Facoltà di Farmacia e Medicina - Ordine Medici Latina · soccorso e Osservazione Breve Intensiva),...

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Facoltà di Farmacia e Medicina Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive Scuola di Specializzazione di Malattie Infettive Direttore: Chiar.mo Prof. Vincenzo Vullo Tesi di Specializzazione Analisi degli eventi epidemici in ospedale: dalla pratica clinica alle misure di controllo Relatore: Specializzanda: Prof. Claudio M. Mastroianni Dott.ssa Valeria Belvisi matricola: 943706 Anno Accademico 2013-2014

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Facoltà di Farmacia e Medicina

Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive

Scuola di Specializzazione di Malattie Infettive

Direttore: Chiar.mo Prof. Vincenzo Vullo

Tesi di Specializzazione

Analisi degli eventi epidemici in ospedale:

dalla pratica clinica alle misure di controllo

Relatore: Specializzanda:

Prof. Claudio M. Mastroianni Dott.ssa Valeria Belvisi

matricola: 943706

Anno Accademico 2013-2014

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“L’educazione consiste nel darci delle idee,

la buona educazione nel metterle in proporzione.”

(Montesquieu)

Desidero ringraziare il Professor Claudio Mastroianni e tutti i colleghi medici e infermieri

del mio Reparto di Malattie Infettive, la mia seconda famiglia.

La migliore educazione alla vita e alla professione la ricevo quotidianamente da voi.

Un ringraziamento speciale lo rivolgo anche ai colleghi che si sono prestati in prima

persona a fornire buona parte dei materiali da cui è stata elaborata questa tesi, non

tanto per il contributo al mio lavoro, quanto per l’opera che svolgono tutti i giorni nella

ASL di Latina. Un breve elenco: la Dr.ssa Annalisa Grandinetti (Direzione Medica); la

Dr.ssa Patricia Porcelli (Dipartimento di Prevenzione), il Dr. Francesco Albertoni

(Epidemiologia Clinica), il Dr. Luciano Tega e il Dr. Giovanni Blanco (Sezione di

Microbiologia dell’U.O.C. di Patologia Clinica), la Dr.ssa Luisa Di Macio (U.O.S. Medico

Competente), la Dr.ssa Alessandra Mingarelli e la Dr.ssa Elena Jacoboni (U.O.C. Assistenza

Farmaceutica Ospedaliera), Dr. Paolo Nucera e Dr. Mario Mellacina (U.O.C. Pronto

soccorso e Osservazione Breve Intensiva), il Dr. Carmine Cosentino, la Dr.ssa Elia Di

Vincenzo e la Dr.ssa Antonella Melucci (U.O.C. Rianimazione), Dr. Massimo Aiuti (U.O.C.

Medicina d’Urgenza e Subintensiva Medica), la Dr.ssa Adriana Ianari (U.O.C. Rischio

Clinico).

Lo scopo del lavoro è anche fornire un quadro dei progressi fatti negli anni di

collaborazione, con l’augurio che si possa proseguire in questa direzione di crescita.

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Indice

PARTE INTRODUTTIVA 4

Eventi epidemici correlati all’assistenza sanitaria 5

- Definizione 5

- Eziologia 5

- Rilevanza 9

- Aree a rischio di cluster epidemici 11

- Dinamiche della trasmissione epidemica 15

- Sistemi di sorveglianza e controllo 22

PARTE SPERIMENTALE 27

Scopo della ricerca 28

Setting della ricerca 28

Metodi 30

- Strategie di sorveglianza 30

Storia degli organi di controllo aziendali: dal CIO al CC-ICA 33

Analisi dei singoli eventi epidemici e interventi di controllo specifici 43

-Influenza H1N1v 43

Klebsiella pneumoniae produttrice di carbapenemasi (KPC) 63

Clostridium difficile 76

Scabbia 88

Tubercolosi 95

Legionellosi 105

Malattia da Virus Ebola (MVE) 113

Discussione e conclusioni 122

Bibliografia 123

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PARTE INTRODUTTIVA

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Eventi epidemici correlati all’assistenza sanitaria

Definizione

La dizione “epidemia” fa riferimento, in maniera letterale, alla diffusione rapida in una

zona più o meno vasta di una malattia contagiosa. Le malattie infettive di per sé vengono

associate al concetto di malattia contagiosa, cioè nell’immaginario collettivo altamente

diffusiva e in grado di causare epidemie. Solo in una minoranza dei casi però ciò è vero.

L’inquadramento di una patologia per la sua rilevanza epidemiologica è nel nostro Paese

fornito dal sistema di notifica delle malattie infettive, in vigore dal 1934 e ridefinito dal

decreto emanato dal Ministero della Sanità del 15/12/90 come Sistema Informativo per le

Malattie Infettive (www.simi.iss.it).

In ambito nosocomiale un’epidemia è definita in termini probabilistici come un aumento

statisticamente significativo della frequenza di infezione rispetto alla frequenza di

infezione osservata precedentemente (Beck-Saguè et al., 1997). Tale definizione

sottolinea come il numero di casi necessari a decidere se si sia verificata o meno

un’epidemia varia per ciascuna infezione e dipende dalla frequenza endemica di quella

specifica infezione in un determinato reparto o ospedale.

Un caso particolare è quello dei “cluster epidemici” : tali eventi sono caratterizzati dalla

comparsa di alcuni casi di infezione, che condividono uno o più fattori di rischio. Nei

cluster l’aumento della frequenza di infezioni non è statisticamente significativo, per cui

non si può parlare di una vera e propria epidemia, ma le caratteristiche epidemiologiche

dei casi suggeriscono che i fattori che hanno determinato la comparsa di infezione sono

gli stessi.

Eziologia

Per ciò che attiene alla diagnosi di sede, le Infezioni Ospedaliere (IO) ovvero, più

propriamente, le Health Care Associated Infections (HCAI) vengono raggruppate dai

CDC/NHSN in tredici categorie principali, in base alla localizzazione:

Infezioni delle vie urinarie (UTI)

Infezioni del sito chirurgico (SSI)

Infezioni del circolo sanguigno/sepsi (BSI)

Polmoniti (PNEU)

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Infezioni osteo- articolari (BJ)

Infezioni del sistema nervoso centrale (CNS)

Infezioni del sistema cardiovascolare (CVS)

Infezioni di occhio, naso, faringe, bocca (EENT)

Infezioni dell’apparato gastrointestinale (GI)

Infezioni delle basse vie respiratorie, diverse dalla polmonite (LRI)

Infezioni dell’apparato riproduttivo (REPR)

Infezioni della cute e dei tessuti molli (SST)

Infezioni sistemiche (SYS)

Queste sono a loro volta suddivise in ulteriori sottocategorie. Per ognuna di queste sono

specificati i requisiti essenziali per porre diagnosi. Nella pratica clinica la gran parte delle

infezioni responsabili di cluster epidemici ospedalieri possono essere ricondotte ad alcune

delle categorie sopra elencate.

Per ciò che attiene all’agente patogeno, numerosissimi sono i microorganismi (virus,

batteri, miceti e parassiti) potenzialmente in causa. Un elenco alfabetico dei più analizzati

in letteratura anche in relazione a interventi di controllo specifici è il seguente:

Aspergillosi

Bacilli produttori di ESBL e/o Carbapenemasi

Candidiasi

Clostridium difficile

Congiuntiviti adenovirali

Epatite virale B

Epatite virale C

Influenza

Legionellosi

Malattia meningococcica

Morbillo

MRSA - Stafilococchi meticillina-resistenti

Pertosse

Streptococcus pneumoniae

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Salmonellosi (non tifoidee)

Scabbia

SBEGA - Malattie da Streptococco Beta emolitico di gruppo A

Tubercolosi

Varicella / Herpes zoster

VRE - Enterococchi vancomicina-resistenti

VRS - Virus respiratorio sinciziale

Rotavirus

Le tre principali proprietà dei microrganismi patogeni ai fini epidemiologici sono:

1. L’infettività: la propensione ad essere trasmesso, viene misurata con il tasso di

attacco secondario in una popolazione chiusa

2. La patogenicità: la propensione di un agente a causare malattia e sintomi clinici,

viene misurata dal rapporto infezioni apparenti / infezioni inapparenti

3. La virulenza: la propensione di un agente a causare patologia severa, è misurata

dal rapporto casi fatali/casi totali

Molti dei microorganismi causa di eventi epidemici nosocomiali sono in realtà anche

patogeni presenti frequentemente in comunità (es. virus dell’influenza, tubercolosi,

scabbia), altri sono invece caratteristici proprio del paziente con ripetuti contatti

ospedalieri (es. Clostridium difficile, MRSA , Gram negativi produttori di ESBL e/o

Carbapenemasi).

Fondamentale è quindi il concetto che microrganismi selezionati, essenzialmente batteri

noti per le loro capacità di antibiotico-resistenza, diffusività e letalità, debbano costituire

cosiddetti “patogeni sentinella”. La loro incidenza va attentamente osservata in contesti

di cura per segnalarne rapidamente un aumento e prendere adeguati provvedimenti di

contenimento. A questa categoria appartengono essenzialmente:

Stafilococco meticillina-resistente (MRSA)

Enterococco vancomicina-resistente (VRE)

Gram negativi MDR (es. Acinetobacter baumannii e Klebsiella pneumoniae)

La più studiata ed esemplare in tal senso è la dinamica di diffusione di MRSA, considerato

un classico “microorganismo sentinella”. La prima epidemia ospedaliera da MRSA negli

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USA si verificò alla fine degli anni ‘60; successivamente sono state riportate numerose

epidemie in tutto il mondo. Inizialmente isolato solo negli ospedali di terzo livello, MRSA è

ora diventato endemico in molte istituzioni ed è anche stato isolato nella comunità da

pazienti senza una storia di precedente ospedalizzazione.

I fattori di rischio per l’acquisizione di MRSA includono ricoveri pregressi, permanenza

presso le residenze sanitarie assistite, prolungata durata della degenza, precedente

terapia antibiotica, diabete, lesioni cutanee, ricovero in una terapia intensiva, centro

ustionati, chirurgia, e prossimità a un paziente con MRSA. La colonizzazione spesso

precede l’infezione e tra il 30 e il 60% dei pazienti colonizzati sviluppa un’infezione da

MRSA; i pazienti possono rimanere colonizzati per diversi mesi. Possono verificarsi anche

colonizzazioni prolungate di personale ospedaliero per 3 o più mesi.

La modalità di trasmissione è persona-persona per contatto diretto con persone

colonizzate o infette. Le mani degli operatori sanitari sono considerate la modalità

principale di trasmissione persona-persona e il personale infetto o colonizzato ha

rappresentato il serbatoio in epidemie a sorgente comune (operatori con infezioni

croniche del tratto respiratorio inferiore o con infezioni cutanee da MRSA, lavoratori

portatori nasali da MRSA). Sebbene MRSA possa essere isolato dall’ambiente inanimato

immediatamente vicino al paziente con MRSA, le superfici ambientali non sono

considerate un serbatoio importante.

Le misure di controllo da usare - sia in caso di trasmissione endemica che di epidemia -

sono le seguenti: lavaggio delle mani, sorveglianza a partire dai dati di laboratorio

(revisione delle colture positive) per identificare i casi (sia infetti che colonizzati), colture

di sorveglianza per identificare pazienti e operatori sanitari infetti e colonizzati, cohorting

di residenti colonizzati o infetti, trattamento di coloro che sono infetti, programmi

educativi al personale sulle misure da adottare per prevenire la diffusione dei

microrganismi, decolonizzazione dei residenti e del personale in particolari situazioni.

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Rilevanza

Le epidemie in un contesto di cura sono eventi rari, ma attesi, la cui frequenza varia da 1

a 3 eventi ogni 10.000 ricoveri ospedalieri. Se le epidemie vengono identificate

tempestivamente, vengono rapidamente adottate appropriate misure di controllo e

identificate fonti e meccanismi di trasmissione, è possibile ridurne in modo significativo

l’impatto, e soprattutto è possibile modificare eventuali pratiche non corrette che

possono averne condizionato l’insorgenza. La rilevanza delle epidemie in strutture

sanitarie non è ascrivibile alla loro frequenza: la proporzione di casi di infezioni acquisite

nel corso di epidemie è, infatti, molto più bassa rispetto alla proporzione di casi endemici.

Le epidemie sono importanti per altri motivi:

1. si verificano frequentemente in reparti ad alto rischio e spesso si manifestano

clinicamente come batteriemie: la mortalità nel corso di epidemia è elevata;

2. sono nella maggior parte dei casi attribuibili a errori nelle pratiche di assistenza al

paziente e sono quindi frequentemente prevenibili: la loro tempestiva

identificazione e l’attuazione di interventi mirati devono rappresentare obiettivi

prioritari dei programmi di controllo delle infezioni;

3. mettono in evidenza problemi assistenziali misconosciuti o sottovalutati:

un’indagine epidemiologica in grado di identificare con chiarezza tali problemi

consente di avviare un processo di sensibilizzazione del personale, mirato a

ridefinire i protocolli assistenziali;

4. contribuiscono ad accrescere le conoscenze sulle fonti e i meccanismi di

trasmissione delle infezioni in ospedale

5. pongono problemi di natura medico-legale e hanno un elevato impatto emotivo

su mass media e popolazione generale: è quindi necessario curare con attenzione

gli aspetti di comunicazione del rischio.

L’impatto sulla conoscenza dei fattori di rischio (punto 4) è evidenziato ad esempio dal

fatto che il rischio associato a molte procedure invasive è stato inizialmente messo in

evidenza dal verificarsi di fenomeni epidemici nei pazienti esposti a tali fattori. La buona

conoscenza epidemiologica della realtà locale è preliminare a qualunque episodio

epidemico, fondamentalmente per capire se l’incremento dei casi di infezioni segnalate è

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superiore a quanto atteso nella normale pratica assistenziale e quindi frutto di

“malpractice” (punto 3). Come esempio tratto dalla realtà locale oggetto della presente

tesi, riportiamo il lavoro epidemiologico preliminare svolto nella U.O.C. di Terapia

Intensiva e Rianimazione dell’Ospedale S. M. Goretti nel periodo compreso dal giugno

2008 a febbraio 2009 (202 pazienti).

Obiettivo del lavoro era studiare le infezioni nosocomiali nel contesto di un reparto

intensivo (ICU) ponendolo in relazione con vari fattori, fra i quali variabili legate al

paziente (nei trenta giorni prima del ricovero: patologie di base, ospedalizzazione

precedente al ricovero in ICU; gravità clinica all’ingresso) e variabili correlate alla degenza

in ICU (motivo del ricovero, durata del ricovero, tipo di esposizioni a device, presenza e

tipo di terapia antibiotica instaurata prima dell’isolamento di patogeni). L’indagine aveva

evidenziato come la nostra Terapia Intensiva non si discostava da quanto osservato nelle

unità di terapia intensiva degli altri ospedali italiani né per la tipologia di microrganismi

MDR isolati (nel periodo analizzato era particolarmente diffuso Acinetobacter baumannii),

né per le categorie di pazienti più a rischio per lo sviluppo di infezioni (ricoverati in seguito

a politrauma e pazienti sottoposti a interventi neurochirurgici; pazienti con fattori di

rischio antecedenti il ricovero: età avanzata, diabete mellito, terapia cortisonica; pazienti

con maggior numero di giorni di degenza, pazienti con GCS più basso e pazienti esposti a

catetere venoso centrale (CVC) e intubazione oro-tracheale (IOT) per più lungo tempo,

pazienti sottoposti a precedente terapia antibiotica prolungata) . Tuttavia un dato

particolare emergeva dall’analisi multivariata con la valutazione delle differenze fra il

rischio correlato a diversi devices invasivi ( IOT, derivazione liquorale, nutrizione

parenterale, nutrizione enterale): la presenza di sondino naso-gastrico e nutrizione

enterale come statisticamente significativa (p= 0,0008) per l’insorgenza di infezioni, cosa

anomala rispetto alla letteratura precedente e che ne poteva suggerire un miglioramento

della gestione nei protocolli di nursing.

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Aree a rischio di cluster epidemici

Non esistono molti studi in letteratura che si siano posti l’obiettivo di descrivere la

frequenza generale delle epidemie intraospedaliere (Tab. 1).

Tabella 1. Frequenza di epidemie di infezioni ospedaliere in letteratura.

Autore Anni Contesto Incidenza/

10.000

ricoveri

% su tutte

le IO

Haley 1970-1980 7 ospedali di comunità, USA 0,8/10.000 2,0%

Wenzel 1978-1982 Università della Virginia, USA 1/10.000 3,7%

Ostrosky-Zeichner 1985-1998 Ospedale generale di elevata

complessità, Messico

3/10.000 1,5%

All’inizio degli anni ‘70, i Centers for Disease Control (CDC) negli Stati Uniti hanno rilevato

e indagato tutte le epidemie verificatesi in sette ospedali in un periodo di 12 mesi (Haley

et al., 1985): la frequenza di epidemie era pari a 0,8 ogni 10.000 pazienti ricoverati e le

epidemie rappresentavano il 2% di tutti i pazienti con infezione ospedaliera. Un

successivo studio di Wenzel in un ospedale universitario ha invece rilevato, in un periodo

di cinque anni, un’incidenza di epidemie pari a 0,98 per 10.000 ricoveri e una proporzione

di casi epidemici pari al 3,7% di tutte le infezioni ospedaliere (Wenzel et al., 1983).

La diversa incidenza di epidemie osservata nei due studi può essere attribuita alla diversa

tipologia degli ospedali studiati: ospedali di comunità con pochi reparti a rischio nel primo

caso, un ospedale universitario con diversi reparti di terapia intensiva nel secondo caso.

Lo studio di Wenzel sottolinea infatti due ulteriori importanti caratteristiche

epidemiologiche:

• la maggior parte delle epidemie si verifica in reparti di terapia intensiva: su 11 epidemie

rilevate, 10 erano insorte in pazienti ricoverati in questi reparti;

• le batteriemie si verificano più frequentemente nell’ambito di episodi epidemici: su 11

epidemie, 9 erano sostenute da batteriemie e l’8% dei pazienti con batteriemia, durante i

cinque anni di sorveglianza, l’aveva acquisita nel corso di un’epidemia.

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Un altro studio in Messico, che ha rilevato l’incidenza di epidemie ospedaliere in un arco

di tempo di più di un decennio, ha riportato un’incidenza più elevata di eventi epidemici:

3/10.000 ricoveri (Ostrosky-Zeichner et al., 2000).

Per quanto concerne i cluster epidemici, è stato stimato che circa il 6% di tutte le infezioni

ospedaliere viene contratto nell’ambito di cluster. In totale, circa il 10% delle infezioni

ospedaliere si verificherebbe dunque nel corso di epidemie o di cluster epidemici

(Wenzel, 1983, 1987).

Queste stime, sono state riportate alla realtà italiana e in particolare nella regione Emilia-

Romagna, capofila nelle politiche di controllo delle infezioni correlate all’assistenza, è

stato evidenziato come tutti i presidi ospedalieri, soprattutto se con un volume medio o

elevato di attività, devono attendersi che si verifichino ogni anno diversi episodi

epidemici: in un presidio con più di 50.000 ricoveri/anno si attendono da 5 a 18 episodi

epidemici in un anno e da 250 a più di 400 casi di infezione nell’ambito di un’epidemia

vera e propria o di un cluster epidemico (M.L. Moro, 2006).

Il rischio di epidemie e cluster epidemici non è confinato ai soli ospedali per acuti: tali

eventi sono frequenti anche nelle strutture residenziali per anziani, anche se non esistono

dati numerici precisi sulla frequenza attesa. Vi sono però molte evidenze (diversi studi di

sorveglianza che hanno evidenziato eventi epidemici in RSA; pubblicazione di indagini su

eventi epidemici da parte dei CDC; il fatto che le segnalazioni di eventi epidemici

costituiscono un terzo di tutti gli articoli in tema di malattie infettive nelle nursing homes)

che sostengono l’ipotesi che rappresentino un evento molto frequente (Strausbaugh et

al., 2003).

Ricapitolando, i contesti di cura che rappresentano spesso luoghi sentinella per

l’emergenza di nuovi rischi di trasmissione e che risultano più a rischio di cluster

epidemici sono:

Le Unità di Terapia Intensiva: sebbene questi reparti ricoverino una proporzione

relativamente ridotta di tutti i pazienti ospedalizzati, le infezioni acquisite da tali

pazienti rappresentano più del 20% di tutte le infezioni associate all’assistenza. A

causa delle loro gravi condizioni di base, dei dispositivi medici invasivi e delle

tecnologie utilizzate, della elevata frequenza di interventi chirurgici e contatto con

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il personale sanitario in generale, della prolungata durata di esposizione ad agenti

antimicrobici, i pazienti ospitati in Terapia Intensiva hanno una aumentata

suscettibilità alle colonizzazioni e infezioni, soprattutto con microrganismi

multiresistenti.

Le Unità di terapia intensiva pediatrica e neonatale presentano tassi di batteriemia

associata al catetere venoso centrale più elevati rispetto alle terapie intensive per

adulti. Inoltre, vi è una elevata prevalenza di infezioni acquisite in comunità tra i

bambini ospedalizzati, soprattutto durante le epidemie stagionali (es. pertosse,

virus respiratorio sinciziale, influenza, para-influenza, adenovirus; morbillo;

varicella e infezioni da rotavirus). Lo stretto contatto fisico tra personale sanitario

e neonati o bambini (accudire, dare da mangiare, giocare, cambiare i pannolini,

pulire le copiose e incontrollate secrezioni respiratorie) crea abbondanti

opportunità per la trasmissione degli agenti infettivi.

Le unità di emodialisi: i pazienti dializzati hanno un sistema immunitario

compromesso e richiedono procedure invasive (incluso l’accesso frequente al

torrente sanguigno), il che li mette a rischio elevato di infezioni, soprattutto

cutanee e sistemiche. Diversi eventi epidemici hanno riguardato la trasmissione di

patogeni ematici, in primo luogo i virus dell’epatite B e C.

Contesti assistenziali per pazienti non acuti:

Lungodegenze : sono luoghi di cura a bassa intensità ma dove i fattori di

rischio nelle sono numerosi infatti il progressivo declino del sistema

immunitario legato all’età avanzata degli ospiti può modificare la capacità

di risposta alla vaccinazione per l’influenza e altri agenti infettivi o

incrementare la suscettibilità alla tubercolosi, l’immobilità, l’incontinenza,

la disfagia e le modifiche della cute legate all’età aumentano la

suscettibilità alle infezioni delle vie urinarie, respiratorie, della cute e dei

tessuti molli, mentre la malnutrizione ostacola la guarigione delle ferite. I

molti altri farmaci assunti alterano il livello di coscienza, le funzioni

immunitarie, la secrezione gastrica e la flora normale residente e

modificano la suscettibilità alle infezioni. La terapia con antibiotici, i

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dispositivi invasivi, le sonde per l’alimentazione enterale, la totale

dipendenza dal personale di assistenza per le attività della vita quotidiana

(identificata come un fattore di rischio indipendente per la colonizzazione

con MRSA e Gram negativi ESBL +) e il fatto che alcuni ospiti di tali

strutture, in cui è ricreata una atmosfera di vita più familiare, siano

relativamente autonomi e liberi di spostarsi da una stanza all’altra, o

viceversa il fatto che alcuni vengano da ripetute ospedalizzazioni in

contesti diversi, sono tutti fattori che contribuiscono al diffondersi delle

colonizzazioni da germi MDR.

Assistenza ambulatoriale: anche l’assistenza sanitaria episodica, durante la

quale il paziente staziona a lungo in spazi comuni a causa dei prolungati

tempi di attesa prima di essere visitato o trattato, dove i pazienti visitati si

avvicendano rapidamente in stanze sottoposte a pulizia minima, o dove i

pazienti infetti possono non essere riconosciuti immediatamente, può

predisporre all’insorgenza di HCAI. Talvolta si tratta anche di pazienti

fortemente immunocompromessi (es. pz onco-ematologici sottoposti a

chemioterapia). Oltre alle eziologie batteriche più tipicamente nosocomiali

e trasmesse per contatto persona-persona, l’infezione da Mycobacterium

tubercolosis è l’infezione aerea più frequentemente trasmessa nel contesto

ambulatoriale. Vi sono anche state segnalazioni di trasmissione del

morbillo. Da segnalare che in alcuni contesti (es. day hospital e day

surgery, ambulatori odontoiatrici, cliniche e studi oculistici, endoscopia

gastrointestinale e broncoscopia, centri di chirurgia ambulatoriale)

l’assistenza ambulatoriale può essere considerata anche sempre più

fisicamente invasiva, attraverso procedure che procurando soluzioni di

continuo delle normali barriere protettive corporee, predisponendo

all’insorgenza di infezioni anche gravi (infezioni del sito chirurgico,

batteriemie).

Assistenza domiciliare: sempre più diffusa, presenta di fatto rischi simili a

quelli delle strutture precedentemente elencate, in quanto è prestata a

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pazienti fragili di tutte le età con patologie acute o croniche, che

necessitano di terapia riabilitativa, cura delle ferite post-operatorie,

terapia infusionale, dialisi peritoneale, assistenza alle attività di vita

quotidiana.

Dinamiche della trasmissione epidemica

Valutare un evento epidemico implica la conoscenza di base di alcuni concetti

epidemiologici, tali da permettere la misurazione oggettiva del numero di casi di una data

malattia e il loro effettivo anomalo rapido incremento in un dato luogo e lasso temporale.

Le misure fondamentali di frequenza delle malattie sono due: la prevalenza e l'incidenza.

La prima, come una fotografia, fornisce una immagine della proporzione di individui di

una popolazione che in un dato momento presentano la malattia. Si calcola come M+ /

(M++ M-) dove M+ rappresenta il numero di ammalati e M- il numero di soggetti "a

rischio". Poiché il fattore «tempo» - a rigore - non è importante nel calcolo della

prevalenza, questa misura è di tipo statico e quindi non è un «tasso»; si tratta invece di

una «proporzione» (quindi assume un valore compreso fra 0 e 1, o percentuale).

L’incidenza invece misura la proporzione di "nuovi eventi" che si verificano in una

popolazione in un dato periodo di tempo. Si calcola come M+ / M- , dove M- rappresenta il

numero di soggetti rimasto esente da malattia nel dato intervallo temporale osservato.

L’incidenza cumulativa è quindi una misura dinamica e costituisce un vero “tasso”.

L'incidenza è importante nello studio delle cause di malattia e del loro effetto a livello di

popolazione: infatti una variazione dell'incidenza testimonia una modificazione

dell'equilibrio dei determinanti di malattia o una modificazione dello stato

di recettività della popolazione. Talvolta, nella misurazione dell'incidenza, il calcolo del

denominatore (ossia dei soggetti a rischio nel periodo) è impossibile. È questo il caso delle

popolazioni “aperte”, ossia quando si verificano entrate ed uscite dei soggetti della

popolazione in studio durante il periodo di osservazione. La «densità di incidenza» si

calcola ponendo al numeratore i nuovi casi di malattia, al denominatore si pone, invece,

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la somma di tutte le unità di tempo di osservazione di tutti i soggetti prima che l'evento-

malattia si sia verificato; per questo motivo, il denominatore viene misurato in

tempo/soggetti (es. paziente-anno, individuo-mese ecc.).

Il tasso di attacco può essere considerato un caso particolare di incidenza, che trova

applicazione quando l'esposizione ai determinanti di malattia è avvenuta per breve

durata, e di solito su popolazioni chiuse o ben definite ed a numerosità limitata. Si calcola

come D/(D+N), dove D indica il numero di casi di malattia che si verificano in un

determinato lasso di tempo, mentre N indica i soggetti a rischio rimasti sani nel periodo.

Una misura di frequenza collegata al tasso di attacco è il tasso di attacco secondario: si

applica esclusivamente alle malattie trasmissibili, ed indica la proporzione dei casi (detti

casi secondari) che si sviluppano per contatto con uno o più casi primari entro un tempo

corrispondente al periodo di incubazione della malattia. Per «caso primario» o «caso-

indice», si intende il primo soggetto della popolazione che si ammala della malattia

trasmissibile in questione.

Il tasso di attacco costituisce l’elemento fondamentale per convalidare il sospetto di

trovarsi di fronte a un evento epidemico effettuando un primo confronto con i dati

epidemiologici disponibili relativi al periodo pre-epidemico ovvero confrontando tasso di

attacco della data patologia infettiva nel periodo analizzato con quello antecedente. Nella

maggior parte dei casi, gli unici dati disponibili saranno quelli dell’archivio di laboratorio.

Da questi sono ricavabili i dati relativi alla frequenza di isolamenti del microrganismo in

causa nel periodo pre-epidemico. Il periodo epidemico si definisce molto facilmente: è il

periodo di tempo intercorso fra l’insorgenza del primo caso di infezione e l’ultimo caso

verificatosi al momento dell’indagine. L’intervallo di tempo da prendere in considerazione

prima dell’epidemia dovrà invece essere definito arbitrariamente, in relazione al numero

di casi: se la frequenza dell’infezione in studio è bassa, sarà necessario raccogliere i dati

relativi a tutto l’anno precedente; ciò permette anche di eliminare l’effetto di eventuali

variazioni stagionali. Se la frequenza di infezioni è elevata, è comunque opportuno

prendere in considerazione almeno un periodo di 6 mesi prima dell’epidemia.

Presupposto a tali calcoli è comunque la conoscenza generale del concetto

epidemiologico di “Basic Reproduction Number” meglio conosciuto come “R0”: il numero

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medio di soggetti che un caso sintomatico è in grado di infettare in una popolazione

completamente suscettibile. Questa misura aiuta a definire come una patologia infettiva

è in grado di diffondersi in una popolazione. Le basi di questo concetto sono state gettate

dai lavori di Alfred Lotka e Ronald Ross, ma la prima applicazione epidemiologica

strutturata è stata data nel 1952 dal lavoro di George MacDonald con la costruzione del

modello matematico di diffusione della malaria.

Se

R0 < 1

l’infezione tende ad estinguersi nel tempo. Ma se

R0 > 1

l’ infezione sarà in grado di diffondersi nella popolazione. Tendenzialmente più è alto il

valore di R0 più è difficile controllare una epidemia.

Considerando la misura preventiva della vaccinazione, la proporzione di popolazione che

necessita di esser vaccinata per prevenire il diffondersi della vaccinazione è calcolata

come 1-1/R0.

R0 per una data infezione è influenzato da vari fattori, riassunti nella formula matematica:

R0 ∝ ( infezione / contatto) · ( contatto / tempo) · ( tempo/ infezione)

ovvero

R0 = τ · c¯ · d

dove τ è la trasmissibilità (cioè la probabilità che una infezione nasca dal contatto con un

altro individuo infetto), ¯c è il tasso medio di contatto tra individui suscettibili e individui

infetti, e d è il periodo di contagiosità.

Nella pratica R0 può variare di molto per le diverse caratteristiche di interazione fra ospite

e patogeno, come riassunto in tabella 2.

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Tabella 2. Valori di R0 di alcune patologie infettive.

Patologia Trasmissione R0

MORBILLO Aerea 12-18

PERTOSSE aerea/droplets 12-17

DIFTERITE Droplets 6-7

VAIOLO aerea/droplets 5-7

POLIOMIELITE oro-fecale 5-7

ROSOLIA aerea/droplets 5-7

PAROTITE EPIDEMICA aerea/droplets 4-7

HIV Parenterale 2-5

SARS aerea/droplets 2-5

INFLUENZA (ceppo

pandemico del 1918)

aerea/droplets 2-3

EBOLA (in riferimento

all’epidemia 2014/15 in

Africa Occidentale)

contatto con fluidi corporei 1,5-2,5

Vari modelli matematici sono stati elaborati per la predizione dell’andamento delle

epidemie. Il primo a ipotizzare un modello matematico a tal proposito fu il fisico e

matematico francese Daniel Bernoulli nel saggio ”Nuova analisi della mortalità causata dal

vaiolo e studio dei vantaggi connessi alla vaccinazione preventiva” del 1760.

Nel cosiddetto “Modello SIR” la popolazione viene divisa in tre classi (compartimenti):

suscettibili, cioè i sani S (possono essere infettati dalla malattia) infetti I e i rimossi R

(dopo essere stati malati, non sono più infetti perché guariti e immunizzati, oppure in

quarantena o infine, perché’ morti). Altri tipi di modelli sono:

- modello SI: in cui dopo la fase di infezione non si acquisisce immunita’ alla

malattia

- modello SEIR: in cui la classe E (dall’inglese ”expecting”) è quella degli individui in

cui la malattia è latente.

Tali modelli, anche se introducono ulteriori variabili rispetto al SIR, sono comunque

validi solo in circostanze particolari cioè se:

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a. durante l’epidemia la popolazione non si riproduce e, inoltre, la causa prevalente

di morte durante l’epidemia è proprio la malattia epidemica

b. la popolazione è isolata e la numerosità totale è costante: S(t) + I(t) + R(t) = N

c. non vi è incubazione per il morbo e il contagio e l’eventuale immunità sono

istantanei

d. tutti gli individui infetti sono ugualmente contagiosi, cioè l’infettività non

dipende da quanto tempo è passato dal momento in cui l’infezione è stata

contratta.

La differenza fra patologia endemica e epidemica è introdotta nel modello matematico di

Kermack e McKendrick che prevede che, data una popolazione composta da N individui

in cui il contagio è istantaneo ed avviene con tasso C, se M è il tasso di mortalità per la

malattia epidemica e k è la percentuale di incontri fra sani e malati, allora la malattia può

essere endemica oppure può esplodere, senza essere fatale per tutti gli individui. Il primo

caso si ha se il numero iniziale di sani non supera la soglia M/kC, in caso contrario si ha la

seconda eventualità. Il parametro M/kC è detto ”valore di soglia” dell’epidemia.

L’andamento nel tempo di un’epidemia è normalmente illustrato attraverso un

istogramma in cui il numero di casi e rappresentato sull’asse y e la data di insorgenza dei

sintomi sull’asse x.

Il grafico, denominato “curva epidemica”, può aiutare:

- nel confermare l’esistenza di una epidemia;

- prevedere la futura evoluzione dell’epidemia;

- identificare le modalità di trasmissione;

- determinare il possibile periodo di esposizione e/o di incubazione della malattia in

esame;

- identificare i casi con insorgenza dei sintomi al di fuori del corpo della curva il che

può fornire importanti indicazioni sulla fonte o sul caso/indice.

Per costruire una curva epidemica è necessario conoscere il momento dell’insorgenza dei

sintomi. Nel caso di patologie a lungo periodo di incubazione è sufficiente conoscere il

giorno di insorgenza mentre, in patologie a corta incubazione, come la maggior parte

delle malattie trasmesse da alimenti, si devono annotare giorno e ora. Come regola

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generale, l’unità di tempo riportata sulle ascisse non dovrebbe essere superiore a un

quarto del periodo di incubazione della malattia indagata (questa regola non e applicabile

quando il focolaio si estende in un periodo di tempo molto lungo).

Sul grafico dovrebbe essere considerato anche il periodo pre-epidemico per meglio

rappresentare gli antefatti del numero atteso di casi o individuare il caso indice.

L’aspetto di una curva epidemica e determinato da:

- il modello epidemico (fonte comune a sorgente puntiforme, intermittente

continua o trasmissione interumana);

- il periodo di tempo entro il quale le persone hanno subito l’esposizione;

- il periodo di incubazione della malattia.

Nei focolai con fonte comune la fonte di esposizione può essere in un unico momento

temporale (sorgente puntiforme) in momenti ricorrenti (fonte comune intermittente), o

in un periodo continuo di tempo (fonte comune continua).

In caso di sorgente puntiforme la curva si presenta con una rapida salita e una discesa più

graduale con una ampiezza corrispondente approssimativamente al periodo di

incubazione della malattia rappresentata. In caso di sorgente comune intermittente e

continua, se la fonte del patogeno è unica, ma l’esposizione non è confinata ad un preciso

e breve momento temporale e perdura nel tempo, si può avere una curva intermittente o

continua. In entrambi i casi l’insorgenza e comunque brusca ma i casi saranno distribuiti

in un lungo periodo di tempo, maggiore del periodo di incubazione, a seconda di quanto a

lungo perdura l’esposizione. Nei focolai a trasmissione interumana la curva epidemica è

propagata e causata dal passaggio del patogeno da una persona suscettibile ad un’altra.

La trasmissione si verifica direttamente (da persona a persona) o attraverso un ospite

intermedio. Questo tipo di curva e caratterizzata da una serie di picchi irregolari che

corrispondono ognuno al nuovo gruppo di persone infettate. Il tempo intercorso tra un

picco e l’altro corrisponde approssimativamente al periodo d’incubazione del patogeno.

In caso di curva epidemica mista la curva ha inizialmente la caratteristica della sorgente

puntiforme e poi quelle del contagio interumano con casi singoli diluiti nel tempo

successivo alla caduta del picco. Molti patogeni alimentari come norovirus, virus

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dell’epatite A, Shigella ed Escherichia coli mostrano comunemente questo tipo di

andamento.

Alcuni esempi delle diverse tipologie di curva epidemica sono illustrati nella figura 1.

Figura 1. Esempi di curve epidemiche

Altro punto fondamentale nello studio degli outbreaks epidemici è la “fonte”: le IO

possono essere di origine esogena o endogena.

Solitamente le prime sono più importanti a livello di numeri per l’intrinseca contagiosità

del patogeno e le più problematiche per lo sviluppo di sistemi di controllo. In questi casi la

fonte di infezione sta al di fuori del soggetto infettato e può consistere nell’ambiente di

degenza, nel cibo, nei presidi diagnostici o terapeutici utilizzati, ma anche nel personale o

in altri pazienti ricoverati.

Per ciò che riguarda la trasmissione da parte del personale ospedaliero, il contatto diretto

tramite le mani è certamente la modalità più frequente di contagio; la più efficace ed

elementare misura di controllo di molte infezioni è perciò il lavaggio delle mani, basilare

norma di “igiene universale”. La trasmissione per via aerea da persona a persona riveste

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invece un’importanza più limitata ed è chiamata in causa ad esempio per i micobatteri

tubercolari e il virus varicella-zoster. Un discorso a parte riguarda la trasmissione per via

aerea di Legionella pneumophila, che può albergare nell’acqua utilizzata per apparecchi di

ossigeno-terapia, serbatoi per il condizionamento degli ambienti o docce, e che può

talvolta rendersi responsabile di piccole epidemie anche in contesto ospedaliero.

Le infezioni endogene invece sono causate da componenti della stessa microflora del

soggetto, posti in condizione di svolgere ruolo patogeno. Elemento da tenere sempre

presente è che dopo un ricovero sufficientemente prolungato, la microflora endogena

acquisisce specie o ceppi della flora nosocomiale, frequentemente rappresentata da

stipiti multiresistenti. Secondariamente questi ceppi possono a loro volta propagarsi da

paziente a paziente e configurare cluster epidemici meritevoli di segnalazione (es.

introduzione in un dato contesto ospedaliero di un nuovo pattern di antibiotico resistenza

rispetto a quanto precedentemente noto per lo stesso batterio).

Sistemi di sorveglianza e controllo

I comportamenti da attuare in caso di epidemie possono essere riassunti nelle seguenti

fasi:

Start: Segnalazione

Step 1. Verifica iniziale

Step 2. Coinvolgimento e informazione

Step 3. Conferma dell’esistenza dell’epidemia e indagine descrittiva

Step 4. Attivazione di specifiche misure di controllo

La segnalazione di malattia avviene con i sistemi normalmente preposti: le schede di

Notifica per le Malattie Infettive che vengono inviate presso l’Ufficio di Igiene e Sanità

Pubblica della ASL di appartenenza secondo le tempistiche e le modalità previste per ogni

Classe di Notifica (www.salute.gov.it). In particolare la scheda di classe quarta è dedicata

alla segnalazione di patologie importanti solo nell’ambito di focolai epidemici (pediculosi,

scabbia, dermatofitosi, infestazioni di origine alimentare).

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Come scritto in precedenza, particolare deve essere in ambito ospedaliero il

comportamento nei confronti di “patogeni sentinella”, decisi sulla base soprattutto della

situazione microbiologica locale. Questi possono essere soggetti a notifica interna da

parte dei medici dell’ Unità operativa, Servizio, Ambulatorio, che può tempestivamente

individuare su base clinica l’insorgenza e l’entità dei casi. In genere, tipologia e modalità

di notifica sono concordate dal Comitato per le Infezioni Ospedaliere (CIO) della struttura

ospedaliera di riferimento. Un sistema ancora più rapido è tramite laboratorio di

microbiologia, attraverso un programma informatizzato che segnala automaticamente

variazioni predeterminate di opportuni parametri (es. frequenza degli isolati per Unità

Operativa) o in caso di isolamento di microrganismi con profilo di resistenza insolito, in

modo da effettuare trasmissione tempestiva del referto entro 48 ore al Nucleo operativo

del CIO. In caso il laboratorio di microbiologia segnali la presenza di microrganismi con un

profilo di resistenza inusuale, quali ad esempio Staphylococcus aureus con resistenza

franca o intermedia ai glicopeptidi (GISA/VISA), stafilococchi coagulasi-negativi resistenti

ai glicopeptidi e Enterococcuss spp. resistente ai glicopeptidi (VRE) in strutture che non lo

avevano mai isolato in precedenza, è importante attivare immediati interventi di

controllo anche in presenza di singoli casi.

La descrizione accurata dell’epidemia costituisce un passo essenziale dell’indagine

epidemiologica. L’analisi non è meramente un “conteggio” delle segnalazioni di nuovi casi

provenienti dal clinico ma già orientata a fornire l’immagine dell’episodio inquadrandolo

secondo le tre dimensioni standard (tempo, luogo e persone coinvolte). Questo può

bastare per indirizzare le misure immediate di controllo, sviluppare ipotesi sulla sorgente

di infezione e sulle modalità di trasmissione, suggerire campionamenti ambientali,

guidare ulteriori approfondimenti.

Gli stadi di uno studio epidemiologico descrittivo includono:

- la scelta di una definizione di caso;

- la identificazione dei casi e la raccolta di informazioni;

- analizzare i dati inquadrandoli per tempo, luoghi e persone;

- stabilire i soggetti a rischio;

- sviluppare ipotesi sull’esposizione e sui veicoli;

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- confrontare le ipotesi con i fatti accertati;

- decidere se sono necessari studi analitici.

In ordine temporale ma non per importanza, l’ultima parte del lavoro consiste nella

ricerca di eventuali altri casi sfuggiti alla segnalazione iniziale, utilizzando la definizione di

caso in precedenza formulata. Per la ricerca attiva dei casi si possono utilizzare i seguenti

metodi: contattare il personale dei reparti inizialmente non interessati dall’epidemia per

sapere se ha notato un aumento dei casi di infezione; rivedere i dati del laboratorio di

microbiologia; rivedere i documenti sanitari dei reparti interessati (SDO, cartelle cliniche,

grafici della temperatura); nel caso di infezioni insorte in reparti nei quali la durata della

degenza è breve e i pazienti coinvolti dall’epidemia possono essere già stati dimessi o

trasferiti in altre strutture sanitarie, contattare i medici curanti o di medicina generale

della zona e i pediatri di famiglia o i parenti. È opportuno in questa fase sensibilizzare le

diverse persone contattate (microbiologo, medici e infermieri dei reparti) alla notifica

immediata di qualsiasi ulteriore caso di infezione che insorga successivamente.

Una volta che sia stata completata la ricerca di eventuali casi aggiuntivi, è possibile

confrontare i casi osservati nel presente episodio con i casi attesi, sulla base dei dati

disponibili per il periodo pre-epidemico e utilizzare, per confrontare i tassi di attacco nei

due periodi, un test statistico (ad esempio test del χ2, test esatto di Fisher). Se dopo avere

effettuato quanto descritto, risulta che la differenza nei tassi di incidenza del periodo

epidemico e pre-epidemico è statisticamente significativa, vuol dire che ci si trova

effettivamente di fronte a un evento epidemico. Se la differenza non è significativa ma i

casi presentano comunque caratteristiche epidemiologiche comuni, si è di fronte a un

cluster epidemico.

Le misure di controllo devono essere attivate al più presto, non appena è identificata

l’epidemia. Queste vengono orientate dall’analisi dei fattori di rischio procedurali e

ambientali maturati nel corso della sorveglianza. Infatti, sebbene richiamare l’attenzione

sull’adozione delle misure generali di controllo (lavaggio delle mani, intensificazione delle

misure di igiene ambientale, aderenza a protocolli di asepsi e rafforzamento di

disinfezione e sterilizzazione) rappresenti sempre il primo e più semplice passo da

attuare, gli interventi preventivi dovrebbero essere basati sulle caratteristiche

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dell’agente causale, incluso il possibile serbatoio, la sorgente e la verosimile modalità di

trasmissione. Misure specifiche possono essere così articolate:

- identificazione ed eliminazione di prodotti contaminati,

- modifica delle procedure organizzative assistenziali,

- identificazione, isolamento/cohorting o trattamento dei portatori,

- richiamo dell’attenzione sul rispetto delle tecniche e procedure appropriate

Successivamente è d’obbligo attivare un sistema di monitoraggio per testare l’efficacia

delle misure approntate, che risultano essere efficaci se non si verificano nuovi casi o se si

ritorna al livello endemico.

In sintesi il processo da attuare in caso di epidemia in struttura ospedaliera è riassunto

nella figura 2.

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Figura 2. Eventi epidemici in ospedale: processo per il passaggio dalla analisi alle misure

di controllo (adattato da: Tura G., Moro M.L. Epidemie di infezioni correlate

all’assistenza sanitaria, Sorveglianza e controllo, Collana Dossier dell’Agenzia sanitaria

regionale dell’Emilia-Romagna, Bologna, 2006)

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PARTE SPERIMENTALE

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Scopo della ricerca

Conoscere tempestivamente il modificarsi di fattori ambientali sottesi a un evento

(sorveglianza) ha sempre come fine di preparare il terreno a interventi di controllo. A tal

fine una organizzazione ospedaliera deve provvedere gli strumenti interdisciplinari atti

alla prevenzione e contenimento delle infezioni correlate alla assistenza sanitaria. Un

punto critico, che richiede l’azione coordinata di queste forze, è proprio il presentarsi di

eventi epidemici intraospedalieri.

Scopo della presente ricerca è descrivere l’organizzazione degli organi aziendali preposti

al controllo delle HCAI nel Presidio Ospedaliero Nord della ASL di Latina per come si è

andata strutturando nel corso dei 5 anni passati. A tal fine sono state analizzate anche le

risposte messe in campo nei confronti di specifici rischi epidemici.

Setting della ricerca

Il P.O. Nord di Latina – Ospedale Santa Maria Goretti (codice struttura: 120200)

rappresenta il nosocomio più grande della provincia (popolazione residente: 569.664

abitanti nel 2013). E’ DEA di II livello con elistruttura attiva h 12 e un numero di accessi al

PS di 66.435 nel 2013. Il numero di posti letto per acuti è 398, 57 Day Hospital, e 10 letti

di PostAcuzie. Nella riorganizzazione sanitaria della Regione Lazio per il biennio 2014/15 è

prevista una riduzione di 70 posti letto. Per ciò che attiene alla rete di emergenza

cardiologica, è dotato di posti letto in Cardiologia, UTIC e Emodinamica

h 24. E’ uno dei 5 Centri Trauma di Zona nell’assetto sanitario del Lazio per la Rete

Trauma Grave e Neurotrauma. Svolge il ruolo di UTN I nella Rete Ictus. Per quanto

riguarda la rete perinatale , è dotato di Reparto di Ginecologia e Ostetricia (che ha visto

nel 2013 ben 2039 nascite), di Neonatologia ma non di Terapia Intensiva Neonatale

(attivazione prevista per il 2015 con il Decreto Regionale n.U00247/2014). L’Ospedale è

dotato di una terapia intensiva mista (politraumi, post-operatori, accessi per acuzie

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mediche). Le aree chirurgiche presenti sono: Chirurgia Generale, Ortopedia,

Neurochirurgia, Chirurgia Vascolare, Otorinolaringoiatria, Oculistica, Urologia.

In tale contesto l’istituzione di una attiva lotta contro le infezioni ospedaliere, così come

promosso dalla Circolare Ministero della Sanità n. 52/1985 e n.8/1988 riguardante la loro

attiva sorveglianza, ha trovato naturale seguito nell’istituzione di un Comitato per le

Infezioni Ospedaliere (CIO), in quanto facente parte degli “standards del personale

ospedaliero” (Decreto Ministeriale 13 settembre 1988). La normativa sopra citata designa

al CIO il ruolo di scegliere l’approccio più consono alla sorveglianza delle infezioni

ospedaliere, valutando i seguenti aspetti: funzionalità del laboratorio di microbiologia;

dimensioni dell’ospedale e tipo di reparti rappresentati; risorse disponibili; grado di

integrazione fra le diverse figure professionali interessate alla sorveglianza in ospedale.

In realtà, come in buona parte delle ASL Italiane, a singoli interventi preliminari in

occasione di eventi specifici, la programmazione integrata nel lavoro aziendale di un

Gruppo Operativo di un vero CIO si è avuta a distanza di anni da tali decreti.

In effetti nel 1988 l’Istituto Superiore di Sanità condusse un’indagine sulla diffusione dei

programmi di sorveglianza e controllo delle IO, con una bassa rispondenza ai criteri

previsti (34%). Dall’indagine nazionale emerse infatti che:

il 14,2% degli ospedali campionati aveva attivato il CIO (di cui più di un terzo non si

era mai riunito nel corso dell’anno)

l’11,5% si era dotato di un proprio referente medico

l’8% di una figura infermieristica dedicata (di cui solo il 20% impiegata a tempo

pieno nei programmi di controllo);

l’8,7% degli ospedali aveva definito uno o più protocolli;

A distanza di più di 10 anni, l’ISS ha proceduto ad effettuare analoga indagine conoscitiva

(con una più alta ma ancora non completa rispondenza: 80%) che ha dato i seguenti

risultati:

il 73,8% degli ospedali hanno attivato il CIO, ma solo il 50% è in attività; i comitati

sono costituiti in media da 12,2 componenti;

il 59% hanno dichiarato di disporre di un medico referente, ma solo nel 43% dei

casi tale figura è effettivamente operativa.

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Il 51% hanno dichiarato di disporre di un’infermiera addetta al controllo, di cui

solo il 33% impiegata nel programma di controllo

L’analisi dei dati metteva in evidenza una disomogeneità territoriale con svantaggio

globale del sud d’Italia e delle isole rispetto al nord-centro e una differenza sostanziale tra

le proporzioni di presidi che hanno dichiarato di aver attivato la specifica componente dei

programmi e quelle in cui tale componente appare essere effettivamente attiva. In effetti

con l’ultima indagine del 2008, solo il 50% dei Presidi Ospedalieri mostrava una effettiva

attività del CIO.

Nello specifico del P.O. Nord di Latina, la Direzione Medica istituisce un Gruppo di Lavoro

per le Infezioni Ospedaliere, con particolare riguardo alle problematiche legate alle stesse

nel Reparto di Rianimazione nell’ ottobre 2006. Varie iniziative vengono svolte negli anni,

ma ancora non strutturate sotto la supervisione di un vero e proprio CIO, che nascerà solo

con delibera aziendale n. 230 del 23/10/2011. I compiti assegnati ai componenti sono:

individuare Linee Guida dalla letteratura; verificare protocolli e procedure in uso;

proporre protocolli e procedure; proporre informazione/formazione; proporre metodi di

verifica di protocolli e procedure; proporre introduzione/modifica di dispositivi, presidi,

organizzazione; proporre studi epidemiologici/sistemi di sorveglianza.

Metodi

Strategie di sorveglianza

Le due circolari del Ministero della Salute (n.52/1985 e n.8/1988) hanno sottolineato la

necessità di avviare sistemi di sorveglianza delle infezioni ospedaliere. Per sorveglianza si

intende l’attività che si basa su un “sistema formale di raccolta, analisi ed interpretazione

dei dati relativi alle infezioni”. Come già affrontato nella prima parte di questo lavoro, la

sorveglianza rappresenta quindi un idoneo strumento non solo per descrivere quanto si

verifica in ospedale, ma anche un mezzo di intervento e prevenzione. Nel 1980 i Centers

for Diseases Control and prevention (CDC) di Atlanta hanno pubblicato per primi delle

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“raccomandazioni” per la prevenzione delle IO. Queste sono riunite in tre categorie il cui

schema di classificazione tiene conto di considerazioni sulla validità scientifica,

l’applicabilità e la praticabilità delle diverse misure e il loro rapporto costo efficacia:

CATEGORIA I : MISURE EFFICACI

Sterilizzazione

Lavaggio delle mani

Cateterismo urinario a circuito chiuso

Corretta gestione dei cateteri intravascolari

Tecniche sterili per l’abbigliamento in sala operatoria

Chemioprofilassi perioperatoria negli interventi chirurgici contaminati

Corretta gestione delle attrezzature per la terapia respiratoria

CATEGORIA II: MISURE RAGIONEVOLI

Procedure di isolamento

Educazione, sensibilizzazione del personale sanitario

CATEGORIA III: MISURE DI EFFICACIA DUBBIA O MAI VALUTATA

Disinfezione di pavimenti, mura, lavandini

Luci ultraviolette

Nebulizzazione di disinfettanti

Flussi d’aria laminari

Chemioprofilassi operatoria negli interventi chirurgici puliti

Sorveglianza microbiologica dell’ambiente

Filtri terminali endovenosi

Successivamente la Society for Healthcare Epidemiology of America (SHEA) e l’Association

for Professionals Infection Control and epidemiology (APIC) hanno definito i requisiti

essenziali di un programma di controllo in relazione alla qualità delle evidenze scientifiche

di efficacia disponibili. Queste sono così suddivise, in rapporto al rapporto

costo/beneficio:

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CATEGORIA I: ATTIVITÀ FORTEMENTE RACCOMANDATE

Sorveglianza delle infezioni ospedaliere, con analisi periodica dei dati e loro

utilizzo per monitorare e migliorare le misure di controllo delle infezioni e degli

esiti clinici

Programmi di vaccinazione degli operatori sanitari

Sorveglianza delle infezioni occupazionali

Identificazione e controllo delle epidemie: capacità di identificarle, personale

addestrato nel condurre indagini, risorse e autorità nella loro gestione

Necessità di almeno un epidemiologo ospedaliero e un infermiera addetta al

controllo delle infezioni ospedaliere in ciascun ospedale

CATEGORIA II: ATTIVITÀ RACCOMANDATE

Sorveglianza sulla base di indicatori clinici in accordo ai criteri

SHEA/APIC

Politiche e protocolli scritti e continuamente aggiornati

Monitoraggio periodico della adesione agli standard

Valutazione clinica di tutti gli operatori sanitari al momento

dell’impiego, per identificare l’eventuale esistenza di patologie infettive

Programmi formativi per gli operatori sanitari, di cui sia valutata

periodicamente l’efficacia e la partecipazione

Infermieri addetti incoraggiati ad ottenere una certificazione specifica

Disponibilità di risorse sufficienti per le figure addette ai programmi di

controllo

Seguendo tali precetti, gli obiettivi operativi da perseguire entro il primo anno

dall’introduzione di un programma di sorveglianza sulle infezioni ospedaliere in una ASL

sono:

- A livello aziendale:

La costituzione del CIO

La formazione di tutti gli operatori del CIO

L’individuazione degli interventi di sorveglianza e controllo delle infezioni

ospedaliere da attivarsi a livello aziendale, con particolare riguardo

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all’appropriatezza d’uso nei diversi regimi assistenziali (ricoveri per acuti, day

hospital…)

- A livello di Presidio Ospedaliero:

L’individuazione dei referenti per le IO delle singole Unità Operative

L’avvio di almeno un intervento di sorveglianza e controllo trasversale a tutte

le Unità Operative (ad esempio sorveglianza sepsi da CVC)

Nell’arco del primo triennio gli obiettivi operativi da adempiere sono:

- A livello aziendale:

Il coordinamento di interventi a valenza aziendale su almeno due temi

individuati come prioritari (ad esempio sorveglianza sepsi da CVC, prontuario

dei disinfettanti..)

La costituzione di un centro di documentazione aziendale e la diffusione dei

risultati degli interventi realizzati

La valutazione, al termine del triennio, delle attività svolte dalle Unità

Operative e dai Dipartimenti

- A livello di Presidio Ospedaliero:

La messa a regime e la definizione di procedure operative da parte dei

referenti delle Unità Operative e dei Dipartimenti

La formazione di tutti i Referenti delle IO delle Unità Operative/ Dipartimenti

L’avvio di almeno un intervento di sorveglianza e controllo delle IO annuo nelle

singole Unità Operative/Dipartimenti

Storia degli organi di controllo aziendali: dal CIO al CC-ICA

Il Comitato di Controllo delle IO (CIO) è un organo di consulenza al Direttore Medico di

Presidio che sceglie ed elabora la strategia di prevenzione delle IO, le impone a tutte le

persone in ospedale (personale, degenti, pazienti in cure ambulatoriali, visitatori ed altri),

ne controlla e valuta l’attuazione. Gruppi operativi dello stesso possono elaborare tipi di

interventi settoriali nell’ambito ospedaliero, sottoposti poi al Nucleo Centrale del CIO.

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L’attività di prevenzione e controllo delle IO deve essere intesa come un intervento

multidisciplinare in cui più professionisti (direttore medico, medici, infermieri,

microbiologo, infettivologo, farmacista, epidemiologo ecc.) con le proprie specifiche

competenze e responsabilità concorrono per un obiettivo comune: "promuovere la

qualità dell’assistenza prevenendo le IO". Le circolari ministeriali sopra citate, circa la

composizione del Comitato, indicano testualmente: "... il Comitato coadiuvato dal

Direttore Sanitario deve comprendere almeno un rappresentante delle altre aree

funzionali, ma gli esperti in igiene, in malattie infettive ed in microbiologia debbono

costituire le figure essenziali, così come è fondamentale la presenza del dirigente del

personale infermieristico".

Il Direttore medico di presidio gioca, in questo contesto, un ruolo determinante per il

cambiamento organizzativo e la crescita culturale e scientifica dei professionisti della

sanità, attraverso “revisioni sistematiche” dell’informazione e della formazione. É ovvio

che l'assetto organizzativo del Comitato possa variare in relazione alla struttura

dell'ospedale, nonché al livello di qualificazione e complessità dello stesso ed al livello di

partecipazione e responsabilizzazione dei componenti del Comitato. Anche se queste

caratteristiche non sono state specificate dalle circolare ministeriale, può risultare utile,

sulla base dell’esperienza delle principali organizzazioni internazionali per il controllo

delle infezioni correlate all’assistenza sanitaria:

- includere nel Comitato un rappresentante dell’amministrazione;

- includere sempre un rappresentante del servizio di farmacia, meglio ancora in

presenza di un farmacologo clinico;

- prevedere la presenza di membri occasionali, per la discussione di temi specifici;

- limitare il numero dei componenti del gruppo operativo

- separare le funzioni del Comitato da quelle del gruppo operativo.

- gli interventi operativi vanno portati avanti da un medico igienista e da uno o più

infermieri addetti.

Nella realtà della ASL di Latina, come si è verificato in molte altre realtà italiane, l’inizio

dell’attività prima di un Gruppo di Lavoro per le Infezioni Ospedaliere e poi del vero e

proprio CIO è coinciso con il significativo incremento dell’attenzione per il verificarsi di

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infezioni legate all’assistenza nell’ area più a rischio dell’ospedale per l’intrinseca

invasività delle cure: l’Unità di Terapia Intensiva. Di conseguenza il primo atto è stato la

costituzione di un Gruppo Operativo per il “Programma di Sorveglianza in Rianimazione”.

Del Gruppo hanno fatto parte un medico Infettivologo e un medico Intensivista, il

Caposala del Reparto di Terapia Intensiva, l’infermiera addetta al rilevamento delle IO,

con la collaborazione dei servizi di Farmacia e di Laboratorio. L’obiettivo primario era una

analisi semestrale delle IO nel Reparto in questione basata sui Device Utilization Ratio

secondo indicazioni NNIS, dalla quale emergeva una incidenza di infezioni da CVC x 1000

giorni di esposizione pari a 1,4 e una incidenza di VAP per 1000 giorni di ventilazione

meccanica pari a 5,1 e una significativa prevalenza degli isolati di Acinetobacter

baumannii, con incremento dei casi di multi-antibiotico-resistenza (giugno-dicembre

2006). Il passo successivo è stato rappresentato dall’illustrazione dei dati e della

metodologia applicata a tutto il personale, stabilendo le modalità di integrazione di un

tale sistema nel piano di lavoro medico e infermieristico. Inoltre sono stati organizzati

due corsi aziendali: il primo sulla prevenzione delle infezioni da germi MDR in

Rianimazione, promosso dal Reparto di Malattie Infettive e il secondo per la formazione

per le precauzioni universali per tutto il personale sanitario, promosso dalla Direzione

Medica (2007).

A seguire sono stati effettuate riunioni con oggetto la ridefinizione del prontuario degli

antisettici e disinfettanti presenti in Ospedale. Tale ambito è stato completato con la

stesura, nel 2012, della procedura operativa “Pulizia, sanificazione e disinfezione

ambientale” che ridefinisce l’applicazione dei principi di pulizia alle aree sanitarie,

debitamente suddivise in base alla loro classificazione di rischio e stabilendo poi degli

indicatori di efficacia a cura della Direzione Sanitaria, UOS Servizi Professionali non

Medici).

E’ seguito l’inizio dei programmi di Antibiotic Stewardship:

- riunione sull’uso di alcuni singoli antibiotici con definizione delle molecole

soggette a prescrizione personalizzata/su base di consulenza infettivologica:

levofloxacina, piperacillina/tazobactam, meropenem, ertapenem,

imipenem/cilastatina, linezolid, tigeciclina, daptomicina, cui hanno fatto poi

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seguito con l’introduzione anche i farmaci antifungini della classe echinocandine e

la fidaxomicina per casi selezionati di enterocolite da Clostridium difficile.

- Ridefinizione delle linee guida per la profilassi in chirurgia e suggerimenti per

l’implementazione delle stesse nell’ambito di riunioni congiunte con la Chirurgia,

Servizio di Farmacia e Malattie Infettive

- Sorveglianza delle infezioni del sito chirurgico (con adesione a partire dal 2008 a

studi regionali: progetti APP e ISC)

Piuttosto rilevante inoltre è stata l’implementazione dei sistemi di sorveglianza delle

malattie infettive nell’operatore sanitario, e in particolare con la coordinazione di un

gruppo di lavoro specifico da parte dell’U.O.C. di Rischio Clinico e di Medicina del Lavoro

si è provveduto nel 2013 a ridefinire un protocollo interno aziendale per le

“Raccomandazioni sulla Tubercolosi in ambito Sanitario”, vista la recente revisione delle

linee guida nazionali sull’argomento e l’introduzione degli Interferon Gamma Related

Assay (IGRA).

Il progetto forse più rilevante e strutturato, ad Ottobre 2011, è stato l’attivazione di un

servizio di Clinical-Microbiological Alert. Tale servizio mira ad avviare un sistema di

sorveglianza microbiologico con raccolta di dati clinici che si propone di definire l’impatto

della diffusione di germi multi resistenti in Ospedale. Inizialmente favorito dall’iniziativa

personale del microbiologo e dell’infettivologo nel segnalare con scheda cartacea entro

un tempo ideale di 24 ore dall’isolamento “germi sentinella”, si è negli anni successivi

sistematizzato grazie all’utilizzo di un software (Copernico, che si interfaccia con il sistema

in uso in laboratorio per la tipizzazione degli esami colturali: Vitek; entrambi prodotti

della bioMérieux®) e alla raccolta informatizzata di tutti i dati, permettendo la creazione

di report trimestrali strutturati a cura dell’ UOC di Epidemiologia Clinica. Gli obiettivi a

questo punto si sono ampliati con:

- La descrizione della ecologia microbica dei Presidi della ASL di Latina (alle indagini

vengono inclusi anche gli isolati microbiologici relativi al P.O. Centro –Ospedale di

Terracina e P.O. Sud Formia-Gaeta-Fondi)

- L’analisi dell’andamento degli isolamenti batterici nel tempo e della distribuzione

per reparto

- 37 -

- Il monitoraggio di specifici microorganismi sentinella (Staphylococcus aureus

meticillino resistenti-MRSA, Staphylococcus aureus resistenti alla vancomicina

(VRSA), Enterococcus faecalis e faecium resistenti alla vancomicina (VRE),

Escherichia coli resistente alle cefalosporine di III generazione, Klebsiella

pneumoniae resistenti ai carbapenemi, Acinetobacter baumannii resistente ai

carbapenemi, Pseudomoonas aeruginosa resistenti alle cefalosporine di III

generazione, Clostridium difficile, Legionella pneumophila)

- L’evidenziazione di episodi epidemici

- Il monitoraggio dell’antibiotico-resistenza relativa a specifici ceppi batterici

A partire dall’inizio del 2012 è stato promosso un programma di formazione sul lavaggio

mani in occasione dell’ introduzione della soluzione alcolica in ospedale, a partire dalle

aree nevralgiche dei reparti di Rianimazione e Medicina d’Urgenza. Tale progetto faceva

seguito ai programmi di implementazione multimodale sul lavaggio mani come principale

misura di prevenzione delle IO promossi dal WHO. In particolare veniva focalizzata

l’attenzione sulla necessità di portare il lavaggio mani più spesso e più vicino al letto del

paziente, motivo per il quale l’utilizzo di soluzioni alcoliche risultava più efficace,

maneggevole e dislocabile nei vari punti dei reparti. Seguendo tale schema, l’attenzione

degli operatori sanitari veniva spostata dal lavaggio mani quale gesto in sé protettivo più

che altro per chi lo pratica, quanto sul lavaggio mani come strumento per non violare la

cosiddetta “area paziente”, in grado evitare che le mani siano veicolo per il trasporto da

un area all’altra di germi MDR colonizzanti e potenzialmente causa di infezioni gravi.

I cinque momenti del lavaggio mani secondo WHO sono:

1-prima del contatto con il paziente;

2-prima di una manovra asettica;

3-dopo rischio/esposizione ad un liquido biologico;

4-dopo il contatto con il paziente;

5-dopo il contatto con ciò che sta attorno al paziente.

Il poster reminder creato nella ASL di Latina a tal proposito è illustrato in figura 3.

- 38 -

Figura 3. Locandina reminder per la campagna lavaggio mani della ASL di Latina.

- 39 -

La prima distribuzione dei dispositivi erogatori di soluzione idroalcolica (Septaman gel ®)

avveniva nel mese di Febbraio 2012. Nei reparti venivano effettuate delle sessioni di

training rivolte ai due turni contigui medico, infermieristico e di personale ausiliario,

riproposte più volte fino al raggiungimento di tutto il personale e tenute da medici

dell’UOC di Malattie Infettive. Successivamente, come da indicazioni OMS, l’aderenza alle

procedure di lavaggio mani veniva valutata prima e dopo il lavoro di formazione. Le

schede adottate per valutare l’aderenza al lavaggio delle mani sono state quelle proposte

dall’OMS e sono state compilate in 10 sessioni di osservazione. I dati raccolti sono stati

rielaborati per il calcolo della compliance e ratio azioni/indicazioni. Nel Reparto di Terapia

Intensiva la compliance totale al lavaggio mani risultava del 30.9% a maggio 2012 e 47,8%

dopo un mese dal training e del 23,5% a un anno.

Comparando l’aderenza per gruppi di specifiche figure professionali prima e dopo il

training, si è osservato per gli infermieri un aumento nell’aderenza dal 36 % al 46,6%. Per

i medici dal 29.6% al 62%. Per quanto riguarda l’aderenza stratificata fra i 5 momenti

proposti dall’OMS questa è stata più alta prima di procedure asettiche (ratio: 0,475 nel

gruppo pre e 0,510 in post), più bassa dopo contatto con le superfici ambientali ed oggetti

(ratio: 0,215 nel gruppo pre e 0,300 in post), senza differenze significative nei due periodi

posti a confronto. Nonostante i dati di aderenza che tendono nuovamente a scendere a

distanza dai programmi di training, i risultati mostrano complessivamente che

l’introduzione della soluzione alcolica ha determinato un netto incremento dell’aderenza

globale al lavaggio mani. Ciò avveniva in concomitanza dell’emergere della problematica

legata al diffondersi di Enterobatteri Produttori di Carbapenemasi (CPE), forte fattore

motivazionale per il personale. Inoltre il declino a un anno dai corsi pratici dell’aderenza

mostrava la necessità di periodici re-training anche su tematiche apparentemente basilari

nella prevenzione delle IO.

Tutte le attività del CIO sono confluite nel più ampio progetto del PARM (Piano di Risk

Management) per la gestione del rischio clinico e delle infezioni correlate all’assistenza,

con la ridenominazione del comitato in CC-ICA nel 2014. Il documento che fornisce le

direttive per l’adozione in ogni ASL del Lazio del PARM è stato pubblicato sul Bollettino

Ufficiale della Regione Lazio dopo determinazione del 1 aprile 2014. Questo documento

- 40 -

ha lo scopo di definire all’interno di ogni realtà aziendale delle direttive per il

miglioramento continuo dei servizi offerti e per garantire elevati standard di performance

assistenziale ovvero l’approccio di “Governo Clinico”. Di fatto le infezioni correlate

all’assistenza sono una delle possibili manifestazioni del rischio clinico, definito come

probabilità che si verifichi un evento avverso ovvero: “evento inatteso correlato al

processo assistenziale e che comporta un danno al paziente, non intenzionale e

desiderabile”. Sotteso a questa definizione, sta il fatto che l’evento avverso infezione

nosocomiale è insito nei sistemi complessi e la sicurezza del paziente deve essere

continuamente presidiata, le criticità affrontate secondo un approccio multidimensionale,

considerando e integrando i vari aspetti: il monitoraggio e l’analisi degli eventi avversi,

l’elaborazione e la diffusione di raccomandazioni e pratiche per la sicurezza, il

coinvolgimento di pazienti e cittadini, la formazione degli operatori sanitari. Tutto questo

rientra negli scopi del Governo Clinico. La Regione Lazio, nel recepire le direttive

ministeriali per la prima volta esposte nel documento “Risk management in sanità” del

2003, dispone le Linee di Indirizzo del 2014 sopra ricordate e viene disposto come

momento di verifica di attuazione dei PARM il 15 settembre 2014, momento dal quale

consideriamo operativo anche nella ASL di Latina il CC-ICA. Da segnalare che a ogni Risk

Manager aziendale viene richiesto di organizzare il PARM seguendo i seguenti punti:

premessa, scopo del piano, strumenti operativi, azioni (comprese le modalità di diffusione

del piano, indicatori , normativa di riferimento e bibliografia. In particolare per quanto

riguarda gli indicatori di processo e di esito del CC-ICA, questi sono rappresentati da:

pubblicazione sul sito intranet aziendale della delibera e del regolamento del CC-

ICA

atto aziendale che definisce i compiti in tema di prevenzione dei Dipartimenti e

dei Servizi, in rapporto al CC-ICA

report annuale (pubblicato sul sito intranet aziendale)

atto formale di istituzione dei Gruppi di Lavoro

riunioni del Comitato almeno 4 volte l’anno e dei Gruppi almeno 6 volte l’anno

programmazione annuale

piano di attività del servizio di qualità della struttura sanitaria

- 41 -

produzione delle linee guida concernenti almeno:

- isolamento e attuazione delle precauzioni standard

- lavaggio delle mani

- disinfezione e sterilizzazione con riguardo all’applicazione del D. Lgs.

46/97

- utilizzo dei dispositivi di protezione individuale (DPI)

- controllo della diffusione delle resistenze microbiche

- raccolta, conservazione e trasporto dei campioni di laboratorio

- prevenzione incidenti occupazionali

- sorveglianza e profilassi post-esposizione professionale ai liquidi biologici

- controllo della tubercolosi

- controllo delle infezioni nosocomiali (delle vie urinarie, della ferita

chirurgica, delle polmoniti nosocomiali, delle batteriemie)

- utilizzo degli antibiotici a scopo profilattico

- trattamento della biancheria, pulizia e smaltimento dei rifiuti

- igiene della ristorazione (secondo la metodologia HACCP)

- piano del monitoraggio microbiologico ambientale

verifica dell’applicazione dei protocolli

programmi di formazione

Carta dei Servizi della Struttura che evidenzi una crescita della performance nel

tempo

Con questo inquadramento per obiettivi e grazie alla stretta collaborazione con l’UOC di

Rischio Clinico le attività di prevenzione già iniziate dal CIO sono state ulteriormente

implementate. Ad esempio con l’organizzazione del corso aziendale di formazione sulle

infezioni nosocomiali “Le infezioni da Microrganismi multi farmaco-resistenti:

prevenzione e controllo” (21 Novembre 2014) e con la celebrazione della giornata per il

lavaggio mani nel 2014 e 2015 (fig.4).

- 42 -

Figura 4. Locandina Giornata Mondiale per il Lavaggio Mani 2015.

- 43 -

Analisi dei singoli eventi epidemici e interventi di controllo

specifici

INFLUENZA H1N1v

L’influenza costituisce un rilevante problema di sanità pubblica a causa della sua ubiquità

e contagiosità, per la variabilità antigenica dei virus influenzali, per l’esistenza di serbatoi

animali e per le possibili gravi complicanze. L’agente eziologico è un virus ad RNA

appartenente alla famiglia degli Orthomyxoviridae; ne sono stati identificati tre tipi: A, B e

C. Il tipo A include diversi sottotipi di cui tre (H1N1, H2N2; H3N2) sono stati associati con

estese epidemie e pandemie; il tipo B non è stato frequentemente associato a epidemie

estese; il tipo C è stato associato a casi sporadici ed epidemie minori. Nel XX secolo il

mondo ha affrontato tre pandemie, delle quali la più terribile, la “spagnola” nel 1918-

1919, ha ucciso oltre 20 milioni di persone. Una pandemia insorge quando emerge una

nuova varietà del virus dell’influenza A, diversa dalle varietà comuni, capace di

trasmettersi da uomo a uomo in modo efficace e più velocemente e infettare centinaia di

migliaia di persone. Dal punto di vista clinico, più spesso può presentarsi con una

sintomatologia più severa anche in soggetti giovani-adulti normalmente non suscettibili di

complicanze. A differenza della forma stagionale che si diffonde ogni anno, tra i mesi di

novembre ed aprile per poi estinguersi, l’influenza pandemica si verifica solo due o tre

volte in un secolo, di solito si alterna in due o tre ondate a distanza di mesi ed ogni ondata

dura alcune settimane.

Una volta introdotta nella popolazione, l’influenza può rapidamente diffondere a causa

della sua elevata contagiosità e del suo breve periodo di incubazione. Nell’Aprile 2009 è

stato riconosciuto un nuovo ceppo virale d’influenza A(H1N1)v, identificato come ceppo

A/California/2009, e responsabile di una nuova epidemia che si è diffusa nel giro di pochi

mesi a tutti i continenti. Il Messico è stata la prima nazione in cui siano stati identificati

pazienti richiedenti ospedalizzazione per polmonite ed un alto tasso di morti sospette per

patologia respiratoria acuta. Nei mesi di marzo ed aprile, in Messico sono stati accertati

2.155 casi di polmonite, 821 ospedalizzazioni e 100 decessi. Nello stesso periodo, un

- 44 -

comunicato ufficiale dei CDC denunciava due casi d’influenza “suina” ad Atlanta, dovuta

dichiaratamente ad un nuovo ceppo di virus influenzale. L’11 giugno 2009 WHO ha

innalzato il livello di allerta pandemica allo stato 6, corrispondente allo stato di pandemia

conclamata. L’agente responsabile di questa pandemia è un virus influenzale, sottotipo

A(H1N1)v, di origine suina, caratterizzato da un’unica combinazione di segmenti genici

che non è mai stata identificata in nessun virus influenzale animale o umano. Questo virus

è il risultato di un triplo riassortimento di geni di origine suina, umana e aviaria.

L’andamento generale della pandemia influenzale H1N1v in Europa è riassunto in figura

5.

Figura 5. Impatto di H1N1v nella distribuzione dei casi influenzali in Europa: confronto

fra i campioni sentinella, i positivi per virus influenzale e le curve epidemiche attese

rispetto all’andamento stagionale nel periodo 2008/09 e 2009/10. (Fonte: European

Influenza Surveillance Network)

In Italia ogni anno la sorveglianza sui ceppi influenzali circolanti e le caratteristiche

cliniche correlate è mantenuta alta grazie alla sorveglianza che viene svolta attraverso la

collaborazione degli Assessorati regionali alla Sanità, dell’Istituto Superiore di Sanità e del

Centro interuniversitario per la ricerca sull’influenza (CIRI), dei medici di medicina

generale e dei pediatri di libera scelta, dei laboratori universitari di riferimento e viene

coordinata dal Ministero della Salute.

- 45 -

Le persone sopra i 65 anni e quelle di ogni età con determinate condizioni patologiche

(polmonari e cardiache) sono a rischio di complicanze e mostrano elevata mortalità a

causa dell’influenza. Tale aspetto assume una dimensione rilevante in ambito ospedaliero

dove la popolazione ha più frequentemente tali caratteristiche. Le epidemie di solito si

verificano da dicembre ad aprile. I virus vengono introdotti in ospedale o altre strutture

sanitarie dal personale, dai visitatori o dai nuovi ammessi o pazienti trasferiti.

Analizzando quanto accaduto nella stagione influenzale 2008-2009, si è evidenziato come

l’introduzione del virus influenzale A(H1N1)v ha portato a un tasso di letalità pari allo 0,1-

0,2% dei casi clinici, tasso inferiore rispetto a quello delle precedenti pandemie. Questa

pandemia, pur presentando molte analogie con l’influenza stagionale, ha avuto delle

peculiari caratteristiche epidemiologiche: la distribuzione dei casi per gruppi di età è

marcatamente differente da quella dell’influenza stagionale, con maggior numero di casi

in bambini in età scolare e giovani e pochi casi negli adulti con età maggiore di 65 anni; un

tasso di fatalità inferiore negli adulti d’età avanzata. La maggiore suscettibilità

all’infezione in gruppi d’età inferiore concorda con dati di tipo siero-epidemiologico,

secondo cui i soggetti di età superiore a 60 anni avrebbero un’alta probabilità d’aver

sviluppato anticorpi neutralizzanti il virus nel corso di precedenti epidemie/pandemie. In

questo quadro tendenzialmente altri soggetti con relativa condizione di immunodeficit

(ad esempio soggetti obesi, donne gravide, pazienti HIV+) hanno manifestato

complicanze respiratorie più gravi di patologia influenzale, tanto da dover richiedere

supporto intensivistico, dall’assistenza ventilatoria invasiva fino all’ ECMO (Ossigenazione

Extra-Corporea a Membrana).

Il periodo d’incubazione è breve (1-3 giorni) e l’esordio brusco, dominato da febbre

accompagnata da sensazione intensa di freddo, che si alza rapidamente oltre 38-39°C

nelle prime 24 ore di malattia, per andare incontro a defervescenza nell’arco di 3-4 gg. I

pazienti lamentano anche altri sintomi sistemici come malessere generale, astenia,

inappetenza, cefalea frontale o generalizzata, artromialgie. Precocemente compaiono le

manifestazioni respiratorie come rinite, faringodinia, dolore retrosternale da irritazione

tracheale, tosse in genere secca e stizzosa con scarso espettorato. Sintomi diffusi di

- 46 -

questa pandemia 2009 sono stati diarrea, nausea, vomito, generalmente non presenti

nelle forme stagionali.

Le più comuni complicanze:

- a carico dell’ apparato respiratorio: broncopolmoniti da sovra-infezione batterica

(in particolare considerare nell’eziologia durante il periodo influenzale sempre

aumento di casi di polmonite da Staphylococcus aureus); polmonite primitiva da

virus influenzale; l’esacerbazione di bronchiti croniche ed asma

- complicanze extrapolmonari: miositi e rabdomiolisi; miocardite influenzale;

encefalite post-influenzale; nevriti e radicoliti.

Dopo il primo caso importato confermato in Italia, segnalato il 24 aprile 2009, sono stati

immediatamente rafforzati e mantenuti attivi i sistemi di sorveglianza dell’influenza

esistenti al livello nazionale. Di seguito viene riportata la definizione di caso di influenza

pandemica durante la fase di contenimento (aprile-luglio 2009):

Criterio clinico

− Sindrome simil-influenzale (ILI)

− Infezione respiratoria acuta

− Febbre con almeno uno dei seguenti sintomi:

− Tosse − Cefalea − Rinorrea − Mal di gola − Diarrea − Vomito – Mialgie

Criterio di laboratorio (almeno uno dei seguenti saggi):

− RT-PCR specifica per il nuovo virus A/H1N1v

− Aumento di 4 volte degli anticorpi specifici per virus dell’influenza di tipo

A/H1N1v a distanza di 10-21 giorni

− Isolamento del virus in coltura

Criterio epidemiologico (almeno uno dei seguenti criteri):

− Persona che nei 7-10 giorni precedenti l’esordio della sintomatologia ha

avuto contatti stretti con un caso umano sintomatico di influenza da

nuovo virus A/H1N1v

− Persona che nei 7-10 giorni precedenti l’esordio della sintomatologia ha

viaggiato o proviene da un’area nella quale siano stati confermati casi di

influenza da nuovo virus A/H1N1v

- 47 -

Caso sospetto: persona che risponde ai criteri clinici ed epidemiologici.

Caso probabile: persona che risponde ai criteri clinici, epidemiologici e positiva per una

infezione da virus A o da altro tipo non tipizzabile oppure una persona che risponda ai

criteri clinici e che abbia una connessione epidemiologica con un caso confermato o

probabile.

Caso confermato: persona che risponde ai criteri clinici, epidemiologici e di laboratorio. Le

autorità sanitarie locali erano tenute a segnalare immediatamente (entro le 12 ore) i casi

anche solo sospetti al Ministero della Salute e all’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e a

provvedere alla conferma di laboratorio.

Dal 27 luglio 2009, in seguito alla diffusa circolazione del virus pandemico al livello

internazionale e nazionale, la definizione di caso veniva modificata e la Circolare del

Ministero della Salute prevedeva la segnalazione settimanale dei casi di ILI, dei casi

ospedalizzati, e dei decessi. La conferma di laboratorio era prevista solo per i casi più

severi e in caso di epidemie in comunità (più di 5 casi collegati tra di loro). Quindi, come

definito dalle Circolari Ministeriali del 13 Ottobre 2009 N.

DGPREV/V/46387/P/I..4C.A. e del 14 Ottobre 2009 N. DGPREV/V/46540/P/I..4C.A., la

sorveglianza di laboratorio sul virus pandemico (mediante identificazione del virus

influenzale su tampone faringeo con metodica rtPCR, unitamente a notifica dei dati clinici

del paziente ) era da limitare alle forme considerate gravi e complicate, ovvero:

- gravi infezioni respiratorie acute (SARI): casi di sindrome similinfluenzale (definiti

clinicamente secondo il protocollo INFLUNET) e difficoltà respiratoria che

richiedono un ricovero ospedaliero in Unità di Terapia Intensiva e/o ricorso alla

terapia ECMO

- sindromi da distress respiratorio acuto: sindrome infiammatoria polmonare,

caratterizzata da lesioni alveolari diffuse e aumento della permeabilità dei capillari

polmonari, con incremento del liquido polmonare extracapillare, definito come

edema polmonare non cardiogeno, che richiedono un ricovero ospedaliero in

Unità di Terapia Intensiva e/o ricorso alla terapia ECMO. Si differenzia dalla prima

forma per la maggiore gravità clinica e a livello emogasanalitico per un indice di

- 48 -

ossigenazione PaO2/FiO2 inferiore a 200 mmHg, indipendentemente dal valore di

PEEP (Positive End Expiratory Pressure).

In questi casi con conferma di laboratorio (Laboratorio di riferimento: Virologia INMI L.

Spallanzani), era dunque necessaria non solo la segnalazione con le modalità di notifica

previste dal D.M. 15 dicembre 1990 per le Malattie di Classe I, ma anche all’ISS e al

Ministero della Salute (ufficio V-Malattie Infettive), con apposita modulistica. Da

segnalare che tale flusso viene ripristinato nella stagione influenzale in corso 2014-2015

per la nuova segnalazione di casi gravi.

A livello regionale venivano creati piani con la finalità di programmare l’operatività in

ambito ospedaliero rispetto agli obiettivi specifici del Piano Pandemico Nazionale e

Regionale, con particolare riferimento alla gestione pratica dei casi (Programmazione

della Rete Ospedaliera). Nel Lazio i centri individuati per il trattamento ECMO e HFOV

(High Frequency Oscillation Ventilation) del paziente adulto erano: il Policlinico

Universitario A. Gemelli, il Policlinico Umberto I, l’Azienda Ospedaliera S. Camillo-

Forlanini.

Considerazioni molto importanti per analizzare le dinamiche di una possibile diffusione in

ambito nosocomiale sono:

Le modalità di trasmissione dell’influenza: per droplet, per contatto e per via

aerea.

Il periodo di incubazione è breve, di solito 1-3 giorni; il periodo di trasmissibilità va

probabilmente da 3 a 5 giorni dall’inizio dei sintomi negli adulti, e sopra i 7 giorni

nei bambini.

L’R0 per H1N1v stimato in Messico è stato di 1,4-1,6: più alto rispetto alle

influenze stazionali, ma più basso rispetto alle precedenti pandemie influenzali.

Nel corso di epidemie estese il tasso di attacco può variare dal 5% al 30%; in corso

di pandemie potrebbe arrivare al 60-70%.

Un’epidemia di influenza è definita come tre o più casi clinici acquisiti in una struttura in

un periodo di 7 giorni, oppure un caso confermato dal laboratorio. La notifica va

effettuata mediante segnalazione contestuale alla Direzione sanitaria, Dipartimento di

sanità pubblica e Regione, utilizzando la scheda SSCMI/2006 del Regolamento “Sistema di

- 49 -

segnalazione rapida degli eventi epidemici ed eventi sentinella nelle strutture sanitarie e

nella popolazione generale.

Per ciò che attiene alle norme di isolamento, precauzioni per droplets vanno attuate per 5

giorni, eccetto le persone immunocompromesse nelle quali le precauzioni devono essere

adottate per tutta la durata delle malattia.

La misura preventiva più efficace è il vaccino. L’obiettivo operativo di copertura vaccinale

è vaccinare almeno il 75% delle persone di età uguale o superiore ai 65 anni, le persone a

rischio per l’insorgenza di complicanze, gli operatori sanitari di assistenza. Il periodo

ottimale per l’avvio delle campagne di vaccinazione antinfluenzale è quello autunnale, a

partire dalla metà di ottobre fino alla fine di novembre. Per la protezione dei contatti, la

chemioprofilassi antivirale può essere presa in considerazione in particolari circostanze.

Per ciò che riguarda la terapia, oseltamivir e zanamivir sono risultati essere gli antivirali

più efficaci in H1N1v. La somministrazione va effettuata precocemente per un effettivo

beneficio sulla prognosi. Il trattamento antivirale è raccomandato, oltre che nelle forme

gravi, solo per i casi che presentavano fattori di rischio pregressi l’insorgenza della

malattia (malattie croniche).

Rispetto alle caratteristiche assunte dalla pandemia influenzale del 2009 nel nostro

territorio, il primo obiettivo dell’indagine epidemiologica intraospedaliera è stato stabilire

quali siano risultati i fattori clinici influenti sullo sviluppo di un decorso patologico più

grave, in particolare riguardo alla mancata conoscenza dei meccanismi che conducono

pazienti con polmonite all’insorgenza d’insufficienza respiratoria acuta. Il nostro studio si

è proposto proprio di delucidare i possibili fattori predittivi di insufficienza respiratoria,

analizzando le comorbidità, la sintomatologia e la semeiotica clinica, i referti

ematochimici e radiologici correlati ai casi con decorso più grave e confrontati con quelli

di pazienti con quadro clinico più lieve. Inoltre ulteriore rilevanza hanno acquisito le

strategie terapeutiche pianificate per ridurre il più possibile il rischio di sviluppare una

malattia dalla durata e gravità maggiori, prevenendo sia l’insorgenza di sequele sia un

esito fatale dell’infezione. Inoltre osservazioni sono state effettuate per evidenziare e

isolare eventuali diffusioni intraospedaliere, individuando i percorsi più adeguati

all’assistenza e cura dei casi gravi. Per finire, recenti studi hanno dimostrato che

- 50 -

incrementati livelli di citochine e chemochine nel sangue siano stati importanti markers di

malattia critica in corso di pandemia, suggerendo che l’immunopatologia possa aver

contribuito all’insorgenza di forme più severe. Così un secondo obiettivo è stato quello di

studiare l’infezione da un punto di vista viro-immunologico, analizzando soprattutto la

risposta immune innata delle cellule dendritiche per stabilire se la compromissione della

risposta infiammatoria di queste popolazioni cellulari possa essere stata all’origine di una

malattia respiratoria severa causata dal virus H1N1.

È stato effettuato uno studio retrospettivo su pazienti ricoverati nel reparto di Malattie

Infettive dell’Ospedale Santa Maria Goretti con sintomatologia respiratoria sospetta per

influenza suina. Lo studio è stato condotto attraverso l’esame delle cartelle cliniche dei

pazienti ed i dati raccolti sono stati inseriti in database elettronico.

Per ogni paziente, sono state selezionate le seguenti informazioni:

- caratteristiche demografiche (età, sesso), presenza di comorbidità (BPCO, asma,

patologie cardiache, neoplasie e linfomi, obesità, gravidanza, ecc.) e numero di

giornate di degenza;

- condizioni cliniche all’ingresso: numero di giorni dall’inizio della sintomatologia,

temperatura corporea, frequenza respiratoria e saturazione d’ossigeno;

- indice di gravità dell’affezione respiratoria: indice più alto di gravità per pazienti

che necessitano di CPAP, d’intubazione con ventilazione meccanica oppure

d’ossigenoterapia ad alte dosi (30-50%) con maschera di Venturi; indice di bassa

gravità per pazienti con ossigenoterapia a dosi inferiori o senza ossigenoterapia;

- parametri di laboratorio: globuli bianchi e formula leucocitaria, conta piastrinica,

glicemia, AST, ALT, LDH, PCR all’ingresso e in dimissione;

- eventuale applicazione di supporto ventilatorio con precisazione del rapporto

PO2/FiO2 in aria ambiente e dopo ossigenoterapia;

- positività o negatività dei risultati nella ricerca del virus con PCR su tampone

faringeo;

- referto delle immagini radiologiche e numero di quadranti coinvolti alla Rx torace

più eventuale esecuzione di TC;

- 51 -

- impiego della terapia antivirale con oseltamivir (quando viene iniziata in rapporto

all’esordio dei sintomi, numero di giornate per la scomparsa di questi ultimi e

durata);

- terapia antibiotica impostata.

Sono stati definiti i seguenti criteri d’inclusione:

- all’inizio della pandemia, pazienti con sintomatologia respiratoria recatisi in aree

endemiche;

- nel periodo di diffusione della pandemia, pazienti ospedalizzati con presentazione

clinica compatibile con un quadro influenzale di affezione respiratoria acuta;

- pazienti risultati positivi alla PCR su tampone faringeo, nonostante la negatività

del test non sia stata utilizzata come criterio di esclusione.

Sono stati inclusi nello studio epidemiologico 47 pazienti ricoverati nel reparto di Malattie

Infettive durante il periodo da Ottobre 2009 a Dicembre 2009. L’andamento temporale

dei casi è riassunto in figura 6

Figura 6. Andamento temporale dei casi di H1N1v inclusi nello studio.

5

15

11

7

4

2

0

2

4

6

8

10

12

14

16

25 ott. 1 nov. 8 nov. 15 nov. 22 nov. 29 nov. 6 dic.

N°r

ico

veri

per

H1

N1

Settimane

- 52 -

Nelle Tabelle 3 e 4 sono riportate le caratteristiche generali, terapia ed evoluzione clinica

della popolazione in studio.

Tabella 3. Caratteristiche generali dei pazienti affetti e ricoverati per H1N1v.

ETA’ MEDIA, anni (range) 45,17 (16-75)

SESSO, n° pz (%)

-Maschi 20 (42,5%)

-Femmine 27 (57,4%)

DEGENZA MEDIA (range) 9 (1-47)

COMORBIDITA’, n° pz (%) 40 (85,1%)

-Patologie respiratorie 17 (36,1%)

-Patologie cardiovascolari 9 (19,1%)

-Diabete 5 (15,6%)

-Sovrappeso/Obesità 10 (21,2%)

-Gravidanza 2 (4,2%)

-Patologie neoplastiche 2 (4,2%)

-Altro 6 (12,7%)

DATI CLINICI ALL’INGRESSO, n° pz (%)

SINTOMATOLOGIA

-Febbre 47 (100%)

-Tosse 28 (59,5%)

-Dispnea 29 (61,7%)

-Cefalea 7 (14,8%)

-Mialgie 10 (21,3%)

-Sintomi addominali 3 (6,4%)

SEGNI CLINICI

-T>38°C 17(36,1%)

-Frequenza respiratoria (FR>20 atti/min) 15 (60%)

-Saturazione d’ossigeno (SaO2<90%) 13 (27,6%)

-Rapporto PO2/FiO2<300 (0,21%) 16 (34%)

PARAMETRI DI LABORATORIO, media (range)

-WBC (cell/mmc) 8297 (1170-19970)

-Linfociti (%) 19,4 (1,5-56,4)

- 53 -

-Neutrofili (%) 71,7 (28,6-92,5)

-Monociti (%) 7,8 (2,5-15,3)

-Piastrine (cell/mmc) 200912 (19200-796000)

-Glicemia (mg/dl) 129,7 (75-427)

-AST (UI/l) 48,8 (12-358)

-ALT (UI/l) 39,2 (9-321)

-LDH (UI/l) 519,6 (193-1838)

-PCR (mg/dl) 11,8 (0,2-127,7)

RX TORACE, n° pz (%)

Assenza di infiltrazioni 12 (25,5%)

Presenza di infiltrazioni 35 (74,4%)

- >3quadranti 16 (47,7%)

- 3 quadranti 19 (54,2%)

Tabella 4. Ricoverati per H1N1v, stagione influenzale 2009/10: terapia ed evoluzione

clinica.

OSSIGENOTERAPIA, n° pz (%) 30 (63,8%)

-Ventimask 22 (46,8%)

-CPAP 3 (6,3%)

-IOT

5 (10,6%)

TERAPIA ANTIVIRALE 47 (100%)

-Inizio < 48 h, n° pz (%) 17 (36,1%)

-Inizio >48 h, n° pz (%) 30 (63,8%)

-Durata, media (range)

5,1 (3-7)

TERAPIA ANTIBIOTICA, n° pz (%) 47 (100%)

-Penicilline 14 (29,7%)

-Cefalosporine 24 (51%)

-Macrolidi 10 (21,2%)

-Chinolonici 31 (65,9%)

-Altri antibiotici 4 (8,5%)

- 54 -

(Teicoplanina, Metronidazolo, Linezolid)

RICOVERO IN ICU, n° pz (%)

5 (10,6%)

OUTCOME CLINICO, n° pz (%)

-Guarigione 43 (91,4%)

-Exitus

4 (8,5%)

In linea con i dati epidemiologici generali riportati sui pazienti più colpiti da forme

influenzali gravi, da parte di H1N1v non vi era predilezione per le età estreme della vita,

osservandosi nel gruppo di pazienti ospedalizzati con un’età media di 45,1 anni (range 16-

75) (Figura 7).

Figura 7. Distribuzione dei casi ospedalizzati di H1N1v in base all’età.

0

5

10

15

20

25

30

16 - 25 26 - 35 36 - 45 46 - 55 56 - 65 >65

% p

azie

nti

osp

edal

izza

ti

Età (anni)

- 55 -

La coorte di pazienti eleggibili allo studio è stata suddivisa in due gruppi di gravità rispetto

alla necessità di ossigenoterapia ed al tipo di supporto ventilatorio utilizzato:

1. Gruppo ad alto indice di gravità = 18 (38,2%): pazienti con insufficienza

respiratoria grave, su cui sia stata effettuata intubazione orotracheale ed

ospedalizzati presso il reparto di Terapia Intensiva; pazienti che abbiano indossato

il CPAP; pazienti richiedenti ossigenoterapia ad alte dosi (40-50%) con maschera di

Venturi.

2. Gruppo a basso indice di gravità =29 (61,7%): pazienti con malattia febbrile acuta

in presenza o meno di polmonite od insufficienza respiratoria lieve, con richiesta

di ossigenoterapia a basse dosi o a respirazione in aria ambiente.

L’analisi statistica ha permesso di evidenziare come fattori prognostici di malattia grave

soprattutto il numero di quadranti infiltrati all’RX (p=0,008) con OR (95%CI) 6,879 (1,645-

28,756) ed il rapporto PO2/FiO2 (p=0,011) con OR (95%CI) 0,951(0,915-0,989), emersi

come gli unici fattori significativi all’analisi multivariata, fra i vari analizzati. Tali dati sono

riassunti nelle tabelle 5 , 6 e 7.

Tabella 5. Fattori di rischio per lo sviluppo di complicazioni o malattia grave.

Caratteristiche cliniche al ricovero

Variabili Pz con grave

insufficienza

respiratoria

N=18

Pz con lieve o

assente

insufficienza

respiratoria

N=29

P value

ETA’ MEDIANA, anni (range)

49,5 (22-75) 41 (16-71) 0,398

ETA’>45aa, n° pz (%)

12 (66,6%) 9 (31%) 0,03

- 56 -

COMORBIDITA’, n° pz (%) 16(88,8%) 23(79,3%) 0,3

-Patologie cardiovascolari 5(27,7%) 4(13,7%) 0,2

-Patologie respiratorie 6(33,3%) 12(41,3%) 0,5

-Patologie neoplastiche 1(5,5%) 1(3,4%) 0,6

-Diabete 3(16,6%) 2(6,8%) 0,2

-Sovrappeso/Obesità 7(38,8%) 5(17,2%) 0,09

-Gravidanza

0(0%) 2(6,8%) 0,3

SINTOMATOLOGIA, n°pz (%)

-Febbre 18 (100%) 29 (100%) ----

-Tosse 8 (44,4%) 16 (55,1%) 0,67

-Dispnea 17 (94,4%) 12 (41,3%) 0,0008

-Cefalea 1 (5,5%) 5 (17,2%) 0,38

-Mialgie 4 (22,2%) 6 (20,6%) 0,58

-Sintomi addominali

1 (5,5%) 2 (6,8%) 0,67

SEGNI CLINICI, mediana (range)

-TC (°C) 37,5 (36-39) 37 (36-39,2) 0,577

-FR (atti/min) 28 (15-36) 22 (15-36) 0,068

-SaO2 (%) 86,5 (72-96) 96 (83-100) <0,001

-Quadranti Rx 4 (1-4) 1 (0-4) <0,001

-Gg inizio sintomi-inizio oseltamivir

5 (1-7) 2 (1-7) 0,035

Tabella 6. Fattori di rischio per lo sviluppo di complicazioni o malattia grave.

Esami ematochimici

Variabili Pz con grave

insufficienza

respiratoria

Pz con lieve o

assente insufficienza

respiratoria

P value

- 57 -

N=18

N=29

DATI DI LABORATORIO,

mediana (range)

-WBC(cell/mmc) 7525 (1170-16590) 6520 (3030-19970) 0,642

-Linfociti(%) 14,4 (1,5-64) 14,9 (2,8-49) 0,991

-Neutrofili(%) 72 (28,6-89,6) 77,2 (48,5-92,5) 0,355

-Monociti(%) 6,6 (3,8-14,5) 8,7 (2,5-15,3) O,111

-PLT (cell/mmc) 164500 (25000-

796000)

183000 (19200-

295000)

0,324

-Glicemia (mg/dl) 114 (75-427) 112 (86-177) 0,325

-LDH (UI/l) 561 (216-1838) 347 (193-1225) O,001

-AST (UI/l) 32 (12-158) 22 (11-358) 0,026

-ALT (UI/l) 28 (9-128) 19 (9-321) 0,062

-PCR (mg/dl) 9,5 (0,4-127,7) 4,1 (0,2-33,6) 0,007

-PO2/FiO2

220,4 (158-367) 335 (214-429) <0,001

Tabella 7. Analisi univariata e multivariata dei fattori di rischio per lo sviluppo

d’insufficienza respiratoria.

VARIABILI ANALISI UNIVARIATA ANALISI MULTIVARIATA

Odds

ratio

95% CI P value Odds

ratio

95% CI P

value Età>45aa 4,44 1,08-

19,25

0,03 NS

Dispnea 24,08 2,65-

553,36

0,0008 NS

SaO2 <90% 30,33 4,85-

235,56

0,000002 NS

- 58 -

Su un sottogruppo di 13 pazienti con malattia influenzale H1N1v confermata con diagnosi

virologica, è stato effettuato uno studio longitudinale per osservare la risposta del

sistema immune innato all’infezione. Come controlli sono stati arruolati 13 soggetti sani,

in assenza di sintomi influenzali nelle ultime 4 settimane. I pazienti non dovevano

presentare segni d’infezione batterica e altri fattori di immunodepressione (HIV

negatività). Tutti i pazienti con influenza hanno ricevuto oseltamivir al momento del

ricovero e la cura è stata proseguita per 5-7 giorni. I pazienti hanno accettato di essere

seguiti al follow-up, in seguito alla dimissione dall’ospedale. I dati sono stati registrati a

diversi tempi: al momento del ricovero (t0), dopo 9-15 giorni (t1), dopo un mese (t2) ed

infine dopo 3 mesi (t3). E’ stata su di essi effettuata una raccolta di campioni ematici volta

alla enumerazione, ex vivo, delle cellule dendritiche(DCs) del sangue periferico, nelle due

popolazioni mieloidi e plasmocitoidi, e alla conta dei linfociti CD4+ e CD8+.

Alla diagnosi d’influenza A H1N1, non sono state riscontrate alterazioni significative nella

conta dei monociti rispetto ai controlli sani. Invece una riduzione importante dei linfociti T

Quadranti infiltrati

>2 all’Rx

22,5 3,83-

158,14

0,00001 6,879 1,645-

28,756

0,008

Inizio oseltamivir

entro 48h

0,13 0,02-

0,79

0,008 NS

LDH>480 UI/l 16,88 2,57-

142,17

0,0003 NS

AST>34 UI/l 5,52 1,0-

33,87

0,02 NS

PCR >0,5 mg/dl 1,26 0,08-

38,16

0,6 NS

PO2/FiO2 <300 43,33 6,26-

397,53

0,0000006 0,951 0,915-

0,989

0,011

- 59 -

CD4 e CD8 era stato dimostrato al ricovero, ma i valori si normalizzavano dopo la prima

settimana.

Al momento del ricovero, nei pazienti con infezione da H1N1, la conta mediana delle

pDCs (1420 cellule/ml) era significativamente ridotta rispetto ai controlli (10.967 cell/ml)

(p<0.001). Analogamente la conta mediana delle mDCs nei pazienti con H1N1 era

nettamente ridotta rispetto ai soggetti sani (3652 cell/ml versus le 14064 cell/ml)

(p<0.001). Al tempo T1, T2 e T3 è stato osservato un significativo aumento sia delle mDCs

che delle pDCs, tuttavia i livelli di pDCs in occasione dell’ultimo follow-up non

raggiungevano i livelli normali e risultavano essere persistentemente più bassi rispetto ai

controlli sani.

Nelle figure 8, 9 e 10 sono riassunti graficamente i dati sopra riportati.

Figura 8. Enumerazione dei linfociti T CD4 e CD8 ai vari tempi.

- 60 -

Figura 9. Curve di distribuzione dei valori di mDCs e pDCs per ogni paziente.

Figura 10. Andamento Cellule Dendritiche nelle sottopopolazioni Mieloidi e

Plasmocitoidi: confronto pazienti/controlli ai vari tempi.

- 61 -

A livello immunologico, il pattern della risposta immune nell’infezione pandemica 2009 da

virus H1N1 nell’essere umano non è stato ancora completamente delucidato. Alcuni studi

hanno dimostrato che incrementati livelli di citochine e chemochine nel sangue siano stati

importanti markers di malattia critica in corso di pandemia, suggerendo che questo

esagerata risposta infiammatoria possa aver contribuito all’insorgenza di forme più

severe. In particolare, il ruolo della risposta immune innata in pazienti con infezione H1N1

è stata poco studiata. Gli studi condotti hanno dimostrato la primaria replicazione del

virus all’interno di cellule dell’immunità innata, macrofagi e cellule dendritiche,

interferendo con l’espressione di geni codificanti per citochine antivirali ed

antinfiammatorie. Conducendo uno studio longitudinale sui livelli di cellule dendritiche

nel sangue di alcuni pazienti ospedalizzati, i nostri dati hanno dimostrato che l’infezione

da virus H1N1v è stata associata ad una severa alterazione della risposta immune innata,

caratterizzata da deplezione delle cellule dendritiche circolanti, persistente anche per

diversi mesi dopo la remissione della malattia. Questo deficit, persistente dopo la

guarigione, potrebbe essere dovuto all’azione del virus stesso oppure ad una preesistente

alterazione dell’immunità innata.

Al di là dello studio dei fattori immunologici predisponenti alla e/o scatenati dalla

infezione da H1N1v, significativo è risultato nella nostra esperienza l’assenza di casi a

trasmissione intraospedaliera.

Va segnalato che adeguate misure preventive erano state poste in atto fra il personale

sanitario, in particolare una campagna vaccinale adeguatamente promossa e molto più

estesa rispetto alle precedenti influenze stagionali. Ciò perché effettivamente gli

operatori sanitari, qualora non aderenti alle precauzioni standard o all’utilizzo dei DPI,

risultano essere una potenziale categoria a rischio: per se stessi (da segnalare che uno dei

casi gravi oggetto dello studio è stato proprio un infermiere 118) e per gli altri, come

potenziale veicolo di diffusione, forse più importante ancora del contatto paziente

malato-paziente suscettibile. In effetti l’adesione alla campagna vaccinale ha permesso di

evitare tali problematiche, e non vi sono stati casi in cui si è richiesta l’attuazione di

profilassi con oseltamivir, che è raccomandata solo nei contatti stretti con soggetti che

appartengono a categorie a rischio di sviluppare forme severe.

- 62 -

Per ciò che attiene al contatto paziente – paziente, la mancata applicazione di percorsi

dedicati con gli isolamenti respiratori se non solo per i pazienti che richiedevano

ospedalizzazione non ha comunque favorito l’insorgere di focolai intraospedalieri.

L’applicazione di mascherine chirurgiche ai pazienti con febbre associata a sintomatologia

respiratoria consigliata dagli operatori e da poster disposti nelle aree di Pronto Soccorso è

comunque diventata uno strumento utile nelle affollate aree di attesa durante la stagione

influenzale. A ciò va aggiunta l’implementazione del lavaggio mani. Per i pazienti

ricoverati l’opportuna collocazione era valutata in base all’intensità del supporto

ventilatorio richiesto (reparti di Malattie Infettive, Medicina d’Urgenza, Terapia

Intensiva). Nessuno dei pazienti ha fortunatamente avuto necessità di ECMO e quindi

necessità di trasferimento presso altra struttura ospedaliera attrezzata.

Va segnalato che anche nella stagione 2014-2015 a livello globale si è contraddistinta

nuovamente per la presenza di H1N1, con la segnalazione anche in Italia di casi gravi.

Negli ultimi mesi l’attività influenzale è diminuita, ma nell'emisfero settentrionale è

rimasta al di sopra della soglia stagionale. Sebbene il virus influenzale A (H3N2) sia stato

predominante in questa stagione, i rilevamenti di virus influenzali B e A (H1N1) pdm09

sono aumentati a Febbraio, Marzo e Aprile 2015. Fino al momento attuale nella nostra

ASL non sono state poste diagnosi di casi gravi virologicamente confermati da H1N1v

nella presente stagione.

- 63 -

Klebsiella pneumoniae produttrice di carbapenemasi (KPC)

E’ il membro clinicamente più importante del genere Klebsiella. Si tratta di batteri Gram

negativi appartenenti alla famiglia delle Enterobacteriaceae.

Le infezioni nosocomiali di cui è più frequentemente causa sono: le polmoniti, le

batteriemie, le infezioni del sito chirurgico, e le meningiti. Il tasso di mortalità legato a tali

infezioni è elevato, variando dal 25% al 70%. La sua incidenza in ambito ospedaliero è in

netto incremento perché sono aumentate le infezioni causate da ceppi di Klebsiella multi-

farmaco resistenti. I primi ceppi di Klebsiella farmaco resistenti isolati in Europa furono

quelli produttori di beta-lattamasi a spettro esteso (ESBL: Extended Spectrum Beta-

Lactamases). Nel corso degli anni alcuni studi hanno documentato un significativo

incremento della resistenza a ceftazidime (fino al 22%), a gentamicina (fino al 73%) e a

chinoloni (fino al 52%), in particolare in Terapia Intensiva. Le ESBL possono idrolizzare un

ampio gruppo di beta-lattamici, tra cui le cefalosporine ad ampio spettro ed i

monobattamici, ma non sono attive nei confronti di cefamicine e carbapenemici.

Il primo isolato produttore di KPC era una K. pneumoniae identificata in North Carolina,

USA, nel 1996. Tale germe era resistente a tutti i β-lattamici, compresi i carbapenemici.

Negli anni sono state identificate sette varianti di KPC. Klebsiella pneumoniae è stata in

grado di portare alla diffusione globale della resistenza ai carbapenemici,

geograficamente e temporalmente tracciata dalle successive segnalazioni in letteratura.

Dopo il primo isolamento, Klebsiella pneumoniae produttrice di KPC si è rapidamente

diffusa nell’area di New York e successivamente in quasi tutti gli Stati Uniti. Le principali

carbapenemasi identificate negli USA sono KPC-2 e KPC-3 ed oltre ad essere prodotte da

K. pneumoniae, si riscontrano meno frequentemente anche in altre Enterobacteriaceae

(E. coli, Enterobacter cloacae, Proteus mirabilis, Klebsiella oxytoca, Pseudomonas

aeruginosa, Pseudomonas putida).

La prima epidemia da KPC al di fuori degli Stati Uniti è stata identificata in Israele . Anche

in questo caso i responsabili dell’epidemia erano cloni di KP produttori di KPC-2 e KPC-

3.Nel 2006 è stata documentata la diffusione di KP-KPC in numerosi ospedali colombiani.

Successivamente altre nazioni dell’America del sud (Brasile ed Argentina) hanno

documentato l’isolamento di cloni produttori di KPC.

- 64 -

In Europa la maggior parte dei casi sono stati segnalati in Grecia. In Francia sono stati

identificati cloni KP-KPC in pazienti provenienti da USA, Grecia ed Israele . Analogamente

anche in Svezia è stato riportato un caso di infezione da KPC in un paziente proveniente

dalla Grecia. Infine, due lavori documentano la diffusione di KPC nel Regno Unito, uno in

Scozia nel 2007 ed uno a Londra nel 2008. In sostanza, la presenza di enterobatteri

produttori di carbapenemasi, più frequentemente rappresentati da Klebsiella

pneumoniae, è diventato una causa comune di morbilità negli ospedali di tutta Europa

(Fig. 11)

Figura 11. Incidenza di Klebsiella pneumoniae KPC in38 paesi europei, dati a Marzo 2013

(fonte: ECDC, EuSCAPE project 2013).

Va sottolineato che le varianti del gene responsabile della produzione di KPC, blaKPC,

rappresentano solo uno dei possibili meccanismi plasmidici con cui è geneticamente

codificata la produzione di carbapenemasi e quindi la resistenza ai carbapenemici da

parte della famiglia delle Enterobacteriaceae (Tab.8 ).

- 65 -

Tabella 8. Carbapenemasi mediate da plasmidi riscontrate nella famiglia

Enterobacteriaceae.

TIPO Classe Molecolare

(sottoclasse)

Gruppo

Funzionale

Varianti

KPC A 2f KPC-2,-3

VIM B (B1) 3a VIM-1,-2,-4,-5,-6,-11,-12,

-13,-19,-24,-25,-26,-27,-32

IMP B (B1) 3a IMP-1,-2,-4,-6,-8,-11,-24,-

27

NDM B (B1) 3a NDM-1,-4,-5,-6

OXA D 2df OXA-48,-163,-181

La trasmissione per via plasmidica, insieme alla larga diffusibilità dei germi appartenenti a

questa famiglia attraverso la persistenza nei pazienti come colonizzanti intestinali ha

permesso la diffusione intra- e inter-ospedaliera di ceppi portatori. Spesso inoltre negli

stessi plasmidi sono presenti anche determinanti di resistenza agli aminoglicosidi e geni

responsabili della produzione di altre β-lattamasi, ad esempio blaCTX-M-15.

Anche nell’Ospedale S.M. Goretti di Latina, in linea con i dati nazionali, è stato evidenziato

un aumento delle infezioni da K. pneumoniae multiresistenti.

I dati basati prevalentemente sulle esperienze cliniche dei medici dell’ospedale

infettivologi, intensivisti e microbiologi hanno fatto emergere un cambiamento negli

ultimi anni nella composizione dei germi responsabili di infezioni nosocomiali, soprattutto

nelle aree critiche, con uno spostamento del numero di isolati dai Gram negativi ai Gram

positivi. Inoltre si è assistito anche, fra i Gram negativi, a una diminuzione di specie quali

Acinetobacter baumannii e a un incremento degli isolati di Klebsiella pneumoniae. Le

infezioni da Klebsiella pneumoniae rappresentavano solamente il 2% di tutte le infezioni

nosocomiali contratte nel reparto di Rianimazione considerando i dati raccolti nell’anno

2008-2009 in uno studio osservazionale retrospettivo, rispetto al 50% registrato a Maggio

2012 (Fig. 12)

- 66 -

Figura 12. Cambiamento della ecologia microbica in Terapia Intensiva nei due

campionamenti nel 2008-2009 e nel 2012: dati ricavati da pazienti affetti da Infezioni

Nosocomiali nei rispettivi periodi.

Il rafforzarsi dei sistemi di sorveglianza interna con l’attivazione delle segnalazioni di

“germi alert” ha ulteriormente permesso di attestare queste variazioni, evidenziando

come già nel primo semestre del 2012 circa il 50% degli isolamenti di Klebsiella

pneumoniae dell’ospedale risultava resistente ai carbapenemici.

2%

9%

31%

9% 11%

5%

3%

4%

2%

2% 22%

da Giugno 2008 a Giugno 2009

KlebsiellapneumoniaePseudomonasaeruginosaAcinetobacterbaumanniiStaphylococcusaureusCoNS

Enterococcusspp.Escherichia coli

Enterobactercloacae

50%

8%

17%

8%

17%

Maggio 2012

- 67 -

Va segnalato che a quest’epoca le colture derivavano pressoché tutte da campioni

“clinici” e non da rilevazioni di sorveglianza (screening con tampone rettale).

Il primo isolato di KPC risale ad aprile 2011 e il picco di incidenza nel primo anno di

comparsa si è avuto a luglio 2011. Successivamente si è assistito a un trend in costante

crescita del numero dei casi, seguito da una relativa stabilizzazione del numero dei casi

nel 2014 (in particolare: meno sepsi) e infine nel corso degli ultimi mesi è da segnalare un

relativo decremento del numero di infezioni e soprattutto delle implicazioni in termini di

morbilità e mortalità (vedi Tab. 9)

Tabella 9. Report microbiologico sugli esami colturali positivi per Klebsiella

pneumoniae nell’Ospedale S.M. Goretti di Latina, dal momento dell’attivazione del

software Copernico (bioMérieux®) e della Sorveglianza di Laboratorio Attiva da parte

del C.I.O.

ANNO 2012 ANNO 2013 ANNO 2014 GENNAIO-APRILE

2015

Tutti i campioni* 237 272 325 116

Emocolture* 60 111 77 7

ESBL 93,9% 91,9% 85,8% 80,5%

Resistenza a

CARBAPENEMICI

63,1% 60,2% 43,8% 25,6%

Resistenza a

Colistina

18,6% 16,8% 32,5% 32,0%

*non sono esclusi campioni duplicati sullo stesso paziente

Interessante è stato inoltre notare che il fenomeno del “clonal replacement” fra ceppi di

Klebsiella pneumoniae produttori di diverse carbapenemasi ripeteva come modello in

scala quello mondiale e già descritto in altri ospedali. La Klebsiella pneumoniae è

cominciata a comparire nel nostro ospedale a partire dalla seconda metà del 2011.

Durante questo periodo sono stati raccolti i ceppi isolati da 10 pazienti. Le caratteristiche

cliniche mostravano che nel 70% la presenza di Klebsiella risultava correlata a sepsi; in

altri 3 casi vi erano rispettivamente isolati da ferita chirurgica, liquido peritoneale, liquor;

- 68 -

in due pazienti l’isolato era da urinocoltura. L’isolamento avveniva in media 17,5 giorni

dopo l’ingresso in ospedale (solo in un caso urinocoltura positiva al primo giorno di

degenza, si trattava di un paziente già seguito presso DH ematologico di altro

nosocomio). Nove pazienti avevano ricevuto terapia antibiotica precedente con ß-

lattamici.

La mortalità osservata nel gruppo di pazienti è stata del 50%.

I fenotipi di resistenza per i carbapenemi mostrati dal sistema automatizzato VITEK 2

(bioMérieux®) sono stati confermati con test manuale (HODGE test modificato). Sono

stati, quindi, inviati i ceppi presso un laboratorio di riferimento esterno (Policlinico

Umberto I) per il sequenziamento genico. Nei primi isolati vi era la presenza di una

metallo beta-lattamasi di tipo VIM, cui è seguita la comparsa e successiva sostituzione da

parte di ceppi di Klebsiella pneumoniae produttori di carbapenemasi tipo KPC. Nel

dettaglio l’analisi microbiologica evidenziava nei primi isolati la presenza di una metallo-ß-

lattamasi di tipo VIM (ST101), cui è seguita (Ottobre 2011) la comparsa e successiva

sostituzione da parte di ceppi di Klebsiella pneumoniae produttori di serin-carbapenemasi

KPC (risultati più rappresentati ST 512 che successivamente si è diffusa nei reparti

intensivi, mentre ST 650 e ST258 sono state rilevate in due pazienti con probabili

precedenti contatti presso altre strutture ospedaliere e ricoverati rispettivamente in

Ematologia e Medicina d’Urgenza).(Fig.13).

Figura 13. Diagramma illustrativo della comparsa sequenziale di ceppi di Klebsiella

pneumoniae VIM e di quelli KPC nello studio pilota sui primi 10 isolati comparsi in

Ospedale S.M Goretti di Latina.

- 69 -

L’elevato tasso di letalità è legato al fatto che molto spesso i carbapenemi rappresentano

l’ultima linea di difesa contro le infezioni da Gram-negativi MDR, ma soprattutto sono

ampiamente considerati i farmaci di scelta nel trattamento delle infezioni gravi causate da

Enterobacteriaceae ESBL. L’emergenza della resistenza ai carbapenemi è dunque

preoccupante.

I vari studi condotti in diverse parti del mondo hanno identificato i principali fattori di

rischio ospedalieri implicati nell’acquisizione di infezioni da K. pneumoniae KPC. Essi

includono: stato generale gravemente compromesso, ricovero in Unità di Terapia

Intensiva, trapianto d’organo, ventilazione meccanica, lungodegenza, trattamento

antibiotico prolungato, presenza di ferite chirugiche, e trasferimento da e verso altri

reparti. Inoltre, l’uso di carbapenemi a largo spettro, di fluorochinolonici e cefalosporine è

stato identificato come un fattore di rischio aggiunto allo sviluppo della resistenza ai

carbapenemi. Ad aumentare ancora di più il rischio sembrerebbe il numero di antibiotici

somministrati piuttosto che la somministrazione di una specifica classe di antibiotici.

Capitolo a parte e ancora grandemente sconosciuto è la durata dello stato di carrier

intestinale, che si suppone essere comunque una condizione molto duratura stando alle

prime osservazioni, contro la quale non esistono effettivi protocolli di decolonizzazione.

Sul paziente portatore è opportuno prolungare le precauzioni da contatto. Una maggiore

suscettibilità per i portatori a non uscire da questo stato ed eventualmente a ripresentare

infezioni severe da Klebsiella pneumoniae è stata correlata a fattori quali: la mancata

autonomia del paziente (misurata con l’indice di Barthel), la presenza di devices invasivi,

la residenza in istituti di lungodegenza.

Le opzioni terapeutiche di fronte a un batterio produttore di carbapenemasi sono

veramente ridotte e sono state sviluppate nella pratica clinica associazioni terapeutiche

che per dosaggi e concetto di funzionalità sulla MIC vanno ormai al di là di quanto

prospettato dall’antibiogramma, ovviamente in maniera del tutto off-label rispetto alla

scheda tecnica dei singoli prodotti, per quanto ciò sia ormai consolidato nella pratica

clinica comune. Le principali associazioni prevedono infatti comunque sempre l’uso di

carbapenemico a dosaggio maggiore , eventualmente anche con l’uso di doppio

carbapenemico , variamente associato con i farmaci colistina, tigeciclina, colistina o

- 70 -

fosfomicina. L’utilizzo su larga di tali protocolli deve essere considerato una misura di

emergenza, con grosso impatto sia in termini di tossicità sul singolo paziente, sia in

termini di ecologia microbica che di potenziale terreno fertile per lo sviluppo di ulteriori

resistenze.

Non essendovi in questo campo nessun nuovo antibiotico presente sullo scenario della

ricerca farmacologica, il massimo dello sforzo deve concentrarsi nell’ ottimizzazione delle

risorse già esistenti e nel migliorare il più possibile le misure di controllo sulle infezioni.

L’evidenza della presenza di tali ceppi nel nostro ospedale ha imposto l’adozione di

misure per il loro contenimento per cui la Direzione Sanitaria, nell’ambito del CIO, ha

deciso di adottare un protocollo operativo che considerasse i vari aspetti tra cui quello

dell’uso degli antibiotici. L’ U.O.C .di Farmacia del P.O. Nord S. Maria Goretti di Latina si è

interfacciata con i clinici conducendo una ricerca epidemiologica pilota nell’ ospedale dei

ceppi di KPC rilevando nel periodo compreso tra novembre 2011 e maggio 2012 in totale

74 casi isolati da pazienti ricoverati in 10 reparti, per stimare la durata media della terapia

richiesta nella pratica clinica.

In accordo con le pratiche di “antibiotic stewardship” che costituiscono uno degli

strumenti più importanti nella lotta alle infezioni nosocomiali da germi multi-antibiotico-

resistenti, è stata inoltre elaborata dal servizio famaceutico una apposita scheda per la

richiesta dei farmaci necessari alla terapia delle infezioni da KPC. (Fig. 14)

- 71 -

Figura 14. Richiesta personalizzata di farmaco per Protocollo KPC.

Per la stesura del protocollo aziendale ci si è avvalsi delle attuali linee guida esistenti

(ECDC 2011 e CDC 2009 e 2012), nonché degli ultimi studi sugli enterobatteri produttori di

carbapenemasi e si è quindi proceduto all’approvazione preliminare da parte della

Commissione Terapeutica Aziendale (CTA) del protocollo di trattamento “off label” di

pazienti affetti da Klebsiella, parte integrante del protocollo operativo approvato CIO. In

particolare sono state riportate nel protocollo aziendale le associazioni antibiotiche

riportate in tabella 10, sebbene l’adeguamento specifico del dosaggio va concordato in

- 72 -

ogni singolo caso con il consulente infettivologo e in accordo ai criteri che identificano un

uso off label dei farmaci. Inoltre in alcuni casi, di fronte alla presenza di germi

panresistenti si è richiesto l’uso dell’associazione di doppio carbapenemico (ertapenem-

meropenem), come da evidenze di lavori di letteratura, e non presente negli schemi

aziendali proposti.

Tabella 10. Antibiotici, loro combinazioni e relativi costi previsti nel protocollo aziendale

ASL di Latina per la cura delle infezioni da KPC.

LABELLED OFF LABEL

Posologia monoterapia Posologia monoterapia Doppia

associazione

Tripla

associazion

e

Tigeciclina

100 mg dose

carico + 50 mg x

2 vv/die per 5-

14 gg

€ 590-1470 Tigeciclina

300 mg dose

carico + 150 mg

x 2 vv/die per

16 gg

€ 5.012

€ 5.468

€5.966

Colistina

3,5 mU/die per

10 gg

€ 104 Colistina

9 mU dose

carico + 4,5 mU

x 2 vv/die per

16 gg

€ 456

Meropenem

1 g x 3 vv/die

per 10-15 gg

€ 156-234 Meropenem

2 g x 3 vv/die

per 16 gg

€ 498

Il gruppo operativo del CIO fronteggiava il rischio di una possibile diffusione epidemica

stilando fondamentalmente due documenti. Il primo, “Proposta di strategie per ridurre le

infezioni da germi Gram negativi multiresistenti nel Reparto di Rianimazione” (Gennaio

2012) in cui già si proponeva, iniziando dal reparto nevralgico per le infezioni da MDR, di

suggerire l’adozione delle cinque misure di seguito riportate:

- 73 -

1. Attuare dopo isolamento di ceppi ad elevata resistenza antibiotica (sensibilità a

soli due antibiotici o assoluta mancanza di sensibilità nell’antibiogramma) misure

strette di precauzione da contatto, possibilmente con la definizione dell’area

critica attorno al paziente in maniera fisica, mediante l’installazione di pareti fisse

a creare box al momento non presenti in Unità di Terapia Intensiva. Ricordare di

restringere il numero del personale dedicato all’area del paziente in isolamento da

contatto, di applicare tali misure anche ai consulenti e ai familiari del paziente, di

non portare fuori nessun presidio se non dopo disinfezione accurata.

2. Rapida introduzione del lavaggio mani con soluzione alcolica. Formazione del

personale sanitario e addetto alle pulizie.

3. Raggruppare progressivamente in un unica area i pazienti infetti o colonizzati da

CPE (cohorting)

4. Effettuazione di tamponi di sorveglianza per verificare eventuali colonizzazioni in

modo da anticipare le misure da contatto. Tale misura va prevista all’ingresso su: i

pazienti provenienti da altro ospedale o recentemente ricoverati in ospedale

(negli ultimi tre mesi) o provenienti da strutture territoriali per anziani.

5. Continuare le operazioni di sorveglianza ed informare costantemente il personale

medico e paramedico in modo da motivarlo sui risultati raggiunti.

Tali raccomandazioni venivano ampliate e precisate con la stesura del “Protocollo

Aziendale Operativo per la Sorveglianza, Prevenzione e il Controllo dei Ceppi di Klebsiella

pneumoniae multiresistenti produttori di carbapenemasi.” (25.10.2012), ponendo in

particolare l’accento sulle misure di stewardship antibiotica e sul sistema di alert

microbiologico-clinico interno, in particolare con la raccomandazione di effettuare

notifica con la scheda di sorveglianza delle batteriemie da CPE che poi sarà prevista dalla

Circolare Ministeriale del 26 febbraio 2013 “Sorveglianza, e controllo delle infezioni da

batteri produttori di carbapenemasi (CPE)” con l’apposito modulo (Fig.15).

- 74 -

Figura 15. Scheda di sorveglianza delle batteriemie da CPE (Circolare Ministeriale del 26

febbraio 2013)

- 75 -

Sono stati meglio definiti i flussi interni e la funzionalità della notifica di sepsi da KPC con il

passaggio dell’informazione da medico microbiologo a medico del reparto dove è in cura

il paziente a Direzione Sanitaria di Presidio ad ASL competente e di qui agli appositi

indirizzi del Ministero della Salute e Istituto Superiore di Sanità. Tale procedura ha avuto

il duplice compito di comunicare i dati locali a livello nazionale sia di verificare, come già

evidenziato dai dati precedentemente riportati, come il problema delle infezioni gravi da

Klebsiella pneumoniae KPC stia dando effettivamente un lieve cenno di diminuzione. Non

si può quantificare al momento ancora quanto ciò stia avvenendo per la reale efficacia

delle misure adottate nel nostro ospedale (in particolare le buone pratiche di aderenza al

lavaggio mani) e quanto per nuovi equilibri nell’ecologia microbica presente in esso. Un

evento a nostro parere significativo è però che è coinciso con il rafforzarsi delle politiche

di corretto utilizzo del lavaggio mani tra i lavoratori dell’ospedale e in particolare con il

maggior consumo di soluzione alcolica (Fig. 16), registratosi in Azienda. Ciò peraltro

spiegherebbe come non si sia parallelamente purtroppo osservata una diminuzione delle

problematiche legate a Clostridium difficile, germe sporigeno non suscettibile all’azione

antisettica di tale presidio.

Figura 16. Consumo di soluzione alcolica per il lavaggio mani nel P.O. Nord di Latina.

1.585 1.873 1.903 1.892

19

1.163

2.577

4587

2011 2012 2013 2014

Consumo complessivo

litri altre sol. antisettiche

litri sol. alcoolica

0

4

8

19

2011 2012 2013 2014

litri sol. alcolica/1000gg paziente

2011

2012

2013

2014

- 76 -

Clostridium difficile

Clostridium difficile, un bacillo sporigeno, anaerobio e Gram-positivo, fu isolato per la

prima volta nel 1935 dal microbiota intestinale di un neonato sano. C. difficile è stato

quindi a lungo ritenuto un germe non patogeno, fino al 1978 quando veniva per la prima

volta associato a colite pseudomembranosa in un paziente precedentemente trattato con

antibiotici. La colite pseudomembranosa è una condizione di infiammazione che il colon

sviluppa in risposta alle tossine prodotte da questo microorganismo, cosa che può

accadere quando il resto del normale microbiota intestinale viene distrutto. C. difficile è

presente come colonizzante del tratto intestinale del 3% degli adulti sani e non è

suscettibile alle comuni terapie antibiotiche sistemiche. Specialmente se in associazione

alla terapia antibiotica vi sono altri fattori debilitanti per l’ospite o il concomitante utilizzo

di farmaci inibitori di pompa, ciò gli permette di proliferare e incrementare la

produzione di tossine, processo alla base del danno intestinale. Riassumendo, la

fisiopatologia della diarrea da Clostridium difficile richiede prima l'alterazione del

microbiota umano dovuta a terapie antibiotiche, quindi la contestuale colonizzazione del

Clostridium difficile, e, infine, se avviene il rilascio successivo di due potenti enterotossine

designate come tossina A e tossina B, si manifesta clinicamente. La tossina A è una

enterotossina con lieve attività citotossica che provoca soprattutto un danneggiamento

degli orletti a spazzola dei villi intestinali, la tossina B è una delle più potenti citotossine

conosciute, che altera in particolare il trasporto del potassio e la sintesi degli acidi nucleici

e delle proteine nelle cellule intestinali. Una terza tossina, chiamata tossina binaria, viene

prodotta dal 17 al 23% dei ceppi, ma il suo ruolo nello sviluppo di patologia non è ben

definito. Tuttavia alcuni lavori suggeriscono che i ceppi produttori di tossina binaria siano

associati con forme più severe di diarrea e una maggiore mortalità. Negli ultimi anni si è

assistito inoltre a un incremento di ceppi cosiddetti “ipervirulenti”, indentificati come i

ribotipi-PCR 017, 027 e 078.

I ceppi in questione sembrano avere una sregolata iperproduzione di tossine, o

presentare rispetto agli altri una fitness maggiore, che gli permette di competere meglio

con il microbiota intestinale e ne spiega la maggiore diffusione in ambito nosocomiale. Il

più rappresentato numericamente e studiato è il ceppo 027/NAP1/BI (laddove NAP sta

- 77 -

per North American Pulsed-field), particolarmente implicato in outbreak epidemici

ospedalieri. Di questo ceppo epidemico è stata ricostruita la diffusione mondiale,

utilizzando tecniche di “whole-genome sequencencing” e di analisi filogenetica. Due

distinti lineages denominati FQR1 e FQR2 sono emersi in Nord America nell’arco di un

breve lasso temporale da un comune antenato databile al più tardi nel 1994, e

acquisendo la stessa mutazione di resistenza ai chinolonici relata a un trasposone di

coniugazione fra gli anni 2001 e 2003. Hanno poi seguito due distinti pattern di diffusione

globale, ma FQR2 è rappresentato più ampliamente e ritrovato in outbreaks epidemici in

Regno Unito, Europa continentale e Australia (Fig. 17)

Figura 17. Storia della diffusione mondiale C. difficile 027 / BI / NAP1: eventi di

trasmissione dedotti dall’analisi genotipica e filogenetica in relazione a vari outbreaks

ospedalieri (fonte: Miao He et al. Nat Genet. 2013 Jan; 45(1): 109–113)

Inoltre più recentemente varie segnalazioni parlano del ribotipo 078 come sempre più

diffuso fra quelli in circolazione sia fra i casi di malattia associata a C. difficile a insorgenza

comunitaria che ospedaliera, e di singolare rilievo è il fatto che questo ceppo è il più

- 78 -

diffuso negli animali da allevamento (in particolare suini) e che per il riscontro frequente

nei tagli di macelleria è stato ipotizzato una trasmissione da animale a uomo.

L'Infezione da Clostridium difficile (CDI o CDAD: Clostridium Difficile Associated Disease)

può presentarsi con diversi gradi di severità, che variano da forme di diarrea moderate,

alla colite pseudomembranosa, fino al megacolon tossico con possibili perforazione

intestinale, stato settico ed elevata mortalità. In passato la diarrea associata a C. difficile

era considerata una “nuisance disease” piuttosto che una importante patologia infettiva.

Lo scenario cambia però radicalmente a partire dai primi anni 2000. Dal 2001 al 2003 in

alcuni ospedali del Canada si registra un improvviso aumento di incidenza dell’infezione,

specie tra i pazienti ultrasessantenni, con notevole frequenza di casi gravi e aumento di

oltre tre volte della mortalità attribuibile. Un aumento analogo dell’incidenza viene

riportato negli Stati Uniti, in Inghilterra e in altri paesi europei. Negli Stati Uniti il numero

di pazienti dimessi dall’ospedale con diagnosi di CDAD passa da 134.361 nel 2000 a

291.303 nel 2005; l’incidenza passa da 31/100.000 abitanti nel 1996 a 61/100.000 abitanti

nel 2003. Aumenta contestualmente la frequenza di forme clinicamente severe e la

letalità della malattia. Tale fenomeno può essere attribuito a diversi fattori:

- cambiamenti in procedure sanitarie (soprattutto in ambito terapeutico: maggiore

pressione antibiotica, eccessivo uso di inibitori di pompa protonica)

- aumentata attenzione alla diagnosi

- diverso profilo di rischio dei pazienti (ad esempio, numero percentualmente più

elevato di anziani fra i pazienti)

- Incremento anche della CDAD acquisita in comunità 8 da meno di 1 caso/100.000

persone nel 1999 a oltre 22 casi nel 2004)

- diffusione di ceppi ipervirulenti

Attualmente la CDAD è la causa principale di diarrea associata ad antibiotici e rientra

ormai in tutti contesti assistenziali fra le prime 10 cause di infezione nosocomiale. Spesso

le CDAD si manifestano con carattere epidemico. Sfida terapeutica ulteriore è

l’incrementato tasso di recidive definite come ogni nuovo episodio di CDAD che si verifica

entro 8 settimane dopo la completa risoluzione di un precedente episodio. Le recidive si

- 79 -

registrano per il 20% dopo il primo episodio, per il 40% dopo il secondo e per il 60% dopo

più di due episodi.

In base a quanto riportato, si è ritenuto necessario produrre una “Raccomandazione

Aziendale per la prevenzione e il controllo del Clostridium difficile”, fornendo le

informazioni adatte al contesto operativo dei P.O. della ASL di Latina. La

Raccomandazione fa parte del Piano Annuale di Risk Management (PARM) e delle

Infezioni Correlate all’Assistenza (CC-ICA) e introdotta in data 3 ottobre 2014. Il

documento ha lo scopo di ridurre la trasmissione della CDAD in ambito ospedaliero

attraverso una diretta sorveglianza, la prevenzione, la diagnosi precoce e il successivo

trattamento. Partendo dal presupposto che il paziente colonizzato/infetto è la fonte

primaria di Clostridium difficile, ma che per via diretta o indiretta il Clostridium difficile

contamina l’ambiente che diventa la fonte secondaria, è stato posto grande risalto al

fatto che la contaminazione ambientale (suppellettili, apparecchiature, servizi igienici) e

del personale (soprattutto le mani) è particolarmente pericolosa e insidiosa: le spore sono

altamente resistenti all’essiccamento e agli abituali disinfettanti usati e possono resistere

nell’ambiente per mesi. In tale ottica il documento aziendale è stato largamente diffuso

non solo fra gli operatosi sanitari dell’azienda Ospedaliera, ma anche al personale non

aziendale addetto alle procedure di sanificazione ambientale.

L’epidemiologia locale relativa alle CDAD al momento della stesura del documento

aziendale erano basate su:

- Dati SIMI (Società Italiana di Medicina Interna): nel 2013 si erano verificati nel

Lazio 7 eventi epidemici da C. difficile

- Dati Aziendali: nel 2013 pervenivano al servizio di Igiene e Sanità Pubblica n° 13

notifiche di CDAD: 4 da P.O. romani, 2 da Clinica S. Marco, 7 dal P.O. S.M. Goretti

dei quali 3 dal Reparto di Medicina PostAcuzie. Si trattava di 3 pazienti di sesso

maschile e 10 di sesso femminile; l’età media era 68,7 anni.

Veniva definito, in accordo con quanto descritto dal National Clostridium difficile

Standard Group come :

- 80 -

- CASO DI CDAD: diarrea non attribuibile ad altre cause, con la concomitante

positività del test per la ricerca della tossina e/o evidenza endoscopica di colite

pseudomembranosa

- EPIDEMIA DI CDAD: due o più casi correlati in base al periodo e alla località di

contaminazione, in accordo con la casistica.

Al clinico vengono fornite le seguenti ulteriori caratteristiche riscontrabili in caso di

CDAD, in particolare nelle forme severe:

- Esame obiettivo:

Febbre > 38,5°C

Instabilità emodinamica con segni di shock ipovolemico

Insufficienza respiratoria

Segni e sintomi di peritonite

Segni e sintomi di occlusione intestinale

Diarrea ematica di dubbia altra correlazione

- Esami di laboratorio:

Leucocitosi neutrofila (GB > 15.000 /mmc)

Insufficienza renale acuta (incremento della creatinina > 50% rispetto al

baseline)

Incremento dei lattati (≥ 5 mmol/L)

Ipoalbuminemia (< 3 g/dL)

- Evidenze endoscopiche:

Pseudomembrane

- Tecniche di imaging:

Megacolon (colon trasverso con dmax > 6 cm alla Rx diretta addome)

Ispessimento della parete colica

Ascite non altrimenti spiegata

Il percorso diagnostico suggerito per accertare la diagnosi di infezione da Clostridium

difficile viene articolato nei seguenti step:

1. Tempestiva individuazione dei casi sintomatici, per ridurre il rischio potenziale di

trasmissione ad altri pazienti:

- 81 -

- Invio al laboratorio di campione fecale per ricerca di Ag e tossina A/B. Tutte le

Patologie Cliniche degli Ospedali Dono Svizzero di Formia, Fiorini di Terracina,

S.M. Goretti di Latina sono dotate del test diagnostico di primo livello per la

ricerca immunoenzimatica dell’antigene (GDH) e delle tossine A/B (C. DIFF QUIK

CHEK COMPLETE®, AlereTM:) che presenta una sensibilità del 69.6% e una

specificità del 100.0 %). Tale test richiede un limitato expertise per la

realizzazione e lettura, per cui anche le RSA e le Case della Salute vengono

invitate a dotarsene. Il laboratorio di Microbiologia del P.O. Nord dal 2014 è

fornito di metodica PCR in grado di effettuare rapidamente (45 minuti) la ricerca

delle tossine A, B e tossina binaria, nonché l’individuazione del ceppo 027-NAP1-

BI (Xpert® C. difficile, Cepheid®, Fig 18) Tale metodica è effettuata dal

microbiologo sullo stesso campione, in caso di positività della ricerca di tossine

A/B con il test di primo livello.

- Il test deve essere eseguito unicamente su pazienti sintomatici, e di conseguenza

su campioni di feci non formate, corrispondenti ai valori da 5 a 7 di un’apposita

classificazione (Bristol Stool Chart).

2. Tra i pazienti ricoverati, devono essere sottoposti al test:

- Pazienti con diarrea insorta dopo almeno 2 giorni dal ricovero

- Pazienti con diarrea al ricovero o insorta entro le prime 48 ore, se dimessi da un

ospedale da non più di 4 settimane o provenienti da RSA

3. In caso di diagnosi accertata non ripetere la ricerca di tossine

4. Ripetere i campioni solo quando si sospetta una recidiva di CDAD

- 82 -

Figura 18. Xpert® C. difficile, Cepheid®. Di seguito viene illustrato il funzionamento: con

metodica PCR vengono identificati tre locus di patogenicità (A); l’algoritmo di

interpretazione del test permette di distinguere tre situazioni (la positività per ceppo

ipervirulento 027-NAP1-BI, la positività per altri ceppi di C.difficile, la negatività) (B);

infine è illustrato come appare sullo strumento la rilevazione di C.difficile 027-NAP1-BI

(C).

A

B

C

- 83 -

Dopo l’inquadramento clinico del paziente, venivano nel protocollo date alcune

raccomandazioni in merito al trattamento della CDAD, sostanzialmente mutuate dalle

linee guida ESCMID 2014. (Tab.11)

Tabella 11. Opzioni terapeutiche in caso di CDAD.

Trattamento della CDAD

non grave (I episodio)

-metronidazolo 500 mg x 3 die os per 10 gg

Oppure

-vancomicina 125 mg x 4 die os per 10 gg

Trattamento della CDAD

grave (I episodio)

-vancomicina fino a 500 mg x 4 die os per 10 gg

Trattamento delle recidive -vancomicina fino a 500 mg x 4 die os per 10 gg

In caso di seconda o successive recidive, seguito da trattamento

prolungato con modalità:

-“PULSE” 500 mg die os ogni 3 gg per una durata di 21 gg (totale 7

somministrazioni)

oppure

-“TAPER” 500 mg die os la prima settimana + 250 mg la seconda

settimana + 125 mg la terza settimana

Uso della FIDAXOMICINA Questo antibiotico va riservato:

- Nei casi di multiple recidive in cui sia la pulse che la taper

strategy con vancomicina non ha avuto efficacia e per i quali

non è possibile attuare con rapidità una procedura di

trapianto fecale

- Nel trattamento anche della prima recidiva in pazienti con

stato di grave stato di immunodepressione (pazienti

ematologici/oncologici in fase di trattamento; pazienti con

AIDS con linfociti

T CD4+ < 200/mmc)

- Nelle forme di allergia/intolleranza alla terapia con

vancomicina

Trapianto fecale Sebbene i dati di letteratura dimostrino come questo sia uno dei

trattamenti più promettenti in efficacia per fronteggiare le recidive, è

ancora in fase organizzativa l’attuazione della procedura nell’ASL di

Latina

Trattamento dei pazienti non in -Forme non gravi: Metronidazolo 500 mg per 3 die ev

- 84 -

grado di assumere la terapia

orale

-Forme gravi: Metronidazolo 500 mg x 3 die ev + vancomicina per via

enterale con sondino 500 mg x 3 die ev

-casi selezionati: Tigeciclina 50 mg x 2 die ev

Approccio chirurgico La complicanza megacolon tossico (0,4-3% dei casi) richiede sempre

una valutazione chirurgica in cui può esser posta una indicazione

relativa all’intervento, sulla base del fatto che un alto tasso di mortalità

(2-4%) è associato al trattamento chirurgico precoce, mentre la

comparsa delle cosiddette indicazioni assolute (perforazione, continua

dilatazione colica, peggioramento della sintomatologia nelle prime 24-

72 h nonostante terapia medica, sanguinamento incontrollato) si

associano a disfunzione multiorgano e quindi a un alto tasso di

mortalità perioperatoria (38-40%)

L’opzione chirurgica associata a minor tasso di letalità è l’approccio

semi conservativo che consiste nel confezionamento di una ileo o

colostomia allo scopo di instillare vancomicina e soluzioni

elettrolitiche.

La seconda parte del documento viene completamente dedicata alle misure di

prevenzione e controllo.

La collocazione del paziente affetto da CDAD è il tema più difficile da affrontare.

Raccomandato è l’isolamento del paziente (se unico caso) o misure di cohorting dei

pazienti infetti (se più casi). Si ribadisce che per quanto la collocazione in camera singola

sia il gold standard, misure di isolamento funzionale possono essere attuate in tutti i

reparti ospedalieri.

L’isolamento funzionale è applicabile alla CDAD in quanto patologia prevenibile nella

diffusione con le precauzioni da contatto. Esso consiste nel:

- porre sulla porta della stanza una segnaletica idonea a indicare l’isolamento da

contatto e le precauzioni da adottare

- delimitare l’area intorno all’unità di degenza del paziente per ricordare a coloro

che si avvicinano di prestare particolare attenzione

- approntare nell’area tutto il materiale (monouso e dedicato) necessario

all’assistenza del paziente e contenitori per i rifiuti sanitari e la biancheria

contaminati dalle spore

- 85 -

- al paziente con CDAD deve essere riservato il servizio igienico della stanza a più

letti. Se il paziente è allettato verranno utilizzati padella e/o pannoloni da smaltire

come rifiuti infetti

- rendere attuabile l’igiene delle mani nelle immediate vicinanze

- l’igiene delle mani raccomandata dopo contatto con il paziente o con materiali

potenzialmente contaminati deve essere effettuata mediante lavaggio accurato

con acqua e detergente antisettico (clorexidina 4% o iodiopovidone 7,5% in

soluzione schiumogena detergente), dove l’azione meccanica di sfregamento

rimuove una elevata percentuale di tutte le tipologie di microorganismi presenti,

comprese le spore, mentre l’antisettico agisce sulle forme vegetative

eventualmente presenti. La soluzione alcolica non deve essere utilizzata.

- promuovere l’adeguato uso di guanti e camici monouso, sia fra il personale che fra

i visitatori

- implementare l’igiene ambientale, è infatti documentato che le spore di C. difficile

sono resistenti ai comuni disinfettanti per cui possono resistere per mesi sulle

superfici e questa contaminazione ambientale è spesso all’origine della

trasmissione, che può verificarsi a distanza di tempo. I cloroderivati sono i

disinfettanti di scelta per la loro efficacia sulle spore: la concentrazione d’uso

indicata dalle linee Guida SIMPIOS è tra 1000 ppm e 5000 ppm.

- particolare cura deve essere posta nel caso di trasporto/trasferimento del

paziente ad altri servizi/U.O., limitando gli spostamenti a quelli strettamente

necessari e provvedendo alla adeguata identificazione del paziente come affetto

da CDAD.

Le precauzioni di isolamento devono essere mantenute fino a 48/72 h dopo l’ultima

scarica diarroica.

Inoltre a termine del documento aziendale si raccomandava aderenza a tutte le

procedure di antibiotic stewardship, sorveglianza e flusso informativo delle notifiche ( che

rientrano in Classe II del D.M. 15/12/1990 “ diarrea infettiva non da salmonella”) non solo

al Servizio di Igiene e Sanità Pubblica, ma contestualmente anche alla Direzione Sanitaria.

- 86 -

A fronte delle contromisure prese i casi di infezione da Clostridium difficile riportati dal

servizio di Microbiologia hanno visto tuttavia un progressivo incremento negli anni, dato

peraltro in linea con quanto riportato negli altri ospedali . (Tab.12)

Tabella 12. Report microbiologico sugli esami fecali positivi per Clostridium difficile

afferiti al laboratorio dell’ Ospedale S.M. Goretti di Latina, dal momento

dell’attivazione del software Copernico (bioMérieux®) e della Sorveglianza di

Laboratorio Attiva da parte del CIO.

ANNO 2012 ANNO 2013 ANNO 2014 GENNAIO-APRILE

2015

Tutti i campioni 2 21 41 21

Distribuzione

dei pazienti

ricoverati per

Reparto di

degenza

1 CHIR. UOMINI

1 MED.POSTACUZIE

5 MED. DONNE

3 MED.UOMINI

4 MED. POSTACUZIE

1 NEFROLOGIA

1 NEUROCHIRURGIA

1 ONCOLOGIA

3 PEDIATRIA

1 UTIC

1 P.O. SUD FORMIA

1 CARDIOLOGIA

3 MAL. INFETTIVE

11 MED. UOMINI

4 MED. DONNE

2 MED. POSTACUZIE

1 NEUROCHIRURGIA

1 NEUROLOGIA

3 PEDIATRIA

1 PS

3 CLINICA S.MARCO

11 MED.DONNE

1 MED UOMINI

1MED. POSTACUZIE

1 PS

1 MAL. INFETTIVE

4 CLINICA S. MARCO

Campioni da

Servizi

Ambulatoriali/

DH

0 1 11 2

Pazienti con

recidive

0 0 1 0

N.B. Nella tabella non sono visibili i dati relativi al reparto di Malattie Infettive non corrispondono al numero di pazienti seguiti in questo Reparto, che è maggiore, in quanto vi afferivano direttamente pressoché tutti pazienti che venivano diagnosticati esternamente e necessitavano di ricovero ospedaliero afferivano direttamente.

- 87 -

Complessivamente il numero di casi di CDAD nelle strutture assistenziali di Latina è

ancora maggiore rispetto a quanto riportato in tabella 12, in quanto le notifiche giunte al

Dipartimento di Prevenzione ASL da gennaio al 25 maggio 2015 risultano essere ben 51.

Emergono dai dati sopra riportati due fattori interessanti:

il discreto numero di isolamenti di C. difficile anche in contesti di Day

Hospital/Ambulatorio, cresciuto nel corso degli anni

il basso tasso di recidive, almeno da quanto desumibile dal riscontro ripetuto di

positività su test fecale per lo stesso paziente nel nostro laboratorio

l’ancora scarsa capacità di circoscrivere i casi nei reparti più a rischio per età,

comorbidità e vicinanza dei pazienti (Medicina Generale) e ad oggi verificatosi

sostanzialmente in due occasioni (cluster di 5 casi a luglio 2014 In Medicina

Uomini, su 11 casi annuali 2014 per lo stesso Reparto e altro cluster di 5 casi a

Marzo 2015 in Medicina Donne sugli 11 già segnalati in questo primo

quadrimestre 2015 per lo stesso reparto)

Queste nozioni sono indicative anche a livello locale del progressivo cambio

epidemiologico della patologia da Clostridium difficile, nonché purtroppo delle risorse

importanti che vanno messe ancora in campo per contrastarne il diffondersi. Fra queste

sicuramente: l’alto indice di sospetto per la diagnosi precoce, l’implementazione delle

precauzioni da contatto e le politiche di farmacovigilanza sull’utilizzo empirico di

antibiotici e protettori gastrici.

- 88 -

Scabbia

L’agente eziologico di questa dermatosi esclusivamente umana è Sarcoptes scabiei

varietà hominis, un acaro specie-specifico, che nell’uomo in cui compie il suo intero ciclo

vitale.

Negli anni passati venivano generalmente interessate persone con basso livello igienico-

sanitario e socio-economico, e ciò rimane vero in contesti comunitari, ma in contesto

assistenziale le infestazioni possono interessare persone di tutti i livelli socio-economici

senza distinzioni tra età, genere, razza o standard di igiene personale.

La trasmissione è tipicamente interumana per contatto diretto cute-cute, soprattutto di

tipo ravvicinato ad esempio in persone che dormono nello stesso letto e, meno

frequentemente, attraverso oggetti. Data la labilità dell’acaro al di fuori dell’ospite

(muore dopo 1-2 giorni), il contagio indiretto ad esempio attraverso biancheria e

lenzuola, si verifica solo se questi effetti sono stati contaminati da poco tempo da una

persona infestata.

Il ciclo vitale dell’acaro, che è di circa tre settimane. Il periodo di incubazione va da due a

sei settimane prima dell’esordio del prurito in persone senza una precedente esposizione.

Persone che sono state precedentemente infestate sviluppano i sintomi 1-4 giorni dopo la

riesposizione. L’infestazione è trasmissibile fino a che gli acari e le loro uova non sono

distrutte dal trattamento. Il periodo di incubazione nelle persone anziane può essere

sensibilmente maggiore di quello comunemente indicato sui testi.

Un caso confermato di scabbia è definito dal riscontro al microscopio dell’acaro, delle

uova o delle feci nei cunicoli oppure da un quadro clinico tipico.

Un caso probabile di scabbia è definito dalla presenza di sintomi clinici compatibili,

accompagnati o meno da esposizione documentata a contagio.

Si deve sospettare un’epidemia di scabbia quando in una struttura sanitaria vengono

rilevati 2 o più casi concomitanti, che abbiano interessato i pazienti/ospiti e/o i membri

dello staff assistenziale. Anche 2 o più casi consecutivi di scabbia che si verificano entro 4

o 6 settimane l’uno dall’altro devono essere considerati come epidemia.

La notifica va effettuata con segnalazione al Dipartimento di sanità pubblica dei casi di

malattia singoli anche solo sospetti, effettuata entro 48 ore dal sospetto diagnostico, in

- 89 -

particolare se parte di un focolaio epidemico essendo parte delle patologie di Classe IV

secondo il Decreto Ministeriale del 15 dicembre 1990.

Nei confronti del degente affetto da un quadro clinico suggestivo di scabbia, anche se solo

sospetta, vanno immediatamente adottate, oltre alle precauzioni standard, quelle da

contatto. Tali misure vanno mantenute fino a 24 ore dopo l’inizio del primo ciclo di un

trattamento terapeutico efficace.

Considerata la scarsa resistenza degli acari nell’ambiente (massimo 1-2 giorni), la

disinfestazione degli ambienti dove ha soggiornato un caso di scabbia è raramente

giustificata, essendo di norma sufficienti le routinarie operazioni di pulizia. La disinfezione

ambientale, utilizzando comuni disinfettanti come cloroderivati, alcool, ecc., va effettuata

in caso di scabbia crostosa o norvegese.

La terapia è di tipo topico:

• Permetrina al 5% : è il trattamento più efficace e meglio tollerato. Non essendo

assorbita dalla cute, ha il grande vantaggio di potere essere utilizzata senza limitazioni

e quindi anche nei bambini e nelle donne in gravidanza o allattamento. Fra gli schemi

base di trattamento si ricordano: applicazione notturna (per 12 ore) seguita da sette

giorni di sospensione e da un altro trattamento. Viene generalmente raccomandato

un bagno prima della prima applicazione di ogni ciclo.

• Benzoato di benzile al 25%. L’applicazione è per 12-24 ore, per 2 cicli di 4 giorni

intervallati da 7 giorni di pausa. L’applicazione non deve essere preceduta da bagni. Il

benzoato di benzile deve essere diluito al 10% nei bambini. Si tratta di una terapia

efficace anche se frequentemente irritante. Un ciclo terapeutico va ripetuto dopo 7-

10 giorni al fine di aspettare la apertura delle uova eventualmente sopravvissute al

primo ciclo terapeutico.

In casi particolari può essere utilizzata una terapia sistemica: l’ivermectina cpr al

dosaggio di 200 mg/Kg in un’unica somministrazione da ripetere dopo 7 giorni.

La scabbia è una delle patologie infettive più descritte in letteratura in termine di

eventi epidemici in strutture ospedaliere o residenze sanitarie assistite. Peraltro la

rilevanza di per sé importante in termini di numeri quando il caso indice è una scabbia

- 90 -

cosiddetta norvegese, può avere un impatto emozionale ancora più importante su

altri degenti e operatori sanitari, considerato il sintomo cardine che è il prurito.

La diagnosi di scabbia in pazienti immunocompromessi, anziani e istituzionalizzati può

essere più insidiosa, perché più facilmente ci si trova di fronte a forme atipiche, non

pruriginose e “crostose”, note con il nome di “Scabbia Norvegese”, che tuttavia

vedono la presenza di un più alto numero di parassiti sulla cute del paziente affetto.

All’interno degli ospedali tali forme, non riconosciute, sono la fonte più importante di

epidemie fra i pazienti e gli operatori sanitari. Sebbene un tempo abituati al

riconoscimento di queste forme nel paziente immunocompromesso “classico” (ad

esempio il paziente in AIDS), nuove forme di immunocompromissione possono

risultare in ritardi diagnostici che poi si pagano con veri e propri outbreaks epidemici.

L’ospedale S.M. Goretti si è trovato ad affrontare proprio questa situazione in

relazione al caso indice di una donna di 67 anni stava ricevendo trattamento biologico

con anti TNF (adalimumab) per una grave artrite psoriasica. La signora, in condizioni

generali estremamente scadute, fu sottoposta a due ricoveri consecutivi a Marzo

2013 , in entrambe le occasioni con transito in ambulanza 118 e in Pronto Soccorso. In

seguito a una caduta con frattura di radio e ulna venne nella prima occasione

ricoverata in Ortopedia e poi trasferita in Medicina Interna. A quattro giorni dalla

dimissione riammessa per estremo scadimento delle condizioni cliniche generali,

prima appoggiata nell’area di degenza di Oculistica per 24 ore e poi riassorbita dal

Reparto di Medicina Interna. A questo punto il rash che la donna presentava fin

dall’inizio, estremamente inusuale perché eritematoso, diffuso su tutto il corpo e

scarsamente pruriginoso è stato rivalutato e posta una diagnosi di scabbia norvegese

grazie allo scarificato cutaneo e all’osservazione microscopica diretta degli acari, e

quindi la paziente isolata nel Reparto di Malattie Infettive.

Nello stesso momento partiva anche l’indagine epidemiologica, volta a reperire

rapidamente i casi secondari, sorvegliare i contatti e a somministrare le profilassi

laddove ritenuto necessario. Considerato l’alto rischio di diffusione su larga scala dei

casi secondari di scabbia, è stato prontamente istituito un Outbreak Control Team

(OCT) composto da medici infettivologi, dermatologi e del servizio di Igiene e Sanità

- 91 -

Pubblica ed Epidemiologia e personale infermieristico formato per approntare le

misure di sorveglianza.

In seguito al caso indice, diagnosticato il 18 marzo 2013, l’epidemia ha coinvolto un

totale di 57 casi: i casi secondari, tutti di scabbia “classica” sono stati diagnosticati in

28 (49.1%) operatori sanitari, 18 (31.6%) pazienti e 11 (19.3%) contatti familiari, 5 dei

quali erano conviventi del caso indice mentre gli altri contatti di altri casi secondari.

L’età complessiva degli affetti variava da 4 a 90 anni, ma considerando le diverse

categorie era mediamente più bassa nei contatti domestici (39.9 ± 23.0 anni) e negli

operatori sanitari (46.3 ± 10.8 anni) che fra i pazienti (76.4 ± 7.9 anni ). Fra gli

operatori sanitari sono risultati colpiti: 24 infermieri, 1 allievo infermiere, 1 medico, 1

tecnico di radiologia e 1 addetto al servizio di lavanderia. L’ outbreak ha coinvolto 8

aree si assistenza: la Medicina Interna (23 operatori, 10 pazienti), il reparto di

Ortopedia (4 pazienti), il Pronto Soccorso (3 pazienti), il reparto di Oculistica (1

paziente), il Servizio di Radiologia (1 operatore), il Servizio di Cardiologia (1

operatore), una ambulanza (1 paziente) e la Lavanderia Ospedaliera (1 lavoratore). La

curva epidemica è illustrata nella figura 19

Figura 19. Curva epidemica dal caso indice ai 57 casi successivi, basata sulle date di

notifica dei casi secondari.

- 92 -

Trenta casi (52.6%) di scabbia sono stati diagnosticati entro la prima settimana dall’inizio

del lavoro del e la maggioranza furono rappresentati da operatori sanitari. Entro la fine

del primo mese di investigazione 48 casi (84.1%) sono stati rintracciati. L’ultima diagnosi

di scabbia correlata al caso indice è stata posta il 10 giugno 2013.

La distribuzione dei casi è mostrata in figura 20.

Figura 20. Distribuzione spaziale e temporale dei casi. I casi secondari negli operatori

sanitari (triangoli) e nei pazienti (esagoni) sono raffigurati all’interno delle aree

ospedaliere implicate nell’evento epidemico. La mappa mostra anche i legami con i casi

fra i contatti familiari.

Un totale di 695 persone sono state incluse dall’ OCT nella lista dei contatti, richiamate

per la sorveglianza attiva, controllate e valutate per la necessità di trattamento o

profilassi. I contatti erano rappresentati da 440 (63.3%) pazienti, 158 (22.7%) lavoratori

ospedalieri, 97 (14.0%) casi secondari in conviventi, fra i quali 5 erano diretti familiari del

caso indice. Durante il periodo epidemico il tasso di attacco è risultato complessivamente

di 8.2% (57/695). E’ risultato più alto fra gli operatori sanitari (17.7%), e a seguire fra i

- 93 -

contatti familiari (11.3%) e i pazienti (4.1%). Fra questi ultimi è risultato estremamente

alto nel piccolo gruppo di pazienti che hanno condiviso la stessa stanza con il caso indice

per almeno 24 ore

(17.6%). Per motivi paragonabili il tasso di attacco risultava del 100% (5/5), sui conviventi

diretti del caso indice, mentre nei contatti familiari di altri casi secondari di scabbia

classica era solo del 6.5%.

A causa del grande numero di contatti esposti, la profilassi con permetrina è stata

somministrata in un periodo prolungatosi 2 mesi. Venti (35,1%) delle 57 diagnosi

secondarie sono state poste con la ricostruzione attiva dei contatti e il richiamo a visita.

Le rimanenti sono state identificate, prima della chiamata attiva, per il presentarsi

spontaneamente dei soggetti all’ambulatorio dell’OCT quando la notizia veniva riportata

sui media locali o dopo aver chiamato al telefono verde informativo istituito e dedicato

alla “Emergenza Scabbia”.

Tutti gli operatori sanitari, in particolare gli infermieri, senza segni della patologia al

momento della visita sono stati comunque sottoposti a profilassi e nessuno di questi ha

sviluppato successivamente scabbia. Solo i contatti stretti dei casi secondari (in

particolare chi aveva dormito nello stesso letto) sono stati richiamati per la profilassi con

permetrina. Dei 695 inclusi nello studio dell’outbreak, a 583 (84%) è stata somministrata

permetrina, e sui 112 sui quali si era scelto di non somministrare nessun trattamento

specifico (né profilassi né vera e propria terapia), che erano tutti appartenenti alla

categoria dei pazienti, la motivazione era che in 82 pazienti a minor rischio vi era stato un

periodo lungo il doppio dell’incubazione prima della visita e non avevano presentato

segni o sintomi di scabbia, 15 risultavano non contattabili, 12 erano nel frattempo

deceduti e 3 avevano rifiutato la permetrina.

Le nostre osservazioni durante l’epidemia esposta confermano che la miglior strategia per

fronteggiare estesi outbreak di scabbia nosocomiale è la profilassi di massa, come già

esposto da altri autori . La profilassi può essere effettuata con permetrina, che è

considerata il trattamento di scelta perché particolarmente efficace e con un profilo di

tollerabilità buono rispetto ad altri agenti anti-scabietici. In effetti anche nel nostro report

nessun caso secondario si è verificato dopo l’applicazione profilattica di permetrina.

- 94 -

I costi finanziari complessivi della epidemia di scabbia del 2013 non possono essere

determinati precisamente. Tuttavia, si consideri che sono state effettuate circa 700 visite

ambulatoriali da 8 medici, e circa 640 terapie topiche individuali sono state prescritte e in

molti casi direttamente praticate da personale infermieristico addestrato per un costo

stimato di € 30,000. Grazie al Servizio Farmaceutico Ospedaliero i costi diretti delle

terapie e profilassi sono stati contenuti € 5,000, con la preparazione in loco di un galenico

della permetrina al 5% in crema base. Infine si è resa necessaria la chiusura per circa 48

ore del Reparto di Medicina Interna Donne (20 letti) per la bonifica con la pulizia a fondo

dei locali, con un costo stimato di circa € 16,000 in giorni/degenza persi.

La validità dell’approccio dell’OCT è dimostrata dal fatto che l’epidemia di scabbia

nell’Ospedale S.M. Goretti è rientrata dopo un periodo complessivo di 12 settimane, altri

lavori riportano una durata media di 14,5 settimane .

Tuttavia l’impatto complessivo dell’outbreak in termini di tempo e risorse per l’ospedale

fu molto pesante e ha presentato una vera e propria sfida, in particolare

riguardo l’ondata di pubblicità negativa sulla popolazione locale alimentata dai media.

Il management dell’evento epidemico descritto sottolinea l’importanza di avere sempre

un forte indice di sospetto su pazienti con potenziale scabbia crostosa per effettuare una

diagnosi, di tracciare rapidamente tutti i possibili contatti adottando la strategia del

trattamento profilattico di massa e di sviluppare strategie aziendali efficaci di

comunicazione volte a incoraggiare lo staff ospedaliero a riportare la presenza di sintomi

e a minimizzare l’ansia legata alla patologia (nel nostro caso furono distribuiti opuscoli

informativi creati dal CIO e un telefono verde dedicato gestito dall’U.O.C. di

Epidemiologia).

- 95 -

Tubercolosi

Mycobacterium tuberculosis, appartenente alla famiglia delle Mycobacteriacee, è il bacillo

responsabile della tubercolosi nell'uomo. Sono bacilli immobili, non sporigeni, aerobi

obbligati caratterizzati dalla lenta crescita, da una parete ricca di acidi micolici

(responsabili delle caratteristiche di colorazione: l’alcool-acido resistenza) e da un DNA

con elevato contenuto di guanina e citosina (60-70%). L’eponimo “bacillo di Koch” con cui

è universalmente conosciuto deriva dal Dr. Robert Koch, uno dei padri della

microbiologia, che lo scoprì nel 1882.

La tubercolosi (TB) rappresenta un rischio riemergente, ed è stato indicato

dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come grave problema di sanità pubblica

a livello mondiale già dal 1993. Ogni anno si registrano nel mondo più di 9 milioni di nuovi

casi e 2 milioni di decessi e, secondo stime dell’OMS, si manifestano oltre 400.000 casi di

tubercolosi multiresistente. È stato stimato che circa un terzo della popolazione mondiale

ospiti il Micobatterio tubercolare allo stato di latenza (un soggetto con infezione

tubercolare latente o ITBL è colui che è venuto a contatto con il bacillo ma, grazie ad

un’efficiente risposta immunitaria, non ha sviluppato la malattia; è asintomatico e non

contagioso). Nei soggetti immunocompetenti con ITBL il rischio di sviluppare una malattia

attiva è circa il 10% nel corso dell’intera vita, evenienza che nella metà dei casi si verifica

nei primi 2-5 anni dall’esposizione/infezione.

Tra i soggetti più a rischio di contrarre la tubercolosi, figurano anche gli operatori sanitari.

Diversi studi, infatti, hanno riportato negli anni, evidenze circa eccessi di incidenza e

prevalenza di infezioni tubercolari latenti (ITBL) e TB negli operatori sanitari.

La modalità di trasmissione per via aerea, attraverso i droplets da parte di persone con

tubercolosi polmonare o laringea nell’atto di tossire, parlare, starnutire rende questa

patologia particolarmente adatta alla diffusione in ambiti chiusi come i locali ospedalieri.

I droplets hanno dimensioni di 1-5 micron, hanno capacità di rimanere sospesi nell’aria

per periodi prolungati e possono essere trasportati all’interno delle strutture attraverso le

correnti d’aria.

Il paziente con tubercolosi polmonare è quindi soggetto a misure di isolamento

respiratorio e rappresenta sicuramente uno dei casi il Reparto di Malattie Infettive,

- 96 -

dotato delle camere idonee con sistemi di aereazione a pressione negativa, rappresenta

l’unico luogo ospedaliero adatto alla cura di una determinata patologia.

Il controllo della trasmissione si ottiene infatti attraverso un tempestivo e specifico

trattamento farmacologico, che solitamente produce una conversione dell’escreato entro

2 settimane dall’inizio del trattamento; il trattamento in regime ospedaliero è necessario

solo per quei pazienti con malattia grave e per quelli in cui le circostanze sanitarie o

sociali rendono il trattamento in isolamento domiciliare impossibile.

I pazienti adulti con escreato positivo devono essere collocati in isolamento respiratorio

(stanza singola) con sistema di ventilazione a pressione negativa) fino a negativizzazione

dell’espettorato (3 campioni negativi consecutivi, raccolti a distanza di 8-24 ore l’uno

dall’altro), miglioramento clinico (risoluzione della febbre e della tosse) e sottoposti ad

adeguata terapia. L’isolamento respiratorio prevede l’uso di una stanza dotata di un

sistema di ventilazione che consenta il mantenimento della pressione negativa e un

numero di ricambi d’aria ≥ 12 per ora con emissione dell’aria all’esterno o, qualora non

possibile, con il ricircolo mediante filtri HEPA. Inoltre i dispositivi di protezione individuali

(DPI) specifici sono le maschere filtranti almeno FFP2 per il personale sanitario in entrata

nella stanza occupata dal paziente. Invece, in accordo con le buone pratiche di

sanificazione ambientale, non ci sono speciali precauzioni per la manipolazione di fomites

(piatti, biancheria, letto, abiti ed effetti personali).

L’esposizione occasionale a pazienti con TB polmonare bacillifera non ancora diagnosticati

è tuttavia un evento non infrequente per altri pazienti e operatori. Mentre fra le varie

localizzazioni, la tubercolosi laringea è altamente contagiosa, la tubercolosi extra-

polmonare è generalmente non trasmissibile, eccetto per quelle rare situazioni in cui c’è

una raccolta caseosa in fase di drenaggio verso l’esterno. La notifica di caso di TB va

effettuata con segnalazione al dipartimento di sanità pubblica dei casi di malattia singoli

anche solo sospetti, utilizzando la scheda SSCMI/2006 del Regolamento “Sistema di

segnalazione rapida degli eventi epidemici ed eventi sentinella nelle strutture sanitarie e

nella popolazione generale”. La segnalazione rapida dei focolai epidemici, anche sospetti,

va effettuata contestualmente alla Direzione sanitaria, Dipartimento di sanità pubblica e

- 97 -

Regione, utilizzando la scheda SSR2/2001. La segnalazione deve essere effettuata entro

48 ore dal sospetto diagnostico.

Il ritardo diagnostico nella tubercolosi attiva è un problema importante in ambito

ospedaliero e può giocare un ruolo nella trasmissione nosocomiale. Importante in questo

senso è il rischio per gli operatori sanitari, che possono essere più volte esposti

accidentalmente a casi di TB bacillifera nel corso della loro carriera lavorativa. Essi sono

maggiormente esposti durante procedure che favoriscono la formazione di aerosol infetti

quali broncoscopie, intubazioni, autopsie. Ai sensi del D.lgs. 81/2008 e successive

modifiche è obbligatoria per i datori di lavoro la valutazione dei rischi, intesa come:

valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori

presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui essi prestano la propria attività, finalizzata

ad individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e ad elaborare il

programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e

sicurezza. Alla stessa, è tenuto a collaborare il medico competente.

In merito al rischio professionale per acquisizione di TB, nella ASL di Latina è stato

elaborato il Documento Aziendale “Raccomandazione: prevenzione della tubercolosi nella

ASL di Latina” (approvata dal CIO in data 21 febbraio 2013). In sintesi il documento

affronta:

la Normativa in materia: Sintesi del documento approvato come accordo nella

conferenza Stato Regioni Province autonome del 7 febbraio 2013

la tubercolosi nell’Azienda ASL Latina-rapporto SISP 2008-2012: il report

evidenziava come nel quinquennio analizzato sono pervenute al Servizio di Igiene

e Sanità Pubblica del Dipartimento di Prevenzione 255 notifiche di TB/sospetta TB

relative a soggetti residenti nella nostra ASL; sino al 2010 si è registrato un trend di

casi sostanzialmente stabile, con una media di 40 casi/anno; nel 2011 sono stati

notificati 66 casi , con un incremento del 64%; nel 2012 70 casi. Su 255 casi

notificati i casi di TB occorsi in cittadini nati all’estero rappresentano il 70% del

totale. Le nazionalità più rappresentate riguardano i Paesi dell’Est Europeo (98

casi: 38,4%) e quelli Asiatici, in particolare Indiani (56 casi: 22%). Nel 2011 si è

registrato un significativo incremento, pari al 44% di casi riguardanti cittadini

- 98 -

provenienti dall’Africa, in verosimile correlazione con eventi bellici e maggior

flusso migratorio.

valutazione del rischio di esposizione a tubercolosi

screening della infezione tubercolare: centralizzazione della Intradermoreazione

sec. Mantoux-stato dell’arte

Chemio-profilassi: iniziative per la prescrizione agli operatori interessati

Formazione: programmazione di un incontro sulla prevenzione della TB nel

personale sanitario e sulla modalità di gestione della sorveglianza sanitaria

Prevenzione della tubercolosi negli operatori sanitari afferenti all’Università

Sapienza-Polo Pontino, studenti di Corsi di Laurea delle Professioni Sanitarie e

Specializzandi, personale socio-sanitario, di manutenzione e di catering delle ditte

esterne in service alla AUSL di Latina

Lavori di adeguamento strutturale dei locali addetti alla broncoscopia, delle stanze

a pressione negativa in Malattie Infettive e dei locali di Pronto Soccorso adibiti a

stazionamento dei pazienti con infezione respiratoria in atto

Avviso per la prevenzione delle malattie respiratorie nella ASL di Latina

Al di là del rafforzamento della gestione routinaria dello screening per patologia

tubercolare nel personale sanitario della Asl, preme analizzare in questo capitolo ciò

che nel documento aziendale sopra citato viene identificato come “evento sentinella”.

Si definisce come evento sentinella in tema di patologia tubercolare un evento non

programmato che indica una lacuna nel programma di controllo per TB. Sono eventi

sentinella:

- Casi di trasmissione nosocomiale

- Casi di malattia fra i dipendenti: clusters di viraggi (2 o più lavoratori con

conversione dei test per l’ Infezione Tubercolare Latente (ITBL) nell’ambito

della stessa struttura in 2 anni

- Paziente contagioso non diagnosticato o comunque, non isolato per un

periodo superiore alle 24 ore o per meno tempo ma in presenza di procedure

a rischio

- 99 -

In caso di evento sentinella risulta fondamentale individuare il sospetto caso indice,

valutare la contagiosità del caso, valutare la zona potenzialmente contaminata e valutare

l’esposizione individuale fra altri pazienti e fra il personale privo di DPI.

Sono considerati contatti efficaci quelli con soggetti contagiosi avvenuti in assenza di

adeguate misure di protezione. Le priorità sono stabilite come segue:

Contatti ad alto rischio: tempo di contatto diretto > di 8 ore cumulative o indiretto

> 12 ore cumulative. Sono considerate anche le manovre a rischio senza DPI

(endoscopie, aereosolterapia, spirometrie...) anche se per tempo

considerevolmente inferiore

Contatti a basso rischio: tempo di contatto minore dei precedenti limiti

Gli operatori individuati come contatti devono comunque essere considerati in categoria

alto rischio se immunocompromessi (AIDS, linfoma, leucemia, chemioterapia, trattamenti

anti-TNF) con precedenti di trapianto, bypass digiuno-ileale, gastrectomizzati, affetti da

insufficienza renale cronica, diabetici, affetti da silicosi.

La procedura raccomandata per i soggetti individuati come contatti è:

1. Tuberculin Skin Test (TST) da eseguire esclusivamente su persone con

precedente test negativo (< 10 mm); i test In-tube Gamma interferon

Release Assay (IGRA) possono essere utilizzati se disponibili in sostituzione

(per es. se atteso un elevato numero di conversioni per l’alta contagiosità

del paziente o per il lungo tempo di esposizione) o per confermare i

viraggi/conversioni al test tubercolinico

In questo contesto si definisce come conversione al test tubercolinico: un incremento del

diametro di 5 mm se precedente ( 2 anni o meno) diametro TST= 0 mm, o 10 mm se

precedente diametro >0 e < 10 mm o , comunque IGRA positivo in persone con

precedente IGRA negativo. Qualora non sia disponibile il test recente è opportuno

ottenere una nuova misura basale (al tempo 0). Se il test basale è negativo deve essere

ripetuto a distanza di 8-10 settimane.

2. Visita medica con accurata indagine anamnestica per escludere sintomi di

TB, ed eventuale RX torace, in presenza di sintomi/segni obiettivi sospetti,

nei contatti con precedente test positivo e non testati o con conversione.

- 100 -

3. Il trattamento dell’ITBL è raccomandato per tutti i contatti per i quali sia

stata diagnosticata una infezione tubercolare recente ed esclusa una TB

attiva (regimi di scelta: Isoniazide per 6 mesi al dosaggio di 5 mg/Kg/die

max 300 mg/die oppure associazione per 3 mesi di Isoniazide 5 mg/Kg/die

max 300 mg/die + Rifampicina 10 mg/kg/die max 600 mg/die)

A livello mondiale negli anni ‘90 si sono moltiplicate le segnalazioni di epidemie di

tubercolosi in ambiente ospedaliero: negli Stati Uniti sono stati riportati almeno 20

operatori sanitari con tubercolosi sostenuta da ceppi multiresistenti e 9 di questi sono

deceduti. I CDC hanno investigato tra il 1989 e il 1992 ben 8 epidemie ospedaliere con

caratteristiche tra loro molto comuni: interessamento prevalente dei pazienti con

infezione da HIV, breve intervallo tra diagnosi di tubercolosi e decesso (moda di 4

settimane), letalità elevatissima (72-89%), breve intervallo tra esposizione e insorgenza

della malattia, nella maggior parte dei casi sostenuti da ceppi multiresistenti (almeno

INH+RIF, in alcuni casi fino a sette resistenze), trasmissione ospedaliera dimostrata dalle

evidenze epidemiologiche e dai risultati della tipizzazione con fingerprinting,

interessamento soprattutto di ospedali in aree metropolitane, che servivano quartieri

poveri con un’elevata proporzione di pazienti HIV, tossicodipendenti, emarginati. Sono

state descritte epidemie ospedaliere sostenute da ceppi multiresistenti anche in Europa:

a Milano tra il 1991 e il 1995 in due ospedali (115 pazienti e 1 operatore sanitario), a

Madrid nel 1991-1995 (47 pazienti e 1 operatore sanitario), a Parigi nel 1993 (5 pazienti),

a Londra nel 1995 (6 pazienti).

A livello locale nel P.O. Nord ASL di Latina, da quando sono stati sistematizzati e tracciabili

gli “eventi sentinella” nell’ambito del lavoro dell’Equipe del Medico Competente, si sono

verificati 19 possibili episodi di esposizione a pazienti affetti da TB polmonare aperta,

prima della corretta diagnosi e isolamento. (Tab.13)

In tutti questi casi si è proceduto con le valutazioni sequenziali di:

1. Ultimo TST precedente all’esposizione

2. TST al basale rispetto all’esposizione

3. seconda TST dopo 8-10 settimane in corrispondenza del quale viene eseguita

anche RX torace per escludere patologia tubercolare attiva

- 101 -

4. valutazione specialistica Pneumologica o Infettivologica ed eventuale IGRA (per

valutare personale con TST precedente al basale positivo, per confermare i

viraggi/conversioni al TST o in caso si attenda un elevato numero di conversioni

per l’alta contagiosità del paziente).

Tabella 13. Valutazioni da parte del Medico Competente del personale sanitario del

P.O. Nord per esposizione a paziente affetto da TB polmonare bacillifera senza adeguati

DPI (“eventi sentinella” anni 2012-2014)

Reparto Periodo N° Personale

controllato

N° ITBL con prescrizione di

profilassi

Dialisi Agosto 2012 47 2 (4,2%)

Medicina Uomini Novembre

2012

18 0

Pediatria Febbraio 2013 10 0

Oncologia 4 Feb 2013 27 2 (7,4%)

Med. PostAcuzie Giugno 2013 24 2 (8,4%)

Urologia Giugno 2013 15 1 (6,7%)

Pronto Soccorso Agosto 2013 14 3 (21,4%)

Pronto Soccorso Dicembre

2013

18 1 (5,6%)

Med. D’Urgenza Dal 30 Gen

al 5 Feb 2014

29 3 (18,7%)

Pronto Soccorso 20 Feb 2014 16 1 (6,2%)

Pronto Soccorso 31 Mar 2014 40 0

Pronto Soccorso Dal 13 Apr

Al 16 Apr 2014

36 2 (5,6%)

Pediatria Dal 13 Apr

al 18 Apr 2014

22 2 (9,1%)

Broncopneumologia 21 Mag 2014 5 2 (40%)

Oculistica/ORL Dal 2 Giu

al 8 Giu 2014

5 0

- 102 -

Pediatria Dal 2 Giu

al 8 Giu 2014

24 2 (8,4%)

Pronto Soccorso 8 Set 2014 26 2 (7,7%)

Radiologia 8 Set 2014 10 0

Dialisi 29 Set 2014 29 3 (10,3%)

Dai dati riportati si evince come l’attenzione per il rischio professionale di acquisizione di

TB sia cresciuto negli anni (segnalazione di “eventi sentinella”: 2 nel 2012, 6 nel 2013, 12

nel 2015).

I tassi di rilevazione di ITBL dopo un “evento sentinella” appaiono molto alti. C’è da

segnalare tuttavia che tali percentuali risultano falsamente incrementate dal fatto che a

tutto il 2014 di fatto ancora non risulta completato il programma di screening routinario

basale sul personale ASL, perché ancora forti le paure da parte del lavoratore a praticare

controlli TST e ad eventuali suggerimenti di praticare profilassi farmacologiche

prolungate. Pertanto i numeri di ITBL riscontrate in caso di esposizione a un “evento

sentinella” risultano essere gravati probabilmente da un soprannumero di lavoratori che

già da più tempo risultavano essere in realtà già affetti da ITBL.

Tuttavia dai dati riportati in tabella emerge come inequivocabilmente la Sezione di

Broncoscopia appare particolarmente a rischio, fino alla attuazione dei lavori di messa in

sicurezza del locale adibito alla endoscopia toracica (pressione negativa e adeguati

ricambi d’aria) con un tasso di ITBL del 40% nei 5 lavoratori esposti a un singolo “evento

sentinella”.

Un ulteriore esperienza particolare nel contesto ospedaliero locale, raccolta nel 2011 e

quindi non esposta nella tabella di cui sopra è l’ esposizione accidentale ad un caso di

tubercolosi in Unità di Terapia Intensiva (UTI). L’interesse di tale esperienza è

rappresentato dal fatto che la TB in UTI rappresenta l’1-3% di tutti i casi di TB e poco è

noto riguardo la sua trasmissione nosocomiale in questo contesto. Un paziente di origine

indiana veniva ricoverato in UTI per politrauma della strada. RX torace all’ingresso

documentava versamento pleurico destro senza immagini cavitarie parenchimali. Per la

- 103 -

persistenza di febbre, veniva richiesto esame microscopico diretto che evidenziava la

presenza di bacilli alcool-acido resistenti e PCR GeneXpert identificava M. tuberculosis

resistente alla rifampicina. Il paziente veniva isolato a 10 giorni dal ricovero in stanza

singola con posizionamento in uscita di filtro di tipo HEPA, senza pressione negativa. Un

filtro antibatterico veniva posto dal lato espiratorio del circuito per la ventilazione

assistita. La sorveglianza dei dati clinici ed epidemiologici è cominciata dal momento

della diagnosi di caso di TB e proseguita fino alla chiusura dei controlli sui contatti, con la

raccolta prospettica dei referti TST di tutti i soggetti esposti e degli eventi clinici per un

anno (eventuali nuove diagnosi di TB). 17 pazienti e 46 operatori sanitari risultavano

esposti per più di 24 h. Altri 13 soggetti risultavano comunque esposti in quanto

personale addetto alle pulizie. Tutti i pazienti esposti risultavano TST-negativi al baseline e

dopo 8 settimane. Il 10% dei 59 lavoratori esposti erano TST-positivi al baseline. Nessuno

di essi presentava positivizzazione della TST o sintomatologia clinica a 12 mesi

dall’esposizione, dimostrando che l’efficacia di trasmissione è piuttosto bassa, soprattutto

se vengono integrati osservazione clinica, utilizzo di test rapidi, l’adozione di misure

ambientali tipo “airborne precaution” nell’approccio complessivo al potenziale evento

epidemico.

Tornando al contesto ospedaliero generale, fortunatamente in nessun caso sono stati

riportati casi di trasmissione secondaria ad altri pazienti. Non sono state inoltre riportati

“eventi sentinella” aventi come fonte un paziente affetto da TB polmonare

multiresistente.

L’alto tasso di ITBL anche nei lavoratori degli altri contesti ospedalieri e in particolare in

Pronto Soccorso, la “porta di ingresso” per il paziente, sottolineano comunque quanto le

procedure che tendano ad azzerare il rischio di esposizione a pazienti affetti debbano

essere potenziate, per esempio:

- adeguando le procedure di triage per patologia respiratoria orientate su criteri

sintomatologici/radiologici/epidemiologici

- accorciando i tempi di diagnosi (passo in effetti già implementato con

l’introduzione della metodica GeneXpert MTB/RIF, Cepheid®, che ha permesso sia

- 104 -

di velocizzare i tempi di diagnosi che di individuare rapidamente la resistenza a

Rifampicina)

- pensando anche nella nostra struttura ospedaliera una stanza adeguata

all’isolamento respiratorio preventivo in Pronto Soccorso .

- 105 -

Legionellosi

La legionellosi è una malattia infettiva che può manifestarsi con polmoniti ad andamento

grave e a letalità elevata. L’agente eziologico è nel 90% dei casi Legionella pneumophila,

in particolare il sierogruppo 1 che è responsabile dell’80% delle polmoniti causate da

questo genere di bacilli Gram negativi asporigeni, identificati per la prima volta nel 1976

in seguito al famoso outbreak in un hotel durante un meeting di legionari, cosa che ha

conferito il nome all’intero genere. La malattia ha carattere sporadico o epidemico, è più

frequente nei mesi estivo-autunnali se di origine comunitaria, mentre se di origine

nosocomiale non presenta una particolare stagionalità; fattori predisponenti sono l’età

medio-avanzata, il genere maschile, il fumo, la presenza di malattie croniche,

l’immunodepressione. Nella nostra esperienza abbiamo assistito anche a presentazioni

gravi in un paziente splenectomizzato e affetto da influenza H1N1v e in un paziente

cirrotico in terapia con telaprevir, peg-interferon e ribavirina. Tuttavia anche soggetti

altrimenti sani possono presentare forme severe di polmonite. La malattia può

presentarsi clinicamente nella sua forma più lieve dopo 1-2 giorni di incubazione per la

febbre di Pontiac, dopo 2-14 giorni (in media 10 giorni) per la malattia dei Legionari

(interessamento polmonare clinicamente di discreta o notevole gravità) con o senza

manifestazioni extra-polmonari (alterazioni della funzionalità renale, con iposodiemia,

incremento dei lattati e delle transaminasi, sintomatologia gastrointestinale, stato

confusionale). Il quadro radiologico è aspecifico esprimendosi potenzialmente con quadri

di polmonite sia lobare che a focolai multipli che interstizio-alveolari diffusi. Tipicamente

la guarigione radiologica è tardiva.

L’habitat delle legionelle è costituito da diversi ambienti acquatici: esse possono

entrare nei sistemi idrici in basse concentrazioni e trovarvi poi condizioni favorevoli

allo sviluppo (temperature idonee tra 25° e 42°C, pH tra 5 e 8,5, presenza di biofilm,

amebe, ristagni, incrostazioni e sedimenti).

Tali caratteristiche rendono Legionella pneumophila un candidato ideale alla

diffusione nosocomiale ,ma a differenza dei patogeni precedentemente riportati ciò

non avviene per trasmissione interumana (che non è mai stata dimostrata) ma

attraverso le infrastrutture ospedaliere stesse: sistemi idraulici e di aereazione. Inoltre

- 106 -

la legionellosi risulta di fatto in causa in percentuali variabili dal 3 al 20% a seconda dei

contesti di tutte le polmoniti nosocomiali, e in caso di acquisizione ospedaliera anche

la letalità appare più elevata rispetto alle forme comunitarie (30-50% versus 5-15%).

Le infezioni da Legionella sono considerate un problema emergente in sanità

pubblica, tanto che sono sottoposte a sorveglianza speciale da parte

dell’Organizzazione mondiale della sanità, della Comunità europea in cui è operante

l’European Working Group for Legionella Infections (EWGLI) e dell’Istituto Superiore

di Sanità, che ha istituito dal 1983 il Registro nazionale della legionellosi.

Le linee guida a livello nazionale sono state proprio recentemente aggiornate e

approvate in Conferenza Stato-Regioni del 7 maggio 2015.

In ambiente ospedaliero è un fattore di rischio procedurale specifico il supporto

ventilatorio o l’aereosolterapia qualora non si utilizzi acqua sterile per

l’umidificazione. La malattia rappresenta motivo di allerta intraospedaliero quando si

presenta con epidemie dovute a una unica fonte con limitata esposizione nel tempo e

nello spazio oppure con una serie di casi indipendenti in un’area ad alta endemia.

La diagnosi di polmonite da Legionella deve essere sospettata in ogni caso di

polmonite grave, meglio definiti oltre che con l’esame obiettivo generale con criteri

consolidati come il CURB-65 e il Pneumonia Severity Index. Mantenere un elevato

indice di sospetto permette sempre in questi casi di includere nella terapia un

antibiotico attivo contro Legionella (macrolide o fluorochinolonico), anche in empirico

prima di acquisire la diagnosi microbiologica.

L’effettuazione dell’antigene urinario rappresenta il test più semplice da eseguire ed è

dotato di una elevata sensibilità (70-90%) e specificità (99%). Il test può rimanere

positivo per settimane dall’esordio della sintomatologia. Il limite del test di ricerca di

antigene urinario di Legionella è rappresentato dalla possibilità di evidenziare solo la

presenza di L. pneumophila di sierogruppo 1. Pertanto, sebbene in un contesto clinico

ed epidemiologico ben definito il test antigenico consenta di definire il caso come

accertato e non necessiti di ulteriori test di conferma per la diagnosi, a giudizio del

clinico in caso di sospetto di falsi positivi o falsi negativi, gli esami ulteriori di

accertamento diagnostico (sierologia, biologia molecolare) possono essere avviati per

- 107 -

i casi selezionati presso laboratori di II livello. Ugualmente tali test possono essere

importanti nell’inquadramento di cluster epidemici.

Si definisce certamente caso di legionellosi nosocomiale: un caso di polmonite da

Legionella confermato mediante indagini di laboratorio ( isolamento colturale di

Legionella spp. da secrezioni respiratorie, tessuto polmonare o sangue oppure

aumento di almeno 4 volte del titolo anticorpale specifico tra due sieri prelevati a

distanza di almeno 10 giorni oppure riconoscimento dell’antigene urinario ) e

verificatosi in paziente ricoverato da 10 a più giorni precedenti l’inizio dei sintomi. Il

caso si definisce “potenziale” se il paziente è entrato in contatto con la struttura

sanitaria per un periodo variabile nei 10 giorni precedenti l’inizio dei sintomi.

Si definisce cluster epidemico il verificarsi di due o più casi riconducibili a una

medesima esposizione avvenuta nei 10 giorni precedenti l’esordio dei sintomi e la cui

data di inizio della malattia sia compresa nell’arco di 24 mesi.

La legionellosi rientra nell’elenco di malattie di cui al DM. 15/12/90 e quindi è

soggetta a notifica obbligatoria entro le 48 ore dalla diagnosi al locale Servizio di

Igiene e Sanità Pubblica (SISP). Inoltre tale tempo si accorcia con obbligo di notifica

entro le 24 ore in caso di focolaio epidemico. Inoltre è presente specifica modulistica

per la sorveglianza (Figura 21)

- 108 -

Figura 21 Specifica modulistica per la sorveglianza dei casi di Legionellosi (come da

Linee Guida approvate in Conferenza Stato Regioni del 7 maggio 2015)

La presenza di un serbatoio ambientale molto ampio rende impossibile il

perseguimento dell’eliminazione della Legionella negli impianti, mentre un obiettivo

strategico più realistico appare quello di contenere il rischio e minimizzare il numero

di casi di legionellosi, agendo prioritariamente sulle situazioni più critiche, sia con gli

interventi preventivi che possano ridurre la presenza e la concentrazione di

Legionella, sia con efficaci provvedimenti di controllo nel momento in cui si ha

evidenza di casi di malattia correlabili alla frequentazione di una struttura

assistenziale. In merito a tale problematica è stato stilato un documento aziendale

“Raccomandazione sulla prevenzione della Legionella nella azienda ASL di Latina”

approvato dal CIO in data 22.03.2013. Essenzialmente gli obiettivi del documento

sono così riassunti:

- 109 -

1. Revisione delle evidenze di letteratura pertinenti alla sorveglianza e controllo

dell’infezione nell’uomo con particolare riguardo all’ambito ospedaliero

2. Definizione dei rischi ambientali ed impiantistici da un lato e dei rischi legati a

fattori ospite e prassi-dipendenti dall’altro

3. Definizione delle modalità di effettuazione della valutazione del rischio di

legionellosi in ambito ospedaliero

4. Definizione degli interventi di controllo da porre in essere in presenza di casi di

legionellosi di origine nosocomiale accertata o sospetta e delle modalità di

controllo sugli impianti idrici e di condizionamento dell’aria

5. Definizione delle competenze necessarie ad affrontare efficacemente il

problema della legionellosi nosocomiale

6. Definizione degli interventi di comunicazione e formazione degli operatori

sanitari in tema di riduzione del rischio di legionellosi.

L’analisi del rischio delle acque ospedaliere è stata stabilita con periodicità annuale e in

maniera aggiuntiva ogni qual volta vi sia motivo di pensare a una modificazione della

situazione basale di rischio (per ristrutturazioni, per esame batteriologico positivo con

carica > 1000 CFU/L, per possibile caso di legionellosi nosocomiale). Inoltre è stato

stabilito che in caso di epidemie ospedaliere di Legionella venga effettuato un intervento

di carattere epidemiologico-ambientale (Direzione Sanitaria Ospedaliera, Igiene Pubblica,

CIO e Area Tecnica) incentrato sui seguenti punti:

1. Conferma di laboratorio della diagnosi. Quando possibile tipizzazione del

microorganismo in causa.

2. Notifica tempestiva alle autorità sanitarie secondo le dispositive vigenti

3. Inchiesta epidemiologica (ricerca dell’esposizione, trattamenti a rischio, reparti

di degenza in cui il/i paziente/i ha /hanno transitato

4. Ricerca di altri possibili casi-adozione se del caso di un protocollo di ricerca di

Legionella in tutti i casi di polmonite nosocomiale. Può esser necessario

condurre un’indagine retrospettiva (titoli anticorpali su sieri conservati, ricerca

dell’antigene urinario in malati recenti)

- 110 -

5. Descrizione della distribuzione nel tempo e nello spazio dei casi confermati e

dei casi presunti e ricostruzione grafica della curva epidemica

6. Formulazione di ipotesi sulla possibile origine di infezione

7. Indagini ambientali sulla rete idrica e le attrezzature sospette, mirate in base

alle ipotesi emerse dallo studio descrittivo

8. Confronto dei ceppi di legionella isolati in malati con quelli dall’ambiente

mediante raccordo con il laboratorio di riferimento

9. Se l’origine del cluster resta difficile da identificare, programmare un’indagine

epidemiologico-analitica

Per quanto riguarda la situazione epidemiologica nel P.O. Nord S.M. Goretti di

Latina il numero di diagnosi mostra un andamento sostanzialmente stabile dal

2013 ad oggi. (Tab. 14).

Tabella 14. Numero di pazienti con diagnosi di legionellosi basate sulla positività

dell’antigene urinario nel P.O. Nord ASL di Latina.

Anno N. diagnosi Reparto

2013 8 Malattie Infettive 5, Medicina Generale 2,

Pronto Soccorso 1

2014 7 Medicina d’Urgenza 2, Medicina Generale 2,

Nefrologia 1, Pronto Soccorso 1

Gennaio-Aprile 2015 3 Malattie Infettive 2, Neurochirurgia 1

Il documento aziendale precedentemente esposto è stato proprio frutto

dell’identificazione in due occasioni di legionellosi potenzialmente di origine nosocomiale

(in quanto i due pazienti risultavano aver avuto dei giorni di ricovero entro i 10

precedenti l’esordio della sintomatologia). In entrambe i casi, scattate le indagini

epidemiologiche, non sono emerse inizialmente problematiche ambientali inerenti una

aumentata carica microbica nell’impianto idrico ospedaliero, mentre campionamenti

successivi mirati sulle aree di degenza coinvolte hanno mostrato cariche superiori a

quelle considerate “di sicurezza” secondo i protocolli attualmente vigenti. Questo ha fatto

- 111 -

scattare procedure di trattamento delle acque, controlli di efficacia successivi e

l’istituzione di un vero registro di tali interventi in modo da tracciarne la periodicità.

Di seguito sono elencati i principali metodi di trattamento degli impianti idrici per

abbattere la carica di Legionella spp., in ordine decrescente di efficacia, secondo quanto

suggerito dalle evidenze scientifiche e nel Documento di linee-guida per la prevenzione e

il controllo della legionellosi della Conferenza Permanente per i Rapporti tra lo Stato, le

Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano ((7 maggio 2015)) e mutuate :

Trattamento termico:

- aumento della T° dell'acqua calda a 70-80°C continuativamente per tre

giorni consecutivi con scorrimento per 30 minuti al giorno (shock

termico)

oppure

- mantenimento di una temperatura tra i 55-60°C nella rete dell'acqua

calda

Clorazione:

- Iperclorazione shock: immettere cloro nell'acqua fino ad ottenere

concentrazioni di Cl residuo di 20-50 mg/L. Periodo di contatto: 2 ore con

20mg/L oppure 1 ora con 50mg/L.

oppure

- Iperclorazione continua: aggiungere cloro in modo che la concentrazione

residua sia compresa tra 1-3 mg/L.

Raggi ultravioletti

Ionizzazione rame/argento

Perossido d’idrogeno e argento stabilizzati

Biossido di cloro

Nella struttura ospedaliera del S.M. Goretti è stato scelto, principalmente per la

compatibilità con l’impianto idrico esistente il metodo dell’iperclorazione shock.

Va ricordato tuttavia che l’obiettivo di raggiungere l’assenza di Legionelle negli impianti

idrici di qualsiasi struttura è puramente utopistico, data la natura ubiquitaria di questo

- 112 -

germe, per questo a senso parlare solo di livelli “di sicurezza” (103 CFU/L). Per questo di la

misura più importante per la prevenzione ospedaliera rimane l’utilizzo della sola acqua

sterile per la pulizia e il riempimento dei serbatoi dei dispositivi usati per l’umidificazione

e la nebulizzazione.

- 113 -

Malattia da Virus Ebola (MVE)

Fin qui son stati analizzate azioni pratiche intraprese nei confronti di eventi epidemici nel

momento in cui questi erano già in qualche modo presenti nel nostro territorio come

evento sporadico e come potenzialmente in grado di diffondersi a livello

intraospedaliero. La Malattia da Virus Ebola (MVE) ha invece posto al CIO il problema di

approntare un piano per un rischio “altamente improbabile, ma non impossibile” (come

esposto dalle circolari ministeriali) di arrivo di tale patogeno estremamente diffusivo

anche nel nostro Paese. Tale rischio si è già concretizzato, in due occasioni con il rientro di

operatori sanitari coinvolti attivamente nell’epidemia in Africa Occidentale e affetti dalla

patologia.

Nel primo caso, un medico operante presso l'ospedale di Emergency di Lacca in Sierra

Leone, il rientro in Italia è stato appositamente organizzato, protetto in alto

biocontenimento, proprio volto al trasporto e alla cura di un paziente già sintomatico e

diagnosticato. Fabrizio Pulvirenti, il medico di Emergency affetto da malattia da virus

Ebola, è stato dimesso il 2 gennaio scorso ed era stato ricoverato dal 25 novembre

nell'Unità di alto isolamento dell'Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro

Spallanzani di Roma. All'ingresso il paziente, in buone condizioni, era stato osservato,

idratato ed aveva ricevuto terapia di supporto.

Nei giorni successivi però aveva subito un graduale peggioramento, con febbre elevata,

disturbi gastrointestinali e profonda astenia. Per tale motivo al paziente erano state

somministrate, tre diverse terapie sperimentali e due sacche di plasma di convalescente.

La sera del 4 dicembre 2014, a causa di una grave insufficienza respiratoria il paziente

veniva trasferito presso l'unità di alto isolamento del reparto di terapia intensiva, ove

veniva sottoposto a ventilazione meccanica respiratoria per 5 giorni. Dopo ulteriori 48 ore

veniva trasferito nuovamente in degenza ordinaria sempre in regime di alto isolamento.

Successivamente si è assistito al miglioramento delle condizioni generali, alla ripresa

dell'alimentazione, alla risoluzione della febbre e dei disturbi gastrointestinali.

Attualmente il paziente è "Virus-free", perché la ricerca del virus Ebola è risultata

negativa su sangue ed altri siti corporei.

- 114 -

Nel secondo caso, l’infermiere che ha lavorato in Sierra Leone da febbraio al 6 maggio, ci

si è trovati di fronte alla sfida più grande, una diagnosi fatta in Italia, in un paziente che

ha sviluppato i sintomi dopo il rientro, dopo il ritorno a casa, che quindi è entrato in

contatto potenzialmente durante il periodo di incubazione con altre persone. Inoltre il

caso è stato accolto inizialmente non in una delle due strutture di riferimento dotate di

alto isolamento Centri Nazionali di Riferimento per la gestione clinica del paziente (INMI

“Lazzaro Spallanzani” di Roma e Azienda Ospedaliera “L. Sacco” di Milano), ma nel

Reparto di Malattie Infettive di Sassari, l’ospedale della zona vicino al quale il paziente

risiedeva. Ad oggi il paziente si alimenta autonomamente e assume il trattamento

antivirale e la terapia reidratante per via orale. La prognosi resta riservata. Nessun caso si

è sviluppato fra i contatti familiari occorsi tutti nella fase in cui l’infermiere era ancora

asintomatico.

Ebola è un virus a RNA, appartenente alla famiglia dei Filoviridae, genere Filovirus. Sono

stati identificati cinque diversi sottotipi del virus: Zaire, Sudan, Ivory Coast, Bundibugyo e

Reston, ciascuno con una diversa diffusione geografica. I primi quattro sono patogeni per

l’uomo e hanno provocato epidemie in Africa. Il sottotipo Reston, invece, isolato per la

prima volta a Reston, in Virginia (Usa), in macachi provenienti dalle Filippine, è

responsabile di malattia nei primati, mentre nell’uomo provoca una forma asintomatica.

L'origine del virus non è nota, ma i pipistrelli della frutta (Pteropodidae), sulla base delle

evidenze disponibili, sono considerati probabili ospiti del virus Ebola. Il virus presenta

analogie morfologiche con l’agente della febbre emorragica di Marburg, ma

caratteristiche antigeniche differenti.

Le informazioni scientifiche disponibili, desunte dalle pregresse epidemie di Ebola,

evidenziano come il virus Ebola si trasmetta attraverso: il contatto diretto (attraverso

ferite della pelle o mucose) con sangue o altri liquidi/materiali biologici, quali saliva, feci,

vomito, sperma, incluse le secrezioni salivari (droplets) e il contatto indiretto (per via

cutanea o mucosale), con oggetti contaminati con sangue o altri liquidi biologici (ad

esempio aghi).

La malattia da virus Ebola è caratterizzata da comparsa improvvisa di sintomi piuttosto

aspecifici quali: febbre elevata, astenia intensa, artromialgie, dolore addominale, cefalea

- 115 -

e faringodinia. Questi primi sintomi possono essere seguiti da vomito, diarrea, esantema

cutaneo diffuso, iniezione congiuntivale, dispnea. In particolare sembra incidere molto in

termini di mortalità l’imponente stato di disidratazione conseguente alla sintomatologia

gastrointestinale. I fenomeni emorragici, sia cutanei che viscerali, possono comparire in

genere al 6°-7° giorno, soprattutto a carico del tratto gastrointestinale (ematemesi e

melena) e polmonare. La letalità è compresa tra il 50 e il 90%, nell'epidemia in corso è di

poco superiore al 50%.

L'infezione da malattia da virus Ebola può essere confermata solo attraverso test

virologici (sierologia e RT-PCR), per cui le definizioni di caso così come stabilito dalla

Circolare Ministeriale del 29 Agosto 2014 sono:

Caso Sospetto: persona con febbre proveniente da <21 giorni da area affetta

Caso Sospetto ad Alto Rischio/Probabile: persona con febbre proveniente da

<21 giorni da area affetta ed esposizione a caso di MVE

Caso Confermato in Laboratorio: caso sospetto o probabile con conferma di

laboratorio di infezione da MVE da campione clinico

Infatti i criteri fondamentali sono:

Il periodo di incubazione: che è mediamente di 8-10 giorni con un range di 2-

21 giorni. Durante il periodo di incubazione le persone non sono considerate a

rischio di trasmettere l'infezione. Il paziente diventa contagioso tramite

secrezioni quando comincia a manifestare sintomi e si mantiene contagioso

fino a quando il virus è rilevabile nel sangue. Particolare stupore ha suscitato la

prova che l'eliminazione del virus tramite allattamento e per via sessuale può

proseguire anche dopo la guarigione clinica. In particolare, la permanenza del

virus nello sperma può verificarsi fino a 7 - 12 settimane dopo la scomparsa

della viremia.

L’”unde venis”: ovvero la provenienza da paesi dell’Africa Occidentale colpiti e

il contatto potenziale con pazienti affetti

Questi sono i criteri anche fondamentali per il triage di pazienti affetti da febbre del

viaggiatore nel periodo epidemico, suggeriti per tutti i Pronto Soccorso e gli aeroporti,

per evitare inutili allarmismi ma anche per l’individuazione pronta dei casi.

- 116 -

L’epidemia di MVE attuale è in effetti la prima che ha oltrepassato i confini dei paesi

affetti, con la seria possibilità grazie ai viaggi internazionale dell’importazione di casi e

costituendo una vera Emergenza di Sanità Pubblica di Rilevanza Internazionale.

Dall’inizio dell’epidemia a all’inizio di maggio 2015 ci sono stati un totale di 26.593

segnalati casi confermati, probabili e sospetti di EVD in Guinea, Liberia e Sierra Leone, con

11.005 decessi segnalati. Un totale di 868 infezioni confermate negli operatori sanitari

sono stati riportati in Guinea, Liberia e Sierra Leone; ci sono stati 507 decessi segnalati.

Nella prima settimana di maggio un totale di 9 nuovi casi accertati sono stati segnalati in

Guinea, 0 in Liberia e 9 in Sierra Leone, confermando il fatto che l’epidemia si avvia a

essere sotto controllo e che il traguardo “zero nuovi casi” è vicino. Perché un Paese possa

essere dichiarato "libero" dall' Oms, devono essere trascorsi 42 giorni in cui tutte le

persone entrate in contatto con il portatore iniziale o con qualcuno a lui vicino, non

hanno sviluppato la malattia. Questo intervallo temporale equivale al doppio del periodo

di incubazione del virus dell'Ebola. Il 17 ottobre 2014 l'OMS ha dichiarato il Senegal

"Paese libero da Ebola", il 20 ottobre 2014 la Nigeria , il 9 maggio 2015 infine la Liberia

(Fig.22).

Figura 22. Casi confermati, probabili e sospetti di MVE a livello mondiale (dati aggiornati

al 10 Maggio 2015) Fonte WHO

- 117 -

A livello internazionale, nazionale, regionale, piani per risposte coordinate alla MVE sono

state elaborate, considerando le possibili conseguenze di un'ulteriore diffusione

internazionale che sarebbero particolarmente gravi per la virulenza del virus, le modalità

di trasmissione in comunità e strutture sanitarie. Facendo seguito alle Circolari

Ministeriali e al Protocollo della Regione Lazio datato 16 Ottobre 2014, anche la ASL di

Latina si è munita di un protocollo operativo calato sulla propria realtà locale.

Nel “Protocollo Operativo Aziendale per la gestione dei casi sospetti, probabili e

confermati di MVE” in particolare vengono descritte le attività e i percorsi effettuabili

presso la struttura dell’Ospedale S.M. Goretti di Latina. In base alla classificazione di caso,

al paziente viene destinato un diverso percorso assistenziale:

Caso sospetto basso rischio: gestione in loco (DEA + Malattie Infettive)

Caso sospetto alto rischio/probabile: invio presso INMI L. Spallanzani

Caso confermato: invio presso INMI L. Spallanzani

Il DEA di II livello e la UOC di Malattie Infettive dell’Ospedale S.M. Goretti del PO Nord

sono individuate quali strutture di riferimento aziendali per la gestione dei casi sospetti

cui dovranno far riferimento l’ARES 118, i PS, i distretti territoriali e i punti di primo

soccorso del PO Nord, Centro e Sud.

Un team dedicato costituito da medici e personale infermieristico della U.O.C. di Malattie

Infettive, opportunamente addestrati per l’emergenza, sarà attivo h24 per la gestione dei

casi in isolamento precauzionale fino all’accertamento completo del caso e definizione

diagnostica e per le esigenze infettivologiche degli ospedali della provincia.

L’addestramento in particolare riguarda la gestione dei DPI, vista la particolare

contagiosità dei potenziali pazienti, seguendo la regola delle 3 D: “Donning, During

patient care, Doffing”. Corsi di training e re-training sono stati organizzati per il personale

dedicato con esercitazioni pratiche.

Il percorso assistenziale previsto si articola secondo due possibili scenari:

- Scenario A: il paziente arriva tramite 118 già “classificato” come caso

sospetto con

1) Allerta task force infettivologica

- 118 -

2)Trasferimento in sicurezza e ricovero presso il reparto di Malattie

Infettive saltando la fase di triage

3) Area svestizione presso “doffing room” Malattie Infettive

- Scenario B: accesso autonomo del potenziale paziente presso l’ Area

Triage, che pertanto è così predisposta con cartellonistica multilingue

(Fig.23), mascherine e gel idroalcolico, il paziente viene poi fatto passare

per un percorso dedicato “arancione” e avviata la procedura caso

sospetto con attivazione task force infettivologica e trasferimento zona

di isolamento (dove si procederà alla valutazione del caso)

- 119 -

Figura 23.Cartelloni multilingue presenti al triage del PS per l’accesso di paziente con

sospetta MVE in caso di Scenario B

Inoltre tali procedure si sono ulteriormente rafforzate grazie alla predisposizione di una

area apposita per l’isolamento e la gestione del paziente esterna al PS più vicina al triage

rispetto alla struttura del Reparto di Malattie Infettive (in questo periodo in fase di

- 120 -

ristrutturazione e pertanto non adeguato né come caratteristiche delle stanze di

isolamento né come accesso diretto in alto isolamento del paziente, poiché l’unico

percorso fruibile tra PS e Reparto è al momento all’interno dell’ospedale). Tale area è

stata individuata in un apposito container dotato di anticamera dedicata alle aree di

donning e doffing, situata appena all’esterno della rampa di accesso al PS ed

esclusivamente dedicata all’allerta MVE (Fig.24).

Figura 24. Planimetria dell’area-container per isolamento nel caso di paziente con

sospetta/probabile MVE, predisposta presso il PS dell’Ospedale S.M. Goretti di Latina.

Istruzioni sono state anche fornite alle Direzioni Sanitarie degli altri PS/DEA della

provincia di Latina per identificare preventivamente un percorso protetto e una stanza di

isolamento del paziente da valutare, seguendo tutte le misure precauzionali

precedentemente riportate. Il medico di accettazione del PS, previa consultazione con

l’infettivologo del reparto di malattie infettive del PO di Latina, nel caso di conferma di

caso sospetto di MVE “a basso rischio” disporrà il trasporto del paziente presso il

suddetto reparto. Il trasporto dei casi sospetti dalla stanza di isolamento del Pronto

- 121 -

Soccorso al reparto di Malattie Infettive UOC Latina verrà effettuato con ambulanza

interna. Il percorso con ambulanza consentirà di far accedere il paziente in modo da

escludere percorsi interni in ospedale all’apposita area di isolamento. Con i lavori nel

Reparto di Malattie Infettive è in corso anche una ristrutturazione per la rimessa in

sicurezza della rampa di accesso nell’entrata posteriore del Reparto cui saranno collegate

direttamente di due stanze adeguate a fungere da stanza di degenza ad alto isolamento e

da zona filtro.

Il trasporto da un presidio senza reparto di malattie infettive all’Ospedale S.M. Goretti è a

carico dell’ARES 118, come da determinazione della Regione Lazio del 17 ottobre 2014.

Nel caso di conferma di caso sospetto di MVE “ad alto rischio”/caso probabile, va

concordato, sempre con l’infettivologo di riferimento, il trasferimento immediato

all’INMI Spallanzani, senza prevederne autonomamente il trasporto in altra sede. In tal

caso la modalità di trasporto verrà concordata con Spallanzani.

Fino al momento attuale nessun caso di MVE, neppure solo sospetto, ha avuto accesso

alle nostre strutture ASL. L’allerta legata a tale patologia altamente contagiosa ha tuttavia

stimolato anche a livello locale per implementare i percorsi e le aree dedicate agli

isolamenti soprattutto nelle aree di Accettazione e Urgenza e l’addestramento del

personale al miglior uso dei DPI.

- 122 -

Discussione e conclusioni

La problematica delle infezioni legate alla assistenza sanitaria rappresenta ormai un

rischio collaterale intrinseco al processo di cura del malato. Essa diventa estremamente

preoccupante, perché possibile spia di un gap organizzativo, quando più casi

potenzialmente prevenibili e con fonte comune si verificano nella stessa area

assistenziale. La prevenzione è la risorsa più efficace contro le infezioni nosocomiali

nell’era della antibiotico-resistenza . Gli sforzi per la corretta organizzazione del lavoro

assistenziale quotidiano possono impattare significativamente nella diffusione

intraospedaliera del microorganismo di volta in volta imputato, più ancora che per la

prevenzione del singolo episodio. Le patologie infettive, qualora “contagiose” e

potenzialmente in grado di dar luogo a focolai epidemici, rappresentano una delle sfide

più ardue che una organizzazione aziendale si può trovare ad affrontare in termini di

costi aggiunti e di immagine Rappresentano però anche una risorsa, dalla quale si

possono evidenziare pratiche assistenziali e percorsi organizzativi da implementare per

prevenire outbreaks futuri. Ogni organizzazione sanitaria aziendale deve ormai prevedere

organi competenti in grado di pianificare la prevenzione e di affrontare tali emergenze.

In tale contesto la figura dell’infettivologo può risultare un personaggio chiave, in grado di

integrare l’esperienza clinica con le competenze epidemiologiche, ed è pertanto utile in

ogni contesto assistenziale, per affrontare con la corretta analisi degli eventi epidemici in

ospedale dalla pratica clinica alle misure di controllo.

- 123 -

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