Facce, di Nadia Terranova

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Racconto dell'autrice Nadia Terrnaova

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FacceNadia Terranova

Illustrazione di copertina di Vincenzo Sanapo

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ROSANNASe questa faccia che mi squadra da ogni riflesso, da specchi vetrine superfici acque stagnanti schermi, se questa faccia smunta e lunga attrezzata di occhi esagerati non fosse mia, se non avessi certezza anagrafica e protocollata di carta d’identità, oggi potrei rilassarmi. «Signora, che faccia desidera stamattina? Le vanno bene due etti di questa? O preferisce una fettina di quest’altra?». Mi aggirerei per il mercato delle facce con addosso una borsa di tela riciclabile e un’aria svagata, una nuova versione di me: equa solidale e armonica, tutt’uno con il concetto di possibilità. Se si potessero scegliere e piantare le facce come si scelgono i semi, ne pianterei ogni settimana una diversa e me ne starei per sette giorni a guardarla crescere. Oggi invece le cose mi sembrano ferme, immobili, dominate da quest’unico viso pesante che si trascina dietro un po’ di disaffezione, un po’ di necessità, un po’ di distacco, insomma un po’ di tutto, e di tutto un po’ troppo. «Mamma?» Edvige mi pianta addosso i soliti occhi impazienti. Si è fermata con le braccia a forma di esse, braccia conserte e larghe che la tradiscono: mentre si dichiara serrata, in realtà sta solo giocando a nascondino con la luce accesa, vuole essere trovata e mi reclama. «Ma dove sei, un’altra volta. A che pensi? Mamma!». Non mi sopporta. Non sopporta niente che mi riguardi. Nessuno mi aveva avvertito che la caratteristica dei diciassette anni è il venir meno di ogni condiscendenza. Altro che pasticche, acne e cattive compagnie. Perché non lo scrivono nei manuali per gravide? Care incoscienti in procinto di compiere il più irreversibile degli atti, sappiate che la vostra creatura verrà al mondo dotata di capelli, denti da latte e tolleranza. Perderà tutt’e tre. Le prime due sottrazioni non sono prevedibili con esattezza di calendario ma la tolleranza si perderà a diciassette anni precisi. Sì, dovrebbero specificarlo per chi, come me, diciassette anni non li ha mai avuti in comodato d’uso.

EDVIGENon la sopporto. Non sopporto niente che la riguardi. E non sopporto che pensi di conoscere i motivi per cui non la sopporto. Fa tutto apposta per farmi vergognare. Non ha senso del ridicolo, non ha imbarazzo, anzi ne tiene una scorta infinita per i momenti sbagliati. Perché deve arrossire se qualcuno le fa un complimento? Mica è brutta, di quelle che la prima volta che uno le guarda bisogna festeggiare. È ridicola, è goffa, è assurda, ma insomma dovrebbe saperlo che non è da buttare, c’è bisogno di stupirsi ogni volta? Di abbassare gli occhi quando le dicono che sembriamo sorelle, difendendosi con un no no no? Ma quanti anni ha? Basta, non mi interessa quanti anni ha, a quanti mi ha messa al mondo né quelli che ha perso per me: dei suoi anni non

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me ne frega niente. È difficile? È molto difficile? È un grido di disperazione il mio. Un ululato: lasciami in pace. Lo sapevo che non dovevo venire in montagna. «A far che mamma, a far che?» «A respirare aria buona camminare e raddrizzarti la schiena – prendila come una cura di vitamine: hai avuto la febbre tutto l’anno». Non ho la febbre dalle medie e solo tu, giuro mamma solo tu, non distingui un’epidemia da una scusa per non andare a scuola. Mia madre e le sue nuove fissazioni. Quella che io debba preservarmi in salute, come se dallo scoccare dei diciassette fossi entrata in zona rossa malattia mortale. E quest’altra, tutta nuova, per la montagna. Preferivo i viaggi targati tre-giorni-in-una-capitale-europea che mi regalava fino all’anno scorso, convinta che servissero come le scuole british in centro popolate da insegnanti madrelingua (ubriaconi falliti sposati a sue coetanee sfigate di importazione nostrana). Però era divertente far finta di crederle, okay mamma andiamo a Stoccolma a Oslo anzi a Madrid, in Spagna sì che imparo l’inglese. La verità è che ci divertivamo, due sceme totali in viaggi confezionati per sceme totali. E poi tre giorni passano in fretta, una settimana invece è lunghissima. Il vecchio sotto casa, che secondo me vive in affitto sul muretto, ha detto che quassù piove tutti i giorni. Oh se ci divertiremo.

ROSANNAEdvige non ha la mia faccia. Ha la faccia di suo padre, come mi ha fatto notare appena nata, esibendo la somiglianza con precisione di figlia stizzita. Non aveva tre ore e già mi guardava con rimprovero, consapevole del mio tarlo di colpa scriteriata. Stai tranquilla, mi diceva con gli occhi sputati a quelli del genitore assente, è andato tutto come volevi tu. Mi tormentavo, eppure era solo l’incoscienza dei diciassette anni, quelli che presumevo di avere e non avevo affatto, oppure li avevo e non me n’ero curata, o peggio me n’ero curata così poco che li avevo dati via in saldo, senza conoscere alternative. Ed era pure arrivato il conto, perché una sorte mi caratterizza: a me la vita batte subito cassa, con la ricevuta e tutto, il coperto il primo il secondo il contorno e la frutta, che sono i miei, e però pure il vino del tavolo accanto con il ricasco dell’ubriacatura altrui.Insomma, un giorno dei miei diciassette anni è arrivata Edvige ed è stato meglio così, perché le due lineette del test di gravidanza mi avevano dato sicurezza. Ah, due piccoli segmenti rosa. Due significa meno solitudine di uno. Tre sarebbe perfezione. Quattro è sbagliato, significa che c’è uno di troppo. Appena l’ho presa in braccio ho saputo che dei due padri possibili il suo era quello più sbagliato dell’altro, ma poco importava perché non l’avrebbe mai saputo. Una volta dimessa dall’ospedale ho

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telefonato al padre meno sbagliato e gli ho dato per un attimo dignità di padre giusto, gli ho detto che la bambina era nata sana e visto che lei aveva reso felice me io avrei reso felice lei, l’avrei cresciuta da sola e a lui chiedevo soltanto la cortesia di scomparire. I miei genitori annuirono soddisfatti: figlia minorenne colpevolmente procreatrice, ma almeno per partenogenesi; la disgrazia di riproduzione non s’era chiamata disgrazia di matrimonio. Il padre meno sbagliato sparì volentieri, la codardia l’aveva mostrata in altre occasioni e ora gli davo solo modo di ruotarla come un pavone. E il padre più sbagliato? Quello non era niente, neanche un’ipotesi: troppo vecchio, troppo insensato e soprattutto troppo sposato. Il padre sbagliatissimo si accomodò sulla faccia di Edvige perché lo riconoscessi io sola. Che l’avessi amato o qualcosa del genere non era importante, e comunque era meno amore e più “qualcosa del genere”; il suo nome era così improbabile che non c’è mai stato bisogno di condividerlo con nessuno e l’ho dimenticato fino a stamattina, quando ho cominciato a ragionare di facce, che poi vorrei sapere che razza di argomento è e come mi vengono in mente certi pensieri. Sarà l’aria di montagna. Ma va là.

EDVIGE«Sembra interessante», stabilisce mentre lui si allontana, «O no?». Ecco mia madre: capace di rovinare con un “o no?” l’unica frase-breccia-nel-muro che le scappa in una giornata. “Sembra interessante” era un inizio di conversazione, ci si annidava dentro tutt’un “no, mamma, sembra interessante a te perché hai trenta e schifo anni senza mai averne avuti venti” o “no, mamma, dici interessante ma in realtà vuoi dire bello e sexy però proprio non ce la fai”, o ancora “sì, mamma, sembra interessante a te, non a me, che sono persona altra e dei miei gusti non sai nulla”. Quello sì poteva essere un dialogo, e magari saremmo anche riuscite a ritagliarci per sbaglio un momento di verità. Invece niente, ha preferito un “o no?” con pretesa di conferma e pesantezza categorica, dopo che l’unico essere umano decente di questo posto si è avvicinato per scambiare due parole con la scusa degli orari dell’edicola e intanto se la mangiava con gli occhi. Una scena carina da morire, che lei ovviamente non riesce a tollerare: un maschio che si permette di osservarla sta compiendo criminali atti impuri, figuriamoci se osa avere dieci anni meno di lei. Così mi sono innervosita, di nuovo e sempre per colpa di mia madre, del suo pretestuoso mistero inaccessibile che puzza solo di paranoie. «Sembra un ragazzo interessante. O no?»«No».

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ROSANNAEdvige e i suoi sguardi “non ti capisco perché non voglio capirti”. Edvige e i “non ti capisco perché non me ne frega niente di capirti”. Edvige e i sai che c’è? Sei scema. Pure se ti ho fatta io, anzi: sarà per questo che lo sei. Sconsiderata e egocentrica. Oppure semplicemente diciassettenne. Comunque sia, mi fai ingoiare rabbia fresca già il primo giorno di vacanza. All’una virgola zero cinque ce ne stavamo ferme davanti all’edicola chiusa ad addossarci colpe, sviste e ragionamenti («Te l’avevo detto che chiudeva a pranzo», «Ma perché non ragioni, la pausa pranzo ad agosto», «Cosa fai, neghi l’evidenza») e a un certo punto si è avvicinata una di quelle facce buone solamente a piantare languori negli stomaci altrui. La meraviglia, dopo averci illuminate ed esaminate attraverso le lanterne azzurre che si ritrova al posto degli occhi, ci è venuta incontro brandendo la copia intatta di un quotidiano: «Se mi posso permettere», ha esordito rimpastandomi nello stomaco cornetto e cappuccino, tanto che ho dovuto chiedere soccorso a una Edvige impegnata a fissare cupamente il boschetto. Miracoli del “vado contro mia madre sempre e comunque”: l’abetaia all’improvviso era diventata attraente, come se nel futuro di mia figlia fosse comparsa per dispetto una prospettiva credibile fatta di scarponi e taglialegna. Ho provato a difendermi dalla meraviglia e dalla sua offerta di giornale durante dieci minuti di conversazione di cui ricordo solo che avrei voluto scusarmi e spiegare che no, non vorrei avere questa faccia e no, non so neanche se avrei voluto questa vita. Poi finalmente le lanterne hanno fatto dietro front lasciandomi in pegno il quotidiano: «Allora me lo riporti nel pomeriggio».

EDVIGEChissà se riesce a levarsi di mezzo per mezz’ora. Trenta minuti trenta. Il tempo di parlare con Sara. Ho bisogno di sentire la sua voce, basta con questa frenesia di tasti da fraintendimento. Com’era la vita prima dei telefoni in tasca, degli sms, di questa terribile necessità di contatto continuo? Non me la so immaginare. Comunque adesso voglio sentire Sara senza il fiato di mia madre sul collo. Ci va oppure no al suo simpatico appuntamento? E magari si rilassa anche, se ne è capace.

ROSANNADi tutte le illusioni delle donne incinte, la peggiore si chiama “un giorno mio figlio mi capirà”. Versano tale allucinogeno nel primo bicchiere d’acqua dopo il risultato del test. Nel bicchiere delle ragazze madri minorenni raddoppiano il dosaggio, per

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convincerle che la creatura infonderà loro la forza per affrontare al meglio ogni avversità, il che si rivelerà anche parzialmente vero. Falso, falsissimo, è invece l’assunto che la creatura giustificherà scelte prese nel suo nome, in particolare precedenti alla sua nascita. Non serve nemmeno aspettare i diciassette anni, la disapprovazione arriverà molto prima; quella di Edvige si è manifestata intorno ai quattro: «perché mi hai dato un nome così brutto?» è stata la sua prima domanda e hai voglia a raccontare fantasie di fuga e ribellione, niente da fare, il nome era osceno e la colpa tutta mia. Circa le circostanze del concepimento, sono sicura che sarebbe stata felice di disapprovare anche quelle, solo che non gliele ho mai raccontate. Un giorno capirà, mi dico ancora sotto l’effetto dello stupefacente, solo che poi i giorni passano e si sprecano. Vabbe’. Sono le quattro e mezza. È sufficientemente pomeriggio per andare all’appuntamento?

EDVIGESì, ci andrà. Se non altro per riportargli il giornale. È bravo lui, l’ha fregata. Dove la vanità non arriva, il senso del dovere sfonda le porte.

ROSANNAE di nuovo, come diciassette anni fa, mi illudo che nessuno mi veda il sismografo esploso in corpo, stavolta l’ho nascosto sotto brutti vestiti facenti funzione di aculei improvvisati. Con vecchie scarpe e arbitrari accostamenti cromatici, mi sono avviata verso la piazzetta rallentando e accelerando. Sarà già lì?, tre passi lenti, devi farti desiderare, uno lentissimo, e se non mi vede e se ne va?, due passi veloci, be’ meglio così, un passo normale. Di fronte all’edicola non c’era nessuno. Lo sapevo, ho pensato, prendendomela con me stessa perché anziché sollievo provavo delusione. Peggio per lui, io il giornale gliel’ho riportato, mi sono detta ripristinando le priorità (ma se non l’hai neanche letto, soffiava la vocina nelle orecchie). E così via in un dialogo tra follie diverse, finché non ho visto più niente per via di due mani sbucate da dietro a coprirmi gli occhi, «Cercavi me?». «Sono un po’ vecchia per questi scherzi», ho precisato, mentre la meraviglia si stupiva e desolava. «Vecchia?», ha ripetuto per cacciare la parola dall’olimpo delle verità. Sue verità, nostre verità, verità di chi? Tolte le sue mani dai miei occhi, lo guardavo e pensavo: è bellissimo. E scemenze così. Lo ascoltavo e pensavo: ha davvero una voce che ti entra dentro e non se ne va più. Una voce impertinente e divertita, priva di stonature acide, da cui mi sono

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lasciata cullare con i piedi bene attenti a non oltrepassare i confini e la bocca che frenava tutte le domande invadenti che avrei voluto fargli. E Edvige?, mi sono chiesta all’improvviso perché non era più arrivata con il suo broncio esigente e le braccia a forma di esse. La meraviglia continuava a parlare ma ormai la sua voce aveva perso incantesimo: il fatto di starmene in piazza a bearmi di parole inesistenti m’era piombato addosso con un baratro di colpe, facendo scattare l’allarme a sirena sono-una-pessima-madre. Ho salutato e sono scappata.

EDVIGEL’aspetto più comodo di avere una storia con la tua migliore amica è che non devi nascondere quasi niente alla genitrice. «Con chi parli?», «Con Sara», «Con chi esci?», «Con Sara», «Con chi hai fatto filone?», «Con Sara», eccetera, in un climax paradossale che finisce col rendere la presenza di Sara indispensabile all’approvazione materna («Certo, puoi andare ma solo se c’è Sara»). Io e Sara ci siamo baciate per la prima volta a casa mia. Mia madre non c’era. «Com’è andata con Sara?», mi ha chiesto quella sera, una domanda in mezzo alle altre, senza un significato particolare. «Benissimo», ho risposto. «Forse è il momento che usciate anche con qualche ragazzo», ha aggiunto, facendomi sorridere sul suono di certe frasi quando intorno ci sono troppi silenzi.

ROSANNAChi ha un brutto carattere sa di averlo. Non perché se ne renda conto ma perché prima o poi arriva la somma degli aggettivi: se nessuno ti ha mai detto “bella” non è che tu non lo sia, forse te l’hanno detto e non l’hai sentito, ma se nessuno accenna mai a te come a una persona mite allora puoi farti qualche domanda. Oppure accettarti. Per me non è stato difficile: io con il caratteraccio ci sono nata – poi, certo, me lo sono coltivato con cura. La mia faccia sa sfoderare metamorfosi spaventose, i miei amici temono le mie sfuriate, quasi tutti a un certo punto smettono di farmi complimenti. Li ho sempre tollerati pochissimo, i complimenti. E per quanto riguarda quelle spiegazioni sulla consapevolezza o meno di meritarli, mi sono sempre tenuta lontana dalle psicoanalisi del sabato pomeriggio, grazie – va detto – al mio carattere orribile. Mi bastano i numeri: 34, 17 e 17. Ovvero: la mia età attuale, quella che avevo quando ho concepito Edvige e quella che ha Edvige adesso. Se all’età di mia figlia facevo cose tipo restare incinta di padri sbagliati, mi sarà oggi concessa qualche paura per lei?

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Comunque io e la giovane meraviglia non ci vedremo più. Nella mia vita non c’è bisogno di altre età poco adatte, e poi ho imparato da sola gli orari dell’edicola. Per metterci definitivamente una pietra sopra sono andata a fare spese in un posto prevedibilmente chiamato “bottega dei sapori”. Del resto in casa c’è una cucina e non vedo perché non sfruttarla, voglio preparare a Edvige i suoi piatti preferiti così magari mi perdona perché l’ho portata in vacanza in un posto che non le piace (fa sempre parte del pacchetto “scegli il meglio per la tua creatura ed essa reputerà sbagliata la tua scelta”). Dunque sono entrata in bottega e ho comprato olio, tagliatelle, un trito di spezie di montagna, formaggio fresco e formaggio stagionato, funghi porcini, uova locali, il liquore dell’eremita e una confezione di couscous, che non c’entra niente però magari mette mia figlia di buon umore. «Vuole una busta?» mi ha chiesto la signora dietro la cassa con su attaccato il cartello “Buste 0.5 centesimi”. «No grazie, non mi serve», ho risposto piccata, ma lei stava già infilando la roba nel sacchetto. Ho pagato, ho preso le mie cose e sono andata via di pessimo umore, perché il mondo non fa mai quello che gli si dice di fare.

EDVIGEMia madre è impazzita. L’affronto di essere stata corteggiata per cinque minuti deve averle mandato in crisi ogni certezza, perciò si è chiusa tra i fumi della cucina. «Per te», mi ha giurato con il sorriso di quando ha bisogno di sentirsi buona. L’unica cosa che potrebbe fare per me è ascoltare, ma le viene anche peggio che cucinare.

ROSANNARitratto di famiglia con couscous ai porcini. Almeno era buono, ne sono sicura come se l’avessi mangiato io: Edvige me l’ha confermato con occhi stupiti e soddisfatti che non le vedevo da quando era bambina. Avevo appena finito di mettere l’anima nelle pentole quando hanno suonato alla porta. Ho provato a mandare Edvige ad aprire ma l’imperativo è stato coperto da musica a iper-decibel, quindi sono dovuta andare io. Non è vero. È che sentendo suonare il campanello le ginocchia hanno ceduto, sapevano che era la meraviglia, solo che ignoravano la scusa con cui si sarebbe presentata. «Domani pomeriggio c’è un’escursione…» ha cominciato a colpi di sorrisi e lanterne. Venire fino a casa, che sfrontatezza. «Come sai che abitiamo qua?», mi è venuto subito con enfasi sul plurale, ho prole sai? «Ho visto Edvige che entrava». Vabbe’. «È vero», ha confermato mia figlia il cui improvviso buonumore aveva zittito anche lo

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stereo. «Mamma ha cucinato, vuoi entrare?». La prima sfumatura gentile dei suoi diciassette anni era pura zolfata vulcanica tutta per me.Ci siamo accomodati in una stanza senza senso fra l’angolo cottura e la camera da letto, che secondo il sito dell’agenzia sarebbe il tinello. Edvige e la meraviglia hanno cominciato a parlare fitto, quindi a me toccava cercare complicità fra gli oggetti; le mensole scavate nel sottotetto mi sono venute in soccorso con il kitsch delle case di montagna: una piccola botte decorata, cornici vuote, mestoli in legno, un portaoggetti a forma di cigno, un cane in ceramica, due candele di Natale, un orologio in metallo. Orologio fermo, naturalmente, più o meno come la mia testa, incapace di elaborare coordinate temporali.«Vero mamma?».Non avevo idea ma piuttosto che esibirmi in un ehhh? con cui avrei dichiarato a figlia e meraviglia il mio vagabondare, ho preferito rifugiarmi nell’assolutezza di risposta: «Verissimo».«E allora se è così buono perché non l’hai mangiato pure tu?», si è intromesso lui con sorriso beffardo bastardo, per sottolineare il mio digiuno di pranzo e discorsi. «Non ho fame, grazie», ho risposto con una sfumatura permalosa. Però non ho potuto fare a meno di notare che avevano ripulito il piatto.

EDVIGESi è innamorata.Sara non ci crede. «Ma chi tua madre? Ma neanche se la vedo con i miei occhi».Io invece sapevo che prima o poi sarebbe successo. Vado a festeggiare con la birra delle cinque, tanto lei sta talmente fatta degli ormoni della felicità che non sentirebbe la puzza di alcol nemmeno se le alitassi in faccia.Ha preparato una cosa schifosa, couscous ai porcini, però era troppo contenta, non ce la facevo a dirle che era improbabile. E poi il tipo ha mangiato sia il piatto suo che il mio (e lei non se n’è neanche accorta). È simpatico ma ha pessimi gusti, anche perché sennò non la ricambierebbe.

ROSANNAAltro che escursione sui monti comprensiva di lanterne tentatrici, alla tv davano Il grande Gatsby. Ero lì che zapperellavo col telecomando – lo sport preferito dei vacanzieri di montagna – quando è comparsa Myrtle con gli occhi stretti e la bocca enorme a raccontare sottovoce il giorno che aveva visto Tom per la prima volta, in treno, sotto un cartellone pubblicitario, e nei suoi occhi c’era tutta la nevrosi

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sudaticcia della tragedia adultera e un carico di amore che basterebbe pure per Gatsby e Daisy. Quell’amore egoista le dipinge il viso più del rossetto, penso ogni volta su quella scena, e insomma mi sono imbambolata e mi è caduto il telecomando di mano quindi siamo saltati in aria tutti insieme, io, Edvige, Myrtle e Tom (perché nel frattempo Tom aveva pestato la coda al cane – il cane femmina che aveva comprato a Myrtle qualche scena prima, una di quelle scene che ormai mannaggia mi ero persa). Intanto Edvige era pronta per l’escursione, con lo zainetto in spalla e un cappellino ridicolo, e quando ha capito che era inutile insistere e che le stavo dando buca se n’è andata da sola vomitandomi addosso verità tipo peggio per te mamma che non fai mai niente, non vedi mai nessuno, resterai sola e morirai sola e se credi che appena sarò maggiorenne (dice “maggiorenne” come un sogno, come gli emigranti del secolo scorso dicevano “America”) non fuggirò a farmi la mia vita allora non hai capito niente, non ti illudere non provo gratitudine perché non ti ho chiesto io di venire al mondo e non ho obblighi e non mi farai sentire in colpa, e giù altre delicatezze diciassettenni. Mentre davo a lei ragione e a me della madre degenere, la lasciavo andare senza rimpianti in nome di un desiderio privato, irrefrenabile e lussurioso di silenzio e divano sgombro. Ecco un’altra cosa che dovrebbero scrivere nei manuali per gravide: ci sono momenti in cui non vuoi attorno neanche il sangue del tuo sangue, anzi soprattutto quello. Io e Gatsby, creatore di feste altrui e prigionia propria, avevamo un discorso in sospeso. Io e lui da soli.

EDVIGELa giornata era cominciata malissimo. In tv davano quel film con Robert Redford che la fa uscire di testa, perciò ha occupato il divano tenendo gli occhi spalancati e ha affidato con forza al telecomando non solo il pomeriggio ma l’intera vita sua. Mia madre fa cose così. Fa dipendere le sue giornate da un film mentre fuori ad aspettarla c’è la vita vera in carne ossa e occhi azzurri (non male, devo ammettere – meno belli di quelli neri di Sara, però).Mamma, fuori c’è la vita vera in carne ossa e occhi, volevo dirle, e soprattutto sai? Sarà la sfiga di montagna ma tale vita chiede di te, nonostante le tue insopportabili paturnie, il cilicio che ti sei incollato con le croste, l’espressione da Rottweiler e la convinzione che tutto il male del mondo ti sia cascato addosso con la mia nascita, tanto per gradire. Ma per carità. Ho preferito non sprecare fiato e me ne sono andata a fare l’escursione, almeno arrampicandomi avrei messo tutta l’ansia da “ancora tre giorni in questo posto senza Sara”. Quando sono arrivata al punto di incontro c’erano

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una ventina di persone di età diverse: facce rilassate, simpatiche, incuriosite, facce in procinto di tutto. Il tipo mi si è avvicinato subito: «E Rosanna?», era evidentemente deluso. Non ha detto tua madre, l’ha chiamata per nome, non sentivo il nome di mia madre da un sacco di tempo, anzi mi sembra di non averlo mai sentito. Gli ho regalato un sorriso riconoscente mentre, vergognandomi per lei, ho dovuto rispondere che era rimasta a casa a vedere un film. «Che film?», ha chiesto infiammato di curiosità vera, e quando ho biascicato Il grande Gatsby ha spalancato gli occhi come a dire lo sapevo, e io non ci ho capito granché, del resto quel film mi è così antipatico che non so neanche di che parla. La guida ci ha chiamati a raccolta, ci ha divisi a coppie e abbiamo cominciato a salire per il sentiero. Noi due ci siamo incamminati dietro tutti gli altri e abbiamo cominciato a parlare di mia madre, cioè Rosanna, perché anche io ho cominciato a pensarla come una ragazza e mi sembrava di vedere diversamente gli episodi più soliti, buffi, tristi e triti che stavo raccontando. Lui era incuriositissimo e a un certo punto s’è fatto imbarazzato, mi ha chiesto se poteva chiedermi una cosa. Mi ha fatto tenerezza e l’ho anticipato: «Guarda, te lo spiego subito, il padre non ce l’ho, ho fatto le mie ipotesi, tutti pensano che sia uno, io però penso che sia un altro. Non so e non mi interessa ma dev’essere una persona che Rosanna amava da morire perché quell’altro lei non lo amava neanche un po’». Mi sono fermata, l’informazione gliel’avevo data, però si meritava anche il bonus e l’ho elargito: «E poi non si è innamorata più», e mi sono girata da un’altra parte. Mi ha guardata con una specie di ammirazione e ho avuto la conferma che non sarà male avercelo per casa. E ha solo sette anni più di me. Cammina, svetta, espugna, fermati e torna giù: in fondo le escursioni si somigliano tutte e mia madre s’era solo persa una sensazione di stanca conquista, anzi forse aveva fatto bene a starsene a casa perché quelle poche ore mi hanno aiutata a dare al patrigno in erba le due dritte necessarie, sennò hai voglia a sbattere gli occhioni e appostarsi con scuse di edicole e giornali, arrivavamo a fine vacanza e magari nei prossimi tre giorni pioverà, come diceva il vecchio sul muretto, e invece il miracolo s’ha da fare subito, non possiamo permetterci alluvioni. Quando l’escursione è finita ho convinto facilissimamente il tipo a venire a cena imbrogliando che era avanzato il couscous del giorno prima: informazione che a me avrebbe fatto fuggire di corsa, a lui invece aggiungeva addirittura motivazione. Sì, a parte il palato andremo d’accordo. Mi sono presa pure il mio momento di gloria quando, per sembrare gentile e fingere di non essere interessato solo a Rosanna, mi ha chiesto distrattamente se avevo il ragazzo, una domanda buttata lì con l’aria

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educata delle persone a cui non frega niente della risposta. Tanta indifferenza mi ha stimolato verità e me ne sono uscita che no, il ragazzo non ce l’ho però ho la ragazza, e lui prima ha continuato a camminare come se niente fosse ma poi si è fermato di colpo e ha cominciato a ridere e mi ha chiesto se Rosanna lo sapeva e ho spiegato che non ancora, che però avrei trovato un buon momento per dirglielo, e lui continuava a ridere e chiedeva ah sì e quando? Ho spiegato che sarebbe successo quando lei mi avrebbe presa da parte perché doveva farmi un discorso molto serio, perché forse nella sua vita c’era una persona, però forse per me sarebbe stato un problema (per i genitori i problemi sono sempre quelli che si immaginano loro), perché forse (come farebbero i genitori goffi senza la parola forse?) questa persona aveva dieci anni meno di lei e avrei avuto problemi ad accettare la differenza. Ecco, allora le avrei detto: vedi mamma anch’io ti devo parlare del mio amore, per me le differenze sono un po’ differenti, si differenziano dalle tue, capisci la differenza? Il patrigno in erba rideva e non sembrava dispiaciuto né spaventato dalla mia impennata di fantasia e intanto eravamo già sulla strada di casa, s’era fatto buio e c’erano le stelle, ma proprio tantissime. «Finalmente le stelle» sono esplosa, e lui era d’accordo. Sulla porta c’era un’ombra di ragazza, chiamiamola Rosanna o mia madre, ormai è uguale. Aveva gli occhi lucidi di chi ha pianto tutto il pomeriggio, portava un maglione sformato e un paio di jeans miei ma soprattutto non era stupita di vederci arrivare insieme. In quel momento è arrivato un messaggio di Sara e mi sono fermata a rispondere, perché va bene l’amore degli altri però il proprio ha sempre la precedenza, e quando ho alzato la testa m’è sembrato che la ragazza-ombra e il ragazzo-occhioni si stessero abbracciando. «Com’era il film?» ha chiesto lui, ma la risposta non l’ho sentita perché ormai ero rimasta indietro.