di soci cooperatori inferiore a venti ovvero con un attivo dello stato patrimoniale non superiore ad un milione di euro (comma 2). Nella scelta tra il modello della c.d. cooperativa s.p.a. e il modello della c.d. cooperativa s.r.l., allautonomia statutaria dunque posto sia il limite superiore di cui allarticolo 2519, comma 2, sia il limite inferiore di cui allarticolo 2522, comma 2, secondo cui le societ cooperative che si costituiscono con pi di tre soci, persone fisiche, e meno di nove, devono adottare le norme della societ a responsabilit limitata.

Si delinea cos la differenza tra due modelli: cooperativa cui si applicano le norme sulle societ per azioni e cooperativa cui si applicano le norme sulle societ a responsabilit limitata. Si badi peraltro che tale applicazione non incondizionata, bens subordinata allassenza di una norma di diritto comune della cooperazione (cfr. art. 2519, comma 1: per quanto non previsto dal presente titolo), da un lato, e allaccertamento della compatibilit della norma sulle s.p.a. (o sulle s.r.l.) con il modello cooperativo (cfr. art. 2519, commi 1 e 2: in quanto compatibili), dallaltro. Con riguardo poi alle cooperative sociali, la norma di diritto comune della cooperazione cede di fronte ad uneventuale norma di diritto speciale contenuta nella 381, ma abbiamo gi rilevato come questa legge sia povera di soluzioni organizzative.Le societ cooperative ordinarie, oltre che alle norme del codice civile, sono altres sottoposte, con riguardo a particolari profili, ad alcune leggi speciali, come la legge 59/92, che regole fondi mutualistici, soci sovventori, azioni di partecipazione cooperativa, ecc., il d.lgs. 1577/1947 che, dopo la riforma del diritto societario, ha rilevanza soprattutto in materia di consorzi, la legge 142/2001 sul socio lavoratore, il d.lgs. 220/2002 sulla vigilanza pubblica. Regole particolari valgono poi per alcune cooperative sottoposte a leggi speciali, come ad esempio (oltre alle sociali) le cooperative di credito cui si applica il T.U.B. Per le cooperative sociali devono anche essere considerate le leggi regionali di attuazione della 381, come ad esempio, di recente, la L.R. 3/3/2000 Regione Calabria.

La scelta del modello (s.p.a. o s.r.l.) influisce sulla disciplina applicabile e ha riflessi significativi, come vedremo subito appresso, soprattutto relativamente al profilo dei sistemi di amministrazione e controllo della societ cooperativa.Vedi, ad esempio, art. 2526, ult. comma, dove si prevede che la cooperativa cui si applicano le norme sulle s.r.l. pu offrire in sottoscrizione strumenti finanziari privi di diritti di amministrazione solo a investitori qualificati [cio, ex art. 111 octies, disp. att. trans., c.c., quelli costituiti ai sensi della l. 49/1985, i fondi mutualistici, e i fondi pensione costituiti da societ cooperative]; o lart. 2545 bis, comma 1, sui diritti dei soci nelle cooperative cui si applica la disciplina delle s.p.a.

11.2. Gli organi societari.

Assemblea dei sociIn quanto cooperativa, la cooperativa sociale ha come organo di indirizzo lassemblea dei soci. Lassemblea ha competenze diverse a seconda di quale sia il sistema di amministrazione e controllo (tradizionale, dualistico o monistico) scelto dalla cooperativa. Se, infatti, il sistema dualistico, vista la concentrazione dei poteri verso lalto che tale sistema realizza, lassemblea ha minori poteri di quelli che avrebbe se il sistema fosse quello tradizionale o quello monistico. Per le competenze dellassemblea nel sistema tradizionale o monistico, vedi art. 2364.Per la competenze dellassemblea nel sistema dualistico, vedi art. 2364 bis.

Le principali regole in materia di funzionamento dellassemblea sono:

-

una testa, un voto (2538, comma 2): lespressione della democraticit delle cooperative, o meglio del principio personalistico prevalente su quello capitalistico proprio delle s.p.a. Infatti, ogni socio esprime un voto in assemblea a prescindere dal capitale che detiene (ed ha investito) nella societ; possibile voto plurimo alle persone giuridiche (2538, comma 3): eccezione alla regola di cui sopra, motivata sulla base del fatto che dietro la persone giuridica ruota una pluralit di interessati e che le persone giuridiche normalmente sono disposte a sottoscrivere una maggiore quota di capitale (ad esse peraltro non si applica il limite di 100.000 euro di capitale sottoscrivibile ai sensi dellart. 2525, comma 3); voto plurimo in ragione dello scambio mutualistico (2538, c. 4): altra eccezione tendente a valorizzare (ed incentivare) il contributo di ciascun socio alla causa mutualistica delle cooperative; delega di voto (2539, comma 1): mira a favorire la partecipazione, senza snaturare il legame interessi del socio-interessi della cooperativa; assemblee separate (2540): anche tale norme vuole favorire la partecipazione; voto per corrispondenza (2538, comma 6): anche tale norme vuole favorire la partecipazione.

-

-

-

Amministrazione e controlloLa cooperativa sociale, in quanto cooperativa, ha sempre (a meno che non si tratti di cooperativa s.r.l., come si rilever successivamente) altri due organi, uno di direzione/gestione/amministrazione della societ ed un altro di controllo sullamministrazione della societ. Questi organi variano a seconda del modello prescelto dalla cooperativa, che pu optare per il sistema tradizionale, quello monistico e quello dualistico. Il sistema di default (che si applica, cio, in assenza di diversa scelta statutaria da parte della cooperativa) quello ordinario o classico (art. 2380 ss.). Si compone (oltre che dellassemblea con le competenze tradizionali di cui allart. 2364, c.c.) di un consiglio di amministrazione (eventualmente con comitato esecutivo o amministratore delegato, al suo interno) e di un collegio sindacale (organo di controllo, formato secondo le regole di cui agli artt. 2397 ss., e dunque badando allindipendenza e alla professionalit dei membri) nominati dallassemblea. Se il sistema quello ordinario, la cooperativa pu anche non delegare il controllo contabile ad un revisore purch nomini il collegio sindacale cui affidare tale controllo e il collegio sindacale sia composto interamente da revisori contabili (art. 2409 bis, comma 3, c.c.). Il sistema dualistico (art. 2409 octies), ispirato al sistema tedesco e francese e allo Statuto della Societ europea, si articola in un consiglio di gestione e un consiglio di sorveglianza. Il primo, costituito da almeno due componenti, anche non soci, nominati dal consiglio di sorveglianza, ha lesclusiva responsabilit della gestione. Il secondo, costituito da almeno tre componenti ed nominato dallassemblea ordinaria. Il consiglio di sorveglianza, oltre alle funzioni del collegio sindacale, svolge anche alcune funzioni di competenza dellassemblea nel sistema classico (nomina i gestori, li revoca, ne determina la retribuzione, approva il bilancio, promuove lazione sociale di responsabilit nei confronti dei gestori, pu deliberare sui piani finanziari e strategici della societ).

Lassemblea nomina il consiglio di sorveglianza e delibera unicamente sulloggetto sociale e sulla struttura societaria (operazioni sul capitale, fusioni, ecc.). Lassemblea subisce dunque un notevole svuotamento dei propri poteri rispetto allipotesi del sistema ordinario di amministrazione e controllo (non a caso, come emerge dalla relazione ministeriale, stato pensato proprio al fine di realizzare una maggiore dissociazione tra propriet e gestione dellimpresa). Se la cooperativa adotta questo sistema di amministrazione e controllo, gli eventuali possessori di strumenti finanziari non possono eleggere pi di un terzo dei componenti dei due organi, e i componenti del consiglio di sorveglianza eletti dai soci cooperatori devono essere scelti tra soci cooperatori o tra persone indicate da soci cooperatori persone giuridiche (art. 2544, comma 2). Nel sistema dualistico, il controllo contabile deve sempre essere affidato ad un revisore contabile (o ad una societ di revisione). Il sistema monistico (art. 2409 sexiesdecies), ispirato al modello anglosassone e allo Statuto della Societ europea, si differenzia da quello ordinario o classico per la mancanza del collegio sindacale sostituito nelle sue funzioni da un comitato di controllo sulla gestione, nominato dal consiglio di amministrazione (che stabilisce altres il numero dei suoi componenti, comunque non inferiore a tre nelle societ che ricorrono a capitale di rischio) al suo interno e composto da amministratori non esecutivi, di cui almeno uno revisore contabile. Il consiglio di amministrazione deve essere per almeno un terzo formato da componenti indipendenti ai sensi dellarticolo 2399, c.c. (art. 2409 septiesdecies, comma 2). Se la cooperativa adotta questo sistema, gli amministratori eletti dai possessori di strumenti finanziari non possono superare il terzo, e non possono ricevere deleghe operative n far parte del comitato esecutivo (art. 2544, comma 3). Nel sistema monistico, il controllo contabile deve sempre essere affidato ad un revisore contabile (o ad una societ di revisione). Tra tutti i sistemi di amministrazione e controllo, quello tradizionale appare probabilmente pi coerente con le finalit della cooperativa sociale quale impresa sociale. Il sistema monistico presta il fianco a perplessit per il fatto che i controllori sono nominati dai controllati, e ci soprattutto in una cooperativa dove un profilo centrale assume il controllo sullattuazione dello scopo mutualistico, si tratti di gestione di servizio o, a maggior ragione, di mutualit esterna. Il sistema dualistico, dal canto suo, ancorch sia stato atteso con speranza nella prospettiva della tutela degli stakeholder esterni, dovr essere adeguatamente conformato dallautonomia statutaria per poter realizzare questo obiettivo. Infatti, secondo il codice civile (art. 2544, comma 2), il consiglio di sorveglianza nominato dallassemblea e i suoi componenti sono scelti tra soci, e dunque esso presumibilmente rifletter soltanto gli interessi di questi ultimi, fatto, questultimo, che lo rende in s incompatibile con la tutela di interessi esterni alla societ. Cooperativa sociale (cui si applica la disciplina delle) s.r.l. Nella cooperativa (cui si applica la disciplina delle) s.r.l., invece, lasciata ai soci piena autonomia circa la scelta del modello di amministrazione: amministratore unico, consiglio di amministrazione (anche senza vincolo di collegialit), amministrazione congiunta o disgiunta (art. 2475). Gli amministratori, sempre che latto costitutivo non preveda diversamente, sono per soci (art. 2475, comma 1) nominati da soci (art. 2479, comma 2, n. 2).

rimasta invece invariata la regola sulla obbligatoriet del collegio sindacale solo in presenza di determinate condizioni (cfr. art. 2477, commi 2 e 3), talch la cooperativa cui si applica residualmente la disciplina delle s.r.l. potrebbe essere priva di un organo di controllo di legittimit e contabile. La cooperativa s.r.l. difficilmente pu apparire come un modello organizzativo di per s applicabile alle cooperative sociali. Innanzitutto v contrasto tra lo scopo di mutualit esterna d