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La storia del Piccolo principe Il mistero di Saint-Exupéry si materializza in questo romanzo di Riccardo D’Anna (Saint-Ex, Avagliano, pp. 198, e 13), che si avvale di una notevole mole di documenti storici facendola precipitare nella finzione narrativa senza caricarla troppo. D’Anna è abilissimo nel mescolare i due piani, quello della ricostruzione testimoniale e quello inventivo, fino a far interagire personaggi storici (primo fra tutti Jules Roy, che fu amico dello scrittore-aviatore scomparso in volo il 31 luglio 1944) e personaggi di fantasia come Michelle: custode dei segreti del padre che ricondurranno al caso Saint-Ex. La quête della protagonista, intrecciata con le sue turbinose vicende private, è il filo rosso della narrazione, costruita su un doppio livello cronologicamente sfasato. È la tensione pendolare tra racconto a ridosso dei fatti storici e distanza temporale, resa con estremo rigore stilistico ora lirico ora descrittivo ora sentenzioso (a emulazione quasi della prosa che rese celebre l’autore del Piccolo principe), a offrire un risultato del tutto insolito, appagante e insieme letterariamente degno di rilievo. Fede e ragione si interrogano (e si sfidano) su che cosa definisce un essere umano di PAOLO DI STEFANO Cultura IN PAGINA Confronto tra il filosofo e il patriarca di Venezia di EMANUELE SEVERINO L’inizio e la fine: ipotesi sulla vita Q uando incomincia la vita umana? Quan- do finisce? Cosa significa «vita uma- na», «uomo»? Pressoché assente, inve- ce, quest’altra domanda: «Esiste l’uo- mo?». Certo, essa sembra paradossale, un perdi- tempo fuori luogo. Sanno tutti che un uomo è un corpo che agisce e si esprime, guidato da sentimenti e pensieri. Di uomini ne vediamo tanti ogni giorno. Ma a rendere umano un cor- po sono quei sentimenti e pensieri; che però non si lasciano vedere, toccare, sperimentare, nemmeno nell’amore più profondo. Se ne deve congetturare il contenuto, l’intensità, la prove- nienza, la direzione. A volte si coglie nel segno; a volte no. Nella vita quotidiana, comunque, non ci si rende conto che l’esistenza stessa dei sentimenti e pensieri altrui, dunque l’esistenza stessa dell’uomo, è una congettura. Dell’uomo, dico, ossia del «prossimo» e di me stesso in quanto mi credo radicalmente legato al mio prossimo. Tanto poco «evidente», l’esistenza dell’«uomo», quanto lo è l’esistenza di «Dio». La filosofia lo sa da tempo, anche se una delle questioni più complesse è appunto il significa- to dell’«evidenza». Che l’uomo, il suo esser «prossimo» esista è qualcosa di voluto. Ossia di creduto. Qualcosa di discutibile, dunque. Si ha fede nell’esistenza del- l’uomo; anche se nella vita quotidiana si crede (si ha fede) che certi esseri siano indi- scutibilmente degli uomini. Esistono innumerevoli «conferme» di questa fede; ma che certi eventi siano «con- ferme» è daccapo una fede: come è soltanto una fede che i baci siano una conferma dell’amore, visto che si può esser baciati da chi ci tradisce. Per Gesù il prossimo è chi viene amato («Ama il tuo prossimo»); e quindi è prossimo proprio perché viene amato. Dunque è prossimo an- che l’amante (il buon Samaritano lo è rispetto all’uomo derubato), giacché se l’amore rende prossimo, cioè vicino, l’amato, anche l’amante si avvicina all’amato, gli si rende prossimo. Un essere è reso «prossimo» dall’amore, ma l’ama- re è il contenuto della «Legge», ossia di un «Co- mandamento»; e non si comanda quel che si ri- tiene «evidente». Al sole che splende nel cielo non si comanda di illuminare la Terra, né a un albero si comanda di non essere una pietra. Se per Gesù il prossimo è l’amato-amante, l’amore è un atto di volontà (persino quando non si può fare a meno di amare); dunque anche per Gesù che il prossimo esista è qualcosa di voluto, cre- duto, è una fede da cui ci si può quindi allonta- nare. (Si può dire che il vacillare di questa fede stia all’origine del massacro che incomincia con l’uomo, ma lo si può dire stando all’interno di questa fede). Anche per Kant che certi esseri debbano essere trattati come prossimo è il con- tenuto della «legge morale», di un «imperati- vo», di un comando. È un dovere morale crede- re che il prossimo esista, non è la constatazione di un fatto indubitabile. All’inizio della vicenda dei mortali sulla Terra tutto è per essi «prossi- mo» (e demonico): luce e suolo, acque, monti, cielo, stelle, animali e piante, vento, tuono, pioggia, lampo e, certo, anche questi esseri a cui oggi abbiamo ridotto l’ampio cerchio antico del «prossimo» e che chiamiamo «uomini». Ma questa riduzione non ha fatto ancora uscire dalla semplice fede, dalla semplice volontà che certi eventi siano il «prossimo». L’esistenza stessa della vita altrui è un grande arcano e oggi, dimenticando tutto questo, si di- scute con convinzione per stabilire quando la vi- ta altrui incominci e quando finisca! Di più: si ritiene che non ci sia niente, o più niente, da dire intorno al significato dell’«incominciare» e del «finire», e a questo punto l’inadeguatezza della riflessione tocca il fondo. Dalla quale non sanno liberarsi né scienza, o cristianesimo e al- tre forme religiose, né arte e filosofia. Si discute con convinzione per stabilire il momento del- l’inizio e della fine di qualcosa — il «prossimo» e «io» stesso in quanto mi sento legato ad esso dalle radici — che potrebbe non esserci affatto. Si può replicare dicendo che la cosa non è poi così scandalosa, giacché è lecito e tutt’altro che insensato discutere sull’inizio e la fine di qualcosa la cui esistenza è probabile; e che anzi è insensato ritenere che alle nostre certezze pos- sa competere qualcosa di più della probabilità più o meno elevata, cioè quel di più che sarebbe la loro «verità assoluta e definitiva». Un «sogno finito»; svegliamoci. Ma — rispondiamo — è davvero finito? Sì, dato il modo in cui ci si è ad- dormentati. No, se si riesce a scorgere che c’è dell’altro, che da sempre circonda quel sogno e quel risveglio e che è libero da entrambi. È stato comunque, quel sogno, grandioso: il sogno della «ragione». Se lo si dimentica, il ri- sveglio è ben poca cosa, è un altro sogno. Il so- gno della ragione evoca un sapere che stia al di sopra di ogni fede e di ogni volontà, un sapere che affermi che le cose stanno in un certo mo- do non perché si vuole e si ha fede che così stia- no, ma perché esse stanno incontrovertibilmen- te così. «Il morire tra ragione e fede» è appunto il tema del Convegno che si terrà in questi gior- ni all’Università di Padova. Ma ci si vorrà accon- tentare del discorso (il discorso della scienza, di cui oggi la Chiesa si fida, ossia in cui oggi ha fede) per il quale è «probabile» che l’«uomo» esista, è «probabile» che la sua vita incominci in un certo momento e in un cert’altro finisca? Si dice che «ognuno di noi» sperimenta la morte del prossimo, non la propria. Ma poiché l’esistenza stessa del prossimo non è sperimen- tata, del prossimo non si può sperimentare nemmeno la morte (o la nascita). Si sperimenta il sopraggiungere di configurazioni via via diver- se di ciò che chiamiamo «il corpo altrui», sino a quella, angosciante, che chiamiamo «cadavere» (e poi altre ancora, come gli scheletri e le ossa, che le feste e i riti arcaici mostrano di considera- re ancora come «prossimo»). Configurazioni via via diverse e, certo, sem- pre più terribili. Che tuttavia non mostrano quanto è più terribile e angosciante: l’annienta- mento delle precedenti configurazioni del cor- po altrui. Il cadavere mostra sì qualcosa di orren- damente diverso dalla vita da cui è preceduto, ma non mostra l’annientamento di questa vita. Gli uomini hanno imparato che, quando il cada- vere compare sulla scena, la vita da cui è prece- duto non ha più fatto ritorno, e hanno pensato che questo mancato ritorno sia l’«annientamen- to» della vita. Non appare, non si fa esperienza dell’annientamento della «beltà» di Silvia («Quel tempo della tua vita mortale, / quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggi- tivi»), ma appare, dopo le configurazioni del tempo dello splendore di Silvia, il suo «chiuso morbo» e il suo cadavere. E l’annientamento non può apparire, perché quando si crede che le cose si annientino è ne- cessario che si creda anche che non se ne possa più fare esperienza, ed è quindi impossibile che l’esperienza mostri a quale destino siano anda- te incontro le cose che da essa sono uscite. Ap- punto per questo ogni vita e ogni cosa che dopo il proprio calvario esce dall’esperienza «può» ri- tornare. Se qui si potesse spingere fino in fondo il discorso, si dovrebbe dire anzi che «è necessa- rio» che ritorni. Sia la ragione, sia la fede (e innanzitutto la fede cristiana e delle altre due religioni mono- teistiche) credono che l’annientamento delle co- se e dei viventi (e il loro uscire dal niente) costi- tuisca quanto di più «evidente» vi sia, di più ma- nifesto, di più esperibile. Ma alterano ciò che si manifesta, gettano sul suo volto la maschera del- la morte-che-annienta, l’autentico «pungiglio- ne della morte». La resurrezione dei corpi e del- la carne, annunciata dal cristianesimo, è certo un tratto della maschera: per risorgere, la carne deve essere diventata niente. La resurrezione è figlia legittima del pungiglione mortale. Eppu- re, sebbene profondamente sviante, quell’an- nuncio è una metafora del destino di ciò che, uscendo dalla manifestazione delle cose del mondo, non è diventato niente, ma, eterno, at- tende di ritornare, nella sua gloria. Opera All’università di Padova Identità e destino Il dibattito su corpo e resurrezione, su esistenza e morte. Il «prossimo» del Vangelo e la legge morale di Kant Idee Il cardinale Angelo Scola e, in alto, «Lezione di anatomia del dottor Tulp» di Rembrandt (1632) Si apre oggi, alle 9.15, all’Università di Padova, nella sala dell’Archivio antico di Palazzo Bo, il convegno internazionale «Il morire tra ragione e fede: universi che orientano le pratiche di aiuto». I lavori iniziano con un dibattito, moderato da Armando Torno, tra il cardinale Angelo Scola (Patriarca di Venezia) e il filosofo Emanuele Severino (del quale pubblichiamo in anteprima alcune considerazioni sull’argomento). L’iniziativa è nata da un accordo tra il rettore dell’Università Vincenzo Milanesi, il sindaco Flavio Zanonato e il preside della Facoltà Teologica del Triveneto Andrea Toniolo. La direzione scientifica si deve a Ines Testoni, con il concorso delle Facoltà di Scienze della Formazione, di Medicina e Chirurgia, del Dipartimento di Psicologia Generale. Tra i relatori: Enrico Berti, Dora Capozza, Antonio Da Re, David Spiegel, Michael Barilan. Tra i patrocinatori figura la «World Cultural Psychiatry Research Review». Emanuele Severino. Il suo ultimo libro è «L'identità del destino» (Rizzoli) ALLA SCOPERTA DI louisvuitton.com 47 Corriere della Sera Venerdì 20 Marzo 2009

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La storia del Piccolo principe

Il mistero di Saint-Exupéry si materializza in questo romanzo diRiccardo D’Anna (Saint-Ex, Avagliano, pp. 198, e 13), che si avvaledi una notevole mole di documenti storici facendola precipitare nella

finzione narrativa senza caricarla troppo. D’Anna è abilissimo nelmescolare i due piani, quello della ricostruzione testimoniale equello inventivo, fino a far interagire personaggi storici (primo fratutti Jules Roy, che fu amico dello scrittore-aviatore scomparso involo il 31 luglio 1944) e personaggi di fantasia come Michelle:custode dei segreti del padre che ricondurranno al caso Saint-Ex. Laquête della protagonista, intrecciata con le sue turbinose vicende

private, è il filo rosso della narrazione, costruita su un doppio livellocronologicamente sfasato. È la tensione pendolare tra racconto aridosso dei fatti storici e distanza temporale, resa con estremorigore stilistico ora lirico ora descrittivo ora sentenzioso (aemulazione quasi della prosa che rese celebre l’autore del Piccoloprincipe), a offrire un risultato del tutto insolito, appagante einsieme letterariamente degno di rilievo.

Fede e ragione si interrogano (e si sfidano) su che cosa definisce un essere umano

di PAOLO DI STEFANO

Cultura✒IN PAGINA

Confronto tra il filosofoe il patriarca di Venezia

di EMANUELE SEVERINO

L’inizio e la fine: ipotesi sulla vita

Q uando incomincia la vita umana? Quan-do finisce? Cosa significa «vita uma-na», «uomo»? Pressoché assente, inve-ce, quest’altra domanda: «Esiste l’uo-

mo?». Certo, essa sembra paradossale, un perdi-tempo fuori luogo. Sanno tutti che un uomo èun corpo che agisce e si esprime, guidato dasentimenti e pensieri. Di uomini ne vediamotanti ogni giorno. Ma a rendere umano un cor-po sono quei sentimenti e pensieri; che perònon si lasciano vedere, toccare, sperimentare,nemmeno nell’amore più profondo. Se ne devecongetturare il contenuto, l’intensità, la prove-nienza, la direzione. A volte si coglie nel segno;a volte no. Nella vita quotidiana, comunque,non ci si rende conto che l’esistenza stessa deisentimenti e pensieri altrui, dunque l’esistenzastessa dell’uomo, è una congettura. Dell’uomo,dico, ossia del «prossimo» e di me stesso inquanto mi credo radicalmente legato al mioprossimo. Tanto poco «evidente», l’esistenzadell’«uomo», quanto lo è l’esistenza di «Dio».La filosofia lo sa da tempo, anche se una dellequestioni più complesse è appunto il significa-to dell’«evidenza».

Che l’uomo, il suo esser «prossimo» esista èqualcosa di voluto. Ossia di creduto. Qualcosa didiscutibile, dunque. Si ha fede nell’esistenza del-l’uomo; anche se nella vita quotidiana si crede(si ha fede) che certi esseri siano indi-scutibilmente degli uomini. Esistonoinnumerevoli «conferme» di questafede; ma che certi eventi siano «con-ferme» è daccapo una fede: come èsoltanto una fede che i baci sianouna conferma dell’amore, visto chesi può esser baciati da chi ci tradisce.

Per Gesù il prossimo è chi vieneamato («Ama il tuo prossimo»); equindi è prossimo proprio perchéviene amato. Dunque è prossimo an-che l’amante (il buon Samaritano lo è rispettoall’uomo derubato), giacché se l’amore rendeprossimo, cioè vicino, l’amato, anche l’amantesi avvicina all’amato, gli si rende prossimo. Unessere è reso «prossimo» dall’amore, ma l’ama-re è il contenuto della «Legge», ossia di un «Co-mandamento»; e non si comanda quel che si ri-tiene «evidente». Al sole che splende nel cielonon si comanda di illuminare la Terra, né a un

albero si comanda di non essere una pietra. Seper Gesù il prossimo è l’amato-amante, l’amoreè un atto di volontà (persino quando non si puòfare a meno di amare); dunque anche per Gesùche il prossimo esista è qualcosa di voluto, cre-duto, è una fede da cui ci si può quindi allonta-nare. (Si può dire che il vacillare di questa fedestia all’origine del massacro che incomincia conl’uomo, ma lo si può dire stando all’interno diquesta fede). Anche per Kant che certi esseridebbano essere trattati come prossimo è il con-tenuto della «legge morale», di un «imperati-vo», di un comando. È un dovere morale crede-re che il prossimo esista, non è la constatazionedi un fatto indubitabile. All’inizio della vicendadei mortali sulla Terra tutto è per essi «prossi-mo» (e demonico): luce e suolo, acque, monti,cielo, stelle, animali e piante, vento, tuono,pioggia, lampo e, certo, anche questi esseri acui oggi abbiamo ridotto l’ampio cerchio antico

del «prossimo» e che chiamiamo «uomini».Ma questa riduzione non ha fatto ancora usciredalla semplice fede, dalla semplice volontà checerti eventi siano il «prossimo».

L’esistenza stessa della vita altrui è un grandearcano e oggi, dimenticando tutto questo, si di-scute con convinzione per stabilire quando la vi-ta altrui incominci e quando finisca! Di più: siritiene che non ci sia niente, o più niente, dadire intorno al significato dell’«incominciare» edel «finire», e a questo punto l’inadeguatezzadella riflessione tocca il fondo. Dalla quale nonsanno liberarsi né scienza, o cristianesimo e al-tre forme religiose, né arte e filosofia. Si discutecon convinzione per stabilire il momento del-l’inizio e della fine di qualcosa — il «prossimo»e «io» stesso in quanto mi sento legato ad essodalle radici — che potrebbe non esserci affatto.

Si può replicare dicendo che la cosa non èpoi così scandalosa, giacché è lecito e tutt’altroche insensato discutere sull’inizio e la fine diqualcosa la cui esistenza è probabile; e che anziè insensato ritenere che alle nostre certezze pos-sa competere qualcosa di più della probabilitàpiù o meno elevata, cioè quel di più che sarebbela loro «verità assoluta e definitiva». Un «sognofinito»; svegliamoci. Ma — rispondiamo — èdavvero finito? Sì, dato il modo in cui ci si è ad-dormentati. No, se si riesce a scorgere che c’èdell’altro, che da sempre circonda quel sogno equel risveglio e che è libero da entrambi.

È stato comunque, quel sogno, grandioso: ilsogno della «ragione». Se lo si dimentica, il ri-sveglio è ben poca cosa, è un altro sogno. Il so-gno della ragione evoca un sapere che stia al disopra di ogni fede e di ogni volontà, un sapereche affermi che le cose stanno in un certo mo-do non perché si vuole e si ha fede che così stia-no, ma perché esse stanno incontrovertibilmen-te così. «Il morire tra ragione e fede» è appuntoil tema del Convegno che si terrà in questi gior-ni all’Università di Padova. Ma ci si vorrà accon-tentare del discorso (il discorso della scienza, dicui oggi la Chiesa si fida, ossia in cui oggi hafede) per il quale è «probabile» che l’«uomo»esista, è «probabile» che la sua vita incominciin un certo momento e in un cert’altro finisca?

Si dice che «ognuno di noi» sperimenta lamorte del prossimo, non la propria. Ma poichél’esistenza stessa del prossimo non è sperimen-tata, del prossimo non si può sperimentarenemmeno la morte (o la nascita). Si sperimentail sopraggiungere di configurazioni via via diver-

se di ciò che chiamiamo «il corpo altrui», sino aquella, angosciante, che chiamiamo «cadavere»(e poi altre ancora, come gli scheletri e le ossa,che le feste e i riti arcaici mostrano di considera-re ancora come «prossimo»).

Configurazioni via via diverse e, certo, sem-pre più terribili. Che tuttavia non mostranoquanto è più terribile e angosciante: l’annienta-mento delle precedenti configurazioni del cor-po altrui. Il cadavere mostra sì qualcosa di orren-damente diverso dalla vita da cui è preceduto,ma non mostra l’annientamento di questa vita.Gli uomini hanno imparato che, quando il cada-vere compare sulla scena, la vita da cui è prece-duto non ha più fatto ritorno, e hanno pensatoche questo mancato ritorno sia l’«annientamen-to» della vita. Non appare, non si fa esperienzadell’annientamento della «beltà» di Silvia(«Quel tempo della tua vita mortale, / quandobeltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggi-tivi»), ma appare, dopo le configurazioni deltempo dello splendore di Silvia, il suo «chiusomorbo» e il suo cadavere.

E l’annientamento non può apparire, perchéquando si crede che le cose si annientino è ne-cessario che si creda anche che non se ne possapiù fare esperienza, ed è quindi impossibile chel’esperienza mostri a quale destino siano anda-te incontro le cose che da essa sono uscite. Ap-punto per questo ogni vita e ogni cosa che dopoil proprio calvario esce dall’esperienza «può» ri-tornare. Se qui si potesse spingere fino in fondoil discorso, si dovrebbe dire anzi che «è necessa-rio» che ritorni.

Sia la ragione, sia la fede (e innanzitutto lafede cristiana e delle altre due religioni mono-teistiche) credono che l’annientamento delle co-se e dei viventi (e il loro uscire dal niente) costi-tuisca quanto di più «evidente» vi sia, di più ma-nifesto, di più esperibile. Ma alterano ciò che simanifesta, gettano sul suo volto la maschera del-la morte-che-annienta, l’autentico «pungiglio-ne della morte». La resurrezione dei corpi e del-la carne, annunciata dal cristianesimo, è certoun tratto della maschera: per risorgere, la carnedeve essere diventata niente. La resurrezione èfiglia legittima del pungiglione mortale. Eppu-re, sebbene profondamente sviante, quell’an-nuncio è una metafora del destino di ciò che,uscendo dalla manifestazione delle cose delmondo, non è diventato niente, ma, eterno, at-tende di ritornare, nella sua gloria.

Opera

All’università di Padova

Identità e destino Il dibattito su corpo e resurrezione, su esistenza e morte. Il «prossimo» del Vangelo e la legge morale di Kant

IdeeIl cardinaleAngelo Scola e,in alto, «Lezionedi anatomiadel dottor Tulp»di Rembrandt(1632)

Si apre oggi, alle 9.15, all’Università diPadova, nella sala dell’Archivio antico diPalazzo Bo, il convegno internazionale«Il morire tra ragione e fede: universi cheorientano le pratiche di aiuto». I lavoriiniziano con un dibattito, moderato daArmando Torno, tra il cardinale AngeloScola (Patriarca di Venezia) e il filosofoEmanuele Severino (del quale pubblichiamoin anteprima alcune considerazionisull’argomento). L’iniziativa è nata daun accordo tra il rettore dell’UniversitàVincenzo Milanesi, il sindaco FlavioZanonato e il preside della Facoltà Teologicadel Triveneto Andrea Toniolo. La direzionescientifica si deve a Ines Testoni, con ilconcorso delle Facoltà di Scienze dellaFormazione, di Medicina e Chirurgia, delDipartimento di Psicologia Generale.Tra i relatori: Enrico Berti, Dora Capozza,Antonio Da Re, David Spiegel, MichaelBarilan. Tra i patrocinatori figura la «WorldCultural Psychiatry Research Review».

EmanueleSeverino.Il suo ultimolibroè «L'identitàdel destino»(Rizzoli)

ALLA SCOPERTA DI

louisvuitton.com

47Corriere della Sera Venerdì 20 Marzo 2009

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Il Porfirio scampato al rogo

Un secolo dopo che Adolf von Harnack raccolse i frammenti deltrattato del neoplatonico Porfirio, esce in italiano la primatraduzione integrale di Contro i cristiani (a cura di Giuseppe

Muscolino e Giuseppe Girgenti, Bompiani, pp. 640, e 20). Risalealla fine del III secolo, è un attacco basato su un esame storico,filosofico, filologico e teologico della Bibbia. Ben più forte delprecedente Il discorso vero di Celso, del tempo di Marco Aurelio,conservatoci nella confutazione di Origene. Se le polemicheanticristiane sino a quel momento negavano Gesù come logos deigreci o Messia dei profeti ebrei, Porfirio acuì l’attacco: escludeva la

possibilità di conciliare pensiero greco e cristianesimo, soprattuttonegava la correttezza dell’uso ermeneutico dell’allegoria perinterpretare la Scrittura. L’opera fu proscritta da Costantino pocoprima del Concilio di Nicea (325 d.C.), poi data alle fiamme sinoall’ultima copia nel 448 d.C. Harnack raccolse i frammenti nelleopere dei confutatori; questa edizione ha in appendice anche quelliritrovati in altri autori o in nuovi papiri dopo il 1916.

Un convegnointernazionale

di EMANUELE SEVERINO

La Chiesa comprese Galileoma non fu meno colpevoleIl pentimento di oggi lascia intatte le responsabilità di ieri

di ARMANDO TORNO

Cultura✒IN PAGINA

N el suo articolo «Perché i teologi noncapirono Galileo» («Corriere», 6maggio) Nicola Cabibbo sottolineaopportunamente l’insistenza di Gali-

lei per ottenere il titolo di Filosofo e Matemati-co primario del Gran duca, nella Firenze dei Me-dici. «Non solo Matematico», scrive Cabibbo,«ma anche e anzitutto Filosofo». E altrettantoopportunamente richiama l’opposizione di Gali-lei alla filosofia aristotelica (che sta alla base del-la teologia cattolica) in nome di quella pitagori-ca e atomistica. Ma che cosa intende Galilei conla parola "Filosofo"? La questione è decisiva. So-lo a partire da essa si può accertare se la Chiesadel primo Seicento non abbia saputo «valutarecorrettamente», come sostiene Cabibbo, «l’im-patto filosofico della nuova scienza».

Il pitagorismo e l’atomismo democriteo diffe-riscono certamente dall’aristotelismo, ma conquest’ultimo hanno in comune l’essenziale. Ta-le tratto essenziale queste filosofie l’hanno incomune con lo stesso pensiero di Galilei. Insie-me ad altri, altrettanto essenziali, esso accomu-na l’intera tradizione filosofica dell’Occidente.Galilei lo indica con potenza e nel modo piùesplicito. Ad esempio verso la fine della «primagiornata» del Dialogo dei massimi sistemi.

Si incomincia a introdurre, in questo testo,«una distinzione filosofica» tra l’«intensità» (os-sia la qualità, il grado di perfezione) e l’«esten-sione» della conoscenza. Quanto all’«estensio-ne», l’intelletto umano conosce ben poco, maquanto all’«intensità» delle «proposizioni» es-so «ne intende alcune così perfettamente, e neha così assoluta certezza» da eguagliare la stes-sa conoscenza che Dio possiede di esse. Sono le«proposizioni» delle «scienze matematiche pu-re, cioè la geometria e l’aritmetica, delle qualil’intelletto divino ne sa bene infinite proposizio-ni di più, perché le sa tutte, ma di quelle pocheintese dall’intelletto umano credo che la cogni-zione agguagli la divina nella certezza obiettiva,poiché arriva a comprenderne la necessità, so-pra la quale non par che possa esser sicurezzamaggiore». In queste righe sta parlando la gran-de filosofia — e, propriamente, la grande tradi-zione del pensiero filosofico.

L’intelletto divino conosce tutte le infiniteproposizioni matematiche; quello umano ne co-nosce «poche» («è come nullo»); ma quelle po-che le conosce come sono conosciute dall’intel-letto divino. I due intelletti sono uguali quantoalla «certezza obiettiva», quella cioè che non hacome contenuto qualcosa di illusorio o di pro-babile, ma la realtà stessa così come essa è. Eperché l’intelletto umano riesce ad «agguaglia-re» quello divino quanto alla «certezza obietti-

va»? Perché — e qui la forza filosofica del testoraggiunge il proprio culmine —, rispetto alle«proposizioni» matematiche l’intelletto umano«arriva a comprenderne la necessità, sopra laquale non par che possa esser sicurezza maggio-re».

La necessità! La filosofia nasce portando allaluce il senso della necessità — la necessità diun sapere che non possa essere smentito da al-cuna potenza umana o divina — di un sapere,dunque, che eguaglia, quanto alla sua "intensi-tà", lo stesso sapere di un Dio. Si dice, di Dio,che è l’Ente di cui non si può pensare uno mag-giore; ma innanzitutto è la necessità a mostrarsicome la "sicurezza" (l’incontrovertibilità) dellaquale non si può pensare una maggiore e chequindi è essa a garantire la stessa sicurezza in-torno all’esistenza di un Dio.

In quelle righe di Galilei sta parlando la gran-de filosofia perché l’affermazione che alle pro-posizioni matematiche compete la necessità,

«sopra la quale non par che possa esser sicurez-za maggiore», tale affermazione, dico, non èun’affermazione matematica, ma filosofica. Al-la filosofia, non alla scienza, compete da sem-pre il compito di comprendere il senso della ne-cessità e della non-necessità e di stabilire a qua-li conoscenze competa l’una o l’altra di questedue fondamentali categorie. Eschilo, uno deglialti sovrani della filosofia, esprime l’intera tradi-zione filosofica dicendo che «la tecnica è trop-po più debole della necessità»: più debole, cioèpiù insicura della necessità sopra la quale nonpuò esservi sicurezza maggiore. Oggi, attraver-so una grandiosa apocalisse del pensiero filoso-fico, si deve dire che la necessità è troppo piùdebole della tecnica. E nemmeno questa è un’af-fermazione di carattere scientifico-tecnologico.Relativamente alla convinzione che la necessitàcostituisca la «sicurezza maggiore», Galilei stacomunque dalla parte di Eschilo, Platone, Ari-stotele, Agostino, Tommaso. Per lungo tempo,

fino ad Einstein compreso, la scienza starà daquesta parte. Poi, anche la scienza, e anche lastessa «geometria» e «aritmetica», giungeran-no a considerare le proprie «proposizioni» noncome delle necessità, ma come ipotetiche, pro-babili, falsificabili.

E la Chiesa? La Chiesa che condanna Galilei?Bisogna proprio dire che non fu all’altezza delsuo grande interlocutore e che non seppe «valu-tare correttamente l’impatto filosofico dellanuova scienza», secondo quanto sostiene Cabib-bo? La risposta va articolata. Da un lato, il sensoche per Galilei compete alla necessità è quellostesso che la Chiesa tien fermo. Tra la Chiesa eil suo avversario esiste, su questo punto fonda-mentale, una profonda solidarietà. Sia l’una sial’altro credono che nell’uomo sia presente un sa-pere necessario. Dall’altro lato, la Chiesa delXVII secolo ritiene che la necessità competa allafilosofia di Tommaso d’Aquino e quindi, da ulti-mo, alla sapienza filosofica greca, soprattutto aquella aristotelica, mentre per Galilei la necessi-tà compete, nella conoscenza della natura, sol-tanto alla matematica.

Ma proprio per questo nella Chiesa di queltempo ci fu chi seppe «valutare correttamentel’impatto filosofico della nuova scienza», ed eb-be anzi una comprensione di essa essenzial-mente più avanzata di quella del suo pur gran-dissimo interlocutore. Mi riferisco al cardinaleRoberto Bellarmino. Egli ebbe a possedere dellascienza, matematica compresa, lo stesso concet-to che la scienza ha oggi di sé stessa: di non es-sere un sapere necessario, ma soltanto ipoteti-co, probabile, falsificabile. E appunto per que-sto egli esorta Galileo a esporre le proprie dottri-ne non come un sapere necessario che costrin-ge "assolutamente" a modificare la lettera delleScritture (cioè l’affermazione del movimentodel sole), ma come ipotesi che, come tali, posso-no convivere con quella lettera. E aggiunge chese ci fosse «vera dimostrazione» della teoria co-pernicano-galileana — se questa teoria apparis-se cioè come una necessità — «allora bisogne-ria andar con molta considerazione in esplicarele Scritture che paiono contrarie, e più tosto di-re che non l’intendiamo, che dire che sia falsoquello che si dimostra». Quel che si dimostracome necessario non può essere falso — anchese, insieme, egli dichiara di avere «grandissimodubbio» che quella «vera dimostrazione» cipossa essere. Il dubbio da cui dev’essere afferra-to chi ormai, a differenza di Galilei, si è resoconto che la scienza non può parlare "assoluta-mente". La Chiesa che oggi si pente di aver con-dannato Galilei è cioè meno avanzata di quellache lo ha condannato. Questo, si capisce, guar-dando al puro contenuto concettuale della con-troversia, non al contesto storico-sociale in cuiessa si è svolta.

Dibattiti Una risposta a Nicola Cabibbo, convinto che nel Seicento ai teologi mancassero gli strumenti per valutare le tesi dello scienziato

S’intitola «Galileo 2009» ilconvegno internazionalein corso a Firenze,organizzato da numeroseistituzioni culturali, chepropone una rilettura divari aspetti della vicendariguardante il grandescienziato. In conclusionesi terrà un evento adArcetri sabato 30 maggio.Per maggiori informazioniwww.galileo2009.org

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EmanueleSeverino e,sotto, NicolaCabibbo (fotoContrasto)

www.raffaellocortina.it

Novità

A.Ceretti,L.NataliCosmologie violentePercorsi di vite criminali

Da dove viene l’agire violento?

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Un invito ad apprezzare l’esistenza nel presente

Rémi BragueIl Dio dei cristianiL’unico Dio?

I monoteismi sono irrimediabilmente diversi

Philippe JeammetAdulti senza riservaQuel che aiuta un adolescente

Analisi e consigli per genitori disorientati

32 Mercoledì 27 Maggio 2009 Corriere della Sera

Page 3: Fedeeragionesiinterrogano(esisfidano ... · Vincenzo Milanesi, il sindaco Flavio Zanonato e il preside della Facoltà Teologica del Triveneto Andrea Toniolo. La direzione scientifica

O ggi si parla soprattutto di crisi delcapitalismo. Ma, da tempo, anchedi quella della religione e della po-litica. Capitalismo, religione, poli-

tica non intendono certo farsi da parte.Nemmeno quando si propongono di rifor-marsi: tentano di eliminare i propri errori,ma tenendo ferma la propria struttura difondo. Una parte rilevante della cultura at-tuale è invece convinta della loro irriforma-bilità — come irriformabile era stato il so-cialismo reale. Questa convinzione è espres-sa con grande acutezza negli scritti di Jac-ques Ellul (1912-1994) e in particolare nelsuo saggio Il sistema tecnico (1977). «Ci so-no pochi dubbi sul fatto che ci troviamo difronte a uno dei massimi pensieri dei nostritempi», si è detto di queste pagine (un giu-dizio da condividere in buona parte). Ne ap-pare ora la traduzione italiana, di cui hascritto su queste pagine Armando Torno (Ilsistema tecnico. La gabbia delle società con-temporanee, Jaca Book, pp. 406, e 42, tradu-zione di Guendalina Carbonelli).

L’importanza di questo saggio sta nelladescrizione: descrive con penetrazione illu-minante il prevalere, nel nostro tempo, del«sistema tecnico»: la situazione in cui la tec-nica sta vanificando il capitalismo, la religio-ne, la politica. Che dunque sono irriformabi-li. La debolezza del saggio sta invece nell’ap-parato teorico in base al quale viene condan-nata la tecnica: essa distrugge la «libertà»dell’uomo. Questo discorso (come del restoper lo più accade) dà per scontato che la li-bertà sia un valore indiscutibile, irrinuncia-bile. Il senso globale della prospettiva di El-lul è dunque: nessuna forza pratico-teorica(quali appunto il capitalismo, la religione,la politica, ma con l’eccezione implicita dicui dirò tra poco) si illuda di vincere e con-trollare il «sistema tecnico»; e tuttavia que-sto sistema è il pericolo estremo perché di-strugge la libertà dell’uomo — la sua libertàdi «scegliere» veramente, e non apparente-mente come quando si sceglie tra «prodot-ti» forniti dal sistema tecnico.

Tuttavia, quanto più qualcosa — la libertà— sembra irrinunciabile, tanto più si deveevitare di presentarla come un dogma. E in-vece si può dire che l’apparato teorico espli-cito di Ellul si riduca all’affermazione chenelle scienze sociali la migliore teoria sia l’as-senza di teoria, cioè la descrizione accuratae capace di scorgere l’unità che conferisce laforma di «sistema» alle singole tecniche.

Ma condannare la tecnica perché distrug-ge la libertà non è più una semplice descri-zione. È un giudizio che presuppone una te-oria capace di mostrare il valore della liber-tà. E la teoria implicita di Ellul è la sua fedeprotestante — la religione storica essendoinvece per lui ormai completamente «deter-minata» dall’«ambiente tecnico». La fede èl’eccezione: l’unica forza capace di smasche-rare la non verità della tecnica e di tener vi-va la speranza in un mondo diverso, in un«ambiente, umano e naturale, "non pro-grammato", vario, attivo, un ambiente pie-no di difficoltà, di tentazioni, di scelte diffi-cili, di sfide, di sorprese, di ricompense inat-tese». (p. 382)

Nel 1975, al Convegno del Centro Inter-nazionale di Studi Umanistici di Roma, ri-volgendomi anche a Jacques Ellul, oltreche a Paul Ricoeur e ad altri partecipanti,dicevo invece che «il domi-nio scientifico-tecnologicodell’ente e la conseguentedistruzione di ogni univer-so mitico e di ogni kéryg-ma non sono solo un fatto,ma sono il destino richie-sto dall’essenza del tem-po», ossia della dimensio-ne in cui si svolge l’interastoria dell’Occidente. Iltempo è inteso, dai suoiabitatori, come separazio-ne delle cose (uomini, piante, stelle, pen-sieri, affetti) dal loro essere, ed è soltantosul fondamento di questa separazione cheè possibile ogni volontà di assegnare e ditogliere l’essere alle cose, e quindi anchequella forma radicale di volontà in cui latecnica del nostro tempo consiste. Erod’accordo con la tesi di Ellul della capacitàdella tecnica di imporsi sulle forze che in-tendono ridurla a semplice mezzo; manon ero d’accordo su quel che più contaperché stabilisce il significato stesso diuna tesi: il modo in cui egli giustificava lapropria, riducendo a fede il fondamentodella sua critica alla tecnica.

Ma Ellul diffida della filosofia. Tanto dascrivere che la scomparsa di ogni «punto diriferimento intellettuale, morale, spiritua-le» a partire dal quale l’uomo «possa giudi-

care e criticare la tecnica» è attestata dalla«sociologia della morte delle ideologie» edalla «teologia della morte di Dio» (pp.387-88) — dimenticando ciò che sta sottogli occhi, ossia che, della morte di Dio e del-le ideologie, sociologia e teologia hanno po-tuto parlare perché innanzitutto ne avevaparlato la filosofia per bocca di Nietzsche (edi Leopardi e Gentile). Inoltre, la sociologiapuò descrivere le morti, non indicare la loronecessità, e nemmeno può farlo la teologia,fondata com’è sulla fede. Nonostante l’intel-ligenza della sua analisi, Ellul ha della tecni-ca la stessa percezione ingenua che ne han-no i suoi attuali sostenitori (che egli dura-mente condanna): di essere un agire checrede di non aver nulla a che fare con la filo-sofia.

Disinteressandosi della filosofia, Ellulnon ne può sfruttare le risorse. Scrive che

«secondo la solita maniadei filosofi» si fa «un discor-so sulla Tecnica in sé, inqualsiasi epoca, qualsiasiambiente, come se fossepossibile assimilare la tecni-ca occidentale precedente ilXVIII secolo con la tecnica at-tuale» (p. 52). Ma da quellamania è necessario farsiprendere ancora di più e piùradicalmente: scorgendo,come ho rilevato, che sin

dal suo inizio l’Occidente separa l’uomo e lecose dal loro essere e che ogni tecnica del-l’Occidente si fonda su questa separazione.Ma in due modi profondamente diversi.

La tradizione filosofica ha inteso sviluppa-re una Teoria inconfutabile, in cui vengonostabiliti i Limiti che nessun agire umano edunque nessuna tecnica possono superare.Sono costituiti dall’ordinamento divino delmondo.

Più o meno direttamente, le religioni e lealtre forme culturali e istituzioni dell’Occi-dente si inscrivono in questa Teoria. Essa èquindi riuscita ad arginare a lungo la volon-tà di potenza della tecnica. Invece la filoso-fia degli ultimi due secoli ha mostrato l’im-possibilità di quella Teoria. Ha quindi indi-cato lo spazio libero dove la tecnica può ol-trepassare ogni Limite e dominare il mon-

do. Questo che sto richiamando non è dun-que un «discorso sulla Tecnica in sé», chevada incontro agli inconvenienti espressi daJacques Ellul. Per un verso, esso consente didare consistenza alle descrizioni. Ma spe-gne anche le speranze improprie. Perché si-no a che ci si limita a descrivere la situazio-ne in cui ogni aspetto della vita umana è«tecnicizzato» — e dunque in cui Dio è mor-to — non si può escludere che un Dio abbiaa ritornare e che dall’«ambiente tecnico» sipossa uscire.

Dimenticando la filosofia, Ellul può spera-re in questo ritorno. Ma poi bisogna fare iconti con la filosofia del nostro tempo — omeglio col suo sottosuolo che per lo più sifatica a raggiungere.

E allora ci si rende conto che il pessimi-smo di cui Jacques Ellul è stato accusato du-rante la sua vita è ancora una forma di otti-mismo improprio, giacché per oltrepassarela dominazione tecnica del mondo occorreben altro che il richiamo ai valori del passa-to: occorre mettere in questione l’essenzastessa dell’Occidente: quella separazionedell’uomo e delle cose dal loro essere, che èla radice della volontà di modificarli, mano-metterli, produrli, distruggerli, reinventarlial di là di ogni limite.

«Ellul sbagliò a sottovalutare la forza della filosofia»

Il calciatore Soriano

Osvaldo Soriano, scomparso in giovane età nel 1997, resta unemblema delle passioni dell’Argentina: giocatore di calciomemorabile, con carriera stroncata da un incidente, porta nella

scrittura uno stile che dichiarava uniformato a quello dei campi dagioco (amava citare tre versi di Borges: «Anche se i giocatori se neandranno / anche se il tempo li avrà consumati / certo che il rito nonavrà mai fine»). La febbre dell’oro, stampato ora nell’ArcipelagoEinaudi, con l’intelligente cura di Glauco Felici, è la summa degliinediti di Soriano: giornalismo e narrativa. Giganteggia la figura diPéron, data per scorci, con citazioni di omicidi e massacri. C’è

persino un riferimento a José López Rega, cantante mancato epoliziotto, lo «stregone», personaggio peronista, responsabile diassassinio plurimo, persino iscritto alla P2 italiana. Il lettore saràaffascinato dalla storia di Johann Sutter, protagonista della vicendaottocentesca della California: sulle sue terre si scatenò la miticacaccia all'oro. In controluce, le immagini di Charlot che, nei pannidel vagabondo, diventò ricco. Mentre Sutter perse tutti i suoi averi.

Non basta la fedea salvarci dalla tecnica

di ALBERTO BEVILACQUA

Idee

Per trovare una viad’uscita occorremettere in questionel’essenza stessadell’Occidente

Teologia

Cultura

IN PAGINA

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di EMANUELE SEVERINO

Dibattiti L’idea di progresso, il significato di libertà: Emanuele Severino rilegge il saggio del pensatore francese uscito postumo in Italia

EmanueleSeverino(1929)ha insegnatoall’Universitàdi Venezia.È studiosodel pensierodi Heidegger

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Jacques Ellul(1912 –1994),sociologoe teologofrancese,autore di saggisu tecnologiae religione

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Neroriflesso

Un thriller avvincente.La Sardegna di Nero Di Giovanni

in una fitta trama di delitti, misteri ecomplotti che svela una storia italiana

di amara attualità.

Il Maestrale

Sabato 4 luglio�

Incontro conERRI DE LUCA

Dal 26 giugno al 27 settembre www.ravellofestival.com Box Office 089.858422

39Corriere della Sera Sabato 4 Luglio 2009

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Con un po’ di autoironia la IX edizione del Festival filosofiadi Modena, Carpi, Sassuolo — che viene presentato oggialla Stampa Estera di Roma — poteva essere dedicatoall’arte della spartizione dei poteri e non al vivere incomunità. A questa edizione, infatti, si arriva dopo unalunga controversia risolta attraverso una «salomonica»divisione di poteri. Sino all’anno scorso Michelina Borsari(nella foto), direttrice del Festival, era anche al vertice

scientifico della Fondazione Collegio San Carlo, di cui lakermesse era una espressione. Quando il presidente dellaFondazione, Franchini, ha indicato in Altini il nuovodirettore, il comitato scientifico del Festival è insorto. Dopouna complicata mediazione del sindaco di Modena, lasituazione si è conclusa con una divisione: la Fondazioneha varato la nomina di Altini, mentre per il festival è statoistituito un nuovo Consorzio fondato dai comuni di Modena,

Sassuolo e Carpi, al cui vertice direttivo è stata confermatala Borsari (Remo Bodei guida il comitato scientifico). Solocosì ha potuto prendere il via la IX edizione, in programmada venerdì 18 a domenica 20 settembre in oltre 40 luoghidelle tre città emiliane (130 mila presenze lo scorso anno),con 200 appuntamenti gratuiti, mostre, spettacoli, letture,iniziative per bambini e cene filosofiche.

Pierluigi Panza

Dopo le polemicheal Festival di Modenasi parla di «comunità»

O gni forma di pensiero e di azionehanno il loro fondamento inevitabi-le nella manifestazione del mondo,ossia nella manifestazione che inclu-

de sia i cosiddetti «fenomeni esterni» sia quel-li «interni». E, dopo le epoche guidate dal mi-to, la filosofia è stata sin dall’inizio l’interpretedell’originaria manifestazione del mondo. Que-sta interpretazione sta al fondamento della sto-ria dell’Occidente. Essa è la «scacchiera» dovesi giocano tutti i giochi di tale storia. Anche einnanzitutto per questo motivo, lungo la storiadell’Occidente, la filosofia ha reso possibile edeterminato la potenza, cioè l’agire dell’uomo:l’agire politico, morale, economico, artistico,religioso e dunque anche l’agire tecnico-scien-tifico.

Anche quando la scienza smentisce i conte-nuti della manifestazione del mondo — comead esempio con la teoria copernicana chesmentisce il moto apparente del sole —, lascienza deve presupporre tale manifestazione,ossia deve riconoscerne la ineliminabile esi-stenza e procedere sempre in relazione ad es-sa.

Ma per motivi che restano per lo più celatialla coscienza che il nostro tempo ha di se stes-so, il tramonto della concezione tradizionaledella «verità» è inevitabile. È quindi inevitabi-le anche il tramonto del senso tradizionale del-la «causalità». Ne viene che, anche all’internodel sapere scientifico, il rapporto causale nonpuò essere altro, ormai, che una regolarità em-pirica, una legge statistico-probabilistica. Adesempio, quando si sostiene che il cervello de-termina il funzionamento della mente, questatesi non può esser altro, ormai, che la registra-zione di certe concomitanze tra eventi cerebra-li e eventi psichici: non può essere altro, ap-punto, che una legge statistico-probabilistica:non può essere una verità necessaria. Questatesi è pertanto un’ipotesi sempre aperta a pos-

sibili smentite — anchese, certamente, consen-te di avere, su un certogruppo di fenomeni,una potenza molto piùgrande di quella che gliavversari delle neuro-scienze possono averesu tali fenomeni.

Quando la scienzaconcepisce la mente co-me effetto del cervello, eritiene che questo nessocausale sia necessario, si

muove ancora, dunque, all’interno della conce-zione filosofica tradizionale della verità. Anzi,il «riduzionismo» ha un carattere essenzial-mente teologico: la teologia riduce contraddit-toriamente il mondo a Dio (in quanto nel mon-do non può esserci nulla di cui Dio sia privo);analogamente, il riduzionismo, nell’ambitodelle neuroscienze, riduce contraddittoriamen-te la mente al cervello. Infatti, se si sostieneche nella mente non possa esserci nulla chenon sia già nel cervello, si nega contraddittoria-mente la differenza tra fenomeno cerebrale efenomeno mentale. E se si nega questa diffe-renza la «riduzione» della mente al cervello èimpossibile: appunto perché la «riduzione»implica la differenza tra ciò che è ridotto e ciòa cui lo si riduce.

D’altra parte, la «mente» di cui parlano leneuroscienze e la scienza in generale è un feno-meno particolare, ossia è una parte della mani-festazione del mondo — come sono una partedel mondo manifesto le funzioni cerebrali chele tecniche sempre più raffinate di visualizza-zione rendono accessibili. La manifestazionedel mondo è invece il tutto di cui anche i feno-meni scientifici, quelli mentali inclusi, vengo-no a far parte. E la manifestazione del mondoinclude ogni tempo.

Si può parlare di un inizio, di una fine del-l’universo e di un processo evolutivo dei viven-ti, solo se inizio, fine ed evoluzione in qualchemodo appaiono, si manifestano (sia pure all’in-terno o nella forma del linguaggio). E poichéla manifestazione del mondo può essere chia-mata la «mente originaria» — giacché il trattoessenziale della mente è il suo carattere mani-festante —, la mente originaria è la totalità che

non può diventare oggetto della riflessionescientifica, ossia della riflessione che si riferi-sce alle parti di tale totalità.

Capitalismo e democrazia si trovano su unpiano inclinato lungo il quale stanno scivolan-do insieme alle altre grandi forze della civiltàoccidentale — più o meno velocemente, conaccelerazioni e rallentamenti, e anche con risa-lite provvisorie e visibili, e comunque urtando-si e confliggendo tra loro. Lungo l’inclinazionedi questo piano il comunismo è già arrivato infondo, ossia è tramontato, e già prima di essoerano tramontate le forme «assolutistiche»dello Stato. Vanno verso il fondo anche le reli-gioni, sebbene questo sia per loro un tempo dirisalita — tuttavia incapace di impedire il cre-scente abbandono, da parte dei popoli ricchi,

della morale e in generale dei costumi della tra-dizione.

Come ho avuto occasione di dire altre volteanche su queste colonne, ciò che determinal’inclinazione di quel piano è la tecnica inquanto unita all’essenza vincente e nascostadella filosofia del nostro tempo. Accade cosìche il capitalismo, che assume la tecnica comemezzo, divenga esso il mezzo per realizzare loscopo che è proprio della tecnica: l’aumento in-definito della potenza. Ora, le forme della cri-minalità internazionale (ad esempio la mafia)sono possibili solo all’interno dell’economiacapitalistica, ma insieme la indeboliscono.Quindi la tecnica, diventando scopo del capita-lismo (e della democrazia eccetera), tende a di-struggere ciò che, come la mafia, indeboliscela potenza del mezzo. Lo stesso discorso si puòfare per le degenerazioni della democrazia. Inquesto senso, all’interno della storia dell’Occi-dente, la tecnica autenticamente intesa non èqualcosa di temibile, ma di auspicabile.

L’attuale crisi economica, per quanto graveed estesa, si produce dunque all’interno di unben più ampio e decisivo contesto. Le discipli-ne scientifiche che la prendono in considera-zione non possono coglierne il significato ap-propriato: sono forme della specializzazionescientifica, dove viene metodicamente isolatauna certa parte dal terreno in cui essa si trova eassume la configurazione che le compete. Mil-le occhi guardano qualcosa che quindi si pre-senta come mille cose — mille differenze.

La volontà isolante è antica come l’uomo,ma all’inizio dell’Occidente è apparsa una gran-diosa forma di sapere che ha tentato di esserela comprensione unitaria del tutto e della tota-lità delle conoscenze. La si è chiamata filoso-fia. Ed è ancora la filosofia a dare, nell’ultimafase del proprio sviluppo storico, la fondazio-ne e la giustificazione di quella forma di isola-mento in cui consiste la specializzazione scien-tifica — la quale non deve certo attendere que-sta fondazione e giustificazione per esistere, etuttavia, in loro assenza, non può replicare al-cunché alla critica, compiuta dalla tradizionefilosofica, di alterare il proprio contenuto pro-prio perché lo isola dal tutto in cui esso si tro-va. Distruggendo irreversibilmente il propriopassato, la filosofia ha fondato l’atteggiamento

isolante e quindi anche l’isolamento che costi-tuisce la specializzazione scientifica.

Eppure, al di là di tutto questo, è possibilemostrare, sia pure in prospettiva, il contestounitario di ciò che è disperso nella specializza-zione scientifica — e che peraltro, proprio pertale dispersione, è condizione essenziale della«effettiva» potenza della scienza e della tecni-ca. Ciò vuol dire che l’unità delle differenze —il pensiero che sta oltre la volontà isolante —può liberarsi dai limiti per i quali si è prodottoil fallimento della volontà unificante propriadella tradizione filosofica. È cioè possibileguardare al di là dell’opposizione tra tradizio-ne filosofica e distruzione filosofica di tale tra-dizione e, anzi, al di là dell’opposizione tra pas-sato e presente della civiltà occidentale.

OGGI LA PRESENTAZIONE

Cultura

Economia e politica:addio all’era delle certezze

Filosofia, la chiave per capire la crisiSeverino: «La tecnica non è un nemico, aiuta a correggere il sistema»

di EMANUELE SEVERINO

EmanueleSeverino(Brescia 1929),Accademico deiLincei,professoreemeritoall’Università diVenezia, è unodei massimifilosofi delnostro tempo.Ha scritto, tral’altro, perAdelphi: LaStrutturaoriginaria,Essenza delnichilismo, LaGloria,Oltrepassare.Da Rizzoli hapubblicato,dedicati aLeopardi: Il nullae la poesia eCosa arcana estupenda

Rebus

L’opera

Classico

EmanueleSeverino

Il confrontotra uomoe tecnicanel disegnodi RobertPastrana(Corbis),metaforadelle difficilisceltenecessarieper usciredell’attualecrisi, non soloeconomica

Esce oggi il libro di Emanuele Severino Democrazia,tecnica, capitalismo, pubblicato dall’editriceMorcelliana di Brescia (pp. 136, e 12).In esso il filosofo ha raccolto alcuni saggi dedicati allecause profonde che stanno alle origini dell’attuale crisieconomica: essa diventa comprensibile soltantoindagando situazioni e contesti ben più radicali diquelli analizzati da chi intende approfondire ilproblema con gli strumenti della specializzazionescientifica. Da un’esposizione del rapporto tracapitalismo e criminalità internazionale a una verificadel concetto di democrazia in John Rawls, da una criticadei modi deboli di liberarsi dal passato alla«destinazione della tecnica al dominio», EmanueleSeverino propone pagine edite e inedite (tra cui il«prospetto» di questo libro della Morcelliana) in unaconcezione unitaria che, peraltro, era già stata avviatain saggi quali Tendenze fondamentali del nostro tempo(Adelphi) e Téchne (Rizzoli).Per questa pagina, Emanuele Severino ha sceltopersonalmente i brani, li ha riscritti in taluni passaggi eha aggiunto una parte dedicata al problema della mafia.

Un classicodel pensierodi Severino è«Essenzadelnichilismo»,un testopubblicatoda Paideianel 1972 e insecondaedizione,ampliata,da Adelphinel 1982

L’autore

Idee Democrazia e capitalismo di fronte ai progressi del sapere scientifico e alle minacce del crimine organizzato

Giovedì 23 luglioCORAGGIO E PAURA

Incontro conVITTORIO GALLESE e DIOMIRA PETRELLI

Dal 26 giugno al 27 settembre www.ravellofestival.com Box Office 089.858422

IN LIBRERIA

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SAN PAOLO

35Corriere della Sera Martedì 21 Luglio 2009

Page 5: Fedeeragionesiinterrogano(esisfidano ... · Vincenzo Milanesi, il sindaco Flavio Zanonato e il preside della Facoltà Teologica del Triveneto Andrea Toniolo. La direzione scientifica

L’ «opera mia più per-fetta», da conser-varsi «per la scien-za dell’arte». Così

Beethoven definisce la Missasolemnis in Re maggiore che,concepita quale messa d’intro-nizzazione per l’arciduca Rodol-fo sulla cattedra vescovile del-l’allora Olmütz, non era meno-mamente pronta per il giornofatale. Il grande cuore dell’Ab-sburgo poco parve dolersene,sia per l’affetto per Beethovennutrito sia perché l’attendevauna porpora, della quale ebbeegli medesimo assai poco tem-po per godere. Non che il tem-po e la fatica profusi rappresen-tino di per sé un’indicazione divalore. La policromia e il modomiracoloso con che Beethovenserra infinite sezioni eteroge-nee per attaccarsi al singolosenso del testo, danno tuttaviagiustizia alle sue parole.

Sull’analisi formale e sull’er-meneutica s’accesero invece va-sti fronti dottrinarî, destinati atroppo durare. Sullo scompor-re Beethoven temi e motivi a

mo’ del la danza ( la Dur-chführung, lo Sviluppo) dice(diarî di Cosima), con straordi-naria sottigliezza Wagner: «Ilresultato affatto nuovo di que-sto procedimento fu dunqued’estendere la melodia, permezzo del ricco sviluppo deimotivi ch’essa contiene, fino afarne una composizione di va-ste dimensioni di notevole du-rata: tale composizione non èaltro che una sola e rigorosa-mente continua melodia». Digran lunga andrebbe continua-ta la citazione di Wagner, nonfosse che questa viene confuta-ta, pur adottandosene alcuni ar-gomenti in modo subrepticio,nello scorso secolo da uno deisaggi più noti di esso, Strania-mento di un capolavoro di Th.W. Adorno. Lo Scrittore non do-veva di per sé amare grande-mente la Missa: e ove Wagnerancora dice: «Ma un musicistaintelligente non avrebbe potu-to in alcun modo regolarsi cosìcon le parole d’un testo poeti-co-drammatico; giacché questedebbono offrire non tanto unsignificato di puro simbolo, mauna concatenazione logica de-

terminata» (e pensa ovviamen-te a sé), Adorno sostiene la tesiopposta, esser la Messa istruttasecondo uno stile unico nel-l’opera dell’Autore, lo sfuggirdi proposito la grande formasinfonica sostituendovi lascomposizione in parti brevi emai integrate in senso sinfoni-co, la «mancanza d’idee temati-che nettamente stagliate».«Escludendo il principio dellaSviluppo, Beethoven ha rinun-ciato nella Missa ai caratteristi-ci temi beethoveniani, sicchéin suo luogo troviamo uno "sco-timento caleidoscopico"».«Gl’incisi tematici non si muta-no con l’arco dinamico dellacomposizione, inesistente, masi affiacciano continuamente esempre identici in un’illumina-zione diversa» (horribile dic-tum).

Farò cosa ora del pessimo trai gusti, citare me stesso. In unmio saggio del 1983 sono riusci-to, con arte di accerchiamentomilitare, a confutare le basi stes-se dell’interpretazione di Ador-no. Adorno sconfitto da Isotta,diranno ridevolmente i più. Aparte che se leggessero ancheloro il mio saggio qualcosa purapprenderebbero, ecco una pro-va di come san Gennaro tratta isuoi adepti, consentendo lorocose affatto miracolose.

L’occasione per citar scritticosì lontani e da tutti obliati vie-ne dall’inaugurazione dellanuova, e ricchissima, stagioneconcertistica dell’Accademia diSanta Cecilia a Roma, ove laMessa è stata diretta da Anto-nio Pappano e i cori da NorbertBalatsch. Esecuzione disinvol-ta, troppo disinvolta; esecuzio-ne brillante, troppo brillante;esecuzione serrata, troppo ser-rata. Non v’era un filo d’ariache circolasse nella trama; la di-namica non era variata, ma sudi un perpetuo fortissimo; l’ef-fetto era quello di uno schiac-ciamento reciproco di cori e or-chestra fin quasi a produrreun’inintelligibile e troppo velo-ce (l’andamento dei Fugati edelle Fughe) corpo: Euforionedopo la caduta: che nuoce allafama d’uno dei direttori da medi più ammirati. C’erano statiJochum e Karajan, con le loroprospezioni gentili per l’Opera,indubbiammente, più difficiledi Beethoven: e il risultato con-seguito da ambedue porta anco-ra le lagrime sul ciclio asciutto.Un altro verrà. Non potrebbe,costui, esser lo stesso Pappanoqualora approfondisse le cono-scenza e l’interpretazione dellefibre del gran Monstrum?

© RIPRODUZIONE RISERVATA

«A ndai a trovarlo a casasua, in via Vivaio. Vo-levo salutarlo prima

che partisse per Londra, dove l’at-tendeva quell’intervento al cuoreche avrebbe dovuto risanarlo e cheinvece gli fu fatale. Come sempreparlammo di tutto ma capii che luiaveva qualcosa di urgente da dir-mi. "Gianni, te lo ripeto ancorauna volta, voglio iscrivermi al Pci".Paolo, gli risposi, adesso pensa astar bene, vatti a operare e quandotorni ne parliamo». Sono passati28 anni da quell’incontro, iniziomarzo 1981. E solo ora, in occasio-ne delle celebrazioni dei 90 annidalla nascita di Paolo Grassi, Gian-ni Cervetti, storico esponente delPci migliorista, oltre che presiden-

te della fondazione Verdi, rivelaquella svolta politica. Il giorno do-po il concerto-evento che l’altra se-ra ha visto all’Auditorium di Mila-no l’intervento in videoconferenzadel presidente Napolitano, Cervet-ti racconta com’era andata.

«Una scelta, quella di passaredal Psi al Pci, maturata non all’im-provviso, meditata per molti anni— prosegue Cervetti —. Con Paolo

eravamo amici di lungo corso. Cisiamo conosciuti negli anni ’60 alPiccolo, ci siamo subito intesi. An-davamo in vacanza insieme, adArenzano, dove lui e Nina Vinchiavevano una casetta. Nonostantemilitassimo in partiti diversi, era-vamo molto vicini su quasi tutto.Per me e per tanti altri compagnidel Pci lui era un fratello, lo abbia-mo sempre sostenuto, alla Scala,

alla Rai. Lui si definiva "socialistaunitario", "socialista proletario" oanche "socialcomunista", che era ilmodo di chiamare quelli di sini-stra dopo la guerra».

Eppure a un certo punto il socia-lismo, inteso nel senso del Psi,non lo convinse più. Come avven-ne quel distacco? «Credo che lamaggior delusione sia stata il man-cato appoggio del Psi alla sua ri-chiesta di una legge per trasforma-re la Scala in teatro di interesse na-zionale. Una battaglia che avevacondotto con la passione e la seve-rità di sempre, chiedendo in con-temporanea che quel titolo coinci-desse con una riduzione dei costie una sconfitta di un corporativi-smo interno assurdo. Ma, forseper timore di scontentare gli altrienti lirici, il suo partito non lo ap-

poggiò». D’altra parte il Psi in que-gli anni, a fine dei ’70, quando luise ne andò dalla Scala, stava cam-biando pelle. «Sì, ma la gestazionedella sua svolta risale ancora a pri-ma. Nel ’76, nello stesso giorno, il9 marzo, Paolo spedì due lettere.Una a Carlo Fontana, suo assisten-te alla Scala, l’altra a me. A Fonta-na scriveva: "Si vede che questalunga milizia (socialista, ndr) hada concludersi: è un matrimonioche si avvia verso il divorzio". Nella

mia ricordava "l’amicizia con moltidirigenti, la stima per la linea poli-tica e per il costume del Pci". Ecco,io credo che quel rigore per lui fos-se la condizione irrinunciabile».Fatto sta che nel ’79 Cervetti propo-se a Grassi di entrare nelle liste delPci, candidato al Senato. «Lui mirispose con una lettera in cui accet-tava. Da uomo di cultura qual eravoleva continuare a dare il suo con-tributo». Ma poi non se ne fecenulla. «Ragioni diplomatiche. Trail Pci e il Psi c’erano già tante ten-sioni. Candidare Grassi, nome sim-bolo del socialismo, poteva suona-re come una provocazione. Preoc-cupati, forse troppo, delle conse-guenze, gli preferimmo un altro».

Ventotto anni dopo, le dispiace?«Sì, la vivo come un atto mancato,il non aver realizzato un suo desi-derio. Un debito mai saldato conPaolo».

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Rivelazioni Gianni Cervetti, già dirigente comunista, racconta un colloquio e uno scambio epistolare con il sovrintendente della Scala prima della morte

E Paolo Grassi confessò: lascio i socialisti, voglio passare al Pci

L’appuntamento

L’intervento I nuovi scenari globali che si aprono al di là delle alleanze fra le grandi potenze

Perché l’incontro Europa-Russia va nella direzione giusta

Antonio Pappano a Santa Cecilia

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La sfida «glocale» dell’italiano

Oggi a Milanola replicadel «Requiem»

di EMANUELE SEVERINO

La Tecnica, un Superstatooltre i confini della politica

Elzeviro

Per Beethoven eragiusto definirlal’opera più perfetta

di GIUSEPPINA MANIN

Le ragioni

«S ono ben calibrati, i rap-porti che l’Italia ha conla Russia?» — si chiede-va qualche tempo fa, il

20 ottobre scorso precisamente, Fran-co Venturini sul «Corriere», prenden-do spunto dall’incontro di Berlusconie Putin a San Pietroburgo. Concordocon lui nel ritenerla «la domandachiave della nostra politica estera».Ma la sua risposta è negativa: man-cherebbero, quei rapporti, di «oppor-tunità e bilanciamento». Inopportu-no che un Paese come il nostro abbiala pretesa di fare da intermediario traStati Uniti e Russia, sbilanciandosi ec-cessivamente in favore di quest’ulti-ma e aprendo contenziosi con gli Sta-ti Uniti, come quello, ad esempio, re-lativo al gasdotto Nabucco, promos-so da Europa e Stati Uniti ma di fattoostacolato da Germania e Italia.

Tuttavia esiste, in Europa, un diret-torio: Inghilterra, Germania, Francia.L’Italia è tenuta fuori. Se non si rasse-gna, la mossa pressoché obbligatanon è forse stabilire rapporti privile-giati con Mosca, soprattutto nell’at-tuale fase filoamericana di quei treStati? Favorendo la presenza dellaRussia in Europa non si riduce forsela distanza tra i membri del diretto-rio e l’Italia? Per la politica estera ita-liana è meglio avere in mano una car-ta da giocare per riguadagnare terre-no in Europa, o evitare di correre ilrischio di sembrare "inopportuna"?

Questa mossa pressoché obbligatail centro-sinistra non ha potuto farla:non ha potuto fare quello che oggi ilcentro-destra invece può. Durante ilsuo ultimo governo, Prodi ha dichia-rato che un ingresso della Russia nel-

l’Unione Europea sarebbe stato asso-lutamente fuori luogo. Se avesse det-to l’opposto avrebbe dato corda all’ac-cusa, rivolta da Berlusconi al cen-tro-sinistra, di non essersi ancora li-berato dal comunismo. La Russia èpur sempre l’ex Unione Sovietica. In-vece il centrodestra può permettersidi sembrare filorusso. E lo fa conqualche ragione.

Ci si deve anche chiedere se queldirettorio (di cui l’Italia vorrebbe farparte) sia vantaggioso per l’Europa,cioè se sia compatibile con l’intento,ribadito recentemente dal presiden-te della Commissione Europea, di raf-forzare il più possibile il mercato uni-co europeo. Un obbiettivo certo irri-nunciabile. Tuttavia anche oggi è im-possibile per i popoli riuscire ad esse-re economicamente floridi se sonomilitarmente deboli. E questa è ap-punto la condizione in cui l’ Europaverrà a trovarsi anche quando saràuscita dalla crisi economica.

Oggi il mondo è un vulcano in eru-

zione. Troppo sconveniente far tortoa Obama credendo che egli vogliaper davvero arrivare al disarmo ato-mico totale. Come se in una città infe-stata da ladri e assassini si congedas-se la polizia e si togliessero le portealle case. L’Europa è senza porte esenza polizia. Con l’aggravante che ilpericolo maggiore non proviene daladri e assassini, ma dalla fame e dal-le ingiustizie sociali che pesano sugran parte dell’umanità — sì che, an-che quanto sarà ricca, l’Europa nonsolo continuerà ad esser debole, ma,come tutto il mondo ricco, non avrànemmeno la coscienza a posto. D’al-tra parte vorrà continuare a vivere.(Ai popoli non ha senso fare predi-che morali. Né a quelli sfruttati, nèagli sfruttatori). Ma come potrà vive-re se continuerà ad esser debole?

D’altra parte, la solidità economicaè essenziale all’Europa. Non solo per-ché il benessere è preferibile alla pe-nuria, ma perché la ricchezza è perl’Europa indispensabile per trattareda pari a pari con la Russia: in una

cooperazione dove l’Europa assicure-rebbe l’esistenza di un mercato fio-rente e la Russia avrebbe quella forzamilitare, e innanzitutto quell’arsena-le nucleare, senza di cui oggi nessu-na economia sana può sopravvivere.

Gli Stati Uniti di Bush solo a parolehanno trattato l’Europa da partner.Di fatto hanno agito come se essa fos-se un satellite. La stessa cosa avver-rebbe, e anche peggio, in un’apparen-te partnership tra la Russia e un’Euro-pa economicamente debole. Ma laRussia ha bisogno, molto più degliStati Uniti, di una economia europeain buona salute. È per questo che, sel’Europa non è destinata al declinoeconomico, la progressiva integrazio-ne di Europa e Russia è nell’«ordinedelle cose». Non certo perché sia nel-l’«ordine delle cose» che l’Europa di-venga un avversario degli Stati Uniti,ma perché la partnership tra Europae Russia, da un lato, e Stati Uniti dal-l’altro, sia reale e non apparente. Siaggiunga che se l’entrata della Tur-chia in Europa è una possibilità con-creta, questa entrata renderebbe piùequilibrato il rapporto demograficotra i Russi e gli attuali Europei.

Che nell’«ordine delle cose» ci siala progressiva integrazione di Europae Russia lo dicevo d’altronde ben pri-ma che tale integrazione diventassel’obiettivo sempre più esplicito dellapolitica estera dell’attuale governo dicentro-destra. Lo dicevo sin dagli ini-zi degli anni novanta, al tempo dellafine dell’Unione Sovietica (nel sestocapitolo de Il declino del capitalismo,pubblicato da Rizzoli nel 1993), e hopoi ripreso il concetto anche su que-ste colonne.

Ma, infine, ci si deve chiedere: Eu-ropa, Stati Uniti, Russia — e si ag-giungano Cina, India, Giappone, ecce-tera — riescono a scorgere il volto au-tentico dell’«ordine delle cose»? Essiagiscono ancora politicamente, cioècome Stati che nel loro fronteggiarsicredono di essere in grado di servirsidella potenza della Tecnica per farprevalere le loro rispettive forme sta-tuali. Non si rendono conto che le lo-ro tensioni e la loro elaborazione deiproblemi del mondo — le quali sonoperaltro l’insieme di eventi oggi piùvisibile — stanno diventando una lot-ta di retroguardia; che tuttavia è ne-cessaria proprio per andar oltre, nel-la direzione che vado da tempo indi-cando. Incomincia infatti ad affiorareil contrario di quanto essi credono:affiora che è la Tecnica, su cui si basala loro forza politica, economica e mi-litare, a servirsi sempre di più degliStati per accrescere la propria poten-za, non la loro. In questo processo,l’apparato scientifico-tecnologico sicostituisce come il Superstato che valasciandosi alle spalle la politica e loStato e i loro conflitti.

L’integrazione Europa-Russia, os-sia la riduzione delle autonomie sta-tuali, è un passo importante in que-sta direzione.

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di PAOLO ISOTTA

Dal «glocalismo» (unione di globalee locale) alle battaglie sull’inno diMameli, alle celebrazioni per i 150anni dell’Italia unita. Sono alcunidei temi che si toccheranno nellatavola rotonda su «Lingua italianatra federalismo e Unità d’Italia» inprogramma il 10 novembre a Roma,nelle sale del Campidoglio.Moderati dallo storico della lingua

Luca Serianni, studiosi ed esponentidelle istituzioni faranno il punto sulrapporto tra lingua e identitànazionale alla luce dei recentidibattiti sull’introduzione deldialetto nei programmi scolastici.Ad aprire il convegno saranno ilsindaco di Roma Gianni Alemannoe Bruno Bottai, presidente dellaSocietà Dante Alighieri.

Le celebrazioni

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Una scelta legata al costumepolitico del partito eal mancato riconoscimentonazionale del teatro milanese

MESSA SOLENNETROPPO DISINVOLTA

Il Requiem di Verdi eseguito l’altra sera all’Auditorium di Milanodall’Orchestra e Coro della Verdi diretti da Xian Zhang in memoriadi Paolo Grassi, sarà replicato oggi alle 16. Festeggiamenti per i 90dalla nascita anche a Martina Franca, città d’origine della suafamiglia, e naturalmente al Piccolo Teatro, dove domenica scorsasi è tenuta la lectio magistralis «Paolo Grassi operatore culturale»,relatore Carlo Fontana, introdotto da Sergio Escobar.

Paolo Grassi,nato nel 1919, èmorto nel 1981

31Terza PaginaCorriere della Sera Domenica 1 Novembre 2009

Page 6: Fedeeragionesiinterrogano(esisfidano ... · Vincenzo Milanesi, il sindaco Flavio Zanonato e il preside della Facoltà Teologica del Triveneto Andrea Toniolo. La direzione scientifica

N el 1915 Manuel deFalla compone Elamor brujo: «L’amo-re stregone», un bal-

letto gitano. L’affascinanteCandelas non riesce a conce-dersi a Carmelo perché il fanta-sma di un altro uomo da leiamato si intromette tra loro.Ella affida allora a un’altra gita-na il compito di attrarre a sél’amante d’oltretomba. Ungrappolo di sortilegi, dove lamorte vuole amare una vitache invece vuole amare un vi-vente, e riesce a trovare una vi-ta capace di farsi amare dallamorte. Chi ascolta questa mu-sica ne avverte il carattere tra-gico. Non è ironica: crede inciò che in essa prende voce. Ilsortilegio è la realtà. Ci si puòforse spiegare perché il cattoli-cissimo de Falla abbia sentitopoi il bisogno di scrivere laDanza sacrificale del fuocoper cacciare gli spiriti maligni.

Il maligno sta in tutti i prota-gonisti di El amor brujo, nel-l’atmosfera complessiva diquesta musica. O della musicain quanto tale? Lo sostenevaThomas Mann: il Doctor Fau-

stus, che vende l’anima al dia-volo per dominare il mondo, èl’essenza della musica (e del-l’anima tedesca). La musicavuole abolire il mondo creatoda Dio e sostituirlo con unonuovo. Un sortilegio più poten-te di quello divino. De Fallanon era forse credente in sen-so religioso perché aveva pau-ra della propria fede in ciò chela sua musica stregata riuscivaa mostrare?

L’amore stregone è il titolodel romanzo che Alberto Bevi-lacqua ha appena pubblicatoda Mondadori. La musica staal centro del racconto. E il rac-conto ha un andamento musi-cale. La raffinata potenza diqueste pagine resta in qualchemodo raddoppiata. Forti, an-che se ambigue, le simmetrietra L’amore stregone di Bevi-lacqua e El amor brujo di deFalla. Anche perché Dio, nel ro-manzo, è il suono di una cam-pana della cattedrale di San-t’Anastasia, a Zara, durante laguerra serbocroata, o il Re-quiem di Mozart: Dio è dacca-po la musica, mentre il Dio dide Falla è il rimedio contro lamusica, il riparo dal maligno.

Una delle due donne al cen-tro del romanzo è la figlia diun grande pianista. Dice a uncerto punto, dopo che il padrele ha svelato il mistero che cir-condava il proprio rapportocon la moglie, anche più affa-scinante e stregata di Cande-las: «A Madrid avevo pretesodi assistere al balletto di Ma-nuel de Falla... Non era stata lamusica ad attrarmi, né il mon-do gitano, e nemmeno le dan-ze e le canzoni. Piuttosto, laDanza sacrificale del fuoco,col potere purificatore dellafiamma che spazza via le sco-rie a cui gli uomini riduconola loro vita». Una musica cheprevale su un’altra musica. Unsortilegio purificatore che pre-vale su di un altro più tenebro-so. Ma pur sempre sortilegio,magia, volontà di potenza.

Più di quindici anni fa, or-mai, avevo proposto a Bevilac-qua di pensare che tutti i sorti-legi a cui l’artista può rivolger-si sono superati in potenza dal-la somma magia in cui l’arteconsiste. Mi riferivo al suo ro-manzo Un cuore magico (Mon-dadori, 1993). Anche ora direiche L’amore stregone non ètanto il contenuto evocato edescritto dal romanzo, ma èquesta stessa evocazione, que-sta descrizione stessa: è il ro-manzo stesso.

Agli albori dell’umanità, re-ligione e arte si confondono.Quando si separano, lo fannoperché ognuna delle due vuoldominare l’altra. E a lungo an-che l’arte rimane ancilla Domi-ni. Ma poi l’arte — anche il Re-quiem di Mozart, anche la Pas-sione secondo San Matteo diBach, anche la Divina Comme-dia — anticipa la critica filoso-fica della religione. Prima sicanta per lodare Dio; poi si lo-da Dio per cantare; infine sicanta perché il canto — l’amo-re stregone, appunto — rima-ne a contendersi con la tecni-ca, il compito di difendere l’uo-mo dal dolore e dalla morte. Ilfuoco della Danza sacrificale è«purificatore» perché è canta-to, danzato, è musica. In Uncuore magico, Bevilacqua scri-ve che «Dio altro non è che lapace della mente» ma, anchequi, la pace è l’immagine, ilcanto, la figura che rappresen-ta il dolore, la paura, la morte.La pace non è un semplice sta-to dell’anima, ma è l’immagi-ne di cui l’arte è l’evocazione.

Ma alla fine — torno a chie-dere a Bevilacqua — non si do-vrà guardare in faccia l’animacomune dell’arte e della tecni-ca? Cioè la volontà di potenza,divina o mondana che sia? Echieder conto della sua prete-sa di esaurire il senso dell’uo-mo?

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Classifiche I dieci migliori libri del 2009

Il nuovo Bevilacqua e il balletto di de Falla

«S garbi, l’altro» non è solo il titolodello spettacolo teatrale che ilVittorio nazionale ha portato inscena, ma anche quello di alcuni

suoi libri. Quelli in cui torna ad essere appassiona-to critico d’arte, osservatore un po’ flaneur allaBenjamin e un po’ guardiano delle memorie allaRuskin. Ed è proprio questo lo Sgarbi della guidad’autore L’Italia delle meraviglie. Una cartografiadel cuore (Bompiani, pp. 356, € 20).

È uno Sgarbi che propone itinerari del cuore eporta alla luce luoghi ignoti o aspetti particolari dicentri conosciuti. Ed è uno Sgarbi che si scaglianon solo contro la distruzione causata dal tempo (epassi) ai monumenti, ma anche contro quella cau-sata da ingenui o spregiudicati restauratori che,per conto di amministrazioni non avvedute, conti-nuano a imbrattare o a «far ritornare all’anticosplendore» opere preservate e rese affascinanti dal-la patina.

È un viaggio in un’Italia regional-federale (dalleAlpi a Salemi) fuori percorso, che dimostra comeanche nella località più piccola del nostro Paese,quasi casa per casa, si possa scoprire un tesoro d’ar-te. E che rivela come le «meraviglie» non corrispon-dano esattamente ai quadri o alle volte straridipin-te grazie ai soldi delle multinazionali. Anzi, unawarburghiana passione per il dettaglio consente discattare una radiografia di un’Italia salvata in quan-to ancora semisconosciuta.

Il luoghi e gli artisti investigati sono centinaia,con caratteristiche diverse ed epoche differenti.Possiamo per esemplificazione, però, evidenziarealcune predilezioni del cuore sgarbiano. Almenotre: la segnalazione di curiositas e reliquie di variluoghi, quasi un’Italia in formato Wunderkammerdiffusa; la presenza di architetture di grandi mae-stri in luoghi minori e l’individuazioni in piccolepinacoteche o chiese di tele sacre con figu-re ritratte in maniera non convenzionale.

Sul primo aspetto, le «curiose reliquie»,la guida ci porta a scoprire, ad esempio,che poco lontano da Mestre esiste un con-vento di monache di clausura che custodi-sce una delle più preziose icone di Costanti-nopoli, forse la Nicopeia, una coperta d’ar-gento tra le più grandi e raffinate che si co-noscono. Scopriamo che nella sacrestia del-la basilica di Santa Maria Assunta a Camo-gli esiste un reliquiario che contiene la testa di SanProspero sulla cui aureola si leggono il nome del-l’autore, Domenico de Ferrari, e la data, 1514. E sco-priamo stranezze di vari reliquiari.

L’architettura è opera collettiva, e spesso anche igrandi maestri hanno collaborato e realizzato ope-re in fasi oscure della loro vita. Individuarne alcuneè un altro filo della rete sentimentale tessuta daSgarbi sulla Penisola. E così si scopre o riscopre

che a San Lazzaro di Savena, in Emilia Romagna,sorge villa Boncompagni ora chiamata Barbieri, ungioiello dell’architetto-trattatista Vignola. A Macere-to, nelle Marche, c’è un piccolo capolavoro di archi-tettura bramantesca al quale sovrintese l’architettoFilippo Salvi ma che fu costruito dal luganese Batti-sta da Bissone negli anni Quaranta del Cinquecen-to. «Poche architetture come questa — sottolineaSgarbi — possono dirsi intimamente bramante-sche», quasi una esemplificazione dell’abaco rina-scimentale. E quando non sono i maestri, si posso-no scoprire «minori» di talento, come lo scultoreBeniamino Simoni ,autore delle splendide sculturelignee del Sacro Monte di Cerveno, di più vasta in-venzione di quelli noti di Varallo e Varese.

Veniamo, infine, all’individuazione di figure ri-tratte in maniera non convenzionale. A Casalmag-giore Parmigianino realizza alcuni dei suoi capola-vori: una Madonna con bambino, i santi Stefano eGiovanni Battista e il committente dove, caso raris-simo, la Madonna è più piccola dei santi. A Tossi-

gnano, borgo arroccato su una scogliera di gesso,nella chiesa di San Michele Arcangelo vi è la tavoladi una Madonna col bambino di sottile eleganza. Èdi scuola bolognese della metà del Trecento, ulti-mo periodo di Vitale da Bologna. Anche in questocaso la raffigurazione è anticonvenzionale: la posi-zione del bambino che volta le spalle alla Madon-na, con le braccia aperte verso l’invisibile, la rendecuriosa.

Concludiamo con un esempio di tesoro nasco-sto in una grande città. Entrando in uno studio alcivico 7 di piazza Borromeo a Milano si possono ve-dere affreschi dipinti verso il 1445-50, testimonian-za di pittura a soggetto profano anteriore alla Came-ra degli sposi di Mantegna. C’è l’episodio con il gio-co dei tarocchi, quello della palma e un terzo cheha un andamento narrativo diverso: donne raccoltee ordinate come nel corteo della regina di Saba. Èopera del cosiddetto Maestro dei Giochi Borromeo.Anche Milano ha tesori nascosti.

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Un parterre «eccellente»per il romanzo di Starnone

Elzeviro

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Il libro di VittorioSgarbi saràpresentato oggi aRoma, alle 18.30presso l’HotelMajestic, viaVeneto 50, daAntonio Gnoli eFolco Quilici

Il testo

Sgarbi: un viaggio tra i capolavori non «violentati» dai restauratori

«S alvatemi da MichikoKakutani», si lamentò

un esasperato Graham Greene,ansioso di sottrarsi a un incon-tro con la potente — e assai di-scussa — Michiko Kakutani,critico letterario di lunga datadel «New York Times». L’aned-doto è di un quarto di secolo fama nel frattempo, se possibile,la signora è diventata ancorapiù acida — e spesso incom-prensibile — nei suoi giudizi,mettendo nel tritacarne grandiautori (di recente: David FosterWallace, anche se ora che èmorto lei ha fatto retromarcia,e Jonathan Littell) e spesso esal-tando libri che ai colleghi sem-brano trascurabili.

Qualche settimana fa la si-gnora aveva accolto malissimosulle pagine del «New York Ti-mes» l’uscita del nuovo librodi Jonathan Lethem, ChronicCity, nel quale il bardo di Broo-klyn racconta invece una storiadi Manhattan, con il solito hu-mor e la consueta umanità. Lastroncatura parve tanto ingiu-stificata che il giornale arrivò apubblicare, pochi giorni dopo,un’altra recensione dello stes-so libro. Che invece lo elogiavacome un capolavoro.

Mossa che fece discutere gli

ambienti cultural-editorialiamericani e che parve delegitti-mare Kakutani, progressiva-mente relegata al ruolo di —per citare un attacco dell’estre-mamente politically incorrectNorman Mailer da lei spessosculacciato — «kamikaze»(Kakutani è di origine giappo-nese).

Ieri poi è stata diffusa (sunytimes.com e immediatamen-te inoltratissima via email tra

case editrici e critici america-ni) la lista dei dieci libri dell’an-no che verrà pubblicata sul nu-mero di domenica 13 dicembredella «New York Times BookReview», il supplemento libridel quotidiano. Chronic City èal secondo posto, dietro i rac-conti di Maile Meloy (Bothways is the only way I want it)e davanti a Lorrie Moore, Jea-nette Walls e Kate Walbert.

Matteo Persivale© RIPRODUZIONE RISERVATA

Kakutani stronca Lethemma il «Nyt» lo incorona

di EMANUELE SEVERINO

Prima si cantaper lodare Dio, poi siloda Dio per cantare,infine si canta perdifendersi dal dolore

di PIERLUIGI PANZA

Mauro Covacich, Valeria Parrella,Francesco Piccolo, Emanuele Treviun parterre di scrittori e criticiinterverrà oggi alla presentazionedel nuovo romanzo di DomenicoStarnone. L’autore (nella foto asinistra) — che dialogherà conWalter Siti dalle 18.30 nella sala

Cinema del palazzo Esposizioni di Roma — ha dapoco pubblicato Spavento (Einaudi, pp. 290, € 20). Èun romanzo sulla vecchiaia, la paura, la morte, il malecon le sue rituali, prosaiche necessità scrittodall’autore che nel 2001 ha vinto il premio Strega conVia Gemito (Feltrinelli).

Presentazione

Opere

SIMMETRIE TRA ARTISTISTREGATI DALLA MUSICA

Tesori salvati perché dimenticati

A sinistra: Parmigianino «Madonna con bambino, isanti Stefano e Giovanni Battista e il committente»di Casalmaggiore. In alto: Maestro dei GiochiBorromeo, Gioco dei tarocchi, affresco di piazzaBorromeo 7 a Milano. Qui sopra: Battista daBissone, santuario di Macereto, nelle Marche

AutoreJonathanLethem, 45anni, ha appenapubblicatonegli Stati Uniti«Chronic City»

Italia Una guida sentimentale tra quadri e monumenti meno noti, in cui il critico torna alle origini

51Terza PaginaCorriere della Sera Venerdì 4 Dicembre 2009

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Le scommesse di Bukowski

S tando al significato assunto storicamentedalla parola «Dio», esiste qualcosa di infini-tamente più «alto» di «Dio». Può il cristia-nesimo portarsi a questa «altezza»? Il

«Dio» storico, infatti, è una delle forme più radicalidella violenza, e la vicinanza tra Satana, che «è omi-cida sin dall’inizio», e Dio diventa inevitabile. Main quello stare infinitamente più «in alto» appareche la violenza e la morte sono già da sempre vinteanche se la fede nella loro esistenza domina il mon-do.

La violenza domina il mondo. Rende nemici sta-ti, etnie, famiglie, individui e l’individuo stesso ri-spetto a sé stesso. Il cristianesimo è una delle for-me più alte che l’uomo abbia evocato contro di es-sa. Tutte le grandi religioni hanno l’intento di te-nerla lontana. Parlano un linguaggio che i popolipossono capire. Ma soprattutto il cristianesimo si èconfrontato per due millenni con la filosofia. E in-fatti quale altro alleato le religioni hanno trovato,contro la violenza, oltre alla filosofia? La quale nonparla certo il linguaggio che la «gente» capisce, maè entrata nel sangue delle religioni, e poi di tutti igrandi eventi della storia europea: rinascimento earti, scienza moderna e diritto, rivoluzione france-se, capitalismo e comunismo. La filosofia si fa sen-tire come il vento a chi se ne sta in casa: attraversole porte, le finestre, i muri delle religioni. Stare al-l’aperto è difficile, perfino pericoloso. L’aperto met-te in discussione tutte le certezze di chi sta al chiu-so. Mette in discussione anche il senso della violen-za. Non certo per rimetterla in circolazione. La filo-sofia stende la mano alla coscienza religiosa, a quel-la cristiana in particolare, per portarla più in alto.

Si distingue la violenza dalla volontà. Esiste lavolontà buona, si dice: combatte quella cattiva che,essa sì, è violenza. La volontà non può esser messain discussione! E quand’anche lo fosse , dovremmostenderci per terra e non fare più nulla? Ma ancheper far questo occorre volerlo! E allora? Allora sipotrebbe incominciare a pensare che altro è voleresapendo che volere è peccare, è violenza, altro è vo-lere non sapendolo. Volere è peccato e violenza? Sì,è strano; ma si provi a prestare ascolto a cosa dicequel vento di cui si parlava qui sopra. Molte parolesfuggiranno, altre resteranno incomprensibili, an-che perché in casa, a volte, si fa molto rumore. Ilvento dice: «La violenza può esistere solo perché sicrede che il mondo sia disponibile alla volontà(umana o divina) di trasformarlo. Nel paradiso cri-stiano non c’è violenza, soprattutto perché l’Ordina-mento divino che vi regna è un sole immutabile,inviolabile, immodificabile. E nessuno dei beativuole trasformarlo. Ma si pensa a che significa latrasformazione delle cose e la conseguente decisio-ne di trasformarle? Significa che diventano altro daquello che sono. Il vivente diventa un morto, equando è diventato un morto, lì non c’è soltantoun morto, ma un vivente che è un morto. Perché

sia un morto, è necessario che esso sia, appunto,un vivente che ora è un morto, ossia che il mortosia il risultato di un morire e che il risultato sia,appunto, un vivente che è un morto, cioè un nonvivente. Che strano! Si diventa sospettosi quandosi sente parlare di una casa che non è una casa, diuna stella che non è una stella, di un albero chenon è un albero; ma non si prova nessun imbaraz-zo e si sta tranquilli (o meglio, si crede di esserlo)quando si sente dire che un vivente è un morto!Eppure la stessa follia è presente nel dire che unastella non è una stella e nel dire che un vivente è unmorto. La stessa follia, lo stesso errore, la stessa vio-lenza per cui qualcosa è reso altro da ciò che essoè, è separato da sé, squartato, e un pezzo del pro-prio cadavere (la stella) è reso identico all’altro pez-zo (la non stella)».

A questo punto, in casa qualcuno dirà infastidi-to di chiudere meglio porte e finestre, per non sen-tire questi discorsi, qualche altro dirà che essi sonproprio parole al vento. Che però, anche se non glisi bada più, continua a parlare. Così: «Gesù dice aiFarisei, che vogliono ucciderlo,che il loro padre è il diavolo,"che sin dall’inizio è stato omici-da e non è rimasto nella verità"(ille homicida erat ab inizio et inveritate non stetit, Gv.,8,40). In-fatti ha indotto i nostri progeni-tori al peccato, cioè ad essere "co-me Dio" (eritis sicut dii), e Dioha punito l’uomo consegnandolo alla morte. "Adopera di un uomo — dice Paolo (ad Romanos, 5,12) — entrò nel mondo il peccato, e ad opera delpeccato la morte". Ma ecco il centro di quanto vasoprattutto pensato, all’aperto: che non è che lamorte sia entrata nel mondo ad opera del peccato,ma, all’opposto, che il peccato è entrato nel mondoad opera della morte; e cioè che il vero peccato è lamorte. Vediamo».

«Nei Vangeli, la parola più usata per nominare ilpeccato è hamartìa, che innanzitutto significa "er-rore". Ma prima abbiamo sentito l’errore più radica-le, cioè la convinzione che le cose divengano altroda ciò che esse sono, e che, diventate altro, sonoaltro da sé. Diventando un morto, il vivo è un mor-to. E ogni diventar altro è un morire. Credere nel-l’esistenza della morte è credere che un vivo sia unmorto, cioè un non vivo; che la stella sia non stella,e così via per tutte le cose che la volontà vuole fardiventar altro da quello che sono, e che così vuoleperché, appunto, crede che possano diventar altro.Credere nell’esistenza della morte è l’errore estre-

mo, il peccato più profondo, più originale. Con lamorte il peccato entra nel mondo perché il veropeccato è la morte stessa, cioè la fede nella sua esi-stenza. È sul fondamento di questa fede si può deci-dere di uccidere».

Ma la filosofia ha un duplice volto. Uno guardala notte, l’altro il giorno. Il vento che sta parlando èil vento del giorno. «L’altro volto, mostrato dal po-polo greco — dice ancora il vento, se qualcuno èrimasto a sentirlo —, rende estremo l’errore più ra-dicale: crede di vedere che le cose diventando altroda sé, diventano nulla e da nulla che erano, diventa-no esseri. A ciò provvede la volontà di Dio e dell’uo-mo. L’errore estremo è credere che il nulla, diventa-to essere, sia essere, e che l’essere diventato nulla,sia nulla. Quando l’uomo vuole che l’uomo vadanel nulla è "omicida". Quando Adamo pecca è deici-da. Ed omicida è il diavolo che spinge l’uomo nellamorte. E Dio? Ma anche Dio non vuol forse creare ilmondo dal nulla, e annientarlo quando creerà "unnuovo cielo e una terra nuova?" (Apocalisse ,21).Non crede forse anche Dio nell’esistenza della mor-

te? E non è forse questo il sensooriginario dell’omicidio e dellaviolenza?».

«Se la follia estrema è credereche uomini e cose divengano nul-la e ne escano, e questa fede è ilvero peccato, l’essere è uccisoproprio dalla fede che esso diven-ga nulla. Sul fondamento di que-

sta fede, che è la violenza dell’enticidio, viene per-petrato l’omicidio autentico: si mette l’uomo (e lecose tutte) nel sepolcro del nulla, lo si fa diventareun nulla — lui, che è uomo e non un nulla —, lo siconsidera qualcosa che di per sé è un nulla. Poi sisolleva il coperchio del sepolcro, e, trovando un ca-davere, lo si "salva", prima creandolo dal nulla epoi liberandolo dalla morte, che però è la "morteeterna", non questa nostra morte, nella quale sicontinua a credere. Il cristianesimo vuole ridurre ilsuo Dio a un omicida? O non c’è forse qualcosa diinfinitamente più alto di ogni Dio, più alto della vo-lontà e della violenza?».

Il vento che si è fatto sentire viene dall’aperto, sidiceva prima. Solleva miriadi di problemi, ma pri-ma di giudicarlo vanità delle vanità, non ci si posso-no tappare le orecchie. Anche perché viene dal-l’aperto nel senso che sale dal più profondo di noistessi, dal profondo con cui crediamo di non avernulla a che fare, dal sottosuolo della casa in cui cichiudiamo e a cui riduciamo la nostra esistenza.

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No, Bukowski no. Azzeccare i cavalli vincenti (Feltrinelli, pp. 272,e 17, traduzione di Simona Viciani), una miscellanea di scrittid’ogni natura, si distingue nel mettere a nudo il retroterra

culturale ma anche umano di questo scrittore sopravvalutato ecomunque legato a una stagione, gli anni Settanta. Era un ribelle,Bukowski? Un bohémien? Ciò gli ha permesso guizzi di scritturasorprendenti. Ma, a leggerlo oggi in testi addirittura di poetica,essi erano una maschera. Invero è confuso: per lui Fiesta e Al di làdel fiume e tra gli alberi sono romanzi entrambi del tardoHemingway. Invero è banale: «Il pubblico appassionato d’arte è

sempre indecente. Ammira l’uomo più per il suo stile di vita che perle sue opere». Invero è stupidamente caustico: «Non pensavo cheun poeta (Kenneth Patchen) con problemi alla schiena meritassepiù di tutti gli altri che hanno problemi alla schiena». Invero èconvenzionale e borghese più dei borghesi da lui detestati: «Èproprio vero che la gente più si arricchisce, più diventa disumana».

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In Giappone è il bestseller del 2009. I due volumi del nuovoromanzo di Haruki Murakami, 1Q84, omaggio a GeorgeOrwell, è uscito in maggio e ha superato i due milioni dicopie (in Italia arriverà nel 2011 da Einaudi). È la prima volta,dal 1990, che un’opera letteraria arriva in vetta alla classifica.

La filosofia si allea con Dioe salva l’uomo dalla violenzaIl vento del pensiero e la coscienza cristiana contro la follia della volontà

di FRANCO CORDELLI

Cultura✒IN PAGINA

Scienze, arti, fedeTre giornidi discussioni

Murakami riconquista il Giappone

Sacro

La testimonianzadella fede dev’esserecoerente e credibileTalvolta coloro chepensano di esserecredenti si illudono

Camillo Ruini

di EMANUELE SEVERINO

Errori

Idee Alcune riflessioni sul tema del convegno promosso dal cardinale Camillo Ruini che si apre oggi a Roma

«La strage degliinnocenti», cappellanumero 11 del SacroMonte di Varallo(Vercelli). Le statuesono di GiacomoParacca di Valsoldadetto «il Bargnola»,di Michele Prestinarie di DomenicoAlfano e risalgono al1587-1595. La fotodi Andrea Samaritaniè tratta dal libro «Ilgran teatro delSacro Monte diVarallo» di GiovanniReale ed ElisabettaSgarbi (Bompiani,libro più dvd 48euro). Il complessoreligioso fu ideatodall’abateBernardino Caimi

Emanuele Severino partecipaal convegno internazionale«Dio oggi. Con lui o senzalui cambia tutto». Tre giornidi incontri, promossi dalComitato per il progettoculturale della Cei, cheiniziano questa mattina aRoma. La prima sessione,presieduta da AndreaRiccardi, è dedicata a «Il Diodella fede e della filosofia»(ore 15, auditoriumConciliazione): intervengonoil cardinale Camillo Ruini eRobert Spaemann. Alle 18 ladiscussione sarà su «Dio nelcinema e nella televisione»:tra i partecipanti anche AldoGrasso. Domani alle 9.30 laseconda sessione dedicata a«Il Dio della cultura e dellabellezza» è presieduta daLorenzo Ornaghi con ilcardinale Angelo Scola eRoger Scruton. La terzasessione, che inizia alle15.30, è invece dedicata a«Dio e le religioni»: presiedeFrancesco Botturi, con RémiBrague e Massimo Cacciari.Alle 18, all’hotel Columbussi parlerà di «Dio e laviolenza»: la discussioneprende spunto dal libro diSeverino, A Cesare e a Dio(Rizzoli). Intervengono, oltreallo stesso EmanueleSeverino, Luigi Cimmino,Angelo Panebianco edEugenia Scabini. Alle 19.30,all’auditorium, si discute di«Dio, la storia e la politica»con la partecipazione diErnesto Galli della Loggia. Lasessione conclusiva, sabatoalle 9 all’auditorium, èdedicata a «Dio e le scienze»:presiede Ugo Amaldi,partecipano Martin Nowak,George Coyne e Peter VanInwagen.

Appuntamenti

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Credere nell’esistenzadella morteè il peccato più profondo

Il filosofoEmanueleSeverinointerverràdomani alconvegno Cei

VeronaPalazzo della Gran Guardia, 27 novembre 2009 - 7 marzo 2010info e prenotazioni - www.corotverona.it - telefono 199199111

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45Corriere della Sera Giovedì 10 Dicembre 2009

Page 8: Fedeeragionesiinterrogano(esisfidano ... · Vincenzo Milanesi, il sindaco Flavio Zanonato e il preside della Facoltà Teologica del Triveneto Andrea Toniolo. La direzione scientifica

L o stupidario che sisfrena a ondate,con l’aggressivitàantironica della pe-

nuria mentale, registra unpaio di nuove opinioni. Os-servandole entomologica-mente non vedi che un po-co di vento che ha fame.

Deplorazioni strappave-sti per il risultato del refe-rendum svizzero sui mina-reti. Raramente un referen-dum svizzero viene notato,la partecipazione è bassa,le voci in campo fanno po-co rumore. Stavolta, ecomondiale. Ora, la confede-razione ospita già alcuniminareti (quattro, se nonsbaglio) e la domanda aglielettori era se costruirneancora. La risposta è stataun no al cinquantasetteper cento. Tutto elvetica-mente ben poco traumati-co. Invece, è saltata la san-tabarbara opinionale. L’Eu-ropa, che per le vittime cri-stiane in vari Orienti nonha mai emessogemiti, è corsasubito al soc-corso dei mina-reti virtuali,dei minareti fu-turi, affogatinei laghi sviz-zeri. Idem, equi sfioriamogli abissi di unoscuro sado-masochismoautopunitivo— il Vaticano.Quanto ai no-stri intellettua-li, abituali for-nicatori col Be-ne, e bravi, co-me sempre, asparare prediche control’intolleranza, il razzismo,la mentalità ossessiva delloscontro di civiltà. E Nazio-ni Unite... e cani randagiabbaianti... e associazioniagguerrite... e qua e là grin-te di minaccia... Tutto perquel fragile cinquantasetteche escluderebbe da un pa-esaggio senza pianure, tut-to alpestre, con qualchepalma soltanto dalle partidel lago Maggiore, l’assur-dità edilizia del minareto.

Vento che ha fame e per-dita crescente (lì vedo peri-colo al di là del caso in que-stione) della misura. E unOccidente, una Italia par-lante, una Italia predican-te, totalmente privi di quelminimo grano di saggezzache per lo più basta a spera-re di netto la ragione daldelirio dogmatizzante.

Un giro tra alcuni amicisu come — cittadini svizze-ri loro stessi — avrebberovotato: le risposte che hoavuto sono state dei pacati,

spontanei, per nulla xeno-fobici No ai minareti. Nes-sun leghismo tra loro! Nes-sun razzismo! Soltanto con-sapevolezza che un cittadi-no di libera repubblica, in-terpellato dal suo governo,vota come crede e non co-me vorrebbero i savonaro-leschi talebaneggianti eu-ro-italici ai quali sfuggedel tutto il senso delle pro-porzioni. Se vogliamo la-sciare islamizzare l’Europa(Claude Lévy-Strauss la ve-deva sopraggiungere e latemeva fin da quando scris-se «Tristes Tropiques»), ilvoto svizzero è un modestoostacolo. Ma è ugualmenteun segnale di cristiana e na-zionale refrattarietà.

L’altra grossa crepitazio-ne dell’idiozia è quella dicollocare, nel candore deltricolore patrio, una croce.Qui l’idiozia si colora diadulazione triviale (irricevi-bile per la Chiesa, cui sivuole ostentare il proprio

maxizelo) e diulteriore spre-gio, perché lageniale propo-sta viene dallaLega Nord chenelle sue festeceltiche e radu-ni insubri nonmanca di cal-pestare e bru-ciare bandieretricolori.

Dio mio, giàper quasi cen-to anni il sim-bolo nazionale(di origine, va-le ricordarlo,giacobina, illu-ministica e re-

pubblicano-rivoluzionaria,con addendi carbona-ri-massonici) è stato grava-to dalla croce di Savoia, in-congrua là come una scopausata su un altare — ma diradici cristiane, nel tricolo-re, neppure l’ombra! La cro-ce che propone la Lega èsoltanto un pretesto, abba-stanza cinico, di bestem-miare e di avvilire insieme,negli stadi come nelle mis-sioni militari, unità nazio-nale e croce, che l’aureoladi spes unica, in una Euro-pa che è un guazzabugliodi speranze, non circondapiù.

Nelle aule scolastiche, in-vece, vedrei bene una cro-ce antropomorfa assuntadai reperti archeologici del-la Francia di sud-ovest, sim-bolo sovraconfessionale diperduti catari e bogomili.L’uomo-croce vola più altodi un Dio crocifisso mate-rialmente, libera e non co-stringe.

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LONDRA — Serafina è una sedicenne viva-ce, curiosa e innamorata, ha una voce d’ange-lo ed è figlia della nobiltà milanese. Siamonel Rinascimento. Il padre soffoca le sue vi-gorose passioni consegnandola al monaste-ro di Santa Caterina a Ferrara. È una «dona-zione» ispirata dall’interesse personale, for-malmente il segno della riconoscenza chelui, signore e padrone prepotente, deve allacorte degli Estensi con la quale intrattieneimportanti rapporti d’affari.

Ma c’è anche dell’altro, un qualcosa chenon si può confessare ed è un banale, ipocri-ta e cinico calcolo terreno: al ricco lombardocosta meno imporre alla giovane il suppliziodel remoto isolamento anziché garantirle ladote per il matrimonio. Offrendola alla clau-sura, governata dalla intransigente badessa,imprigiona la ragazza in una ragnatela dimorbosità, di perversioni e di dolori laceran-ti. Non vi è rispetto da parte del genitore perla sorte dell’adolescente. È, questa, la condi-zione che migliaia di donne in età acerbacondividono, costrette a subire l’ordine, im-posto dalle famiglie, di scomparire nei luo-ghi della preghiera e della meditazione. Sera-fina non è l’unica a divorarsi nell’afflizione.Sono le vittime. I fantasmi di un lungo svolgi-mento della storia.

Panico, angoscia, malattie della mente e in-vidie rompono i silenzi delle celle occupatedalle benedettine, non vi è pietà per l’ultimanovizia strappata agli affetti e ai sogni nonancora adulti. È possibile nonaffondare nella disperazione enella solitudine? Avviene quasicinque secoli fa, nel 1570: il Con-cilio di Trento è passato da unpezzo e sulla Chiesa soffia il ven-to della controriforma. I dogmie i culti del cattolicesimo sonodecretati come infallibili, la dot-trina dei sacramenti è contrap-posta alle eresie scismatichedel luteranesimo e del calvinismo, l’autoritàdel successore di Pietro iscritta nel patrimo-nio di fede e nell’obbligo di obbedienza chevincola il credente. Ma, insieme, i vescovicompongono l’indice dei libri proibiti e delleazioni che discutono e incrinano la suprema-zia delle gerarchie ecclesiali, al pari dei loropronunciamenti: l’Inquisizione scatena glistrali dell’intolleranza e li trasforma in roghi,punizioni e condanne a morte.

Nei conventi cala il buio, i contatti conl’esterno sono annullati, si erigono altissimemura di cinta, le grate vengono poste alle fi-nestre, la riflessione diviene allucinazione.

La parola del Signore e la devozione sono loschermo dietro al quale si nascondono le vio-lenze psicologiche e fisiche. Le «visitazioni»degli ispettori vaticani sono improvvise e as-sumono la forma di minacce, di umiliazionie di vessazioni. Serafina soffre, si riscatta, lasua energia contagia, si ribella e si pente (machissà se per ragionata finzione), digiuna enon andiamo oltre perché il libro (Le notti alSanta Caterina, Neri Pozza, pagine 480, e 18)va letto e apprezzato perquello che è: un sofisticato ebellissimo romanzo storico(bestseller negli Usa e nel Re-gno Unito) di cui va dato me-rito a Sarah Dunant, docenteuniversitaria, studiosa ingle-se di Cambridge, con il gustodelle lettere e autrice di unatrilogia rinascimentale che èora all’ultimo atto dopo La cortigiana e Lanascita di Venere.

L’immaginazione può funzionare se è avvol-ta in un rigoroso contesto di eventi e di am-bienti: Sarah Dunant ha sposato la ricercascientifica alla fantasia e alla curiosità perso-nale, il risultato è che ci fa condividere (gran-de merito anche al traduttore Massimo Orte-lio) i patimenti della clausura rinascimentale.Per riuscirci ha compiuto alla fine l’unica e ri-gorosa operazione possibile: «Mi sono ritirata

per un po’ in un monastero di benedettine».Ha visto e partecipato alla loro vita, ha parlatocon le suore, si è confrontata, ne ha imparatoi linguaggi, ha seguito il filo delle tradizioni edei riti. E dentro la ricostruzione ha collocatoi suoi personaggi: Serafina, Emiliana, Chiara,Zuana, Benedicta, le converse e le novizie del«Santa Caterina», che non esiste a Ferrara,ma che è la raffigurazione realistica del con-vento cinquecentesco e seicentesco, sacra isti-

tuzione dove i turbamentifemminili nascondevano mi-steri. Sono tutte donne le «at-trici» perché di «questo uni-verso, i conventi delle suoreall’indomani del Concilio diTrento, si sa poco o nulla».Ombre del passato. «È ad es-se che ho dedicato il roman-zo e alla moltitudine di quelle

che hanno condiviso la loro sorte».Una sorte che una religiosa del monastero

dei Santi Nabore e Felice a Bologna descrissecon una lettera al Papa nel 1586. Frasi di pian-to e di desolazione, ricordate nella nota chechiude il romanzo Le notti al Santa Cateri-na: «Molte di noi sono rinchiuse a forza e pri-vate d’ogni contatto. Vivendo di stenti e ab-bandonate da tutti conosciamo solo l’infer-no, in questo mondo e in quello che verrà».

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C he cos’è? Lo si può chiamare un cal-cio? Sembra proprio di no: si dà un

calcio a un cane rabbioso; ma, allora,l’espressione di chi lo sferra è diversa. Èessa stessa rabbiosa, inferocita, violenta.E invece l’uomo della sta-zione III della Via Crucisnon esprime nulla di tut-to questo.

Ha in mano un basto-ne da lavori rurali o cam-pestri; come l’altro, unpoco dietro, alla sua de-stra, e anch’esso senzacopricapo.

Il viso ha l’indolenzaottusa e l’indifferenzadel contadino che staspingendo col piede,per farlo rialzare, un mu-lo che si sia accasciato esausto per terra.O una capra stramazzata. Può anche sem-brare che stiano vangando. O rimestandoun pastone per le bestie.

Stanno spingendo Gesù, caduto a terracon la sua croce. Anche qui, come nelle

altre «stazioni», Gesù è raffigurato in mo-do convenzionale: un’immagine che tentadi mostrare qualcosa che non solo non èuna bestia, ma è più che un uomo.

Di per sé, l’immagine è scontata; ma ilcontrasto con l’opaco e lento indaffararsidei due uomini è potente. Il sospetto chela convenzionalità della raffigurazionedel Cristo sia voluta, intenzionale, lascia ilposto alla certezza. L’animale — che inve-ce è un Dio — è condotto al macello.

La figura in secondo piano e quella sul-lo sfondo, a cavallo, più che l’aura degliarmigeri diffondono quella dei contadiniche stanno a guardare se le cose si stiano

facendo per bene.Tacciono tutti. Lo si

vede. La bocca è chiusacome quando si sta com-piendo un lavoro fatico-so che non si può evita-re e lo stesso peso dellaparola deve essere evita-to. Il Dio-bestia, a terracon la corda al collo, hala bocca socchiusa.

L’aspetto di questoDio ha dell’ordinario,del prevedibile, del-l’usuale, come la forma

di un calice messo sul tavolo di una tratto-ria.

Ma qui l’arte fa toccare l’assolutamenteinusuale e spaesante: il fondo del calice, ildolore bevuto fino all’ultima feccia.

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Discussioni sul referendum elvetico

La storia di Serafina, ispirata alla vita delle ragazze costrette alla clausura

Caduta del Muro di BerlinoBilancio storico vent’anni dopo

L’Altroparlante

La scrittriceinglese SarahDunant, nataa Londra nel1950.In alto, ungruppo disuore inconversazio-ne in undisegno deiprimidell’Ottocento

Esperienza

di EMANUELE SEVERINO

Arti Un film di Elisabetta Sgarbi sulla Via Crucis di Cerveno

L’assurdapropostaleghistadi modificareil tricolore

di GUIDO CERONETTI dal nostro corrispondente FABIO CAVALERA

Bestseller Sarah Dunant completa con «Le notti al Santa Caterina» la trilogia rinascimentale

Quella strada verso l’assoluto

Fondazione Craxi

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MINARETI SVIZZERI,STUPIDARIO EUROPEO

Autore

La scrittrice ingleseper rendere più realisticoil racconto ha vissutoin un monastero

Passioni e peccati in convento

Domani, alle 21, al Teatro Comunale diFerrara, sarà presentata «L’ultima sali-ta, la Via Crucis di Beniamino Simoni»un film (Betty wrong - Rai) di Elisabet-ta Sgarbi . Interverranno: Fabio Mango-lini, Gisberto Morselli, Vittorio Sgarbi,Franco Battiato, Tahar Ben Jelloun e Re-mo Bodei. Pubblichiamo una presenta-zione del filosofo Emanuele Severino.

«A vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino.Bilancio storico e mutamento dello scenariointernazionale». Questo il titolo della conferenzainternazionale organizzata dalla Fondazione Craxiche si tiene oggi a Milano dalle 15, in viaConfalonieri 38. Al convegno, dedicato allamemoria di Victor Zaslavsky, lo storico scomparsoil 26 novembre, partecipano Luciano Pellicani,Stéphane Courtois, monsignor Luigi Negri,Nikolaos Marantzidis, Silvio Pons, MassimoTeodori, Ugo Finetti. A conclusione, una tavolarotonda con Boris Biancheri, Stefania Craxi, PieroFassino, Roberto Formigoni e Piero Ostellino.

Beniamino Simoni, particolare della Viacrucis di Cerveno (foto A. Samaritani)

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31Terza PaginaCorriere della Sera Lunedì 14 Dicembre 2009