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Imitazione, emulazione, invenzione, meditazione, memoria, replica, variante sono diversificazioni les-sicali che caratterizzano la forma e la sostanza della copia: se, a uno sguardo veloce, potrebbero sem-brare dei sinonimi, in realtà nella prassi artistica hanno un peso determinante nella stima dell’opera e del suo doppio. La lunga tradizione della copia, che accompagna la pratica della produzione di un manufatto e dunque propaga la fama dell’inventio in ogni direzione, tra il Cinque e il Seicento subisce un’accelerazione con una conseguente modulazio-ne di varianti. Sotto la spinta del collezionismo e dunque del mercato, che ne costituisce il motore, l’oggetto di pregio e il suo autore assurgono a pro-totipo, diventano un’icona irrinunciabile cui acco-starsi in sfumature di differente livello. Siamo anco-ra lungi dal poter delineare per la civiltà occiden-tale una storia della copia in epoca di ancien régime, tuttavia i diversi esempi che sono stati oggetto di studio nel corso degli ultimi decenni, contribuisco-no a far luce su una consuetudine che divenne por-tante nel sistema delle arti1. Il caso di Bologna, che si desume dalla letteratura artistica, - attraverso il suo grande mentore, il conte Carlo Cesare Malvasia nella Felsina Pittrice (1678), - da quella periegetica, dai documenti connessi al collezionismo e da intere filiere di copie, si attesta soprattutto sul lavoro di colui che ha trasformato il valore della prestazione professionale sui merca-ti della penisola italica, cioè Guido Reni. Fu lui a conseguire, per primo, la stabilizzazione dei prezzi dei quadri da immettere sul mercato, riuscendo a creare una sorta di tariffario per i pittori, suddivisi in tre categorie: mediocri, ordinari e straordina-ri. Attorno alla sua produzione e alla pratica della sua bottega, alla grande richiesta di quadri di vera mano, alla rarefazione mirata del suo operare, alla bizzarria delle sue motivazioni, si scatenò una vera e propria corsa al quadro originale, di qualunque formato, iconografia e declinazione di stile.

Ed è proprio sui dati che emergono dalle fonti, che si può tentare un bilancio del fenomeno copia e suoi derivati, a Bologna più chiaro che in qualsiasi altra parte d’Europa nella prima metà del Seicento.Giovan Battista Marino chiese in dono al poeta Cesare Rinaldi il dipinto raffigurante Arianna di Ludovico Carracci e questi gli rispose Io conosco le bellezze della mia Arianna, e ne sono però fieramente in-namorato e ingelosito; e s’altri abbandonolla su la riva del mare, già non m’indurò a lasciarla su la riva del Tevere; la copia non posso, l’originale non voglio2. Basta questo incipit letterario-collezionistico per introdurre le differenziazioni che accompagnano il significato di copia: il gentiluomo bolognese non solo non voleva privarsi della sua Arianna, oggi dubitativamente as-sociata alla versione un po’ ottusa con Bacco della Pinacoteca Civica di Vercelli3, ma non permetteva nemmeno se ne traesse una copia. Come dire che non voleva tramandarne memoria e non intendeva esporla al mercimonio. Le differenze, i fini e le destinazioni delle copie completano un catalogo assai ampio. La loro fun-zione principale, già prima del Seicento, era quella di servire per studio personale: si copiava per im-padronirsi dell’anima del quadro, della sua compo-sizione, delle pennellate e degli improvvisi cambi di materia. Ludovico, Agostino e Annibale replica-rono Tiziano e Parmigianino per istudio; Malvasia scrive che non finiressimo mai se tutte le copie cavate dagli altri maestri per mano di essi registrar volessimo4. Annibale si faceva addirittura beffa dei conoscitori e attraverso la copia cercava di eguagliare Parmi-gianino: da un antiquario a Roma si fece prestare un disegno del maestro, lo riprodusse annerendo la carta, sgualcendo i margini e glielo riconsegnò in luogo dell’originale, a dimostrazione che la sua bravura era pari a quella del parmense.Cesare Aretusi, a sentire Angelo Michele Colon-na, era il miglior duplicatore che fosse mai esistito, avendo egli ammirato una copia della Notte del Cor-

Raffaella Morselli

DA GUIDO RENI A CANTARINI. L’ARTE DI BEN COPIARE E RITOCCARE AL SERVIZIO DEL MERCATO FELSINEO

Guido Reni, San Sebastiano, Genova, Palazzo Rosso

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reggio eseguita da lui perfettamente5. Copiavano anche gli allievi dai maestri: di una mezza figura d’Ecce Homo con due teste d’angeli di Annibale esisteva una copia dell’eccellente Albani presso il Duca Salviati, mentre il Cristo morto di Annibale su rame, di proprietà Sampieri, era stato riprodotto da Guido6.Le copie sono viste dunque come perno centrale del tramando della conoscenza: lo scrive bene il cardinale Federico Borromeo nel 1625, rivolgendo-si agli intenditori che le disprezzavano: le cose umane sono caduche e in breve spazio di tempo si guastano e pe-riscono; perciò era da desiderarsi per il bene dell’umanità che giungessero a noi quelle degli antichi quadri più fa-mosi…preferendo i più esposti al pericolo di essere distrutti o per essere già guasti o per altra ragione7. La replica poteva anche sostituire l’originale quando non si ri-usciva ad ottenerlo: il cardinale legato di Bologna, Benedetto Giustiniani nel 1606 desiderava il San Sebastiano del Francia conservato presso i Padri del-la Misericordia - opera paradigmatica, stando alle fonti, che oggi non è possibile identificare8 -, ma i religiosi glielo negarono, nonostante egli avesse of-ferto un gran prezzo. Ne fece dunque cavare una copia, questa ben anche cattiva e mal fatta riposta nella stessa cornice9. Una riproduzione di pessima fattura non poteva però ottemperare la funzione di tutela e di memo-ria, ne’ tantomeno servire alla didattica. Nel caso felsineo si riscontrano esempi in tal senso: la Ver-gine col bambino e santi che Lavinia Fontana eseguì nel 1589 per l’altare del Pantheon degli Infanti nel monastero dell’Escorial (Madrid, Monastero dell’Escorial)10, contava una decina di copie, porta-te a termine pochi anni dopo la sua collocazione, alcune assai ordinarie e di poco valore, l’una peggio-re dell’altre11. In questa occasione dunque la replica rese un pessimo servizio al quadro, alla pittrice e alla fama di Felsina. Ma le copie sono anche parte della storia familiare: se ne ordinavano dei quadri di proprietà della fami-glia, quando uno dei suoi membri otteneva incari-chi importanti, per esempio l’ambasceria a Roma, e in quel caso non si spostava l’originale, che rima-neva nel palazzo avito, ma si traslocava la replica per dare lustro e gloria alla propria collezione. Una testimonianza che merita di essere citata riguarda la collezione dei principi Hercolani in cui faceva-no bella mostra di sé alcuni quadri rappresentati-vi di questa casistica: lo Sposalizio di santa Caterina del Parmigianino fatta da Calvaert, la Betsabea del Guercino che Gennari trasse dall’originale nella stessa raccolta; Amore e Psiche a figure intere, copia

di Guido fatta da Viani; il Cristo alla Colonna ancora copia da Guido, infine due repliche del Gessi, una Santa Apollonia e una Beata Vergine, attestate nell’in-ventario del 169212. Le copie si presentavano dun-que, nelle raccolte bolognesi, con una fenomenolo-gia tanto ampia e articolata da indurre a chiedersi se non occorra attrezzarsi con nuove categorie. La querelle sulle copie di quadri di vera mano di Gui-do è una delle questioni chiave per la comprensio-ne del rapporto tra originale e replica, e di con-seguenza per lo studio delle relazioni intercorrenti nell’ambito della bottega del maestro. È anche una delle maggiori preoccupazioni del Malvasia che, in più punti della biografia di Reni, la pone in eviden-zia, ora in tono preoccupato, ora lusingato, affer-mando che le copie poi tuttodì ricavate anche dai bra-vi maestri, sono innumerabili. Solo in città, nel XVII secolo, esistevano infatti centinaia di riproduzioni da Guido, le quali costituivano parte integrante di numerose collezioni. È necessario, dunque, fare chiarezza sulla scorta del lessico che viene impie-gato dallo storiografo, ma soprattutto prestando attenzione alle definizioni fornite negli inventari legali. Nell’accezione di copia esiste una gamma di quadri che vengono da, cavati, forniti, forzati, ritoccati; ognuna di queste specificazioni ha un significato a sé stante e l’una non è sinonimo dell’altra. Le copie da Reni potevano essere d’autore, come quelle di Giovanni Andrea Sirani e Flaminio Torri, in grado di raggiungere valutazioni fino a 400 scu-di, o eseguite da uno specialista in materia, come Ercole de Maria, valutate entro i 200 scudi, poiché copiava ben le cose di quest’ultimo in modo che nissuno di quella gran scuola da quelle del maestro distinguerle ta-lor sapea13, o infine anonime. Assumono dunque un valore autonomo, un significato culturale che esige d’essere valutato per se stesso. Nella cerchia renia-na infatti c’era chi copiava, ma anche chi veniva co-piato: Francesco Gessi e Giovanni Giacomo Semen-ti sono di quelli, e così Simone Cantarini da Giulio Cesare Milani, il Cittadini dal Valeriani, Elisabetta Sirani da Bartolomeo Zanichelli. Alcuni originali di Guido costituivano prototipi tanto importanti da impiantare una filiera riproduttiva all’interno della scuola; la spinta, oltre allo studio, era quel-la del mercato, italico e straniero, collezionistico e altolocato o semplicemente popolare e devozio-nale. E così serie innumerevoli si crearono attorno ai San Sebastiano di Genova (Palazzo Rosso)14 e Ma-drid (Museo del Prado), mentre la Crocifissione dei Cappuccini (Bologna, Pinacoteca Nazionale) è una delle opere più riprodotte, non solo nella totalità ma soprattutto nelle singole teste e nelle riduzioni

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di scala15.La questione delle copie si gioca dunque in manie-ra aggiornata e moderna all’interno della bottega di Guido: ed è sempre qui che si sviluppa il tema del ritocco, della pennellata aggiunta dal maestro, del-la replica aggiustata che viene immessa sul mercato come originale traendone un grande, e immerita-to, profitto. Molto spesso ciò accadeva all’insaputa dello stesso artista, come vuole farci credere Mal-vasia, altre volte lui compiacente. Non che il tema del ritocco fosse ignoto agli altri pittori del Seicento europeo e che non fosse diffuso prima di tali date: ma l’uso tanto modulato e conscio di questa tec-nica, e il cascame di tale applicazione, è talmente

vasto proprio durante gli anni di Reni che vale la pena valutarne la portata.Il 5 settembre 1508 Raffaello Sanzio ringraziava Francesco Francia per l’invio del suo autoritratto tanto vivo e bellissimo, scusandosi per non avergli ancora mandato il proprio per i troppi lavori che lo tenevano impegnato; avrebbe potuto farlo ese-guire da un allievo e ritoccarlo lui stesso ma non si conviene16. L’artista urbinate riconosceva che non sarebbe stato cortese e professionale inviare un ri-tocco al posto dell’originale, tanto più a un collega che stimava. Eppure la pratica continuò a farsi stra-da. Narra Malvasia, nello strenuo tentativo di tra-sformare Guido in truffato, che egli non fece come

Guercino e Bartolomeo Gennari, Cristo caccia i mercanti dal tempio, Genova, Palazzo Rosso

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Tiziano che permetteva le copie dei suoi quadri, poi le requisiva e quindi ritoccava e le spacciava per sue, anzi quando venne in cognizione di simili trufferie altamente se ne offese e coraggiosamente vi si oppose non ammettendo per valida scusa che simili contratti fossero fatti a fuoco e a fiamma ne’ ciò giovando fu forzato a caciarne fuori dalla stanza i più contumaci17. Sull’esem-pio dell’illustre caposcuola altri pittori bolognesi sperimentarono il ritocco: Guercino, per esempio, lo registra diligentemente nel suo Libro dei conti a partire dal 1638 e onestamente ne fa una valutazio-ne economica, come avvenne per la copia ritoccata del Cristo che scaccia i mercanti dal tempio (Genova, Pa-lazzo Rosso) eseguita per il centese Antonio Fabbri a memoria di quella originale donata al Cardinal Pallotta e oggi perduta18. Anche Albani seguiva tale pratica, e Lucio Massari, quando passava da Roma, andava a rivedere la sua copia della Santa Caterina tramutata in Santa Margherita ritocca da Annibale19, identificabile con la Santa Margherita in Santa Ca-terina dei Funari a Roma, oggi perlopiù attribuita al solo Annibale20. Giovanni Andrea Sirani invece prometteva ritocchi di Guido in cambio di favori. Malvasia sembra tuttavia disinteressato ai ritocchi degli altri pittori e si sofferma con insistenza sul solo Guido, che rappresenta il fenomeno più ma-croscopico di tale sistema. Minore ancora non fu il guadagno che si fe’ nei suoi ritocchi che molte volte spac-ciaronsi per originali, non so con qual coscienza de’ ven-ditori ma so con poco onore bene speso del maestro del quale francamente asseronsi; e tanto più che sotto pretesto di correzione e d’insegnamento veniva egli innocentemen-te tratto a migliorarvi qualche cosa ad aggiungervi più d’una pennellata. Insomma il caposcuola era salvo, a detta dello storiografo; eppure altri episodi descrit-ti nella Felsina, sia nel testo a stampa che negli ap-punti preparatori, fanno emergere un’altra realtà, a scapito a volte degli allievi più dotati, tra i quali Simone Cantarini.L’insediamento di Simone a Bologna deve essere considerato ondivago e oscillante, come ha dimo-strato ampiamente Anna Maria Ambrosini Massari, e certo il suo arrivo nella città felsinea in forma sta-bile per almeno un quinquennio non deve cadere prima del 1633-1634. Un lustro che gli permise di comprendere quanto fosse diversa la committenza urbinate-pesarese, legata a una corte e ai suoi espo-nenti, da quella di una città in cui uno dei principa-li commerci, oltre a quello fiorente della seta, era il traffico dei quadri. Ma certo non si può escludere che Simone vi fosse passato altre volte prima del suo insediamento, forse di ritorno da quel viaggio a Venezia compiuto nella prima giovinezza. Senza

dimenticare che dalla fine dell’estate del 1630, per almeno un anno, le porte di Bologna erano rimaste chiuse a causa della peste e che nessun forestiero, e nessuna merce, poteva entrare e uscire senza essere stata messa preventivamente in quarantena21.Il Pesarese doveva essere attratto dalla città dei pit-tori, perché già conosceva e aveva avuto modo di studiare l’Annunciazione e la pala con la Consegna delle chiavi a san Pietro, inviate da Guido rispettiva-mente nel 1621 e nel 1626, in quel tempio della pit-tura che era diventata la chiesa dei Filippini di San Pietro in Valle a Fano. Bologna dovette rappresen-tare per lui, giovane e talentuoso artista, una sorta di miraggio da cui venire lusingati senza riserve. Ma come un’illusione morganesca, essa lo accolse e lo respinse, mettendolo alla prova sul suo status

Annibale Carracci, Santa Margerita, Roma, Santa Margherita dei Funari

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di pittore contemporaneo, identità di difficilissima costruzione in una città che viveva sotto l’ombra di Guido entro le mura e di quella del Guercino nel contado. La Felsina dei mercanti, degli speziali, dei collezionisti e dei mediatori si accorse subito del giovane talento, che era entrato nell’entourage di Reni dapprima come uno tra tanti e poi divenne il preferito del maestro. E così le lusinghe e le spire del mercato lo tentarono, ma era troppo ingenuo per riuscire a tenere testa agli esperti in maneggi d’arte. La sua storia bolognese inizia con una copia ritoccata da Guido.Come spesso accade quando si è vittime di atti di violenza, l’oppresso si trasforma in carnefice una volta diventato adulto. La pratica di Guido di far copiare o ridurre le sue opere in copie, per poi ri-toccarle e venderle o smerciarle, derivava infatti dal suo primo maestro, il fiammingo Denis Calvaert. Lui stesso era stato perseguitato da tale abitudine e ora che esercitava il ruolo di docente la metteva in pratica nello stesso modo. Racconta Malvasia, con totale disprezzo per l’insaziabilità che rodeva Calvaert di ottenere sempre nuovi guadagni, che questi aveva messo a dura prova Albani e Reni ai quali …facendo ridurre le sue tavole grandi in piccioli rami…ritocchi poi che gli avesse esitava per di sua mano vendendone quantità incredibile ai mercatanti che tenen-done commissione in Fiandra…colà mandavanli guada-gnandovi e talora raddoppiandovi sopra lo speso22. Forse Guido non si era spinto a tanto, ma certo lo fecero per lui gli amici e i torcimanni, che avevano imparato a lucrare sulla sua fama e sulla richiesta inesaudita delle sue opere.Cantarini capiva che le regole del mercato erano queste e non poteva essere soddisfatto di essere scambiato per un altro, proprio lui che aveva una cifra stilistica così meditata. Lui che si distingueva per capacità e originalità, doveva tuttavia passare per Guido. Segnala Malvasia come adducesse molte cosette sue passate per mano degl’intendenti e comunemen-te tenute ed avvantaggiosamente rivendute per di Guido, fra le quali la picciola Madonna in rame fattagli fare dall’istesso, ritoccata poscia e donata come opera sua ad un compare nel levargli un putto al sacro fonte23. Tutta-via nella versione malvasiana degli appunti si dice più chiaramente Volendo il Signor Guido per un battez-zo regalare, fece all’istesso Simone fare una picciol Madon-na in rame che alquanto ritoccò e che questa, essendo di là in poco tempo venduta per di Guido, fu pagata quaranta ducatoni, onde il Pesarese s’instaffò vedendo che le sue cose andavano per di Guido24. Passa proprio per questo verbo, instaffarsi, poi emendato da Malvasia, la de-cisione del Pesarese di non accettare di essere scam-

biato per il maestro. E in quel peccato di ùbris che gli costerà caro, cominciò a giudicare, a esprimere valutazioni taglienti, a farsi seguire da un manipo-lo di giovani allievi di Guido, tentando di spiegare questo e quello. Persino il mite Guercino, raggiun-to dalle sue maldicenze, rifiutava di incontrarlo. E quando Simone si presentò a casa sua per vederlo dipingere, accompagnando il medico-amico di pit-tori Orazio Zamboni, intimo di Giovan Francesco, questi si stupì non avendolo mai ammesso nelle sue stanze, ma iniziò ugualmente a dipingere. Non appena il Pesarese prese a lodarlo, Guercino rispo-se che la fortuna a tutti compartiva i suoi doni, ne’ ad uno solo dava ogni cosa: a chi dava la ricchezza, a chi la virtù, che così appunto aveva fatto con lui che gli dava ricchezze incredibili correndo tutti a farlo lavorare a che prezzo egli voleva, ad altri aveva dato poi la virtù, ma non la ricchezza sì che morivano pezzenti senza aver mai un soldo25. Un colpo ben assestato: un pittore di suc-cesso era in grado di costruirsi una carriera in cui la domanda e l’offerta convergevano; e a Cantarini mancava ancora una fissa dimora bolognese, uno studio proprio e una posizione sociale. C’era pur sempre Pesaro e la bottega là impiantata, ma la cit-tà dei della Rovere non era Bologna.La sua carriera procedeva dunque nella semioscu-rità che l’illustre Guido procurava e il suo talento si rivelava soprattutto per la di lui eccelsa aemulatio: per la copia di una Madonna acquistata da perso-naggi della corte del legato Savelli, percepì cento scudi, più dell’originale26. La novità stava nel fatto che la sua replica era ancora più bella della versione del maestro.Questa, all’inizio del soggiorno bolognese, doveva essere la sua vocazione: egli cominciò dunque a gio-care con questa abilità, tanto che Pregato da que’ gio-vani talvolta del suo parere sulle copie che frequentemente ricavavano dal maestro, consigliava e mostrava loro non indecente il prendersi qualche libertà, tornando ciò meglio nell’accrescere o diminuire, sino anco mutare or questa or quell’altra parte…27. Sembra un procedimento messo a punto per non essere oppresso dalla noia nel ripe-tere le composizioni di un altro, seppur eccelso. E proprio all’interno di questa analisi non si può non prendere in considerazione un caso emblematico giunto sino a noi, seppure con poche notizie certe. Nel 1605-1606 Reni dipinse il celeberrimo David con la testa di Golia (Parigi, Musèe du Louvre), cui Giovan Battista Marino dedicò un componimento ne La Galeria (1619). Della tela esistono una decina di repliche28, ma quella in deposito alla National Gallery di Londra non è solo una tra le tante. Come ha ben puntualizzato Massimo Pulini si tratta di

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una versione talentuosa, vibrante, macchiata e va-riata. E’ un altro capolavoro, di diverso stile, che viene da Guido ma non è di Guido: si deve infatti riferire a Simone Cantarini29. Un Simone ispirato, che varia copiando, così come lui stesso aveva spie-gato, con piglio saccente, agli scolari della scuola di Reni. E le differenze sono tante e di tale rilevanza, che a ben guardare il quadro recita un assolo tra le copie: innanzitutto la luce che rialza le ombre da sinistra in Cantarini è più vivida e scolpisce con maggior forza i piani; la grande testa di Golia è leg-germente più inclinata e il gigante socchiude la bocca lasciando intravedere i denti, nonché l’orec-chio ben disegnato. Il collo reciso lascia una scia di sangue più materica rispetto alle scelte di Guido, mentre i legacci di cuoio che tengono insieme il magnifico vello di lupo, Simone li inventa lì per lì. Ma quello che più differenzia i due dipinti è il volto del protagonista. Pur nello stesso atteggiamento e con la medesima capigliatura e cappello, il giovane Davide è un ritratto dal vero, anzi un autoritratto30.

Lo si confronti con l’Autoritratto di palazzo Corsini (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica): si ritrova esattamente la stessa tipologia facciale, con la boc-ca corrucciata, l’occhio incavato e tondo e quel naso pronunciato leggermente triangolare che vie-ne scorciato di sotto in su proprio per non renderlo più evidente. Che azzardo per il giovane pittore: autoritrarsi come Davide che osserva la testa colos-sale di Golia, una metafora che non deve essere sfuggita a quella turba che viveva alle spalle del ma-estro in via delle Clavature. D’altra parte la tenta-zione di fare capolino dai propri quadri, come un vissuto che ha necessità di autorappresentarsi per affermare il tempo e lo spazio, era una necessità per Cantarini. Egli si era già trasformato nell’ispi-rato san Terenzio presente nella Madonna in gloria col bambino e i santi Barbara e Terenzio oggi a Aicurzio (chiesa di Sant’Andrea), pala collocata, all’epoca della sua esecuzione nei primi anni del quarto de-cennio del Seicento, nella chiesa pesarese di San Cassiano, dove il giovane pittore era stato battezza-

Guido Reni, David con la testa di Golia, Parigi, Louvre Simone Cantarini, David con la testa di Golia, collezione privata

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to31. Un hic et nunc che ora si ripeteva nel Davide; la sua presenza ribadiva il ruolo di pittore molto più di qualsiasi firma. La coincidenza tra la fonte e l’e-videnza di questo dipinto, portano a chiedersi sia il possibile anno di esecuzione, sia la cronologia delle repliche del più famoso Davide di Guido. Proprio su questo punto le strade si sovrappongono e invece di offrire certezze, sollecitano nuove riflessioni. Ri-partiamo da quello più antico, ovvero il quadro oggi a Parigi (Musée du Louvre) cantato da Marino nel 1619 e ricordato da Malvasia come già esistente nelle collezioni reali di Francia32. Tra il 1619 e il 1678, anno di pubblicazione della Felsina, passano quasi sessant’anni. Il fatto che un’opera analoga, citata dallo storiografo, fosse in possesso del Duca di Crequì (non sappiamo se Carlo I morto nel 1638 o Carlo III deceduto nel 1687) e che il dipinto non compaia nell’inventario reale di Le Brun, non ad-duce nessuna certezza sul fatto che fosse in Francia ad una data entro il 1638. Dunque la tela di Guido, per quel che ne sappiamo, poteva ancora trovarsi a Bologna. La storia si complica ulteriormente quan-do contiamo l’esistenza di ben dodici copie, com-presa questa di Cantarini, ed aggiungiamo indizi che si desumono da missive, letteratura artistica e altre evidenze documentarie. La prima è una lette-ra del 27 luglio del 1631 che il cardinale Bernardi-no Spada, durante la sua lunga permanenza a Brisi-ghella a casa del fratello Francesco per tentare di fuggire alla peste che flagellava Bologna, scriveva all’abate di San Luca, agente per conto della regina di Francia Maria de’ Medici. Nella lunga e docu-mentata missiva egli si dispiaceva di dover abbando-nare la trattativa con la regina in materia di quadri a causa dei rovesci di fortuna da lei subiti in quei mesi, e aggiungeva di essere maggiormente ama-reggiato in quanto proprio ora aveva rintracciato un David fatto nuovamente da Guido Reni e venduto 200 ducatoni su l’andar del primo; ma secondo ch’ei dice assai più bello; e con q.sto occasione havevo imparato che, se bene il quadro del Theodosio Porta era stato ritoccato da Guido, ad ogni modo non era il vero originale, il q.le pro-fessa che si trova in Genova33. E’ chiaro che Bernardi-no Spada, dopo aver parlato con Guido di un qua-dro di questo soggetto, si trovava di fronte a una seconda redazione, venduta allo stesso prezzo della prima, cioè 200 ducatoni, ma ancora più bella. E proprio in tale circostanza il cardinale era stato edotto che il quadro di Teodosio Porta non era il primo, ma un’altra versione ritoccata. Quindi, all’altezza del 1631, ci troviamo di fronte ad almeno tre redazioni: una a Genova, appena venduta, dal momento che duecento ducatoni per una figura

sola e una testa, era un prezzo assai alto, che Reni potè permettersi di ottenere solo a partire dagli anni Trenta; una seconda che Spada stava trattan-do, ma evidentemente non aveva visto e che Guido considerava assai più bella della prima; infine una terza, presso Porta, che non era originale ma ritoc-cata, e forse la sola che Spada avesse visto. Nessuna di queste notizie ci permette comunque di afferma-re con certezza che il quadro, all’epoca a Genova, coincida con quello ora a Parigi. Se ciò non bastas-se un anno e mezzo dopo, nel gennaio del 1633, il conte Cornelio Malvasia, agente per Francesco I Duca di Modena, sguinzagliato alla ricerca di qual-che capolavoro di Guido per le raccolte ducali, scri-veva: E’ anco in vendita un altro quadro nel quale è un Davide con la testa di gigante ucciso d’assai maggior grandezza dell’altro [un San Sebastiano], ma questo pa-reva me che non habbi paragone in bellezza et hora il Sr. Cardinale legato ne fa cavar copia. Questo quadro merita di venire nella galleria di V.A. se bene è ancor lui assai caro34. Dunque il dipinto che Spada proponeva in Francia doveva essere ancora a Bologna, e perdipiù il cardinale legato, che all’epoca era Antonio Santa-croce, ne stava facendo trarre una copia. Secondo Pepper quella descritta da Cornelio Malvasia è la versione di Cantarini, da lui reputata originale di Reni, acquistata per il Duca di Modena e poi passa-ta a Vienna presso il Principe Eugenio di Savoia35. Anche in questo caso il passaggio non è chiaro: in primis è difficile pensare che Malvasia si sbagliasse

Simone Cantarini, David con la testa di Golia, Rio de Janeiro, Biblioteca Nacional

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di fronte a una copia di Reni, se pure bellissima, e certo non può averla acquistata spacciandola per Guido a un estimatore ed esperto di pittura del ca-libro di Francesco I. In seconda istanza il quadro era sul mercato a Bologna da diciotto mesi e dun-que, se fosse stata una copia anche ritoccata, l’o-mertà non avrebbe retto così a lungo. Per finire il passaggio, eventuale, da Modena a Vienna, quindi a Torino non è chiaro e conseguente36. Più interes-sante invece puntare l’attenzione sulla copia che il legato Santacroce si stava facendo fare: siamo nel 1633, anno nel quale Cantarini doveva essersi pre-sumibilmente stabilito a Bologna. Due anni prima il giovane cardinale Santacroce - era nato nel 1598 - venne trasferito nella sede metropolitana di Chieti e, a partire dal 1636, dopo la legazione bolognese, a quella di Urbino37. Il 1633 è anche una data che funziona bene con le prove di copie da Guido di Simone, richiestegli dal maestro stesso perché evi-dentemente gli riuscivano bene, non nell’imitatio, ma proprio nella variatio. Che sia possibile, dun-que, datare il David di Cantarini, ora a Londra, al 1633? E riconoscerlo nella copia per il legato Anto-nio Santacroce? La data coinciderebbe, dal punto di vista stilistico e cronologico, con gli autoritratti citati e esattamente per prima la pala pesarese, poi l’autoritratto con taccuino e matita e infine questo

mutato in David. In un bel disegno vibrante, crono-logicamente più avanti negli anni, Simone ripren-derà lo stesso tema, con il re d’Israele a mezzo bu-sto e una scanzonata leggerezza che è tanto distan-te dal modello reniano, quanto sarà invece vicina alle invenzioni cretiane della seconda metà del Sei-cento38.Cantarini si trovava dunque a Bologna intorno ai vent’anni, giovane e valente pittore in patria, altret-tanto promettente nella nuova città. Le sue capacità non potevano passare inosservate a chi faceva affari con i dipinti e con gli artisti. Ecco allora, che tra i suoi primi incontri, si annovera lo speziale Matteo Macchiavelli, figura centrale del mercato artistico felsineo, proprietario della più rifornita drogheria di Bologna. Collezionista e mercante, acquistò e fece fare delle copie alquanto mutate dei lavori più ri-chiesti di Cantarini39, ma era in contatto anche con Reni, Guercino e Elisabetta Sirani. La sua bottega sotto il Pavaglione, in cui si vendevano l’azzurro ol-tremarino, vernici, lacche polveri, fungeva da luogo di scambio tra artisti e collezionisti. Nei racconti di Malvasia, suffragati e ampliati dalle carte d’archi-vio, Macchiavelli emerge come il mercante più ag-guerrito e scaltro nella Bologna di metà Seicento e certo non nascondeva le sue bramosie sotto mentite spoglie di letterato o protettore. La sua logica era

Simone Cantarini, Autoritratto, Roma, Palazzo Corsini Simone Cantarini, Madonna in gloria coi santi Barbara e Terenzio, Aiucurzio, Parrocchiale, particolare

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puramente mercantile, sapeva quali erano le ten-denze del mercato e chiedeva ai pittori quadri che assecondassero il gusto dei collezionisti. Il rapporto tra lo speziale e Simone non era frutto di frequen-tazioni occasionali, perché i due intrattennero una vera relazione commerciale. Arrivare a Bologna, en-trare nello studio di Guido, farsi incatenare dai ten-tacoli dei mercanti d’arte fu per Cantarini tutt’uno. Tra i tanti casi vale la pena ricordare la peripezia di quell’opera di Cantarini, Agar e Ismaele, che fece più volte il viaggio Bologna-Venezia proprio per moti-vi di denaro e con l’intervento di Macchiavelli. E’ come al solito Malvasia a ricordare il fatto, reso più preciso dal ritrovamento dell’inventario legale del protagonista di questa vicenda. L’episodio legato al Pesarese è vicenda molto complessa che apre uno squarcio sull’attività dello speziale. Questi gli aveva già commissionato un Mosè fatto di colpi all’usanza de’ vecchi di Guido, quindi avanzando una richiesta stili-stica precisa e invitando l’allievo a mutare lo stile del maestro. Macchiavelli infatti voleva un’opera simile alla Testa di san Pietro di Guido che già possedeva. In seguito gli richiese un Agar e l’angelo nel deserto, su rame, da far pervenire al mercante veneziano Ga-spare di Luca, forse tratto dallo stesso soggetto su tela, oggi a Fano (Collezione Fondazione Cassa di Risparmio)40 o dalla versione di Pau (Musée des Be-aux Arts)41. Il quadretto percorse due volte la strada tra Bologna e Venezia: giunto nella città lagunare, Gaspare lo aveva respinto adducendo il prezzo trop-po alto (Macchiavelli pretendeva quindici doppie: dodici per il quadro e tre di commissione). Sostie-ne lo storiografo che, una volta rientrato a Bolo-gna, venne nuovamente richiesto a Venezia da un nobile, che lo pagò trentatrè doppie. Non contento dell’affare andato a buon fine, Macchiavelli pretese da Cantarini una nuova copia su tela alquanto mu-tata, al costo di dodici doppie, quindi lo rivendette a Bartolomeo Musotti, che a sua volta lo cedette ai Sampieri per quaranta doppie. Macchiavelli non fu l’unico per cui Simone lavorò: era incappato anche nel commercio più raffinato messo a punto da Bernardino e Cesare Locatelli42. I due avrebbero desiderato averlo al loro servizio con uno stipendio mensile, in cambio di un numero prefissato di opere al mese43, e forse, per un certo periodo, tale accordo fu mantenuto. Sarebbe stata la soluzione più sicura per il giovane, senza casa fis-sa e privo di appannaggio, e anche la più lucrosa per i due mercanti che avevano allestito una vera e propria raffinatissima galleria, in cui quadri di Guido, e alcuni del Guercino, erano copiati in in-finite varianti dagli allievi. La presenza di Cantari-

ni in casa Locatelli ha lasciato un’impronta decisa, sia per quanto riguarda i quadri originali, sia per le copie e le incisioni. Nove sono le teste autentiche, tra cui due versioni dello stesso quadro, la Circe. E’ complesso stabilire quale delle redazioni conosciute di quest’opera, modernamente indicata come Don-na vestita all’orientale con una conchiglia44, l’originale a Bristol (City Art Gallery) e la copia a Pesaro (col-lezione privata), corrisponda alle due repliche au-tografe di Simone e alle tre copie presenti in casa Locatelli. Il soggetto doveva avere una buona fortu-na in questi anni, visto che i mercanti possedevano un altro quadro con la medesima iconografia, che si differenziava solo per la presenza di un pennacchio sul turbante, riferito a Gennari, probabilmente Ce-sare, dati i rapporti che questi intratteneva anche con l’altro ramo della famiglia Locatelli45. L’offici-na Locatelli aveva anche un’altra particolarità che coinvolse Cantarini in prima persona: una stanza al pianoterra dove erano depositati un gran nume-ro di rami, pronti per essere incisi per la stampa, e accanto un ripostiglio in cui si trovavano un torchio da stampare in rame fornito. Sei tellarini da Santi con la tela, quattrocento ovadini di legno storti con le sue assicel-le dentro per accomodare santini di carta pecora... Tinta nera da stampare in una cassetta. Si trattava dunque di un vero e proprio laboratorio d’incisione: i rami e gli inchiostri, la carta per stampare, erano impi-lati sugli scaffali pronti per l’uso, mentre i quadri da tradurre in incisione si trovavano nelle stanze al piano superiore. I Locatelli avevano quindi aperto una piccola azienda cui Simone doveva in qualche modo sovrintendere, visto che lo stesso Guido era convinto che lui fosse il miglior intagliatore che mai avesse avuto nel proprio atelier. Puntualizza infatti Malvasia che non aveva mai Guido desiderato maggior-mente amicizia e famigliarità, che d’un bravo intagliatore, che ponendo molte di sue fatiche alla stampa, facesse pas-sare oltre i monti, con la comune partecipazione di quell’o-pera, il suo nome46. Si rallegrava quindi Reni d’avere finalmente trovato in Simone un degno divulgato-re, come era stato Marcantonio Raimondi per Raf-faello e Agostino Carracci per Tintoretto; anche se spesso gli rimandava indietro i disegni fattigli per-venire per la riproduzione all’acquaforte, dicendo: …volere egli tagliare le cose proprie, non le altrui: sapere ben anch’egli metter giù pensieri e istorie d’invenzione al pari di ogni altro47. Dall’inventario stilato alla morte di Guido si capisce che non esisteva un centro in-cisorio nella sua articolata bottega-casa e quindi è molto probabile che si appoggiasse a questo dei Lo-catelli, così ben attrezzato e rifornito di materiale, e che Simone fosse approdato in quella casa sulla scia

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dell’impellenza, che il suo maestro aveva d’incide-re le proprie opere. L’inventario Locatelli annovera rami lisci, preparati, imprimiti per dipingervi sopra e altri per essere intagliati. C’erano quindi quelli in-tagliati da autori famosi e altri incisi con immagini degne di essere riprodotte. La qualità e la quantità dei rami ci fa capire che siamo di fronte ad uno dei centri nodali di diffusione iconografica a Bologna nel Seicento: qui si contano infatti quelli della Ma-donna del Rosario e della Strage degli innocenti di Guido, della Madonna del Rosario e del Sant’Anto-nio da Padova di Guercino, ma anche le lastre incise da Agostino Carracci su disegni suoi e di Annibale, e poi le incisioni tratte dai quadri esposti in casa Lo-catelli. La presenza di Simone è determinante: sue sono tre acquaforti piccole con Madonne e altre due più grandi, e inoltre tre rami mezzani.Ma anche con i Locatelli Simone, ad un certo pun-to, allentò i rapporti e in quel momento fu intercet-tato da un altro astuto sfruttatore di pittori, Luigi, padre di Giovan Battista Manzini. E’ ben noto che Reni, quando il vizio del gioco lo aveva completa-mente annientato, venne pagato 40 scudi al giorno per dipingere quattro ore e produrre delle mirabili teste, che ovviamente venivano rivendute a 50 scudi l’una da chi aveva stabilito quest’affare, ovvero Man-zini, già vicino a lui, forse più per interessi econo-mici che vera condivisione intellettuale48. Ritornato in se’ Reni, riappacificatosi con la sua vita e la sua casa in via delle Pescherie e riprese le sue altolocate commissioni, il marchese Manzini pensò di inter-cettare qualcuno altrettanto bravo e certamente più bisognoso. Presa l’occasione di costui [Cantarini] che per il suo mal procedere era da tutti abborrito onde di fame si moriva…se lo prese in casa facendoselo padrino e protet-tore, dandogli partamento e facendogli lautissima tavola con patto gli lavorasse tante opere l’anno49. Al Pesarese dovette sembrare una soluzione perfetta: vivere in una casa nobile, in compagnia di un poeta stimato e buon conoscitore di quadri, replicando un ruolo che Guido aveva già avuto. In realtà, con il passare delle settimane, l’invito si trasformò in una trappo-la: Luigi Manzini pretendeva di dir la sua su ogni quadro, ogni invenzione, ogni pensiero e non gli lasciava spazio. S’aggiunge che de’ quadri che faceva per convenzione al Marchese e per i quali sempre gl’era sopra, ne facesse dispaccio massime a Venezia sotto nome di Gui-do che facilmente passava onde conosciuto nudrirsi sotto coperta di genio virtuoso una avidità interessata sovra le sue fatiche appoggiata prese tanto odio al marchese che nulla di più, onde ciò che a quella tavola mangiava se li convertisse il tanto velleno. L’inganno stava annidato ancora una volta nel cono d’ombra di Reni: Simone

non era stato accettato in casa Manzini per il suo estro, per i suoi pensieri, per il suo stile forte e gene-roso, ma per la capacità di emulare il divino Guido. La crisi vera irruppe poco dopo quando il Pesarese diede in prestito tutti i suoi guadagni, 700 piastre fiorentine scrive Malvasia, - cioè circa 700 scudi ro-mani, ovvero 3500 lire bolognesi50 -, al Marchese per risanare un debito. Manzini non restituì la som-ma, così Cantarini se ne andò da palazzo spargendo maldicenze e fu costretto a scappare da Bologna. Ritornò solo grazie all’intervento del legato Giulio Sacchetti, ma la crisi ormai era in atto: nel 1637 liti-gò anche con Reni per la commissione della Trasfi-gurazione per la chiesa di Forte Urbano a Castelfran-co Emilia e in breve lasciò la città.

Note

1 Sulla copia si vedano Paolucci 1971; Ferretti 1981; Cervini 1989; Morselli 1992; De Vito 1996; Vodret 1998; Tra committen-za e collezionismo 2000; Caretta 2004; Terzaghi 2008; Terzaghi 2009; La copia 2010.

2 Malvasia 1678, p. 493.

3 Brogi 2001, p. 242 n. A1. Concordo sul fatto che l’opera tanto celebrata e desiderata da Marino, dovesse essere più smagliante dal punto di vista stilistico.

4 Malvasia 1678, pp. 467, 495.

5 Malvasia 1678, p. 333.

6 Malvasia 1678, pp. 500, 502.

7 De Benedictis 1991, p. 307.

8 Negro, Roio 1998, p. 313. Si veda anche Danesi Squarzina 2001, p. 230.

9 Malvasia 1678, p. 47.

10 Si veda la scheda di Scolaro 1994, pp. 184-185, n. 39.

11 Malvasia 1678, p. 224.

12 Si veda Ghelfi 2007, pp. 405-469, in particolare nn. 1915,

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1922, 2066, 2129, pp. 434, 435, 451, 457, 465n.

13 Malvasia 1678, p.253.

14 Su questo tema si veda Guido Reni 2007, e il saggio di Spear 2007. Alla serie delle repliche del San Sebastiano di Madrid si deve aggiungere una copia riferita a Francesco Costanzo Cata-nio, allievo di Reni, che si trova nella chiesa dei Santi Giuseppe Tecla e Rita di Ferrara.

15 Pepper 1988, pp. 240-241. Lo stesso Reni ne fece una re-plica (come ricorda Malvasia, Pepper 1988, n. 85 e n. 55 p. 241, per le copie). Il biografo ne ricorda altre: due di Francesco Gessi per i Cappuccini di Modena, di Jean Boulanger per le Fiandre, di Bolognini per i Cappuccini di Parma, una copia a Ferrara in Santa Caterina da Siena (perduta), un’altra presso i cappuccini di Frascati, una a Berlino nel Kaiser Friedrich Museum, andata distrutta.

16 Malvasia 1678, p. 45. La discussa lettera di Raffaello al Fran-cia citata da Malvasia non permette di riconoscere alcun quadro certo del Francia, sebbene l’Autoritratto di Angers (Musée des Beaux Arts) firmato in alto a sinistra, sia stato dubitativamente associato a tale menzione, Negro, Roio 1998, p.188 n.63.

17 Malvasia 1678, p.24.

18 Il 21 novembre 1638 Guercino ricevette 50 ducatoni da Antonio Fabbri per il ritocco della copia di Cristo che scaccia i mercanti dal tempio donata al cardinale Pallotta (Libro dei conti 1997, n. 184), si veda la scheda di Boccardo 2009, pp. 116-117.

19 Malvasia 1678, p.553.

20 Secondo Baglione Gabriele Bombasi, dopo aveva fatto arri-vare da Bologna una Santa Caterina da Annibale con gran manie-ra, ad imitatione del Correggio fatta, gli chiese di trasformarla in Santa Margherita. Ottonelli riteneva che l’opera fosse il frutto di un intervento di Carracci sulla copia eseguita da Massari, idea ri-presa anche da Bellori. Alla partecipazione di Massari ha creduto Posner 1971, ma già Cavalli 1959 prima e Cavina 1986 poi hanno riaffermato la piena autografia di Annibale, Ginzburg 2006, n. VI.5. Le varie proposte attributive, come nel caso del Guercino sopra analizzato, dimostrano come, dinanzi ad un quadro ritoc-co, la critica rimanga spiazzata e divisa.

21 A tal proposito si vedano le lettere di Bernardino Spada ri-parato a casa del fratello a Brisighella, che riportano notizie di esportazioni di quadri messi in quarantena, Dirani 1982-1983.

22 Malvasia 1678, p.256.

23 Malvasia 1678 ed.1841, p.376.

24 Marzocchi 1983, p.188.

25 Marzocchi 1983, p.180.

26 Marzocchi 1983, p.185.

27 Malvasia 1678, ed. 1841, II, p. 376.

28 Pepper 1988, pp. 221-222: al Kunsthistorisches Museum di Vienna, a Monaco, Alte Pinakothek (inv. 5781), a Lille (Musée Wi-car) e Orléans (Musée des Beaux Arts), a Palazzo Pitti (inv. 1890) e nella Pinacoteca Nazionale di Bologna, per cui si veda Emiliani 1973, p. 253. Una copia del dipinto è attestata anche nell’inven-tario di Palazzo reale a Torino nel 1635, Pepper 1988, p. 222.

29 Pulini 2002. Della stessa opinione sono sia Anna Maria Am-brosini Massari che Daniele Benati, comunicazione orale.

30 Si deve a Massimo Pulini questa intuizione.

31 Si veda la scheda diAmbrosini Massari 1997b, pp. 85-86.

32 Malvasia 1678, I p. 96, II p. 31; Marino 1619 p. 62; Pepper 1988, pp. 221-222 n. 19.

33 Dirani 1982-1983, p. 85. La lettura di questa lettera da parte di Pepper l’ha portato a ritenere che il quadro del Louvre si tro-vasse a Genova e quello di Teodosio Porta fosse perduto.

34 Venturi 1882, p. 186. Sui dipinti bolognesi acquistati da Fran-cesco I si veda Ghelfi, in corso di stampa.

35 Pepper 1988, pp. 336-337.

36 Diekamp 2012, pp. 51-75.

37 Il 16 dicembre 1632 il cardinale acquistò dal Guercino per 262 scudi una Primavera, oggi irrintracciabile, che, stando a Mal-vasia, era un quadro grande con due puttini, si veda scheda di Ghelfi 2011, p. 173.

38 Si veda la scheda di Ambrosini Massari 1995, p.145 n. 90.

39 Morselli 1997b; Morselli 1998.

40 Ambrosini Massari 1997b, n. 28, pp. 127-128.

41 Ambrosini Massari 2009b, pp. 325-394 e nota 205.

42 Morselli 1997, p. 51 sgg.

43 Marzocchi 1983, p. 181.

44 Bellini 1987, n. 76.

45 Morselli 1997, p. 51 sgg. e 1998.

46 Malvasia 1678, p. 376.

47 Malvasia 1678, p. 377.

48 Malvasia 1678, II, p. 17. Manzini aveva pubblicato Il trionfo del pennello: Raccolta d’alcune composizioni nate a gloria d’un Ratto di Elena di Guido, Bologna, si vedano Ciammitti 2000 (2001), p. 203, nota 7; Morselli 2010.

49 Marzocchi 1983, pp. 183-184.

50 La somma risparmiata da Cantarini, all’epoca venticinquen-ne, è abbastanza sostanziosa per un pittore forestiero e basta da sola a far capire che egli non era in ristrettezze economiche e che avrebbe potuto permettersi uno studio proprio e l’affitto di una casa.

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