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1 Facoltà: Filosofia Master 1° livello Consulenza Filosofica e Antropologia Esistenziale TITOLO Infermiere e Filosofia: una nuova Umanizzazione delle Cure Relatore Prof. Guido Traversa Candidato: Giuseppe Cannone Matr. 00013079 Anno Accademico 2016-2017

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Facoltà: Filosofia

Master 1° livello Consulenza Filosofica e Antropologia Esistenziale

TITOLO Infermiere e Filosofia: una nuova Umanizzazione delle Cure Relatore Prof. Guido Traversa

Candidato: Giuseppe Cannone Matr. 00013079

Anno Accademico 2016-2017

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Infermiere e Filosofia: una nuova Umanizzazione delle Cure Introduzione Pag. 3

Capitolo 1 Fibrosi Cistica Pag. 5 1.1 Fibrosi Cistica - cos’è – brevi cenni Pag. 5 2 Capitolo 2 la Figura dell’Infermiere Pag. 8 2.1 L’ Infermiere, chi è? Pag. 8 2.2 Profilo Professionale . Riferimenti Legislativi – Commenti Pag. 8 2.3 Codice Deontologico Pag. 10 2.4 Patto Infermiere – Cittadino Pag. 12 2.5 Nascita dell’ospedale Pag. 13 3 Capitolo 3 Umanizzazione delle cure Pag. 14 3.1 Umanizzazione delle cure Pag. 14 3.2 Cura Pag. 15 3.3 Carta Europea dei diritti del malato Pag. 16 4 Capitolo 4 Filosofia e Medicina Pag. 19 4.1 Filosofia e Medicina Pag. 19 4.2 Excursus storico Pag. 20 4.3 La felicità secondo Epicuro Pag. 22 4.4 Dolore. Considerazioni sul concetto “dolore” Pag. 29 4.5 Esistenzialismo – Cenni del pensiero filosofico Pag. 30 4.6 Martin Heidegger Pag. 39 5 Capitolo 5 La Comunicazione Pag. 41 5.1 La Comunicazione Umana – Logoanalisi Coscienziale Pag. 41 5.2 Assiomi della comunicazione Pag. 42 5.3 La Linguistica Pag. 43 5.4 Il Messaggio: tra linguaggio digitale e linguaggio analogico Pag. 47 5.5 La Logoanalisi Coscienziale Pag. 52 5.6 Dagli assiomi della comunicazione alla conoscenza di sé e degli altri Pag. 56 6 Capitolo 6 Questionario Pag. 73 7.1 I risultati del questionario Pag. 73 Conclusioni Pag. 75 Note Pag. 80 Allegati Pag. 107 Sitografia – Bibliografia Pag.114

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Introduzione

Decidere di iscrivermi al Master in “Consulenza Filosofica e Antropologia Esistenziale” presso

l’Ateneo Pontificio Regina Apostolurum, è stata una inevitabile conseguenza del mio vissuto di

Infermiere da oltre 25 anni.

In tutti questi anni sentivo e, sento tutt’ora, l’insoddisfazione del livello di professionalità raggiunto

che non soddisfa pienamente il senso profondo di quel mantra 1 che è l’habitus 2 della mia

professione, il “prendersi cura”.

Ammalarsi di una patologia ereditaria quale è la Fibrosi Cistica, reparto in cui lavoro da 10 anni,

caratterizzata da una evoluzione ad andamento cronico e che mina profondamente la qualità della

vita fin dalla nascita e per tutta l’esistenza del soggetto; pone la persona in un continuo e mai

definitivo confronto con se stesso, con le sue emozioni, le sue percezioni, le sue ansie, angosce; alla

ricerca di una condotta di vita che deve assomigliare il più possibile simile alla vita quotidiana di

ogni persona, che non sia “segnata” da questa patologia. Fortunatamente le ricerche scientifiche

hanno allungato l’età media di vita, alzando la soglia di aspettativa di vita dai 27 anni del 1986 ai 40

anni del 20103.

Non è raro doversi ricoverare anche subito dopo la morte di un fratello o sorella per la stessa

malattia; di una madre che si alterna nella degenza, appena uno o due giorni dopo la dimissione del

figlio. Sono traumi psicologici che non di rado sono vissuti in silenzio ma che spesso l’infermiere

vede, tocca con mano, sente, durante il turno di notte, quando il silenzio del reparto viene infranto

da pianti e gemiti soffocati, che escono da qualche stanza di degenza.

La medicina ha fatto passi da gigante e la chirurgia permette trapianti di più organi, polmoni,

pancreas, reni, fegato, citando quelli più colpiti da tale malattia; ma questo non basta per queste

persone o per chiunque soffra di patologie croniche. Oltre alle cure del corpo, necessitano

intensamente le cure per l’anima, per cercare di non ledere o semplicemente di non intaccare la sua

dignità di persona che come S. Kierkegaard; M. Heidegger ; L. Binswanger; k. Jaspérs; ed altri

“Esistenzialisti”, considerano: Singolo; Unico; Irripetibile; Non Comparabile.

Le categorie e la filosofia dell’Esistenzialismo, saranno trattate in un apposito capitolo, se pure in

maniera non approfondita.

Le lamentele o le frasi di approvazione che si riscontrano dalle moltissime persone colpite dalla

fibrosi cistica incontrate durante i loro numerosi ricoveri, ai controlli, negli incontri con la

Psicologa, quasi mai riguardavano e riguardano le cure, le terapie, il menu dell’ospedale o il cuscino

troppo duro; bensì riguardano i rapporti umani. A tale proposito si è somministrato un questionario.

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Mi è parso giusto dedicare una parte di questo elaborato ad una delineazione riassuntiva di alcuni

aspetti prettamente medici della patologia, da cui è semplice desumere l’impegno assistenziale; il

tentativo di dimostrare un trait-d’union tra la mia professione e ciò che di filosofico io ritengo

esserci in essa, esaminando la normativa civile e penale che la regola e soprattutto il Codice

Deontologico.

A far star bene o male emotivamente una persona è il fatto di trovare o meno un medico e un

infermiere attento alla persona, ai suoi bisogni, al suo percorso. Due professionisti quali sono il

medico e l’infermiere che sappiano non solo curare e assistere, ma anche prendersi cura della

persona; che sappiano comunicare le cose brutte con garbo e le cose belle con il sorriso; che

dimostrino sincero interesse per chi hanno di fronte, nonostante le loro mille incombenze.

Le cicatrici del corpo guariscono o vengono lenite nell’intensità dal dolore, a volte molto prima di

quelle dell’anima.

Questo fa la differenza.

Dallo studio degli argomenti trattati mi è parso da subito porre l’attenzione sui temi della

comunicazione e una riflessione su alcuni temi della vita che hanno caratterizzato il pensiero

Esistenzialista e non; nella certezza che i temi trattati possano essere strumenti di dialogo al fine di

una migliore comprensione dell’altro.

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Capitolo 1

Fibrosi Cistica

1.1 Cos’è la Fibrosi Cistica. Brevi cenni.

La Fibrosi Cistica (FC) è la più comune delle malattie genetiche gravi, autosomica recessiva, per

la quale, ad oggi, non c’è guarigione. Non è contagiosa, né si può contrarre nel tempo. E’ una

malattia che viene normalmente diagnosticata nei primi mesi di vita.

Chi nasce con la malattia ha ereditato un gene difettoso sia dal padre che dalla madre, cosiddetti

portatori sani e spesso inconsapevoli del loro stato di portatori. In Italia c’è un portatore sano ogni

25 persone. la coppia di portatori sani ad ogni gravidanza, ha 1 probabilità su 4 di avere un figlio

malato (Fig. 1). La FC è causata da mutazioni del gene CFTR localizzato sul braccio lungo del

cromosoma 7; attualmente le mutazioni del gene riconosciute sono oltre 2.000.

La FC colpisce le ghiandole che producono muco, gli enzimi della digestione e il sudore. Se le

ghiandole del sudore non funzionano bene rilasciano una quantità eccessiva di sale. La malattia

viene spesso diagnosticata analizzando la quantità di sale nel sudore (Test del sudore). In base ad

alcune leggende popolari, le nutrici un tempo leccavano la fronte dei neonati: se il sudore aveva un

sapore troppo salato, predicevano che il bambino sarebbe morto prematuramente di congestione

polmonare. La malattia ha effetti ad ampio spettro perché le ghiandole colpite svolgono alcune

importanti funzioni vitali. La FC comporta la produzione di un muco spesso e denso (il sudore dei

pazienti affetti da FC è 5 volte più salato) che determina i sintomi caratteristici della malattia. Le

secrezioni ostruiscono i dotti che portano gli enzimi della digestione dal pancreas all’intestino

tenue, riducendo gli effetti della digestione. Come conseguenza, i bambini colpiti spesso soffrono di

malnutrizione, nonostante un aumento di appetito e di quantità di cibo consumato. Col progredire

della malattia, si formano delle cisti nel pancreas e la ghiandola degenera in una struttura fibrosa,

che dà il nome alla malattia. Dal momento che il muco spesso provocato dalla FC blocca anche le

vie aeree dei polmoni, la maggior parte dei pazienti colpiti da fibrosi cistica sviluppa patologie

ostruttive dei polmoni e infezioni, che portano a morte prematura (Fig. 2).

Quasi tutti i casi di FC si registrano in figli di genitori fenotipicamente normali, eterozigoti.

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Fig. 1.1 Schema ereditarietà FC

Fig. 1.2 schema dei: Segni e Sintomi della F.C.

Una peculiarità della FC è il suo fenotipo “eterogeneo”, ossia l’entità dei sintomi e il decorso della

malattia sono molto variabili da soggetto a soggetto: alcuni nascono con ileo da meconio e

manifestano sintomi polmonari precoci, altri hanno scarse manifestazioni polmonari e lunga vita3.

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Tale eterogeneità può essere spiegata dalla presenza di numerosissime mutazioni che il malato ha

nel proprio corredo genetico. Ogni malato eredita una mutazione dal padre e una dalla madre: le

due mutazioni possono essere uguali o diverse fra loro e l’insieme delle mutazioni si dice “genotipo

CFTR” mentre l’insieme delle manifestazioni della malattia si dice “fenotipo.

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Capitolo 2

La Figura dell’Infermiere

2.1 L’Infermiere – chi è?

L' Infermiere è un professionista sanitario dell'area delle scienze infermieristiche, che secondo i

requisiti previsti dalla normativa è responsabile dell' assistenza infermieristica generale in Italia

(Decreto Ministeriale n. 739/1994) e nel resto di Europa con le direttive Europee 2005/36 e

2006/100.

2.2 Profilo Professionale4. Riferimenti Legislativi - Commenti

Nel 1994 nasce ufficialmente anche in Italia la Professione Infermieristica propriamente detta. Ciò

grazie al Decreto Ministeriale n. 739 che sancisce la entrata ufficiale nel mondo delle professioni

sanitarie. Da allora l’Infermiere è diventato un essere pensante, dotato di una scienza e di una

coscienza.

Il profilo professionale dell'infermiere, composto da 3 articoli, ad oltre 20 anni dalla sua

emanazione attraverso il DM 739/94, continua a svolgere il ruolo di pietra miliare della professione

infermieristica.

a) Da esecutori a Professione Intellettuale

Da allora, così come recita il primo comma del decreto che delinea il profilo professionale della

professione infermieristica, (omissis)... “l'infermiere è l'operatore sanitario che, in possesso del

diploma universitario abilitante e dell'iscrizione all'albo professionale, è responsabile dell'assistenza

generale infermieristica”.

Per la prima volta, l'infermiere viene identificato quale operatore sanitario, vedendo finalmente

scomparire il carattere di ausiliarietà accostato fino al 1994 alla professione infermieristica.

A seguito del DM 739/94 quindi, l'infermiere diventa un professionista sanitario e come tale

acquisisce l'onere della responsabilità giuridica del proprio operato, responsabilità che può essere

di natura penale, civile e disciplinare.

Attraverso il DM 739/94 viene inoltre individuato il potenziale operativo dell'assistenza

infermieristica: il comma 2 dell'Articolo 1, afferma che “l'assistenza infermieristica preventiva,

curativa, palliativa e riabilitativa, è di natura tecnica, relazionale, educativa. Le principali

funzioni sono la prevenzione delle malattie, l'assistenza dei malati e dei disabili di tutte le età e

l'educazione sanitaria”.

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Si può notare, attraverso la lettura del secondo comma, come venga dato particolare risalto

all'aspetto relazionale della professione infermieristica rispetto al passato; ritrovandosi ad operare in

contesti in cui vengono erogate cure palliative, l'aspetto relazionale, che si esplica attraverso il

rapporto infermiere/paziente, risulta essere il "valore aggiunto" che il DM 739/94 evidenzia, anche

attraverso la funzione educativa, intesa non solo come educazione alla salute, ma anche come

formazione in ambito lavorativo.

Un altro importante aspetto del DM 739/94 è quello espresso dal comma 3 dell'Articolo 1, il quale,

nell'affermare che “l'infermiere partecipa all'identificazione dei bisogni di salute della persona e

della collettività”, riconosce il ruolo fondamentale del lavoro di équipe all'interno della quale la

professione infermieristica riveste un ruolo fondamentale, essendo proprio l'infermiere il

professionista che per primo si interfaccia col paziente/utente quando questi si rivolge ad una

qualsiasi struttura sanitaria.

Viene in questo comma riconosciuta la capacità esclusiva dell'infermiere di identificare i bisogni

di assistenza infermieristica, da cui scaturisce poi l'identificazione di obiettivi preceduti da

un’idonea pianificazione dell'assistenza, la quale dovrà portare a dei risultati attraverso l'uso di

protocolli e procedure assistenziali.

I risultati dell'assistenza infermieristica erogata sono sempre soggetti ad eventuale valutazione o

rivalutazione, poiché come riportato sempre all'interno del terzo comma del DM 739/94,

“l'infermiere pianifica, gestisce e valuta l'intervento assistenziale infermieristico”.

Nel terzo comma del DM 739/94 viene individuato altresì l'infermiere quale garante della corretta

applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche, funzione che sottolinea l'importanza

della cooperazione tra la professione infermieristica e quella medica, evidenziando ancora una volta

il ruolo dell'infermiere all'interno dell'équipe multidisciplinare e del mondo relazionale che lo

caratterizza a 360°.

Resta inteso che l'attività infermieristica può essere svolta dal professionista sia individualmente sia

in collaborazione con altre tipologie di operatori, sociali o sanitari.

Veniamo ora ad uno dei punti "cruciali" del comma 3 del DM 739/94: “per l'espletamento delle

funzioni si avvale, ove necessario, dell'opera di personale di supporto”. Quanto affermato in questo

punto evidenzia forse in maniera più lampante il passaggio da arte ausiliaria a professione, poiché

ora è l'infermiere a potersi avvalere dell'opera di personale di supporto ed occorre precisare che

quando il DM 739/94 afferma "ove necessario", si intende "ove il professionista infermiere lo

ritenga necessario", sottintendendo un’autonomia decisionale dell'infermiere nella disposizione di

interpellare l'ausilio di altre figure.

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Il DM 739/94 inoltre, sempre stando al comma 3, nell'individuare le aree in cui l'infermiere svolge

la sua attività (strutture sanitarie pubbliche o private, assistenza domiciliare, territorio), specifica

che essa può essere svolta sia in regime di dipendenza che libero professionale. La Libera

Professione non era prevista prima dell'emanazione del DM 739/94: un’ulteriore dimostrazione di

come il decreto in questione sia stato davvero "rivoluzionario" per la professione infermieristica.

Altra grande innovazione che il DM 739/94 apporta alla professione infermieristica è rappresentata

dal comma 4 dell'articolo 1 del decreto, nel quale è stabilito che “l'infermiere contribuisce alla

formazione del personale di supporto e concorre direttamente all'aggiornamento relativo al proprio

profilo professionale e alla ricerca”.

Per la prima volta, la figura dell'infermiere, che come già noto fino all'emanazione del DM 739/94

era inquadrata come ausiliaria della professione medica, viene individuata quale figura idonea alla

formazione di altro personale nonché parte integrante del processo di ricerca in ambito sanitario,

fino ad allora "estraneo" alla professione.

Di grande rilevanza è anche la possibilità che il decreto in questione attribuisce agli infermieri

riguardo all'aggiornamento relativo al proprio profilo professionale, segno del raggiungimento di

un’autonomia professionale che verrà poi completata con la Legge 26 febbraio 1999 n. 42 -

Disposizioni in materia di professioni sanitarie.

Il comma 5 del DM 739/94 individua invece le cinque aree di formazione post base cui i

professionisti infermieri possono accedere (sanità pubblica, pediatria, geriatria, area critica e salute

mentale) e viene specificato nel comma 6 che il Ministero della Sanità potrà individuare ulteriori

aree specialistiche che prevedano una formazione complementare post base.

L'articolo 1 del DM 739/94 si conclude con il comma 7, all'interno del quale viene affermato che il

Ministero della Sanità, con apposito decreto, stabilisce che al termine del percorso formativo post

base verrà rilasciato ai professionisti infermieri uno specifico attestato che costituisce titolo

preferenziale per l'esercizio delle funzioni specifiche nelle diverse aree precedentemente

individuate, previo superamento di apposite prove finali aventi carattere valutativo.

In seguito all'emanazione del DM 739/94 viene quindi riconosciuta alla professione infermieristica

la natura di professione intellettuale e vengono per legge attribuite agli infermieri italiani

autonomia professionale, competenze e responsabilità che diventeranno pilastri fondamentali della

professione e che, al contempo, segneranno il cammino dell'infermieristica italiana verso una

sempre maggiore evoluzione.

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2.3 Codice Deontologico 5

Il Codice Deontologico degli Infermieri, in attesa dell’istituzione dell’Ordine, in discussione in

Parlamento, è da qualche tempo in fase di revisione. Un’apposita commissione istituita dalla

Federazione Nazionale dei Collegi IPASVI si sta occupando di riscriverlo e di attualizzarlo. Ed è

“vecchio” solo di 7 anni. Quello vigente risale, infatti, al 2009 e in alcuni punti è contestato dagli

Infermieri stessi.

Il Codice Deontologico, è Il cardine della professione infermieristica, un insieme di regole e

principi adottati dalla professione che ne orienta il comportamento: è un patto esplicito dei

professionisti con la società ed è il più importante atto di autoregolamentazione.

Elaborato in seno alla professione stessa, viene successivamente recepito dal Legislatore e assume

forza di legge in caso di contenzioso (all’inosservanza delle norme deontologiche, inoltre,

corrisponde l’intervento del Collegio di riferimento il quale può procedere con sanzioni che vanno

dall’ammonizione/avvertimento alla censura, dalla sospensione a termine fino alla radiazione

dall’Albo professionale).

È il Codice Deontologico a fissare le norme dell’agire professionale dell’Infermiere e a definire i

principi guida che strutturano il sistema etico in cui si svolge la relazione con l’assistito; per farlo si

basa sulla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e sulla Costituzione Italiana.

Il Codice Deontologico racchiude i principi etici della professione ed è al suo interno che è

spiegato come l’Infermiere agisca nel rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, concependo la

salute come un bene fondamentale dell’individuo e un interesse della collettività, tenendo conto dei

valori etici, ideologici, religiosi, culturali, etnici e sessuali dell’individuo.

Ciò che deve essere chiaro è che l’assistenza infermieristica è componente essenziale e diversificata

dell’assistenza sanitaria e ricade sotto la responsabilità professionale dell’infermiere,

responsabilità che consiste nell’assistere, curare e prendersi cura della persona, nel rispetto

della vita, della salute, della libertà e dignità dell’individuo (art.3).

L’infermiere, infatti, è un professionista sanitario che possiede, da un lato, una competenza tecnica

esclusiva articolata in disciplina, modelli e teorie di riferimento, strumenti e metodi e, dall’altro

lato, un ideale di servizio che è incarnato proprio dal Codice deontologico.

Nella pratica professionale, l’infermiere incontra quotidianamente conflitti dalla valenza etica ed è

portato a prendere decisioni secondo la deontologia: (da “deon”, discorso su ciò che va fatto,

dovere; ed “éthos”, comportamento, tenuti insieme da “logos”, discorso) ovvero l’insieme dei

valori, dei principi, delle regole e delle consuetudini che ogni gruppo professionale si dà e deve

osservare ed alle quali deve ispirarsi costantemente nell’esercizio della sua professione.

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Il Codice Deontologico, dunque, stilato in forma scritta e reso pubblico, è lo strumento che

stabilisce e definisce le concrete regole di condotta che devono necessariamente essere rispettate

nell’esercizio della specifica attività professionale infermieristica.

Il termine “Deontologia”, coniato dal filosofo Jeremy Bentham (1748-1832) appartenente al filone

dell’utilitarismo (utilitarismo filosofico come prospettiva etica, cioè a quella prospettiva che si pone

come obiettivo la realizzazione dell’utilità generale, intesa come la “massima felicità per il maggior

numero di persone”. Utilitariste sono quelle posizioni che riconducono il giusto all’utile e che

giustificano scelte individuali e politiche sulla base della loro utilità, cioè della loro capacità di

massimizzare la felicità o il benessere, individuale e collettivo). Oggi consiste in un’articolazione

del diritto professionale e non si deve fare l’errore di confonderla con norme etico - morali che, in

quanto tali, parlano solo alla coscienza dell’uomo.

La Deontologia in ambito sanitario delimita l'esercizio della professione sia sotto l’aspetto

scientifico sia sotto quello professionale. Fissa norme e comportamenti professionali in relazione a

regole, consuetudini sociali e norme giuridiche; dice all’infermiere chi è chiamato ad essere nel

servizio ai cittadini.

È la deontologia, e dunque il codice deontologico, che disciplina i doveri e nello stesso tempo le

competenze dell'operatore, seguendo la visione propria della professione, ma non perdendo mai di

vista il confronto continuo con le funzioni degli altri operatori e con i diritti/doveri della persona

umana.

Il Codice Deontologico degli infermieri, in sostanza, rappresenta:

• una guida per l’esercizio quotidiano della professione in merito ad autonomia e

responsabilità;

• un riferimento per affrontare la complessità delle varie situazioni cliniche;

• uno strumento di crescita, confronto ed evoluzione dei professionisti;

• l’identità della categoria professionale.

2.4 Il patto infermiere-cittadino

Il patto infermiere-cittadino che precede e si compenetra con il Codice Deontologico in vigore,

consiste nell’impegno che l’infermiere si assume di:

• considerare il cittadino come membro attivo delle proprie cure, riconoscendogli quel

principio di autonomia per il quale viene tutelata la sua capacità di agire consapevolmente,

senza costrizioni, anche qualora l’autonomia stessa si riduca o venga addirittura a mancare;

• aggiornare le proprie conoscenze per mezzo di formazione continua, riflessione critica e

ricerca;

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• curare e prendersi cura della persona, promuoverne il bene e non nuocerle mai;

• modulare le informazioni e gli interventi educativi in base al grado di comprensione di ogni

singolo assistito;

• agire con imparzialità ed equanimità.

2.5 Nascita dell’ Ospedale.

All’ origine, quando vennero istituiti, gli ospedali servivano per attendere la morte o per segregare i

malati contagiosi. Oggi in ospedale si guarisce, ma entrarci, specie per lunghi periodi, equivale

anche ad abbandonare le abitudini quotidiane, dimenticare le piccole comodità casalinghe e ridurre i

rapporti con il mondo esterno e le relazioni sociali. Ancora oggi, col termine ospedalizzazione

equivale a subire un abbassamento della qualità della vita, anche se molto si è fatto e a onor del

vero, è doveroso ammettere che la sanità italiana è per molti aspetti una delle migliori al mondo. I

cittadini malati, si aspettano dagli operatori sanitari prestazioni che conducano alla guarigione,

attraverso la negazione della morte che trasforma la medicina in magia per produrre l’immortalità o

la sopravvivenza ad oltranza, mentre gli operatori stessi colludono inconsciamente con questa

prospettiva, rendendo questa utopia l’obiettivo della propria formazione e lavoro. Si e così spostata

l’attenzione dalla relazione con la persona malata a quella con la malattia: questa prerogativa della

medicina occidentale ha stravolto il ruolo tradizionale del terapeuta, sostituendolo con quello del

tecnico e dello specialista.

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Capitolo 3

Umanizzazione delle Cure 3.1 Umanizzazione delle Cure.

“Curate. Se non potete curare, lenite. Se non potete lenire, confortate” . (Augusto Murri, –

1841-1932 )6

Il tema dell’umanizzazione dell’ospedale ha origini lontane che si possono far risalire

all’evoluzione della medicina e dei medici, e alla riqualificazione dell’ ospedale come luogo di cura

per tutti i malati per ogni categoria sociale.

Lo stesso sviluppo della medicina ha portato ad un approccio parcellizzato sulla malattia o sull’

organo interessato e ad una riduzione di attenzione e considerazione sull’uomo malato nel suo

insieme, influenzando la ricerca, l’organizzazione sanitaria, la formazione dei medici e degli altri

operatori sanitari.

In Italia il tema dell’umanizzazione della cura inizia a prendere forma nei primi anni ‘90, nella

Regione Lombardia che organizza i primi convegni e si inizia a pensare a progettazioni innovative

di hospice finalizzato all’accompagnamento di fine vita, scuole e corsi di formazione

all’umanizzazione, fino ad arrivare ad iniziative ufficiali nazionali e regionali.

Nel 2000 l’allora Ministro Veronesi con l’istituzione della Commissione Ministeriale indica: il

nuovo Ospedale deve diventare luogo a misura d’uomo, centrato sulla persona e sulle sue esigenze

(specie se malata e quindi debole), della speranza, della guarigione, della cura (se non si può

guarire), dell’accoglienza e della serenità dell’ affidarsi (Mauri, 2001).7

Il Ministro Livia Turco nel 2006 sostiene che l’umanizzazione è la capacità di rendere i luoghi di

cura e le stesse pratiche medico assistenziali aperti, sicuri e senza dolore conciliando politiche di

accoglienza, informazione e comfort con percorsi assistenziali il più possibile condivisi e partecipati

con il cittadino.

A tal proposito si citano alcuni passi del Patto per la salute 8 dell’ attuale ministro Lorenzin, all’

inizio del suo mandato nel 2014: “Ritengo importante un rafforzamento di Agenas 9 (Agenzia

Nazionale per i Servizi sanitari Regionali), con un ruolo di gestione e di verifica del sistema. Tutto

questo attraverso la riorganizzazione della rete ospedaliera e del territorio, fondamentale per

garantire la continuità assistenziale dall’ospedale al domicilio del cittadino –paziente. Un altro tema

al quale tengo molto è appunto quello dell’importanza dell’umanizzazione delle cure. Nel rispetto

della centralità della persona nella sua interezza fisica, psicologica e sociale, va quindi condiviso

l’impegno ad attuare interventi di umanizzazione in ambito sanitario che coinvolgono gli aspetti

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strutturali, organizzativi e relazionali dell’assistenza”. (newsletter del Ministero della salute – n. 6

anno 2014)

3.2 Cura.

“La missione di un medico non deve essere solo prevenire la morte ma anche migliorare la qualità

della vita. Ecco perché se si cura una malattia si vince o si perde, ma se si cura una persona vi

garantisco che in quel caso si vince, qualunque esito abbia la terapia” - (Patch Adams ) 10

Sul dizionario cercando cura, leggiamo “atteggiamento premuroso e costante verso qualcuno.

Sollecitudine, grande ed assidua diligenza, vigilanza premurosa, assistenza”. Deriva dal latino cura

derivato dalla radice ku-kav osservare. Da confrontare con il sanscrito kavi saggio.

La cura è responsabilità. La responsabilità che segue l’osservazione. Che sia una terapia medica,

una preoccupazione, o un accudire il progetto di una vita altrui, la cura è responsabilità.

Il verbo latino ad-sistere, “stare presso” indica un venire “da” per andare “verso” (ad) qualcosa;

curare e adsistere dicono, dunque, la stessa cosa: indicano un mio stare accanto a qualcuno perché

costui mi riguarda e mi interessa. Non è allora una mera vicinanza di luogo quella cui si fa

riferimento; si tratta piuttosto di essere vicino, in relazione, ed esserne consapevoli.

Per questo, si richiede una attitudine morale, in grado di esprimere l’attenzione della singola

persona nonché lo sforzo di fare fronte ai suoi bisogni particolari. L’interesse dell’infermiere deve

essere quello di occuparsi della persona nella sua globalità: da un punto di vista biologico, psico

/emotivo e socioculturale e spirituale (valoriale). Tale principio garantisce un modello di assistenza

globale (visione olistica della persona).

La persona è un essere relazionale. L’antropologia si trasferisce su di un piano concreto e dialogico

tale per cui non si tratta più di principi che trapassano e si risolvono l’uno nella sfera dell’altro, ma è

l’individuo che incontra l’ altro proprio nella sua alterità. L’uomo si coglie come un ego-ad, un ego-

cum.

Si può cogliere l’altro reificandolo e disgregandolo guardandolo come un insieme di funzioni o di

parti organiche più o meno abili e non riconoscendo in lui un unicum che precede e sostiene tali

capacità. È qui che si inserisce l’etica, come un riconoscimento dell’uomo, come disciplina che

ricalca con il comportamento la sua fisionomia.

Nella relazione assistenziale si deve partire dalla consapevolezza di trovarsi davanti al mondo

imperscrutabile dell’altro come essere in sé. In questo senso, l’assistenza è irriducibile a qualsiasi

interpretazione meramente procedurale: tralasciata una qualsiasi affermazione di esecutività,

l’assistenza è da considerarsi piuttosto un comportamento di cura, in cui le abilità e le tecniche sono

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solo una parte di un più ampio contesto di essa, ove la relazione e la finalità della cura stessa sono

determinanti.

In questo senso, il dialogo tra professionisti sanitari e paziente è da intendersi come un solidale

avvicinamento, un incontro culturale tra persone, ciascuna con una propria storia familiare, sociale,

professionale. La relazione empatica che può nascere dà luogo alla alleanza terapeutica.

In questo senso, l’apporto della bioetica è stato importante, soprattutto per quanto concerne lo

spazio dato alla riflessione antropologica.

A questa capacità di prendersi cura alludeva anche Balint 11, quando osservava, molto acutamente,

che la prima medicina è il medico stesso e che, al di là dei farmaci prescritti, della terapia intensiva,

la qualità della relazione tra medico e paziente assume un rilievo in nessun modo trascurabile in

ordine alla terapia.

Tuttavia, osservava ancora Balint, con amarezza, “la scarsità di informazioni su questo farmaco

lascia stupefatti ed impauriti”.

Parlando di cura non si può omettere di citare quindi la bioetica, dal greco antico bios = vita ed

ethos= carattere, comportamento.

La bioetica ha carattere interdisciplinare e coinvolge la filosofia, la filosofia della scienza, la

medicina, la bioetica clinica, la biologia, la giurisprudenza, il biodiritto, la sociologia, la psicologia

e la biopolitica.

“Uno dei compiti della bioetica è porre limiti e confini, soprattutto quando il loro superamento

rischia di minacciare realtà preziose, quali la dignità umana, il mondo animale o le risorse

ambientali; questo non può tuttavia essere il suo compito esclusivo, poiché il centro di ogni

questione relativa alla bioetica è il significato della vita, anche quando questa si trova in condizioni

di sofferenza, e il significato che può assumere la cura, sempre in bilico tra pura prestazione tecnica

e presa in carico integrale della persona sofferente” (Fabrizio Turoldo, 2010, L’etica di fine vita)12

3.3 Carta Europea Diritti del Malato 13

La Carta Europea dei Diritti del Malato, presentata a Bruxelles nel 2002,

propone la proclamazione di quattordici diritti dei pazienti, fatte salve le premesse secondo le quali

la definizione degli stessi implica che sia i cittadini che gli altri attori della sanità si assumano i

rispettivi oneri, in correlazione con i doveri e le responsabilità:

1) Diritto a misure preventive – ogni individuo ha diritto a servizi appropriati a prevenire la

malattia

2) Diritto all’accesso – ogni individuo ha il diritto di accedere ai servizi

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sanitari che il suo stato di salute richiede. I servizi sanitari devono garantire eguale accesso ad

ognuno, senza discriminazioni sulla base delle risorse finanziarie, del luogo di residenza, del tipo di

malattia o del momento di accesso a servizio.

3) Diritto alla informazione – ogni individuo ha il diritto di accedere a tutti i tipi di informazione

che riguardano il suo stato di salute e i servizi sanitari e come utilizzarli, nonché a tutti quelli che la

ricerca scientifica e la innovazione tecnologica rendono disponibili.

4) Diritto al consenso – ogni individuo ha il diritto ad accedere a tutte le informazioni che lo

possono mettere in grado di partecipare attivamente alle decisioni che riguardano la sua salute.

Queste informazioni sono un pre-requisito per ogni procedura e trattamento, ivi compresa la

partecipazione alla ricerca scientifica.

5) Diritto alla libera scelta – ogni individuo ha il diritto di scegliere

liberamente tra differenti procedure ed erogatori di trattamenti sanitari sulla base di adeguate

informazioni

6) Diritto alla privacy e alla confidenzialità – ogni individuo ha diritto alla confidenzialità delle

informazioni di carattere personale, incluse quelle che riguardano il suo stato di salute e le possibili

procedure di

agnostiche o terapeutiche, così come ha diritto alla protezione della sua privacy durante l’attuazione

degli esami diagnostici, visite specialistiche e trattamenti medico – chirurgici in ospedale.

7) Diritto al rispetto del tempo dei pazienti – ogni individuo ha diritto a

ricevere i necessari trattamenti sanitari in un periodo di tempo veloce e predeterminato. Questo

diritto si applica ad ogni fase del trattamento.

8) Diritto al rispetto degli standard di qualità – ogni individuo ha il diritto di accedere a servizi

sanitari di alta qualità, sulla base della definizione e del rispetto di standard precisi.

9) Diritto alla sicurezza – ogni individuo ha diritto di essere libero da danni derivanti dal cattivo

funzionamento dei servizi sanitari, dalla malpractice e dagli errori medici, e ha il diritto di accesso a

servizi e trattamenti sanitari che garantiscano elevati standard di sicurezza.

10) Diritto alla innovazione - ogni individuo ha il diritto all’accesso a

procedure innovative, incluse quelle diagnostiche, secondo standard

internazionali e indipendentemente da considerazioni economiche e finanziarie.

11) Diritto a evitare le sofferenze e il dolore non necessari – ogni

individuo ha il diritto di evitare quanta più sofferenza possibile, in ogni fase della sua malattia.

12) Diritto ad un trattamento personalizzato – ogni individuo ha il diritto a programmi

diagnostici o terapeutici quanto più possibile adatti alle sue personali esigenze.

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13) Diritto al reclamo – ogni individuo ha il diritto di reclamare ogni qual volta abbia sofferto un

danno e ha il diritto a ricevere una risposta o un altro tipo di reazione.

14) Diritto al risarcimento – ogni individuo ha il diritto di ricevere un

sufficiente risarcimento in tempo ragionevolmente breve ogni qual volta abbia sofferto un danno

fisico ovvero morale e psicologico causato da un trattamento di un servizio sanitario.

La Carta dei diritti del malato si reputa essere un importante esempio di quello che è il diritto

all’umanizzazione delle cure.

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Capitolo 4

Filosofia e Medicina

4.1 Filosofia e Medicina

“La cosa più importante in medicina? Non è tanto la malattia di cui un paziente è

affetto, quanto la persona che soffre di quella malattia” (Ippocrate) 14”

Tra filosofia e medicina, pur nella loro differenza disciplinare, è presente dall’antichità un profondo

intreccio. Lo dimostrano, ad esempio, i pensatori che nel corso dei secoli hanno utilizzato metafore

mediche per esprimere le loro riflessioni filosofiche. Molti pensatori furono loro stessi medici

poiché questi due saperi dovrebbero essere tra loro complementari essendo manchevole studiare il

corpo umano ed agire su di esso senza sapere chi è l’uomo, posto che la medicina è il complesso

delle attività che intervengono a favore del sofferente strettamente legate con le espressioni dello

spirito umano.

Inoltre la medicina è l’esercizio della compassione (dal latino cum pati, soffrire insieme) tra esseri

umani: un uomo mosso dalla compassione, (il medico e l’infermiere) che si prendono cura di un

altro essere umano, attraversato dalla vulnerabilità prodotta dalla malattia e si impegnano a

custodire la sua vita.

La filosofia della medicina può essere intesa in molti modi: come un’analisi epistemologica del

sapere medico, oppure come analisi dell’agire medico, o a detta di molti, come una filosofia che

affronta il problema dell’uomo nel suo complesso, cioè della persona umana e inevitabilmente si

configura come antropologia. Non è errato ritenere che un’adeguata formazione nelle discipline

umanistiche, e la filosofia occupa un posto di eccellenza, è il presupposto e la garanzia per un

corretto esercizio professionale e la base indispensabile affinché ogni approfondimento medico

scientifico sia sempre a favore dell’umano.

L’antropologia della cura significa innanzitutto l’ascolto di ogni individualità. Non avere già delle

risposte precostituite. La salute e la cura che ognuno di noi vuole per sé sono elementi da scoprire in

un dialogo continuo.

Il prendersi cura differisce dal curare perché assume ove inevitabile – la consapevolezza

dell’impossibilità di guarire e allora sa attendere, sa assistere non intervenendo, sa graduare

l’intervento secondo il desiderio e non esclusivamente secondo il bisogno, spesso oggi interpretato

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più dal familiare che non dal paziente, se questo è anziano o in fase terminale (Fabrizio Turoldo,

2010).

4.2 Excursus storico. Quasi 2.500 anni fa, Ippocrate di Coo, riteneva che ogni malattia avesse una

spiegazione razionale, riconoscendo l’importanza dell’ambiente nella comparsa e nella evoluzione

delle malattie. Il suo giuramento ad agire per il bene del paziente nel pieno rispetto della persona e

nel segreto professionale, viene ancora oggi prestato dai giovani laureandi in medicina.

Quello che resta fondamentale nell’insegnamento ippocratico che è giunto fino a noi attraverso i

millenni è, accanto alle nozioni pratiche, l’importanza tra medico e paziente del dialogo, essenziale

per porre una giusta diagnosi ed assicurare il benessere del paziente.

Seneca15 (4 a.C. 65 d.C.), nelle “Lettere morali a Lucilio” che scrive quasi al termine della sua vita

offrendogli consigli sulla crescita morale, si esprime così, prendendo come esempio la medicina:

“senza la filosofia l’animo è malato, se anche il corpo è in forze. Curiamo prima la salute

dell’anima, poi del corpo”.

Galeno16, medico e filosofo scientifico (Pergamo, 129 – Roma, 201 circa) sosteneva che non si può

essere un buon medico se non si conoscono logica, fisica ed etica, cioè l’insieme dell’autentica

filosofia.

La medicina dell’Alto Medioevo (486 - anno mille circa) vide il sapere medico trasferirsi anche in

Oriente, mentre in Occidente si istituivano vari luoghi di cura. Era essenzialmente una medicina

pratica, basata sull’insegnamento diretto e sull’uso di terapie consacrate dalla tradizione, e vide

crescere l’opera di cura e di soccorso intrapresa dalla Chiesa.

Nel basso Medioevo (tra l’anno mille ed il 1492 circa), con la fondazione di alcuni ospedali e la

nascita ufficiale delle prime università (prime fra tutte Bologna e Parigi), si svilupparono

conoscenze mediche più specialistiche che trovarono piena espressione con la nascita della clinica,

che ebbe come conseguenza l’abbandono delle visioni cosmologiche e antropologiche della

medicina.

Con il Rinascimento, e la rivoluzione scientifica operata in seguito da Copernico, Galileo e Newton,

non muta soltanto l’immagine dell’universo, ma anche quella del corpo umano. Nasce la medicina

scientifica il cui tratto caratteristico era il metodo sperimentale. Il medico, in parte privato

dell’identità originaria che gli imponeva obbligo di “prendersi cura” del malato nella sua totalità,

rischia di trasformarsi in un tecnico di alto livello al quale, come in qualsiasi altro settore, si

richiedono prestazioni nel campo di competenza.

Cartesio 17 (Renè Descartes 1596-1650) è ritenuto l’iniziatore del pensiero moderno e del metodo

razionalistico, e fu studioso anche di biologia e anatomia. Respingendo il patrimonio di conoscenze

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fin qui accolto, Cartesio offrì un nuovo metodo di ragionamento con base la matematica che unisce

il criterio dell’evidenza intuitiva con il rigore della deduzione.

Il secolo XVIII è noto per la rivoluzione demografica; la salute pubblica acquisì notevole rilievo

con l’istituzione del medico condotto e la medicina assunse nuove connotazioni.

Immanuel Kant, 18 (1724-1804) nel suo “De Medicina corporis”, si rivolge alla pratica medica, al

benessere psicofisico e al rapporto tra mente e corpo. E sua l’affermazione che il medico, pur

indagando la malattia da una prospettiva differente, analizzandone le cause materiali, “deve tenere

conto della complessità psicologica dell’essere umano”.

Con l’avvento del XIX secolo, e l’affermarsi della Teoria della evoluzione e del pensiero

positivistico che vedeva “nell’osservazione obiettiva dei fatti” lo strumento principale del medico

per lo svolgimento della propria professione, muta il rapporto tra medico e paziente, che diverrà

unicamente oggetto di conoscenza nell’osservazione che impone al medico la rinuncia ad ogni

personale partecipazione e ad ogni idea soggettiva.

Il XX secolo, quello delle maggiori scoperte in campo medico, vede la medicina basata sulla

evidenza, su protocolli standardizzati, avallati da studi scientifici, che sostituiscono pensieri ed

esperienze personali.

Karl Jaspers 19, filosofo e psichiatra tedesco (1883-1969), sosteneva che il medico -moderno

scienziato - aveva rinunciato all’umanità, ed indicava come soluzione il recupero della tradizionale

figura del medico generico e trasformarlo in un sapiente, cioè in un filosofo. Facendo sua

l’espressione ippocratica “iatros philosophos isotheos”, testualmente “il medico che si fa filosofo

diviene pari a un Dio”, Jaspers sostiene che le conquiste della tecnica hanno appiattito l’essenza del

medico sino a schiacciare la sua propensione alla filosofia. Nell’era della tecnica l’esame obiettivo

ed il supporto della struttura tecnica hanno sovrastato l’ascolto, la cura basata sulla comprensione e

sulla trasmissione animica, spirituale. Si è creato uno spazio vuoto contraddistinto da un’arsura di

relazione. Proprio nel ritorno all’antica idea di medico, fondata sui due pilastri della conoscenza

scientifica e dell’ethos umanitario, egli rintraccia l’unica possibilità che la medicina moderna

ancora possiede per salvarsi da una situazione di crisi provocata dall’onnicomprensivo processo di

tecnicizzazione della nostra epoca. (Il medico nell’età della tecnica, K. Jaspers)

Infine Paul Ricoeur20, (1913-2005), docente di filosofia morale, pose attenzione ai problemi della

bioetica, e si occupò anche della relazione medico-paziente introducendo il concetto di

“sollecitudine”, un condiviso riconoscimento della fragilità, allo stesso tempo donante e donate

perché grazie alla reversibilità dei ruoli, ogni agente è il paziente dell’altro.

Il pensiero di Ricoeur, esposto nel testo “Il giudizio medico”, così si riassume: “il patto di cura

diviene così una sorta di alleanza sigillata tra due persone contro il nemico comune, la malattia.

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L’accordo deve il suo carattere morale alla promessa tacita, convenuta tra i due protagonisti, di

rispettare fedelmente i rispettivi impegni”.

L’arte di curare quindi si esercita mediante una relazione che pone al centro il diritto del malato di

conoscere la verità sul proprio caso e di ricevere trattamenti adeguati.

Secondo Umberto Galimberti21, oggi di fronte a una medicina sempre più tecnologicizzata, quindi

più scientifica e precisa, c’è un ricorso sempre più frequente alla medicina definita “alternativa”, ma

che un tempo era la medicina ufficiale (Ippocrate, Galeno). A differenza di quella scientifica, la

medicina alternativa non focalizza la malattia, ma l’individuo e lo stile di vita a partire dal quale

quell’individuo, con quella certa biografia, in quelle certe circostanze, si è ammalato. Questa

divaricazione è strutturale, anche se può essere attenuata dal medico che non guarda solo le lastre o

i risultati degli esami ma anche in faccia il paziente, per assolvere non solo il dovere dello “sguardo

clinico” ma anche e soprattutto per accogliere chi a lui si rivolge con tutta l’ansia connessa alla

precarietà della vita e allo spettro della morte.

Esiste un bellissimo mito greco, che tratteggia molto bene la figura del medico saggio e capace di

empatia. Si tratta del mito del centauro Chirone, inventore della medicina e maestro di Asclepio.

Apollodoro racconta che Chirone divenne un grande guaritore solo dopo essere stato colpito in

modo insanabile da una freccia avvelenata; questo stato cronico della malattia gli permise di

possedere una grande sensibilità e capacità verso coloro che soffrivano, potenziando così le sue

capacità terapeutiche.

Troviamo qualcosa di analogo anche nella tradizione cristiana, dove il Cristo diviene Redentore

dell’umanità e Salvatore proprio quando porta in sè e patisce tutta la sofferenza. Redime perché

soffre.

Il senso simbolico e relativo di questi archetipi mitici e religiosi è quello di aiutare il medico ad

identificarsi con la situazione vissuta dal malato, facendo attenzione alla struttura interiore

dell’altro. (Fabrizio Turoldo, 2010, “L’etica di fine vita” ).

La proiezione affettiva verso il malato diventa allora empatia ma, come sottolinea Norbert Elias,

non deve essere pura identificazione, ma equilibrio tra prossimità e distanza, tra coinvolgimento e

distacco, tra Engagement e Distanzierung, per usare i suoi termini22 .

4.3 La Felicità secondo Epicuro – Commento

Epicuro23 è un filosofo su cui pesa un giudizio negativo: “Epicureo” non è un complimento che si

fa ad un filosofo o ad una persona. Infatti ad Epicuro si rimprovera di aver presentato il piacere

sensualistico, inteso come il sommo bene; come il fine ultimo della vita umana; ciò da cui noi

deriviamo lo stato di felicità più pieno.

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Con la lettera a Meneceo, cui era indirizzata, Epicuro si sente in dovere di rettificare questo

giudizio, precisando il concetto di “piacere”.

La filosofia è ricerca di verità. Ma uno dei compiti fondamentali dell’euristica filosofica 24 riguarda

l’individuazione di mezzi e strumenti per raggiungere la felicità. La religione, come tecnica di

salvezza e di rassicurazione per l’uomo, rappresenta una delle metodiche finalizzate a garantire il

benessere dell’animo e la pace interiore. La religione, che non sia però intesa necessariamente come

fede nell’esistenza di un solo dio, di un’anima immortale, o di una morale simile a quella della

tradizione cattolica. Riconosciuta piuttosto come possibilità di liberazione e di rifugio, come

farmaco per la guarigione dei mali dell’anima. «Mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la

conoscenza della felicità», con queste parole comincia la Lettera sulla felicità che Epicuro scrive a

Meneceo, per parlargli della filosofia come quadrifarmaco, contro la paura degli dei e della morte,

del dolore e del piacere, che risulta essere il solo fine della ricerca filosofica in grado di assicurare

benessere all’uomo. La felicità risulta un compito doveroso per giovani e vecchi, perché non esiste

un’età per essere felici, ma anche e soprattutto perché l’aspirazione alla gioia dovrebbe

comprendere l’intero segmento esistenziale, accompagnandolo dalla nascita al momento del suo

tragico epilogo, con la morte. La letizia, però, non è solo ricerca, ma anche conoscenza delle cose

che la rendono possibile ed attuale, e che determinano quel senso di compiutezza, che fa percepire il

possesso di ogni bene, oltre il quale tutto è privo di senso e di valore. È poi bene essere appagati

perché il ricordo delle gioie passate è sempre capace di riempire il presente che sia meno gaio di

quello. Ma anche l’attesa, l’aspettativa della gratificazione, conferiscono uno scopo significativo per

la vita dell’uomo che, altrimenti, non avrebbe valori imperituri cui ispirarsi. I giovani che vivono

nell’aspettativa della contentezza, si irrobustiscono e fortificano nello spirito, perché conducono

un’esistenza di speranza e di fede nel futuro, che li invita a gioire delle esperienze di vita che fanno

in tenera età. Gli anziani, invece, possono contare su un cospicuo bagaglio di bei ricordi, che li fa

sentire giovani anche quando il tempo della spensieratezza è ormai trascorso.

E per quanto riguarda la morte? Essa, esperienza irreversibile e assai temuta dagli uomini, non può

far loro alcun male. Godere e soffrire sono disposizioni dell’animo che sente. Mentre la morte si

pone come la risolutiva negazione di ogni sentire, perché ne costituisce l’assenza assoluta. La

morte, per l’uomo, è nulla. Perché quando lei subentra, l’uomo non è più. «La morte, il più atroce

dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non

ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono più».

L’uomo saggio accetta la morte serenamente, così come ha vissuto. E se la vita non è per lui un

male, non sarà un male nemmeno il morire. Piuttosto che scegliere per sé il tempo più lungo,

sceglierà quello più dolce. Nella consapevolezza che il bene più grande sia sempre la vita. Il

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vecchio, perciò, dovrà amarla quanto il giovane, e non desiderare la morte perché ormai sente il suo

tempo approssimarsi alla fine. La vita è sempre ricolma di dolcezza, e soprattutto il vivere

costituisce un’esperienza unica ed irripetibile. Chi poi non sia affatto soddisfatto della vita, può

liberamente scegliere di darsi la morte. Epicuro accetta la possibilità del suicidio, ma solo per colui

il quale abbia compreso che non vi è alternativa immaginabile ad un esistere riconosciuto ormai

come un non senso, perché non più corrispondente alle personali aspirazioni dell’essere umano. Se,

invece, si decide al contrario di vivere, allora è necessario adoperarsi per la vita sino in fondo.

«Ricordiamo poi che il futuro non è del tutto nostro, ma neanche del tutto non nostro». Il destino

dell’uomo è, in qualche modo segnato, ma ci sono dei margini di libertà, che sono lasciati alla

emancipata determinazione della sua scelta. Come il vivere, il vivere bene, o il decidere di farla

finita, nella convinzione che la vita non valga la pena di essere vissuta fino in fondo e con coerenza.

Così l’uomo può desiderare autonomamente. Ma tra i desideri possibili solo alcuni sono naturali, e

corrispondono a quelli necessari, mentre i restanti sono inutili. E senz’altro tra i desideri necessari

vi è quello fondamentale alla felicità, al benessere fisico, e alla stessa vita. Vivere pienamente, cioè,

è la stessa cosa che stare bene ed essere felici. Una vita che non contempli lo stato di benessere

psico-fisico non è una vita probamente spesa. Soprattutto, è giusto che vi sia una buona conoscenza

dei desideri, perché ogni scelta operata dall’uomo finisca per armonizzarsi con lo stare bene nel

corpo e con la serenità dell’animo. Chi non conosce profondamente il valore dei desideri umani,

non è nemmeno capace di assecondarli e di gestirli al meglio. Fine dell’agire è il raggiungimento

del piacere, e l’evitamento del male, della sofferenza e dell’ansia. Nella condizione di serenità ogni

turbamento interiore cessa di esistere, e lo stato di calma procura beneficio anche al corpo. La

sofferenza che si prova è chiara testimonianza dell’assenza di piacere, che muove al bisogno.

Quando non si soffre vuol dire che c’è il godimento. «Per questo noi riteniamo il piacere principio e

fine della vita felice, perché lo abbiamo riconosciuto bene primo e a noi congenito. Ad esso ci

ispiriamo per ogni atto di scelta o di rifiuto, e scegliamo ogni bene in base al sentimento del piacere

e del dolore». Piacere e dolore sono i due estremi entro i quali si estrinseca e determina l’esistenza

umana. Al fine di evitare il dolore ogni uomo agirà per procurarsi il piacere, il cui primo livello è

determinato dall’abbandono della condizione di sofferenza precedentemente provata. Ogni piacere è

un bene in sé, in quanto allontana dal dolore, ma non per questo ogni piacere è da ritenersi, in ogni

caso, preferibile. Va operata la distinzione tra piaceri necessari e piaceri inutili, che sono da ritenersi

superflui al raggiungimento dello stato di benessere e di felicità. Allo stesso modo ogni dolore è un

male, ma non per questo ogni dolore è, necessariamente, da fuggire. Spesso ciò che,

apparentemente, sembra essere un bene, si rivela poi un male; e viceversa, ciò che appare un male,

dimostra successivamente di essere un bene. Una delle condizioni che contribuiscono al

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raggiungimento della felicità è l’affrancamento dai bisogni, sia per imparare ad accontentarsi di

poco, sia per apprezzare e godere di quello che si ha. «I sapori semplici danno lo stesso piacere dei

più raffinati, l’acqua e un pezzo di pane fanno il piacere più pieno a chi ne manca. Saper vivere di

poco non solo porta salute e ci fa privi d’apprensione verso i bisogni della vita ma anche, quando ad

intervalli ci capita di menare un’esistenza ricca, ci fa apprezzare meglio questa condizione e ci

rende indifferenti verso gli scherzi della sorte». Pare qui di intuire lo spirito precursore della

semplicità francescana del vivere. Basta poco per essere felici, perché le cose davvero

indispensabili sono facilmente reperibili, al contrario di quelle superflue. L’importante è imparare a

godere di quei valori semplici, primitivi, ma immortali, che rendono l’uomo avvezzo al minimo, e

grande estimatore del molto. Perché chi non sia abituato ad uno stile spartano di vita, non si forgia

nella durezza, ed è anche incapace di apprezzare gli agi delle comodità, quando questi a lui si

presentassero. Il piacere di cui parla Epicuro non è quello dei goderecci. La prima forma di piacere

è l’allontanamento del dolore causato dalle paure più diffuse dell’uomo, come quella degli dei e

della morte. Secondariamente il piacere consiste in ciò che aiuta il corpo a vivere meglio,

assicurandosi quella condizione di benessere psico-fisico, indispensabile ad un sereno svolgersi

dell’esistenza umana senza traumi e lacerazioni interiori. Quindi, tutto «quanto aiuta il corpo a non

soffrire e l’animo a essere sereno». E a discernere rettamente le cause della scelta e del rifiuto,

attraverso l’intelligenza delle cose, che si apprende, e che è arte superiore anche alla stessa filosofia.

Difatti essa è madre di tutte le virtù, e realizza che non si dà vita felice che non sia anche

intelligente, bella, giusta, virtuosa. Perché è felice l’uomo giusto e virtuoso. Riemerge, in questo

tratto della lettera di Epicuro, l’intellettualismo socratico che ha caratterizzato di sé tutta la filosofia

antica. Il pensiero cristiano segna poi la svolta definitiva, attraverso l’affermazione della scelta

morale libera, e nient’affatto condizionata dal sapere e dalla conoscenza umana del bene. «Chi

suscita più ammirazione di colui che ha un’opinione corretta e reverente riguardo agli dei, nessun

timore della morte, chiara coscienza del senso della natura, che tutti i beni che realmente servono

sono facilmente procacciabili, che i mali se affliggono duramente affliggono per poco, altrimenti se

lo fanno a lungo vuol dire che si possono sopportare?». L’uomo saggio è colui che accetta il senso

del divino che è innato in ognuno. È colui che sa che proprio questo vuol dire essere profondamente

religiosi. Ed è perciò, colui il quale è consapevole che la religiosità sia patrimonio naturale

universale ed irrinunciabile per gli uomini di tutti i tempi storici e di tutte le latitudini geografiche.

Ma proprio perché saggio, è anche colui che riconosce il mancato fondamento della paura degli dei,

che vivono lontani dall’uomo e indifferenti alla sua sorte. Il saggio è il filosofo che riconosce come

prioritaria la ricerca del piacere, intesa come superamento delle umane paure, poi come evitamento

del dolore, che non è nulla, in quanto se dura molto è sopportabile, se dura poco ed è intenso

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conduce alla morte, che è assenza di ogni forma di sentire. «Questo genere d’uomo sa anche che è

vana opinione credere il fato padrone di tutto, come fanno alcuni, perché le cose accadono o per

necessità, o per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro. La necessità è irresponsabile, la fortuna

instabile, invece il nostro arbitrio è libero, per questo può meritarsi il biasimo e la lode». Epicuro

crede al destino fino ad un certo punto; ma gli preferisce senz’altro il volere degli dei e la libertà

dell’uomo. E fa capire che l’agire morale può incidere sull’andamento degli eventi in modo

significativo. Ed è perciò utile che l’uomo saggio sia consapevole di questa possibilità che ha di

modificare la sua propria vita, compiendo scelte morali lungimiranti e virtuose, che lo allontanino

dallo spettro del dolore, inteso qui come necessaria conseguenza del male morale. Leibniz (Lipsia,

1° luglio 1646 – Hannover, 14 novembre 1716) nella Teodicea riprenderà esattamente questa

distinzione tra male metafisico, che è connaturato al limite insito nell’esistenza umana finita; male

fisico, che è originato dal dolore e dalla malattia; male morale, che deriva direttamente dalle cattive

scelte operate dall’uomo, e che a sua volta può determinare conseguenze rilevanti nel riprodurre sé

stesso anche sul piano del male fisico. «Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio

allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere,

invece dell’atroce, inflessibile necessità», continua Epicuro. E invita l’uomo a conseguire l’arte

della saggezza, meditandola come esposta sin qui, per vivere come un immortale tra i mortali, come

un dio, perché «non sembra più nemmeno mortale l’uomo che vive fra beni immortali». È ovvio che

i beni immortali di cui si parla sono i frutti dello spirito e della saggezza, che si tramutano in virtù

imperiture, le sole capaci di sollevare l’uomo al di sopra delle passioni terrene, e di renderlo simile

ad un dio, senza paure, libero, capace di gioire e di godere dei beni della vita, felice, in una parola.

Una felicità impossibile da conseguire, per Epicuro, senza il ricorso alla religione. Che risponde, ad

un tempo, al bisogno di infondere all’uomo certezze, e alla necessità di procurare un appagamento

stabile, inteso nella forma di un piacere duraturo. Simile senso del divino si ritroverà poi in

Feuerbach 25, nei suoi studi sulla essenza del cristianesimo e della religione naturale.

Quindi il piacere consiste nella conquista della condizione beata caratterizzata dall’assenza di

dolore del corpo, l’“aponìa”, cioè l’assenza di pena, di fatica, e dall’assenza di turbamenti

dell’anima, cioè l’“atarassia” ossia assenza di agitazione, tranquillità; dichiarando che la

conoscenza della felicità (filosofare) non richiede un’età precisa, quindi anche un bambino può

filosofare. Epicuro afferma che l’abito della virtù inizia a formarsi già nell’infanzia, oggi noi

affermiamo che questa è l’età della formazione del carattere, e nell’età successive provvediamo solo

a consolidarlo, rendendolo più un nostro possesso saldo e inalienabile, un luogo in cui la nostra

anima può sentirsi al sicuro, un luogo di imperturbabilità da ogni movimento giunto dall’esterno

che potrebbe recarle turbamento. E’ chiaro che il piacere di cui parla Epicuro non è il piacere di tipo

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dinamico che ha a che fare con il godimento dei sensi da rincorrere per tutta la vita; ma è un sapere

che Epicuro chiama “catastematico”, (in greco significa, in riposo ossia “statico”) che coincide

quindi con la pace dell’animo, con l’eliminazione del dolore, con il raggiungimento di uno stato di

equilibrio interiore.

Pierre Hadot26, autorità negli studi attinenti alla consulenza filosofica, in uno dei suoi testi: “la

filosofia come modi di vivere”, indica in questa lettera a Meneceo il testo che illustra in modo più

semplice e chiaro, l’idea prima greca e poi romana, della filosofia come modo di vivere.

Anche Michel Foucault27 nell’ “Ermeneutica del soggetto” si è soffermato sul testo: la lettera sulla

felicità”, sottolineando che Epicuro argomenta tre tesi:

1. Filosofare significa prendersi cura della propria anima, tema questo, antico quanto la

filosofia, dato che era un concetto espresso da Socrate davanti al Tribunale di Atene

(Apologia di Socrate);

2. Prendersi cura della propria anima significa essere felici. Compito a cui siamo consegnati

naturalmente;

3. Questo esercizio non deve mai conoscere interruzione nella nostra vita. Epicuro abbiamo

visto inizia la lettera affermando che ogni età si presta a filosofare e per tutta la vita e dove

filosofare sta per curare la nostra anima. Il giovane deve iniziare a costruirsi la corazza per

parare i colpi che gli verranno dalla vita; Epicuro scrive infatti: “… Da giovani come da

vecchi è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre giovani

quando saremo avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della felicità avuta in passato, e

da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a non temere l'avvenire. Cerchiamo di

conoscere allora le cose che fanno la felicità, perché quando essa c'è tutto abbiamo,

altrimenti tutto facciamo per averla.”

Epicuro paragona la conquista della imperturbabilità dell’anima a quello stato di assenza di vento in

mare chiamato bonaccia. Come in mare la nave si ferma per mancanza di venti e si muove solo a

condizione che si usino i remi; non è quindi da intendere come calma piatta bensì come un andare

avanti con le proprie forze (la metafora della “bonaccia” ricorre anche nel dialogo di Platone, “il

Fedone”, in cui Socrate che fino ad un certo punto si era affidato al pensiero di altri autori, era

andato avanti alla luce della spinta che veniva dagli altri, poi decide di pensare autonomamente).

Altro punto della lettera è il concetto che la piena libertà del saggio consiste nell’essere interamente

padrone di sé stesso. L’ “autarchia”, autarchia o libertà non è solo un insegnamento di Epicuro ma

dell’età ellenistica. Essa consiste nel saper discernere, ponderare, da parte del saggio, di volta in

volta, che cosa è in lui più utile in vista del mantenimento della massima stabilità esistenziale. Ecco

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perché lo stato di imperturbabilità non è raggiunto una volta per sempre ma va coltivato, gestito,

mantenuto, perché bisogna discernere cosa è più utile per noi, per mantenere questo stato raggiunto.

Momento che coincide con l’assunzione più radicale della nostra finitezza, perché scopriamo in

questa situazione che i veri bisogni sono pochi e limitati prendendo coscienza così della nostra

finitezza, che non ci serve a niente disporre di un tempo infinito per goderne. Epicuro sradica una

illusione che si produce in noi e cioè che ci sentiamo immortali per il fatto che i bisogni sono tanti e

richiedono tanto tempo per il loro soddisfacimento, ma con l’opera di discernimento indicati da

Epicuro, i bisogni sono pochi richiedendo anche poco tempo per soddisfarli, eliminando così

l’illusione di essere immortali. Epicuro dice che dominare il tempo è essenziale per la felicità che

solo nella stabilità diventa perfetta. Epicuro ci invita con gli esercizi spirituali a imparare nella

capacità di dislocare la nostra mente distogliendola nel momento del dolore cioè nel “presente” e

stornare la mente dall’area colpita dal dolore focalizzandola o al passato, o al futuro, per lasciare

inalterata la sensibilità alla gioia.

La felicità ci può rendere migliori e il suo possesso è sempre un continuo perfezionarsi, motivo per

cui non è uno stato acquisito per sempre, ma un esercizio spirituale continuo. Epicuro prende ad

esempio gli dei che vivono massimamente felici, in modo naturale e a cui bisogna ispirarsi per

vivere massimamente felici sulla terra. La felicità promuove le virtù, prima di tutte la “filia”,

l’amicizia. Un termine greco con un significato più ampio, comprendendo anche l’amore. Epicuro:

“l’amicizia corre per la terra intera chiamando noi tutti a destarci alla felicità”.

La filosofia deve agire quindi da farmaco che ci libera in primis da una rappresentazione

antropomorfica degli dei e che essi possono interferire minacciosamente nelle faccende umane

affligendoci con carichi di pene e punizioni.

“Lo storico della filosofia dovrà cedere il posto al filosofo, il filosofo deve sempre restare vivo nello

storico della filosofia. Questo ultimo compito consiste nel porre a sé stesso, con lucidità maggiore la

domanda decisiva: Che cos’è Filosofare?” (P. Hadot, Esercizi Spirituali e Filosofia Antica).

Domanda impegnativa, certo: alla quale si può rispondere ripercorrendo la strada che in origine

percorsero i Greci, tenendo unite tra loro – senza mai scinderle – la vita e la filosofia. Un'altra tesi

sostenuta da Hadot riguarda la continuità tra mondo greco e mondo cristiano: Hadot, che ha studiato

attentamente il mondo tardo-antico (con particolare attenzione per Marco Aurelio) e il suo trapasso

in quello cristiano, mette in luce con particolare enfasi come l'idea degli “esercizi spirituali” dei

Greci (e soprattutto degli Stoici) riceva un nuovo impulso presso i Cristiani, che ad essi danno un

nuovo sviluppo. Tra mondo greco e mondo cristiano non c'è contrasto ma, semmai, continuità, nella

misura in cui il secondo eredita (e declina in nuovi modi) il pensiero elaborato dal primo: tesi,

questa, sostenuta anche, seppure con sfumature diverse, dal filosofo italiano Giovanni Reale.

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Poiché la saggezza (la “sofia”, la “fronesis”) è la madre di tutte le virtù, ha come condizione

necessaria affinché essa si esplichi in tutta la sua ampiezza, la benevolenza e dall’affetto degli altri;

ciò spiega l’importanza dell’amicizia. L’amicizia aiuta la saggezza ad espandersi al contrario di chi

coltivando la saggezza tende a rinchiudersi in sé stesso con il rischio di autoreferenzialità.

L’amicizia è da considerarsi un correttivo a questo rischio che tutti noi corriamo. L’amicizia, per

Epicuro, è un bene immortale; ben superiore al bene mortale della “sofia”.

4.4 Dolore. Considerazioni sul concetto “dolore”.

Che cos’è il dolore? Siamo abituati a pensarlo come una sensazione che ci avvisa di qualche cosa

che esterna a noi ci sta colpendo, magari un’arma da taglio oppure un piccolo pizzicotto. Quindi

siamo abituati a pensarlo sulla base di una nozione di sensazione qualche cosa che esterno da me è

arrivato su di me. Ma in effetti non è sempre così, ad es. abbiamo le nozioni di dolori interni, delle

sensazioni viscerali, il mal di testa o il mal di orecchie. Sono differenti? La nostra percezione

funziona in maniera differente? Sicuramente dobbiamo considerare alcune caratteristiche di queste

sensazioni; dal punto di vista filosofico molto interessanti:

il dolore è soggettivo. Ognuno ha il suo.

E’ privato. Non posso trasferirlo.

Consente un’autorità in prima persona. Non si può giudicare se una persona sta veramente sentendo

o non sentendo dolore. Egli è il massimo giudice del suo dolore.

Queste tre caratteristiche: soggettività, privatezza, assoluta autorità della prima persona, sono

tuttavia materiale per un problema filosofico molto grosso; cioè la relazione fra la mente e il corpo.

Il dolore sembra essere una sensazione fisica, fa male la mano, fa male il piede; eppure proprio

perché è intrinsecamente soggettiva e privata, diventa poi la prima delle sensazioni mentali, qualche

cosa che nessun altro può discutere, che non posso trasferire per es. attraverso le parole, non c’è

modo di descrivere il dolore, quindi non posso trasferirlo agli altri e dunque ho una mia

caratteristica privata, una sorta di castello in cui soltanto io riesco a dominare.

Il Paradosso del dolore è che, come nel caso del cosiddetto arto fantasma, posso addirittura dire di

provare dolore in una regione dello spazio, perché magari mi è stata amputata una gamba o una

mano; essi non ci sono più ed io continuo a sentire dolore là, dove non c’è più nulla di fisico.

Dunque il dolore che dovrebbe essere un campanello di allarme fisico della mia fisicità diventa

invece il dominio esclusivo delle mie sensazioni mentali. Un dominio così potente che nessuno può

metterlo davvero in discussione; alcuni sostengono in questo caso, che nel caso del dolore:

apparenza e realtà coincidono; perché non c’è nient’altro nella realtà del dolore che non il fatto che

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a me sembri proprio di avere un dolore. (Simone Gozzano; Nato a Roma il 26.08.196; Professore

Ordinario – Logica e Filosofia della scienza – Università degli studi di L’Aquila).

4.5 Esistenzialismo – Cenni del pensiero filosofico

“L'esistenzialista non prenderà mai l'uomo come fine,

perché l'uomo è sempre da fare”. (Jean-Paul Sartre)

Definire una filosofia come l’esistenzialismo è certamente difficile, se non impossibile. E questo

non solo perché la filosofia dell’esistenza avrebbe come essenza quella di negare l’essenza, ma

ancora per l’effettiva diversità di voci e di sviluppi raggruppabili in quest’area.

Nonostante questo, le filosofie dell’esistenza si lasciano indicare secondo alcune ricorrenze

tematiche o strutturali. Tra queste, la riscoperta dell’esistenza e la relazione con l’essere

costituiscono senz’altro un binomio centrale e decisivo.

La riscoperta dell’esistenza è un primo ed evidente esito di quella “tematica della crisi” che matura

con particolare vigore nella coscienza europea tra le due guerre mondiali.

Per essa si impone una centralità dell’esistere, inteso quale modo proprio, e problematico, di essere

dell’uomo, nel contesto di una crisi polivalente: storica e sociale, culturale e filosofica. Si trattò

anzitutto di una crisi storica e sociale, coinvolgente la società europea nel suo complesso tramite le

vicende che prepararono e che seguirono alla Guerra mondiale del 1914-18. E, al tempo stesso, fu

crisi culturale e filosofica in virtù della quale venivano via via crollando, fin dentro la seconda metà

del XIX secolo, gli ottimismi, i miti, e, in una parola, le certezze ottocentesche, promosse a più

livelli ed in più direzioni, non ultime quelle dei vari idealismi e positivismi. Per la sua dimensione

culturale e filosofica la crisi entro cui si propone la riscoperta dell’esistenza, nei suoi aspetti più

urgenti e tragici, si lascia descrivere come una rottura della relazione tra ragione e realtà, e quindi,

come una perdita, ed una conseguente problematizzazione, del senso dell’esistere individuale. In

quest’ultima ottica va riconosciuto che da un punto di vista culturale e filosofico le tematiche

esistenzialistiche vennero preparate fin dentro l’Ottocento, specie nella polemica antihegeliana, e

nel travaglio del passaggio del secolo. Certe sottolineature del pessimismo di A. Schopenhauer 28, la

rivendicazione del concreto di L. Feuerbach, ed i motivi esistenzialistici di S. Kierkegaard –

angoscia e disperazione, scelta e possibilità – confluirono nelle filosofie dell’esistenza del

Novecento. Kierkegaard in particolare, soprattutto per l’area tedesca, è all’origine di quella

Rinascita Kierkegaardiana che trovò un’espressione di notevole rilievo, anche in termini di

influenza sul clima filosofico, nel “Commento alla lettera ai Romani” (1919) di K. Barth 29. Più in

generale, le filosofie dell’esistenza incontrano ancora quegli spunti esistenzialistici che venivano

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delineandosi da più parti: in F. Nietzsche 30 e nella fenomenologia 31 di E. Husserl 32 ad esempio, o

ancora in H. Bergson 33 e in M. de Unamuno 34.

La riscoperta dell’esistenza tra le due Guerre mondiali fu però ben più di un evento strettamente

filosofico. Essa segnò infatti un vero e proprio clima culturale, un’atmosfera diffusa, cui

contribuirono non poco precise espressioni della letteratura europea, nelle quali si registrano,

accanto ad un senso sottile e crescente della quasi-condanna nell’esistere, i temi del singolo e del

suo destino delle scelte esistenziali più o meno disperate, della terribile difficoltà del vivere. I

personaggi di F. Dostoevskij 34 o di F. Kafka 35 prima, o ancora di M. Proust 36 e di Ibsen37, e gli

scritti di A. Camus 38 – il mito di Sisifo, 1943; L’uomo in rivolta, 1951 – e di Simone de Beauvoir 39 – Per una morale dell’ambiguità, 1947 – dopo, indirizzano in questo senso. Lo stesso

esistenzialismo francese rimane contrassegnato, tanto in J. P. Sartre 40 quanto in G. Marcel41,

seppure con fortune diverse, dal bisogno di far vivere nel racconto, o in teatro, quei personaggi

concreti che incarnino vitalmente i temi sollevati dalle filosofie dell’esistenza. Non a caso

dell’esistenzialismo si è tentato, tenendo conto di questa atmosfera culturale, una definizione nei

termini di “estrema propaggine” del romanticismo, o, ancora, di decadentismo (N. Bobbio) 42.

L’esistenza che viene riscoperta, tuttavia, non è qualcosa di rinchiuso in sé stesso, e di

autocontemplantisi, come ha ancora ravvisato la critica marxista. Piuttosto, sul versante filosofico

essa viene concepita in termini di rapporto, e precisamente di rapporto con l’essere. Ora, per quanto

l’essere non si lasci definire in modo univo nelle filosofie dell’esistenza, pur tuttavia la relazione

con l’essere è così centrale che in essa ne va del senso dell’esistenza stessa. Anzi, è nella stessa

diversità di intendere l’esistenza e l’essere, nel loro rapporto, che si radicano i diversi orientamenti

dell’esistenzialismo – ontologico od umanistico, ateo oppure teistico, di destra o di sinistra.

L’esistenza, si diceva, non è un’essenza compiuta e autosufficiente, ma è apertura e possibilità, cioè

rapporto. Nel rapporto intervengono anzitutto l’esistente-uomo e l’essere, in quanto termini

rapportati; in secondo luogo emergono le nozioni di libertà e di scelta come espressioni della

possibilità tipica dell’esistente-uomo di accettare, rifiutare, direzionare il rapporto con l’essere; in

terzo luogo intervengono le categorie dell’autentico e dell’inautentico a designare la qualità vissuta,

il modo del rapporto del singolo con l’essere. Infine, nel rapporto di esistenza ed essere va

considerato ancora tutto il complesso degli elementi stessi che costituiscono il rapporto, complesso

sempre unico ed originale nonché storicamente determinato. Questa complessità concreta coincide

con quella situazione esistenzialistica in riferimento alla quale se da un lato si comprende il senso

della priorità dell’esistenza sull’essenza, da un altro lato acquistano rilievo le sottolineature della

singolarità, del limite e della finitudine costitutiva – in entrambi i sensi della possibilità negativa e

positiva – dell’esistenza stessa.

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La centralità del rapporto di esistenza ed essere risalta nitidamente nelle filosofie dell’esistenza.

Ritengo sia necessaria e utile una, se pur non approfondita, chiarificazione dei termini-concetti, che

sono alla base della filosofia Esistenzialista e di Soren Kierkegaard, (Copenaghen, 5 maggio 1813

– Copenaghen, 11 novembre 1855. È stato un filosofo, teologo, e scrittore danese, il cui pensiero è

da alcuni studiosi considerato punto di avvio dell' esistenzialismo), in particolare:

Singolo. Il termine Singolo non è da confondere con la persona sola, ma con il termine

“Individuo”, “Unico”, “Irripetibile”, “Non Comparabile”. Questo è un concetto che andava in

contrapposizione con la filosofia del tempo, cioè l’Idealismo che aveva un angolo di visuale del

tutto simmetrico. Il fulcro dell’Idealismo non è l’individuo, ma l’Assoluto, di cui l’individuo è, a

seconda delle varie angolazioni, solo un aspetto contingente.

Per la filosofia, ci sono due termini fondamentali da puntualizzare:

l’Essere, che quando è percepibile, vuol dire che sta esistendo, es. il mouse, che in quanto mouse,

esiste.

L’Essenza, il mouse non è il microfono; come Essere esiste ma come Essenza non è il microfono o

viceversa. Esistono entrambi ma essenze differenti.

L’Essenza per la filosofia è, rispetto all’Esistenza, un prerequisito, perché possa esistere. Se non ci

fosse l’Essenza, cioè quel “quid” che poi chiameremo es. “microfono”, l’Essere non possa esistere.

Nelle scienze organiche, diremo: nelle cellule madri, in potenza, c’è tutto quello che avverrà,

bisogna poi attualizzarlo; ma in essenza già c’è, nel seme c’è già la pianta, anche se sarà la pianta.

Ci saranno poi delle cause, dirà prima Aristotele 43 e poi Tommaso 44, che faranno sì che l’Essenza

si esplichi. Senza quelle cause non ci sarà l’effetto, ma in potenza c’era già. L’Essenza precede

l’Esistenza, dal punto di vista filosofico.

Kierkegaard si chiedeva, al contrario dell’Idealismo e della cultura antica se il paradigma che

l’Essenza precede sempre l’Esistenza è valido anche per l’uomo. Vale lo stesso criterio per cui

l’Essenza precede l’Esistenza per l’individuo? Posso applicare lo stesso criterio per cui nell’Essenza

c’è già tutto ciò che potrà divenire? Sempre che ci siano le cause che lo facciano divenire.

Kierkegaard risponde che per l’uomo, non per quello che riguarda appartenente alla specie umana

ma in quanto individuo, pare che questa attribuzione non possa essere applicata. L’Esistenza che sia

secondaria, cioè che venga dopo l’Essenza, per l’individuo non si può applicare, anche se

paradossale, sconvolgente. Come è stato sconvolgente nella scienza quando nell’800 (Riman45 e

Lobascieski46, matematici entrambi) hanno fondato due geometrie non Euclidee, valide. Ma nella

loro validità, sono sconvolgenti per la mentalità scientifica. Questo perché la geometria Euclidea è

valida in un certo ambito, per es. per calcolare l’orbita che un satellite deve fare, o per andare sulla

Luna, ci si serve della geometria non Euclidea. È questo un andare oltre, come dice Popper, è

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veramente una teoria umana, quando può essere falsificabile. Kierkegaard ha falsificato qualcosa

che la filosofia dava per scontato. Per il “Singolo”, l’“Individuo”, è l’Esistenza che precede

l’Essenza. Precisando. E’ applicabile il paradigma classico Essenza, pre-requisito dell’Esistenza, in

quanto relativo all’aspetto anatomico della persona: cromosomi, DNA…., ma noi non siamo solo

quei cromosomi, c’è qualcosa d’altro, c’è un “quid” che trascende la specie e che fa di me, “Unico”,

“Incommensurabile”, “Individuo”. Questa nuova struttura di pensiero in cui l’Esistenza precede

l’Essenza, per l’individuo, già ci dà un primo chiarimento di quella filosofia, quella antropologia,

quella cultura del ’900 che si rifarà a Kierkegaard riprendendolo ed elaborandolo, in maniera

differenziata, e si chiamerà filosofia Esistenzialista o dell’Esistenza, per la particolare connotazione

che darà al termine “Esistenza”.

Un approccio interessante è offerto da Heidegger: l’esistenza autentica dell’individuo è l’Essere

per-la-morte, cioè che io man mano che agisco, fino alla morte, costruisco la mia Essenza e l’ultimo

atto della mia esistenza è quello che concluderà la mia Essenza, di Giuseppe Cannone. Questo

comporta il dilemma della “Libertà”, è un’angolazione. Quindi, se noi attribuiamo nell’individuo

uomo, non le caratteristiche fisiche, né i suoi condizionamenti psichici, sociali; ma consideriamo

che nell’individuo c’è un ambito di autorealizzazione, allora dobbiamo dire che l’Esistenza precede

l’Essenza; che non è già data a monte; concludi la tua Essenza quando finisci di esistere.

Le altre categorie di Kierkegaard, oltre a quella del Singolo per cui l’Esistenza precede l’Essenza,

sono: “Possibilità”; “Scelta”; “Rischio”; “Ansia-Angoscia”; “Disperazione”. Queste sono categorie

fondamentali in Kierkegaard, ma che hanno orientato in vario modo l’antropologia esistenziale del

primo ‘900 sulle cui radici si innesta l’antropologia neoesistenziale.

Un breve esame di queste categorie, può essere utile e doveroso, per meglio comprenderne la

filosofia Esistenziale:

1) Possibilità. L’uomo è sempre immerso durante l’esistenza in un campo

immenso di possibilità e potendo aderire in ogni istante ad una possibilità o

ad un'altra; coscientemente o meno, siamo stimolati a continue “scelte”; un

esempio banale, ma che danno il senso delle innumerevoli possibilità può

essere la scelta, mentre si parla, della possibilità di tenere gli occhi chiusi o

aperti, muovere le mani o stare fermi, ecc., dando implicitamente un senso,

un rafforzativo, un chiarimento, ad un concetto o argomento, durante la

comunicazione con gli altri. Da questo semplice esempio, è facile

comprendere le infinite possibilità di scelta che abbiamo.

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2) Scelte. Altra categoria connessa alla Possibilità. Anche il non scegliere è

una scelta. Non si parla di scelte che non si possono fare, ad es. battito

cardiaco, dell’uomo come appartenente ad un genere, es. cromosomi o DNA,

ecc. L’uomo in quanto “Individuo”, non può non scegliere, anche l’illusione

di non scegliere è una scelta. Non c’entra con la consapevolezza, è un dato

esistenziale che contraddistingue l’uomo in quanto tale. Un discorso

analogo, per le nostre conoscenze attuali, non sembra possa essere formulato;

“pare” e non si è certi che “sia così”, per es.: che il fiore, l’albero (entrambi

esseri viventi), la formica, non tutti hanno la possibilità di scegliere in quanto

Individuo. L’uomo invece, sì. Gli altri esseri viventi forniti di “bios” sono

caratterizzati dall’istinto; cioè la loro azione dell’esistenza è caratterizzata da

qualcosa di “programmato” e di “istintuale”, ma non dalla scelta. Anche se

questo c’è nell’uomo, viene però ampliato alla possibilità di scelta oppure

alla non possibilità di non scegliere, perché poiché dotato di quel “qualcosa”

di cui non sono dotati gli altri esseri viventi; non può non scegliere. Può

scegliere senza consapevolezza, allora conviene essere consapevoli.

Leopardi47, nel “canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, descrive il

pastore, che anche se ignorante, quando vede che le sue pecore dormono la

notte, dice: ma perché voi adesso dormite ed io, anche se potessi dormire non

riesco. Il Tedio (la noia) mi assale. La noia è tipica dell’individuo, a cui non

basta il piacere ma anche l’appagamento che gli dia un senso.

3) Rischio. Ogni scelta comporta un ambito di rischio poiché ogni scelta è

rinuncia. Se scelgo X, rinuncio a Y. Se scelgo di stare con gli occhi chiusi

rinuncio a stare con gli occhi aperti. Quindi io non posso sapere in assoluto

qual è il “vero”, il “bene” il “meglio”. E’ un rischio ad ogni scelta che

prevede la rinuncia.

4) Ansia-Angoscia. È il puro sentimento del possibile che è una capacità

tipicamente presente nell’essere umano in quanto Individuo. L’essere umano

potrebbe in alcune contingenze non averlo più. Es. se io vado in coma posso

non avere più questa possibilità. Noi infatti ci esprimiamo nel quotidiano in

questi termini: “Sì, è un uomo!, ma adesso è un vegetale”. E’ vivo, ma

vegetale. Non è un dispregiativo, ma è in condizione, in cui quella capacità

Noetica Individuale, non è possibile che si esplichi. L’Angoscia è quindi il

sentire che siamo immersi in un campo di possibilità in cui non possiamo non

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scegliere e questa scelta è una mia responsabilità che mi può appagare o

meno, perché è sempre un Rischio.

5) Disperazione. Non è quella di chi sta male, che soffre; è invece la sensazione

dell’impossibilità di un appagamento complessivo, totale, nel scegliere né

fuori di sé, né scegliendo sé stesso. Come faccio - faccio, aspiriamo ad un

afflato del non limitato, andare sempre oltre, e ci accorgiamo di non poterlo

mai raggiungere. E’ la stessa immagine che usa Karl Jaspers che la esprime

con l’immagine dello scacco e dell’orizzonte. L’uomo è l’Essere che tende

strutturalmente sempre oltre, ha questa caratteristica, questo demone di

andare oltre. Lui lo paragona ad un orizzonte a cui l’Essere tende e non è

appagato (Tedio = Noia). Leopardi: "Canto notturno di un pastore errante

dell'Asia", per la pecorella è appagamento, per noi è noia, tedio. Per noi non

basta mai, bisogna andare oltre. Questa noia va in qualche modo superata,

perché c’è qualcosa oltre, “non mi basta mai”. E allora questo “oltre”, se non

sono abituato, se non riesco a trovare un progressivo sufficiente valido

appagamento, diventa un surrogato: sarà l’alcool, sarà la droga, sarà il potere,

sarà la ricchezza. Tendiamo sempre a qualcosa che è oltre. Noi siamo esseri

“Intenzionali”, ossia “Tendere oltre”.

Jaspérs raffigura con l’orizzonte il tendere sempre della persona che vuole realizzare la propria

individualità in questa dimensione dell’esistenza. Chi si contenta resta lì e si annoia; è una vita

senza senso. Però a chi tende, c’è uno scacco, cioè più ti avvicini all’orizzonte più lui si allontana.

Sembra che non lo si raggiunge mai e sembra solo negativo. Kierkegaard lo chiama

“Disperazione”. In verità non è solo negativo. Se mi giro dietro, vedo quanto ho fatto e non lo avrei

fatto, se non fossi voluto andare oltre. Ecco perché l’uomo, in quanto dotato di questa caratteristica,

è l’unico animale per cui si può parlare di evoluzione naturale e di progresso, cioè è lui che può

progredire, andare oltre. La realtà è che non finiamo mai ad andare oltre.

Quando si dice: chi te lo fa fare? Cosa hai conseguito? La risposta è: girati indietro e vedi quante

cose hai potuto realizzare andando verso l’orizzonte, che non realizzavi, se non ti fossi mosso verso

l’orizzonte. E’ vero che in questa dimensione, l’orizzonte è sempre oltre, ed è vero. In questa

dimensione, questo “tendere verso” sempre oltre, questa impossibilità di un appagamento totale che

prende la forma di impossibilità di scegliere e realizzare sé stesso, è certo che abbia una sua

connotazione che noi chiamiamo, da questo punto di vista, secondo queste considerazioni, Morte.

Ma solo l’uomo che fa questo, di tendere oltre, dirà Heiddegard, è l’Individuo che sta vivendo

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l’esistenza autentica. Caratteristica della esistenza autentica è l’essere per la morte. In opposizione

ad una esistenza banale, apparentemente appagata, che però con una analisi esistenziale, si dimostra

che l’appagamento si risolve in noia, eccetto che non prenda altre forme questa tendenza, come

sopra descritte, forme surrogate: droga, corruzione, ecc. Questo perché si vuole dare qualcosa a

quella parte di noi che tende ad andare oltre, se no, c’è noia.

Ludwig Binswanger48 , riprendendo Heiddegard, mette in luce ulteriormente qualcosa che è stato

fecondo nell’antropologia esistenziale, figlia della filosofia ma che ha una concreta operazione

operativa, fino alla terapia (Binswanger era psichiatra); il Singolo, l’Individuo che in Heiddegard

era denominato “Da Sain”= “Qui ed ora”, “Essere che vive qui e ora”, ma in relazione col mondo,

di “Essere nel mondo”, cioè il “Da Sain” non è un qualcosa di astratto, ma ci sono dimensioni del

mondo (Mondo in tedesco si traduce “Welt”) e modi quindi, di essere nel mondo. Questi modi di

essere nel mondo, Binswanger cercò di chiarirli riportandoli a tre fondamentali modalità di “essere

nel mondo”, per una ulteriore chiarificazione.

N.B. Non è da dimenticare che nell’approccio esistenziale è nel presupposto della filosofia che

sempre è possibile andare “più in là”, rendendo parziale ogni chiarificazione.

Proviamo ad illustrarli, “il “DaSain” vive nel mondo ma i mondi, (“Welt”) sono importanti

distinguerli.

UmWelt. (la parola tedesca Umwelt significa "ambiente" o "mondo circostante"). La realtà

soggetta al “determinismo” alla legge di “causa-effetto”; e non alla “scelta”. Un esempio : Se mi

dai una botta io mi ferisco (causa ed effetto), la mia struttura genetica mi influenza al di là della mia

volontà. Quando il Singolo (Dasein) vive questo tipo di dimensione del mondo sta vivendo un

aspetto dello “Um Welt”; che si deve tenere presente, perché noi siamo soggetti alla causa ed

effetto. Se non me ne accorgo rischio che posso avere tutti i desideri di andare ma se ho la febbre a

40°, io devo sapere curare la febbre a 40°; se non sono in grado di rilassarmi, di andare in uno stato

fisico di riequilibrio, la mia capacità di “Scelta” di Individuo, anche se è vero che è soggettiva e

personale, ma si fonda sulla base di specie e la specie ha le sue esigenze, soggetta alla legge di

causa-effetto.

L’ “Umwelt” è quella dimensione del “Dasein” quando vive immerso nel mondo soggetto al

determinismo causale, che è presente nell’esistenza. In altri termini, il Singolo non è disincarnato

nell’esistenza, non è un angelo. Bisogna tenerlo presente, altrimenti ci sono voli pindarici utopistici.

A non tenere conto dell’ “Umwelt” si possono avere molte realtà patologiche, e al di là del

problema psichico o addirittura noetico, se la base di tipo fisico non viene rispettata (non bevo, non

mangio) manca anche la libertà di “Scelta” perché noi siamo: Singolo – Individuo – Unici –

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Irripetibili, ma anche con una valenza temporale soggetta alla dimensione causale che ha le sue

necessità.

Ma noi contemporaneamente viviamo un’altra dimensione del mondo che Binswanger definisce

“MitWelt”, ossia la dimensione sociale o culturale.

MitWelt. Il soggetto Singolo – Individuo – Unico – Irripetibile , il “Dasein” vive in relazione con

altri “Dasein”, è l’”Essere con”, la dimensione relazionale. Ogni individuo è una “solitudine” (nel

senso di Individualità) che in questa dimensione è in relazione con altre “solitudini”, con altri

“Dasein”; non tenere presente questo, vuol dire non tenere presente una delle caratteristiche

fondamentali del nostro essere del mondo.

Eigenwelt. Poi c’è il mondo di me con me stesso, il mondo della mia interiorità, del rapporto

profondo di me con me stesso, il mondo dell’autoconsapevolezza, “Hygen Sain”.

Queste tre chiarificazioni di Binswanger sono molto importanti per quel che riguarda la storia

dell’antropologia esistenziale applicata o filosofia di aiuto. E’ importantissimo il “Mit-Sain” perché

nella professione di aiuto, nella consulenza filosofica, nel Counseling, nella terapia, c’è un Mit-Sain

esplicito, uno scambio relazionale.

Per vivere in armonia, le persone dovrebbero contemporaneamente vivere all'interno delle 3

modalità, il che significa che nessuna dimensione umana è più grande dell'altra (fig. 3.1).

Fig. 4.1

Dagli anni ’80 in poi prende forma il “neo” in Italia; in altre nazioni prende altre forme, altri

orientamenti, sempre su questa radice.

Si è posta come domanda come facilitare nella relazione che si rifà all’approccio esistenziale quel

“Mit”; e il “Mit” = “Essere con”, nell’uomo prende forma della Comunicazione.

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In Italia il “Neoesistenziale” ha preso l’aspetto comunicativo, che ha le sue regole, e con tutte le

radici dette prima.

Nel “Mit” non sempre si riesce a comunicare quello che si vuole e un particolare aspetto che

contraddistingue il “Neo” esistenziale, cioè la cura particolare della comunicazione è l’approccio

filosofico che si interseca con quello esistenziale primo ‘900, cioè con il concetto di “Epoqué”.

Husserl ripropone, rivisitandolo, il concetto di epoché pensato dagli antichi Scettici49 e rielaborato

da Cartesio. Per Husserl l'epoché è l'atteggiamento che il “fenomenologo” deve assumere nei

confronti del mondo. Il filosofo deve mettere "tra parentesi", senza negarla, la realtà supposta dalle

scienze naturali e, più generalmente, dal senso comune, anche se, talvolta, Husserl si avvale

dell'epoché non per sospendere la tesi dell'esistenza del mondo in generale, ma solo per isolare

domini specifici di indagine. Da questo concetto particolare, che lui applica a livello di indagine

filosofica, è stato estrapolato nella sua essenza fondamentale, per applicarlo utilmente nelle

professioni che si rifanno all’approccio antropologico esistenziale.

Negli ultimi 10 anni si sta ponendo attenzione allo “stato esistentivo”, da non confondere con

esistenziale, dell’Individuo. Prima si sarebbe detto “stato di coscienza”; si preferisce in questo

contesto dire “stato esistentivo” per un motivo anche terminologico e per chiarirci. In altri termini,

noi in ogni momento stiamo in vari tipi di stato, che ne siamo consapevoli o meno; es. si dice: in

che stato d’animo stai? Che può variare anche col tempo. Ora gli studi hanno provato che è un

“tutto” che cambia, anche a livello biologico; oggi anche a livello di DNA (epigenetica)50. Noi

siamo in certi stati che variano continuamente. L’attenzione allo stato esistentivo, che può variare,

può influenzare il Mit-Sain, nell’”Essere con”, e deve essere preso in considerazione nella

professione della consulenza filosofica, nel Counseling, nella terapia, ecc. ecc. perché a seconda

dello stato esistentivo dell’Individuo, certe cose avvengono o non avvengono, sono più facili o

meno facili, sono possibili o non possibili. Nel senso che una cura o presa in carico di uno stato

esistentivo, aiuta molto il Mit-Sain se l’operatore vuole fare filosofia in azione, Counseling in

azione, terapia in azione. La cura degli stati, che noi neanche supponiamo, viviamo

quotidianamente senza accorgerci, è particolarmente importante. Noi conosciamo due stati soltanto:

la veglia e il sonno; però noi non abbiamo solo questi stati, di conseguenza la comunicazione può

avere diversi impatti. E’ quindi importante, per la professione, avere cognizione di questi stati

esistentivi.

Quel “neo” (sintetizzato) ha a che fare con tutto l’esistenziale ma anche con alcune cose specifiche,

in particolare:

l’Attenzione specifica alla comunicazione;

l’Attenzione specifica all’Epoquè, che spesso non è tenuta in considerazione;

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l’Attenzione e la Cura degli stati esistentivi, nuovo approccio di avanguardia perché è degli ultimi

anni e che caratterizzano il “neo”.

Esistenziale: attiene all’esistenza nella globalità; esistiamo! Es. circolazione sanguigna, fotosintesi

clorofilliana, che noi non abbiamo in quanto non vegetali, ma essi, sì.

Esistentivo: è ciò che contraddistingue la mia Individualità. Riguarda me, ognuno di noi, ogni

attimo della mia vita è nello stato esistentivo.

4.6 Martin Heidegger. Con Heidegger entriamo nel cuore del ‘900 filosofico, nel senso che da una

parte Heidegger ha segnato di sé tutta la filosofia del secolo scorso e ancora la filosofia

contemporanea; sia perché con Heidegger troviamo un modo di fare filosofia che è tipicamente

novecentesco; cioè rispetto ai suoi immediati predecessori che erano tutti filosofi in Germania,

estremamente professori, estremamente interessati alle questioni della filosofia come scienza, come

teoria della conoscenza, Heidegger dà uno stacco netto, sembra occuparsi di tutt’altro, come se

facesse irruzione qualcosa di diverso. Innanzitutto fa irruzione la vita. Il senso che Heidegger ha

dato alla propria attività e la ragione per cui è diventato famoso in Germania nella prima metà del

‘900, la prima fase di diffusione del suo pensiero, è stato per l’appunto la filosofia dell’Esistenza.

L’Esistenza diventa una categoria filosofica centrale, mentre nelle filosofie dell’’800 era

relativamente marginale; con kant contavano temi come: che cosa posso conoscere, che cosa posso

sapere. Invece qui è la vita che diventa un oggetto filosofico di per sé. La vita di una persona situata

all’interno del mondo. Non di un occhio che contempla il mondo dall’alto, ma di un essere umano

che è calato all’interno del mondo. Un essere umano che fa i conti soprattutto con la propria

mortalità, con la propria finitezza. Questo è il tema centrale di Heidegger, forse uno di quelli che

maggiormente hanno segnato la sua ricezione filosofica. Questo tema che normalmente viene

chiamato da Heidegger come “essere per la morte”. Noi dal momento in cui nasciamo, siamo

destinati a morire e proprio la consapevolezza di questa destinazione mortale dell’essere umano, fa

si che le cose siano importanti per noi. Noi non abbiamo di fronte a noi, un tempo infinito, le nostre

domande non sono mai quelle puramente teoretiche che potrebbero riguardare un onnisciente o

qualcuno che ha di fronte a sé un’eternità. Noi abbiamo un tempo limitato e dentro questo tempo

limitato prendiamo le nostre decisioni; quindi il sapore della vita, il senso della vita e anche le

caratteristiche speciali dei tipi di azione e di scelta che noi facciamo dentro alla vita, nascono da

questo rapporto essenziale con la morte. Fra l’altro Heidegger è ben consapevole del fatto che la

civiltà, la cultura, sono anche un modo per scongiurare la morte, per far si che noi guardiamo da

un’altra parte. Quello che lui invita a fare, il senso del suo capolavoro filosofico “Essere e tempo”

uscito nel 1927 è proprio richiamare l’essere umano, il “Dasein”, dice lui, l’essere che è calato

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dentro il mondo (dal tedesco: Da = “qui” e Sein = “essere”). Quindi un “essere” che è “qui”, dove

noi siamo, e di fare i conti con la propria mortalità. Fare i conti con la propria finitezza, la propria

mortalità è il cuore della filosofia di Heidegger. in italiano è invalsa la traduzione (proposta da

Pietro Chiodi, primo traduttore di Essere e Tempo in italiano, e rimasta poi stabilmente nel lessico

heideggeriano) "esser-ci", laddove il ci non sta a indicare una mera localizzazione spaziale, ma

qualcosa di più ambiguo e complesso, ovvero il modo in cui concretamente (fenomenologicamente)

l'Essere si dà nella storia, ad es. nell'esistenza dell'uomo. Altro punto fondamentale è la Storia. La

storia che era già una categoria centrale nella filosofia; adesso diventa veramente lo stratificarsi dei

destini umani, delle generazioni che si seguono nella loro fondamentale finitezza, e come l’essere

umano prende delle decisioni per sé, per la propria vita. Queste decisioni, sono anche decisioni che

coinvolgono le collettività e sono anche decisioni che hanno una portata storica. Per Heidegger la

categoria di “decisioni” è altrettanto importante che la categoria “Esistenza”, che la categoria di

“morte”. Sono la costellazione fondamentale dentro cui si colloca il suo pensiero. Ovviamente in un

orizzonte di questo genere, che appunto privilegia la decisione, la storia, anche la politica viene a

prendere una rilevanza importantissima. La politica è sempre stata un tema centrale della filosofia, e

come se diventasse l’essenza stessa del destino storico dell’umanità, proprio perché questo destino

storico è un susseguirsi di decisioni. Purtroppo le decisioni politiche che hanno riguardato

Heidegger sono delle decisioni politiche per il Nazismo. Questo resta un elemento di riflessione,

anche di inquietudine rispetto ad una figura così filosoficamente ricca, densa e piena

concettualmente, che ha riempito di sé, la riflessione filosofica del ‘900; resta appunto il problema

di questa scelta storicamente così situata e storicamente così grave e così drammatica.

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Capitolo 5

La Comunicazione

5.1 La Comunicazione Umana – Logoanalisi Coscienziale

“La tendenza a giudicare gli altri è la più grande barriera alla

comunicazione e alla comprensione”.(Carl Rogers)

Comunicare deriva dal termine latino “communis”, “comunicare”, ossia mettere in comune tra due

o più persone esperienze, informazioni, pensieri ed emozioni.

La comunicazione è un processo di scambio d’informazioni e d’influenzamento reciproco che

avviene in un determinato contesto.

La comunicazione è lo strumento principale di relazione che l’uomo ha a disposizione per creare e

mantenere l’interazione con i suoi simili.

La competenza comunicativa è quindi la capacità di un individuo di produrre e capire messaggi che

lo pongono in interazione con gli altri. Questa capacità comprende non solo l’abilità linguistica e

grammaticale di produrre e interpretare frasi, ma anche una serie di abilità sociali che consentono di

saper adeguare il messaggio alla situazione specifica.

La comunicazione quindi non è soltanto una trasmissione e una rappresentazione del vivere, ma può

essere intesa come la vita stessa nelle sue molteplici interazioni.

5.2 Assiomi della comunicazione

• Non si può non comunicare; anche il silenzio è comunicazione;

• Tutti gli scambi della comunicazione sono simmetrici e complementari;

• Ogni comunicazione ha un contenuto e una relazione.

In una professione di contatto, il mediatore fondamentale è la comunicazione. Non vi sono altri

mediatori specifici come ad es. nella medicina c’è il farmaco. La Filosofia in atto o in azione, la

cui caratteristica è fondata sulla relazione, ha dato vita alla professione della Consulenza filosofica.

La Consulenza filosofica è una professione di contatto e tutto ciò che intercorre su questo tipo di

professione è fondato sulla comunicazione. Sul mettere in comune qualcosa tra due “Singoli”, tra

due “Individui”, tra due “Dasain”; Esseri Unici, Irripetibili, non Paragonabili, che vivono una

situazione di “Sain” cioè “essere insieme all’altro” , (espressione di Ludwig Binswagen); il Mit-

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sind, (trad. dal tedesco: “Condividiamo”) una relazione tra due esseri che comunicano, “essere con

l’altro”. Questa relazione viene esplicata attraverso la comunicazione.

Questa professione non è studio della filosofia, produzione critica di pensiero filosofico; No!

Questa è Consulenza filosofica, è una filosofia in atto, in azione. E’ la filosofia che prevede un

contatto, una relazione. Non è il Socrate immaginato da Aristofane che elucubra su concetti

filosofici. Questa è filosofia in teoria, elaborazione concettuale o critica; e’ da considerare il Socrate

che sta nella piazza, nell’Agorà e interagisce con i giovani e comunica e nella sua comunicazione

genera qualcosa. “L’Arte della allevatrice” che attraverso la comunicazione permette che venga alla

luce qualcosa che è già presente dentro ma che non è già espresso. E’ quel tipo di filosofia che

interessa la Consulenza filosofica non la filosofia teorica.

Ognuno di noi ha un suo modo di comunicare ma perfezionare questo mezzo, per quello che è

perfettibile, permette di operare meglio nel nostro intervento in sintonia con l’altro, insieme con

l’altro. In generale l’uomo valuta la comunicazione essenzialmente sul linguaggio, perché noi

esseri umani abbiamo una caratteristica specifica che ci ha permesso attraverso l’evoluzione, di

elaborare un linguaggio, che permette attraverso quella che noi chiamiamo “parola” di entrare in

comunicazione specifica con l’altro essere uomo: Dasain, Singolo, Individuo. Quindi caratteristica

della comunicazione è il Linguaggio; ad es. il linguaggio dell’uomo è diverso da quello di un

usignolo o da un’ ape. Anche loro comunicano, ma con un loro linguaggio; una comunicazione con

struttura diversa dal nostro linguaggio.

Il Consulente Filosofico deve approfondire la comunicazione, il linguaggio e nell’approccio

neoesistenziale, dagli anni ’80 in Italia, in particolare, si è posta particolare attenzione al problema,

argomento, ambito del linguaggio e della linguistica per gestire e applicare ed esprimere meglio la

professionalità.

Anche Socrate aveva una sua modalità di porsi in relazione comunicativa, una modalità tipica di

Socrate che viene poi reinterpretata e riproposta da Platone, è il modo in cui Socrate dialoga con i

giovani nella piazza il cosiddetto “dialogo Socratico” (di-logos, una comunicazione che attraversa

le due persone). Il modo di comunicare di Socrate ha una sua peculiarità (ironia, maieutica).

Oggi, con l’evoluzione che ci è stata, relativa alla nostra competenza, nella scienza della linguistica

è possibile proporre una modalità comunicativa più efficace, per far si che la Consulenza filosofica

abbia un migliore, più adeguato impatto? La risposta è Si. Condizionato dal fatto che bisogna

capire un po’ di linguaggio e non dare per scontato che noi conosciamo tutto. Alla spontaneità che

abbiamo di comunicare è possibile affinare quello che già è una nostra competenza, per i fini che la

Consulenza filosofica pone in essere quando si presenta come “relazione di aiuto”.

La comunicazione è il prerequisito per apprendere la metodica della logoanalisi.

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La scienza che studia la comunicazione e il linguaggio si chiama Linguistica.

5.3 La Linguistica.

La Linguistica comprende diverse sottodiscipline, quali: la Fonologia; la Grammatica; la

Semantica; la Pragmatica. Prima di trattare della Pragmatica, che più interessa nella professione di

aiuto, nella quale la figura dell’infermiere si inquadra, è doveroso una chiarificazione sui significati

degli altri termini delle sottodiscipline della linguistica.

- Fonologia. Schematicamente studia gli aspetti specifici del linguaggio della comunicazione,

per ciò che concerne l’emissione e le caratteristiche che riguardano i suoni (nasali, bocca);

Es. toni alti, bassi, acuti, timbri della voce diversi. Un cambiamento fonologico o fonetico

può avere un impatto differente nella relazione comunicativa. Quindi è importante l’aspetto

fonologico nella comunicazione. Il parlare velocemente o molto lentamente, può avere

significati diversi per chi ascolta.

- Grammatica . Le parole vengono dette secondo un ordine (Sintassi) e una struttura

(Morfologia). Immaginate di parlare in maniera sgrammaticata o scoordinata, l’impatto

comunicativo può essere diverso. Due diversi modi di organizzare le proposizioni nel

periodo, e cioè coordinazione e subordinazione, vengono anche chiamati Paratassi e

Ipotassi ( dal greco para= a fianco; ipo = sotto; e tàssein = disporre, collocare). La

diversità tra i due modi di organizzare il periodo consiste proprio nel fatto che mentre la

coordinazione pone le proposizioni su un piano di assoluta parità, la subordinazione

stabilisce tra le proposizioni una differenza di valore, una gerarchia.

La Paratattica, esprime tutti i concetti uno dopo l’altro non concatenati. L’Ipotattica usa avverbi

come “giacchè”, “dal momento che”, “essendo” , cioè con subordinate. La Forma e la Sintassi

influenzano la comunicazione.

Un esempio di paratassi è il seguente brevissimo brano di Antonio Tabucchi:

La camera era imponente, la mia valigetta mi aveva preceduto per vie misteriose e stava su uno

sgabello di corda, la vasca era già piena di acqua e di spuma, io mi immersi e poi mi avvolsi in una

asciugamano di lino, le finestre si aprivano sul mare d'Oman, era ormai quasi giorno chiaro, con

una luce rosata che tingeva la spiaggia, la vita dell'India , sotto il Taj Mahal, riprendeva il suo

brulicare, le pesanti tende di velluto verde scorrevano dolci e morbide come un sipario, io le feci

scorrere sul paesaggio e la camera fu solo penombra e silenzio, il ronzio pigro e confortante del

grande ventilatore mi cullò, feci appena in tempo a pensare [….].

( Tabucchi, Notturno indiano, Sellerio, 1991 )

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In questo brano vi è una sola subordinata, introdotta da un pronome relativo: che tingeva. Le altre

frasi, tutte brevi, sono accostate le une alle altre e come uniche congiunzioni coordinative troviamo

solo qualche “e”; i verbi sono tutti all'indicativo. Si tratta di un esempio di stile paratattico, il cui

effetto è quello di trasmetterci in modo immediato una serie di sensazioni e di immagini: il caldo, la

luce, una camera, dove giungono smorzati i rumori e i colori dell'India.

Esempio di ipotassi.

Carlo gli aveva detto che, nell'ora in cui la nave doveva salpare, sarebbe salito sull'abbaino della

soffitta per guardare, nella sera che si spegneva, in direzione di Trieste, là dove lui, Enrico,

partiva, quasi i suoi occhi potessero frugare nel buio e salvare le cose dall'oscurità, lui che aveva

insegnato che filosofia, amore della sapienza indivisa, vuol dire vedere le cose lontane come

fossero vicine , abolire la brama di afferrarle, perché esse semplicemente, sono nella grande quiete

dell'essere.

In questo brano abbiamo dall'inizio alla fine un unico periodo una proposizione principale all'inizio

(Carlo gli aveva detto) seguita da una serie di frasi subordinate di gradi diversi, all'interno delle

quali si notano verbi all'indicativo, ma anche al condizionale e al congiuntivo. Questa è una

costruzione ipotattica che, come si nota, riflette un pensiero più complesso e articolato.

L’impatto nella comunicazione, può variare, come anche l’effetto può variare.

- Semantica. Altra branca della linguistica che focalizza il rapporto che intercorre fra i segni

(cioè la parola) e il significato, cioè ciò che la parola vuole significare. La Semantica è lo

studio del rapporto fra significante e significato. Vuol dire che il significante è il mezzo che

uso per indicare qualcosa; il significato è l’oggetto che voglio significare. Studiare come

intercorre questo rapporto, che valore ha, come va chiarito questo rapporto, è fondamentale

cioè capire ciò che la parola vuole indicare. Una parola ha molteplici significati possibili e

questo può causare delle ambiguità nel processo di comprensione. L'analisi del significato

di una singola parola è di per sé molto difficile (semantica lessicale). La semantica frasale si

occupa prevalentemente della comprensione per associazione. Le frasi sono considerate

come insiemi di termini in relazione tra loro.

Proviamo a fare un esempio; e’ intuitivo che se dico: “io sto piangendo di dolore”, ho usato il

verbo piangere. “Piangere” in questo contesto ha un significato = significante, cioè il rapporto fra

segno e ciò che vuole indicare è lo stesso.

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È differente se dico: “stamattina e stanotte il cielo a Roma, ha pianto tanto” (perché ha piovuto).

Ora lo stesso verbo “pianto” ha un altro rapporto semantico che se non lo intuisci, non lo capisci. Se

confondi uno con l’altro, fraintendi. Avere una competenza in campo semantico è necessario.

Quindi è importante coltivare questo tipo di caratteristiche della Linguistica al meglio:

1) Usare i suoni il più possibile in maniera appropriata (Fonologia); usare la gola invece di

parlare col naso;

2) Morfologia e Sintassi.

- Pragmatica. Cosa si intende? Il primo aspetto da chiarire è la Semantica di Pragmatica.

Pragmatica è una parola, un segno. “Il Circolo di Vienna” 52, corrente filosofica primo ‘900

affermava, in sintesi, che in filosofia, in Scienza, tutte le diatribe, tutte le opposizioni, tutte

le problematiche, tutti gli scontri, avvenivano perché era difficile trovare un accordo sul

significato delle parole. il Circolo di Vienna dice ancora che è fondamentale chiarire la

Semantica, l’accordo su quello che intendiamo con una parola. Una parola può avere

significati diversi per più persone.

La Pragmatica come scienza linguistica è più giovane rispetto alla Fonologia, alla Grammatica e

alla Semantica. Nata circa alla metà del ‘900, in USA (Palo Alto – California), nell’Istituto Centro

Ricerche Mentali, dove un gruppo di persone che si interessano di Psicologia, Psichiatria,

Antropologia, Etnologia, Medicina, Comunicazione, scrivono un libro intitolato “Pragmatica della

Comunicazione” il cui autore più importante fu Paul Watzlawich 53 (pronuncia: Wazlavik); il quale

affermava: “non si può non comunicare”. Watzlawick ha sottolineato, in particolare, l’aspetto

pragmatico della comunicazione umana, ovvero il fatto che la comunicazione è strettamente

connessa con il comportamento. Egli ha anche avanzato l’ipotesi dell’esistenza di assiomi circa il

fenomeno comunicativo.

La Pragmatica è una disciplina della linguistica che si occupa dell'uso contestuale della lingua come

azione reale e concreta. Non si occupa della lingua intesa come sistema di segni; al contrario,

osserva come e per quali scopi la lingua viene utilizzata, individuandone la misura con cui soddisfa

esigenze e scopi comunicativi. Più nello specifico, la pragmatica si occupa di come il contesto

influisca sull'interpretazione dei significati. In questo caso, per “contesto” si intende "situazione",

cioè l'insieme dei fattori extralinguistici (sociale, ambientale e psicologico) che influenzano gli atti

linguistici.

La Pragmatica, condensando il suo significato, si interessa in prima approssimazione del

comportamento. Ogni comunicazione ha un effetto, quindi effetto pratico, su coloro che partecipano

alla comunicazione. E se ha un effetto, vuol dire che qualcosa cambia nella persona e quindi ha un

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effetto diretto o indiretto, esplicito o implicito, consapevole o meno, sul comportamento delle

persone.

La comunicazione influenza il comportamento delle persone. Com’è? In che modo? Attraverso

quali sistemi? Attraverso quali modalità? (spesso non consapevoli), c’è questo tipo di effetto? E

perché l’effetto certe volte è in un modo piuttosto che in un altro? Quali sono i fattori che fanno sì,

ci sia un certo effetto piuttosto che un altro? Sono tutte domande che possono nascere da questa

affermazione sulla pragmatica e che si prova a darne una risposta chiarificatrice.

Penso sia importante definire il termine, che è anche un concetto, di “comprendere”, prima di

procedere.

Comprensione: dal latino composto di “cum” con e “pretendere” prendere.

Parola facile facile, nevvero? Ma ha una densità intellettuale impressionante, un movimento

fermissimo e deciso. È un contenere che è includere, un capire che è afferrare - una considerazione

che riorganizza e ridisegna ogni assetto precedente.

Comprendere un principio di valore, un pensiero, una posizione, un sentimento, fa sì che nella

nostra mente acquisisca il peso massimo che può avere, che dispieghi il massimo effetto: ciò che si

comprende si fa proprio, diventa mattone per costruirsi. E la connotazione etimologica ci sottolinea

che questo avviene sempre con un mezzo ben preciso - ora l'intelletto, ora il cuore, ora un

abbraccio.

Il latino “comprehensio” significava letteralmente presa, atto dell’afferrare.

Il passaggio dall'idea di prendere fisicamente a quella di prendere con la mente, dunque capire, è

molto diffuso nelle lingue del mondo.

Ad esempio, la parola tedesca Begriff -concetto - significa letteralmente afferrato.

Anche capire (capere) o leggere (legere), in latino volevano dire prendere, raccogliere.

Il senso di comprensione come atto, capacità di contenere in sé era presente nell'italiano antico, ma

è diventato sempre più raro e letterario.

Ogni persona comunica perché la comunicazione è fatta di messaggi /imput: verbali e non verbali.

- Verbali, (dal latino: deriv. di vĕrbum ‘parola’), cioè prendono forme di parole e se c’è un

codice linguistico, che ci accomuna, queste parole vengono com-prese da chi ascolta. Se il

codice linguistico dell’altro non riesce semanticamente ad attribuire significato a queste

parole, non com-prende. Quindi il messaggio verbale è quello che passa attraverso il

mediatore delle parole (Linguaggio Comunicazione Verbale).

Ma lo studio accurato della comunicazione ha fatto sempre più comprendere che ciò che passa,

ciò che viene comunicato, messo in comune con il ricevente e ciò che ha un effetto pragmatico,

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oltre all’aspetto verbale è tutto ciò che accompagna l’aspetto verbale, è ciò che non è verbale.

Esso ha un fortissimo effetto pragmatico ed è comunicazione. La mente dell’altro elabora

quello che l’emittente presenta nella comunicazione, oltre il verbale.

- Non Verbale. Gli studi affermano che ciò che viene elaborato, capito, interpretato, vissuto,

con i suoi effetti pragmatici poi, da parte del ricevente è il 90 – 95% del non verbale e solo

il 3 - 5% è del verbale.

Significa che la comunicazione verbale accompagnata da un non verbale X o Y può avere un effetto

totalmente diverso.

E’ importante questa distinzione tra verbale e non verbale.

Bisogna quindi curare anche il non verbale, essere consapevole della sua mediazione nella

comunicazione.

Da tenere conto che il non verbale non è mediato, influenzato dalla consapevolezza. Il non verbale è

quello che sei non quello che sai, prevalentemente.

5.4 Il Messaggio: tra linguaggio digitale e linguaggio analogico

Linguaggio digitale. E’ un termine della pragmatica. Digitale vuol dire un segno che è univoco

nella sua interpretazione. E’ il linguaggio verbale. Nel linguaggio italiano il “Si” e il “No” vogliono

dire Si e No. A questo livello, si parla di linguaggio digitale, il linguaggio centrato sul contenuto.

Esso consente di scambiare un numero infinito di informazioni, ma da solo non basta a definire il

processo comunicativo umano. Ne consegue che Il linguaggio digitale, da solo, non basta.

Una comunicazione per essere efficace deve comprendere anche il linguaggio analogico.

Linguaggio Analogico.

È il linguaggio della relazione, ossia delle emozioni, degli atteggiamenti, delle aspettative, del

proprio vissuto. Il linguaggio analogico è linguaggio del corpo. Il linguaggio analogico si lascia

solo interpretare. Nel rapporto tra persone tutto è comunicazione, non soltanto le parole, ma si

comunica con tutto il corpo, quindi non si può non comunicare.

Secondo lo psicologo sociale Michael Argyle (Nottingham, 11 agosto 1925 – Nottingham, 6

settembre 2002); in una comunicazione faccia a faccia utilizziamo: le posizioni del corpo; i gesti;

l'espressione del volto e degli occhi o sguardo fisso; le inflessioni della voce; la sequenza, il ritmo,

la cadenza delle parole; ogni altra espressione di cui il corpo sia capace; i segni di comunicazione o

movimenti d'intenzione sempre presenti in ogni contesto comunicativo. gesticolazione, postura,

tatto e comportamento spaziale o prossemica.

Il linguaggio del corpo è in parte innato, e in parte dipende dai processi di socializzazione. In effetti

i meccanismi dai quali scaturisce la comunicazione non verbale sono assai simili in tutte le culture,

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ma ogni cultura tende a rielaborare in maniera differente i messaggi non verbali. Ciò vuol dire che

forme di comunicazione non verbale perfettamente comprensibili per le persone appartenenti ad una

determinata cultura possono invece essere, per chi ha un altro retaggio culturale, assolutamente

incomprensibili o addirittura avere un significato opposto a quello che si intendeva trasmettere.

Secondo i linguisti più del 90% della nostra comunicazione giornaliera è infatti non-verbale. È

quindi un contributo enorme al linguaggio verbale e, dal momento che la comunicazione è

strettamente ambivalente, possiamo facilmente comprendere quanto sia più grande il rischio di non

capire quando si è al telefono piuttosto che quando si parla faccia a faccia.

I suoi elementi sono quindi:

- Le espressioni;

- La postura;

- La gestualità;

- La prosodia;

- La prossemica;

- Il look.

Cerchiamo di definire meglio questi elementi.

Il linguaggio del corpo. Ogni espressione del volto è ricca di significati, infatti, la mobilità del volto

è la più osservata durante un colloquio e costituisce un fattore non verbale d'importanza per la

correttezza della comunicazione. Le espressioni non verbali del discorso e i segni del volto, hanno

significati diversi secondo il contesto in cui si svolge la conversazione. Un atteggiamento comune

in momenti di incertezza e disagio è la tensione labiale. Si può inoltre intuire che lo sbattere con

maggiore frequenza le ciglia indichi uno stato emozionale intenso. Il corrugare la fronte, invece, è

un movimento involontario per dissimulare imbarazzo o per darsi contengo di fronte ad un certo

argomento. L'espressione dello sguardo può essere sia controllata che no, rispecchia comunque lo

stato d'animo presente nel soggetto in quella circostanza.

I segni automatici: Si può intuire che una persona è in preda ad un attacco di ansia e di insicurezza

quando quest'ultima mostra un accelerato ritmo respiratorio, pianto, sbadiglio e radicale

arrossamento delle guance, costituendo modificazioni involontarie dell'atteggiamento.

La postura. La postura di un individuo varia a seconda che egli si trovi nel ruolo di soggetto

emittente o di soggetto ricevente. Essa si combina con i vari atteggiamenti del volto, degli arti e con

la posizione delle braccia e delle spalle. La posizione generale del corpo rivela lo stato emotivo con

cui l'interlocutore partecipa alla comunicazione.

I gesti. I movimenti inconsci evidenziano un particolare stato d'animo dell'individuo in quella

determinata circostanza. I messaggi d'intenzione sono quei tipici gesti che sottolineano il messaggio

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verbale durante un'interazione con un'altra persona. Moltissimi gesti delle mani sono comunicazioni

complete che utilizzano simboli e codici non verbali, alcuni di origine antica e di comprensione

immediata; basti pensare, ad esempio, al pollice rivolto verso l'alto o il basso, inventato dagli

imperatori romani.

La Prosodia; (dal latino prosodia(m), che deriva a sua volta dal greco prosodia, composto di pros-,

"verso" e odè, "canto") è la parte della linguistica che studia l’intonazione, il ritmo, la durata

(isocronia), il tono e l’accento del linguaggio parlato.

Se consideriamo il tono, ad esempio; esso può rendere non importante quello che si dice ma può

avere un impatto pragmatico di tipo non verbale ma tonale, cioè vocale. Es. recitare la famosa

ninnananna: ..”ninnananna ninnananna O, questo bimbo a chi lo do … “ecc.), se ci fermiamo al

verbale, al significato, il bambino sarebbe segnato a vita; ma quello che ha valenza pragmatica è il

tono, il vocale e non il “verbo”.

Il contesto comunicativo. Il contesto è l'insieme degli elementi che compongono e fanno da sfondo

allo svolgimento della comunicazione umana. Esso è molto importante nel conferire e definire la

completezza del messaggio; viene definito anche dalle variabili di spazio e tempo. Lo spazio è la

distanza interpersonale che acquisiamo culturalmente, viene interiorizzata e cambia a seconda

dell'età, della cultura e del tipo di rapporto interpersonale.

Il tempo: Il corretto utilizzo dello spazio-tempo durante un colloquio stabilisce il tipo di rapporto

tra gli interlocutori, ma soprattutto la qualità del messaggio stesso. Chi prende pause troppo intense

durante un discorso, fa notare la sua scarsa preparazione sull'argomento, ansia o timori; gli stessi

aspetti vengono assunti anche in una comunicazione molto "veloce".

La Prossemica è la disciplina semiologica (studia i segni) che studia i gesti, il comportamento, lo

spazio e le distanze all'interno di una comunicazione, sia verbale sia non verbale.

Il termine, derivato dall'inglese prox(imity) «prossimità», probabilmente composto col suffisso -

emics come per phonemics «fonemica» e simili, è stato introdotto e coniato dall'antropologo

Edward T. Hall54 nel 1963 per indicare lo studio delle relazioni di vicinanza nella comunicazione.

Hall ha osservato che la distanza relazionale tra le persone è correlata con la distanza fisica, ha

definito e misurato quindi quattro "zone" interpersonali:

• La distanza intima (0-45 cm)

• La distanza personale (45–120 cm) per l'interazione tra amici.

• La distanza sociale (1,2-3,5metri) per la comunicazione tra conoscenti o il rapporto

insegnante-allievo.

• La distanza pubblica (oltre i 3,5 metri) per le pubbliche relazioni.

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Fig. 5.1 Diagramma di Edward T. Hall con i raggi espressi in “piedi” e “metri”.

Nel libro La dimensione nascosta Edward T. Hall osservò che la distanza alla quale ci si sente a

proprio agio con le altre persone vicine dipende dalla propria cultura: sauditi, norvegesi, italiani e i

giapponesi hanno infatti diverse concezioni di vicinanza.

Gli arabi preferiscono stare molto vicini tra loro, quasi gomito a gomito, gli europei e gli asiatici si

tengono invece fuori dal raggio di azione del braccio. In alcune regioni meridionali dell'India, dove

la distanza che gli appartenenti alle diverse caste devono mantenere fra di loro è rigidamente

stabilita, quando gli individui della casta più bassa (paria) incontrano i bramini, la casta più elevata,

debbono tenersi a una distanza di 39 metri.

Altra differenza è quella tra i sessi, i maschi si trovano più a loro agio a lato di una persona, invece

le femmine di fronte.

Particolare rilevanza ha acquistato anche la prossemica dell'ascensore: ad esempio gli europei in

ascensore si pongono a cerchio con la schiena appoggiata alle pareti, mentre gli americani si

pongono in fila con la faccia rivolta alla porta.

Interessante è pure la prossemica degli ecclesiastici, che chiamando "figli" le persone che

incontrano, accorciano la distanza relazionale e, di conseguenza, quella spaziale.

Possiamo sintetizzare che nell’essere umano i due canali della comunicazione, verbale e non

verbale, sono usati simultaneamente e si influenzano a vicenda. Un messaggio verbale può essere

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cancellato dal messaggio non verbale della comunicazione. Per esempio un membro della famiglia

può dire a un altro, “Ti ascolto” e intanto voltarsi a guardare la televisione oppure a continuare a

parlare al telefono. Si ammette che il canale non verbale della comunicazione si pone a un livello

superiore. Ci sono pertanto diversi livelli di comunicazione.

Il canale non verbale sarà “meta” rispetto all’altro.

Questi sono tutti “elementi” che servono a:

Ripetere;

Sostituire;

Completare o chiarire;

Contraddire;

Rinforzare.

Prima abbiamo detto che la mente elabora prevalentemente il non verbale e allora l’impatto

pragmatico del non verbale può essere superiore al solo parlare delle persone. Collegato a questo

principio della Pragmatica, ossia che non è possibile non comunicare quando due o più esseri

umani sono in contatto, l’addentellato è che la comunicazione è circolare (comunque e sempre).

Vuol dire che l’emittente (emette parole, aspetto verbale e non verbale) e quindi sta comunicando;

ma anche chi sta in silenzio, ad ascoltare sta comunicando, anche se con il non verbale. Quindi

mentre la persona comunica, è allo stesso tempo in contatto con il non verbale dell’altro, che lo

sta ascoltando, e che la sua mente sta elaborando. Cioè la comunicazione è influenzata

vicendevolmente, reciprocamente, circolarmente, da tutti i partecipanti alla comunicazione.

Noi sinteticamente distinguiamo l’emittente e il ricevente, ma in realtà nella comunicazione, per i

suoi effetti pragmatici, c’è sempre la circolarità nella comunicazione perché il ricevente sta già

influenzando l’emittente quando emette. E’ cibernetico. Infatti il gruppo di Paolo Alto, ha studiato

prima la cibernetica55, cioè la retrazione continua.

Altro aspetto fondamentale è che in ogni comunicazione è corretto distinguere un aspetto

1) di contenuto che nei termini della Pragmatica della comunicazione di Paul Watzlawich, viene

definita “notizia” ossia “contenuto” (ciò che viene espresso, il “contenuto” o la “notizia” che dà);

2) un aspetto di relazione; che c’è sempre. In ogni comunicazione c’è sempre l’aspetto di

relazione.

Questo vuol dire che coloro che partecipano alla comunicazione, che siano consapevoli o meno,

spesso non si è consapevoli, tendono a porsi nei confronti dell’altro in un certo modo e

considerando sé in relazione con l’altro e considerano in relazione l’altro nei propri confronti, cioè

come “ti vivo”, anche se non sono consapevole. Quindi come “ti vivo” in relazione a me e come

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“mi vivo” in relazione a te. Questo tipo di relazione, spesso inconsapevole, è molto importante ai

fini pragmatici, cioè ai fini degli effetti della comunicazione.

Questo è la Pragmatica. Lo studio degli effetti della comunicazione su coloro che partecipano alla

comunicazione.

L’infermiere può utilizzare lo strumento e spesso l’intervento assistenziale ne obbliga l’uso della

comunicazione. Però perché uno sappia operare bene il dialogo con la persona che ha bisogno di

aiuto, non può limitare la propria comunicazione a quella che è la naturale propensione a

comunicare. Deve comunque adattare la sua comunicazione a quello che è il contesto.

Ora fra i vari modi di comunicare, uno strumento che ritengo utile, è la “Logoanalisi Coscienziale”;

ispirandosi al modello di riferimento di tipo Esistenziale, con particolare accezione a certi aspetti

dell’esistenziale, collegati al pensiero del primo ‘900, di cui alcuni cenni sono stati trattati prima.

Una ragione o una caratteristica di questo modello di lavoro è che deve essere una modalità non

invasiva, cioè non si deve invadere la persona che ci chiede aiuto con quelle che sono le nostre

idee, i nostri consigli, i nostri pensieri.

5.5 Logoanalisi Coscienziale. La Logoanalisi è stata proposta, nell'ambito dell'Antropologia neo-

esistenziale, come un coerente sviluppo (a livello clinico-terapeutico) della Logoterapia di Viktor

Frankl, fondatore della terza scuola di psicoterapia viennese, in prospettiva analitico-esistenziale.

Elaborata inizialmente presso la sezione di logoterapia della scuola di specializzazione in

psicoterapia di Padova, è stata poi codificata, all'interno dell'Istituto di Scienze Umane ed

Esistenziali, che ne ha divulgato l'approccio (specialmente nell'ambito delle professioni di aiuto), in

collaborazione con altre istituzioni accademiche e scientifiche, quali l’Istituto Italiano per gli Studi

Filosofici, l’Università Europea di Roma e il Pontificio Ateneo Regina Apostolorum.

La base teorica da cui origina la logoanalisi (nella sua peculiarità di metodica comunicativa

afferente alla psicolinguistica e che è oggi spesso conosciuta col termine di logoanalisi coscienziale)

è da ricercare nella grammatica generativa di Noam Chomsky e nel “Metamodello Linguistico

(PNL, l’acronimo in italiano sta per Programmazione Neurolinguistica)” proposto da John

Grinder e Richard Bandler.

Come un Consulente filosofico, l’infermiere deve “offrire tempo, attenzione e rispetto”

Folgheraiter,56 1987. Dare alla persona una opportunità di esplorare, scoprire e chiarire modi di

vivere più fruttuosi e miranti a un “più elevato stato di benessere”.

Non fornire all’altra persona o per chi esercita la professione di consulente filosofico, al “cliente”,

soluzioni o quello di dirle cosa fare, come vivere in modo più fruttuoso e come stare meglio; ma

dice: offrire opportunità di esplorare, scoprire e chiarire modi di vivere . Quindi l’operazione non è

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mai quella di imporre qualcosa ma solo quello di aiutare l’altro, possiamo dire “Maieutico”, aiutare

l’altro ad esplorare le sue modalità diverse di vivere in modo più fruttuoso e con più elevato

benessere, cercando al proprio interno le risorse. Questo è il punto.

“Il Counseling di Rogers”57, che può essere mutuato dall’infermiere recita:

“Se una persona si trova in difficoltà, il modo migliore di venirle in aiuto non è quello di dirle

esplicitamente cosa fare, quanto piuttosto di aiutarla a comprendere la situazione e a gestire il

problema facendole prendere, da sola e pienamente, le responsabilità delle proprie scelte e

decisioni. Gli individui hanno in se stessi ampie risorse per autocomprendersi e per modificare il

loro concetto di sé” (C.Rogers)

E’ chiaro qual è l’ambito.

Uno dei punti cardini nella comunicazione della logoanalisi coscienziale è il carattere “dialogico”. Il

prof. Ernesto Spinelli, psicologo (UK) afferma che: “E’ molto importante come atteggiamento il

concetto dialogico”; puntualizzando che ci sono due tipi di dialogo:

1) la persona “a” ha un suo pensiero, una sua idea e la persona “b” ha anch’egli un suo pensiero,

una sua idea. Entrambi parlano tra di loro ma la persona “a” parla per arrivare a quella conclusione

che egli ha già in testa; la persona “b” parla per arrivare a quello che ha già in testa. Questo è un

“duo-logo”.

2) nel secondo tipo di dialogo, la persona “a” può anche avere una idea in testa, ma la persona “b”

non ha nessuna idea in testa e prova ad accogliere quello che dice la persona “a” e di volta in volta a

seconda di quello che dirà la persona “a” , la persona “b” cambierà l’orientamento, cambierà

direzione. Per cui la persona “b” (consulente, psicoterapeuta,, terapeuta, il professionista di aiuto)

non sa assolutamente dove finirà questo dialogo. Si incontra con l’altra persona, sa da dove si parte

e non sa dove si arrivi. Questo è un dialogo.

Questo è un punto fondamentale. Il dialogo è qualcosa di aperto, non è qualcosa di chiuso.

Ogni comunicazione, ogni messaggio, ha 4 (quattro) elementi almeno da prendere in

considerazione:

• Contenuto;

• la Rivelazione di sé;

• la Relazione

• l’Appello.

Il concetto si proverà a spiegarlo con un semplice esempio: “Oggi ho mal di testa!”

1) Contenuto. Sto male;

2) Rivelazione di sé. Non mi sento bene; sono a disagio;

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3) Relazione con l’altro. L’interpretazione si presta a diversi scenari: 1) ho mal di testa;

lasciami stare. 2) ho mal di testa; aiutami o fai qualcosa. In questo secondo caso: dammi

qualcosa o fammi qualcosa, ossia dammi una mano.

4) Appello. Quando parliamo di appello, noi andiamo a esplicitare una richiesta; chiediamo

all’altro di fare qualcosa. In questo elemento c’è il rischio di indurre qualcosa . Se facciamo

il nostro lavoro di consulente filosofico, di counseling o altro, possiamo assumere quello che

è un atteggiamento comune: “io ho una competenza, so di poter dominare con la mia

competenza la tua difficoltà, ti ingiungo di fare questo, anche se è un consiglio, è un appello.

In ogni messaggio, a seconda delle circostanze c’è sempre tutto questo.

Un problema che si presenta, e non di rado, nella gestione di un paziente di fibrosi cistica, è la sua

compliance o aderenza alle terapie. Queste, come si può dedurre dalla descrizione sommaria della

patologia, è multipla nella composizione, articolata nelle varie formulazioni principali (fiale,

compresse, aerosol) e ripetitiva nell’arco della giornata, fino ad arrivare a comprendere quattro cicli

terapici giornalieri. Il paziente può essere distratto, angosciato, preoccupato, stanco o

semplicemente annoiato, da quello che frequentemente considera un calvario, soprattutto quando la

risposta terapeutica non c’è nell’immediato o è blanda; allora è richiesta l’empatia da parte

dell’infermiere. Una realtà psicologica che quotidianamente l’operatore sanitario si trova ad

affrontare, a vivere , è proprio questo: il “capire” e il “sentire”, l’altro, il punto principale del

prendersi cura.

L’empatia è un termine che deriva dal greco, en-pathos “sentire dentro”, e consiste nel riconoscere

le emozioni degli altri come se fossero proprie, calandosi nella realtà altrui per comprenderne punti

di vista, pensieri, sentimenti, emozioni e “pathos”; entrare in relazione con qualcosa o qualcuno.

L’empatia non ne definisce la qualità ( a questo saranno deputate le parole sim-patia e anti-patia a

seconda della qualità positiva o negativa della relazione).

Il termine simpatia deriva dal greco: letteralmente "patire insieme", "provare emozioni con..." La

simpatia nasce quando i sentimenti o le emozioni di una persona provocano simili sentimenti anche

in un'altra, creando uno stato di "sentimento condiviso". I due maggiori teorici del fenomeno della

simpatia in filosofia sono stati David Hume59 e Max Scheler 60.

L’empatia indica solo lo sforzo di comprensione profonda, di partecipazione.

L’empatia è un’importante competenza emotiva grazie alla quale è possibile entrare più facilmente

in sintonia e “sentire” l’altro, sia esso una persona con la quale si interagisce o l’oggetto o la natura

stessa.

L'empatia è collante in una relazione di cura, eppure va utilizzata in maniera flessibile, a seconda

delle persone o delle situazioni in cui interagiamo. Un eccesso di empatia può provocare in chi la

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prova esaurimenti nervosi e depressioni, che non rendono certo più capaci di aiutare gli altri. Anche

nel processo decisionale, evitare le personalizzazioni si rivela spesso la strategia più utile.

L’empatia è un’abilità sociale di fondamentale importanza e rappresenta uno degli strumenti di base

di una comunicazione interpersonale efficace e gratificante. Nelle relazioni interpersonali l’empatia

è una delle principali porte d’accesso agli stati d’animo e in generale al mondo dell’altro. Grazie a

essa si può non solo afferrare il senso di ciò che asserisce l’interlocutore, ma si coglie anche il

significato più recondito psico-emotivo. Questo ci consente di espandere la valenza del messaggio,

cogliendone elementi che spesso vanno al là del contenuto semantico della frase, esplicitandone la

metacomunicazione, cioè quella parte veramente significativa del messaggio, espressa dal

linguaggio del corpo, che è possibile decodificare proprio grazie all’ascolto empatico.

Il termine empatia era usato nell’antichità per indicare il rapporto emozionale di partecipazione che

legava nell’antica Grecia l’autore – cantautore - al suo pubblico. Empatia significava sentirsi dentro

l’altro, sperimentare il modo in cui l’altra persona vive un’esperienza.

Il concetto di empatia in filosofia è stato introdotto a fine Ottocento da Vischer, Robert, (Tubinga

1847 – Vienna 1933). Storico e filosofo dell'arte, studioso di arti figurative, nell’ambito della

riflessione estetica, per definire la capacità della fantasia umana di cogliere il valore simbolico della

natura. Egli faceva uso del termine Einfühlung che, solo più tardi, è stato tradotto in inglese come

empathy.

Per questo è possibile provare:

• Empatia, ma non simpatia: quando si sentono internamente ed in modo esperienziale i

sentimenti dell'altra persona (empatia), ma non si intende alleviare le sue sofferenze

(simpatia)

• Simpatia, ma non empatia: quando si sa che qualcuno sta male e si sente la voglia di

aiutarlo, ma non proviamo in modo diretto ed interiore il suo sentimento di dolore (empatia)

• Empatia e simpatia: quando si percepiscono i sentimenti dell'altra persona (empatia) e si

sente la voglia di aiutarla.

E’ la base del discorso del “comprendere” (si può essere anche antipatici), cioè se io non ti capisco,

ti comprendo. L’empatia poi si tramuta, quando non è più un atteggiamento che noi abbiamo nei

confronti dell’altro, ma quando diventa una competenza nella relazione, si trasforma in sintonia.

Quella capacità di potere avere una modalità di comunicazione che sia comune. La ricerca della

Sintonia è qualcosa di impegnativo e di specifico, non è qualcosa che avviene spontaneamente. La

comunicazione ci aiuta molto per capire l’ambito, l’interesse, che sono significative per quella

persona.

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In una relazione di aiuto bisogna tenere presente i fattori legati alla persona e a chi svolge una

professione di aiuto.

Fattori legati alla persona.

- la “focalizzazione”, ossia il vero nocciolo del problema;

- La “Consapevolizzazione”, che può avvenire solo e unicamente se la persona si rende conto

che ha un problema e si rende conto che può risolverlo attraverso un sistema diverso che non

è quello della terapia o integrato con quello della terapia.

- la “narrazione” . la narrazione della propria storia è un momento iniziale di chiarificazione

per il paziente che trova nell’operatore sanitario, chi l’aiuta a mettere a fuoco le difficoltà

attuali e quelli emergenti, alla ricerca delle possibili soluzioni utili al superamento dei

problemi che l’assillano. In sintesi, se io devo narrare il mio problema, in qualche modo

comincio a ragionarci sul mio problema e quello stesso ragionamento che io sto operando

sul mio problema per poterlo “narrare”, è una forma di cura.

Fattori legati al consulente o a chi svolge una professione di aiuto.

5.6 Dagli assiomi della comunicazione alla conoscenza di sé e degli altri

È fondamentale per la formazione del professionista, non solo sapere comunicare con l’altro e che

tipo di effetto pragmatico ha il suo comunicare; ma anche l’effetto che essa ha col proprio dialogo

interno. Nel capitolo 3.4 abbiamo analizzato i mondi (Welt) del Dasein; essi sono le stesse realtà

che il Dasein deve tener conto nella comunicazione.

• L’UmSain = essere nel mondo della causa-effetto;

• MITsain = essere nella relazione con l’altro “Singolo”, “Individuo”;

• Eigensain = essere in relazione con me stesso.

Paul Watzlawick e il gruppo di ricerca del’Mental Research Institute hanno studiato a lungo la

comunicazione, la sua influenza sulle persone e gli effetti che ha sul comportamento, riassumendoli

nel libro sulla comunicazione: Pragmatica della comunicazione umana, da cui emerge che la

comunicazione umana ha dei principi assiomatici. Sono degli assiomi, e quindi delle

caratteristiche sempre presenti in ogni comunicazione umana. Sono davvero imprescindibili e

conoscerli è utile – se non fondamentale – per chi vuole sapere veramente come funziona la

comunicazione, e per imparare a gestirla. Schematicamente sono riproposti:

1) Il primo assioma ci insegna che non si può non comunicare. (Qualunque comportamento

comunica qualcosa).

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2) Il secondo assioma chiarisce che all’interno di ogni comunicazione vanno distinti due livelli.

Il primo è il livello del contenuto, che dice che cosa stai comunicando. Il secondo è il

livello della relazione, che dice che tipo di relazione vuoi instaurare con la persona a cui la

rivolgi.

3) Il terzo assioma spiega che il modo di interpretare una comunicazione dipende da come

viene punteggiata (o ordinata) la sequenza delle comunicazioni fatte.

Per esempio, di fronte a un uomo che si chiude in se stesso e alla moglie che lo brontola, il

primo potrebbe dire che si chiude perché la moglie lo brontola, e la seconda potrebbe

ribattere che lei lo brontola perché lui si chiude. A seconda della “punteggiatura” usata

cambia il significato dato alle comunicazioni e alla relazione.

4) Il quarto assioma differenzia due tipi di comunicazione: quella analogica e quella numerica

(o digitale).

5) Il quinto e ultimo assioma della comunicazione umana spiega come è vissuta la relazione,

in quanto tutte le interazioni tra comunicanti possono essere di due tipi: simmetriche o

complementari.

Quest’ultimo assioma si riferisce ad una classificazione della natura delle relazioni che le suddivide

in relazioni basate sull’uguaglianza oppure sulla differenza. Nel primo caso si parla di relazioni

simmetriche, in cui entrambi i partecipanti tendono a rispecchiare il comportamento dell’altro (ad

es. nel caso della diade dirigente-dirigente, o dipendente-dipendente); nel secondo si parla di

relazioni complementari, in cui il comportamento di uno dei comunicanti completa quello dell’altro

(ad es. dirigente-dipendente).

Nella relazione complementare uno dei due comunicanti assume la posizione one-up (superiore) e

l’altro quella one-down (inferiore); i diversi comportamenti dei partecipanti si richiamano e si

rinforzano a vicenda, dando vita ad una relazione di interdipendenza in cui i rispettivi ruoli one-up e

one-down sono stati accettati da entrambi (ad es. le relazioni madre-figlio, medico-paziente,

istruttore-allievo, insegnante-studente). Va da sé, comunque, che “i modelli di relazione simmetrica

e complementare si possono stabilizzare a vicenda” e che “i cambiamenti da un modello all’altro

sono importanti meccanismi omeostatici”. É fondamentale avere chiaro il concetto che le relazioni

simmetriche e quelle complementari non devono assolutamente essere equiparate a “buona” e

“cattiva”, né le posizioni one-up e one-down vanno accostate ad epiteti quali “forte” e “debole”; si

tratta solo di una suddivisione che ci permette di classificare ogni interazione comunicativa in uno

dei due gruppi.

Nella Pragmatica della Comunicazione, ad orientamento Esistenziale è estremamente opportuno

fare una distinzione , di una relazione di “ruolo”, in cui, in un contesto X, si prevede un ruolo per i

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comunicanti e una relazione di “essenza”, in cui al di là dei ruoli del contesto, ognuno di noi ha

una sua “individualità essenziale”. Per spiegare meglio i ruoli e l’essenza e il contesto

antropologico esistenziale, che può determinare una relazione di ruolo congrua e comunicazione

incongrua, si porta l’esempio di un professore in un aula.

Una relazione di ruolo congrua è quando il docente rispetto al discente ha competenza per poter

essere in UP cioè a poter comunicare qualcosa che l’altro non sa ed aiutarlo ad apprendere. Ma se

per ipotesi, comunicazione incongrua, il docente si considerasse one-down , cioè meno competente,

è chiaro che l’effetto Pragmatico sarebbe distorto; come se l’allenatore fosse considerato inferiore

dal punto di vista della conoscenza della pratica sportiva, da parte dell’allenato, cioè come se il

calciatore volesse insegnare all’allenatore cosa fare.

Quindi non è “valido” o “non valido” il posto di relazione UP o Down, nella complementarietà, è la

congruenza col contesto. L’aula in cui sta facendo lezione, rappresenta il suo ruolo. Egli sta

comunicando in un contesto in cui deve avere una competenza (aula) nel presentare argomenti che

riguardano la comunicazione, tale che lo mettono in one-up , cioè in grado di dare questo tipo di

offerta e chi ascolta è venuto per ascoltare qualcosa che ancora non conosce allo stesso livello.

Quindi nel ruolo, in questo contesto in cui sta comunicando, la relazione è congrua rispetto

all’effetto pragmatico; è un ruolo valido, adeguato; il professore si considera in one-up, come

ruolo di comunicatore che sa di comunicazione e sia abilitato a farlo; e il discente si pone in one-

down, non perché inferiore a lui, ma in questo ruolo può apprendere qualcosa. Questa è “relazione

di ruolo”. Nel contesto dell’antropologia esistenziale è fondamentale che per quello che riguarda la

relazione di “essenza”, sia il comunicatore (consulente, infermiere, ecc.), sia l’utente (il ricevente,

cliente o paziente) abbiano una corretta percezione di parità, quindi complementarietà; cioè è

opportuno che il ricevente abbia la sensazione congrua che anche se il ruolo è vissuto come ruolo in

UP per il docente e in Down per il discente, come “essenza” viene considerato e si considera come

paritario, non come UP o Down. Questo è fondamentale nella rivelazione di sé, di coloro che

partecipano alla comunicazione, in questo tipo di contesto. Sempre come Individuo: Unico e

Irripetibile, rispetto all’altra. In altri termini, anche la persona più disagiata, la persona più piccola,

più ignorante, dal punto di vista dell’ “essenza”, non viene vissuta come UP o Down ma come

legittimo Singolo – Unico – Irripetibile. Questo dal punto di vista esistenziale.

Una distinzione è utile fare sul concetto di comunicazione “Coscienziale” e “Subliminale”.

Ossia la comunicazione può avere una caratteristica per chi la emette e per chi la riceve che non

necessariamente passa attraverso la consapevolezza. Ossia molti messaggi vengono inviati e molti

messaggi vengono recepiti ed assimilati ed elaborati in maniera non direttamente consapevole. La

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stragrande maggioranza dei messaggi vengono inviati e vengono recepiti ed elaborati a livello di

mente inconscia, cioè inconsapevolmente. Allora mettiamoci dalla parte dell’emittente: io sto

mettendo una sequenza di segnali comunicativi, quindi messaggi con la cosciente e precisa

intenzione di emetterli. Quindi avere intenzione di emettere messaggi, quindi scelgo

intenzionalmente: le parole, il tono, il ritmo, i gesti della mano che accompagnano le parole, gli

occhi semichiusi. Hanno tutte le caratteristiche di essere intenzionali.

Mentre sto parlando, sicuramente, ci sono altri elementi fuori dalla mia intenzione e dalla mia

consapevolezza, per es.: per es. il messaggio della fronte corrugata, in maniera involontaria di cui

prima non mi rendevo conto, ma adesso, si. O se stavo sorridendo o meno, o strizzato l’occhio o la

mano destra poteva stare in altra posizione rispetto al corpo. Quindi anche nella comunicazione

“intenzionale” c’erano tanti elementi “preterintenzionali” cioè al di là della mia intenzione. Molti

messaggi preterintenzionali passano e il o i riceventi li elabora anche se inconsciamente,

subliminalmente. E’ importante per la professione di aiuto, per la Consulenza, per il Counseling,

per la terapia che si rifanno all’Esistenziale, l’aspetto sub intenzionale della comunicazione, questo

è un aspetto molto importante, per chi vuole affinare la propria capacità di comunicazione; affinare

significa fare esercizi che permettano di essere sempre più efficace.

Che si intende per Subintenzionale? Un messaggio si può definire sub-intenzionale quando lo stesso

messaggio un tempo è stato intenzionale e poi nel tempo, dopo averlo praticato più volte, nel

momento dell’emissione non è più intenzionale, è preterintenzionale. Quindi è stato intenzionale,

poi è diventato un habitus, una caratteristica della persona, per cui quando poi comunica, questa

persona, diremmo spontaneamente ma con habitus acquisito, manda una serie di messaggi che non

sono più intenzionali ma sono frutto di una intenzionalità ormai diventata habitus. Esempio: educare

il tono della voce porta a non badare più intenzionalmente o consapevolmente al tono della voce,

in futuro. Se da ragazzo uno parlava col naso, ma poi con l’esercizio ha modificato; oppure parlava

velocemente ma poi si è esercitato a parlare più lentamente, facendo pause più appropriate, con un

ritmo più appropriato, ha imposto, educato un habitus che fa vivere un linguaggio

preterintenzionale, ma che è frutto di una intenzionalità che è diventata habitus. Questo è molto

importante nelle professioni di aiuto che si fondono sulla comunicazione, perché per es. un lavoro

sull’aspetto fonetico (Fonologia) può essere utile nella comunicazione poiché l’effetto pragmatico,

dal punto di vista vocale e fonetico può avere un impatto molto differente sulla persona che ascolta

e giacché il nostro tipo di relazione si fonda anche sulla comunicazione ed è la comunicazione che

può avere un effetto di aiuto, aiuta a comprendere, a chiarirsi, a superare un disagio, a sapere

scegliere meglio, ecc., è importantissimo. Nelle professioni di aiuto che si fondono sulla

comunicazione e che quindi hanno una particolare predisposizione a considerare importante la

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Pragmatica, cioè l’effetto che la comunicazione ha su coloro che partecipano, l’aspetto di una

acquisizione di una caratteristica comunicativa sub intenzionale è molto importante, perché ha a che

fare con la capacità di perfezionarsi nella comunicazione; cioè quello che non mi è caratteristico,

quello che mi è difettuale, può essere ricondizionato da una formazione, da un esercizio che mi

permette di acquisire una capacità sub intenzionale, di essere efficace. Per fare questo devo prima

esercitarmi intenzionalmente; cioè l’utilizzo di fare domande appropriate per capire meglio la

persona: “aiutami a capire, perché chiarendo tu a me, in qualche modo chiarisci anche a te”, su

questo si fonda la logoanalisi. E’ fatto di un esercizio intenzionale che poi permette in maniera sub

intenzionale di agire spontaneamente, di cogliere subito qualcosa. Ecco perché questo è un aspetto

importante della Pragmatica della Comunicazione.

Dovremmo dire che un comunicatore efficace in questo ambito si cura particolarmente di

un’acquisizione, di una capacità sub intenzionale, di essere nel rapporto comunicativo, validamente

efficace. La capacità subintenzionale di cogliere in maniera subliminale, di rendersi conto

direttamente che c’è un ambito cancellato, un ambito generalizzato; senza pensarci. All’inizio ci

vuole intenzionalità, ci devo lavorare su, devo capirlo, devo esercitarmi; ad un certo punto avviene

spontaneamente. Ma quella spontaneità che chiamiamo subintenzionalità, è frutto di una

intenzionalità esercitata al punto tale che diventa un habitus.

La Logoanalisi Coscienziale tende a facilitare l’emersione di ciò che è l’aspetto subliminale

(Struttura Profonda), che è sottesa alla Struttura Superficiale della comunicazione verbale. Nella

comunicazione il Logos si riferisce a tutto ciò che è “parola”. Nel linguaggio verbale la parola dà

una forma, definisce una cosa. Coscienziale sta ad indicare l’aiutare la chiarificazione dell’aspetto

verbale della comunicazione affinché da subliminale passa a livelli di consapevolezza, per poter

intervenire meglio.

Abbiamo accennato a due strutture della comunicazione: Superficiale e Profonda. Proviamo a

spiegarne l’origine e il significato.

Nella grammatica Generativo-Trasformazionale si divide una: Struttura Profonda e una Struttura

Superficiale.

La Struttura Profonda fa capo all’esperienza, è la mappa del mondo, cioè la rappresentazione che

abbiamo internamente, che è Analogica ed utilizza come linguaggio le modalità “sensoriali”. Tutta

la nostra esperienza avviene attraverso i Sensi.

Quindi sono sia la “porta” dalla quale facciamo entrare le esperienze esterne che il “codice”

attraverso il quale cataloghiamo le nostre percezioni internamente.

Volgarmente..... quando pensiamo lo facciamo attraverso una accozzaglia di: Immagini (Modalità

visiva... quello che Vedo);

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Suoni (Modalità uditiva.... quello che Ascolto);

Sensazioni (Modalità Cinestesico... quello che Provo fisicamente; Olfattivo; Gustativo).

Prima di analizzare le Strutture del linguaggio penso sia opportuno chiarire alcune particolarità sui

comportamenti linguistici con una piccola parentesi.

Che cosa significa essere Visivo, Auditivo o Cinestesico e soprattutto quali sono quegli elementi e

quelle caratteristiche che differenziano una modalità dall’altra? Si tenta di spiegare le differenze tra

queste modalità con degli esempi. Ci sarà capitato di trovarci di fronte ad una persona che parla in

modo molto rapido come se stesse rincorrendo le parole che si susseguono l’un l’altra, con estrema

velocità, quasi come se dovessero rappresentare una rapidissima sequenza di immagini. E’ la tipica

modalità del “visivo”, un individuo che ragiona per immagini. Il visivo elabora i propri pensieri e le

proprie riflessioni come se fossero veloci sezioni di un filmato. Il visivo si muove in maniera

dinamica, parla molto rapidamente e utilizza predicati che richiamano proprio l’atto del vedere

come: punto di vista, guardare, visionare e così via. Diversamente una persona prevalentemente

“auditiva” comunicherà in maniera più armoniosa, adotterà una gestualità piacevole e armonica. Il

temperamento sarà più mite del visivo. Utilizzerà predicati come: ascoltare, suonare bene, sentire.

Infine il cinestesico. Un soggetto “cinestesico” si affida totalmente alle sensazioni. Utilizza respiri

lunghi e profondi, fa numerose pause. La gestualità è lenta, quasi rilassata. A volte può apparire

introverso, freddo o insensibile quando è focalizzato su se stesso, in realtà è in grado di essere

estremamente sensibile e percettivo. Alcuni dei predicati maggiormente usati possono essere:

provare, afferrare, toccare con mano. In ambito professionale, familiare e personale, riuscire ad

individuare il canale preferenziale del nostro interlocutore significa possedere uno strumento in più

per poter interagire in maniera più profonda con la sua mappa del mondo.

La Struttura Superficiale è ciò che emerge nella comunicazione, che prende forma in un certo

modo: verbo, parola.

Per comunicare utilizziamo il Linguaggio, che è un codice lineare e non analogico.

Quindi traduciamo le immagini, i suoni, le sensazioni in parole.

Pensa alla tua ultima vacanza. Anche a un solo attimo, un singolo fotogramma.

Di quante parole avresti bisogno per descrivere con precisione e con abbondanza di dettagli la tua

esperienza? Se riuscissi a mettere tutto in una frase lineare, questa frase sarebbe la Struttura

Profonda, ovvero la forma linguistica che più di tutte si avvicina alla esperienza ed alla tua mappa.

Il linguaggio che uso effettivamente per comunicare è invece detto “struttura superficiale”, ed è una

riduzione della struttura profonda.

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Nel passaggio dalla Struttura Profonda (S.P.) ossia l’esperienza, il cervello elabora tale esperienza

e genera, da cui deriva il linguaggio “generativo – trasformazionale”, passando alla Struttura

Superficiale (S.S.) dove ci sono delle trasformazioni. I meccanismi che la mente elabora: esperienza

- S.P. - S.S. - espressione con il linguaggio, vedono tre processi presenti in tutti i “modellamenti”.

Il metamodello, che si basa sugli studi effettuati da Bandler e Grinder sulle strutture linguistiche

aiuta a riacquistare il significato inconscio e l'esperienza del mondo di qualcun altro, cioè la S.P.

dell'esperienza. Uno dei principi generali è che il metamodello, prima che uno strumento

linguistico, sia un modello logico che ci consente di capire, attraverso il linguaggio, “cosa deve

essere vero” della mappa di una persona per produrre quel tipo di linguaggio.

Sulla S.P. agiscono: Cancellazioni; Generalizzazioni; Deformazioni. (I primi due affermati da

Chomsky)58, mentre (il termine Deformazione da John Grinder, con Richard Bandler).

In un dialogo, l’operatore dell’aiuto, può mettere in essere alcune modalità di intervento

comunicativo, affinché si possa recuperare il contenuto semantico della frase. Queste modalità

sono:

1) Accettazione e Non Intervento.

La prima opzione comporta che si accetti quello che gli viene detto e non si intervenga né per

“interpretare”, né per “chiarire” , né per “colmare” gli ambiti di cancellazione presenti nel modello

presentato attraverso la S.S. della comunicazione. Fare in modo che la persona parli; si utilizza la

tecnica della “Narrazione” che è quel processo, per cui una persona trasforma in parole le emozioni

che avverte o i fatti che gli sono capitati. Si lascia parlare e questa comunicazione sia per il cliente,

efficace; perché egli parlando con l’operatore, piano piano, mette un po’ di ordine in quella che è la

sua preoccupazione.

Tutto ciò che non è parola lui la trasforma in parola. “Narrare” non è un processo semplice, tipo

una traduzione; è un processo complesso perché bisogna dare un senso a quello che si è avvertito,

attraverso le parole. Esempio è il descrivere un dolore: gravativo, urente, trafittivo, ecc. o descrivere

il disagio di un ritardo ad un appuntamento, che non è solo una semplice descrizione temporale,

bensì una moltitudini di sensazioni emotive provate e vissute in quel lasso di tempo. Quindi bisogna

saper ascoltare che significa saper porsi in una condizione di accettazione di un intervento in modo

tale che l’altro possa facilmente narrare e quindi chiarire la sua posizione.

2) Intuizione e Interpretazione.

Questa modalità di intervento è tipica della maggior parte delle psicoterapie, la cosiddetta

Psicodinamica. Il suo fondamento è: Intuire e Interpretare. L’Intuizione richiede grande

competenza, bisogna saperlo fare e conoscere bene i modelli di riferimento.

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Il professionista che esercita la professione di aiuto può rilevare un ambito di “cancellazione”

all’interno della S.S. della comunicazione e potrebbe credere di “intuire” quali siano gli elementi

cancellati. In base a questa sua certezza può essere indotto a offrire a chi ascolta, la propria

“interpretazione”.

Arrogarsi il diritto di interpretare significa anche accettare le conseguenze che sono: la visione da

parte del cliente che può interpretarla come un’ingerenza, una invasione da parte nostra e creare un

blocco o “campo negativo” nella comunicazione. Comunque è sempre una interpretazione nostra

che impedisce l’altro ad intuire per atti suoi, che arrivi per fatti suoi alla conclusione. Se no diventa

un pacchetto “prendi o lasci”. Invece deve essere un procedimento in cui l’altro si deve “chiarire”.

Proviamo con un esempio di un probabile intervento intuitivo e di interpretazione: la persona

esprime un disagio:..……; in base a quello che dici sul disagio a cambiare lavoro io intuisco che

quando eri bambino avevi paura di assumere responsabilità perché tua madre non ti lasciava libero

di prendere iniziative, troppo apprensiva, ecc.

3) Stimolare al ricondizionamento autonomo.

Tale opzione comporta che si inviti esplicitamente ad operare una ricerca, tramite delle domande

sulle specificità su quello che la persona esprime, relative a ciò che risulta “cancellato” nella

elaborazione della sua S. S.. Il risultato è ottenere un ricondizionamento, a modificare il suo

atteggiamento nei confronti di quello che sta raccontando. La persona si “ricondiziona” in modo

autonomo, l’operatore stimola solo con delle domande; dà l’input. (Prof. Buffardi; “Il divano è

meglio di Freud”, Cap. 9: Possibili fattori tecnici aspecifici comuni alle principali psicoterapie; 9.1

: La comunicazione).

Abbiamo detto che la Struttura Superficiale nasce dalla Struttura Profonda attraverso dei processi

(Cancellazioni; Generalizzazioni; Deformazioni) e che la persona potrebbe avere ben chiara la parte

che è stata cancellata o generalizzata o deformata, ma può anche non averlo chiaro; es. “Dott. io ho

paura”, (frase con chiari elementi di cancellazione, generalizzazione, deformazione).

Come posso capire io che nella S. S. ci sono aspetti non chiari e che possono essere meglio

specificati, meglio chiariti, più disambiguati, cioè che non abbiano ambiguità?

Lo posso fare perché con la Logoanalisi Coscienziale riconosco alcuni aspetti della comunicazione

superficiale che sono i risultati di processi di modificazione nella S.P..

Il sistema della logoanalisi coscienziale serve a questo; partendo dal riconoscimento di parti del

messaggio comunicativo del consultante/cliente o nel nostro caso, paziente, la logoanalisi

coscienziale stimola il consultante ad una chiarificazione interna. Il messaggio dal Consulente al

cliente deve essere strutturato in questo modo: “siccome alcuni aspetti non sono chiari, potresti per

favore chiarirmelo in modo che chiarendolo a me può anche darsi che tu lo chiarisca meglio a te?”.

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Questo è il passaggio fondamentale. Il lavoro logodinamico è particolarmente utile sia per la

cognitivizzazione che per la focalizzazione del problema.

Il compito è imparare questi aspetti della comunicazione superficiale che possono far capire che

sulla comunicazione profonda si sono fatti delle modifiche e forse è il caso che si chieda maggiore

chiarezza alla persona su questo aspetto per vedere se a lui è abbastanza chiaro.

le Cancellazioni più comuni sono:

• Cancellazioni Semplici;

• Gli Aggettivi Modificativi;

• I Superlativi relativi senza indici di riferimento;

• Gli Avverbi in mente

• Gli Operatori Modali di Necessità e di Possibilità;

Cancellazioni Semplici. Quando cancelliamo le informazioni, tralasciamo delle cose e quindi

prestiamo selettivamente attenzione ad altre dimensioni delle nostre esperienze. Questo ci porta ad

escludere e filtrare degli elementi. Questo processo agisce in nostro favore nei limiti in cui ci

preserva dal rischio di essere sopraffatti e sovraccarichi di stimoli. Ma opera a nostro svantaggio

quando cancelliamo informazioni significative, importanti per la nostra capacità di gestire

efficacemente diverse situazioni. In senso positivo, creiamo le nostre mappe attraverso la

cancellazione per ridurre il mondo a proporzioni più maneggevoli. Con la cancellazione creiamo

una versione della realtà ridotta e più gestibile. Non tutte le cancellazioni creano problemi.

Per esempio, considerate l'affermazione "La gente mi spaventa". La parola 'gente' non si riferisce a

nessuno in particolare. Ci lascia senza le informazioni fondamentali che riguardano il “chi”

specificamente.

L'espressione superficiale ha tralasciato l'indice del referente. Il termine di classe sovra-

generalizzato, 'gente', delinea una mappa troppo ampia per l'ascoltatore. Abbiamo bisogno di

identificarlo in modo più specifico. E quasi tutti,

intuitivamente, sanno chiedere: "Chi, specificamente, ti spaventa?"

Ponendo questa domanda, cerchiamo di portare chiarezza nella nostra mappa, così come nel

modello del mondo del nostro interlocutore. Ri-connettendo questa generalizzazione alle esperienze

originarie, la persona realizza un'espressione più completa, magari "Mio padre mi spaventa".

Anche se questa specificazione ci fornisce qualche dettaglio in più, l'affermazione continua ad

essere piuttosto ambigua. Ancora non sappiamo cosa rilevare sul nostro film mentale riguardo al

significato di 'spaventa'.

Come ti spaventa? Quando? In che modo? Da quanto tempo?

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Riguardo alle cancellazioni, quasi tutti hanno un senso naturale ed intuitivo in merito a come

rispondere. Non facciamo altro che investigare i dettagli che sono stati tralasciati.

Aggettivi Modificativi. Che vuol dire Aggettivi Modificativi? L’aggettivo che con la sua azione di

aggettivazione, modifica quel soggetto o quell’oggetto, modificando il senso di quello che mi sta

dicendo non indicando un riferimento; sono essenzialmente delle cancellazioni. Alcuni esempi

possono chiarire:

a) Irritante. Per chi è irritante? La domanda da farsi è “Scusa puoi chiarirmi chi è che sta

irritando? O in che modo sta irritando?

b) Stupido. per chi è stupido? E’per tutti e due?; un esempio: “Vi sto portando esempi stupidi per

Voi ma non per me. Ipotesi: a) io non sono capace a fare esempi, scusatemi ma vi porto questi

esempi stupidi; b) non vi reputo in grado di capire esempi più intelligenti.

c)Triste. Es. “mi hanno sorpreso quelle parole tristi” (parole che sono tristi, per chi?). Non esistono

delle parole tristi in assoluto, sono tristi per qualcosa o per qualcuno, per qualche motivo ma non

essere tristi per un'altra persona. Morte è una parola triste? Ma se noi diciamo “Morte delle

ideologie” per chi non è ideologo, non è triste. O se diciamo: questa cellula terroristica per fortuna è

morta. Le domande da fare sono: queste parole sono tristi, per chi?, per che cosa? Per quale

ragione?. Ecc.

Superlativi Relativi e l'indice referenziale non specificato. “Michele è il più simpatico”. Domanda:

di chi?; rispetto a chi? “ La gente afferma che questo è il cellulare migliore!”. La gente, chi? quale?

La “gente” è un nome privo di indice referenziale, è generico e non descrive nulla. La parola

“migliore” rientra nelle cancellazioni con superlativi. Quindi, in una sola frase abbiamo creato

un'affermazione inutile e fuorviante. Le parole prive di indice referenziale più comuni sono:

tutti, loro (tutti chi?; Loro chi?), questo, quello (rispetto a chi o cosa?), l'uomo (quale uomo?), gli

esperti (quali esperti? Chi in particolare?), ogni, mai, sempre.

Quando si usa la parola “uomo”(nome collettivo) o espressioni tipo “gli esperti dicono”, si sta

creando una generalizzazione che riesce a pilotare e distorcere la comunicazione. “Gli esperti

affermano che per la prossima settimana sono previste precipitazioni intense!”. Chi lo afferma? La

Protezione Civile oppure il canale Tv? Comprendere il linguaggio adottato aiuta anche a ragionare

meglio su tutto ciò che ci viene propinato ogni giorno dai mass media.

Ci vuole sempre l’indice di riferimento.

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Avverbi in “mente”. Tra i processi non specificati ce ne sono alcuni che vengono nascosti

dall'utilizzo di un avverbio che in genere finisce in -mente. Questo significa che l'avverbio con il

suffisso -mente cancella il processo e, contemporaneamente, cristallizza il risultato applicando una

parola di 'stato' (una parola che indica uno stato di consapevolezza mente-corpo) ad un verbo.

“Chiaramente”, “Ovviamente”, ecc. Questa classe di cancellazioni atipiche contiene nella struttura

superficiale il suffisso – mente. Per esempio. “Decisamente la mia ragazza non mi vuole”.

Il processo per individuare questa forma di cancellazione è il seguente:

2. Eliminare il suffisso – mente dall’avverbio e collocare il radicale (“ovvio”, “strano”,

“visibile” … ) davanti alla frase riformulata anteponendo il verbo “è”;

3. Determinare se la nuova struttura superficiale abbia lo stesso significato di quella

originale;

4. Se si, siamo di fronte a una cancellazione; altrimenti si tratta di una struttura ben

formata;

5. A quel punto, chiedere come la persona possa affermare che è così “ovvio”, “certo”,

“sicuro” eccetera.

Si riportano alcuni esempi.

A. Operatore: Come è successo che suo marito (deceduto), è caduto dalle scale? Cliente:

Chiaramente sarà inciampato!

Operatore: (riformula la struttura in “è chiaro” che sarà inciampato e comprende che si tratta

di una parafrasi della frase originale e che quindi si trova di fronte a una cancellazione):

Come fa a dirlo, era presente?

B. Moglie (il coniuge è dedito al gioco d’azzardo): Cosa ci faceva un biglietto delle corse nelle

tasche dei tuoi pantaloni?

Marito: Evidentemente qualcuno avrà voluto farmi uno scherzo.

Moglie: (riformula la struttura in: “è evidente che qualcuno avrà voluto farmi uno scherzo):

Ah sì?! Dove e quando sarebbe successo? (l’espressione dubitativa implica il sospetto che

quanto racconta il marito non sia vero).

C. Operatore 118: 118, qual è l’emergenza?

Chiamante: Mio marito è rimasto seriamente ferito;

Operatore 118: (riformula la struttura in “è serio che mio marito è rimasto ferito; la frase

così riformulata non ha senso: quindi qui non c’è cancellazione).

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Operatori Modali. Sono quelli più interessanti. Gli operatori modali indicano “come” è graduata

linguisticamente la “possibilità” e la “necessità”. Ciò è un riflesso di come è organizzata la mente di

una persona. “non posso dirgli la verità” (chi te lo impedisce?), (come sarebbe se glie la dicessi?).

Si riportano una serie di frasi-esempi.

A) “Devo (Operatore Modale di Necessità) punire mio figlio per quello che ha fatto”. Bisogna

chiedere: che cosa lo obbliga? Devo? Per forza?, chi ti obbliga? Quindi chiedere Altrimenti? Che

accade?

B) Bisogna. Stesso discorso …. Altrimenti? Che accade?

C) Non devo ……… Altrimenti? Che accade?

D) Non è possibile comprendere mio figlio (Moderatore di possibilità). Significa: io ritengo per me

non sia possibile comprendere mio figlio. Che cosa specificatamente ti fa pensare che non sia

possibile? Che cosa specificatamente ti fa pensare che tu non sia in grado di..? per cui la persona

deve chiarirsi. In sintesi la frase: “Non è possibile comprendere mio figlio” è generico.

E) Non sono in grado di esprimermi. Non sono in grado di prendere questa decisione. che cosa

specificatamente ti pone nella condizione di non essere in grado di esprimerti?; cos’è che ti

impedisce di prendere questa decisione?

F) Nessuno è in grado di capirmi; ecc

H) Non posso perdonarlo per ciò che mi ha fatto. Come mai non puoi perdonarlo? Che cosa te lo

impedisce?

Sono tutti esempi di Operatori Modali che indicano stati d’animo, convinzioni, che esistono nella

Struttura Profonda dell’interlocutore, ma non sono espresse nella Struttura Superficiale. Chi afferma

“Nessuno è in grado di capirmi” indica una realtà conosciuta (forse) solo a egli stesso ma non a chi

ascolta.

Le Generalizzazioni.

A) Argomenti e Predicati nominali. I termini sono generici.

Esempi: le donne non sono degne di fiducia; nessuno mi prende in considerazione; in certi momenti

io penso a Giorgio; mio figlio la pensa in modo strano. Sono tutti esempi di generalizzazione.

B) Quantificatori Universali. Quantificatori: Tutto; Niente; Ognuno; Nessuno; Ciascuno; Qualsiasi;

Qualcuno; Altri; Taluni; Molti; Troppo; Parecchio; ecc. Rafforzativi: Mai; Sempre; Per Niente;

Affatto; Spesso; Assolutamente; ecc. Sono termini che rimandano ad un concetto generico, che

Universalizza una situazione. Esempio: “non faccio mai niente di giusto”; la persona in questione

sta creando questa generalizzazione basandosi su 5, 6 esperienze... ma cosa succede quando crea

una convinzione di questo tipo? Si preclude la possibilità di fare meglio creandosi un limite.

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C) Spostamento degli indici referenziali. Esempio: mio marito litiga sempre con me; mia moglie

non mi sorride mai. Quesiti: perché non prendersi la responsabilità?

Le Deformazioni sono rappresentate da:

- Nominalizzazioni;

- Presupposti;

- Malformazione Semantica;

- Proposizioni Causative Implicite;

- Lettura del Pensiero;

- Sottili Implicazioni;

- Ambiguità.

La Nominalizzazione (parola astratta); è la trasformazione in nome di un predicato verbale o di un

aggettivo. Si tratta di un caso particolare di derivazione. Per quanto riguarda i verbi, la

nominalizzazione si realizza soprattutto con l’aggiunta di suffissi come -mento, -zione, -sione e -

tura

pagare ▶ pagamento

produrre ▶ produzione

comprendere ▶ comprensione

lucidare ▶ lucidatura

ma può avvenire anche in assenza di suffissi, come nei sostantivi deverbali detti derivati a suffissi

zero. I derivati a suffisso zero (detti anche a derivazione immediata); si tratta soprattutto di nomi

astratti che derivano da un verbo

abbandonare ▶ abbandono

rettificare ▶ rettifica

scorporare ▶ scorporo

bloccare ▶ blocco

bonificare ▶ bonifica

Per il passaggio da aggettivo a nome la nominalizzazione si realizza con l’aggiunta di suffissi come

-ismo o -ista

bipolare ▶ bipolarismo

reale ▶ realista.

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Le Nominalizzazioni sono una forma di deformazione perché trasformano un processo in un

sostantivo, un nome. Queste trasformazioni della lingua convertono quella che nella

rappresentazione della Struttura Profonda si presenta come una parola designante un processo – un

verbo o un predicato – in una parola che nella rappresentazione della Struttura Superficiale designa

un evento, un nome o argomento.

Dicono Bandler e Grindler, “ tutto ciò che non possiamo mettere in una carriola” è una

nominalizzazione (l’amore, i sentimenti, il divorzio, il terrore, ecc.); sono tutte parole che non sono

concrete, sono tutte parole derivanti da un verbo, appunto “che non vanno nella carriola”.

Differenziandole dalle parole che indicano qualcosa di concreto; tutto quello che possiamo

mettere in una carriola, es. mondo, casa, sedia, ossia “concrete” e che quindi vanno nella carriola.

Qual è la caratteristica? E che quando noi usiamo una parola di stato, cioè reale, in luogo di una

parola di processo, noi perdiamo tutta una serie di informazioni che sarebbero necessarie a

sostenere una parola di processo.

Facciamo un esempio perché è facile da capire: un amico afferma “la mia vita va a rotoli”, “nel mio

matrimonio ho perso la libertà!”, “in questo lavoro la tensione cresce”. In queste tre frasi ci sono le

parole come “vita, libertà e tensione” che vengono nominate come se fossero cose e invece sono

Processi in atto.

La vita è un processo in evoluzione, come lo è la conquista e la gestione della libertà, come lo è la

crescita della tensione. La nostra mente è così abituata a considerarli solo come cose che non si

accorge della loro vera natura. In questo modo nascono i preconcetti per cui il paziente crede che

nella propria vita non ci siano scappatoie possibili per risolvere i problemi.

La vita è vista come cosa finita e consolidata e non come un processo in cui poter ancora

intervenire. Il bravo professionista deve farlo notare al soggetto, mostrandogli l'esistenza delle

alternative. Ecco perché si è affermato che la nominalizzazione trasforma un Processo in un Nome.

Il professionista può riformulare l'affermazione del soggetto trasformando la nominalizzazione

un'altra volta in processo. Cioè prende il modello del soggetto, lo ri-modella e lo pone come

domanda (costruisce il Metamodello puro), permettendo al professionista di ottenere una serie di

parametri che la parola di stato non offre ma crea confusione e non chiarisce.

Si presentano alcune domande/risposta fra paziente (P) e professionista dell’aiuto: consulente,

infermiere, coach, ecc. (C):

1) P- “La mia vita con Giovanna è impossibile ormai!”

C- “Perché il tuo vivere con Giovanna sarebbe diventato impossibile?

La parola vita viene trasformata in verbo, perché così indica nuovamente il processo.

2) P- “Il mio divorzio è deprimente”

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C- “In cosa esattamente il divorziare ti porta a deprimerti?

È naturale il deprimersi, ma il professionista deve indagare sui veri motivi specifici che creano il

disagio.

3) P- “Non accetto la resistenza di Carla al mio corteggiamento!”

C-“In che modo Carla resiste al tuo corteggiare?” in questa frase ci sono ben due nominalizzazioni,

perché resistere e corteggiare sono processi in cui l'individuo ha ancora tanto spazio di manovra..

4) P- “C'è molto nervosismo in quell'ufficio che porta inquietudine!”

C- “Chi si sta innervosendo in modo da inquietare le altre persone dell'ufficio?”

Quindi ritornare alla parola di processo, laddove io utilizzo una parola di stato, che però deriva da

un processo, mi consente di avere una serie di parametri che la parola di stato non mi da, mi crea

confusione, non mi chiarisce.

La nominalizzazione è molto frequente nel linguaggio burocratico, scientifico e in generale nei

linguaggi tecnici e settoriali per il carattere impersonale e astratto che l’uso del nome al posto del

verbo conferisce alla scrittura. Si riportano due esempi.

a) Agli importi così ottenuti devono essere applicate le percentuali di scorporo dell’IVA per la

determinazione dell’imponibile (Il manuale del commercialista).

b) Una serie di membrane in ordine decrescente di grado di filtrazione, le quali permettono la

rimozione progressiva delle particelle (A. Polesello, S. Guenzi, S. Polesello, Attrezzature e kit per il

laboratorio chimico e biologico).

Malformazione Semantica. E’ un espressione, in qualche modo, in cui è estremamente poco

probabile che quel tipo di azione sia stato indotto da una persona su un’altra; ossia la

malformazione semantica è quella azione che è praticamente impossibile che sia nella facoltà della

persona che l’ha agita. Si instaura il binomio di causa/effetto che è una malformazione del

pensiero della persona che implica che un evento esterno sia la causa di un effetto interno.

E' un pattern presente sia in positivo (la Ferrari mi fa sentire un dio); che in negativo (sono triste

perché sei in ritardo). In entrambi i casi, è sempre bene chiarire questo schema di pensiero perché

toglie la responsabilità dalla persona (sia in positivo che in negativo) e quindi la rende poco stabile

emotivamente. Altro esempio è: La persona X parla a Y non rivolgendogli lo sguardo. Y interpreta

la mancanza di contatto visivo come un totale disinteresse da parte di X. Y sta male per questo

atteggiamento anche se X non è al corrente di questa inferenza ragionativa da parte di Y. Y però

crede fermamente (inconsciamente e automaticamente) che tale evento causi in lui un certo stato di

prostrazione. Y è vittima della sua stessa malformazione semantica.

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Oppure esempi di persone che si esprimono in questo modo: “mi hanno costretto a…. la

malformazione semantica è che non si può costringere, senza la propria volontà, al limite si può

convincere. Esempio: Mia madre mi ha costretto a mangiare, mi ha costretto a essere ordinata; ecc.

Causali Implicite. Le strutture superficiali implicanti un necessario rapporto di causa-effetto

(causative implicite o causali implicite) sono indice di un modello in cui è operante un processo

deformativo tale che la Persona avverte come di non avere alcuna scelta e di essere come

attanagliato in una morsa senza via d’uscita. Una possibile parola segnale nella struttura superficiale

che può essere indicativa di una situazione interna della Persona è la parola “Ma” (X “Ma” Y).

X = qualcosa che il cliente vuole / qualcosa che il cliente non vuole

Y = condizione o motivo che impedisce di ottenere X / condizione o motivo che obbliga il cliente a

fare esperienza di X

Es. “Voglio andarmene di casa, ma mio padre è malato”

“Non voglio arrabbiarmi, ma lei mi rimprovera sempre”

C’è in queste frasi una causale implicita, che porta il cliente a sentire di non avere scelta.

Di fronte alle causali implicite il consulente ha tre scelte:

¨ Accettare il rapporto causa-effetto e chiedere se le cose vadano sempre così.

Es. “Non voglio arrabbiarmi, ma lei mi rimprovera sempre”

→ “Diventa sempre furioso quando sua moglie la rimprovera?”

¨ Accettare il rapporto causa-effetto e chiedere al cliente di specificare in modo più completo questo

rapporto di causale implicita

→ “In che modo, specificamente, il fatto che sua moglie la rimproveri la fa arrabbiare?”

¨ Contestare l’esistenza di un rapporto causa-effetto, invertendo il rapporto:

→ “Allora, se sua moglie non la rimproverasse, lei non si arrabbierebbe. È così?”

¨ Rafforzare la generalizzazione:

→ “Intende dire che la malattia di suo padre necessariamente le impedisce di andarsene di casa?”

In realtà le strutture superficiali della forma “X ma Y” implicano una cancellazione. La loro forma

completa è “X e non X perché Y”.

Es. “Voglio andarmene di casa, ma mio padre è malato” in realtà è:

“Voglio andarmene di casa e non posso andare / non vado via di casa perché mio padre è malato”

In questo modo si aiuta il cliente ad assumersi la responsabilità di decidere attivamente di fare o di

non fare ciò che, a quanto egli sosteneva inizialmente, sarebbe stato sotto il controllo di qualche

altra persona o di qualche altra cosa.

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Lettura del pensiero. Il cliente è convinto che una persona possa conoscere pensieri e sentimenti di

un’altra persona senza diretta comunicazione da parte di quest’ultima. Es. Harry è arrabbiato con

me. E’ una mia lettura. Altro esempio: Sono sicuro che il tuo regalo le è piaciuto; So che cosa lo

rende felice.

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Capitolo 6

Il Questionario

6 - QUESTIONARIO

La stesura di questa tesina è stata occasione preziosa per la redazione e la somministrazione del

seguente questionario.

Il tema trattato riguarda "l'umanizzazione della cura negli ambienti ospedalieri"; il questionario è

stato somministrato a pazienti che hanno frequentato l'istituzione ospedaliera sia in regime di

ricovero, sia in regime di visita ambulatoriale o Day Service; al fine di valutarne il grado di

soddisfacimento delle prestazioni ricevute e il livello di umanizzazione percepito.

Il questionario viene utilizzato anche dalla Asl di Imola.

Nello specifico, è strutturato in maniera molto semplice e con poche domande per permetterne una

comprensione immediata ed una facile compilazione da parte dei pazienti.

Sono presenti 23 domande che presentano come risposta un giudizio su una scala di 4 gradi (per

niente, poco, abbastanza, molto) e una, la n.24, a schema libero che chiede eventuali suggerimenti o

chiarimenti.

6.1 I risultati del questionario

A seguito della somministrazione del questionario a 108 pazienti che hanno frequentato il Presidio

Ospedaliero di Cerignola (ASL FG), nei diversi reparti presenti nella struttura, sono stati ricavati

dati significativi sul livello di umanizzazione percepito e sul grado di soddisfazione delle

prestazioni ricevute.

La raccolta dei dati è stata effettuata, in questo senso, solo a fini didattici, ma ci sono i presupposti

per ulteriori approfondimenti.

Sesso. Hanno risposto il 36% (39 maschi) e 64% (69 donne).

Titolo di studio. Scuola E. 40% (43); Scuola M 45% (49); Scuola M. S. 14% (15) L. 1% (1).

Ricoveri: 78% (84)

Visite Ambulatoriale: 22% (24).

Numero giorni Ricovero: 8-14 gg 63% (53); 15-21 gg 24% (20);3-7 gg (11).

Hanno risposto al questionario: Pazienti 86% (93); Parenti 14% (15).

La quasi totalità delle risposte sui quesiti della “gentilezza”, “disponibilità”, hanno quasi raggiunto

il 90% di “abbastanza”; qualche lieve calo (85%) per la figura dell’infermiere.

La domanda n.13 ha raccolto il 98% di risposte “per niente”.

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La domanda n.14 ha raccolto il 99% di risposte “poco”.

Dal questionario è scaturito che la non alleanza, a parità di prestazioni erogate, dà luogo alla non

completa soddisfazione dei pazienti, che non si sentono più presi in carico e neanche si sentono

curati.

Quindi:

1) L’umanizzazione della cura è percepita dall’utenza come un bisogno e un diritto.

2) L’umanizzazione della cura è imprescindibile dall’alleanza terapeutica e dalla presa in carico

(figura di riferimento).

3) La mancanza della presa in carico di conseguenza è percepita come mancanza di umanizzazione,

con i relativi risvolti negativi nel percorso di cura.

Complessivamente il questionario, ha ottenuto lo scopo che si prefiggeva, valutare il grado di

umanizzazione e comunicazione che si percepisce all’interno del sistema ospedaliero. Fa riflettere

come una istituzione importante che dovrebbe erogare servizi e prestazioni con maggiore efficienza

ed efficacia, quale deve essere la collaborazione fra professionisti e come la quasi esclusione della

persona “interessata” dalle scelte che lo interessano, garantire anche un livello di umanità, sia

invece molto carente.

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Conclusioni

Cercare di trattare in questa mia modesta tesi, anche se non in modo approfondito, data la vastità del

mondo culturale filosofico, che si dipana da oltre due millenni, e limitato dal mio primo approccio

a questo mondo, l’arricchimento concettuale di quella “umanità” che ne può solo derivare

all’infermiere nel suo rapporto con le altre persone e quindi creare una sinergia per l’umanizzazione

della cura. Un rapporto che viene regolato come si è potuto evincere sia dal Profilo Professionale e

sia dal Codice deontologico, norme eticamente, civilmente e penalmente rilevanti. Trova

giovamento nel constatare che anche altre realtà sanitarie si muovono o si stanno muovendo in

questa direzione. Voglio riportare gli estremi di una ricerca condotta nel Friuli Venezia Giulia dal

Prof. Carlo Chiurco (docente di Filosofia morale dell’Università di Verona), e promosso dal

Coordinamento Collegi IPASVI Friuli Venezia Giulia.

Progetto iniziato a Maggio 2014 e terminato a Dicembre 2014; dal titolo: “ Un approccio

filosofico al caring infermieristico” .

L’obiettivo del Progetto è (riportato dallo studio-progetto): La recente riforma sanitaria approvata

dal Friuli Venezia Giulia s’incardina su un concetto tanto importante quanto poi di difficile o

faticosa implementazione: l’umanizzazione delle cure, nell’ottica di un loro ripensamento capace di

coniugare il rispetto per il malato con una maggiore efficacia delle cure stesse. Essa ha imposto di

fatto di ripensare l’intero universo della cura, e di confrontarsi con temi quali il significato e il ruolo

della tecnica, i concetti di salute/malattia, qualità della vita, vita/morte, dando così vita alle

cosiddette medical humanities. Era dunque inevitabile che l’umanizzazione delle cure, nata come

istanza interna al mondo della medicina, attirasse l’attenzione degli studi umanistici,

tradizionalmente vicini a questi campi di riflessione, facendo loro riscoprire una propria tradizione

di riflessione in questo senso. Tale contaminazione a carattere inter-disciplinare ha ispirato la

presente ricerca, nel tentativo di far dialogare tra loro le due diverse aree disciplinari, quella

filosofica e quella del nursing, privilegiando però l’approccio filosofico e tralasciando quello

infermieristico. La ragione di ciò sta nella continuità di fondo tra i due ambiti pur nella loro

differenza di metodo e di merito: infatti, se è vero che l’idea della cura sta al cuore dell’idea

dell’umano elaborata dalla grande tradizione umanistica occidentale, allora, dal punto di vista

concettuale, la professione infermieristica può dirsi ben più antica dei suoi 150 anni “ufficiali”. La

ricerca è ispirata dalla riflessione filosofica sul ruolo dell’infermiere a partire dalla centralità del

piano relazionale e dal ruolo assolutamente preponderante assunto dalle malattie croniche nel

contesto dei Paesi OCSE. Questo fa sì che il consueto approccio assistenziale, di tipo tecnico e

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protocollare, risulta insufficiente, in quanto sin dal principio la guarigione – e dunque l’efficacia

delle pure tecniche terapeutiche – è esclusa dal novero delle possibilità.

Esiti/Outcome, (riportato dallo studio/progetto): La ricerca ha evidenziato quattro aspetti

fondamentali:

1) Importanza di operare nel senso di un training continuativo sul caring: i partecipanti hanno

convenuto su come il caring costituisca l’essenza stessa dell’infermieristica. Tra le proposte emerse,

spiccano: a) organizzare in ogni unità operativa focus group mensili e/o trimestrali in cui gli

infermieri possano esprimersi circa i problemi incontrati nell’attuare il caring. Inoltre gli infermieri

non riescono ad avere adeguati momenti di confronto; b) necessità di sensibilizzazione e di costante

re-training degli infermieri sul caring. Un aspetto che ha ricevuto il massimo consenso è stato

l’affermazione, condotta sulla base dell’etica del riconoscimento, per cui chi deve prendersi cura

degli altri deve anzitutto prendersi cura di sé; è stato anche sottolineato come fosse la prima volta

che questo aspetto venisse messo in luce durante un corso.

2) Una criticità emersa in modo quasi unanime riguarda la necessità di migliorare la

formazione universitaria: l’attuale percorso di studi, puntando quasi esclusivamente su una

preparazione tecnico-professionale, non risolve il problema dell’impreparazione umana con cui i

laureati si affacciano alla professione, né opera una selezione che tenga conto anche degli aspetti

motivazionali. L’altro aspetto da migliorare riguarda l’insegnamento dell’etica, da aggiornare e se

possibile finalizzare alle esigenze della professione. Una proposta provocatoria, che trova peraltro

appoggio anche nella letteratura critica, riguarda l’utilità di un ricovero durante il tirocinio, onde far

esperire in prima persona la condizione dell’assistito.

3) Per una professione che percepisce la propria fisionomia come qualcosa che ancora non è

stabilizzato, la richiesta di modificare la struttura organizzativa per far sì che diventi finalmente la

cornice adeguata allo sviluppo e all’applicazione del caring.

4) Esiste infine un altro raccordo che presenta enormi margini di miglioramento, vale a dire il

rapporto coi medici di base. Chiaramente, è proprio questa figura, attualmente il vero “buco nero”

della sanità, a dover essere radicalmente ripensata e soprattutto valorizzata: ma in un’ottica di

sviluppo e diffusione del caring (specie del Care Giver e specialmente nelle situazioni di cronicità),

la proposta, emersa più volte negli incontri, di riunioni mensili coi medici di base e di un migliore

collegamento di questi ultimi coi medici ospedalieri costituisce un pilastro imprescindibile per

fornire cure davvero “umanizzate” pur nell’ottica della sostenibilità del sistema.

Per illustrare meglio la specificità di questo studio-ricerca, penso sia utile precisare il concetto di

caring e il suo rapporto con il nursing, ossia l’assistenza infermieristica.

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Il Caring infermieristico è un concetto di difficile definizione. È una pratica che si realizza

attraverso azioni competenti e disponibilità ad occuparsi intenzionalmente e preoccuparsi della

persona assistita (Corbin, 2008).

Il dibattito nella letteratura infermieristica evidenzia la multidimensionalità del caring in quattro

approcci teorici:

- il caring come “valore morale”, tensione etica che precede e connota l’azione di cura

(Watson,2008)

- il caring come “tratto umano - attitudine soggettiva”, si manifesta attraverso modi di essere

del professionista (Morse,1991)

- il caring come “azione pratica” , coincide con l’assistenza effettuata dall’infermiere

quotidianamente (Maben,2007)

- il caring come “relazione interpersonale “ tra l’infermiere e il paziente (Finfgeld-

Connett,2008)

Caring e Nursing: quale posto occupa il caring nel nursing? Alcuni studiosi hanno dichiarato:

- il Caring è costitutivo del Nursing (Maben, 2008, Flately e Bridges, 2008, Corbin , 2008,

Rolfe, 2008)

- Il Caring è un valore aggiunto all’assistenza standard: è possibile assistere anche senza

caring e quando questo avviene il nursing “è solo lavoro“ (Finfgeld-Connett, 2008,

Henderson, 2007 Maben, 2008;).

Definizioni che hanno origine dalla constatazione che l’assistenza o Nursing è un sistema di:

Azioni fare per... fare con...

fare non previsto..

Pensieri

pre-occuparsi... aver premura... osservare... decidere... riflettere...

Sentimenti empatia... ricettività

responsività...

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È bene sempre ricordare che dobbiamo dare risposte non alla malattia ma al paziente che abbiamo

davanti.

Ho riportato alcuni concetti che sono stati caratterizzanti il pensiero “Esistenzialista”.

Molto mi hanno colpito, come è stato coltivato e diffuso nel pensiero, da Epicuro in poi, la felicità,

il dolore e la visione dell’uomo nel suo essere.

Saper porgersi, confrontarsi, interagire con gli altri, con l’altro e soprattutto con chi è costretto da

un ricovero o da un semplice soggiorno di un giorno, in un ospedale, per motivi di salute, o con

chiunque incontri; non può non trovare sostegno, forza, prospettiva adeguata, nel conoscere il

pensiero che da più di 2500 anni, indaga l’essere umano, l’uomo. La filosofia si evolve attraverso

tantissime persone e cosa ancora più interessante, attraverso tantissimi libri. Questo filo conduttore

si è mantenuto nella varietà, intatto in tutti questi secoli; questo è un aspetto che merita di essere

considerato e che fa della filosofia uno dei prodotti culturali più rilevanti di quello che

approssimativamente chiamiamo: la cultura occidentale. La filosofia ci consente di avere più

prospettive di riflessione, di pensiero sull’esterno, che ci permette di organizzare il rapporto con

l’altro, consentendoci di avere la capacità di comprendere l’altro e non di stigmatizzare il

comportamento dell’altro secondo schemi prefissati (epoché) oltre ad offrire quella discreta cultura

generale che permette di interagire con tutti.

Ultimo tema sfiorato, è stata la comunicazione con l’uso dello strumento della logoanalisi

coscienziale, con riferimento al modello esistenziale. E’ stata una scoperta per me, Noam Chomski,

John Grinder, Richard Bandler; la loro grammatica generativa, le strutture della comunicazione:

Profonda e Superficiale e le molteplici forme di generalizzazione, che possono deformare il

significato più profondo dell’essere umano e del suo vissuto, a volte con il restringimento delle

proprie “mappe interne”, cioè quella rappresentazione delle proprie possibilità di strategie di

soluzioni del problema. E’ necessario allora far sì che queste mappe siano ampliate, facendo in

modo che la persona ristrutturi in modo generale, consapevolmente, la propria volontà.

Molto c’è ancora da studiare, apprendere, approfondire, ma faccio mio il detto: “sapere di non

sapere è già un sapere”; è già molto per me.

Lo studio, se pur con tutti i limiti presenti, le lacune nella mia cultura filosofica, delle varie teorie

filosofiche e dei diversi filosofi che la frequenza al Master, mi ha permesso di incontrare e di

conoscerli; mi hanno arricchito e soprattutto mi hanno aperto un mondo nuovo sulla persona umana.

Molteplici angolature a cui guardare, molteplici modi di porsi nei confronti di chi si incontra e

soprattutto nei confronti di chi, non per sua scelta, frequenta il luogo in cui io lavoro e per i quali,

ho percorso questo anno di studi.

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Voglio rimarcare la felice soddisfazione nel proposito degli organi infermieristici (IPASVI) di porre

l’accento nel nuovo codice deontologico al centro della riflessione etico professionale la persona,

che è la vera e propria novità di questo codice deontologico. In questo senso, l’apporto della

bioetica è stato importante, soprattutto per quanto concerne lo spazio dato alla riflessione

antropologica (artt. 3 - 4 - 16).

Alla luce di questo, penso che l’infermiere debba ripensare al suo piano di studi, cercando di

arricchirlo con la conoscenza della filosofia, che sa essere non solo teoretica ma anche pratica

filosofica.

Uno sviluppo culturale che può solo vedere l’arricchimento, umano in primis e di formazione, di

quella figura indispensabile nei luoghi di cura, quale è l’Infermiere.

Se è vero che l’uomo non può non comunicare;

“Ogni parola ha delle conseguenze. Ogni silenzio anche …” Jean Paul Sartre.

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Note

1. Mantra, è un termine sanscrito che vuol dire meditare, riflettere sul divenire e sulla cessazione del divenire. E inoltre

significa anche mettere completamente da parte qualsiasi attività egoistica. È questo il reale significato di mantra:

considera, esamina fino in fondo il fatto del divenire, cioè tutto quello che ininterrottamente ti accade, e metti

definitivamente da parte qualsiasi attività che si basi sull’egoismo.

2. Habitus, ‹àbitus› s. m., lat. [propr. «aspetto», der. di habere nel sign. intr. di «stare (bene, male)»]. – Latinismo

usato in medicina costituzionalista e in biologia, e anche in altri àmbiti, invece di abito, per indicare il complesso di

caratteri morfologici o di comportamento di un individuo o di una specie, o più genericamente un’attitudine, una

tendenza.

3. Fondazione Ricerca Fibrosi Cistica

Aspettativa di vita: perché non diciamo le cose come stanno?

Domanda

Buongiorno, stamani mi ritrovo sul vostro sito per sottoporvi a riflessione una questione delicata, dopo che ieri ho

appreso purtroppo che una famiglia ha perso la propria bambina affetta da fc, di appena 13 anni. Circa 3 anni fa è

venuta a mancare anche un’altra bambina di nemmeno 10 anni sempre con fc, e chissà quante altre così giovani vite

spezzate. Chi vi scrive è una mamma con una figlia con fibrosi cistica di appena 3 anni, ma potrei essere qualsiasi altro

genitore che in questa situazione, dopo aver appreso queste “disgrazie”, sprofonda nel baratro e si sente morire quasi

come quelle povere famiglie che hanno perso i propri figli cosi prematuramente. Vorrei riuscire a capire il metro di

misura, vorrei poter comprendere perché, nonostante siamo nel 2012 e nonostante ci venga “inculcato” nella testa che la

vita media per i “nuovi nati” è 40/50 anni (?), continuano a morire piccoli bambini nati pochi anni fa dove anche li la

vita media si aggirava comunque oltre i 30 anni! Sono consapevole che ogni paziente con fibrosi cistica è un caso a sé:

già i fratelli entrambi malati, entrambi con le medesime mutazioni hanno destino diverso, ma non riesco davvero a

capire per quale motivo continuiamo a propagandare una “vita media per i nuovi nati” di 40/50 anni, quando in realtà

chi muore di fibrosi cistica ai giorni d’oggi sono ragazzi comunque sempre giovani. Nei mesi passati se ne sono andati

in molti, ho perso il conto sulle dita, e per la maggior parte l’età si aggirava intorno ai 20 anni! Ma allora qual è il senso

di sensibilizzare le persone in questo modo? La fibrosi cistica è anche chi è in terra adesso e soffre come una bestia! La

fibrosi cistica è anche chi sta morendo adesso e non solo chi nasce d’ora in avanti con la malattia! La sensibilizzazione

deve essere fatta “dando vere medie/mediane” per chi sta combattendo adesso, per chi se ne va in giovane età come sta

accadendo adesso. Ho a che fare spessissimo con persone non direttamente coinvolte dalla malattia, essendo una

volontaria, e purtroppo le persone che leggono “vita media 40/50 anni” si soffermano e mi dicono che è un ottimo

traguardo perché comunque, se la vita media è cosi alta, significa che almeno mia figlia “camperà” fino a 50 anni e con

le prospettive “anche oltre”. Ma questo non è ciò che succede nel 2012! La verità è che si muore a 20 anni, la verità è

che tra i bambini che hanno appena 10 anni alcuni stanno già male, la verità è che moltissime persone che conosco

purtroppo già a 20 anni hanno fev1 al limite dell’ingresso per il trapianto, come anche altri casi intorno ai 12/15 anni.

Ma allora dove sta il metro di misura? Perché non diciamo le cose come stanno? Perche continuiamo a propagandare

“numeri” col senno di poi? Scusate lo sfogo, ma ritengo seriamente che le persone debbano sapere cosa c’è dietro, e non

una semplice “bella previsione” che nemmeno sappiamo se si avvererà. Ma soprattutto, genitori che con rabbia perdono

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i propri figli bambini e ritengono tutto una grande presa in giro, e magari pensano che se il messaggio fosse passato

diversamente, fosse stato più realistico e non probabilistico i fondi sarebbero stati di più, ecc ecc. Col senno di poi non

si va avanti, ma la rabbia dentro cresce e di già è difficile accettare la malattia, figuriamoci tutto il resto. Vi ringrazio

tantissimo per il lavoro che fate. Buona giornata.

Risposta

Non abbiamo difficoltà a comprendere l’angoscia di chi viene a conoscere la morte di bambini che hanno problemi di

salute simili al nostro. La nostra interlocutrice rivolge al mondo dei comunicatori un appello a dire esattamente come sta

la realtà dei malati di fibrosi cistica. E, tanto per incominciare, crediamo che nessuno voglia nascondere il fatto che la

fibrosi cistica, generalmente parlando, sia malattia grave: nel senso che accorcia la vita di chi ne è colpito e la rende in

genere molto faticosa, prima o poi, per chi più e per chi meno. Se non fosse così non si investirebbero tanta energia e

tante risorse per porvi rimedio: pazienti, genitori e curanti da un lato, scienziati e promotori di ricerca dall’altro.

Sappiamo che questa è una malattia di cui abbiamo progressivamente migliorato il decoroso negli anni ma che non

abbiamo ancora debellato. Non va peraltro dimenticato che 50 anni fa (esperienza diretta di chi scrive) i bambini

diagnosticati FC morivano per la gran parte nei primi mesi o primissimi anni di vita: oggi il 50% delle persone con FC

ha superato i 18 anni e molti di questi hanno un ragionevole stato di salute per un tempo protratto.

Ed ora passiamo a qualche aspetto tecnico relativo alle elaborazioni statistiche di mortalità e sopravvivenza. Ci sono

due modi per fare questi conti. Il primo è quello di contare semplicemente le persone che sono decedute anno per anno,

registrando l’età al decesso. Così, per stare in Italia e riferendoci al vecchio registro italiano FC (1), che purtroppo ebbe

vita limitata dal 1988 al 2004, vediamo che la mediana di età ha un incremento progressivo: la mediana è quell’età oltre

la quale vive la metà dei pazienti e al di sotto della quale è deceduta l’altra metà (è peraltro quasi sovrapponibile alla

media aritmetica se si dispone di grande numero di pazienti). Nel periodo 1988-1991 l’età mediana al decesso era di

14,7 anni, tra il 1992 e il 1995 era di 18,6 anni, tra il 1996 e il 1999 era di 21,5 anni, nel periodo 2000-2004 era salita a

23,2 anni. Questi dati sono molto simili a quelli riportati dal registro nordamericano per gli stessi periodi (2).

Questo modo di calcolare la durata della vita dà peraltro una informazione distorta della realtà generale della malattia,

soprattutto perché non tiene conto di come potrebbe essere il decorso per tutti gli altri pazienti che non sono deceduti,

mentre considera solo quei pazienti che molto probabilmente avevano forme più gravi di malattia. Per fare un calcolo

corretto bisognerebbe aspettare la fine di vita di tutti i pazienti nati in un determinato periodo. I lunghissimi tempi

necessari per una tale operazione renderebbero inutile una tale informazione, che invece a noi serve per valutare gli

effetti delle cure, dell’assistenza, dell’organizzazione assistenziale, su cui poter aggiustare le nostre azioni. Per queste

ragioni gli statistici hanno elaborato un criterio più corretto e più tempestivo che, partendo da dati reali (quanti pazienti

vivi e quanti deceduti anno per anno) elabora una tendenza generale nel tempo che consente una predizione della

possibile durata di vita dei malati. Si tratta dell’ “analisi delle tavole di vita” secondo il metodo detto di Kaplan-Meier.

In pratica, si parte da un grande numero di pazienti considerati al momento della loro nascita e seguiti nel tempo,

registrando quanti di essi sono vivi e quanti sono deceduti anno per anno. Si vede così che i malati viventi alla nascita,

quando erano il 100%, diminuiscono anno per anno di età e la percentuale dei sopravviventi tende a calare. Le curve

che descrivono questo andamento sono andate sempre più migliorando nel tempo. Con riferimento ai dati del registro

FC USA (report 2010) (2), il più consistente quanto a numero di pazienti (oltre 26 mila), nel 1986 la mediana di vita

attesa era di 27 anni ed è salita a 38,3 anni nel 2010. Alcune statistiche europee sono anche migliori di quella americana

e danno valori di mediana che superano i 40 anni.

Queste curve di sopravvivenza sono molto diverse se si raggruppano i pazienti secondo diverse categorie: ad esempio

quelli diagnosticati attraverso screening neonatale (hanno attesa di vita più lunga) confrontati con quelli diagnosticati

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tardivamente per sintomi, quelli con mutazioni lievi rispetto a quelli con mutazioni severe, e così via. In questi

andamenti medi, descritti dalle elaborazioni statistiche, c’è infatti una grande variabilità: sappiamo ormai che i malati

FC non sono tutti uguali, non solo perché hanno genotipi diversi, ma anche per il modo con cui vivono, per come sono

curati, per quanto accettano la malattia e sono fedeli alle cure, etc, etc. Le nuove terapie, con tutta probabilità,

modificheranno sostanzialmente l’attesa di vita, magari in misura diversa da caso a caso, ma la modificheranno.

Immaginiamo che queste informazioni consolino assai poco la nostra interlocutrice, ma questo crediamo sia l’unico

modo per dire le cose come stanno, almeno in generale. Nel singolo caso poi i conti si fanno confrontandosi con le

persone che conoscono bene il paziente e se ne prendono cura.

1.Orizzonti FC, Nov. 2006. Registro Italiano FC: Report 2004 www.sifc.it

2. US Patient Registry. Annual Data Report 2010. www.cff.org

4. Profilo professionale dell'Infermiere - D.M. 14 settembre 1994, n. 739

Art. 1

1 - E' individuata la figura professionale dell'infermiere con il seguente profilo:

l'infermiere è l'operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante e dell'iscrizione all'albo

professionale è responsabile dell'assistenza generale infermieristica.

2 - L'assistenza infermieristica preventiva, curativa, palliativa e riabilitativa è di natura tecnica, relazionale, educativa.

Le principali funzioni sono la prevenzione delle malattie, l'assistenza dei malati e dei disabili di tutte le età e

l'educazione sanitaria.

3 - L'infermiere:

a) partecipa all'identificazione dei bisogni di salute della persona e della collettività;

b) identifica i bisogni di assistenza infermieristica della persona e della collettività e formula i relativi obiettivi;

c) pianifica, gestisce e valuta l'intervento assistenziale infermieristico;

d) garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico - terapeutiche;

e) agisce sia individualmente sia in collaborazione con gli altri operatori sanitari e sociali;

f) per l'espletamento delle funzioni si avvale, ove necessario, dell'opera del personale di supporto;

g) svolge la sua attività professionale in strutture sanitarie pubbliche o private, nel territorio e nell'assistenza

domiciliare, in regime di dipendenza o libero - professionale.

4 - L'infermiere contribuisce alla formazione del personale di supporto e concorre direttamente all'aggiornamento

relativo al proprio profilo professionale e alla ricerca.

5 - La formazione infermieristica post - base per la pratica specialistica è intesa a fornire agli infermieri di assistenza

generale delle conoscenze cliniche avanzate e delle capacità che permettano loro di fornire specifiche prestazioni

infermieristiche nelle seguenti aree:

a) sanità pubblica: infermiere di sanità pubblica;

b) pediatria: infermiere pediatrico;

c) salute mentale - psichiatria: infermiere psichiatrico;

d) geriatria: infermiere geriatrico;

e) area critica: infermiere di area critica.

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6) In relazione a motivate esigenze emergenti dal Servizio sanitario nazionale, potranno essere individuate, con decreto

del Ministero della sanità, ulteriori aree richiedenti una formazione complementare specifica.

7) Il percorso formativo viene definito con decreto del Ministero della sanità e si conclude con il rilascio di un attestato

di formazione specialistica che costituisce titolo preferenziale per l'esercizio delle funzioni specifiche nelle diverse aree,

dopo il superamento di apposite prove valutative.

La natura preferenziale del titolo è strettamente legata alla sussistenza di obiettive necessità del servizio e recede in

presenza di mutate condizioni di fatto.

Art. 2

1 - Il diploma universitario di infermiere, conseguito ai sensi dell' art. 6, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre

1992, n. 502, e successive modificazioni, abilita all'esercizio della professione, previa iscrizione al relativo albo

professionale.

Art. 3

1 - Con decreto del Ministro della sanità di concerto con il Ministro dell'Università e della ricerca scientifica e

tecnologica sono individuati i diplomi e gli attestati, conseguiti in base al precedente ordinamento, che sono equipollenti

al diploma universitario di cui all'art. 2 ai fini dell'esercizio della relativa attività professionale e dell'accesso ai pubblici

uffici.

Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta Ufficiale degli atti normativi della

Repubblica italiana.

E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.

5. Il Codice deontologico dell'Infermiere. Ad oggi composto da 51 articoli suddivisi in 6 capi con l’aggiunta delle

Disposizioni finali, manifesta quindi come la professione infermieristica possieda un’identità propria ben definita e

come sia oggi in grado di assumersi tutte le responsabilità che questa sua connotazione comporta.

Vediamo nel dettaglio gli articoli del codice deontologico.

Codice deontologico Infermieri

Approvato dal Comitato centrale della Federazione con deliberazione n.1/09 del 10 gennaio 2009 e dal Consiglio

nazionale dei Collegi Ipasvi riunito a Roma nella seduta del 17 gennaio 2009.

CAPO I

Articolo 1

L'infermiere è il professionista sanitario responsabile dell'assistenza infermieristica.

Articolo 2

L'assistenza infermieristica è servizio alla persona, alla famiglia e alla collettività. Si realizza attraverso interventi

specifici, autonomi e complementari di natura intellettuale, tecnico-scientifica, gestionale, relazionale ed educativa.

Articolo 3

La responsabilità dell'infermiere consiste nell’assistere, nel curare e nel prendersi cura della persona nel rispetto della

vita, della salute, della libertà e della dignità dell'individuo.

Articolo 4

L'infermiere presta assistenza secondo principi di equità e giustizia, tenendo conto dei valori etici, religiosi e culturali,

nonché del genere e delle condizioni sociali della persona.

Articolo 5

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Il rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo e dei principi etici della professione è condizione essenziale per l'esercizio

della professione infermieristica.

Articolo 6

L'infermiere riconosce la salute come bene fondamentale della persona e interesse della collettività e si impegna a

tutelarla con attività di prevenzione, cura, riabilitazione e palliazione.

CAPO II

Articolo 7

L’infermiere orienta la sua azione al bene dell'assistito di cui attiva le risorse sostenendolo nel raggiungimento della

maggiore autonomia possibile, in particolare, quando vi sia disabilità, svantaggio, fragilità.

Articolo 8

L’infermiere, nel caso di conflitti determinati da diverse visioni etiche, si impegna a trovare la soluzione attraverso il

dialogo. Qualora vi fosse e persistesse una richiesta di attività in contrasto con i principi etici della professione e con i

propri valori, si avvale della clausola di coscienza, facendosi garante delle prestazioni necessarie per l’incolumità e la

vita dell’assistito.

Articolo 9

L’infermiere, nell'agire professionale, si impegna ad operare con prudenza al fine di non nuocere.

Articolo 10

L'infermiere contribuisce a rendere eque le scelte allocative, anche attraverso l'uso ottimale delle risorse disponibili.

CAPO III

Articolo 11

L'infermiere fonda il proprio operato su conoscenze validate e aggiorna saperi e competenze attraverso la formazione

permanente, la riflessione critica sull'esperienza e la ricerca. Progetta, svolge e partecipa ad attività di formazione.

Promuove, attiva e partecipa alla ricerca e cura la diffusione dei risultati.

Articolo 12

L’infermiere riconosce il valore della ricerca, della sperimentazione clinica e assistenziale per l’evoluzione delle

conoscenze e per i benefici sull’assistito.

Articolo 13

L'infermiere assume responsabilità in base al proprio livello di competenza e ricorre, se necessario, all'intervento o alla

consulenza di infermieri esperti o specialisti. Presta consulenza ponendo le proprie conoscenze ed abilità a disposizione

della comunità professionale.

Articolo 14

L’infermiere riconosce che l’interazione fra professionisti e l'integrazione interprofessionale sono modalità

fondamentali per far fronte ai bisogni dell’assistito.

Articolo 15

L’infermiere chiede formazione e/o supervisione per pratiche nuove o sulle quali non ha esperienza.

Articolo 16

L'infermiere si attiva per l'analisi dei dilemmi etici vissuti nell'operatività quotidiana e promuove il ricorso alla

consulenza etica, anche al fine di contribuire all’approfondimento della riflessione bioetica.

Articolo 17

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L’infermiere, nell'agire professionale è libero da condizionamenti derivanti da pressioni o interessi di assistiti, familiari,

altri operatori, imprese, associazioni, organismi.

Articolo 18

L'infermiere, in situazioni di emergenza-urgenza, presta soccorso e si attiva per garantire l'assistenza necessaria. In caso

di calamità si mette a disposizione dell'autorità competente.

CAPO IV

Articolo 19

L'infermiere promuove stili di vita sani, la diffusione del valore della cultura della salute e della tutela ambientale,

anche attraverso l’informazione e l'educazione. A tal fine attiva e sostiene la rete di rapporti tra servizi e operatori.

Articolo 20

L'infermiere ascolta, informa, coinvolge l’assistito e valuta con lui i bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitare il

livello di assistenza garantito e facilitarlo nell’esprimere le proprie scelte.

Articolo 21

L'infermiere, rispettando le indicazioni espresse dall'assistito, ne favorisce i rapporti con la comunità e le persone per lui

significative, coinvolgendole nel piano di assistenza. Tiene conto della dimensione interculturale e dei bisogni

assistenziali ad essa correlati.

Articolo 22

L’infermiere conosce il progetto diagnostico-terapeutico per le influenze che questo ha sul percorso assistenziale e sulla

relazione con l’assistito.

Articolo 23

L’infermiere riconosce il valore dell’informazione integrata multiprofessionale e si adopera affinché l’assistito disponga

di tutte le informazioni necessarie ai suoi bisogni di vita.

Articolo 24

L'infermiere aiuta e sostiene l’assistito nelle scelte, fornendo informazioni di natura assistenziale in relazione ai progetti

diagnostico-terapeutici e adeguando la comunicazione alla sua capacità di comprendere.

Articolo 25

L’infermiere rispetta la consapevole ed esplicita volontà dell’assistito di non essere informato sul suo stato di salute,

purché la mancata informazione non sia di pericolo per sé o per gli altri.

Articolo 26

L'infermiere assicura e tutela la riservatezza nel trattamento dei dati relativi all’assistito. Nella raccolta, nella gestione e

nel passaggio di dati, si limita a ciò che è attinente all’assistenza.

Articolo 27

L'infermiere garantisce la continuità assistenziale anche contribuendo alla realizzazione di una rete di rapporti

interprofessionali e di una efficace gestione degli strumenti informativi.

Articolo 28

L'infermiere rispetta il segreto professionale non solo per obbligo giuridico, ma per intima convinzione e come

espressione concreta del rapporto di fiducia con l'assistito.

Articolo 29

L'infermiere concorre a promuovere le migliori condizioni di sicurezza dell'assistito e dei familiari e lo sviluppo della

cultura dell’imparare dall’errore. Partecipa alle iniziative per la gestione del rischio clinico.

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Articolo 30

L'infermiere si adopera affinché il ricorso alla contenzione sia evento straordinario, sostenuto da prescrizione medica o

da documentate valutazioni assistenziali.

Articolo 31

L'infermiere si adopera affinché sia presa in considerazione l'opinione del minore rispetto alle scelte assistenziali,

diagnostico-terapeutiche e sperimentali, tenuto conto dell'età e del suo grado di maturità.

Articolo 32

L'infermiere si impegna a promuovere la tutela degli assistiti che si trovano in condizioni che ne limitano lo sviluppo o

l'espressione, quando la famiglia e il contesto non siano adeguati ai loro bisogni.

Articolo 33

L'infermiere che rilevi maltrattamenti o privazioni a carico dell’assistito mette in opera tutti i mezzi per proteggerlo,

segnalando le circostanze, ove necessario, all'autorità competente.

Articolo 34

L'infermiere si attiva per prevenire e contrastare il dolore e alleviare la sofferenza. Si adopera affinché l’assistito riceva

tutti i trattamenti necessari.

Articolo 35

L'infermiere presta assistenza qualunque sia la condizione clinica e fino al termine della vita all’assistito, riconoscendo

l'importanza della palliazione e del conforto ambientale, fisico, psicologico, relazionale, spirituale.

Articolo 36

L'infermiere tutela la volontà dell’assistito di porre dei limiti agli interventi che non siano proporzionati alla sua

condizione clinica e coerenti con la concezione da lui espressa della qualità di vita.

Articolo 37

L’infermiere, quando l’assistito non è in grado di manifestare la propria volontà, tiene conto di quanto da lui

chiaramente espresso in precedenza e documentato.

Articolo 38

L'infermiere non attua e non partecipa a interventi finalizzati a provocare la morte, anche se la richiesta proviene

dall'assistito.

Articolo 39

L'infermiere sostiene i familiari e le persone di riferimento dell’assistito, in particolare nella evoluzione terminale della

malattia e nel momento della perdita e della elaborazione del lutto.

Articolo 40

L'infermiere favorisce l’informazione e l’educazione sulla donazione di sangue, tessuti ed organi quale atto di

solidarietà e sostiene le persone coinvolte nel donare e nel ricevere.

CAPO V

Articolo 41

L'infermiere collabora con i colleghi e gli altri operatori di cui riconosce e valorizza lo specifico apporto all'interno

dell'équipe.

Articolo 42

L'infermiere tutela la dignità propria e dei colleghi, attraverso comportamenti ispirati al rispetto e alla solidarietà.

Articolo 43

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L'infermiere segnala al proprio Collegio professionale ogni abuso o comportamento dei colleghi contrario alla

deontologia.

Articolo 44

L'infermiere tutela il decoro personale ed il proprio nome. Salvaguarda il prestigio della professione ed esercita con

onestà l’attività professionale.

Articolo 45

L’infermiere agisce con lealtà nei confronti dei colleghi e degli altri operatori.

Articolo 46

L’infermiere si ispira a trasparenza e veridicità nei messaggi pubblicitari, nel rispetto delle indicazioni del Collegio

professionale.

CAPO VI

Articolo 47

L'infermiere, ai diversi livelli di responsabilità, contribuisce ad orientare le politiche e lo sviluppo del sistema sanitario,

al fine di garantire il rispetto dei diritti degli assistiti, l'utilizzo equo ed appropriato delle risorse e la valorizzazione del

ruolo professionale.

Articolo 48

L'infermiere, ai diversi livelli di responsabilità, di fronte a carenze o disservizi provvede a darne comunicazione ai

responsabili professionali della struttura in cui opera o a cui afferisce il proprio assistito.

Articolo 49

L’infermiere, nell’interesse primario degli assistiti, compensa le carenze e i disservizi che possono eccezionalmente

verificarsi nella struttura in cui opera. Rifiuta la compensazione, documentandone le ragioni, quando sia abituale o

ricorrente o comunque pregiudichi sistematicamente il suo mandato professionale.

Articolo 50

L'infermiere, a tutela della salute della persona, segnala al proprio Collegio professionale le situazioni che possono

configurare l’esercizio abusivo della professione infermieristica.

Articolo 51

L'infermiere segnala al proprio Collegio professionale le situazioni in cui sussistono circostanze o persistono condizioni

che limitano la qualità delle cure e dell’assistenza o il decoro dell'esercizio professionale.

Disposizioni finali

Le norme deontologiche contenute nel presente Codice sono vincolanti; la loro inosservanza è sanzionata dal Collegio

professionale. I Collegi professionali si rendono garanti della qualificazione dei professionisti e della competenza da

loro acquisita e sviluppata.

Il futuro codice deontologico: all'esame dei Collegi

26/11/2016 - Le regole della professione degli infermieri si aggiornano: dopo sette anni da quello del 2009 è stata

presentata oggi ai presidenti dei 103 Collegi provinciali la prima stesura del nuovo Codice deontologico che farà da

guida alla professione nei prossimi anni.

Le sue caratteristiche sono massima trasparenza e condivisione, anche perché, come specificano le disposizioni finali, le

norme contenute nel Codice sono vincolanti e negli ultimi anni sono state utilizzate anche come strumento giuridico

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dalla Magistratura. La loro inosservanza è sanzionata dal Collegio professionale: avvertimento, censura, sospensione

fino a sei mesi e radiazione sono i rischi per chi non rispetta le regole deontologiche della professione.

Il denominatore e l’obiettivo comune dei 40 articoli che compongono il nuovo testo sono il bene e il rispetto della

persona assistita, della sua volontà e dei suoi diritti, privacy compresa e della sua famiglia. Come specificato fin dai

primi articoli infatti: “L’infermiere persegue l’ideale di servizio orientando il suo agire al bene della persona, della

famiglia e della collettività”. Non solo: “L’infermiere cura e si prende cura, nel rispetto della dignità, della libertà,

dell’uguaglianza della persona assistita, delle sue scelte di vita e della sua concezione di salute e di benessere”.

Tra le maggiori novità del codice, quelle che riflettono il nuovo ruolo professionale sia a livello di management che

clinico, assunto dagli infermieri all’interno delle strutture sanitarie, sul territorio e anche nella libera professione.

L’infermiere “partecipa al governo clinico, promuove le migliori condizioni di sicurezza della persona assistita, fa

propri i percorsi di prevenzione e gestione del rischio e aderisce alle procedure operative, alle metodologie di analisi

degli eventi accaduti e alle modalità di informazione alle persone coinvolte”. Inoltre, se l'organizzazione chiedesse o

pianificasse attività assistenziali, gestionali o formative in contrasto con i propri principi e valori e/o con le norme della

professione, l’infermiere proporrà soluzioni alternative e se necessario si avvarrà della clausola di coscienza.

L’infermiere inoltre ha anche l’obbligo di concorrere alla valutazione del contesto organizzativo, gestionale e logistico

in cui si trova la persona assistita e formalizza e comunica il risultato delle sue valutazioni.

Tra le previsioni del Codice, l’educazione sanitaria per i cittadini e la promozione di stili di vita sani, la ricerca e la

sperimentazione, ma anche, per gli infermieri, gli obblighi di formazione e di educazione continua, argomento questo

che per la prima volta entra a pieno titolo in un Codice deontologico.

Nel Codice c’è un chiaro riferimento alla comunicazione., anche informatica: correttezza, rispetto, trasparenza e

veridicità sono obblighi che l’infermiere deve rispettare.

Un capitolo importante è anche quello del fine vita: l’obbligo deontologico è di assistere la persona fino al termine della

vita, tutelandone la volontà di porre dei limiti agli interventi che ritiene non siano proporzionati alla sua condizione

clinica o coerenti con la concezione di qualità della vita e sostiene i familiari e le persone di riferimento nell'evoluzione

finale della malattia, nel momento della perdita e nella fase di elaborazione del lutto.

“Il Codice Deontologico – sottolinea la presidente Ipasvi Barbara Mangiacavalli - è un criterio guida per l’esercizio

professionale dell’infermiere che deve tenere conto della sua evoluzione sia sotto il profilo giuridico che dello status e

delle competenze professionali. La deontologia e l’etica sono quotidiane e derivano dalle esperienze quotidiane.

L’infermiere oggi è un professionista della salute al quale ogni cittadino si rivolge in un rapporto diretto confidando

nell’opportunità di ricevere un’assistenza professionale, pertinente e personalizzata. Il nuovo Codice deontologico

rappresenta, per l’infermiere, uno strumento per esprimere la propria competenza e la propria umanità, il saper curare e

il saper prendersi cura. L’infermiere – prosegue - deve dimostrare di saper utilizzare strumenti innovativi per una

gestione efficace dei percorsi assistenziali e l’applicazione dei principi deontologici completano le competenze e

permettono all’infermiere di soddisfare non solo il bisogno di ogni singolo paziente, ma anche il bisogno del

professionista di trovare senso e soddisfazione nella propria attività”. Fonte: Nurse 24+it

6. Augusto Murri - Medico (Fermo 1841 - Bologna 1932); fu prof. di clinica medica nella univ. di Bologna (1871-

1906). Fra i clinici dell’epoca ebbe una particolare rinomanza essenzialmente per la metodica seguita nello studio del

malato, basata su uno scrupoloso e attento rilievo dei sintomi e sulla loro interpretazione nel quadro di una rigorosa

logica. Nella sua produzione scientifica vanno segnalati gli studî sul meccanismo di compenso fisiopatologico del

cuore, sulla terapia digitalica e sull’ emoglobinuria parossistica da freddo.

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7. Da alcuni anni è iniziata un azione di profondo rinnovamento della rete ospedaliera italiana. L’azione ha preso le

mosse con la legge 67/88 che, all art.20, prevedeva un investimento di 20 miliardi di lire finalizzati all attivazione di un

Piano decennale di complessa realizzazione. Tale importante iniziativa politica avviò di conseguenza una concreta

riflessione sulle stesse tipologie organizzative e spaziali e, in definitiva quindi, sulla qualità complessiva della rete

ospedaliera italiana costituita, in buona parte, da modelli ormai obsoleti. Al dibattito che si sviluppò in relazione alle

numerose iniziative avviate da questo Piano, fece seguito una successiva azione volta a formulare indirizzi per le future

progettazioni: si trattava del lavoro della cosiddetta Commissione Veronesi-Piano (all’epoca il prof. Umberto Veronesi

era Ministro della Sanità) al quale veniva affidato il compito di interpretare il generale bisogno di riflessione attorno ai

temi dello Ospedale del futuro. Il lavoro si concluse nel 2001 con la pubblicazione del Documento sul Nuovo Modello

di Ospedale, alla cui redazione partecipano alcuni tra i più noti studiosi e tecnici italiani del settore. I contenuti del

lavoro sono a tutti noti: il decalogo proposto dall’ elaborazione finale è diventato patrimonio disciplinare di quanti si

occupano, con vari ruoli e responsabilità, di temi legati alla progettazione ospedaliera ed il modello planimetrico e

tridimensionale che lo esemplifica, ha cominciato ad essere un preciso elemento di confronto per qualsiasi azione

progettuale in materia. Va ricordato ancora che il lavoro citato ha avuto un importante momento di continuità e di

approfondimento con la pubblicazione, nel 2003, dei Principi guida tecnici, organizzativi e gestionali per la

realizzazione e gestione di ospedali ad alta tecnologia ed assistenza che risulta la sintesi di un importante lavoro di

ricerca coordinato dal prof. Maurizio Mauri e finanziato dal Ministero della Salute.

8. Il 10 luglio 2014 è stata sancita l’Intesa tra il Governo, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano

sull’Accordo finanziario e programmatico tra il Governo e le Regioni, di valenza triennale, in merito alla spesa e alla

programmazione del Servizio Sanitario Nazionale, finalizzato a migliorare la qualità dei servizi, a promuovere

l’appropriatezza delle prestazioni e a garantire l’unitarietà del sistema. Il patto precedente era stato siglato nel 2009 a

valere per il triennio 2010 – 2012

9. Agenas è un ente pubblico non economico nazionale, che svolge una funzione di supporto tecnico e operativo alle

politiche di governo dei servizi sanitari di Stato e Regioni, attraverso attività di ricerca, monitoraggio, valutazione,

formazione e innovazione.

10. Patch Adams (Washington, 28 maggio 1945) è un medico, attivista e scrittore statunitense. Ha fondato il

Gesundheit Institute nel Ogni anno organizza gruppi di volontari, provenienti da diversi Paesi, per recarsi presso vari

ospedali dei diversi Paesi del mondo, travestiti da clo0wn, con l obiettivo di far riscoprire l umorismo agli infermi e agli

ammalati. È generalmente riconosciuto come l ideatore di una terapia olistica molto particolare: quella del sorriso,

anche nota come clown terapia.

11. Michael Balint ( Budapest 1896 Bristol 1970) è stato uno è stato uno psicoanalsta ungherese, patrocinatore della

Object Relations School. Uno dei motivi della celebrità di Balint è l’invenzione di una specifica tecnica di formazione,

poi denominata Gruppo Balint, attraverso la quale si proponeva di migliorare le capacità dei medici di utilizzare con i

pazienti la relazione interpersonale come fattore terapeutico.

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12. Fabrizio Turoldo insegna Bioetica presso l’Università “Ca’ Foscari” di Venezia e coordina il progetto “Etica e

Medicina” della Fondazione Lanza di Padova.

13. L’affidare i diritti della persona umana a Carte, a Codici, a Dichiarazioni ed a Raccomandazioni è una prospettiva

non nuova che si inserisce nel solco ideale di una lunghissima tradizione iniziata, subito dopo la fine del 2° conflitto

bellico, con l’approvazione del Codice di Norimberga (1947) e con la proclamazione, nel 1948, della Dichiarazione

universale dei diritti dell’ uomo da parte dell’ Assemblea Generale delle Nazioni Unite cui ha fatto seguito, in

successione cronologica, la promulgazione della Dichiarazione adottata dalla 18^ Assemblea medica mondiale tenutasi

ad Helsinki nel 1964, del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali concluso a New York il 16

dicembre 1966, della Dichiarazione adottata dalla 35^ Assemblea medica mondiale tenutasi a Venezia nel 1983, della

Dichiarazione approvata ad Alma Ata nel 1978, della Dichiarazione sulla promozione dei diritti dei pazienti in Europa

approvata al Amsterdam nel 1994, della Carta di Lubiana sulla riforma dell’ assistenza sanitaria approvata nel 1996,

della Dichiarazione di Jakarta sulla promozione della salute nel 21° secolo approvata nel 1997 e della Carta dei diritti

fondamentali varata dall’ Unione Europea il 7 dicembre 2000 in occasione del Consilio Europeo di Nizza. Ciò

nonostante, la Carta europea dei diritti del malato, presentata a Bruxelles il 15 novembre 2002 come risultato del lavoro

promosso da Active Citizenship Network e sottoscritta da organizzazioni civiche di 11 Paesi europei [12], è un

documento di estremo interesse per almeno tre ordini di fattori: a) perché essa concretizza, in una brillante sintesi, i

diritti fondamentali della persona a più riprese enunciati dall’ Organizzazione mondiale della sanità, dall’ Unione

Europea e dal Consiglio d’ Europa; b) perché essa indica le coordinate entro le quali, coerentemente con la nostra Carta

costituzionale (art. 32), deve essere promossa la tutela della salute del singolo nell’ interesse collettivo; c) perché essa

esorta, infine, i professionisti sanitari di tutti i Paesi dell’ Unione Europea a pensare ed a riflettere con rinnovato

interesse, orientandoli ad una responsabilità modulata autenticamente sull’ adagio della scienza e della coscienza che

non sterotipizza la pratica professionale ma che le conferisce slancio e vigore. La Carta europea dei diritti del malato

sintetizza in 14 articoli quanto previsto in numerose Dichiarazioni e Raccomandazioni internazionali.

Essa, nella prima parte, richiama i “diritti fondamentali” della persona umana.

14. Ippocrate, (Isola di Coo, 460 a.C. 370 a.C.) medico, praticante maestro di medicina, fu destinato a diventare nei

secoli il simbolo stesso dell’ arte medica. A quest’ aura di leggenda, che sempre circondò la sua figura, si devono le

innumerevoli e fantasiose tradizioni fiorite intorno alla sua esistenza e il confluire sotto il suo nome di uno stuolo di

opere appartenenti ad altri autori, note nel loro complesso col titolo di Corpus Hippocraticum. Considerato il padre della

medicina, a Lui e attribuito il Giuramento di Ippocrate, che i medici sono obbligati a prestare tutt’ oggi prima di iniziare

la professione, anche se la forma originale è molto diversa da quella odierna. Altri importanti contributi del medico

scienziato sono stati gli studi sui cadaveri in chiave scientifica, l’ invenzione della cartella clinica, dei concetti di

diagnosi e prognosi, legati all osservazione dei sintomi del paziente. Lo scienziato di Kos fa riferimento a elementi

come la dieta, l atmosfera, la psicologia del paziente e persino l ambito in cui si trova a vivere, considerando dunque

anche alcuni aspetti sociali.

15. Lo studio dei rapporti tra Seneca e la quasi sconosciuta scuola medica stoica denominata Scuola Pneumatica

consente di gettare nuova luce sul pensiero del filosofo di Cordova. È infatti possibile dimostrare che le concezioni

psicologiche senecane poggiano su una visione monistica dell’ uomo, in forza della quale anima e corpo sono due entità

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intercomunicanti in quanto consustanziali e attraversate da un unico spiritus coibente: pertanto, ogni evento psichico

coinvolge l’ ambito somatico dell’ individuo, ma pure ogni stato del corpo influenza inevitabilmente l’ anima.

16. Nel panorama intellettuale del II secolo d.C., Galeno rappresenta un caso eccezionale: per la sua collocazione a

cavallo di scienza medica e filosofia, per la varietà dei suoi interessi e per la sua sterminata produzione letteraria.

Galeno era dunque medico (allievo indiretto di Asclepiade il Giovane) e filosofo, e illustri pazienti come l’ imperatore

Marco Aurelio lo consideravano un filosofo professionale che praticava la medicina come attività marginale: “primo fra

i medici”, ma “unico fra i filosofi”. Non si può essere un buon medico, sosteneva in uno scritto intitolato Il miglior

medico è anche filosofo, se non si conoscono logica, fisica ed etica. cioè l’ insieme dell’autentica filosofia (che secondo

Galeno è contenuta soprattutto nella tradizione platonico-aristotelica, ma anche in quella stoica).

17. Renè Descartes è stato un filosofo e matematico francese, fondatore della matematica e della filosofia moderna.

18. Immanuel Kant (1724 – 1804) fu uno dei più importanti esponenti dell’Illuminismo tedesco, e anticipatore, nella

fase finale della sua speculazione, degli elementi fondanti della filosofia idealistica.

19. Karl Theodor Jaspers (1883 – 1969) è stato un filosofo e psichiatra tedesco. Ha dato un notevole impulso alle

riflessioni nel campo della psichiatria, della filosofia ma anche della teologia e politica.

20. Paul Ricoeur, filosofo francese (1913 – 2005), per la sua costante opera intellettuale e per la sua intensa attività di

magistero e di dialogo che si estende ormai su scala planetaria e che è stato unanimemente riconosciuta nelle sedi più

autorevoli della comunita culturale, scientifica e filosofica internazionale (come testimoniano anche il Premio Hegel di

Stoccarda del 1985 e il Premio Balzan per la filosofia conferitogli nel 1999, può essere considerato uno dei testimoni e

dei protagonisti più sensibili della coscienza filosofica del Novecento.

21. Umberto Galimberti ( Monza, 2 maggio 1942) è un filosofo, sociologo e docente universitario italiano.

22. Norbert Elias (1897–1990) sociologo tedesco di origini ebraiche viene considerate uno dei più autorevoli sociologi

tedeschi. (Engagement un Distanzierung, 1983).

23. Epicuro: filosofo greco (Samo, 341- Atene, 271 a.C.) che ha diffuso una dottrina materialista per la quale il

mondo è formato da atomi dalla cui unione o disunione si generano o muoiono le cose, compresa l'anima che perisce

col corpo.

24. Euristica, dal verbo greco heuriskein (“trovare”). In generale, euristico è ogni procedimento che permette di

condurre a nuove conoscenze e a nuove scoperte (la filosofia è dunque un procedimento euristico, in questo senso).

Nell'ambito della scienza contemporanea, l'euristica è il metodo che favorisce la scoperta di nuovi risultati scientifici.

25. Ludwig Andreas Feuerbach ( Landshut, 28 luglio 1804 – rechenberg, 13 settembre 1872) è stato un filosofo

tedesco tra i più influenti critici della religione ed esponente della sinistra hegeliana. Nel 1841 uscì l'opera più

importante di Feuerbach, L'essenza del cristianesimo, in cui l'autore effettua quella che egli stesso definisce la riduzione

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della teologia e della religione ad antropologia. «Il mio primo pensiero fu dio, il mio secondo la ragione, il mio terzo ed

ultimo l'uomo». Quello che interessa a Feuerbach non è l'idea di umanità quanto piuttosto l'uomo reale che è

innanzitutto natura, corporeità, sensibilità, bisogno: «Verità è l'uomo e non la ragione astratta». E, a maggior ragione,

bisogna negare il teismo, giacché non è dio che crea l'uomo ma è l'uomo che crea dio. Il risultato più importante di

quest'opera è pertanto la formulazione da parte di Feuerbach di un ateismo conclamato, in cui Dio è il risultato di una

Proiezione che l'uomo compie involontariamente, attribuendo ad un Dio, inventato dall'uomo stesso, ciò che egli

vorrebbe essere e avere. Siccome l'uomo ha dei bisogni materiali che non può soddisfare nella vita terrena si è inventato

una vita ultraterrena dove possa pervenire alla loro realizzazione attraverso l'azione di Dio, considerato dotato di quelle

proprietà che l'uomo desidererebbe possedere: l'eternità, l'onniscienza e l'onnipotenza, etc. Marx nel suo pensiero

giovanile fu molto influenzato da Feuerbach in opere come " Per la critica della filosofia del diritto di Hegel " e

soprattutto nei Manoscritti economico-filosofici del 1844. In particolare il concetto di Proiezione di Feuerbach

costituisce un concetto fondamentale per quello di Alienazione di Marx; infatti Marx lo elaborò partendo da quello di

Hegel, ma conferendogli lo stesso significato negativo proprio del concetto di proiezione di Feuerbach.

26. Pierre Hadot ( Parigi, 1922 – orsay, 24 aprile 2010) è un filosofo e scrittore francese. Direttore della École pratique

des hautes études dal 1964 al 1986, è stato nominato professore al Collège de France nel 1982. Il suo ambito di interesse

è la filosofia antica, soprattutto il rapporto tra la Filosofia Greca e la sua ricezione da parte della Letteratura Latina. La

tesi principale di Hadot, esposta soprattutto nei due testi Esercizi Spirituali e Filosofia antica e Che Cos’è la Filosofia

Antica, è che la filosofia è nata, nell’antichità greca, come “stile di vita”, saggezza intesa come “saper vivere”, in una

unità di teoria e prassi tipica dell’epoca nella quale appunto nasce e non come mera riflessione teorica fine a se stessa,

quale invece ha preso a svilupparsi a un certo punto della storia occidentale. La Filosofia Greca e quella che le scuole

filosofiche romane ereditano serve alla trasformazione dell’essere umano nella vita quotidiana. Le opere filosofiche del

passato non sono composte per esporre un sistema, ma per diffondere un sapere formativo: in vista di questo scopo, il

filosofo cercava anche di insegnare un approccio alla lettura facendola diventare un’azione di trasformazione del

proprio sé. Gli esercizi spirituali impegnano tutte le facoltà dell’individuo che si mette in discussione trasformando la

propria esistenza in maniera radicale. Per gli Stoici, per esempio, la filosofia è divisa in logica, fisica ed etica, ma

ognuna di queste discipline non va vista chiusa in se stessa ma come un tutto unico che va vissuto a pieno con

consapevolezza di sé, come peraltro risulta bene dall’immagine stessa che gli Stoici impiegavano per qualificare la

propria tripartizione della filosofia: un “uovo”, le cui parti – lungi dall’essere indipendenti – sono in relazione tra loro,

come il tuorlo e il guscio dell’uovo. Il discorso sulla filosofia non è la filosofia. In altri termini, secondo Hadot, in

Grecia le teorie filosofiche sono al servizio della vita filosofica. Nell’epoca ellenistica e romana la filosofia si presenta

come un modus vivendi, come arte della vita, come una maniera d’essere. In effetti, la filosofia antica aveva questo

carattere, almeno a partire da Socrate. La filosofia antica propone all’essere umano un’arte della vita, mentre la filosofia

moderna si presenta come un sapere tecnico riservato a specialisti o, comunque, a pochi “addetti ai lavori”. Hadot

critica aspramente i filosofi moderni che vedono nella filosofia un mero sistema di proposizioni astratte e lontane mille

miglia dalla vita concreta, con tutti i suoi “problemi reali”:

“Tradizionalmente, coloro che sviluppano un discorso filosofico senza cercare di mettere la loro vita in rapporto con

il discorso, e senza che il loro discorso derivi dalla loro esperienza e dalla loro vita vengono chiamati ‘sofisti’ dai

filosofi” (P. Hadot, Esercizi Spirituali e Filosofia Antica).

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27. Paul-Michel Foucault (Poitiers, 15 ottobre 1926 – Parigi, 25 giugno 1984) è stato un filosofo, sociologo, storico,

accademico e saggista francese.

Filosofo, "archeologo dei saperi", saggista letterario, professore al Collège de France, tra i grandi pensatori del XX

secolo, Foucault fu l'unico che realizzò il progetto storico-genealogico propugnato da F. Nietzsche allorché segnalava

che, nonostante ogni storicismo, continuasse a mancare una storia della follia, del crimine e del sesso. Egli studiò lo

sviluppo delle prigioni, degli ospedali, delle scuole e di altre grandi organizzazioni sociali. Sua è la teorizzazione che

vide il modello del Panopticon o panottico, ossia del carcere ideale progettato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy

Bentham. come paradigma della società moderna.

Il concetto della progettazione è di permettere a un unico sorvegliante di osservare (opticon) tutti (pan) i soggetti di una

istituzione carceraria senza permettere a questi di capire se siano in quel momento controllati o no. Il nome si riferisce

anche a Argo Panoptes della mitologia Greca: un gigante con un centinaio di occhi considerato perciò un ottimo

guardiano.

L'idea del panopticon ha avuto una grande risonanza successiva, come metafora di un potere invisibile, ispirando

pensatori e filosofi, oltre a Foucault, Noam Chomsky, Zygmunt Bauman e lo scrittore britannico George Orwell nel

romanzo 1984.

Importanti sono anche gli studi di Foucault sulla sessualità, che egli crede non sia sempre esistita così come la

conosciamo oggi e così come soprattutto ne discutiamo. In particolare negli ultimi due secoli la sfera del sesso è stata

oggetto di una volontà di sapere, di una pratica confessionale che prosegue in maniera blanda ma comunque diffusa la

volontà di potere e di sapere istituita con la modernità dalle istituzioni prima religiose e poi secolari.

Altro tema ampiamente trattato dal filosofo francese è quello della cura di sé, un principio filosofico rintracciabile nel

periodo ellenistico greco e nell'età tardo imperiale romana.

Nel periodo 1980-1984 Foucault vive una "svolta filosofica" del suo pensiero filosofico, la scoperta dell’ethos che vede

una reinterpretazione del soggetto, non più soltanto sottomesso e plasmato dal potere, ma attivamente consapevole e

capace di auto-costruirsi. Vengono utilizzate, per questa parte, non tanto le opere sistematiche, quanto piuttosto un buon

numero di interviste e conferenze risalenti a quegli stessi anni.

1. La genealogia del soggetto morale.

Il soggetto rimane anche in questa fase un qualcosa che si costruisce e non un substrato naturale impostato una volta per

tutte; tuttavia esso assume ora caratteristiche positive: la capacità di autocostruirsi attraverso un complesso lavoro di

perfezionamento di stessi, una paidéia fisica e spirituale, inaugurata da Socrate e chiamata cura di sé. Infatti La paideia

(in greco antico : παιδεία, paidéia) nel V sec. a.C. significava formazione e cura dei fanciulli e diventava sinonimo di

cultura e di educazione mediante l'istruzione. Era il modello educativo in vigore nell'Atene classica e prevedeva che

listruzione dei giovani si articolasse secondo due rami paralleli: la paideia fisica, comprendente la cura del corpo e il

suo rafforzamento, e la paideia psichica, volta a garantire una socializzazione armonica dell'individuo nella polis, ossia

all'interiorizzazione di quei valori universali che costituivano l’ethos del popolo. Lo spirito di cittadinanza e di

appartenenza costituivano infatti un elemento fondamentale alla base dell'ordinamento politico-giuridico delle città

greche. L'identità dell'individuo era pressoché inglobata da quell'insieme di norme e valori, che costituivano l'identità

del popolo stesso, tanto che, più che di processo educativo o di socializzazione, si potrebbe parlare di processo di

uniformazione all’ethos politico.

2. Sulla "morte dell’uomo" .

Ancora richiamandosi a Nietzsche, Foucault ipotizza la fine di quelle forme di soggettività - sottoposte all’incessante

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opera del potere - che hanno caratterizzato la nostra epoca a partire dal ‘700. E’ ora - dice Foucault - di esplorare nuove

forme di soggettività. Emerge una prospettiva di libertà e di creatività del tutto nuova.

3. La filosofia e l’Aufklärung (in tedesco col significato di «delucidazione, chiarimento»)

Foucault, in questi anni, rilegge Kant e l’Illuminismo secondo una nuova ottica, che inaugura la direzione e il compito

che la filosofia riveste nell’epoca contemporanea: è la riflessione critica su se stessi e sul proprio presente storico.

28. Arthur Schopenhauer (Danzica, 22 febbraio 1788 – Francoforte sul Meno, 21 settembre 1860) è stato un filosofo

tedesco, uno dei maggiori pensatori del XIX secolo. Arthur Schopenhauer rientra a pieno titolo nel filone di quei

pensatori che si pongono in netta rottura con il sistema hegeliano e, insieme a tutti gli avversari del panlogismo di

Hegel, tende a far prevalere l'irrazionalità della realtà: per Schopenhauer, come per Kierkegaard, Hegel è l'idolo

polemico in antitesi col quale costruire la propria filosofia. Tra i pensatori di questo periodo serpeggia l'aspirazione alla

concretezza e, per addurre un esempio significativo, Schopenhauer insiste sul fatto che " l'uomo non è un angelo ", cioè

non è puro spirito disincarnato, ma è essenzialmente un corpo e la natura di tale corpo consiste, soprattutto, nella

volontà, nei desideri, negli istinti e nelle passioni, quelle cose, cioè, che Freud avrebbe più tardi definito come

"pulsioni"; da notare che la rivendicazione che Schopenhauer fa della concretezza (e che trova conferma anche nella

celebre espressione di Feuerbach: " l'uomo è ciò che mangia ") è in antitesi all'astrattezza hegeliana, come pure alla

ragione, tanto cara ai Positivisti.

29. Karl Barth (Basilea, 10 maggio 1886 – Basilea, 10 dicembre 1968) è stato un teologo e pastore riformato svizzero.

Barth ha fatto irruzione sulla scena teologica e filosofica europea all'inizio degli anni venti del Novecento con la sua

opera più letta e commentata: L'epistola ai Romani (Römerbrief). Questo testo ha dato inizio a un movimento teologico

denominato “teologia dialettica” contrapposto alla “teologia liberale” di matrice storicista e romantica. Questa forma di

teologia costituisce il nucleo centrale del pensiero di K. Barth esposto nella sua Epistola ai Romani, ed ha influenzato in

maniera decisiva quasi tutta la teologia del Novecento, sia in ambito protestante, sia in parte in quello cattolico.

L'espressione teologia dialettica, o teologia della crisi come viene anche indicata, significa che ci si può riferire a Dio

solo “dialetticamente”, cioè per contrapposizione, ossia unicamente riconoscendo l'insanabile contrasto esistente tra Lui

e il mondo, per via dell'abissale alterità che sussiste tra queste due dimensioni.

30. Friedrich Wilhelm Nietzsche (Rocken, 15 ottobre 1844 – Weimar, 25 agosto 1900) è stato un filosofo, poeta,

saggista, compositore e filologo tedesco.

Considerato tra i massimi filosofi e scrittori di ogni tempo, Nietzsche ebbe un'influenza controversa, ma indiscutibile,

sul pensiero filosofico, letterario, politico e scientifico del XX secolo. La sua filosofia, in parte riconducibile al filone

delle filosofie della vita, è considerata da alcuni uno spartiacque fra la filosofia tradizionale e un nuovo modello di

riflessione, informale e provocatorio. In ogni caso, si tratta di un pensatore unico nel suo genere, sì da giustificare

l'enorme influenza da lui esercitata sul pensiero posteriore. Nietzsche può essere accomunato a Soren Kierkegaard:

entrambi hanno un orientamento prettamente esistenziale ed entrambi sono considerati precursori dell'esistenzialismo

novecentesco. Nietzsche però non condivide il cinismo della vita che porta inevitabilmente alla disperazione, e

impedisce all'uomo di accettare con gioia l'esistenza, oltre a non condividere le credenze cristiane di Kierkegaard. Forti

sono i debiti dell'esistenzialismo verso pensatori quali Kierkegaard e Nietzsche, come del resto verso la fenomenologia

di Husserl. Se dalla fenomenologia viene preso il nuovo senso della realtà, ovvero la decisione di accogliere come base

dell'indagine filosofica i dati apparenti nella loro fluidità ed entro i loro limiti, da Kierkegaard e da Nietzsche

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l'esistenzialismo eredita l'affermazione che il divenire si mostra più di ogni altro nell'individuo, nelle sue libere scelte

come nella sua volontà di creare da sé la propria esistenza e i propri valori.

31. Fenomenologia. In generale, è la descrizione o la scienza di ciò che appare (= i fenomeni). Nello specifico senso

husserliano, è la scienza eidetica, ossia quel tipo di pensiero che non studia i dati di fatto, bensì le essenze (= le strutture

invarianti ed universali delle cose). La fenomenologia è una disciplina filosofica fondata da Edmund Husserl, membro

della Scuola di Brentano. La fenomenologia ha avuto una profonda influenza sull'esistenzialismo in Germania e

Francia, ma anche sulle scienze cognitive e odierne e nella filosofia analitica.

Un elemento importante e al contempo un concetto fondamentale che Husserl prese da Brentano è quello

dell'intenzionalità, l'idea che la coscienza sia sempre intenzionale, cioè che sia diretta ad un oggetto, che abbia un

contenuto. Brentano definì l'intenzionalità come la caratteristica principale dei fenomeni psichici (o mentali), tramite cui

essi possono essere distinti dai fenomeni fisici. Ogni fenomeno mentale, ogni atto psicologico ha un contenuto, è diretto

a qualche cosa (l'oggetto intenzionale). Ogni credere, desiderare etc. ha un oggetto: il creduto, il desiderato.

31. Edmund Gustav Albrecht Husserl (Prostejov, 8 aprile 1859 – Friburgo in Brisgovia, 26 aprile 1938) è stato un

filosofo e matematico austriaco naturalizzato tedesco, fondatore della fenomenologia e membro della Scuola di

Brentano.

Husserl introduce il concetto di riduzione (fenomenologica) nelle sue lezioni del 1906/1907 (Introduzione alla Logica

ed Epistemologia), e nel 1907 nelle sue cinque lezioni introduttive sull'idea della fenomenologia. In questi due cicli di

lezioni Husserl pone la domanda di come sia possibile una conoscenza vera e distingue tra conoscenza scientifica e

conoscenza filosofica; la prima è ingenua ed acritica perché assume come vero ed esistente a priori la realtà esterna, non

ponendosi il problema della "possibilità della conoscenza in assoluto" ovvero del fondamento della conoscenza stessa.

A questo obiettivo fondamentale e fondante si dedica interamente la conoscenza filosofica che è in ultima analisi la

fenomenologia stessa, e per fare ciò la fenomenologia dev'essere "purificata" da assunzioni e pregiudizi superflui e

fuorvianti.

Riprendendo Cartesio, Husserl propone di "mettere tra parentesi" (ovvero sospendere il giudizio, atto da lui definito in

greco epochè) tutto ciò che si conosce, arrivando a non poter mettere tra parentesi sé stessi come coscienza. La

coscienza husserliana non è fine a sé stessa ma è sempre diretta, tramite un atto di "puro guardare", a pensieri o

percezioni definiti "cogitationes". Le cogitationes sono puri fenomeni di conoscenza assolutamente slegati

dall'esistenza. Husserl insiste sulla distinzione tra esistenza ed essenza: la prima consiste nel fatto che l'oggetto di una

cogitatio esista realmente al di fuori della coscienza del soggetto pensante, mentre la seconda è il senso oggettivo e

immanente nella coscienza che viene intenzionalmente attribuito alla cogitatio (ad esempio l'idea di rosso).

La fenomenologia si configura quindi come uno studio degli eventi intrapsichici (non psicologicamente parlando; lo

psicologismo è stato messo tra parentesi come conoscenza pregressa e pregiudicante) presi come assoluti in quanto

trascendenti la realtà esterna, cosa che ha fatto parlare i critici di un "platonismo husserliano". Ripulita dalla

presunzione dell'esistenza di una realtà esterna, la coscienza può quindi accostarsi alla pura contemplazione dei suoi

fenomeni interni, e in questo consiste in ultima analisi la Fenomenologia. La riduzione fenomenologica (o riduzione

eidetica, dal greco eidos, cioè idea) serve proprio a questo, ed il suo ruolo epistemologico viene indicato chiaramente

anche dal fatto che all'inizio Husserl parlasse proprio di una "riduzione epistemologica" (Erkenntnistheoretische

Reduktion).

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32. Henri-Louis Bergson (Parigi, 18 ottobre 1859 – Parigi, 4 gennaio 1941) è stato un filosofo francese.. La sua opera

superò le tradizioni ottocentesche dello Spiritualismo e del Positivismo ed ebbe una forte influenza nei campi della

psicologia, della biologia, dell'arte, della letteratura e della teologia. Quasi misconosciuto agli inizi della sua carriera

accademica, Bergson divenne alla fine così popolare da essere quasi identificato con il filosofo ufficiale del pensiero

francese. Egli fu uno dei pochi filosofi, insieme a Bertrand Russel, Jean-Paul Sartre e Elias Canetti i, a ricevere il

Premio Nobel per la letteratura nel 1927 sia «per le sue ricche e feconde idee» sia «per la brillante abilità con cui ha

saputo presentarle».

La filosofia di Bergson incise profondamente nella cultura del Novecento: anche se viene indicato come appartenente

alla corrente filosofica dello spiritualismo, che si opponeva al positivismo imperante all'inizio del XIX secolo, ma la sua

filosofia è così originale che sarebbe più giusto definirla "bergsonismo" proprio per evidenziare l'impossibilità di

assimilarla alle tradizionali dottrine filosofiche.

33. Miguel de Unamuno y Jugo (Bilbao, 29 settembre 1864 – Salamanca, 31 dicenbre 1936) è stato un poeta,

filosofo, scrittore, drammaturgo e politico spagnolo di origini basche che, rinnovandoli, ha portato sul piano filosofico

i motivi più tipici dell'ispanismo, seppure in opere non sistematiche e quasi sempre di carattere letterario.

Canonicamente, viene fatto rientrare nel movimento letterario chiamato Generazione del ‘98, espressione del

modernismo letterario spagnoloPer quanto Unamuno creda che la morte sia soprattutto la fine biologica di un

organismo, vede nella credenza in una vita dopo la morte un elemento indispensabile e quasi sotterraneo al normale

scorrere della vita in questa terra. Per molte ragioni, Unamuno è considerato un importante anticipatore

dell'esistenzialismo che, diversi decenni dopo, sarebbe divenuto di moda nel pensiero europeo

34. Fëdor Michajlovič Dostoevskij Mosca, 11 novembre 1821 – San Pietroburgo, 9 febbraio 1881) è stato uno scrittore

e filosofo russo. È considerato, insieme a Tolstoj, uno dei più grandi romanzieri e pensatori russi di tutti i tempi. A lui è

intitolato il cratere Dostoevskij sulla superficie di Mercurio. con “Ricordi dal sottosuolo” o anche “Memorie dal

sottosuolo”. Dostoevskij pubblicò questo libro nel 1864. Resta un’opera tra le più apprezzate dalla cultura europea del

XX secolo e lascia una traccia indelebile anche nei personaggi del sommo scrittore russo: da quel momento tutti

avranno un sottosuolo da scontare, da penetrare, da fuggire. Forse per ritrovare la vita, forse per dissiparsi. E' divisa in

due parti. La prima ha come titolo, appunto, “Il sottosuolo”; la seconda “A proposito della neve bagnata” Tat'jana

Aleksandrovna Kasatkina, docente al dipartimento di Teoria della letteratura dell'Accademia delle scienze russa, pone

Dostoevskij alle origini dell'esistenzialismo. Soprattutto di quello cristiano.

D'altra parte, già Walter Kaufmann in un saggio del 1974, “Existentialism from Dostoevsky to Sartre”, divenuto ormai

un classico, scriveva: “Non vedo alcuna ragione per cui Dostoevskij possa essere considerato un esistenzialista, ma la

prima parte degli Scritti del sottosuolo è la migliore ouverture per l'esistenzialismo che sia stata composta”.

Tra le indicazioni di lettura del libro, è il caso di ricordarne una in particolare, sottolineata dalla Kasatkina: negli anni

'60 Dostoevskij cerca di sapere in quale punto dell'universo sia situata la terra. Si chiede quale luogo sia il mondo, si

pone la questione medievale se il nostro pianeta sia qualcosa di intermedio tra il paradiso e l'inferno. Ma il sommo

scrittore, senza intenti astronomici, intuisce che una realtà intermedia e indipendente, a sé stante, non esiste; può esistere

soltanto qualcosa che, a seconda delle scelte, assumerà sembianze paradisiache o infernali. Sono sue parole: “Qui il

diavolo lotta con Dio e il campo di battaglia è il cuore dell'uomo”. Dentro le stesse azioni si aprono le porte del paradiso

o dell'inferno. La Kasatkina ricorda che proprio in queste pagine degli “Scritti del sottosuolo” Dostoevskij giunge alla

conclusione che un paradiso recintato è un inferno, un inferno in cui divampi l'amore è un paradiso.

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35 Franz Kafka (Praga, 3 luglio 1883 – Kierling, 3 giugno 1924) è stato uno scrittore praghese di lingua tedesca è uno

dei maggiori rappresentanti di una fertile stagione della letteratura tedesca in Boemia. Autore di racconti e romanzi, in

parte usciti postumi, ha narrato le angosce e le inquietudini dell’uomo novecentesco. Il peso di una colpa sconosciuta, i

meccanismi di un potere oppressivo, uno spazio labirintico senza via di uscita sono gli elementi costitutivi dell’universo

kafkiano.

36. Marcel Proust (Parigi, 10 luglio 1871 – Parigi, 18 novembre 1922) è stato uno scrittore, saggista e critico letterario

francese, la cui opera più nota è il monumentale romanzo Alla ricerca del tempo perduto (À la recherche du temps

perdu) pubblicato in sette volumi tra il 1913 e il 1927.

La sua vita si snoda nel periodo compreso tra la repressione della Comune di Parigi e gli anni immediatamente

successivi alla prima guerra mondiale; la trasformazione della società francese in quel periodo, con la crisi

dell'aristocrazia e l'ascesa della borghesia durante la terza repubblica francese, trova nell'opera maggiore di Proust

un'approfondita rappresentazione del mondo di allora.L'importanza di questo autore, è legata alla potenza espressiva

della sua originale scrittura e alle minuziose descrizioni dei processi interiori legati al ricordo e al sentimento umano; la

Recherche infatti è un viaggio nel tempo e nella memoria che si snoda tra vizi e virtù.

37. Henrik Ibsen (Skien, 20 marzo 1828 – Oslo, 23 maggio 1906) è stato uno scrittore, drammaturgo, poeta e regista

teatrale norvegese. Tra i maggiori autori teatrali, ha elaborato nei suoi poderosi drammi l'idea dell'impossibilità

dell'uomo di realizzare la sua aspirazione al sublime. Ai capolavori giovanili Brand (1866) e Peer Gynt (1867), centrati

su tematiche esistenziali, seguirono le acute e disincantate analisi della realtà borghese di Samfundets støtter ("Le

colonne della società", 1877) e Et dukkehjem ("Casa di bambola", 1879), mentre l'ultima fase della sua produzione è

percorsa da una vena intimista e si colora di simbolismi e toni elegiaci: Vildanden ("L'anitra selvatica", 1884),

Rosmersholm (1886) e Hedda Gabler (1890).

38. Albert Camus (Dréan, 7 novembre 1913 – Villeblevin, 4 gennaio 1960) è stato uno scrittore, filosofo, saggista,

drammaturgo ed attivista francese.

Con la sua multiforme opera è stato in grado di descrivere e comprendere la tragicità di una delle epoche più tumultuose

della storia contemporanea, quella che va dall’ascesa dei totalitarismi al secondo dopoguerra e al concomitante inizio

della guerra fredda. Non solo: le sue riflessioni filosofiche, magistralmente espresse in immagini letterarie, hanno una

valenza universale e atemporale capace di oltrepassare i meri confini della contingenza storica, riuscendo a descrivere la

condizione umana nel suo nucleo più essenziale.

Il suo lavoro è sempre teso allo studio dei turbamenti dell'animo umano di fronte all'esistenza, in balia di quell'assurdo

definito come «divorzio tra l'uomo e la sua vita». L'unico scopo del vivere e dell'agire, per Camus, che pare esprimersi

dialetticamente fuori dell'intimità esperienziale, sta nel combattere, nel sociale, le ingiustizie oltre che le espressioni di

poca umanità, come la pena di morte: «Se la Natura condanna a morte l'uomo, che almeno l'uomo non lo faccia», usava

dire.

Camus ricevette il Premio Nobel per la letteratura nel 1957 con questa motivazione: « Per la sua importante produzione

letteraria, che con serietà chiarificante illumina i problemi della coscienza umana nel nostro tempo. »

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39. Simone de Beauvoir (Parigi, 9 gennaio 1908 – Parigi, 14 aprile 1986), è stata una scrittrice, saggista, filosofa,

insegnante e femminista francese.

Fu un'esponente dell’ esistenzialismo e compagna di Jean Paul Sartre.

40. Jean-Paul Sartre (Parigi, 21 giugno 1905 – Parigi, 15 aprile 1980) è stato un filosofo, scrittore, drammaturgo e

critico letterario francese considerato uno dei più importanti rappresentanti dell' esi9stenzialismo, che in lui prende la

forma di un umanesimo ateo in cui ogni individuo è radicalmente libero e responsabile delle sue scelte,

“L’uomo è condannato ad essere libero: condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una

volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa”.

41. Gabriel Marcel (Parigi, 7 dicembre 1889 – Parigi, 8 ottobre 1973) è stato un filosofo, scrittore, drammaturgo e

critico di musica francese. Nel suo itinerario filosofico si è dovuto spesso confrontare con la riflessione filosofica di

Heidegger e Jaspers, accogliendo alcune istanze della corrente esistenzialista, ma senza per questo riconoscersi del tutto

in questo orientamento di pensiero. Nel 1927 ha pubblicato a Parigi il suo Giornale metafisico, una sorta di diario

filosofico in cui è documentata e svolta in maniera personale la riscoperta dell'esistenza in senso religioso

42. Norberto Bobbio (Torino, 18 ottobre 1909 – Torino, 9 gennaio 2004) è stato un filosofo, giurista, storico, politologo

e senatore a vita italiano.

43. Aristotele (Stagira, 384 a.C. – Calcide, 322 a.C.) è stato un filosofo, scienziato e logico greco antico. Con Platone,

suo maestro, e Socrate è considerato uno dei padri del pensiero filosofico occidentale, che soprattutto da lui ha ereditato

problemi, termini, concetti e metodi. È ritenuto una delle menti filosofiche più innovative, prolifiche e influenti del

mondo antico, sia per la vastità che per la profondità dei suoi campi di conoscenza, compresa quella scientifica.

44. Tommaso d'Aquino (Roccasecca, 1225 – Fossanova, 7 marzo 1274) è stato un frate domenicano, teologo e filosofo

italiano esponente della Scolastica, definito Doctor Angelicus dai suoi contemporanei. È venerato come santo dalla

Chiesa cattolica che dal 1567 lo considera anche dottore della chiesa.

Tommaso rappresenta uno dei principali pilastri teologici e filosofici della Chiesa cattolica: egli è anche il punto di

raccordo fra la cristianità e la filosofia classica, che ha i suoi fondamenti e maestri in Socrate, Platone e Aristotele, e poi

passati attraverso il periodo ellenistico, specialmente in autori come Plotino. Fu allievo di sant’Alberto Magno, che lo

difese quando i compagni lo chiamavano "il bue muto" dicendo: «Ah! Voi lo chiamate il bue muto! Io vi dico, quando

questo bue muggirà, i suoi muggiti si udranno da un'estremità all'altra della terra!»

Il pensiero di Tommaso. Per Tommaso l'anima è creata "a immagine e somiglianza di Dio" (come dice la Genesi),

unica, immateriale (priva di volume, peso ed estensione), forma del corpo e non localizzata in un punto particolare di

esso, trascendente come Dio e come lui in una dimensione al di fuori dello spazio e del tempo in cui sono il corpo e gli

altri enti. L'anima è tota in toto corpore, contenuta interamente in ogni parte del corpo, e in questo senso legata ad esso

indissolubilmente: si veda, sul tema, la questione 76 della Prima Parte della Summa theologiae, questione dedicata

appunto al rapporto tra anima e corpo

45. Georg Friedrich Bernhard Riemann (Breselenz, 17 settembre 1826 – Selasca, 20 luglio 1866) è stato un

matematico e fisico tedesco. Contribuì in modo determinante allo sviluppo delle scienze matematiche. introdusse i

concetti di varietà e di curvatura di una varietà, tra le quali spiccarono gli spazi non euclidei; inoltre una delle questioni

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poste è nel prospettare una indagine sulla natura geometrica dello spazio e sulla sua curvatura. Più in particolare la

geometria di Riemann, conosciuta anche come geometria ellittica, è la geometria della superficie di una sfera.

46. Nikolaj Ivanovič Lobačevskij (Niznij Novgorod, 1° dicembrre 1792 – Kazan’, 24 febbraio 1856) è stato un

matematico e scienziato russo. Lobačevskij abolisce il dogma della "verità" assoluta della geometria euclidea e, per

questo, può essere definito il Nicolò Copernico della geometria.

47. Giacomo Leopardi. (al battesimo Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro Leopardi; Recanati, 29

giugno 1798 – Napoli, 14 giugno 1837) è stato un poeta, filosofo, scrittore, filologo e glottologo italiano. È ritenuto il

maggior poeta dell'Ottocento italiano e una delle più importanti figure della letteratura mondiale, nonché una delle

principali del romanticismo letterario; la profondità della sua riflessione sull'esistenza e sulla condizione umana – di

ispirazione sensista e materialista – ne fa anche un filosofo di notevole spessore. Le conclusioni filosofiche

fondamentali di Leopardi, giunto al culmine della fase storica, si riscontrano proprio e innanzitutto nelle Operette

Morali, l’opera che svolge una funzione cardine nell’evoluzione complessiva dell’arte leopardiana. La riflessione

dell’autore dei Canti, dopo aver ruotato intorno al concetto di natura, si potrebbe riassumere, in una ricerca che sfocia al

termine alla seguente conclusione: Leopardi a un certo punto s’accorge che la natura non dà la vita (vitalità), ma solo

l’esistenza, che le contraddizioni materiali e teoretiche insite nella nozione di natura lo conducono inevitabilmente a

capovolgere la vecchia antitesi natura (vitalità, generose illusioni, eroismo, integralità umana ecc.) e ragione (aridità,

egoismo, astrattezza, snaturamento e infelicità) in una nuova e crescente antitesi fra natura e uomo. Il “vitalismo”

iniziale si dissolve, la natura è ostile alla vita e dà all’uomo solo l’esistenza con la sua noia e il suo “nulla”. Riflessione

filosofica ed empito poetico fanno sì che Leopardi, al pari di Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche e più tardi di

Kafka, possa essere visto come un esistenzialista o almeno un precursore dell'Esistenzialismo.

Il 29 novembre 1823 Leopardi annotava il seguente pensiero: “La natura non è vita, ma esistenza e a questa tende, non a

quella4”, ove è possibile cogliere in nuce (La locuzione latina in nuce tradotta letteralmente, "nella noce", significa "in

embrione", "in abbozzo", "in progetto". Viene modernamente usata, nel campo accademico, quale sinonimo di "in

sintesi", con riferimento all'esposizione di un concetto che contenga concisamente gli elementi fondanti di una dottrina),

i precedenti della filosofia esistenzialista, secondo la quale l’uomo non vive, ma è gettato nella vita e la svolge senza

possibilità di intesa: è la Geworfenheit, la deiezione nell’esserci di Heidegger. C’è un passo dello Zibaldone, quello del

giardino-cimitero, che merita di essere riportato qui quasi per intero in quanto riassume, come un poemetto in prosa,

l’intera visione cosmica leopardiana, dominata da un senso di sgomento del male e dell’universale infelicità: “Non gli

uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente, ma tutti

gli animali. Non gli animali soltanto, ma tutti gli esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i

globi, i sistemi, i mondi. Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più

mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta

quella famiglia di vegetali è in stato di souffrance, qual individuo più qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli

ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più

sensibili, più vitali. Il dolce miele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili

tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di quei teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un

formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o

dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco o nelle radici; quest’altro ha più foglie secche; quest’altro è

roso, morsicato nei fiori; quello trafitto punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco;

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troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e incombro nel

crescere, nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non

trovi una pianticella sola in stato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal proprio peso; là un

zefiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta,

staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le

uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente

troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro. Certamente queste piante vivono; alcune perché le loro

infermità non sono mortali, altre perché ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresì, possono durare a

vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all’entrare di questo giardino ci rallegra l’anima, e di

qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un

vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio…5)”. E’ la vita che nasconde la morte, anzi è la morte che si

sconta vivendo in quanto essa è nella vita stessa. Quanta distanza fra questi precorrimenti esistenzialisti e il monismo

naturalistico del precedente sistema storico ove la natura era concepita quale pienezza, autenticità di vita, felicità nel

complesso armonioso dell’universo, condensato in tal modo da Leopardi in un pensiero del ’23: “La natura è vita. Ella è

esistenza. Ella stessa ama la vita, e procura in tutti i modi la vita, e tende in ogni operazione alla vita. Perciocché ella

esiste e vive. Se la natura fosse morte, ella non sarebbe. Essere e morte, son termini contraddittori. S’ella tendesse in

alcun modo alla morte, se in alcun modo la procurasse, ella tenderebbe e procurerebbe contro se stessa 6” . 4 G

. Leopardi, Zibaldone, II , cit., p.774. 5 G . cit., p. 1005. 6 II , cit., p.674.

E le riflessioni di Schopenhauer vengono a incrociarsi con quelle del suo contemporaneo Leopardi: per entrambi la vita

umana (in Leopardi) e la vita universale (in Schopenhauer) è una continua altalena fra la noia e il dolore ; finché non si

è raggiunto l'obiettivo desiderato si soffre, quando lo si è raggiunto ci si annoia e ci si pone pertanto dei nuovi obiettivi.

48. Ludwig Binswanger (Kreuzlingen, 13 aprile 1881 – Kreuzlingen, 5 febbraio 1966) è stato uno psichiatra e

psicologo svizzero.

Massimo esponente dell'analisi esistenziale e della psichiatria fenomenologica, fu profondo oppositore della

nosografia psichiatrica di Emil Kraeplin. Così facendo traspose in un primo momento la fenomenologia di Heidegger e

poi, dopo le critiche di quest'ultimo alla sua interpretazione di Essere e Tempo presente nei "Seminari di Zollikon", si

interessò più della fenomenologia di Husserl per la ricerca nel campo della salute mentale; in particolare, oggetto del

suo studio fu la schizofrenia. A Binswanger interessa analizzare la persona e come essa si declina corporalmente nel

mondo; come essa vive nel mondo in quanto corpo; come essa esprime la sua dimensione corporea. Non esiste una

storia di vita senza un organismo umano e viceversa. Gli interessa "il corpo che sono" (Leib), non solo il "corpo che ho"

(Körper): la vera psicologia studia il Leib, perciò diventa antropoanalisi. . Ed è quanto mai necessario che i medici

prendano in considerazione anche il Leib, e non solo il Körper.

Pertanto lo studio di Binswanger si rivolge alla persona nel suo esser-ci per e con l'Altro. La persona si realizza

attraverso la sua possibilità di declinarsi attraverso l'amore.

49. Con l’espressione “scetticismo antico” (la cui radice greca skepsis, “indagine”, rimanda all’inclinazione a

interrogarsi sulla fondatezza dei nostri giudizi) si indica una tendenza filosofica che nasce nella Grecia classica e che

estende, generalizza e sistematizza questo atteggiamento ordinario: una filosofia scettica raccomanda la sospensione del

giudizio riguardo ad una parte (o addirittura alla totalità) delle indagini umane.

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50. Epigenetica. Il merito per avere coniato, nel 1942, il termine epigenetica, definita come "la branca della biologia

che studia le interazioni causali fra i geni e il loro prodotto cellulare e pone in essere il fenotipo", viene attribuito a

Conrad Waddington (1905-1975). Alla metà del diciannovesimo secolo si trovano tracce dell'epigenetica in letteratura.

Le sue origini concettuali risalgono tuttavia ad Aristotele. il quale credeva nell'epigenesi, ossia nello sviluppo di forme

organiche individuali a partire dal non formato. Questa visione controversa è stata la prima argomentazione a opporsi al

concetto che l'essere umano si sviluppi da minuscoli corpi formati.L'uso del termine nel linguaggio scientifico odierno

si riferisce a tratti ereditari a cui non corrispondono modifiche della sequenza del DNA I ricercatori spiegano cosa

avviene nei geni grazie agli studi fatti su gemelli omozigoti: nascono con lo stesso patrimonio genetico, ma crescendo si

possono differenziare a causa dell'ambiente, dello stile di vita, delle emozioni e delle sofferenze provate, che possono

cambiare l'espressione di alcuni geni, attivandoli o disattivandoli. I cambiamenti epigenetici sono conservati quando le

cellule si dividono durante la vita di un organismo

51. Socrate. (Atene, 470 a.C. – Atene, 339 a.C). E’ stato un filosofo greco antico, uno dei più importanti esponenti

della tradizione filosofica occidentale.

Il contributo più importante che egli ha dato alla storia del pensiero filosofico consiste nel suo metodo d'indagine: il

dialogo che utilizzava lo strumento critico dell'elenchos (ἔλεγχος, "confutazione") applicandolo prevalentemente

all'esame in comune (ἐξετάζειν, exetάzein) di concetti morali fondamentali. Per questo Socrate è riconosciuto come

padre fondatore dell'etica o filosofia morale.

Possiamo inserire Socrate nell'era sofistica (sebbene lui si schierò contro i sofisti) perchè come i sofisti si interessò di

problemi etici ed antropologici , mettendo da parte la ricerca del principio e della cosmogonia . Socrate non scrisse mai

nulla e così per ricostruire il suo pensiero dobbiamo ricorrere ad altri autori . Le fonti principali sulla vita di Socrate

sono quattro 1) Platone 2) Senofonte 3) Aristotele 4) Aristofane. Platone è senz'altro la fonte più attendibile: egli fu

discepolo diretto di Socrate e con lui condivise sempre l'idea della filosofia come ricerca continua.

52. Il Circolo di Vienna (in tedesco Wiener Kreis), fu un circolo filosofico e culturale, organizzato da Moritz Schlick

nel 1922 e animato da numerosi filosofi e scienziati del tempo. L'approccio filosofico del Circolo, noto come

positivismo logico (o neopositivismo) o anche fisicalismo, si diffuse nel resto dell' Europa e nei paesi di lingua inglese.

Le riunioni del Circolo si tennero ogni settimana con regolarità fino all'avvento del nazismo. La morte violenta di

Schlick (1936), e la fuga dalla città dei suoi membri per evitare le persecuzioni politiche e razziali del nuovo regime, ne

segnarono la fine.

Il positivismo logico, anche noto come neopositivismo, neoempirismo o empirismo logico, è una corrente filosofica,

basata sul principio che la filosofia debba aspirare al rigore metodologico proprio della scienza. Come si deduce dal

nome, alla sua base stanno i concetti tipici del metodo scientifico di “empirico”, ossia relazionato all'esperienza e

“logico”, dal momento che i suoi sostenitori ritengono che la conoscenza debba essere analizzata secondo i criteri

logici propri dell'analisi del linguaggio che assicurino alle proposizioni un preciso significato dotato di senso.

Gli empiristi logici sostengono che la risoluzione degli equivoci e delle ambiguità legate al linguaggio conduca alla

risoluzione degli stessi problemi filosofici: il loro sorgere dipenderebbe infatti da un uso scorretto/improprio delle

parole che darebbe vita a molteplici possibili interpretazioni e/o mancanza di senso logico. La filosofia deve avere un

ruolo chiarificatore: non può essere un sapere puramente teorico-speculativo, ma basarsi sull'esperienza per poter

fondare in maniera rigorosa la conoscenza.. Centrale in questo senso è il tema del verificazionismo e del suo principio

di verificazione come soluzione epistemologica al problema della demarcazione tra scienza, pseudoscienze e metafisica.

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Compito della filosofia per i circolisti è quello di eliminare le proposizioni metafisiche. Il filosofo (o filosofo della

scienza) deve fare l’analisi della semantica (rapporto fra linguaggio e realtà) e della sintattica (rapporto tra i segni del

linguaggio); la filosofia deve essere attività, non dottrina. Questa posizione la si trovava già in K. Marx “Glosse a

Feuerbach” (Commenti a F. del 1845; ma pubblicata nel 1888).

L’influenza di L. Wittgenstein (1889,1951) si fece sentire fortemente nel Circolo, specie con il suo “Tractatus logico -

philosophicus” del 1921. E' questo che provocò nel circolo di Vienna l’assunzione di posizioni filosofico-scientifiche

che si è convenuto di chiamare Neopositivismo, documentate dal testo di Carnap (1892—1970), Hahn e Neurath (1882-

1945) “La concezione scientifica del mondo” (1929), che divenne il Manifesto del Neopositivismo e del Circolo stesso.

Nel Manifesto del 1929 si legge:

“La concezione scientifica del mondo è caratterizzata non soltanto da tesi peculiari quanto, piuttosto,

dall’orientamento di fondo, dalla prospettiva, dall’indirizzo di ricerca. Essa si prefigge come scopo l’unificazione della

scienza. Suo intento è di collegare e coordinare le acquisizioni dei singoli ricercatori nei vari ambiti scientifici. Da

questo programma, derivano l’enfasi sul lavoro collettivo, sull’intersoggettività, nonché la ricerca di un sistema

globale di concetti. Precisione e chiarezza vengono perseguite, le oscure lontananze e le profondità impenetrabili

respinte. Nella scienza non si dà “profondità” alcuna; ovunque è la superficie: tutta l’esperienza costituisce

un’intricata rete, talvolta imperscrutabile e spesso intelliggibile solo in parte. Tutto è accessibile all’uomo e l’uomo è

la misura di tutte le cose. In ciò si riscontra un’affinità con i sofisti, non con i platonici; con gli epicurei, non con i

pitagorici; con tutti i fautori del mondano o del terreno. La concezione scientifica del mondo non conosce enigmi

insolubili. Il chiarimento delle questioni filosofiche tradizionali conduce, in parte, a smascherarle quali pseudo-

problemi; in parte, a convertirle in questioni empiriche, soggette, quindi, al giudizio della scienza sperimentale.

Proprio tale chiarimento di questioni e asserti costituisce il compito dell’attività filosofica, che, comunque, non tende a

stabilire specifici asserti “filosofici”. Il metodo di questa chiarificazione è quello dell’analisi logica” (H.Hahn,

L.Carnap, O.Neurath, La concezione scientifica del mondo (1929), a cura di A. Pasquinelli Laterza, Bari, 1979,

pp.7(,75).

Concetti fondamentali

La più caratteristica affermazione del positivismo logico è che una proposizione ha significato solo nella misura in cui

essa è verificabile (principio di verificazione o verificazionismo). Ne segue che sono dotate di significato solo due classi

di proposizioni:

• Le proposizioni empiriche (verità empiriche), come tutti i gravi cadono verso il centro della Terra, che sono

verificate per via di esperimenti; questa categoria include anche le teorie scientifiche;

• Le proposizioni analitiche (verità analitiche), come tutti i mariti sono sposati o la somma degli angoli interni

di un quadrilatero convesso è 360 gradi, che sono vere per definizione; questa categoria include le

proposizioni matematiche.

Tutte le altre proposizioni, incluse quelle di natura etica ed estetica, sull'esistenza di Dio, e via dicendo, non sono

quindi "dotate di significato", e appartengono invece alla “metafisica”. Le questioni metafisiche sono in effetti falsi

problemi e non meritano l'attenzione dei filosofi. Successivamente, il principio di verificazione andrà indebolendosi

approdando al principio della controllabilità che ha in sé, come casi particolari, i principi di verificazione e di

falsificazione, che da soli andavano incontro a svariati problemi anche logici.

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53. Paul Watzlawick (Villach, 25 luglio 1921 – Palo Alto, 31 marzo 2007) è stato uno psicologo e filosofo austriaco

naturalizzato statunitense, eminente esponente della statunitense Scuola di Palo Alto. Watzlawick portò numerosi

contributi allo studio della mente. Sebbene sia ricordato soprattutto per essere l'autore principale di "Pragmatica della

comunicazione umana", pietra miliare della psicologia che si occupa degli effetti pratici della comunicazione.

54. Edward Twitchell Hall (Webster Groves, 16 maggio 1914 – Santa Fe, 20 luglio 2009) è stato un antropologo

statunitense che si è occupato prevalentemente di prossemica.

Ha scritto The hidden dimension nel 1966 (prima edizione Doubleday & Co. Inc., New York), edito in Italia dalla casa

editrice Bompiani nel 1968, con il titolo La dimensione nascosta. In questo libro introduce alla prossemica, osserva i

comportamenti degli animali e delle persone ed elabora questo saggio dove mette in luce tutte le sue deduzioni. Altro

suo titolo è Il linguaggio silenzioso.

55. La Teoria Generale dei Sistemi (o Teoria Sistemica) fu formulata da Ludwig von Bertalanffy (biologo austriaco

che faceva parte della scuola di Palo Alto e in seguito del Circolo di Vienna), e poi espansa in diverse direzioni

(cibernetica, psicologia, sociologia, meccanica, ecc.)

Per "sistema" (dal greco systéma, da syn-ìstemi, stare insieme) si intende un'unità intera e unica composta da parti in

relazione tra loro e tendenti all'equilibrio, tale che l'intero risulti diverso dalla semplice somma delle parti e

qualsiasi cambiamento di una di queste parti influenzi la globalità del sistema. Ogni elemento di un sistema è in

relazione con gli altri elementi, e ha una ragione d'essere per la specifica funzione che svolge. Comportamenti, ruoli e

funzioni diverse concorrono a generare la Proprietà Emergente del sistema, che è una caratteristica superiore alla

somma delle funzioni.

Attraverso le Costellazioni Familiari si arriva a mostrare il cosiddetto “irretimento”: vengono portate alla luce la

struttura del sistema e le dinamiche nascoste che ci mantengono legati alla nostra famiglia, che ci fanno appartenere a

quel gruppo, che ci spingono ad attuare dei comportamenti che condizionano sia la nostra vita che i nostri sentimenti,

senza che questi ci appartengano personalmente.

Gli attributi fondamentali di un sistema sono:

• comunicazione ed elaborazione dell'informazione,

• adattamento al cambiamento delle circostanze (auto-regolazione),

• auto-organizzazione,

• automantenimento.

Norbert Wiener trovò che la comunicazione e l’autoregolazione attraverso la comunicazione sono requisiti essenziali

per l’operatività dei sistemi.

Norbert Wiener definisce "cibernetica" (dal greco kyilbernetes, "timoniere, pilota") il processo di retroazione

autocorrettiva (self corrective feedback) attraverso cui l'informazione riguardante i risultati delle attività passate è

riportata nel sistema, andando così ad influenzare il futuro, e permettendo quindi al sistema di auto-regolarsi, adattarsi e

modificarsi.

Gregory Bateson, applicando la teoria dei sistemi alla famiglia e alle strutture sociali, distingue tra retroazione

negativa (l'informazione riporta il sistema al suo stato iniziale) e positiva (l'informazione aumenta la deviazione del

sistema dal suo stato iniziale). Bateson assieme a Paul Watzlawick e altri esponenti della scuola di Palo Alto, ha

applicato la teoria sistemica alle scienza sociali, approfondendo in particolar modo la comunicazione.

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In psicologia l'Approccio Sistemico si occupa di esplorare quella dimensione della coscienza in cui ogni fenomeno è

parte di un sistema a cui è interconnesso e da cui dipende. Come esseri umani non siamo isolati in una identità psico-

fisica, ma siamo parte di una serie di ulteriori sistemi via via più ampi e complessi, quali la famiglia, la nazione, il

continente, il pianeta, la storia, lo spazio e il tempo in cui si muove la nostra vita. Non a caso si utilizza il termine di

ecosistema per indicare l'intima connessione tra l'ambiente e l'insieme degli esseri viventi che lo abitano con reciproche

influenze. All'interno del corpo umano si trovano poi vari organi, apparati e sistemi (il sistema nervoso, endocrino,

circolatorio, respiratorio, immunitario, ecc.) che svolgono specifiche funzioni e concorrono al mantenimento della vita.

Il membro sintomatico

Il gruppo di Palo Alto cominciò a sostenere che molte famiglie disfunzionali delegano ad uno dei loro membri il ruolo

di componente omeostatica che riporta ogni volta il sistema al suo stato di tranquillità dopo che una regola in qualche

modo è stata minacciata. Quando un componente della famiglia manifesta un bisogno nuovo o una maggiore necessità

di svincolo, che porterebbe la famiglia ad un nuovo stadio vitale, il membro sintomatico subisce un aggravamento o un

incremento del sintomo. Chiaro che la persona delegata dalla famiglia a questo ruolo (il membro sintomatico) paga un

prezzo altissimo, tuttavia permette agli altri membri di mantenere i rispettivi ruoli poiché tutti gli altri problemi

diventano secondari rispetto al “sintomo” di questo membro.

Tutte queste regole ed informazioni passano però ad un livello non verbale, attraverso la comunicazione analogica. Ciò

portò il gruppo di Palo Alto ad interessarsi moltissimo di comunicazione, in particolar modo della connessione tra il

linguaggio verbale e quello analogico.

L'Albero Genealogico, inteso come Sistema Familiare, è composto da diversi elementi, è un sistema aperto e in

espansione, e cerca continuamente l'equilibrio e l'auto-regolazione cibernetica. Le informazioni che circolano

quindi nel sistema (o nell'Inconscio Familiare, o Anima Familiare) risentono di tutte le esperienze più o meno

drammatiche vissute dai membri della nostra famiglia di origine: il problema di un singolo elemento si riflette

sull'intero sistema.

Se un fratello o un fidanzato è morto o è stato dichiarato disperso in guerra, se un bimbo è morto in giovane età o una

donna muore di parto, un altro membro della famiglia della stessa generazione o di quelle successive tenderà a sostituire

inconsapevolmente chi è stato escluso, ne imiterà il destino manifestando le sue emozioni ed i suoi sintomi, o cercherà

di seguirlo nella morte.

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Un caso molto delicato è quello dell'aborto: volontario o spontaneo che sia, la memoria biologica del sistema lo

percepisce come una morte, un vuoto da riempire. E inoltre una madre che perde un figlio, inconsapevolmente lo segue

nel suo destino e resta con lui per sempre, creando un altro vuoto nel sistema.

Ancora, se qualcuno nel passato non si è preso la responsabilità di una colpa grave, un bambino tenterà in seguito di

espiare questa colpa, pagandone il prezzo con la sua salute, con la sua felicità, con il suo successo nella vita.

Ciò avviene perché il sistema tende a ricreare il suo equilibrio.

56. Fabio Folgheraiter

E’ nato a Segonzano (Trento) il 06-02-1955 e risiede a Trento.

E’ docente di Metodologia del servizio sociale presso l’Università Cattolica di Milano,

57. Carl Ramson Rogers (Illinois 1902 - California 1987) è stato uno psicologo statunitense, fondatore della terapia

non direttiva o Terapia centrata sul cliente; è una forma di psicoterapia che si basa su una teoria della personalità ( la

psicologia umanistica) secondo la quale l'individuo tende all'autorealizzazione, e struttura il proprio Sé ricercando un

accordo tra la valutazione-accettazione dei valori suggerita dall'esterno, e quelli conformi alla richiesta di

autorealizzazione.

Secondo tale approccio, l'accettazione di comportamenti impropri (ovvero incongruenti col sistema di valori rivolti

all'autorealizzazione del soggetto) sarebbe causa del disagio che motiva il ricorso alla terapia, la quale ha lo scopo di

rivitalizzare le naturali capacità di autoregolazione del cliente.

e noto per i suoi studi sul counseling e la psicoterapia all'interno della corrente umanistica della psicologia.

58. Avram Noam Chomsky (Filadelfia, 7 dicembre 1928) è un linguista, filosofo, teorico della comunicazione e

anarchico statunitense. È riconosciuto come il fondatore della grammatica generativo-trasformazionale, spesso indicata

come il più rilevante contributo alla linguistica teorica del XX secolo. In questa lettura egli osserva che una frase può

essere interpretata per come essa è strutturata grammaticamente (componente sintattica) o per come essa esprime un

pensiero (componente semantica). La prima è la struttura superficiale, la seconda è invece la struttura profonda.

Chomsky sostiene che solamente un esame delle strutture profonde del linguaggio può dare il vero significato di ciò

che appare esternamente e che le strutture superficiali non sono sufficienti a togliere l'ambiguità ad alcune frasi. La

struttura profonda rappresenta il nucleo delle relazioni semantiche di una frase e si riflette

attraverso trasformazioni nella struttura di superficie (che segue molto da vicino la forma fonologica della frase).

Ciò che permette di trasformare le frasi è solamente la competenza del parlante.

59. david Hume. (Edimburgo, 7 maggio 1711 – Edimburgo, 25 agosto 1776) è stato un filosofo scozzese. La

filosofia di Hume rappresenta l'estremo sviluppo dell'empirismo inglese

Il principale elemento di originalità della ricerca filosofica di Hume è indubbiamente il tentativo di applicare il metodo

sperimentale allo studio della natura umana; vede nell’analisi sistematica delle varie dimensioni che costituiscono

l’uomo (ragione, sentimento, morale, politica) il mezzo per far tornare la filosofia la prima scienza di riferimento del

sapere umano. Un simile rivolgimento è secondo Hume possibile poiché tutte le scienze sono in stretto rapporto con la

natura umana, in quanto fanno parte del bagaglio conoscitivo dell’uomo e da esso sono studiate giudicate. Scrive

Hume:

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“Il solo mezzo per ottenere dalle nostre ricerche filosofiche l’esito che ne speriamo, è di abbandonare il tedioso,

estenuante metodo seguito fino ad oggi; e invece di impadronirci, di tanto in tanto, d’un castello o d’un villaggio alla

frontiera, muovere direttamente alla capitale, al centro di queste scienze, ossia alla stessa natura umana: padroni di esso,

potremo sperare di ottenere ovunque una facile vittoria”.

Un’altra novità rappresentata dal pensiero di Hume è l’esito scettico dell’indagine sul mondo esterno, che porta alle

estreme conseguenze l’empirismo lockiano. Egli, infatti, contrapponendosi agli illuministi, ritiene che la natura umana

si componga di sentimento e istinto, più che di ragione. La ragione stessa, inoltre, non è che una specie di istinto

finalizzato al chiarimento di ciò che si accetta o si crede. Al momento in cui la ragione scopre che quelle verità ritenute

oggettive - cioè fondate sulla natura stessa delle cose - sono invece soggettive e dettate dall’istinto e dall’abitudine, è

inevitabile che si crei un contrasto tra essa e l’istinto. Questo contrasto si risolve però, secodno Hume, riconoscendo che

la ragione stessa, che dubita e cerca, è una manifestazione della natura istintiva dell’uomo. Ne risulta che la conoscenza

umana è solo probabile e intrinsecamente limitata.

60. Max Scheler. (Monaco di Baviera, 22 agosto 1874 – Francoforte sul Meno, 19 maggio 1928) è stato un filosofo

tedesco.

Assieme a Husserl fu uno dei maggiori esponenti della fenomenologia tedesca. Dal 1913 (uscita del primo volume del

Formalismus) fino al 1927 (uscita di Essere e Tempo di Heidegger) fu considerato il maggior filosofo tedesco per le sue

analisi sulla persona e sulla sfera affettiva (il fenomeno del risentimento, del pudore, della simpatia, dell’amare e

dell’odiare, dell’umiltà, della meraviglia, della sofferenza, dell’angoscia della morte) in cui sviluppa e rivede molte

tematiche nietzschiane con una sensibilità profondamente ispirata dal cristianesimo (per questo fu soprannominato il

"Nietzsche cattolico

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Allegati

IL QUESTIONARIO

serve a raccogliere il giudizio dei cittadini che hanno ricevuto cure per sé o per i

propri familiari negli ospedali della Ausl di Foggia. Lo scopo è individuare quali aspetti

del servizio reso possono essere migliorati per garantire una più adeguata assistenza.

Il questionario è anonimo, per cui Le chiediamo di rispondere con assoluta sincerità

alle domande.

La preghiamo di compilarlo in ogni sua parte, in particolare La invitiamo a non

tralasciare di indicare il reparto dove è stato ricoverato. Nel caso in cui durante la

degenza sia stato ospitato in più reparti, La preghiamo di rispondere tenendo in

considerazione solo il reparto dal quale è stato dimesso.

Se Le risultasse impossibile compilare autonomamente il questionario, Le chiediamo di

ricorrere all’aiuto di un familiare.

Chi compila il questionario: � paziente ricoverato � familiare

> I DATI QUI DI SEGUITO RICHIESTI SONO RIFERITI ALLA PERSONA CHE È

STATA RICOVERATA

Sesso: � maschio � femmina

Età: � 0 – 14 anni � 15 – 44 anni � 75 – 84 anni

� 45 – 64 anni � 65 – 74 anni � 85 anni e oltre

Titolo di studio: � scuola elementare � scuola media superiore

� scuola media � laurea

Il paziente ha usufruito di:

� ricovero � visita ambulatoriale � esame

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Numero giorni di ricovero: � 3 – 7 � 15 - 21

� 8 - 14 � 22 e oltre

Reparto di dimissione:

(indicare solo l’ultimo reparto, quello da cui si è andati a casa)

� Ostetricia-Ginecologia

� Otorinolaringoiatria � Oculistica

� Chirurgia

� Urologia � Dialisi

� Medicina Interna

� Pediatria � Fibrosi Cistica

� Utic-Cardiologia � Hospice

� Ortopedia

Se durante questo ricovero il paziente è stato ospitato anche in altri reparti, lo si indichi qui di

seguito:

________________________________________________________________________

> SE LA PERSONA CHE COMPILA IL QUESTIONARIO NON È IL PAZIENTE CHE È

STATO RICOVERATO, LA INVITIAMO A RISPONDERE

ANCHE ALLE SEGUENTI TRE DOMANDE.

Sesso: � maschio � femmina

Età: � 0 – 14 anni � 45 – 64 anni � 75 – 84 anni

� 15 – 44 anni � 65 – 74 anni � 85 anni e oltre

Titolo di studio: � scuola elementare � scuola media superiore

� scuola media � laurea

1. Quanto è stato soddisfatto della gentilezza del personale medico?

� per niente

� poco

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� abbastanza

� molto

2. Quanto è stato soddisfatto della gentilezza del personale infermieristico?

� per niente

� poco

� abbastanza

� molto

3. Quanto è stato soddisfatto della disponibilità manifestata dal personale medico?

� per niente

� poco

� abbastanza

� molto

4. Quanto è stato soddisfatto della disponibilità manifestata dal personale infermieristico?

� per niente

� poco

� abbastanza

� molto

5. Ha avuto la sensazione che i medici non fossero attenti ai Suoi problemi?

� spesso

� alcune volte

� quasi mai

� mai

6. Ha avuto la sensazione che gli infermieri non fossero attenti ai Suoi problemi?

� spesso

� alcune volte

� quasi mai

� mai

2

7. E’ accaduto che medici ed infermieri parlassero di Lei come se non fosse presente?

� spesso

� alcune volte

� quasi mai

� mai

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8. I medici e gli infermieri hanno garantito la Sua privacy, ad esempio, nel comunicarLe

informazioni riservate o nello svolgere operazioni delicate al letto nella stanza insieme ad altri

pazienti?

� per niente

� poco

� abbastanza

� molto

9. Quando i medici Le hanno parlato della Sua malattia o della Sua condizione lo hanno fatto

in modo:

� molto difficile da capire

� un po’ difficile da capire

� abbastanza facile da capire

� molto facile da capire

10. I medici Le hanno spiegato i benefici del trattamento al quale è stato sottoposto?

� no, non me ne hanno parlato

� sì, ma in modo incomprensibile

� sì e in modo abbastanza facile da capire

� sì e in modo molto semplice da capire

11. I medici Le hanno parlato dei disturbi che gli esami e le cure avrebbero potuto

procurarLe?

� no, non me ne hanno parlato

� sì, ma in modo incomprensibile

� sì e in modo abbastanza facile da capire

� sì e in modo molto semplice da capire

12. I medici Le hanno detto in che modo la Sua malattia o il Suo stato possono condizionarLe

la vita quotidiana?

� no, non me ne hanno parlato

� sì, ma in modo incomprensibile

� sì e in modo abbastanza facile da capire

� sì e in modo molto semplice da capire

13. Quanto è stato soddisfatto della collaborazione fra medici di reparto e medico di famiglia?

� per niente

� poco

� abbastanza

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� molto

� non sono a conoscenza di alcuna collaborazione

14. E’ stato coinvolto come desiderava nelle decisioni sulle scelte degli esami e delle terapie da

effettuare?

� per niente

� poco

� abbastanza

� molto

� preferisco non essere coinvolto

15. I Suoi familiari hanno avuto la possibilità di parlare con i medici?

� per niente

� poco

� abbastanza

� molto

� preferisco parlare direttamente con i medici

16. Lei o i Suoi familiari avete ricevuto informazioni sulla terapia da fare a casa?

� no, non me ne hanno parlato

� sì, ma in modo incomprensibile

� sì e in modo abbastanza facile da capire

� sì e in modo molto semplice da capire

17. Quanto è stato soddisfatto del materiale consegnato alla dimissione (lettera di dimissione,

opuscoli, fogli informativi, dieta o comportamenti da seguire)?

� per niente

� poco

� abbastanza

� molto

� non mi è stato consegnato nulla

18. Quanto è stato soddisfatto dell’informazione ricevuta in merito al trattamento del dolore?

� per niente

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� poco

� abbastanza

� molto

� non mi è stata fornita nessuna informazione

19. Se ha avuto dolore durante il ricovero, è stato soddisfatto dell’attenzione e del trattamento

ricevuto per alleviarlo?

� per niente

� poco

� abbastanza

� molto

20. Come ha ritenuto la durata del suo periodo di degenza?

� non adeguata al mio problema di salute perché troppo breve

� non adeguata al mio problema di salute perché eccessiva

� abbastanza adeguata al mio problema di salute

� adeguata al mio problema di salute

21. Ritiene che le Sue condizioni di salute siano cambiate in seguito al ricovero?

� il mio stato di salute si è aggravato

� il problema non è stato risolto

� il problema è stato risolto solo in parte

� il problema è stato risolto completamente

22. Se prima del ricovero è passato dal Pronto Soccorso, è stato soddisfatto dell'attenzione e

del trattamento ricevuto?

� per niente

� poco

� abbastanza

� molto

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23. Quanto è stato soddisfatto dei seguenti aspetti organizzativi dell’ospedale?

per

niente poco abbastanza molto

A) della possibilità di parcheggio

B) della raggiungibilità dell’ospedale con i mezzi

pubblici

C) della segnaletica (cartelli, ecc.) interna all’ospedale

D) della pulizia dei bagni e degli ambienti

E) del silenzio dell’ambiente

F) della qualità e quantità dei pasti

G) dell’orario di visita per i familiari

H) del numero dei professionisti presenti nel reparto di

ricovero

I) della collaborazione fra reparti e servizi (trasferimenti,

esami, consulenze, ecc.)

24. Se vuole può scrivere qui precisazioni, suggerimenti o quanto intende comunicarci:

________________________________________________________________________

________________________________________________________________________

________________________________________________________________________

________________________________________________________________________

________________________________________________________________________

________________________________________________________________________

Grazie per la collaborazione e per il tempo dedicatoci.

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Bibliografia – Sitografia

- Augusto Murri (iscrizione presso L’ospedale di San Giacomo di Roma)

- Patto per la Salute 2014-2016 – Ministero della Salute, art.4, Umanizzazione delle cure, 10 luglio 2014

- Fabrizio Turoldo, (2007) – Etica e umanizzazione delle cure; (2010) – L’etica di fine vita;

- Giuseppe Manzato (2010) – La relazione medico – paziente fra tecnica ed etica

- L.R. Angeletti, V.Cazzaniga (2008) – “Storia, Filosofia ed Etica generale della Medicina”

- N. Elias (1983) Engagement und distanzierung

- Epistulae morales a Lucilium (Seneca) 94, 11-17

- Galeno – Il miglior medico

- Cartesio – Opere filosofiche – I principi della filosofia vol.3

- I. Kant – De Medicina Corporis

- K. Jaspers – Il medico nell’età della Tecnica

- Paul Ricoeur, (2006) – Il giudizio medico; (2011) - Sé come altro

- Michael Balint (2014) – Medico, paziente e malattia

- www. Filosofo.net

- www. treccani

- www oilproject.org

- www. enciclopediadellaPNL

- www. IPASVI

- www. nurse24

- www. wikipedia

- il caffè filosofico –il sole 24ORE

- Protagonisti e Testi della Filosofia (Paravia)

- Storia della Filosofia – Nicola Abbagnano.