Fantasmi dell'Antropologia, di Michele Parodi

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I fantasmi dell’antropologia * di Michele Parodi ** L’identità si costruisce, come noto, su un rapporto dialettico tra interno ed esterno, si costruisce su una differenza, nello spazio instabile tra noi e gli altri, sui margini mutevoli di una frontiera (U. Fabietti, L’identità etnica). È su questo confine che nascono e proliferano una molteplicità di fenomeni complessi e variabili: storie di sincretismo culturale, di metamorfosi identitaria, di scambio economico, insieme a forme di segregazione, sfruttamento, manipolazione, ribellione ed espulsione. Tali fenomeni rivelano presenze paradossali in cui convivono strategie eterogenee. Manifestazioni ambigue in cui ciò che appare è il sintomo di un discorso traslato: terreno scivoloso fatto di apparenze, desideri, proiezioni, fantasmi. Scena immaginaria allo stesso tempo molto concreta, in cui il soggetto – sia egli l’antropologo e il colonizzatore, ma anche il nativo e il colonizzato o lo straniero, figure paradigmatiche che qui cercheremo di esplorare – è presente come protagonista e come osservatore. La ricerca antropologica si è dedicata allo studio dell’alterità. Non poteva che cadere nei tranelli che si nascondono nelle trame vischiose di un’attività costantemente esposta al rischio della frontiera. L’altro, catturato nelle reti di attribuzioni dell’etnografo, si è spesso dissolto in rappresentazioni caricaturali, svelando i dispositivi di un dominio nascosto dietro “una relazione tra uomini che si pretendeva «osservazione»” (R. Benedce, Trance e possessione in Africa). Dalla convivenza con i “limiti” delle identità, e da una difficile autocritica è nata una configurazione indeterminata della pratica antropologica, nella quale l’invisibile (una metodologia senza metodo) tenta di parlare con l’invisibile (i fantasmi che si nascondono dietro le nostre certezze, i pregiudizi dell’antropologo e dei suoi interlocutori). * Testo pubblicato in OT / Orbis Tertius, n. 1, a cura di Matteo Bonazzi e Francesco Cappa, Ed. Mimesis. ** Università degli Studi di Milano Bicocca. 1

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I fantasmi dell'antropologiadi Michele ParodiL'identita'  si costruisce, come noto, su un rapporto dialettico tra interno ed esterno, si costruisce su una differenza, nello spazio instabile tra noi e gli altri, sui margini mutevoli di una frontiera. E' su questo confine che nascono e proliferano una molteplicita'  di fenomeni complessi e variabili: storie di sincretismo culturale, di metamorfosi identitaria, di scambio economico, insieme a forme di segregazione, sfruttamento, manipolazione, ribellione ed espulsione.Riferimento bibliografico:I fantasmi dell’antropologia, in Fantasma, “OT / Orbis Tertius”, n. 1, 2008, pp. 119-135.

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I fantasmi dell’antropologia*

di Michele Parodi**

L’identità si costruisce, come noto, su un rapporto dialettico tra interno ed esterno, si costruisce su una differenza, nello spazio instabile tra noi e gli altri, sui margini mutevoli di una frontiera (U. Fabietti, L’identità etnica). È su questo confine che nascono e proliferano una molteplicità di fenomeni complessi e variabili: storie di sincretismo culturale, di metamorfosi identitaria, di scambio economico, insieme a forme di segregazione, sfruttamento, manipolazione, ribellione ed espulsione. Tali fenomeni rivelano presenze paradossali in cui convivono strategie eterogenee. Manifestazioni ambigue in cui ciò che appare è il sintomo di un discorso traslato: terreno scivoloso fatto di apparenze, desideri, proiezioni, fantasmi. Scena immaginaria allo stesso tempo molto concreta, in cui il soggetto – sia egli l’antropologo e il colonizzatore, ma anche il nativo e il colonizzato o lo straniero, figure paradigmatiche che qui cercheremo di esplorare – è presente come protagonista e come osservatore.

La ricerca antropologica si è dedicata allo studio dell’alterità. Non poteva che cadere nei tranelli che si nascondono nelle trame vischiose di un’attività costantemente esposta al rischio della frontiera. L’altro, catturato nelle reti di attribuzioni dell’etnografo, si è spesso dissolto in rappresentazioni caricaturali, svelando i dispositivi di un dominio nascosto dietro “una relazione tra uomini che si pretendeva «osservazione»” (R. Benedce, Trance e possessione in Africa). Dalla convivenza con i “limiti” delle identità, e da una difficile autocritica è nata una configurazione indeterminata della pratica antropologica, nella quale l’invisibile (una metodologia senza metodo) tenta di parlare con l’invisibile (i fantasmi che si nascondono dietro le nostre certezze, i pregiudizi dell’antropologo e dei suoi interlocutori).

Nel tentativo di scoprire la complessità e l’intreccio di queste figure spettrali, il nostro discorso si dipanerà dalle prime esibizioni dell’altro, iniziazioni all’alterità spesso già cariche di conseguenze e presagi, dove il “contatto” con l’altro avviene a distanza. Iniziazioni, dove un insieme sconnesso di aneddoti e frammenti del mondo reale, cose non viste di persona, ma sentite per una lunga trafila di intermediari, fornisce la base di un discorso privo di un referente più concreto. È su questi piani, su queste mediazioni che si creano invenzioni narrative che immaginando il passato e il futuro progettano nuove identità private e collettive.

Attività mimetiche dove l’incontro e l’intimità con l’altro, in quanto unilaterale, produce strane proliferazioni: scene ricomposte a piacimento, feticci in potere dei propri artefici. Si imita l’altro rappresentandolo o appropriandosi delle sue rappresentazioni.

Contatti a distanza

Nelle trasmissioni televisive globalizzate che raggiungono le località più remote, così come nelle rappresentazioni europee, molto più antiche, dei “selvaggi” delle americhe, prendono vita creature non pienamente visibili, oggetti d’“amore” malleabili perpetuamente disponibili nella forma mediata o immaginaria, fantasmi di luoghi lontani che spettatori e utenti diversi usano nei contesti specifici della loro ricezione.

* Testo pubblicato in OT / Orbis Tertius, n. 1, a cura di Matteo Bonazzi e Francesco Cappa, Ed. Mimesis.

** Università degli Studi di Milano Bicocca.

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Scene immaginarie intimamente collegate al desiderio e al contempo alla sua negazione (il divieto), luogo di processi difensivi per lo più primitivi, come la proiezione e l’identificazione e la conversione nell’opposto. Ciò nondimeno, tattiche, strategie, risorse pragmatiche con cui affrontare la realtà di conflitti concreti e quotidiani. Il luogo dell’altro assente si configura come spazio polemico propizio dove sviluppare offensive indirette a bersagli vicini, proiettando sull’altro lontano un contenuto che, al contrario, si intende trasmettere nel luogo più prossimo della propria esperienza.

In questo campo retorico e sintomatico, l’altro diviene il campione innocente di una contesa locale – più “oggettivo” in quanto neutrale. Così, le visioni mediatiche dell’occidente contemporaneo, nell’immaginazione migratoria di molti giovani che abitano le zone periferiche del sistema e dei flussi globali, funzionano come risorse simboliche con cui criticare l’egemonia tradizionale delle istituzioni locali1. Astuzie opportuniste non molto diverse da quelle della borghesia intellettuale nella Francia del XVIII secolo, dove l’invenzione del buon selvaggio era una risorsa politica importante nella disputa di potere con l’aristocrazia nobiliare ed ecclesiastica. Esempi che illustrano principi strutturali che sopravvivono, al di là delle epoche e dei luoghi, nelle pratiche discorsive dei protagonisti di conflitti asimmetrici, prendendo forme a noi consuete o esotiche.

I riti di possessione e i rituali divinatori presentano una logica simile: lo spirito è invocato per enunciare ciò che altrimenti non si potrebbe rivelare. L’individuo posseduto parla con la voce di un altro: “fantasmi”, voci di un diverso sistema di riferimento. Il messaggio a volte può essere criptato in modo che anche il destinatario sia esentato da una assunzione senza mediazioni del suo senso. Si tratta di strategie comunicative che allo stesso tempo configurano un culto religioso, un rituale terapeutico, un discorso politico e una pratica di resistenza culturale (Beneduce, op. cit.). Le medicine magico religiose e lo sciamanismo trasformano la malattia (sociale, psicologica e incorporata), in quanto assenza di comunicazione, in struttura di comunicazione guidata dal linguaggio degli dei.

Anche i culti del “cargo” della Melanesia forniscono un esempio di questa dialettica. Le navi mercantili che agli inizi del XX secolo arrivavano cariche di merci nei porti delle isole dell’arcipelago, provenivano da regioni sconosciute ai melanesiani. Ai loro occhi i coloni europei che abitavano le isole si impossessavano magicamente di questi beni scambiandoli con denaro. Secondo Worsley (La tromba suonerà, 1957), il processo con cui avevano origine i culti del cargo presentava delle fasi tipiche. In un primo tempo gli europei erano trattati come spiriti propizi che apportavano doni, antenati mitici tornati a vivere con il loro popolo. Gli indigeni ben presto si accorgevano che per accedere a questi doni, al contrario dei bianchi, erano costretti a compiere un lavoro reale e gravoso. Per ottenere gli oggetti senza fatica gli indigeni tentavano allora di scoprire il sapere segreto dei bianchi. Il depositario di questo sapere sembrava essere la religione cristiana, perciò gli indigeni si convertivano nelle missioni. Dopo qualche anno sorgeva il malcontento e la disillusione poiché la “fede” non procurava alcuna ricompensa materiale. Infine i nuovi proseliti si allontanavano dalle missioni creando i propri culti millenaristi sulla base di un insieme sincretico di dogmi cristiani e indigeni. Un profeta annunciava il rovesciamento completo dell’ordine sociale: arriveranno dei liberatori portando con sé dei beni materiali fortemente desiderati dalla popolazione. Per prepararsi al grande giorno i seguaci del culto si organizzavano creando nuove insegne, nuovi vestiti, nuovi codici morali o legali. Fabbricando aree di atterraggio, ricoveri e

1 Per una analisi del contesto africano vedi ad esempio Deborah Durham, Youth and the social imagination in Africa, “Anthropological Quarterly”, 73(3), 2000.

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magazzini per accogliere le merci. Immagini, copie della potenza occidentale. Simulacri con cui accogliere i fantasmi della grande nave guidata dagli spiriti dei morti ancestrali2.

Se in Voltaire e Rousseau l’idealizzazione del selvaggio rappresenta un’evasione e una soluzione posta sul terreno politico-sociale inerente al mondo occidentale, i culti del cargo ugualmente risolvono un problema politico indigeno usando i magici messaggeri della civiltà occidentale per immaginare una rigenerazione del mondo. Tentativo di modificare l’enigmatico ordine sociale introdotto dai bianchi organizzando forme di resistenza apparentemente regressive e fittizie, ma al contrario capaci alle volte di generare movimenti politici in grado di fare e rifare la storia nazionale di questi arcipelaghi.

Ma l’europeo nel contesto coloniale, come vedremo più avanti, rivela una configurazione più oscura, presente e assente al medesimo tempo, minaccia prossima e quotidiana la cui potenza si iscrive in territori lontani e misteriosi.

Faith47, Africa del Sud 2002

Proiezioni

Se l’altro assente è buono da pensare per fronteggiare una contesa interna, allo stesso tempo, performativamente, questa mossa polemica fa ricadere su di esso la responsabilità dell’affermazione. Tecnica millenaria di lanciare il sasso e nascondere la mano. Strategia che assegnando la “colpa” a colui che non può replicare contiene implicitamente altre inversioni. L’altro assente, vittima eternamente disponibile, fantasma infinitamente trapassabile, diviene oggetto di una pratica persecutoria che prefigura e prepara la possibilità compiuta di un incontro e di una conquista.

Lo stesso linguaggio che aveva raffigurato la grazia incontaminata dell’indigeno del Brasile o delle Antille può diventare allora tagliente come una ghigliottina. Non a caso, è un altro francese, Montesquieu, tra i protagonisti dell’“esecuzione sommaria” del “nero” dell’Africa. Nello Spirito delle leggi, afferma senza esitazioni: “È impensabile per noi supporre che essi siano uomini, perché, se li supponessimo tali, si potrebbe cominciare a credere che noi stessi non siamo cristiani” (De l’esprit des lois, 1748). La bocca che bacia il selvaggio delle americhe è qui la stessa che nega l’umanità del “negro”, tramutandolo in una figura deforme capace delle peggiori atrocità. Il fantasma delle barbarie che si è sul punto di rendere possibili è proiettato sulle future vittime. Profezia che parla dei suoi autori (gli ideologi europei), più che dei soggetti a cui

2 Le culture melanesiane associano la morte ad un viaggio al di la del mare. I culti del cargo profetizzano il ritorno delle anime dei morti da oltre l’orizzonte sulla grande nave.

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attribuisce una violenza selvaggia. In questa operazione si realizza un doppio disconoscimento: dell’altro, sottomesso e occultato dal meccanismo proiettivo, e del proprio sé, che nelle rappresentazioni dell’altro non sa riconoscersi. Il dubbio ancora vago, circa l’origine di queste immagini, affiora però proprio nelle ambivalenze dei testi degli utopisti-romanzieri francesi, o nei generi intimamente ibridi dei romanzi di Aphra Behn e di Daniel Defoe, dove realtà e finzione, attendibilità e sensazionalismo convivono, come in Robinson Crusoe, nelle strane forme di memorie ispirate a fatti realmente accaduti ma raccontate da falsi testimoni. Dubbi, inquietudini che domanderanno ai colonizzatori, dopo l’assoggettamento delle popolazioni indigene, continue prove della imparzialità e giustizia delle proprie illusioni. È lo specchio coloniale, di cui parla Michael Taussig (M. Taussig, Cultura del terrore – spazio di morte), che riflette sui colonizzatori la propria immagine. Ciò che l'ideologia coloniale attribuisce all'altro è il riflesso degli atti che essa consente e genera. Proiezioni di un rimosso fatale che scavalcando astutamente i meccanismi difensivi che regolano l’inconscio politico occidentale, incarnandosi in un oggetto (il selvaggio), può, imitando la sua creazione (le barbarie del selvaggio), realizzarsi integralmente.

Strane corrispondenze legano la violenza dei colonizzatori a quella dei sovrani locali in Africa equatoriale. L’efferatezza di entrambi sembra erompere dalla paura, da fraintendimenti preoccupati carichi di nervosismo e da un potere assoluto che freneticamente cerca di nascondere la propria origine e la propria inefficacia. Nel 1897, fu massacrata una missione di spionaggio ordinata dal Console britannico del “Niger Coast Protectorate” James R. Phillips allo scopo di sondare le forze militari del re del Benin. Una spedizione punitiva fu rapidamente inviata con l’obiettivo di saccheggiare e radere al suolo la capitale del regno. Entrando nella città le truppe coloniali si trovarono di fronte ad uno spettacolo raccapricciante: un grande numero di corpi di schiavi e prigionieri sacrificati. Estremo tentativo organizzato dalla corte dell’Oba e dai suoi sacerdoti di proteggersi dalla potenza incontrollabile e minacciosa delle forze coloniali. Tale spettacolo divenne il soggetto di molti reportage nei giornali dell’epoca e “Great Benin” fu proclamata “the City of Blood”. Dieci anni più tardi la pubblicazione delle foto della città assicurarono che le memorie di tale evento rimanessero vive molto a lungo nei ricordi dei lettori inglesi, giustificando altre azioni punitive e altre atrocità. Nel 1909 Sir Ralph Moor, uno dei principali sostenitori dell’intervento armato contro l’Oba del Benin, negli anni del saccheggio “Commander of the Niger Coast Protectorate Force” e successivamente “High Commissioner for Southern Nigeria”, si suicidò all’età di 49 anni nella sua casa di Londra.3

Incontri asimmetrici

È la figura dello straniero che meglio rappresenta l’ambiguità dell’incontro. Secondo Simmel (Soziologie, 1908) lo straniero è colui che a differenza del viandante “oggi viene e domani resta”. Colui che entra in contatto sociale permanente (o perlomeno di lunga durata) con un gruppo a cui non appartiene dall’inizio e in cui introduce caratteristiche che gli sono estranee. Lo straniero è vicino e lontano: incluso spazialmente nei confini da cui non può essere escluso gratuitamente, al medesimo tempo, in quanto isolato in una posizione marginale, estromesso dalle posizioni tradizionali più importanti. Lo straniero come il povero, come tutta una varietà di «nemici interni», è un elemento del gruppo, ma la posizione che assume come suo membro effettivo coinvolge una sospetta relazione esterna/frontale (id.). Lo straniero occupa a volte i luoghi del comando, come giudice super partes, perfino come sovrano, ma sempre in una condizione di subordinazione, dove l’autorità che gli è assegnata può

3 Per una analisi critica di questo episodio vedi Home R., City of Blood Revisited. A New Look at the Benin Expedition of 1897, Rex Collings, Londra, 1982.

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essere ad ogni momento revocata. Molti racconti, a metà strada tra mitologia e storia, narrano in Africa sub-sahariana simili eventi: l’intronazione di uno straniero e la sua successiva uccisione. L’assemblea degli anziani, dei sacerdoti, la società stessa (P. Clastres), nelle cerimonie di successione, metterà a morte il re “outsider”. Il capo “prigioniero del gruppo”, ancora in vita e nell’esercizio delle proprie funzioni, sarà sacrificato ritualmente (di principio), affermando la supremazia del potere sull’evento e sull’individuo (sulla malattia, sulla morte, sulla sconfitta, sul semplice decadere delle forze del re). Allo stesso tempo è la violenza del sovrano dispotico ad essere espulsa in queste pratiche rituali, assegnando implicitamente al fuori – al divino (al re sacro), o all’esterno spaziale (al re alieno) – il male necessario incarnato dal tiranno (M. Augé, Pouvoirs de vie, pouvoirs de mort).

Lo straniero vive così una situazione precaria in cui la sua valorizzazione come mediatore con l’esterno nasconde la possibilità latente dell’inversione di questa relazione: lo straniero, come l’odierno immigrato, è integrato nel sociale in modo che dall’interno sia possibile la sua espulsione come vittima. Capro espiatorio allevato in seno ad una comunità, lo straniero, in questo senso, è un morto vivente, figura liminare anch’essa spettrale. Germe che deve essere immesso nella società per attivare le sue difese latenti e saldare la coesione del gruppo secondo una pratica omeopatica di protezione. Lo straniero immunizza il corpo sociale contro i pericoli di una destrutturazione interna e i rischi di una aggressione dall’esterno. Come le immagini esotiche del buon selvaggio, lo straniero diviene qui mediatore non dell’interno con l’esterno, ma dell’interno con l’interno medesimo.4

Ciò che qui diventa spettrale però non è più una mera rappresentazione – di per sé, nella plasticità dei significati, sempre sfuggente – ma un corpo e un soggetto vivo, incluso in un mondo di rapporti concreti, che così perde una parte della sua sostanza. Ciclicamente avviene la mattanza: piccoli o grandi genocidi, espulsioni in massa, criminalizzazione generalizzata del diverso. Poi lentamente il “di fuori” e l’insolito vengono reintrodotti a basse dosi nel gruppo.

Tali fenomeni si realizzano a partire da una fondamentale asimmetria di potere. Beneduce, riferendosi al complesso insieme di attese e reciproci malintesi che si generano nei rapporti con l’alterità, parla di “coercizione mimetica” (Beneduce, op. cit.). È del resto una radicale sproporzione di forze che permette altre manifestazioni patologiche. Decisiva non è solo la posizione eccentrica dello straniero, ma la sua forza o la sua debolezza economica e militare, e l’adeguatezza del suo capitale culturale nel contesto del suo approdo. Così capita che il nativo rispetto al colonizzatore goda di una condizione simile a quella, più attuale, dell’immigrato clandestino rispetto agli abitanti e alle istituzioni dei paesi in cui sbarca. Anche la terminologia qui si complica e diventa ambigua.

Se l’altro, straniero o nativo, genera un effetto di rispecchiamento nel gruppo a cui si oppone e che incontra – lo stimola a riconoscere il carattere etnocentrico del proprio sguardo e prospetta la possibilità di un cambiamento – può anche diventare il banco di prova dove il gruppo è in grado di sperimentare la propria potenza e i propri limiti. Esperienza, quest’ultima, creativa e dialettica nel caso la resistenza di ciò che è esterno costringa ad una mediazione, ad un confronto e quindi ad uno scambio. Ma quando le forze in campo sono radicalmente squilibrate la relazione si irrigidisce in una totalità chiusa e solitaria. Al più forte è consentito imporre su una realtà resa docile il segno di una volontà assoluta che naturalizza i risultati della sua applicazione.

4 Per un approfondimento teorico ed etnografico vedi Lorenzo d’Angelo, Bisogna difendere la metropoli milanese. Biopolitica di uno sgombero, “Achab”, n. 8, 2006.

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Prendiamo come esempio la condizione del colono africano descritta da Mbembe (Mbembe, Postcolonialism)5. La colonia è anzitutto “un labirinto di forze in azione” dove “l’uso della violenza è demandato a persone in carne ed ossa”, e “giustificato da un vero e proprio immaginario” (202-203): una cultura, una prassi sociale che fa del suddito della colonia non molto più di una “semplice parvenza”. Ma il colono ha anche un corpo che il colonizzatore può “prendere, molestare, rinchiudere”. Egli può “costringere il nativo ai lavori forzati, imporgli tasse o farne carne da cannone”, può requisirlo “per servire i cibi in tavola, prenderlo a spintoni, stenderlo sulla schiena o sul fianco, fustigarlo, renderlo esausto, impiccarlo in pubblico…” (218). Il nativo, prosegue Mbembe, è colui che “rende possibile il costituirsi del colonizzatore come soggetto per eccellenza… Per poter esistere, il colonizzatore, ha bisogno costante del nativo, inteso come animale grazie al quale alimentare la propria coscienza di sé”. Da un lato si appropria del “potere di tratteggiare il reale come vuoto o irreale”; dall’altro, della forza di far sì che “ogni cosa rappresentata o rappresentabile sia possibile e realizzabile” (220).

Il nativo conferma al colonizzatore la sua capacità di agire ai tropici, territorio ostile in cui la sua presenza continuamente vacilla. Febbricitante, spossato, soggetto a nausea, dolori reumatici, tremiti, dissenteria, il colonizzatore, non meno del nativo schiavizzato, è una sorta di zombi: di lui non si può dire se è ancora vivo o è morto. Lo smarrimento di cui è preda, l’incertezza della sua condizione, lo costringono a produrre continuamente le prove della sua esistenza. Lo spaesamento dello straniero qui si accoppia all’onnipotenza del colonizzatore, favorendo forme di regressione in cui il proprio sé e quello dell’altro tornano a confondersi. Come il bambino che costruisce e distrugge castelli di sabbia, e realizza in questa operazione un intimo piacere, così il colonizzatore nelle sue attività frenetiche soddisfa un bisogno fondamentale. La convivenza quotidiana con ciò che gli si oppone come incomprensibile, non agibile, incontrollabile, rende necessario al colonizzatore in Africa dotarsi di surrogati, semi-oggetti, specie di enti transizionali manipolabili a piacimento, ma dotati, allo stesso tempo, di vita propria. Persa la certezza quotidiana e rassicurante dei propri riferimenti culturali e sociali, il colonizzatore vive una condizione di frustrazione generalizzata che attenua formulando nuove illusioni: ibridi, tra realtà e immaginazione, in grado di porre una resistenza, sostanze su cui è possibile operare. Il contesto della colonia è propizio. Il colonizzatore sviluppa “una soggettività priva di limiti”, assoluta, “che tuttavia per sperimentare tale assoluto, deve costantemente manifestarlo a se stessa creando, distruggendo e desiderando la cosa e l’animale che ha precedentemente chiamato ad esistere” (Mbembe: 222). Queste pratiche mortifere sono costantemente esibite dal colonizzatore ai suoi complici, in un gioco di specchi in cui il superiore conferma all’inferiore in grado (e viceversa) la legittimità e la naturalezza delle azioni irragionevoli che entrambi propagano nella colonia. Modelli di intimità – del colonizzatore con il nativo e del colonizzatore con il colonizzatore – caratteristici dei rapporti che si generano quando l’incontro con l’alterità avviene senza mediazioni e senza reciprocità.

Il colonizzatore delle zone più inospitali dell’Africa equatoriale ad un certo punto tornerà in patria, così ritrovando la “meritata” pace interiore (seppur a volte percorsa da incubi), o infine morirà prematuramente sul campo di questa guerra fantastica, ma il colono e lo schiavo, al contrario, perdureranno indefinitamente nella loro condizione allucinatoria, almeno fino a quando, fuggitivi nella foresta, nei quilombos6, liberati da forme consentite di emancipazione e socializzazione, troveranno altri compagni con cui

5 Le citazioni che seguono sono prese dalla traduzione italiana: Postcolonialismo, Meltemi, 2005.6 Comunità di schiavi fuggiti nel Brasile coloniale.

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ricostruire una società e preparare, nel segreto, la rivolta, o, complici dei loro aguzzini, sperimenteranno nuove forme di ascesa sociale.

Lo statuto spettrale del colono africano, la coscienza della sua esistenza fantasmatica inscritta nella memoria incorporata nei traumi della colonizzazione e del lavoro forzato, sembra prolungarsi nell’africa post-coloniale. Dopo la fine della colonia i fantasmi non svaniscono, anzi si moltiplicano in una varietà di forme. L’economia liberale che sostituisce il regime coloniale non è meno incomprensibile e aleatoria della violenza coloniale. Del resto il dominio coloniale perdura nella post-colonia attraverso forme di controllo indiretto che usano opportuni mediatori politici, economici e militari collusi con gli agenti dei paesi occidentali, per mantenere lo status quo.

Come nei culti del cargo, per spiegare l’improvvisa ricchezza di alcuni e l’estrema povertà dei molti, la variabilità delirante dei prezzi e dei salari, si ricorre agli spiriti e alle accuse di stregoneria. Fantasmi, zombi, figure esili e inconsistenti tornano così a popolare le strade ora asfaltate delle città e i sentieri delle campagne africane. Una infinità di varianti regionali raccontano la medesima storia: un uomo, per mezzo degli incantesimi realizzati da un vicino, da un bianco, a volte da un parente, è derubato della sua identità, ipnotizzato e obbligato a lavorare durante la notte per il suo artefice. A volte è ucciso e trasformato in uno zombi. A volte di giorno riprende coscienza, lo si riconosce camminare confuso, esausto alle prime luci dell’alba, “part-time zombi” (Comaroff & Comaroff, Occult economies and the violence of abstraction). A volte è riposto in un guardaroba, avvolto in un lenzuolo in attesa di essere usato nell’ora opportuna. La notte è trasportato in invisibili piantagioni sul Monte Kupe7 o in campi di lavoro in Europa dove un’armata virtuale di operai fantasma alimenta con la propria linfa vitale l’economia occulta e immorale dell’Occidente (Geschiere, Sorcellerie et Politique en Afric – La Viande des autres).

Panni Stesi, foto di Lorenzo D’Angelo,Area dismessa della Falk di Sesto San Giovanni, Milano 2006.

Immagine quest’ultima non molto lontana dalla realtà. I controlli alle frontiere, le sempre più restrittive leggi sull’immigrazione, le procedure di catalogazione, i censimenti, le statistiche, i procedimenti polizieschi di espulsione e le pratiche burocratiche di regolarizzazione di coloro che sostano all’interno di uno Stato senza regolare permesso di soggiorno, sono le moderne tecnologie di controllo e manipolazione attraverso cui gli stati-nazione europei riproducono in patria le antiche tecniche della colonia (cfr. d’Angelo, Negare l’ovvietà. Identità, violenza e razzismo). È

7 Monte del Camerun.

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il corpo migrante a fornire ora la sostanza duttile su cui imprimere i segni di una soggettività che nell’incertezza del mondo postmoderno e globalizzato afferma così una residuale e flebile capacità di agire. Per il clandestino o il rifugiato non vi è cittadinanza possibile, ma una situazione di anomia che ricorda quella dei moderni campi profughi. Il clandestino vive in un limbo, in un paradossale non luogo temporaneo permanente (Bauman, Lyquid Love). Altri fantasmi si animano nelle periferie delle città dell’Occidente, trovando rifugio nelle fabbriche abbandonate, nelle aree dismesse, capannoni spettrali, presagi, residui di una potenza mostruosa che avanza sorda alle sue vibrazioni. Figure evanescenti che incontrano qui arcaici fantasmi di operai di altre generazioni, divorati da macchine antropofaghe. Preti di “frontiera”, missionari postmoderni, raggiungono questi territori “abbandonati da Dio”, mettendo in scena altre forme di manipolazione, caritatevoli e pietose.

Meta-fantasmi

Fino ad ora abbiamo preso in esame relazioni duali. Nella perfezione esclusiva del rapporto tra due, l’esistenza di ogni membro della coppia è conseguenza diretta dell’esistenza dell’altro. Nessuno può abbandonare la diade senza distruggerla. Di qui l’intimità, la chiusura difensiva e la dipendenza reciproca che caratterizzano la sua condizione. Ogni terzo elemento è invadente, disturbando la pura e immediata (non-mediata) reciprocità della coppia (Simmel, op. cit.). Sia il colono che il colonizzato, sia il servo che il padrone, non possono esistere l’uno senza l’altro. È difficile liberarsi da questo tipo di relazioni senza generare un conflitto drammatico, a volte tragico.

Come evitare, allora, il punto di rottura che minaccia le relazioni duali? Altre forme fantasmatiche si generano da questo problema. Prendiamo ad esempio l’evoluzione del razzismo e dell’antirazzismo in Brasile. Nei paesi dominati durante il periodo coloniale, e per un certo intervallo di tempo anche oltre l’indipendenza, da una economia schiavista, la problematica razziale, dopo l’abolizione della schiavitù (avvenuta in Brasile nel 1888), diventa una questione cruciale.

Nel Brasile e negli Stati Uniti di fine Ottocento, il “negro” non può essere idealizzato facilmente come l’indio o l’indiano nord americano, il quale, immerso nella foresta o confinato nelle riserve, escluso dal mondo delle relazioni quotidiane della città e dei campi, è trasformato, senza troppi problemi, in puro oggetto di contemplazione esotica. Negli Stati Uniti tutto un sistema burocratico segregazionista è organizzato per far fronte a tale difficoltà. Paradossalmente, la discriminazione razziale dei neri, in un paese che fonda la propria costituzione su principi egualitari, è mantenuta legalmente fino ai primi anni Sessanta. In Brasile, dove una società fortemente gerarchizzata, patriarcale e domestica, aveva consentito relazioni tra signori e schiavi molto più intime – una particolare ambivalenza tra un dominio pervasivo e brutale e una certa cordialità nell’esercitare l’autorità, insieme a forme di meticciato tra coloni europei e donne di colore (Freyre, Casa-Grande & Senzala8) – meccanismi più raffinati consentono di superare le inquietudini che sorgono in seguito all’abolizione. Il fantasma si modifica. Dalle forme esangui dell’altro schiavizzato – che ora torna alla luce, resuscitato, almeno apparentemente, dal suo stato di semi-uomo o di mezza-libertà – si sposta subdolamente e si installa nelle relazioni di dominazione, che così perdurano e si riproducono in forme meno visibili. Il fantasma diviene meta-fantasma, assume cioè un carattere meta-morfico più complesso, contaminando il livello più sottile dei discorsi e delle relazioni, che divengono spettrali. In questo territorio, il dominio – che in precedenza, applicandosi a esseri “inferiori” era del tutto visibile, oggetto di studi e dibattiti eruditi che valutavano la sua efficacia e le sue possibilità, il giusto dosaggio dei castighi e delle

8 Casa-Grande e Senzala sono l’abitazione del fazendeiro e gli alloggiamenti destinati agli schiavi nel Brasile coloniale.

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“cure” necessarie a riprodurre lo schiavo – assume forme di camaleonte che mutano costantemente. Lo schiavo liberato diventa il soggetto di una situazione di doppio vincolo, di “convivio/rigetto”, che perpetua una condizione schizofrenogenica in cui ogni replica alle ingiunzioni del legame può realizzarsi solo indirettamente (Bateson, Verso un’ecologia della mente). Si nega il dominio mascherandolo in forme di tolleranza. Questa liberalità paternalista è però limitata dalle strutture burocratiche e dai regimi discorsivi legittimi (organizzati dagli intellettuali e dalle istituzioni della cultura), alle sfere del decoro sociale, del folclore, della religione, della vita sessuale. Anche il “negro”, in una sorta di organizzazione dell’entusiasmo, ad un certo punto potrà pubblicamente affermare la sua umanità e il subalterno le “ricchezze” della sua cultura. Ma per entrambi diviene più difficile analizzare l’inganno di cui si è vittima.

Il dominio prende le sembianze di un inquietante Ianus a due facce, che mostra un volto condiscendente di fronte ad ogni critica. Ma basta distogliere lo sguardo dal suo sorriso cordiale perché con un rapido dietrofront egli rivolga la sua faccia oscura e aggressiva.

Il “negro” liberato, abbandonato alla propria sorte in una società di classe, privo dei mezzi materiali con cui affrontare un’economia competitiva, disoccupato o obbligato ad accettare volontariamente i lavori più degradanti e mal pagati, percepisce la violenza disarticolata di cui è oggetto nel proprio corpo, nella depressione, nelle angosce che in lui proliferano mostrando una presenza che però egli non riesce più a toccare. Fantasma, creatura invisibile che non sa dove colpire.

A partire dal governo populista di Vargas (1937-1940), una certa mobilità sociale è consentita alle comunità nere brasiliane. Casi di ascensione sociale di alcuni membri di questi gruppi, individualmente, conferiscono legittimità al mito della democracia racial9. Nascondendo il processo di isolamento dei neri in quanto gruppo, si creano degli ostacoli politici alla mobilitazione collettiva. Ciò che scompare non è il nero in assoluto, ma il nero come gruppo organizzabile in un movimento di resistenza (H. M. B. Bomeny, Paraiso tropical).10

Prende forma una situazione paradossale in cui le accuse di razzismo (anti-razzismo) servono più all’oppressore che all’oppresso. Ogni reazione al dominio diventa sospetta.

La protesta, la critica divengono sintomi di irresponsabilità, irrazionalità, inferiorità. Non avendo più degli oggetti “reali” su cui fare presa, né uno status su cui costruire un capitale sociale spendibile, gradualmente scompaiono o si manifestano in forme disorganizzate. Le alternative sono il cinismo e le arguzie di chi ha imparato a vivere di espedienti (il celebre malandro cantato nelle samba dei primi anni trenta), l’autismo politico e la religione, o una iper-eccitabilità che esplode senza preavviso, colpendo bersagli aleatori, in forme sporadiche inefficaci, facilmente controllabili.

Parallelamente, si origina tutta una serie di mediatori simbolici che, come in epoca schiavista il mulatto liberato, intervengono ad addolcire l’asprezza dei rapporti razziali e dei rapporti di classe fino a confondere tutte le carte in tavola. Se prima dell’abolizione della schiavitù, il nero africano in Brasile è invisibile, dopo la fase di passaggio in cui per un momento emerge alla luce nei discorsi razzisti delle prime decadi del ‘900 – in quanto degenerato e causa di degenerazione –, torna a vivere un’esistenza incerta. Al suo posto prende forma nei discorsi eruditi, nella propaganda politica e quindi nel senso comune – con la “mistura” appropriata di bianco, nero e indio e di tutti i modelli intermedi – il tipo brasileiro. Tipo che sarà esoticamente moreno: di carnagione marrone chiara, di classe media, dotato di un corpo senza difetti, sempre giovane. Votato ad un futuro radioso. Fantasma di bellezza e intraprendenza. Tipo ideale che

9 Mito della pacifica convivenza e uguaglianza sociale, nel Brasile, delle tre “razze” fondatrici del paese: africana, indigena ed europea.

10 I primi germi di una formazione politica nera furono interdetti e cooptati da Vargas nel 1937.

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permette, alle differenti classi sociali e ai differenti gruppi di colore, di interpretare positivamente la propria posizione, almeno come utopia da realizzare nel futuro, occultando le relazioni che esprimono il campo più generale della struttura sociale brasiliana (R. DaMatta, Relativizando). L’invenzione di un terzo irreale consente di neutralizzare il potenziale esplosivo di un confronto duale.

In verità, nel lungo periodo che si protrae durante il lento processo di modernizzazione delle istituzioni politiche e delle strutture produttive brasiliane, non si verifica una semplice mescolanza di tutti i “tipi” razziali11, ma qualcosa di più sottile. Da un lato, si assiste al graduale “sbiancamento” (branqueamento) del mulatto istruito – in genere figlio legittimo di un padre bianco benestante –, che tenderà a scegliere di preferenza una sposa meno scura di lui. Dall’altro al relativo “annerimento” e alla sostanziale marginalizzazione del nero (preto) e del mulatto meno dotato di risorse economiche e culturali, entrambi discriminati, soprattutto nel Sud del paese, lungo una irregolare linea del colore mossa dalla rivalità con le classi inferiori degli europei di recente immigrazione12.

Ciò che, sotto il velo della democracia racial, affonda ancora una volta nel rimosso dell’inconscio nazionale brasiliano è il razzismo che persiste indisturbato nelle categorie percettive, nelle forme di valutazione e classificazione, nelle strutture cognitive incorporate nei processi di socializzazione che fanno sì che ognuno sappia, volente o meno, qual’è il suo posto nella società: violenza simbolica (Bourdieu) iscritta negli sguardi, nelle precedenze, nelle ingiunzioni, nelle battute spiritose e quindi nelle procedure di selezione del personale e nella definizione dei salari e delle mansioni.

Così, alla fine di una storia punteggiata da brevi fasi di accelerato sviluppo industriale e più lunghi periodi di recessione e declino, ciclici momenti di ribollimento sociale e repressione autoritaria, e politiche neoliberiste di aggiustamento strutturale più o meno corrotte, le maggiori città brasiliane, ad un certo punto, si dividono nei quartieri fortezza dei “bianchi”, eredi dei capitali coloniali, e nei ghetti-favelas di “negri”, “pardos”, “meticci”, “nero chiaro”, “nero scuro” ecc., ex-schiavi, ed ex-proletari (allineamento perfetto di gerarchia di classe e stratificazione razziale). Con tutto ciò il razzismo in Brasile sembra non esistere. Solo a partire dalla fine degli anni ’70, con la cosiddetta “abertura” della dittatura militare brasiliana (1964-1985), un nuovo movimento negro organizzato, insieme ai lavori teorici di alcuni sociologi e antropologi, ha contribuito a decostruire il mito della democracia racial.

I giovani marginali delle metropoli brasiliane, però, continuano a morire, in disperati tentativi di rapina, a causa di liti interne ai bairros delle periferie, nelle zone franche del traffico della droga, in improvvisi momenti di follia, oppure “giustiziati” sommariamente da gruppi mercenari armati (Caldeira & Holston, Democracy and Violence in Brazil). Situazione complicata in cui l’esclusione e l’impoverimento sono prodotti da più ragioni concomitanti: forme sottili di razzismo a cui si sommano i risultati di un decennio (gli anni ’90) di politiche neoliberiste di “riforma” del welfare. I bisogni di protezione e impiego degli abitanti delle favelas, disattesi dallo stato e dall’economia ufficiale, trovano una risposta nel traffico della droga che così viene ad assumere un ruolo sociale che legittima il suo potere e ingrossa le sue file. La complessità di questa logica mista è ridotta nel dibattito politico e giornalistico alla sua faccia delinquenziale. Qui emerge l’ultima e più recente mutazione del fantasma. Un

11 Con il termine razziale mi riferisco qui ad un modello classificatorio basato sulla discriminazione di tratti fisici dell’aspetto della persona attribuiti ad una supposta origine storico-geografica. Cfr. il lavoro pionieristico di Oracy Nogueira, Preconceito racial de marca e preconceito racial de origem: sugestão de um quadro de referência para a interpretação do material sobre relações raciais no Brasil (1955).

12 A partire dalla fine dell’800 sono stimati tra 5 e 7 milioni gli immigrati europei in Brasile. Per una discussione sintetica dei fattori storici e regionali del razzismo in brasile vedi: E. Telles, Racial Distance and Region in Brazil, “Latin American Research Review”, v. 8, n. 2, 1993.

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disagio nella sua essenza tipicamente economico e culturale (una lunga storia di discriminazione razziale e di classe) è occultato attraverso la sua trasformazione in problema di ordine pubblico. In alternativa, sono gli stessi leader dei movimenti negri, separando la discriminazione di classe dalla discriminazione razziale, la sola ad essere enfatizzata nei media e dall’industria culturale, a dividere il fronte delle lotte di rivendicazione di diritti, occultando ideologicamente la reale posta in gioca a cui aspirano i gruppi di base.

In Europa sono le Banlieu francesi a manifestare, in modalità meno cruente, una logica simile (Wacquant, L'etat incendiaire face aux banlieues en feu).

Se in America Latina, dove colonia/post-colonia e metropoli convivono in forme ambigue e alterne, i fantasmi dei sistemi di assoggettamento presentano oggi configurazioni ancora parzialmente visibili, è nel “centro” del dominio che il loro funzionamento assume la forma perfetta. Nella “metropoli”, in Occidente e nelle sue mutazioni asiatiche, le risorse accumulate nella fase primitiva del capitale esigono dall’operaio, dal tecnico, dal giovane impiegato par-time, un surplus di collaborazione: “l’umanesimo della merce prende a proprio carico gli svaghi e l’umanità del lavoratore” (Guy Debord, La Société du Spectacle, tesi 43), mascherando premurosamente il dominio nelle vesti del consumo. La fabbricazione ininterrotta di pseudo-bisogni riduce tutti all’unico pseudo-bisogno del mantenimento della produzione (id.).

Dogh, Itatiba, Brasile 2004.

I fantasmi dell’antropologia

I fantasmi, di cui abbiamo tracciato l’evoluzione e le metamorfosi, hanno percorso anche la storia e le pratiche della ricerca antropologica. Il cosiddetto “antropologo in poltrona” della fine dell’800 raccontava di luoghi e persone che non aveva mai visto. Confortevolmente accomodato nel suo studio, elaborava sistematicamente testi eruditi sulla base di un vasto corpo di “note” raccolte da una varietà di informatori: esploratori, missionari, amministratori coloniali, commercianti – raffinata tecnica di invenzione “disciplinata”, dotto assemblaggio di collezioni di dati strappati ad una realtà ben più oscura. Ma anche il più moderno antropologo “partecipante”, di ritorno dai suoi viaggi esotici, impegnato nella scrittura di una monografia etnografica, garantiva con differenti tecniche retoriche (il presente etnografico, l’occultamento della presenza sul campo degli agenti occidentali e di primitive forme di globalizzazione e conflitto) la dissimulazione della complessità dell’incontro, negando la prossimità, la coevità, implicata dai vincoli conoscitivi della ricerca etnografica.

È del resto la condizione di spaesamento, intrinseca alla vita sul campo, ad aver determinato negli etnografi forme di comportamento dissociate dai contesti dello loro

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ricerche. Come il dominio coloniale, anche l’indagine antropologica si svolge lontano dai propri affetti, esclusi per lunghi periodi di tempo da molte delle abitudini quotidiane che organizzano la vita ordinaria. Si può resistere anche per anni a questa condizione spaesante, guidati da una forza di volontà allenata ad una lotta senza fine per non perdersi d'animo. Nel campo si manifestano tutti i dispositivi di controllo e disciplinamento del sé. Il lavoro metodico e sistematico consente di resistere alla pericolosa attrazione della frontiera. La personalità etica, sorvegliata, viene realizzata incessantemente mediante il lavoro: “un credo deliberato, una fedeltà assoluta a certi aspetti delle convenzioni” (J. Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX). Così, anche sul campo, spesso l’altro scompare. Appare come oggetto di studio, ma non come uomo con cui condividere la comune condizione di essere-nel-mondo, e l’impegno gravoso di decidere e pro-gettare la propria esistenza.

Quando il nazismo porta gli orrori della colonia nelle città europee, quando il guerrigliero nelle lotte di indipendenza in Africa o in Asia prende le armi e infligge i primi colpi alla vanità occidentale, quando infine il nativo prende la parola e restituisce all’etnografo un’immagine “distorta” da una prospettiva diversa – da altri schemi, altre gestalt con cui organizzare il mondo –, qualcosa però muta profondamente. Nella torre di avorio dell’uomo occidentale cominciano a formarsi crepe sempre più penetranti e le inquietudini impercettibili del colonizzatore si diffondono su tutti i piani della cultura. Come abbiamo visto, altri meccanismi e altri fantasmi, qualitativamente più raffinati di quelli della colonia, saranno inventati affinché le posizioni di potere possano rimanere sostanzialmente invariate. Tutto cambi senza che nulla cambi.

L’antropologia, che dell’alterità ha fatto il suo campo di studio, di fronte allo svelarsi di un simile spettacolo, vacilla. Di fronte a crepe diventate così gravi, l’intera disciplina, ad un certo punto, entra in una fase di ostinata e ciclica autocritica. A partire dalla fine degli anni sessanta sono riconosciuti e vagliati attentamente i legami tra antropologia, colonialismo e imperialismo, sia al livello delle connivenze dirette degli antropologi con le amministrazioni coloniali, sia al livello delle retoriche e degli stili letterari inscritti nelle monografie etnografiche, complici nel costruire la diversità come universo conoscibile e quindi amministrabile.

Cosa è venuto fuori dal ribollire del conseguente processo di ripensamento dei modi, degli “oggetti” e delle pratiche delle ricerche di campo? Dalla revisione delle forme di scrittura e dei livelli di autocoscienza che ha coinvolto buona parte degli antropologi più attenti del panorama internazionale? Dopo una fase di smarrimento collettivo una molteplicità di contributi è andata organizzandosi in senso interdisciplinare, accogliendo le voci dei nuovi ricercatori provenienti dal Sud del mondo. L’attenzione degli antropologi si è rivolta ai complessi intrecci tra le pratiche simboliche e i sistemi di potere, tra i processi di invenzione e riproduzione delle espressioni culturali e delle identità e i dispositivi di controllo e le forme di resistenza contro egemoniche (studi subalterni, antropologia del colonialismo, antropologia femminista, ecc.). Lo sguardo antropologico riflessivamente si è curvato su se stesso riscrivendo una storia critica della disciplina, al medesimo tempo rivolgendo il proprio interesse ai contesti e ai presupposti della produzione del suo sapere e del sapere scientifico e tecnico di altre discipline “occidentali” (antropologia medica, etno-estetica, antropologia dello sviluppo, antropologia dei media).

Sia da un punto di vista teorico che metodologico, una sorta di meta-fantasmi sembra però essersi riprodotta anche nelle maglie di questi approcci variegati. Le nuove pratiche etnografiche ispirate al dialogismo e alla negoziazione sembrano collocarsi in ultima istanza all’interno del grande ventre del liberalismo occidentale. A livello teorico una specie di canone postcoloniale, politicamente connotato dal terzomondismo liberale e dall’ibridismo riformista si è installato all’interno delle istituzioni e degli apparati

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culturali dell’Occidente: accademia, editoria, media (Ania Loomba, Colonialism/Postcolonialism). L’insistenza sulle categorie di meticciamento, fusione, partecipazione, condivisione, conversazione, rivela l’invenzione di nuovi artifici teorici ed etnografici con cui penetrare, più dolcemente, all’interno delle culture, occultando ancora una volta i presupposti asimmetrici che governano l’incontro antropologico.

Quali strategie restano a disposizione per fare della disciplina una pratica in grado di contrastare i fantasmi che riproducono costantemente forme di assoggettamento e di alienazione? Roberto Malighetti, intervistato da Pietro Meloni, afferma la necessità di dire cose fruibili senza abdicare alle articolazioni del pensiero antropologico, alla sua vocazione critica e analitica, capace di mostrare il complesso gioco delle differenze: “la rilevanza si gioca sullo scarto con i linguaggi dominanti, sulla capacità di mostrare modalità alternative di vedere e forse anche di organizzare il mondo”13. Sicuramente non è sul rapporto di forze che si può sostenere il ruolo critico della ricerca antropologica. Come diceva anche Baudrillard, è “con la differenza che bisogna attaccare” (Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte). Nel modo in cui i graffiti dei neri e portoricani delle metropoli americane nella notte prendono forma sui vagoni dei treni e dei metrò e alle prime luci dell’alba “esportano il ghetto in tutte le arterie della città, invadono la città bianca e rivelano che questa è il vero ghetto” (id.), i graffiti dell’antropologia risultano più efficaci quando riescono a sfuggire ad un discorso facilmente organizzabile, segnalando, con circostanziate ricognizioni, le voci e gli spostamenti delle forze in campo, la dinamica delle posizioni e i presupposti che plasmano di volta in volta le strategie egemoniche (Manoukian, Considerazioni inattuali14).

Forse non servono più diligenti monografie di centinaia di pagine (a chi sono mai servite?), ma una proliferazione di testi sintetici, solidamente strutturati e documentati, testi in movimento, collettivi, fluidi, interrelati, non fini a se stessi, ma in grado di viaggiare, e segnare dei colpi penetrando nel tessuto dei poteri pervasivamente inscritti nelle disposizioni, nei corpi, nei propri desideri e nel proprio sapere. I frutti più fecondi di una ricerca di campo prolungata sono le decine di “intuizioni etnografiche” che spesso non trovano posto nel rigore di una tesi scientificamente e convenzionalmente controllata. Bisogna trovare i luoghi dove dare vita a queste idee, sia “a casa”, negli spazi dell’accademia e della vita politica, sia nei territori dove si radicano le ricerche di campo. Tattiche di guerriglia molto elaborate, al medesimo tempo simili ai gesti situazionisti e ai graffiti fantasma che i giovani adolescenti insistentemente riproducono, incompresi, nelle nostre città. “Nomi di battaglia nel cuore della metropoli” e nelle sue periferie, tattiche che riterritorializzano lo spazio urbano in posti collettivi, ridando vita ai muri, alle strade, ai quartieri (Baudrillard, op. cit.)

13 Intervista pubblicata in “Antropologie” , 18/06/2006.14 Introduzione in Colonialismo, “Annuario di Antropologia”, n. 2, 2002.

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