Falcone Voleva La Riforma Ma Fu Lasciato Solo
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Falcone voleva la riforma ma fu lasciato solo
Il premier Berlusconi ha promesso di attuare la riforma della giustizia, ispirandosi al pensiero di Giovanni Falcone. Non è una battuta agostana, bensì una savia e condivisibile argomentazione. Falcone una riforma strutturale l'aveva pensata per sommi capi vent'anni fa e per il suo anticonformismo fu condannato, demonizzato e delegittimato.
Giovanni fu lasciato solo in pasto ai suoi assassini proprio da quella sinistra
togata, che ancor oggi difende con le unghie e con i denti i propri privilegi
corporativi, anzi da vera e propria casta. Dall'indegna canéa, si dissociarono,
va detto a loro merito, Giancarlo Caselli e Ilda Boccassini, la quale, anzi,
accusò così alcuni magistrati:
«Voi avete fatto morire Giovanni. Adesso qualcuno ha pure il coraggio di
andare ai suoi funerali. Due mesi fa ero a Palermo in un'assemblea
dell'Associazione nazionale magistrati. Non potrò mai dimenticare quel
giorno. Le parole più gentili, specie dalla sinistra, da Md, erano queste:
Falcone si è venduto al potere politico. Mario Almerighi lo ha definito nemico
politico. Tu, Gherardo Colombo, che diffidavi di Giovanni, perché sei andato al
funerale? Giovanni è morto con l'amarezza di sapere che i suoi colleghi lo
consideravano un traditore. E l'ultima ingiustizia l'ha subita proprio da quelli
di Milano, che gli hanno mandato una richiesta di rogatoria in Svizzera senza
gli allegati. Mi ha telefonato e mi ha detto: "Non si fidano neppure del
direttore degli Affari Penali"…».
La Boccassini si riferiva al pool milanese e a Di Pietro, che allora trattarono
Falcone come un poco di buono. Costoro, poi, cadavere ancora caldo - come
scrisse Montanelli - fecero a gara nel farsi vedere con le «unghie conficcate
nella bara».
Su Giovanni Falcone, specie Di Pietro, stante la terribile imparità, dovrebbe
soltanto nascondersi e tacere.
Va aggiunto, inoltre, perché l'argomento è ancora tutto da sviscerare, che a
Capaci, 23 maggio 1992, insieme a Falcone, alla moglie, agli agenti della
scorta, alla stessa civiltà giuridica, muoiono le possibilità di far chiarezza sul
riciclaggio del «tesoro» del Pcus, misteriosamente scomparso a Mosca nel
1991 e sicuramente transitato nella Penisola presso «compagni» ed amici
fidati.
Del resto, quel filone di ricerca, che Falcone affidò in ultimo a Borsellino,
cadde del tutto con l'ulteriore tremenda strage di via D'Amelio (19 luglio
1992).
Un pensiero non conforme. Cosa immaginava Falcone di tanto spaventoso per
codesta genìa di togati?
A Milano il 5 novembre 1988, nel corso di una conferenza pubblica, fece il
punto sulla progressione automatica di carriera:
«occorre rendersi conto che l'indipendenza e l'autonomia della magistratura
rischia di essere gravemente compromessa se l'azione dei giudici non è
assicurata da una robusta e responsabile professionalità al servizio del
cittadino. Ora, certi automatismi di carriera e la pretesa inconfessata di
considerare il magistrato - solo perché ha vinto un concorso di ammissione in
carriera - come idoneo a svolgere qualsiasi funzione (una specie di superuomo
infallibile ed incensurabile) sono causa non secondaria della grave situazione
in cui versa attualmente la magistratura. La inefficienza dei controlli sulla
professionalità, cui dovrebbero provvedere il CSM ed i consigli giudiziari, ha
prodotto un livellamento dei magistrati verso il basso».
Fu immediatamente richiesta nei suoi confronti una mozione di censura da
parte di esponenti dell'Anm.
Falcone non coltivava teoremi, né voleva riscrivere la storia d'Italia. Per lui,
giudice a Berlino, esisteva la prova, non le illazioni, le prove logiche, le
deduzioni politicizzate.
Pagò subito il suo anticonformismo.
L'Unità risuonò: «Falcone preferì insabbiare tutto».
Repubblica passò alle ingiurie: Falcone è un vanitoso, un montato, uno che
assomiglia ai «guitti televisivi».
Scalfari sponsorizzò il velenoso Leoluca Orlando Cascio, che accusava Falcone
di nascondere prove compromettenti verso politici democristiani: «Orlando
apre davanti al Csm i cassetti dei misteri siciliani».
Giovanni, imperterrito, attizzando l'odio dei fautori dell'uso alternativo del
diritto, rifiutò solennemente di piegarsi al khomeinismo giudiziario.
Fu costretto a difendersi da accuse demenziali, davanti alla Santa Inquisizione
del Csm (15 ottobre 1991), perché aveva criticato un certo «modo di far
politica attraverso il sistema giudiziario».
Avendo capito quello che stava montando, presagì lucidamente il forcaiolismo
dei primi anni Novanta del secolo scorso: «L'Italia pretesa culla del diritto,
rischia di diventarne la tomba».
Infatti, lo diventò.
Giovanni, da eroe dell'antimafia era, ormai trasfigurato a «nemico» di classe,
di partito, di corrente, di casta, un «venduto» ai partiti liberaldemocratici, che
avevano avuto il torto di assicurare agli italiani mezzo secolo di libertà, di
progresso, di benessere.
Il Notiziario di Magistratura democratica publicò una lettera, firmata, fra gli
altri, da Antonino Caponnetto, decisamente ostile al suo progetto di
Superprocura, definendolo «inadeguato, pericoloso, controproducente».
Infine, come preannunciato dall'Unità e dal professor Pizzorusso, il Csm lo
bocciò per la carica di Superprocuratore, inibendo al padre di gestire la sua
creatura.
Fu il sigillo finale del rigetto dell'uomo, non solo del magistrato, che s'era
schierato per un controllo istituzionale sull'attività del pm, per la separazione
delle carriere, per farla finita con l'obbligatorietà dell'azione penale e con la
partitocrazia del Csm.
Brani della «riforma» Falcone:
Ecco, di seguito, un'antologia del suo attualissimo ragionamento sui mali della
giustizia:
- «Il CSM è diventato anziché organo di autogoverno e garante dell'autonomia
della magistratura, una struttura da cui il magistrato si deve guardare... (con)
le correnti trasformate in cinghia di trasmissione della lotta politica».
-«Quanti altri danni deve produrre questa politicizzazione della giustizia?».
-«Io dico che bisogna stare attenti a non confondere la politica con la giustizia
penale».
-«Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del
sospetto non è l'anticamera della verità. La cultura del sospetto è l'anticamera
del Khomeinismo».
-«Dopo tanto tempo e tanti sforzi spesi per far riconoscere i connotati
dell'organizzazione mafiosa, si finisce col mescolare nel calderone di Cosa
Nostra tutto ciò che può assomigliargli».
-«Al di sopra dei vertici organizzativi di Cosa Nostra non esistono terzi livelli
di alcun genere».
- «L'idea del terzo livello prende le mosse... da una relazione svolta da me e
dal collega Giuliano Turone a un seminario del 1982 a Castelgandolfo...
Attraverso un percorso misterioso, per non so quale rozzezza intellettuale, il
nostro terzo livello è diventato il 'grande vecchio', il 'burattinaio', che, dall'alto
della sfera politica, tira le fila della mafia. Non esiste ombra di prova o di
indizio che suffraghi l'ipotesi di un vertice segreto che si serve della mafia,
trasformata in semplice braccio armato di trame politiche» .
-«Mi sento di condividere l'analisi secondo cui, in mancanza di controlli
istituzionali sull'attività del Pm, saranno sempre più gravi i pericoli che
influenze informali e collegamenti occulti con centri occulti di potere possano
influenzare l'esercizio di tale attività. Mi sembra giunto il momento di
razionalizzare e coordinare l'attività del Pm finora reso praticamente
irresponsabile da una visione feticistica della obbligatorietà dell'azione penale
e dalla mancanza di efficaci controlli della sua attività» .
-«il pm non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come
invece oggi è, una specie di paragiudice... Chi, come me, richiede che siano,
invece, (giudice e pm) due figure strutturalmente differenziate nelle
competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell'indipendenza del
magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell'azione penale, desideroso
di porre il Pm sotto il controllo dell'Esecutivo».