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Europa e Italia di fronteal risveglio asiatico

M. WeberCina: uno sviluppo incessante

ma con forti squilibri sociali

F. GalimbertiIndia: un modello “variabile”

che dà forza alla crescita

P. BianchiCon quali azioni rispondere

ai nuovi assetti economici

BIMESTRALE FEBBRAIO 2006

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L’IMPRESA ITALIANA NELL’ECONOMIA GLOBALE

Comitato scientifico

Paolo Gnes

PRESIDENTE

Boris Biancheri

Patrizio Bianchi

Innocenzo Cipolletta

Mario Deaglio

Alberto Majocchi

Giorgio Mulè

Marco Onado

Guido M. Rey

Franco Varetto

Direttore Responsabile

Alberto MucciSegreteria di redazione Priscilla Bigioni

RedazioneGlobal CompetitionL’impresa italiana nell’economia globale Via G. B. Morgagni, 30/h - 00161 Roma tel. 06-44110735 - fax 06-44110775 email: [email protected]: www.cerved.com

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Bimestrale di politica economican. 2 - Febbraio 2006

Copyright 2005 Cerved B.I. SpA. Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati Testata registrata al Tribunale di Roma al n. 409 del 19 ottobre 2005

L’ IMPRESA ITALIANA NELL’ECONOMIA GLOBALE

L’impressionante crescita dell’economia cinese negli ultimi venticinque anni, in cui il PIL è aumentato altasso medio annuo del 9,4 per cento, rappresenta di per sé un fatto positivo e un successo della globalizza-zione. Grazie alla svolta riformista avviata da Deng Xiaoping alla fine del 1978, ai massicci investimenti diret-ti dall’estero e all’apertura dei mercati completata con il suo ingresso nella WTO a fine 2001, la Cina ha aggan-ciato il treno dello sviluppo mondiale e sta realizzando un classico modello di inseguimento delle economiepiù avanzate, che potrà avvicinare gradualmente e pacificamente alla prosperità la sua immensa popolazio-ne di oltre 1.300.000.000 abitanti.

La rapidità e l’ampiezza della crescita cinese stanno comportando tuttavia, oltre a crescenti squilibri inter-ni e a un più generale problema di sostenibilità dello sviluppo globale, pesanti ripercussioni sulla produzionemanifatturiera occidentale, in particolare europea e italiana.

Secondo la teoria dello sviluppo, l’arricchimento dell’inseguitore non dovrebbe comportare un impoveri-mento dell’inseguito, in quanto entrambi dovrebbero beneficiare della modifica della divisione internaziona-le del lavoro conseguente al nuovo ingresso. Così è stato in occasione dei vari “miracoli economici” succedu-tisi nel tempo, dal tedesco all’italiano al giapponese e così via.

Ma la Cina presenta specificità dimensionali, istituzionali e strutturali che non facilitano questo risultato.L’ampia riserva di forza lavoro e la capacità di qualificarla a tutti i livelli di istruzione le consentono di espan-dere la produzione senza vincoli d’offerta e tensioni inflazionistiche. Allo stesso tempo il controllo in chiavemercantilistica dello yuan a un livello di palese sottovalutazione non consente al cambio di svolgere il suoruolo nel riequilibrio del commercio internazionale, com’è evidenziato dall’impressionante accumulo di avan-zi delle partite correnti e di riserve valutarie, che hanno raggiunto (queste ultime) 600 miliardi di dollari.

In tali condizioni le esportazioni cinesi, che beneficiano di costi salariali stimati mediamente in un ventesi-mo di quelli europei (oltre che di minori costi per la sicurezza sociale e la tutela ambientale), stanno metten-do fuori mercato l’ampia e crescente area dell’industria manifatturiera europea di cui riescono a riprodurre osostituire i prodotti senza significativi scadimenti qualitativi, a prezzi nettamente inferiori.

La crescita cinese comporta peraltro anche una forte domanda per lo sviluppo delle infrastrutture di tra-sporto, per le telecomunicazioni e per la produzione di energia, oltre che per investimenti produttivi e perbeni di consumo di maggior pregio, che l’industria europea potrebbe fornire, tanto più se operasse in modocoordinato presentando progetti integrati.

Costi e opportunità, dunque. Ma esaltati i primi e contenute le seconde dalle menzionate specificità strut-turali e comunque distribuiti in modo estremamente asimmetrico, anche tra i vari paesi europei, a secondadelle rispettive specializzazioni produttive e organizzazioni industriali.

Per le economie più orientate all’alta e media tecnologia, l’opportunità di fornire alla Cina centrali nuclea-ri, sistemi ferroviari, componenti aeronautiche, sostituendo al contempo importazioni italiane del sistemamoda-casa con meno costose importazioni cinesi, può ampiamente compensare la perdita di competitivitànelle lavorazioni tradizionali.

Ma per l’industria manifatturiera italiana, specializzata nei settori tradizionali sia pure nei comparti di mag-gior pregio, vale l’opposto. Per sopravvivere dovrà realizzare un riposizionamento strategico ben più ampio eimpegnativo, dal cui successo dipenderà la possibilità di conservare e possibilmente accrescere il nostro teno-re di vita.

È questa la grande sfida che ci attende e che potremo vincere solo se sapremo realizzare i necessari inter-venti e comportamenti, su cui ci siamo soffermati nello scorso numero della Rivista e torneremo nei prossimi.Accanto a tali azioni, necessariamente di lunga lena, dobbiamo peraltro promuovere nell’Unione una politicapiù incisiva e coordinata nei confronti dell’espansione commerciale cinese e favorire nel nostro paese lo svi-luppo dei servizi in cui abbiamo importanti vantaggi competitivi, quali il turismo e le attività ad esso associate.

‹ editoriale ›

Paolo Gnes

‹ editoriale ›Una partita aperta

sommario N. 2 - FEBBRAIO 2006

Europa e Italia di fronte al risveglio asiatico

Maria WeberCina: uno sviluppo incessante pag. 3ma con forti squilibri sociali

Fabrizio GalimbertiIndia: un modello “variabile” pag. 12che dà forza alla crescita

Patrizio BianchiCon quali azioni rispondere pag. 22ai nuovi assetti economici

Appuntamento...con il dibattito su concorrenza pag. 26e competitività (gli interventi alla presentazionedel primo numero della Rivista)

Libri in vetrina pag. 31

Nel corso del 2005, la Cina ha continuato a imporsiall’attenzione mondiale sia sul piano della politica

monetaria che sul piano dell’ascesa diplomatica. Il tasso dicrescita del PIL si è mantenuto superiore al 9% per tutto il2005. L’interscambio commerciale tra Cina e il resto delmondo è cresciuto ancora: le relazioni commerciali conl’Unione Europea sono aumentate nel corso del 2005,portando la Cina a divenire il secondo partner commer-ciale dell’Unione Europea dopo gli Stati Uniti. Nel 2004 laCina è stata seconda solo agli Stati Uniti per la quantità diinvestimenti diretti esteri ricevuti e ancora molte opportu-nità si presenteranno agli operatori internazionali con ladefinitiva apertura dei servizi finanziari, bancari ed assicu-rativi. Il peso internazionale che Pechino ha acquisito, gra-zie all’ampiezza del mercato inter-no e al suo ruolo d’interlocutoreprivilegiato con i paesi asiatici, larendono ormai inescludibile daqualsiasi importante questionemondiale. L'entrata della Cina nellaWorld Trade Organization (WTO),firmata a Doha nel novembre 2001e divenuta effettiva l’11 dicembre2001, ha segnato un importantepasso avanti sulla via della transizio-ne economica, iniziata alla fine del1978 su iniziativa di Deng Xiaopinge di nuovo rilanciata dal 1992 conla formula del socialismo di liberomercato. Questi ultimi venticinqueanni di riforme hanno permesso alpaese di raggiungere notevoli risul-tati economici e realizzare un tassomedio di crescita annuale del PILdel 9% negli anni Novanta. La cre-

scita economica continua è stata sostenuta da una politi-ca volta a stimolare l’afflusso di capitali esteri e la doman-da interna attraverso agevolazioni fiscali. Negli anniNovanta si è intensificata la politica di investimenti pubbli-ci nel settore delle infrastrutture. Tale politica dagli effettianti-deflazionistici è stata finanziata dall’emissione di obbli-gazioni governative e da un aumento delle entrate fisca-li, che hanno permesso di mantenere piuttosto contenu-to il deficit.

La crescita economica

La crescita economica nel 2004 è andata oltre le previ-sioni: l’obiettivo di crescita era stato fissato in un primo

tempo al 7%, mentre il tasso èstato del 9,5%, riconfermatosianche nel primo semestre del2005, portando il tasso di crescitaprevisto per il 2005 al 9,3%. Lasituazione economica apparequindi piuttosto surriscaldata, iritmi di crescita della produzionesono ancora ampiamente positivi,gli investimenti ingenti ed in alcu-ni settori decisamente eccessivi(ad esempio nel settore edile).Nell’ultimo anno, il raffreddamen-to dell’economia è divenuto ilprimo obiettivo delle politicheeconomiche del governo, assie-me alla promozione di una cresci-ta controllata, costante, stabile epiù equilibrata, attraverso l’attua-zione delle necessarie riforme. Inquest’ottica è perciò fondamenta-

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CINA: UNO SVILUPPO INCESSANTEMA CON FORTI SQUILIBRI SOCIALI

MARIA WEBER

Insegna Relazioni internazionali e Politica com-parata all’Università Bocconi di Milano, dove èvice-direttore dell’ISESAO. Responsabile del pro-getto Focus China all’ISPI di Milano. Autrice divarie pubblicazioni sulla Cina tra cui: Il miraco-lo cinese, il Mulino, 1999 e 2003; Welfare,Environment and Us-China relations, EdwardElgar, 2005; Il dragone e l’aquila. Cina e Usa lavera sfida, Università Bocconi Editore, 2005; LaCina non è per tutti, Edizioni Olivares, 2005.

La Cina continua a crescere, con specifiche caratteristiche, sullo scenario mondiale,

si parli di politica monetaria, di globalizzazione o di ruoli diplomatici. L’Autrice fornisce

i dati essenziali dello scenario, analizza le prospettive e presenta i tre pilastri che si delineano

alla base della Cina di domani: dall’ “arricchirsi è giusto” alla “prosperità condivisa”;

dal “crescere ad ogni costo” allo “sviluppo sostenibile”;

dall’aumento dell’età media alle riforme sociali.

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le contenere la crescita degli investimenti e potenziare iconsumi, per evitare di giungere ad una situazione eco-nomica insana, con un eccesso di capacità produttivainstallata e bolle dovute a eccessi di investimenti. Questefinalità sono state riconfermate nel marzo 2005 in occa-sione della convocazione annuale dell’AssembleaNazionale del Popolo, l’organo legislativo dellaRepubblica Popolare Cinese, e trovano conferma nellalunga e dettagliata lista di obiettivi di politica economicaper il 2005 redatta in tale sede.

Una politica fiscale più restrittiva ha iniziato a contras-segnare la strategia economica del governo.Distaccandosi dalla linea espansiva seguita dal 1998, ilgoverno ha esplicitamente dichiarato di voler passare adun regime fiscale “prudente” mirando ad una riduzionedel deficit fiscale nel 2005, portandolo al 2% del Pil (circa35 miliardi di US $) entro la fine dell’anno.

Sono coerenti con questa linea gli aumenti dei tassi diinteresse bancari e le misure per congelare o limitare leconcessioni di credito in alcuni settori “surriscaldati”,come ad esempio i settori del cemento, dell’acciaio eimmobiliare. L’eccesso di investimenti può infatti portaread una sovraespansione della capacità produttiva adanno della redditività del settore, generando un perico-loso circolo vizioso di insolvenza da parte delle società edi conseguente sofferenza bancaria. Per rallentare la con-cessione del credito si è agito sulle banche, innalzandoper esempio la quota di riserve obbligatorie sui depositi.

La crescita economica non ha però avuto la stessa rapi-dità ed intensità in tutti gli ambiti; esistono dei settori cheoffrono ancora molte opportunità e con forti potenzialitàdi crescita. Per questo motivo stanno aumentando gliinvestimenti dello Stato nel welfare e nelle aree rurali, esono incoraggiati i finanziamenti verso le piccole-medieimprese private.

Tuttavia sono ancora gli investimenti a trainare e tene-re alto il ritmo dello sviluppo economico, nonostante illoro tasso di crescita – pur rimanendo elevato – abbiaregistrato una flessione rispetto agli anni scorsi, soprat-tutto come conseguenza delle limitazioni poste dalgoverno in alcuni settori. Dopo un calo di 1,9 punti per-centuali nel 2004 rispetto al 2003 (il tasso di crescitaannuale del 2004 è stato del 25,8%), nel primo semestredel 2005 gli investimenti sono aumentati del 25,4% subase annua, 3,2 punti percentuali in meno rispetto allostesso periodo dell’anno precedente. L’obiettivo dichiara-to dal Governo è di portarne il tasso di crescita al 16%nel 2006. I settori nei quali sono stati registrati tassi par-ticolarmente alti sono quelli dell’estrazione di carbone(+81,7% su base annua nel primo semestre 2005), estra-zione di petrolio e gas naturale (+36,2%), produzione efornitura di energia elettrica.

La domanda interna sembra aumentare progressiva-mente, ma non ha ancora raggiunto livelli tali da poterdivenire il motore alla base della crescita. Nel primo

semestre del 2005, le vendite al dettaglio hanno mostra-to un leggero incremento su base annua: +12% in ter-mini reali contro il +10,2% del 2004, e la loro crescita èstata più marcata nelle aree urbane (14,2%). Sul frontedella produzione, la domanda di materie prime sta cre-scendo invece a ritmi consistenti, spingendo così i prez-zi degli input industriali al rialzo. Nel PIL cinese sembradunque accrescersi progressivamente il ruolo dei consu-mi e attenuarsi un poco rispetto al passato quello degliinvestimenti, ma l’entità del mutamento è ancora lieve.

La crescita dei prezzi al consumo nel 2005 ha rallenta-to rispetto all’anno precedente. L’indice dei prezzi al con-sumo, utilizzato per misurare il tasso di inflazione, erainfatti aumentato del 3,9% nel 2004, mentre è previstoche alla fine del 2005 si arresti attorno al 2,1%. A calma-re l’inflazione ha contribuito la frenata dei prezzi delgrano, calati del 22,9% rispetto alla prima metà dello2004, ottenuta grazie alle misure del governo peraumentare la produzione; anche il leggero rafforzamen-to dello yuan, dopo la rivalutazione del luglio del 2005,ha contribuito a trattenere la crescita dei prezzi al consu-mo. Le maggiori spinte inflazionistiche dall’aumento delprezzo del petrolio, che ha portato al rialzo i costi dimaterie prime, combustibili, trasporti e di alcune utilities,come la fornitura di corrente elettrica (in media +9,9%su base annua, e il ritmo non accenna a diminuire). Iprezzi della produzione industriale hanno conseguente-mente subito un rilevante aumento, il 5,6% su baseannua. Complessivamente, anche se la crescita econo-mica ha ampiamente ecceduto le stime del governoanche nel corso del 2005, secondo la maggior partedegli osservatori la Cina riuscirà a mantenere l’economiasotto controllo e a ad evitare un atterraggio bruscodovuto all’improvviso arresto di una crescita eccessiva.

Tabella 1 – Previsioni di crescita 2005-2006.

2005 2006

PIL reale (tassi % di crescita) 9,3 8,0

Consumi privati (tasso di crescita %) 8,2 8,5

Inflazione (prezzi al consumo, tasso %) 2,1 2,0

Esportazioni FOB (miliardi US$) 746,1 873,9

Importazioni FOB (miliardi US$) 653,6 796,3

Saldo bilancia partite correnti/PIL % 5,5 3,5

Yuan/US$ (media annua) 8,21 7,90

La politica monetaria

La politica monetaria si è coerentemente allineata agliobiettivi fissati dal governo. La politica monetaria è pre-rogativa della People’s Bank of China (PBC), la Banca

Fonte: EIU (Economist Intelligence Unit)

Centrale Cinese (l’organo che invece assume le funzionidi regolamentazione e controllo del sistema bancario è laChina Banking Regulatroy Commission), che la implemen-ta attraverso l’utilizzo di diversi strumenti monetari, comeil controllo dei tassi di interesse di riferimento o la defini-zione del coefficiente di riserva obbligatoria sui depositi, eche può anche far ricorso a misure di tipo amministrativoper influenzare le concessioni del credito. La politicamonetaria nel primo semestre del 2005 è stata restrittivae continuerà molto probabilmente ad esserlo anche pertutto il resto dell’anno. Nell’ottobre del 2004 la People’sBank of China ha innalzato i tassi di interesse su prestiti edepositi, ma il rallentamento dell’inflazione all’inizio del2005 non ha reso necessarie ulteriori variazioni del costodel denaro. Nel marzo del 2005 è stato deciso l’aumentoanche dei tassi sui mutui ipotecari, provvedimento che siaffianca ad altre misure, anche di natura amministrativa,precedentemente intraprese per cercare di controllare lacrescita del settore immobiliare, drogata dal progressivodiffondersi di comportamenti speculativi.

Il 21 luglio 2005, con una decisione molto attesa dagliosservatori internazionali, ma giunta inaspettata per iltempo e le modalità, la Banca centrale cinese ha annun-ciato di voler riformare il tasso di cambio dello yuan svin-colandolo dal cambio fisso sul dollaro americano e pas-sando a un regime di fluttuazione dei cambi basato sudomanda e offerta del mercato con riferimento a unpaniere di valute, la cui composizione è stata specificatasolo un mese più tardi. Nel paniere di monete usato perfissare il cambio dello yuan è stata immediatamente nota-ta un forte presenza di altre valute asiatiche ad iniziare daquella del Sud Corea.

A fine settembre 2005, la Banca centrale ha nuovamen-te sorpreso il mondo annunciando di usare due ‘bande dioscillazione’ dello yuan: la prima banda, dell1’5%, riguardail rapporto con il dollaro americano, la seconda banda, del3%, riguarda l’Euro. La ‘fissazione’ cinese di quel rapportodi cambio ha anche un altro significato: in passato, l’emer-gere del ruolo dello yen giapponese fu affrontato con ilfamoso accordo al Plaza Hotel. L’accordo ovviamente fuguidato dagli Stati Uniti, allora potenza leader incontrasta-ta del ”mondo libero”.

Oggi la Cina tende a farsi in casa il pro-prio “Plaza”, a condizionare cioè, secon-do i propri interessi nazionali, i rapporti dicambio internazionali, lasciandosi anchenotevoli margini di libertà nella futura fis-sazione delle bande di oscillazione. Pechino da sempre usala politica monetaria non solo come strumento di governodell’economia, ma anche come strategia di potenza interna-zionale. Il ruolo, crescente, della Cina nel panorama asiaticoe mondiale è sempre più correlato con la politica del cam-bio dello yuan: lo yuan è diventato, proprio grazie allemanovre di cambio di Pechino, la moneta di “riferimento”della nuova area economica asiatica in fase nascente.

Le linee guida dell’11° piano quinquennale(2006-2010)

Dall’8 all’11 ottobre 2005 si è tenuta a Pechino la quin-ta sessione plenaria del 16° Comitato Centrale del PartitoComunista Cinese con l’obiettivo di delineare le lineeguida su cui basare la formulazione del prossimo 11°Piano Quinquennale (2006-2010). I partecipanti ai lavo-ri, diretti dal Politburo, sono stati i 354 membri delComitato Centrale. Hu Jintao, in veste di segretariogenerale del Partito, ha presieduto l’incontro; il premierWen Jiabao ha spiegato le proposte per il piano quin-quennale 2006-2011, che a detta di molti analisti por-terà cambiamenti rivoluzionari nella strategia di crescitacinese. La sessione plenaria è terminata martedì 11 otto-bre.

Le linee guida concordate, che andranno poi discussenei loro contenuti specifici all’Assemblea nazionale delpopolo del marzo 2006, si riassumono nel “concetto disviluppo scientifico”. Il concetto di sviluppo scientificosignifica sostanzialmente l’adesione ad uno schema disviluppo economico sistematico, sostenibile e che rivolgapiù attenzione alle aree depresse e alle zone interne.L’idea fu introdotta due anni fa dal premier Hu Jintao eracchiude in sé lo spirito delle politiche da lui promossenel tentativo di ridurre le crescenti disparità interne, ildeterioramento ambientale e il sovrasfruttamento dellerisorse naturali. Il concetto riflette una strategia politicache mette al centro gli interessi ed i bisogni della gente,mirando ad uno sviluppo coordinato e soprattutto soste-nibile, e si presenta come “teoria-guida per la realizzazio-ne di una società armoniosa (“China Daily”, 11 ottobre2005). Questa “società armoniosa” deve essere caratte-rizzata da una maggiore democrazia socialista (con piùtrasparenza nei processi decisionali, riconoscimenti chia-ri delle responsabilità dei ruoli, incentivi ai leader arispondere alle richieste della gente), un maggior ruoloper la legalità e la difesa della giustizia e della stabilitàsociale.

I prossimi cinque anni saranno cruciali per la moderniz-zazione della Cina dal momento che il gruppo dirigente

del partito comunista sembra sì inten-zionato a proseguire ed incentivareuna crescita economica a ritmi soste-nuti (rimane fisso l’obiettivo di rad-doppiare l’output tra il 2000 e il2010), ma sta cercando di virare da

una linea di sviluppo estensivo ad una di sviluppo scien-tifico. Il Comitato centrale del partito è consapevole deimolti problemi portati dal modello di sviluppo adottatoper 27 anni, dall’avvio delle riforme nel 1978 ad operadi Deng Xiaoping, e nella leadership si è col tempoaccresciuta l’attenzione ai problemi sociali nel paese. Lasensibilità del gruppo dirigente è accresciuta dall’aumento del numero delle proteste popolari negli anni

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“I prossimi cinque anni sarannocruciali per la modernizzazionedella Cina. Il pericolo di scontrisociali”

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passati, le cui ragioni di fondo vanno dall’inquinamentodell’aria e dei terreni degli agricoltori alle disfunzioni delsistema sanitario. Alcuni economisti hanno di fatto osser-vato che la Cina sta attraversando uno stadio economi-co nel quale è facile che una consistente parte dellapopolazione sia lasciata indietro, aumentando il pericolodi sommosse ed agitazioni. L’economia cinese si è finorabasata molto sulla manifattura labour-intensive e a bassovalore aggiunto, diretta soprattutto all’esportazioneverso paesi più avanzati, utilizzando in maniera intensivale sue risorse naturali e la sua abbondante forza lavoro.Un surriscaldamento degli investimenti ha esposto ilpaese ai danni del modello di sviluppo “classico”, il cheora ha reso più urgente il passaggio ad uno svilupposcientifico.

Il comunicato ufficiale riferisce testualmente: “promuovere lo sviluppo economico e migliorare la

qualità della vita delle persone sono sempre stati l’obiet-tivo primario della Cina...(l’obiettivo deve essere raggiun-to) ottimizzando la struttura, migliorando l’efficienza eriducendo il consumo energetico”. Eancora: “abbiamo bisogno di porreuna maggior enfasi sull’equità sociale,di incrementare gli sforzi nel livellarela distribuzione del reddito e cercaredi contenere la tendenza alla crescitadella divergenza dei livelli di redditotra le regioni e le parti sociali”.

Si sottolinea anche la necessità di rafforzare la protezio-ne ambientale e di predisporre uno schema di riferimen-to per i consumi energetici, per aumentarne l’efficienza,due riforme strettamente correlate con la capacità dimantenere alti ritmi di crescita in futuro; emerge anchel’urgenza di migliorare il sistema di sicurezza sociale equello sanitario e di accrescere il livello di reddito dellefasce più povere della popolazione.

I tre pilastri dello sviluppo scientifico che guideranno laformulazione dell’11° piano quinquennale sono espressiin tre formule.

1. Dall’“arricchirsi è giusto” alla “prosperità condivisa”

La teoria dell’”arricchirsi è giusto”, proposta da DengXiaoping alla fine degli anni Settanta, lascia il posto alperseguimento della “comune prosperità”, nel tentativodi ridimensionare il divario tra ricchi e poveri e di evitareuna rischiosa polarizzazione sociale. Il bilanciamento del-l’economia di mercato e la ricerca dell’egualitarismo tor-nano quindi alla base della direzione della crescita. Larapida crescita cinese ha fatto uscire dalla povertà e dallacostrizione alimentare buona parte della popolazione,ma ha portato con sé una nuova serie di problemi che sisono ingranditi nel tempo. Le famiglie con il reddito piùbasso (il 10% delle famiglie con il reddito più basso sulle

famiglie totali) possiedono meno del 2% delle proprietàtotali detenute dai residenti in Cina, mentre le famigliecon il reddito più alto (il 10% che hanno il reddito piùelevato) ne possiedono il 40% (statistiche governative,dati riportati da Xinhua Agency). Il numero delle perso-ne che vivono in povertà, con un reddito pro capiteannuo inferiore a 668 yuan (circa 81 $), nel 2004 era di26 milioni. La strategia di crescita fin qui seguita haposto poi particolare attenzione alle zone costiere, crean-do una preoccupante differenza di reddito e di tenore divita tra le varie zone del paese, soprattutto tra zone urba-ne e zone rurali. Finché anche il reddito delle zone agri-cole non salirà, sarà molto difficile per la Cina mantene-re il tasso di crescita del 9% circa anche in futuro.

Fin dagli anni precedenti l’apertura al mercato dell’e-conomia cinese, le politiche del governo hanno dedica-to molta attenzione allo sviluppo delle città, trascurandoil più delle volte le esigenze delle zone rurali. Le tecnicheagricole impiegate in Cina sono ancora molto arretrate.Le campagne soffrono inoltre di un eccesso di popola-

zione. Inoltre, vanno crescendo ledisuguaglianze imputabili ai differentitassi di sviluppo delle diverse regionidel paese. In particolare, il redditodelle regioni costiere orientali stadistaccandosi sempre più da quellodelle regioni centrali e soprattutto di

quelle occidentali. Le differenti province cinesi hannoinfatti beneficiato in modo diverso della crescita econo-mica e alle zone costiere maggiormente sviluppate e conun PIL più elevato si contrappongono quelle interne epiù occidentali ancora caratterizzate da una scarsa vita-lità e da uno sviluppo limitato. In quest’ultime, soprattut-to, lo sviluppo delle zone più avanzate del paese apparelontano dall’essere conseguito. Il governo centrale si èperò reso conto del problema e sta implementando unaserie di politiche (molte delle quali vanno sotto il nomedi Go West Policy) volte a mantenere l’Ovest del paese alpasso, per quanto possibile, con lo sviluppo del resto delpaese. La crescente diseguaglianza tra le diverse aree delpaese e tra la popolazione urbana e quella rurale rappre-senta secondo molti una sfida alla sostenibilità dello sviluppo.

I REDDITI RURALI E QUELLI URBANI

Nel marzo 2004, in occasione della sessione annualedell’Assemblea nazionale, il premier Wen Jiabao ha sot-tolineato il problema del crescente divario tra i redditirurali e quelli urbani. Il premier Wen Jiabao ha promessodi tagliare un punto percentuale ogni anno alle tasse peri contadini, fino alla loro completa eliminazione nel2009, di accrescere gli investimenti nell’economia ruraledi oltre il 20% (vale a dire di 3,6 miliardi di dollari) e didare sussidi diretti agli agricoltori per un ammontare di1,2 miliardi di dollari. Il premier Wen ha indicato l’obiet-

“Le politiche del governohanno dedicato molta atten-zione allo sviluppo delle città,trascurando il più delle volte leesigenze delle zone rurali”.

tivo di crescita del PIL che il governo si pone per il prossi-mo biennio di circa il 7%, sensibilmente inferiore al 9,1%conseguito nel 2003. Il governo vuole evitare che l’eco-nomia si surriscaldi eccessivamente. Gli investimenti nellearee rurali possono contribuire a distogliere alcune risorsedalle zone del paese che corrono di più. Molti osservato-ri, compreso il governo centrale, stimano infatti che unacrescita annuale del 7% sia indispensabile per mantenereil problema della disoccupazione sotto controllo creandoun numero adeguato di nuovi posti di lavoro.

Tra le questioni ancora aperte vi è il completamentodella riforma delle aziende di stato (SOEs). Fin dal 1995il governo cinese ha cercato una soluzione per le impre-se statali. La definizione di una strategia per le SOEs erachiara nelle sue linee fondamentali: ristrutturare la tota-lità del settore, tralasciare le piccole aziende per concen-trare l’attenzione su quelle medio-grandi, fare di circa1000 tra quelle di grandi dimensioni delle vere e proprieconglomerate, vendere, chiudere od operare fusioni edacquisizioni per quello che riguarda la maggior partedelle piccole e medie imprese. Il progetto di riforma par-tiva dalla considerazione che soltanto 500 SOEs avevanoun peso rilevante sulle entrate dello Stato e di esse solo50 erano in forte perdita. Il loro risanamento dovevaessere inizialmente completato entro il 1998. Tutte lealtre SOEs dovevano essere semi-privatizzate, tramite unazionariato collettivo dei dipendenti, o dichiarate in ban-carotta. Per le aziende statali di piccole dimensioni eraprevista l’acquisizione da parte di aziende più grandi, ola cessione a privati.

Prima delle riforme, il settore industriale era dominatodalle SOEs. Queste erano assai inefficienti, ma garantiva-no un’occupazione sicura ai loro dipendenti e fornivanoloro una rete di servizi sociali molto estesa. Oggi le SOEshanno un ruolo molto minore nell’economia cinese.Molte chiudono, alcune sono state privatizzate, altre losaranno. Tutte devono adeguarsi alle esigenze della con-correnza e dell’economia di mercato. Questo ha deter-minato il licenziamento di molti lavoratori: la disoccupa-zione ufficialmente si aggira intorno al 4,5%, ma questodato è poco affidabile, anche perché la definizione di“disoccupazione” adottata dalle autorità è assai restritti-va. Secondo “The Economist” (21 agosto 2004) sonoalmeno 15 milioni disoccupati nelle grandi città e 150milioni i disoccupati o sottoccupati nelle campagne.

In Cina, esistono oggi diverse categorie di personesenza lavoro, trattate tra loro in modo differente (a diffe-renti categorie continuano ad essere erogate differentiprestazioni, solo alcune godono d’assistenza sociale).Questo contribuisce ad evitare che si formi un grupposociale coeso, che condivida le stesse rivendicazioni epossa risultare socialmente destabilizzante. Vi sono diver-si modi per indicare le categorie di disoccupati. Ad esem-pio, il termine disoccupati urbani (shiye), che usa l'ufficiostatistico di Pechino, non include i cosidetti "laid-off

workers" (xiagang), cioè i lavoratori dismessi dalle SOEsma che mantengono alcuni benefici dall'azienda d'ap-partenenza. Sono una categoria relativamente privilegia-ta, che riceve un sussidio base e l'assistenza sanitaria. Ilavoratori dismessi (xiagang) con questi benefici devonorispondere a tre requisiti: a) aver lavorato in aziendaprima del 1986, anno di istituzione del sistema a contrat-to, b) non avere altri lavori, c) restare a disposizione del-l'azienda. Se si aggiunge il numero di laid-off workers aquello dei disoccupati veri e propri, la disoccupazione saleall'8,4%. Vi sono inoltre alcune SOEs che non sono statedichiarate ufficialmente in bancarotta, per il ruolo strategi-co che rivestono nell'economia cinese, ma sono comun-que inattive: i loro lavoratori non rientrano in nessunacategoria di disoccupati. Infine, dobbiamo ricordare cheogni anno entrano nel mercato del lavoro da 10 a 13milioni di giovani. Nel prossimo futuro, si prevede un cre-scente impatto della disoccupazione sulla stabilità socialedel paese, se il mercato del lavoro non riuscirà a riassorbi-re almeno metà dei lavoratori dismessi dalle SOEs.

2. Dal “crescere ad ogni costo” allo “sviluppo sostenibile”

L’undicesimo piano quinquennale conterrà il riconosci-mento che crescita economica non equivale a sviluppoeconomico. La leadership cinese si rende conto chesenza modificare il concetto di crescita l’economia rischiadi svilupparsi in maniera squilibrata e cerca quindi di diri-gersi verso un nuovo modello di sviluppo, dipendentepiù dal livello di progresso tecnologico e dall’innovazio-ne piuttosto che dalle risorse naturali e dalla forza lavo-ro per la crescita. La ricerca miope della crescita econo-mica a tutti i costi ha portato ad investimenti forsennatie a conseguenti gravi danni ambientali. L’eccesso diinvestimenti in acciaio e produzione energetica ha con-dotto ad un utilizzo spesso inefficiente delle risorse,facendone aumentare velocemente i prezzi e portandoad un rapido degrado ambientale di fiumi, laghi e città.La crescita cinese dal 1979 al 2004 è stata del 9,4%annuo, portando il suo GDP all’attuale 4% del GDP mon-diale, mentre il suo consumo di acqua corrisponde al15% del consumo mondiale, quello dell’acciaio al 28% equello del cemento al 50% del consumo totale mondia-le. Istituzioni internazionali sui consumi e la produzioneenergetica hanno stimato che tra il 2002 e il 2030 circail 21% dell’incremento mondiale di domanda energeticaproverrà dalla sola Cina; pertanto l’efficienza nell’utilizzodelle risorse deve aumentare e il tasso di utilizzo di ener-gia totale (consumo di energia in relazione al GDP) deveessere ridotto del 20% rispetto al 2005.

Ulteriore sfida alla sostenibilità dello sviluppo cinese èl’aumento dei vincoli derivanti dai problemi ambientali edalla crescente domanda energetica che sta aumentan-do la dipendenza dalle importazioni soprattutto di greg-

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gio, in particolare per la scarsità di risorse energetiche ela necessità di ridurre l'inquinamento atmosferico.L’utilizzo massiccio di combustibili fossili, quali il carbone,ha aumentato velocemente le emissioni di biossido dicarbonio (CO2) che sono cresciute più del doppio rispet-to alla media mondiale. La Cina ed il Giappone sonorispettivamente il primo e il secondo emettitore di CO2

nella regione asiatica. Inoltre, la maggior parte dellegrandi città cinesi superano, di almeno tre volte, il limitemassimo fissato dall’Organizzazione Mondiale per laSanità (OMS) per quanto riguarda la concentrazione dipolveri sottili e di biossido di zolfo (SO2). In Cina, cenerie polveri sottili derivanti dalla combustione del carbonesono responsabili di 50.000 morti premature e 400.000nuovi casi di bronchiti croniche all’anno in solo 11 dellecittà principali.

L’INQUINAMENTO DELLE ACQUE

Il problema forse più urgente è quello dell’inquina-mento delle acque. La Cina dispone di risorse idrichescarse, in rapporto alla popolazione, e concentrate nelsud del paese. Non può permettersi di rendere inutilizza-bile a causa dell’inquinamento il poco che ha: già sono600 milioni i cinesi che dispongono di risorse idrichetroppo inquinate. Altro gravissimo problema è l’inquina-mento dell’aria. Si stima che ogni anno muoiano prema-turamente 300.000 persone per malattie all’apparatorespiratorio dovute alla pessima qualità dell’aria cherespirano. Causa principale di tale situazione è l’impiegodel carbone quale principale fonte per la produzione dienergia (le centrali a carbone forniscono il 70% dell’e-nergia; in America è il 50%) e per ilriscaldamento delle abitazioni private.Un quarto del paese subisce pioggeacide.

Ma ci sono segnali incoraggianti: ilgoverno si è reso conto del problemae comincia ad agire, le spese destina-te alla protezione ambientale sono insensibile aumento, il trend di crescen-te deforestazione è stato invertito, si iniziano a emettereprovvedimenti giudiziari contro chi viola le norme sullatutela dell’ambiente. Le emissioni di alcune sostanzeinquinanti già stanno riducendosi. Un’agenzia naziona-le, la State Environmental Protection Administration(SEPA), è incaricata della tutela dell’ambiente. La SEPAsoffre tuttavia di fondi e organici limitati. I suoi uffici sulterritorio sono spesso ancora poco efficaci, a causa del-l’intralcio opposto dalle amministrazioni locali e dellascarsa indipendenza effettiva da queste ultime degli uffi-ci teoricamente dipendenti dalla SEPA.

Per sostenere la crescita economica, la Cina necessitadi quantitativi sempre maggiori di materie prime, che inmolti casi non possono essere reperiti in territorio cinese.

Ciò provoca forti tensioni sui mercati mondiali di talimaterie prime, causandone notevoli innalzamenti delprezzo. In parte, una dinamica del genere concorreanche a spiegare il recente aumento del prezzo delpetrolio sul mercato mondiale. Pechino deve anche con-tinuare a sostenere l’espansione economica verso l’este-ro e la crescita del commercio, creando delle impresedavvero internazionalmente competitive.

3. Dall’aumento dell’età media alle riforme sociali

La Cina si sta arricchendo, ma sta anche invecchiando.Secondo le Nazioni Unite, nel 2040 ci saranno due abi-tanti in età lavorativa per ogni cittadino più vecchio di60 anni. Nel 2000, il rapporto era di 6,4 a 1. Per di più,la fine del ruolo delle imprese statali (SOEs) e delle altreaziende pubbliche quali fornitrici dei servizi sociali richie-de la creazione di un sistema pensionistico alternativo,per ora di fatto assente (Weber, 2004). Per quantoriguarda il sistema pensionistico, occorre ricordare che lepensioni statali coprivano solo i dipendenti statali e com-prendevano una quota mensile, un sussidio per l'acqui-sto del grano, un sussidio per le spese di altre derrate ali-mentari ed un sussidio per le spese funerarie. I progettidi riforma, ancora in discussione, pongono l'enfasi sullacreazione di un sistema pensionistico adatto ad una eco-nomia di mercato e sul fatto che la responsabilità per laraccolta dei fondi pensione debba essere suddivisa trastato, imprese e singoli individui. Con questo obiettivo ilgoverno ha incentivato la popolazione ad aderire ai pac-chetti offerti da numerose assicurazioni private, di cui

alcune straniere, che propongono siaassicurazioni sulla vita che sanitarie efondi pensione integrativi. È ora indiscussione un progetto di riformache crei un sistema adatto a una eco-nomia di mercato e che suddivida ilreperimento delle risorse tra lavorato-ri, imprese e Stato. Sono ora presentisul mercato le prime assicurazioni

(anche straniere) in grado di fornire una pensione inte-grativa e sono stati introdotti incentivi affinché i lavoratorile sottoscrivano, ma ancora la loro diffusione è limitata.

In secondo luogo, la ristrutturazione di un sistemasanitario nazionale che non solo non è in grado di sod-disfare le esigenze di una popolazione che invecchia, mache, per il momento, non raggiunge quella parte dellapopolazione che vive nelle zone rurali. Molti sono i pro-blemi che affliggono la sanità in Cina. Innanzitutto unaccesso iniquo agli schemi di previdenza sociale chevedono le fasce più povere della popolazione residentinelle zone agricole praticamente sprovviste di qualsiasitipo di assistenza. La sanità cinese ha subito un’evoluzio-ne parallela al resto del sistema economico: nel periodo

“Il problema forse più urgenteè quello dell’inquinamentodelle acque. La Cina disponedi risorse idriche scarse, in rap-porto alla popolazione”.

maoista (1949-76) vigeva il collettivismo, nel periododengista (1979-97) si sono messe in atto le prime rifor-me, nel periodo post-dengista (1997-2003) si è procedu-to ad una drastica privatizzazione. Durante il maoismo,il governo decise di concentrare le politiche sanitarieverso le zone rurali. Il sistema si basava sull’agricolturacollettiva, era gratuito e veniva finanziato da “communalwelfare funds”.

IL SISTEMA SANITARIO

Nel corso degli anni Ottanta, a seguito dell'inizio delleriforme economiche, le risorse della sanità cinese sonostate indirizzate verso la costruzione di ospedali in zoneurbane e i residenti nelle zone rurali hanno cercato curenegli ospedali in città. È aumentata in questo periodo ladiseguaglianza dei servizi tra zone ricche e povere e laprevenzione è stata trascurata. La maggior parte dei resi-denti rurali non riceveva alcunaforma di assistenza medica dopo ilcollasso del sistema agricolo colletti-vo; inoltre nelle zone urbane l’assicu-razione sanitaria non copriva i disoc-cupati, i lavoratori emigrati dalle cam-pagne (ca 20 per cento della popola-zione di Pechino, e di più a Shenzhen). Durante il perio-do dengista, il governo oscillava tra la volontà di torna-re a forme di assistenza collettiva e la ricerca di nuovericette assistenziali, dovute alla scarsità di fondi. Gli ospe-dali furono largamente costretti ad autofinanziarsi, cen-trando su servizi redditizi. Nel 1997, il governo decisedrastiche riforme: introdurre forme di assicurazionemedica per i dipendenti di tutti settori. Nel 2000, in vistadell'entrata della Cina nella WTO, la nuova legislazionepermette anche la creazione di joint-venture sino-estere(equity, co-operative ma non contractual) nelle istituzionimediche.

Il sistema sanitario è una delle principali vittime dei cre-scenti deficit di bilancio: le tasse riscosse dal governo cor-rispondono solo al 18% del Pil. In vent’anni, la quotadella spesa sanitaria coperta dal governo centrale s’èall’incirca dimezzata: oggi, il governo centrale copremeno del 40% delle spese complessive per la salute. Glistessi ospedali pubblici ricevono dallo Stato appena il10% dei loro fondi. Ospedali e cliniche chiedono quindiai privati pagamenti sempre maggiori, e molti cittadininon possono affatto permetterseli, o devono pesante-mente indebitarsi (la diffusione delle assicurazioni sanita-rie è ancora minima, specialmente all’infuori delle città:nelle campagne, il 90% della popolazione non ha alcu-na copertura sanitaria; nelle città, il 60%). Le incertezzesulle spese sanitarie sono, insieme ai costi per l’educazio-ne, uno dei motivi dell’alto tasso di risparmio cinese(superiore in media al 40% del reddito).

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stila-

to una classifica dei sistemi sanitari di 191 paesi: quellocinese è stato classificato centoquarantaquattresimo, die-tro ai sistemi sanitari di molti paesi africani. Notevolissimaè la disparità geografica: mentre gli indicatori delle zoneorientali più avanzate e prospere, come Shanghai, sonoin linea con gli standard occidentali, le zone più povere,cioè quelle occidentali, si trovano in una situazione incontinuo deterioramento. Secondo alcuni osservatori, èpossibile che, nell’Ovest, l’aspettativa di vita stia calandoperchè i vaccini sono ora a carico dei genitori, e alcunibambini non li ricevono più. Stanno anche pericolosa-mente ritornando tubercolosi e morbillo. La diffusionedell’AIDS è motivo di profonda preoccupazione. La Cinaritiene che al momento ci siano un milione di cittadiniportatori del virus. Secondo l’OMS, questo numeropotrebbe decuplicare entro la fine del decennio.

Un secondo problema è costituito invece dall'aumentocostante delle spese sanitarie che sono cresciute, in ter-

mini reali, ad una media dell’11% apartire dal 1986. Per ridurre le spesesanitaria, il governo cinese ha avviato,a partire dal 1996, una graduale priva-tizzazione della sanità sia ospedalierache ambulatoriale, introducendo siste-mi di assicurazione privata. Misure

necessarie a ridurre le spese ma che hanno disincentiva-to il ricorso alle strutture sanitarie da parte della popola-zione più povera. Con il frantumarsi infatti dei coopera-tive medical systems messi in piedi dall'economia piani-ficata e con l'aumento dei costi per le spese mediche,sono sempre di più i cinesi che non possono permetter-si le necessarie cure mediche.

Il comunicato, approvato l’11 ottobre 2005, riconoscel’esistenza del rischio di conflitti interni dovuti alla situa-zione sociale. Il nuovo Piano Quinquennale sosterràmolto i servizi sociali per appianare gli squilibri causatidallo sviluppo economico. La leadership cinese si èdimostrata ormai consapevole dell’urgenza di risolvere ladicotomia tra una forte crescita economica e un deboleprogresso sociale. Il problema è particolarmente serionelle aree rurali, dove i sistemi sanitari e di welfare sonomolto deboli. Anche la qualità delle abitazioni, dell’edu-cazione, della salute pubblica e dell’ambiente dovràessere aumentata considerevolmente. Si prevede chetutti bambini nelle aree rurali saranno in grado di riceve-re 9 anni di istruzione primaria gratuita entro i prossimianni, alleggerendo notevolmente il bilancio familiare.“Nei prossimi cinque anni la Cina enfatizzerà la ricercascientifica e tecnologica, le politiche per la salute e l’edu-cazione”, riferisce alla Xinhua Agency il 12 ottobre 2005Ding Yuanzhu, ricercatore economico per la NationalDevelopment and Reform Commission. Nelle aree urba-ne il problema sociale maggiore è ancora rappresentatodalla disoccupazione; il dato del 4,2% come tasso di disoc-cupazione urbana nel 2004 sottostima fortemente la gra-

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“Il sistema sanitario è arretra-to, superato da quelli dimolti paesi africani. Lo svilup-po della ricerca scientifica etecnologica”.

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vità della situazione reale. Cao Xin, professore alDipartimento Economico della Central Party School, hadichiarato al “China Daily”: “la crescita economica del futu-ro sarà di alta qualità, sostenibile e graverà meno sull’am-biente. La Cina sta rivedendo il suo modello di sviluppo”.

PECHINO INIZIA A PARLARE DI DEMOCRAZIA…

Mercoledì 19 ottobre 2005 il governo di Pechino hapubblicato il primo libro bianco sulla democrazia, daltitolo “La costruzione della democrazia politica” (The buil-ding of political democracy). Il primo libro bianco presen-ta un dettagliato resoconto dell’avvio, dello sviluppo edelle caratteristiche della “democrazia politica socialista”,ma mette anche a fuoco i problemi ancora da superaree i passi principali che le prossime riforme dovrannointraprendere. Il libro bianco afferma che nei trascorsivent’anni la Cina ha molto migliorato il suo sistema poli-tico e l’amministrazione, e rafforzato la protezione deigruppi sociali più svantaggiati.

Il libro è piuttosto lungo: si compone di dieci capitoli,una prefazione e una conclusione. I capitoli toccano idiversi aspetti del tema della democrazia: il ruolo delPartito nel rendere realmente il popolo padrone delloStato, l’analisi del sistema di governo, il sistema multi-par-tito, le autonomie regionali etniche, la democrazia rap-presentativa delle elezioni a livello di villaggio, la difesa ela tutela dei diritti umani, il ruolo delle leggi.

Nel primo capitolo del libro, dal significativo titolo“Una scelta adatta alle caratteristiche cinesi” si ripete conenfasi che la democrazia cinese è una democrazia delpopolo sotto la guida del Partito Comunista Cinese, incui la maggior parte del popolo è padrone dello Stato, èuna democrazia garantita dalla dittatura democratica delpopolo ed è una democrazia in cui il centralismo demo-cratico è il principio alla base dell’organizzazione e delmodo di operare. Il resto del testo è una dettagliata ras-segna dei risultati conseguiti in diversi ambiti nel proces-

so di edificazione di un sistema politico democraticosocialista: il sistema di governo, il sistema di cooperazio-ne multi-partitica sotto la guida del PCC, il sistema delleautonomie regionali per le minoranze etniche hannoavuto dei continui miglioramenti. La garanzia dei dirittidemocratici popolari è aumentata molto ed il capitolosesto (“Democrazia popolare nelle aree urbane e rurali”)fa esplicito riferimento alle forme di democrazia direttarappresentate dalle elezioni popolari a livello di villaggio.Il capitolo settimo (“Rispetto e salvaguardia dei dirittiumani”) è interamente dedicato al tema dei diritti umani:“(…) Il popolo può godere di ampi diritti e libertà nei limi-ti della legge e questo è un presupposto intrinseco perlo sviluppo della democrazia socialista.”

Nel marzo 2004 è stato approvato un emendamentoalla Costituzione che recita: “Lo stato rispetta e salvaguar-dia i diritti umani”, segnando così un passo avanti nelprogresso in materia da parte della Cina.

Un altro aspetto che emerge è l’attenzione all’accresciu-to ruolo delle leggi e della legalità: “i principali aspetti dellapolitica, dell’economia, della cultura e della società cinesesono ora regolati dalla legge”. Viene riconosciuta anchel’esistenza di corruzione a livello locale e la necessità divalorizzare il concetto di democrazia e di legalità, comeanche “deve essere aumentata la partecipazione politicadei cittadini in maniera sistematica e regolare.” La grandequestione del XXI secolo è quella della democrazia, omeglio della democratizzazione, dell’Impero di Mezzo.Dalla ‘soluzione’ che Pechino troverà dipende anche l’as-setto del futuro mondo globalizzato. Si tratta, cioè, della‘questione delle questioni’. Basta leggere i giornali unmomento: i fatti di questi giorni, da Harbin alle miniere dicarbone dove continuano a morire come mosche gli ope-rai cinesi, riprongono con estrema forza la questione dellatrasparenza e quindi della democrazia e dello stato di dirit-to nell’Impero di Mezzo. Tutte le strategie che aprono leporte del mondo alla Cina e che consentono l’aperturacinese sono contributi positivi alla sua integrazione.

Nel 2005 la consistenza complessiva delle riserve interna-zionali detenute dalle autorità monetarie di tutto il piane-ta ha toccato il livello più alto mai raggiunto nei 60 annitrascorsi dalla fine del secondo conflitto mondiale: esclu-dendo l’oro, lo stock totale alla fine del 2004 si avvicinavaa 3.900 miliardi di dollari e nella prima metà del 2005 èulteriormente aumentato. La corsa all’accumulazione diriserve è trainata soprattutto dalle economie emergenti trale quali spicca la Cina, le cui riserve non aurifere potrebbe-ro raggiungere i mille miliardi di dollari nel 2006. Di fatto

sette dei primi otto paesi in via di sviluppo per ammontaredi riserve sono asiatici. La parte del leone spetta alla Cina,che dopo il Giappone è dal 1996 il secondo paese almondo per riserve, distaccandosi anche nettamente dai paesiche la seguono (possiede più del doppio delle riserve del terzopaese, che è Taiwan).

La Cina è passata negli ultimi anni da uno stato di adegua-tezza delle riserve internazionali ad uno stato di relativaeccedenza di scorte valutarie. In particolare, dal 2001 l’am-

LE MOLTE RISERVE DEL DRAGONE: VIZIO O VIRTÙ?A cura di Giovanni Ajassa e Paola Verduci - Ufficio Studi BNL

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ASIA EMERGENTE: RISERVE INTERNAZIONALI AL NETTO DELL’ORO (1990-2004 in mln USS)700,000

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Cina

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montare delle riserve è letteralmente decollato, con unincremento superiore a 4 volte quello realizzato l’anno pre-cedente. Nei tre anni successivi al 2001 la Cina ha accanto-nato ogni anno riserve una volta e mezzo superiori a quelleaccantonate l’anno precedente. Nel 2004 l’aumento è statopari a 206 miliardi di dollari USA, superando complessivamen-te i 600 miliardi in valore, equivalente ad un terzo del PIL com-plessivo.Le riserve di valuta estera detenute dalla Cina hanno conti-nuato ad aumentare anche nel corso del 2005, raggiun-gendo a settembre 2005 i 769 miliardi di dollari USA rispet-to ai 614 miliardi del 2004.

La quota delle riserve cinesi ha raggiunto il 38% delle riser-ve totali dei paesi asiatici, il 25% dei paesi in via di sviluppoe il 16% delle riserve mondiali. L’ammontare attuale è quin-di oggi più che sufficiente per garantire un’adeguata pro-tezione e assicurazione da eventuali crisi. Accumulare risor-se inattive serve da precauzione per fronteggiare improvvi-se avversità, ma allo stesso tempo imbriglia energie chepotrebbero essere più efficacemente dedicate a promuove-re lo sviluppo, dato il costo-opportunità derivante dallarinuncia ai ritorni verosimilmente assai più elevati conse-guenti ad un utilizzo maggiormente produttivo dellemedesime risorse.

Riserve internazionali al netto dell’oro e relative quote, 2004, (in mln USS, primi 10 paesi al mondo)

2004 Riserve Quota (%)

Giappone 833.891 21,6Cina 614.500 15,9Taiwan 241.739 6,3Corea 198.997 5,1India 126.593 3,3Hong Kong 123.540 3,2Russia 120.809 3,1Singapore 112.232 2,9Stati Uniti 75.890 2,0Malaysia 66.384 1,7Mondo 3.865.742 100

Fonte: FMI

Il tasso di crescita indù": così venne chiamato dall'eco-nomista Raj Krishna il modesto tasso di crescita dell'e-

conomia indiana nel trentennio che seguì l'indipendenzaproclamata nel 1947. Quella rassegnazione quasi misticaa una performance insufficiente (un tasso annuodell'1,7% nel 1950-1980 per il reddito pro-capite) ha for-tunatamente lasciato il passo a un'accelerazione, dal3,8% del 1980-2000 al 5-6% di questi anni.

Complessi fattori culturali e riforme intelligenti hannogettato un paese di 1,1 miliardi di abitanti nell'area dell'e-conomia di mercato. Mentre l'India sta diventando il sim-bolo della globalizzazione dei servizi, dal software alturismo medico e dentario, le previsioni di crescitahanno semmai un rischio verso l'alto. Il sub-continenteindiano promette di essere un punto caldo della cresci-ta mondiale per gli anni a venire e costringerà i paesi divecchia industrializzazione a diffi-cili adattamenti.

La crescita dell’economia india-na, nel bene e nel male, viene dalontano. Ma prima vediamo alcunidati di base del sub-continenteindiano. Con l’indipendenza del1947 questo fu diviso lungo lineereligiose e non etniche, con ilPakistan musulmano a ovest e a est(la parte orientale del Pakistanottenne a sua volta l’indipendenzanel 1971, acquistando il nome diBangladesh) e l’India al nord e alcentro. L’India propria, con unsesto della popolazione mondiale eun’estensione che ne fa il settimopaese più grande del mondo, èuno dei paesi maggiormente diver-sificati dal punto di vista etnico.

Qualcuno ha detto: il problema del mondo è che ci sonocirca 200 paesi ma più di 5mila etnie. E l’India è un esem-pio preclaro di questi “problemi”. Non si tratta di un paesefacile da governare. Un economista indiano, MeghnadDesai (ora Lord Desai) ha detto: “Per rimanere pacifica estabile, l’India deve essere un rumoroso pasticcio”. Non cisono alternative alla ricerca di un continuo e difficile con-senso, a governi di coalizione che devono comporre ledomande di una società composita, divisa in 25 stati (larepubblica indiana è una federazione) a diversi gradi disviluppo e con una vasta autonomia in molti campi digoverno.

L’India ha una storia millenaria – nel 2500-2000 a.C. eraprobabilmente la civiltà più avanzata del pianeta – ma èsolo nella seconda metà dell’Ottocento che acquistò una“statualità” amministrativa, come parte dell’impero ingle-

se, amministrata da un viceré assi-stito da un consiglio di notabililocali, soggetti peraltro all’insinda-cabile giudizio finale del rappre-sentante della lontana casaregnante inglese. Le ragioni dellostentato “tasso di crescita indù”menzionato all’inizio affondano leradici nel peso di un’eredità colo-niale, dove le decisioni della politi-ca economica dipendevano dainteressi lontani e non da unadominante preoccupazione per ilbenessere degli indiani. Per esem-pio, il viceré Lytton, che “vicere-gnò” nel periodo 1876-80, pose ilveto alla decisione del consigliolocale (l’organo indiano di autogo-verno) di mantenere i dazi sulleimportazioni di manufatti tessili.

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INDIA: UN MODELLO “VARIABILE” CHE DA FORZA ALLA CRESCITA

L’India si delinea come un “punto caldo” della crescita mondiale nei prossimi anni.

Costringerà i paesi di vecchia industrializzazione a difficili adattamenti.

L’Autore illustra come l’India ha lasciato “il tasso di crescita indù”

ed è entrata a vele spiegate, con un suo specifico “modello”, nell’economia di mercato:

sta diventando il simbolo della globalizzazione dei servizi, dal software al turismo medico.

FABRIZIO GALIMBERTI

Dal 1986 editorialista de “Il Sole24Ore”.Un’articolata esperienza di incarichi dieconomista e di docente. Studi di econo-mia alla Bocconi e alla ColumbiaUniversity, insegnamento universitario aFerrara, economista all 'Ocse (Parigi).Capo economista della Fiat (Torino). Haricoperto anche la carica di consigliereeconomico del Ministro del Tesoro (Roma).

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Ma questa decisione, che oggi (quando fortunatamentedomina la convinzione che la libertà degli scambi sia unaprecondizione per la crescita) sarebbe considerata illumi-nata, fu invece una bieca subordinazione agli interessidell’industria manifatturiera inglese che voleva mantenereaperti gli sbocchi ai suoi prodotti in quella che era a tuttigli effetti una propria colonia. I dazi per l’India avevano inogni caso soprattutto una giustificazione fiscale: il gover-no della colonia aveva un disperato bisogno di entrate, inun periodo di carestia e di disordini nel mondo agricolo(e l’agricoltura era il 90% dell’economia!). Ma gli interessidelle manifatture tessili inglesi ebbero la meglio.L’argomento dell’”industria nascente” – una delle pocheeccezioni alla libertà degli scambi che possono giustifica-re misure protezionistiche (non il protezionismo!) – nonpotè essere usato in favore dell’economia indiana.

Un secondo fattore che contribuì per molto tempo aintralciare il cammino dell’economia indiana fu quello cheLord Desai chiamò il “rumoroso pasticcio”, cioè la neces-sità di tenere continuamente a bada le tensioni sociali epolitiche che sono insite in un paese così variegato: si puòpensare a moltiplicare per venti il dualismo italiano e siavrà una pallida idea di quello che vuol dire governarel’India, tanto più che alle divisioni etniche si aggiungonoquelle religiose. Le fissioni di origine religiosa non furonosanate con la cristallizzazione statuale (nel Pakistan) delleregioni musulmane; anche nell’India rimasero delle areemusulmane che fomentarono discriminazioni e discon-tenti. La “lotta continua” a livello sociale e politico ha unprezzo, e il prezzo sta in un ambiente non favorevoleall’imprenditorialità.

Un terzo fattore di intralcio affonda nella cultura e nelletradizioni induistiche: il sistema delle caste non è certo diaiuto allo sviluppo dell’economia. Ne abbiamo una vagaidea in Occidente, dove la “casta” femminile è stata persecoli sotto-istruita e sotto-utilizzata. Ancora oggi il tasso dioccupazione femminile in tutti i paesi è più basso di quel-lo maschile, il che vuol dire che l’economia non utilizzaappieno le proprie potenzialità. «Mi sembra sia una sem-plice evidenza aritmetica: se metà della popolazione vienetenuta indietro, la crescita è tenuta indietro». Le parolesono di Paul Wolfowitz, il “falco” della guerra in Iraq, pas-sato dalle stanze del Pentagono alla presidenza dellaBanca mondiale. Sposato adesso a una femminista araba(le vie del Signore sono infinite...) Paul Wolfowitz in unrecente viaggio in India ha più volte sottolineato il proble-ma dell’emancipazione femminile come via alla crescitaeconomica. Gli è piaciuta molto l’immagine che gli hagettato in faccia una donna di Dhok Tabarak, un villaggiopakistano: lo sviluppo è come un carro a due ruote; seuna delle ruote non gira, il carro non andrà lontano. Mail problema delle caste va molto al di là dell’emancipazio-ne femminile (che è “una casta nelle caste”). Non solo viè un problema di sotto-istruzione e di sotto-utilizzo dellecaste deboli, a partire dai famosi “intoccabili”, ma c’è

anche un problema di scarsa mobilità sociale, di mancata“fertilizzazione incrociata”, sia nel senso letterale che nelsenso metaforico dell’espressione. Per molto tempo que-ste rigidità hanno tenuto al guinzaglio la crescita indiana.

Il quarto fattore è anch’esso politico-sociale e sta nellalotta per l’indipendenza. L’indipendenza, come si è detto,fu raggiunta nel 1947, ma la lotta durava, in pratica, dasempre (cioè da circa cent’anni prima, quando l’interosub-continente divenne parte – non volontaria! – dell’im-pero britannico). Le classi dirigenti indiane che si andava-no formando avevano in cima alla lista delle priorità lalotta per l’indipendenza e non lo sviluppo dell’economia.Questa comprensibile scala di priorità ha fatto sì che l’eco-nomia non solo fosse scarsamente considerata ma anchedeliberatamente imbrigliata in uno statalismo a volte esa-sperato, come se le regole (il famoso sistema raj di licen-ze, per cui “tutto quello che non è permesso è proibito”)servissero a dire all’economia: non ci dare fastidio, staidentro il recinto delle norme, che noi abbiamo cose piùimportanti cui pensare. Il ruolo centrale di Gandhi nellalotta per l’indipendenza ebbe un risvolto economico. Lastrategia del Mahatma (il titolo di ‘Mahatma’ dato aGandhi vuol dire, in sanscrito, ‘Grande anima’) per sfida-re la gigantesca macchina del dominio britannico fu quel-la di un generale boicottaggio di tutto quel ch’era ingle-se, dalle merci alle scuole, ai collegi, ai tribunali, ai titoli,agli onori, e, se tutti questi boicottaggi dovessero fallire,bisognava anche boicottare il fisco. L’economia, insom-ma, era chiaramente subordinata alla politica.

Questi quattro fattori hanno tenuto “sotto schiaffo” losviluppo dell’economia per gran parte del dopoguerra.Che cosa è successo di recente? Qual è stata la scintilla –o le scintille – che hanno permesso il decollo? E qualisono le prospettive per il futuro, sia per l’India che per iconcorrenti, presenti e potenziali, dell’economia indiana?

La scintilla della crescita

Son passati quasi due secoli e mezzo dalla pubblicazio-ne della Ricchezza delle nazioni di Adam Smith, e gli eco-nomisti ancora non riescono a darsi compiutamenteconto delle cause della “ricchezza delle nazioni”. Perchéun paese è ricco e un altro è povero? E, soprattutto, per-chè un paese povero riesce a diventare ricco e un altrorimane povero?

Il caso dell’India è al centro di queste domande.Guardiamo, per esempio, a questo passaggio dal recen-te libro di Thomas Friedman The World is Flat. L’autoreriporta un’intervista con Tarun Das, che era da lungotempo il direttore della ‘Confindustria’ indiana. Dopoaver descritto con minuzia le soffocanti regole burocrati-che e l’estensione della proprietà pubblica nelle imprese,Das parla con entusiasmo delle riforme del 1991: “Caddeil nostro Muro di Berlino” – dice Das – “e fu come aprirelo sportello a una tigre in gabbia. Eravamo sempre anda-

ti avanti crescendo al 3%, il cosidetto ‘tasso di crescitaindù’ [i tassi di crescita citati all’inizio dell’introduzionesi riferivano al reddito pro-capite, mentre qui si parladel PIL totale] e ora siamo a tassi del 7% (Friedman,2005, pag. 50).

L’entusiasmo di Tarun Das richiede una spiegazionee un ammonimento. Primo, in che cosa consistevanole riforme del 1991?

Il primo leader indiano dopo la guerra e l’indipen-denza, Nehru, era un socialista fabiano che avevagrande fede nella pianificazione, e financo presiedet-te l’organo incaricato di avviare i piani quinquennali.Nehru ebbe la saggezza di tenere l’India fra i non-alli-neati, col risultato di avere aiuti sia dagli Stati Uniti chedalla Russia e dal Giappone. Dopo Nehru il timone delpaese venne preso da Indira Gandhi (vedi riquadro)che lasciò il potere (assassinata) nel 1984.

Il suo posto venne preso dal figlio Rajiv che comin-ciò una politica economica più liberale. Assassinato asua volta nel 1991, il nuovo governo ebbe come figu-ra di punta l’attuale primo ministro, Manmohan Singh,che, come ministro delle Finanze, diede inizio a unprogramma serrato di riforme. Citando, nel suo discor-so al Parlamento del 1991, Victor Hugo – “Nessunaforza al mondo può fermare un’idea quando il tempoè maturo” – Singh disboscò molte incrostazioni buro-cratiche, diede un forte taglio ai raj (licenze), sempli-ficò il sistema fiscale, liberalizzò gli scambi riducendo idazi e in generale creò un ambiente più favorevolealle imprese. Favorevole in senso buono, naturalmen-te, che la riduzione di dazi protettivi può non esserefavorevole per le imprese bisognose di protezione, macertamente stimola tutti a una maggiore efficienza. Edecco spiegata la contentezza di Tarun Das menziona-ta poco sopra.

Dinastie indiane

Jawaharlal Nehru fu il primo ministro dell’Indiamoderna, e rimase al potere dal 1947 al 1964.Nacque nel 1889, da Motilal e Swarup Rani Nehru; lafamiglia apparteneva a una casta di bramini delKashmir chiamata Pandit.

Indira Gandhi, figlia di Jawaharlal Nehru, divenneprimo ministro nel 1966. Nata nel 1917, fu chiamataIndira Priyadarshini Nehru. Da dove venne il nome diGandhi? Ci sono due teorie in proposito. Indira si inna-morò di Feroze Khan, un amico di famiglia, e lo vollesposare. Il padre di Feroze Khan, Nawab Khan, era unmusulmano e la madre era una persiana musulmana.Nehru non approvava questo matrimonio inter-casta,per ragioni politiche. Se Indira avesse sposato unmusulmano avrebbe dovuto rinunciare a diventare l’e-rede politica del padre. A questo punto, secondo unaversione della storia, lo stesso Mahatma Gandhi inter-venne e adottò Feroze Khan, dandogli il suo nome.Così Indira Nehru sposò Feroze (Khan) Gandhi nel1942 e divenne Indira Gandhi, cosa che l’aiutò moltopoliticamente, come figlia di Nehru – il “primo primoministro” dell’Unione Indiana – e nuora di Gandhi – ilpadre della patria.

La seconda storia afferma invece che Feroze avevaun padre Parsi il cui cognome era Ghandi e nonGandhi. Fu lo stesso Mahatma Gandhi a suggerire aNehru di compitare come ‘Gandhi’ il cognome diFeroze. Indira Gandhi fu eletta primo ministro nel 1966e rimase al potere fino al 1984, a parte un breve perio-do dal 1977 al 1980. Il figlio Rajiv Gandhi, che avevasposato l’italiana Sonia Miano, divenne primo ministronel 1984, dopo l’assassinio della madre a opera di unasua stessa guardia del corpo. Rajiv rimase al governofino al 1989. Nel 1991, nel corso della campagna elet-torale per nuove elezioni, fu assassinato da una terrori-sta suicida. La dinastia Nehru-Gandhi sembrava venu-ta al termine, dato che Sonia Gandhi declinò l’offertadi diventare presidente del partito del Congresso (il par-tito di maggioranza relativa), cui avevano appartenutosia Indira che Rajiv. Ma nelle elezioni del 2004 Soniaportò il partito del Congresso alla vittoria e, anche serifiutò di divenire primo ministro, la dinastia ha ancorafrecce al proprio arco, nei volti dei figli di Sonia e Rajiv:il figlio Rahul (34 anni nel 2004) e la figlia Priyanka (33anni) hanno partecipato e vinto nelle elezioni. La storiadell’ascesa di Sonia Gandhi da una cittadina piemonte-se all’India moderna è una storia di amore, morte edinastia, che disegna la trasformazione di una donnaitaliana della media borghesia in un kingmaker di unanazione di un miliardo di abitanti.

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SVILUPPO ECONOMICO IN INDIA 1960-2000(SCALA LOGARITMICA, 1960=1)

Fonte: Bosworth and Collins (2003); PWT 6.1.

Figura 1

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Allora, furono le riforme pro-businessdel 1991 a dare il via alla crescita? Per rea-lizzare “la ricchezza delle nazioni” la ricet-ta giusta è quella di togliere quei pesiregolamentari che tarpano le ali a produ-zione e scambi? La Figura 1 comunicaqualche dubbio in proposito.

Come si può vedere, lo slancio dellacrescita cominciò ben prima delle riformedel 1991. Sia per quel che riguarda il red-dito pro-capite che la produttività dellavoro (reddito per lavoratore) o la pro-duttività totale dei fattori (TFP), si nota undistinto cambio di marcia già a partire dal-l’inizio degli anni Ottanta. Insomma, leriforme del 1991 hanno certamente con-fermato il risveglio dell’economia ehanno permesso il mantenimento e l’ac-celerazione di quella tendenza, ma la ten-denza positiva era cominciata già prima.Da dove era scoccata, allora, la scintilladella crescita?

Il brodo di coltura

In un saggio affascinante apparso neiWorking Papers del Fondo monetario, Dani Rodrik eArvinan Subramanian (Rodrik e Subramanian, 2005, pas-sim, d’ora in poi chiamati R&A), dopo aver notato comel’accelerazione del saggio di crescita dell’economia india-na predati quell’inizio degli anni Novanta che era la sogliaconvenzionalmente indicata, cercano, da bravi detectiveeconomici, di trovare la felix culpa che ha reso possibilequel decollo. Una investigazione, insomma, in stilesmithiano, sulla “Natura e le cause della ricchezza dellenazioni”. Dapprincipio, in un paese dove l’agricoltura nonsolo copre ancora circa il 25% del Pil (ricordiamo che neigrandi paesi industriali il settore agricolo non copre piùdel 2-3% del Pil) ma è anche un settore strapazzato dalclima (a causa della variabilità dei monsoni), bisognainnanzitutto chiedersi se la marcia del Pil indiano non siastata scalata verso l’alto da qualche regalo meteorologico.La Tavola 1 mostra che in effetti il settore agricolo è cre-sciuto più rapidamente, negli anni Ottanta, ma questonon basta a spiegare il salto di qualità nella crescita indiana.

Tabella 1 – Tassi di crescita di settore

Crescita media (%/anno)

1951-1980 1981-1990 1991-2000Agricoltura 2.1 4.4 3.1Industria 5.3 6.8 5.8Servizi 4.5 6.6 7.5PIL 3.5 5.8 5.8

Fonte: Computi del personale impiegando i dati della Central Statistical Organization (CSO).

Come si vede nella Figura 2, che riporta i risultati di undettagliato studio del Fondo monetario sul tasso di cre-scita potenziale dell’India, anche normalizzando il fatto-re meteorologico si nota un distinto scalino nella capa-cità di crescere dell’economia indiana a partire daglianni Ottanta.

Forse, allora, furono eventi esterni a favorire la cresci-ta? Forse l’economia fu trascinata da un ambienteesterno favorevole, che, attraverso il primum movensdelle esportazioni, innescò lo sviluppo in una econo-mia riottosa?

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CRESCITA DEL PIL REALE EFFETTIVA E POTENZIALE

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RAGIONI DI SCAMBIO DELL’INDIA, 1960-2000

Figura 3

Indice, 1980=100

Fonte: Dani Rodrik e Arvind Subramanian

Crescita rettificata per le piogge potenziale media del periodo

Crescita del PIL rettificata per le piogge, potenziale

Crescita del PIL reale Crescita del PIL rettificata per le piogge

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R&A esaminano la spinta esterna ma non la trovanodeterminante. Anzi – e questo non fa che approfondireil mistero, come si conviene all’Oriente misterioso – l’am-biente esterno fu nel complesso ostile ai paesi in via di sviluppo. Le ragioni di scambio volsero contro l’India,come si vede dalla Figura 3.

Neanche la competitività, intesa come cambio effet-tivo reale, favorì la crescita indiana. Per gran partedegli anni Ottanta il cambio reale si mantenne eleva-to (Figura 4). La netta diminuzione a partire dallaseconda metà degli anni Ottanta, insieme alle riformedel 1991, spiega certamente come l’India abbia pigia-to ancora sull’acceleratore negli anni Novanta eancora oggi, ma non spiega perché già dall’iniziodegli anni Ottanta l’India abbandonò il famoso emodesto “tasso indù di crescita”.

Continuiamo nella ricerca. Fu forse la politica dibilancio espansiva? Non dimentichiamo che quandoMahoman Singh pronunciò il famoso discorso nel1991, scomodando Victor Hugo, una delle ragioni chelo spinsero a far qualcosa di diverso fu il rischio dellabancarotta: il bilancio dello Stato registrava un enormedeficit, pari all’8,5% del Pil, e la fiducia internazionalesi andava sgretolando. Grossi deficit furono in effettiregistrati in tutto il periodo degli anni Ottanta: il disa-vanzo pubblico, da una media del 5% del Pil negli anniSettanta, passò al 9% circa negli anni Ottanta. Allora,furono quei disavanzi a tirare l’economia indiana?

Questa rispettabile spiegazione, sostenuta da T.N.Srinivasan (Srinivasan e Tendulkar, 2003, passim)vede quindi gli anni Ottanta come sospinti da unainsostenibile espansione di bilancio. Quando i nodi

vennero al pettine, a fine decennio, l’in-combere della crisi finanziaria concentrògli spiriti e portò ai rimedi attuati da Singh.

Secondo questa tesi, insomma, nonc’è niente di strutturale in quello chesembrava un “salto di qualità”: c’è solola vecchia storia di un’economia droga-ta dai deficit, che alfine deve essere risa-nata con misure – quelle sì – strutturali.

Ma anche questa spiegazione nonconvince. Lo stimolo di bilancio vienein parte perduto attraverso maggioriimportazioni che vanno a beneficiarele economie degli altri paesi, e in parteattiva la domanda interna. Negli anniOttanta il deficit con l’estero aumentò,ma non di pari passo col deficit pubbli-co, che quindi in effetti stimolò l’econo-mia. Tuttavia, questo stimolo non bastaa spiegare l’aumento della produttività.Lo spendere e lo spandere del bilanciopubblico mettono sì più soldi nelletasche dei cittadini, ma questo non

vuol dire che il sistema produttivo diventi più efficiente.La sola possibilità che questo accada sta in un perma-nente più alto grado di utilizzo della capacità, che diper sé implica maggiori economie di scala e quindi unaumento della produttività. Questa possibilità è statatestata con una analisi che considera il grado di utilizzodelle risorse fra le variabili esplicative della produttività,ma i risultati di R&A portano a escludere che l’aumentodi produttività possa essere interamente spiegato dallavariabile di tasso di utilizzo. Rimane un grosso residuonon spiegato, e quindi anche l’ipotesi “spinta del bilan-cio” deve essere esclusa dalle spiegazioni del “misterodella transizione”, come gli autori chiamano l’improvvi-so risveglio, a partire dagli anni Ottanta, dell’economiaindiana. Passiamo a un’altra possibile spiegazione. Sitrattò forse della liberalizzazione degli scambi? Sia glistudi della Banca Mondiale per quel che riguarda ipaesi in via di sviluppo, sia l’esperienza dei paesi indu-striali nel primo dopoguerra convergono nell’affermareche l’apertura agli scambi è una molla potente per ildecollo dell’economia. I dati raccolti nella Tavola 2 nonforniscono tuttavia alcuna evidenza di un significativomiglioramento nel grado di protezione accordato all’in-dustria indiana nel corso degli anni Ottanta. I dati con-fermano invece che una forte liberalizzazione e unaforte diminuzione del tasso effettivo di protezione ebbe-ro luogo negli anni Novanta, e certamente diedero uncontributo all’acceso e continuo sviluppo dell’India inquel periodo e fino ad oggi. Ma non è questo secondoslancio che ha bisogno di essere spiegato. È il primodecollo del periodo 1980-1990 che deve essere dipana-to, e ancora non ci siamo riusciti. Andiamo avanti.

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senza sovvenzioni alle esportazioni

con sovvenzioni alle esportazioni

INDIA: TASSO DI CAMBIO EFFETTIVO REALE, 1968–2000

Figura 4

Fonte: Information notice System del FMI

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Tabella 2 – India: misure di protezione commerciale, 1980 – 2000 (in %)

Tutte le industrie 1980-85 1986-90 1991-95 1996-00

Tasso di protezione effettivo medio 115.1 125.9 80.2 40.4

Indice di copertura delle importazioni 97.6 91.6 38.0 24.8

Indice di penetrazione delle import. 10.0 11.0 12.0 16.0

Prodotti semilavorati

Indice di protezione effettivo medio 147.0 149.2 87.6 40.1

Indice di copertura delle importazioni 98.3 98.3 41.8 27.6

Indice di penetrazione delle import. 11.0 13.0 15.0 18.0

Beni strumentali

Indice di protezione effettivo medio 62.8 78.5 54.2 33.3

Indice di copertura delle importazioni 95.1 77.2 20.5 8.2

Indice di penetrazione delle import. 12.0 12.0 12.0 19.0

Beni strumentali

Indice di protezione effettivo medio 101.5 111.6 80.6 48.3

Indice di copertura delle importazioni 98.7 87.9 45.7 33.4

Indice di penetrazione delle import. 4.0 4.0 4.0 10.0

Fonte: Das (2003)

Un altro candidato alla spiegazione del “mistero” è l’in-vestimento pubblico, specialmente infrastrutturale.Questo possibile fattore di stimolo è diverso dalla spintaindifferenziata che il deficit pubblico fornisce alla doman-da globale (abbiamo esaminato quel fattore poco sopra):è diverso perché in questo caso non si tratta di esamina-re il contributo alla domanda che proviene dalla spesa ininvestimenti pubblici, ma gli effetti di secondo ordine con-nessi alla maggiore efficienza che scaturisce dai migliora-menti alle infrastrutture. Come dice il solito proverbiocinese: se volete che una regione diventi ricca, per primacosa costruite una strada.

Tuttavia, la conclusione è quella di prima. Analizzandole possibili vie attraverso le quali si costruisce questo effet-to di stimolo via efficienza, la conclusione è che bisognatorturare i dati per trovare questo effetto (gli econometri-ci dicono: se torturate i dati abbastanza a lungo, confes-seranno qualsiasi cosa!). Se l’effetto è contemporaneo oquasi, lo stimolo è trascurabile; per avere uno stimolodecente bisogna ipotizzare un ritardo di almeno cinqueanni fra le infrastrutture e gli effetti sull’economia.

Un altro candidato promettente per spiegare la svoltadegli anni Ottanta è la liberalizzazione interna. Cioè losmantellamento di quegli ostacoli allo scambio internoche, come le gabelle comunali nell’Italia del Medioevo,rallentavano i commerci fra gli stati dell’Unione indiana.Non solo: la liberalizzazione interna riguardava anchequelle che oggi si chiamerebbero le regolamentazioni neimercati dei prodotti, le limitazioni alla concorrenza efinanco le autorizzazioni agli investimenti privati, stretti

in una rete kafkiana di regimi restrittivi di vario genere.Anche questa possibile spiegazione è stata analizzata

(vedi Joshi e Little, 1994, pagg. 71-72), e la ricerca di que-sti autori si può così riassumere, nelle loro stesse parole:

“In conclusione, la liberalizzazione nel nostro periodo(1964-1990) consistette in poco più di una parziale dere-golamentazione del sistema delle licenze, e nell’introdu-zione di una qualche flessibilità nel tasso di cambio.Questi cambiamenti non furono trascurabili, e miglioraro-no in effetti la performance dell’economia. Ma l’ideologiae gli interessi costituiti preclusero ogni significativo pro-gresso nella aree più difficili della liberalizzazione degliscambi, di quella finanziaria e nel campo delle riforme delmercato del lavoro e delle imprese pubbliche”.

Abbiamo parlato più sopra delle benefiche politiche diRajiv Gandhi, volte a smantellare il sistema dei Raj. In effet-ti le misure del 1984 e degli anni seguenti furono positi-ve, ma non se ne possono esagerare gli effetti: alcuniautori (Chopra, 1995, passim, e Hasan, 1995, passim)hanno fatto osservare come ancora nel 1991 il 60-80%delle attività economiche continuava a soffocare sotto leoppressive procedure per le licenze.

I detective dell’economia sono andati eliminando moltipossibili sospetti per il fatto da spiegare, ma ancora nonsiamo arrivati a chiarire il perchè di quella svolta nella cre-scita. R&A “sospettano” (anche il loro è un sospetto per-ché ammettono candidamente di non avere prove con-clusive ma solo indiziarie) che l’India beneficiò di un “cam-biamento culturale”. La “Natura e le cause della ricchezzadelle nazioni” si rivelano ancora una volta elusive. La cre-scita è un fatto così complesso che anche le sue originipossono essere complesse, e si costruiscono su una con-fluenza, un “brodo di coltura” in cui coesistono fattori isti-tuzionali e culturali, psicologici e sociali; l’economia pro-priamente detta è trascinata da quelle confluenze, e nonviceversa.

Questo cambiamento culturale consistette in un atteg-giamento più “amichevole” del governo verso il mondoimprenditoriale, un atteggiamento che ha a sua voltaradici politiche. Indira Gandhi, tornata al potere nel 1980dopo tre anni “sull’Aventino”, fu costretta a cambiare lesue tendenze socialisteggianti, sentendo sul collo il fiatogrosso del partito Janata, che aveva sconfitto Indira (e ilpartito del Congresso) nelle elezioni del 1977. Il partitoJanata era un partito pro-business e, benché fosse stato asua volta sconfitto nel 1980, il suo avvento era il simboloemergente di un cambiamento in profondità. Come notaKohli (Kohli, 1989), la retorica politica di Indira divennemeno secolare e populista e più orientata al mercato:“Nella cultura politica indiana i due modelli di ‘secolarismoe socialismo’ da una parte e di ‘chauvinismo induista eindustrialismo’ dall’altra sono andati offrendo via via dueformule alternative di legittimazione per coagulare i con-sensi”. A partire dal 1980 Indira Gandhi spostò l’enfasi dalprimo al secondo modello.

Certamente, come abbiamo visto in precedenza quan-do varie spiegazioni alternative sono state via via scartate,questo “spostare l’enfasi” non ebbe grandi conseguenzepratiche. Le misure di liberalizzazione esterna e internafurono parziali e tardive, sia con Indira che con Rajiv, enon emerse, come invece emerse con le riforme di Singhnel 1991, alcun grande e coerente disegno riformista. Manon importa. Gli “spiriti animali” degli imprenditori avver-tivano che qualcosa era cambiato, che i governanti guar-davano finalmente ai produttori come ai partner di un“sistema-paese” e non come mucche da mungere.

La risposta in termini di crescita fu netta e andò forse aldi là di quello che c’era da aspettarsi vista la timidezza diqueste prime aperture. Ma quel che giocò in favoredell’India fu il fatto che il sub-continente indiano si trova-va, nel gergo degli economisti, ben al di qua della sua“frontiera delle possibilità di reddito”: cioè a dire, la suainefficienza era tale che anche piccoli miglioramenti diclima imprenditoriale avrebbero trovato grandi possibilitàdi miglioramenti nella produzione. C’erano molti frutti neirami bassi, frutti che erano facili da cogliere e furono colti,portando a un insperato scatto nel tasso di crescita.

I prossimi traguardi

Proseguirà la crescita indiana? Quali sono i vantaggicomparati dell’India? Quale il suo posto nella divisioneinternazionale del lavoro?

Il fatto che il secondo paese più abitato del mondo(oltre un miliardo di abitanti) e la più popolosa democra-zia del pianeta sia entrata a vele spiegate nell’economia dimercato è un fatto gravido di conseguenze. Specie se si

pensa che il XXI secolo vede una forza lavoro raddoppia-ta rispetto al secolo precedente. Con l’ingresso di Cina,India, Russia ed Europa orientale nell’area del mercato,l’offerta potenziale è enormemente aumentata.Certamente è aumentata anche la domanda, effettiva epotenziale, ma la velocità di trasferimento delle tecnolo-gie ha fatto sì che l’offerta possa aumentare più rapida-mente della domanda, e questo fatto pone un “coper-chio” all’inflazione mondiale. Quando paesi a basso costodel lavoro acquistano rapidamente una capacità manifat-turiera (e non solo manifatturiera, come vedremo nelcaso dell’India), il mondo viene inondato di prodotti abasso prezzo, e in questo contesto è difficile che le pres-sioni inflazionistiche, da qualunque parte provengano (ilpensiero va, naturalmente, al petrolio) possano attecchire.

La crescita indiana proseguirà, perché, passata unacerta soglia di valori e di risorse, la crescita è un fenome-no spontaneo che si autoalimenta. L’India ha un anticolignaggio educativo, una popolazione giovane e unaforza lavoro in crescita (vedi Figura 5), un forte spiritoimprenditoriale (come testimoniano le comunità indianein altri paesi), un’ottima conoscenza dell’inglese, unacomoda locazione geografica, a metà strada fral’Atlantico e il Pacifico, e un fuso orario favorevole se voles-se, come potrebbe, diventare un centro finanziario inter-nazionale.

I vantaggi comparati dell’India sembrano attualmenteporsi più nel campo dei servizi che in quello della manifat-tura, dove la Cina ha conquistato teste di ponte difficil-mente espugnabili. Ma i vantaggi dell’India sulla Cina –lingua inglese e una naturale disposizione al calcolo eall’ingegneria – hanno permesso alla prima di “inventarsi”un’industria di servizi che va scalando le montagne del

valore aggiunto. Già da molti anni grandisocietà occidentali avevano subappaltatoin India servizi come il ticketing delle com-pagnie aeree o le pratiche di rimborsodelle assicurazioni mediche, per non parla-re dei call center. Ma negli ultimi annil’India si è posta come un partner affidabi-le nello sviluppo del software e molte mul-tinazionali del settore hanno affidato asocietà indiane importanti commesse. Gliinvestimenti diretti dall’estero hanno anco-ra molto spazio per crescere e nei vecchipaesi industriali solo adesso, sull’onda deisuccessi dell’outsourcing, l’immaginedell’India comincia a imprimersi nella reti-na mentale degli investitori.

L’export di servizi è in forte crescita, equel che fa più impressione è che gli india-ni si sono mostrati molto bravi a far leva suiloro vantaggi (a cominciare dalla linguainglese). Per il software non si sono limita-ti a sviluppare programmi ma hanno salito

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PREVISIONI DELLA POPOLAZIONE IN ETÀ LAVORATIVA (% del totale)

Figura 5

Fonte: United Nations, Population Database

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un grosso scalino e hanno cominciato a offrire sul mer-cato interi progetti o la presa in carico di intere funzio-ni aziendali.

Ci sono altri segnali che indicano la sostenibilità dellarecente vivace crescita. Primo, le grandi imprese appaio-no aver dato inizio a un nuovo ciclo di investimenti.Anche se i dati di contabilità nazionale ad alta frequenza(trimestrali) non sono disponibili, si nota che i tassi di uti-lizzo della capacità sono alti, e che la produzione e l’impor-tazione di beni d’investimento sono andate tenendo perpiù di due anni tassi di aumento a due cifre. Inoltre, stan-no aumentando rapidamente gli investimenti diretti dall’e-stero, che non portano solo capitali ma anche, e spessosoprattutto, iniezioni di tecnologia e di managerialità.

Secondo, l’India si sta rapidamente integrando nellegrandi catene di offerta regionali e globali. Le esportazio-ni di merci sono andate, e non da poco tempo, aumen-tando a tassi del 20% annuo, e le esportazioni di servizi disoftware al 30 per cento. Come si confronta questa fasedi sviluppo indiano con quella di altri paesi che partivanoda condizioni simili? Andando a prendere il Giappone apartire dal 1955, la Cina dal 1979, le NIE (NewIndustrialising Economies, Taiwan, Singapore, Corea eHong Kong) dal 1967 e le ASEAN 4 (Indonesia, Malaysia,Filippine e Thailandia) dal 1973 e comparando gli anniiniziali di quelle fasi di sviluppo con quelli dell’India dell’ul-timo decennio, si notano somiglianze, ma anche criticità.Da una parte, la fase iniziale di sviluppo indiana, pur acce-sa, è meno forte di quella degli altri paesi. Tuttavia, laquota dell’India negli scambi mondiali ha molto spazioper crescere, dato che si trova allo 0,8%, al di sotto diquelle della altre aree, che spaziavano dall’1% (per laCina) al 2% (per il Giappone, le NIE e le ASEAN 4).

Terzo, c’è il fattore demografico. Le proiezioni delleNazioni Unite danno un aumento della forzalavoro india-na per il prossimo decennio fra 75 e 110 milioni. L’India èuno dei pochi paesi per i quali si prevede un aumentodella popolazione in età di lavoro per i prossimi 40 anni

(un leggero declino è previsto solo a partire dal 2045). Undeclino della popolazione in età di lavoro è previsto in Cina già a partire dal 2010, in Thailandia dal 2015, inBrasile dal 2020, in Indonesia dal 2030, ma in India, come detto, la demografia preme sulla crescita fino al2045. In un passato non lontano la demografia per l’Indiaera un peso perché non faceva altro che moltiplicare lapovertà. L’India fece grandi sforzi per educare la popola-zione al controllo delle nascite, e l’aumento del numerodegli abitanti era qualcosa da cui difendersi. Ma quandol’economia si avvia verso il decollo e i valori del mercato edell’imprenditorialità cominciano a diffondersi, quandoviene più avvertita la bontà dell’istruzione, quando ilmiglioramento del “capitale umano” viene considerato undiritto da estendersi anche alle categorie finora sfavorite,dagli “intoccabili” alle donne, allora la demografia puòdiventare un alleato e non un pericolo per lo sviluppoeconomico. Vi sono poi anche ragioni macroeconomicheche fanno degli andamenti macroeconomici un fattore difavore per lo sviluppo. Le classi di popolazione in età dilavoro hanno una propensione al risparmio relativamenteelevata, e quindi l’investimento può essere più facilmentefinanziato dal risparmio domestico.

Naturalmente, questo aumento della popolazione èuna condizione necessaria ma non sufficiente per la cre-scita. L’elasticità dell’occupazione al reddito (rapporto fraaumento percentuale dell’occupazione e aumento per-centuale del prodotto interno loro) è minore di 1, e que-sto vuol dire, secondo i calcoli del Fondo monetario (IMF,2005) che nei prossimi dieci anni l’India dovrà creare 145milioni di posti di lavoro, se non vuole vedere aumentareil tasso di disoccupazione. L’alternativa sta nell’aumentodell’elasticità dell’occupazione, che in effetti è una possibi-lità non infondata: uno dei vantaggi comparati dell’Indiasta nei servizi passibili di outsourcing, e, più in generale,un’economia in espansione fa più spazio al settore terzia-rio che, come è noto, ha una più alta intensità di lavoro.

Ma non vi è dubbio che l’India avrà bisogno non solodi braccia e di capitali ma anche, e forse soprattutto, di

non tornare indietro sulla strada delle rifor-me, dell’apertura ai mercati internazionali,dell’abbraccio dei valori di mercato. Daquesto punto di vista non mancano isegnali di preoccupazione. Dal punto divista politico, potrà l’India proseguire sullastrada delle riforme? Molti avanzano dubbi,dato che il governo di Manmohan Singh sibasa su una coalizione variegata che inclu-de il partito comunista indiano e altri partitidi sinistra (Figura 6). Ma la storia insegnache, una volta decollato, lo sviluppo econo-mico plasma le istituzioni stesse.

Il nuovo governo è stato costituito dopofaticose negoziazioni, che trovano un sor-prendente parallelo in quello che potrà suc-

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11%

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INDIA: CAMERA BASSA DEL PARLAMENTO

Figura 6

Altri partiti regionali e indipendenti

Congresso a Alleati

Partiti di sinistra

BJP (partito dei fondamentalisti indù)e Alleati

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cedere in Italia se le elezioni del 2006 dovessere esserevinte dalla variegata coalizione di centro-sinistra. I partitidella maggioranza hanno messo assieme un CommonMinimum Program (CMP) che copre l’arco delle esigenze,dal partito del Congresso fino all’estrema sinistra: il gover-no ha dietro 12 partiti, inclusi molti che rappresentanointeressi locali (cioè dei vari stati dell’Unione indiana); que-sti partiti coprono però solo il 40% dei seggi alParlamento, e il governo dipende dall’appoggio esternodel Fronte di sinistra (il partito comunista) e di altri duepartiti minori. Il CMP ambisce ad accelerare la crescita,ridurre la povertà, migliorare le infrastrutture ed aumenta-re la spesa sociale.

Il CMP sottolinea un certo numero di misure da adot-tare nel medio periodo per raggiungere quegli obiettivi.Oltre alle maggiori spese per investimenti e lotta allapovertà, vi sono incentivi agli investimenti esteri e daziprotettivi per l’agricoltura (che beneficia anche, cosìcome le piccole imprese, di agevolazioni creditizie). Piùin particolare, il CMP prevede:

- Una maggiore spesa per infrastrutture, specialmentenelle aree rurali, pari al 3-4% del Pil a regime.

- Accesso universale all’istruzione di base e alle curemediche di base, attraverso un graduale raddoppiodelle relative spese, fino a raggiungere (in quota di Pil) il6% e il 2-3%, rispettivamente.

- Una garanzia di almeno 100 giorni di lavoro (a sala-rio minimo) per almeno un componente delle famigliepovere; il costo stimato è pari all’1% del Pil, di cui dueterzi a carico del governo centrale e un terzo a caricodegli Stati.

- Queste maggiori spese, che assommano a circa il10% del Pil, sono finanziate da una razionalizzazionedegli attuali sussidi per l’assistenza (che oggi finisconospesso per dare fondi anche a chi non ne ha bisogno),da una maggiore efficienza nella riscossione dei tributi(leggi “lotta all’evasione”) e dall’introduzione di unaimposta sul valore aggiunto.

Non vi è dubbio che una crescita dell’8% annuo per-mette di soddisfare molte esigenze alla volta, ma a pattoche non vengano scalzate proprio quelle riforme – quel-le liberalizzazioni e disincrostazioni burocratiche – chehanno favorito il decollo.

Le sfide che l’India ha davanti sono immense. Un terzodella popolazione (più di 300 milioni di persone) conti-nua a vivere con un reddito di 1 dollaro al giorno.Quelle spese di sostegno al reddito che il CMP descrivecome “aumentare la spesa sociale” sono quindi senz’al-tro necessarie. Ma la “coperta” del bilancio pubblico,come spesso succede, è corta. L’India non è riuscita,malgrado la crescita, a ridurre il disavanzo pubblico: dacirca 5 anni il deficit della pubblica amministrazione (checomprende sia il governo centrale che gli Stati) si è man-tenuto fra il 9 e il 10%, facendo lievitare il debito pubbli-co verso l’80% e passa del Pil. Nel 2004, tuttavia, l’India

si è data una regola affine al Patto di stabilità europeo:il FBRMA (Fiscal Responsibility and Budget ManagementAct) si propone per obiettivo di azzerare entro il 2008-2009 il disavanzo corrente del governo centrale (unaregola affine alla Golden Rule discussa in Europa) e leprime indicazioni sul funzionamento di questa strutturadella politica di bilancio sono positive. Sia da parte dellaspesa che da parte dell’entrata (con l’introduzione diuna “Iva” indiana che coordina le disordinate imposteindirette statali) le misure di contenimento si stanno rive-lando efficaci; in ciò aiutate, senza dubbio, da una cre-scita che continua a ritmi dell’8 per cento.

Come ha detto un economista indiano che è oggi ilChief Economist del Fondo monetario internazionale,Raghuram Rajan (Rajan, 2005), in un recente discorsorivolto agli imprenditori indiani, “Vi sono dei tempi nellavita delle nazioni, quando queste si sentono capaci difronteggiare ogni sfida, di realizzare ogni sogno. Se benincanalato, questo spirito può essere d'enorme aiuto allacrescita”. È questo spirito che permise la crescita esplosi-va di Italia e Giappone nel dopoguerra, della Coreanegli anni Settanta, della Cina di oggi, dove la città futu-ristica di Pudong-Shanghai è sorta in un'area che eraagricola solo dieci anni fa. Questo spirito è cruciale per-ché crea una mentalità che non tollera pigrizia, appros-simazione, corruzione...: “Crea generazioni pronte asacrificare il presente – il giapponese ha una parola spe-ciale, karoshi – e creare opportunità per i propri figli”. Edè questo spirito che sta percolando per l’India di oggi eplasmerà l’India di domani.

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La crescita impetuosa dell’Estremo Oriente, ed in par-ticolare della Cina, pone a tutto l’Occidente il temadella sostenibilità dello sviluppo globale. Non si tratta diresistere alla crescita di nuovi entranti in mercati tradi-zionali o in comparti marginali, ma di intendere i proble-mi di sostenibilità industriale, ecologica, sociale che unatale crescita determina sull’intero contesto mondiale.

Se infatti la presenza della Cina è stata finora avverti-ta pesantemente nei settori tradizionali, in cui il nuovoentrante poteva godere dei vantaggi di prima crescita,a partire da bassissimi costi del lavoro, la situazione sista facendo rapidamente più articolata, ed è proprio inquesta nuova complessità che possono aprirsi nuovispazi di sviluppo per le impreseitaliane.

La rapida crescita del colossocinese sta infatti generandonuovi problemi di sostenibilitàinterna, che anche le autoritàcentrali e provinciali stanno ini-ziando a valutare con grandeattenzione e cautela.

Il caso del Guang Dong – cioèdella grande provincia di Canton –diviene così rilevante. Il GuangDong è l’area storicamente piùsviluppata ed aperta della Cina.Con circa novanta milioni di resi-denti a cui si aggiungono i lavo-ratori temporanei giunti da altreprovince, la grande provinciameridionale è uno straordinario

laboratorio per intendere il cammino dell’Asia, le sueopportunità, i suoi limiti.

Il suo cuore è il grande delta del Fiume delle Perle,che ha al suo vertice la grande agglomerazione urbanadi Canton e ai due estremi Hong Kong e Macao.Ventidue anni fa tra Canton e Hong Kong venne aper-ta nella cittadina di Shen Tzen la prima zona francacinese che, sviluppatasi in termini esponenziali, ha oggisaldato le due grandi città in un unico sistema metropo-litano.

L’uscita di scena della Gran Bretagna ha ridato unanuova centralità a Hong Kong, che penetra ogni giornodi più la provincia cinese non solo con la sua economia e

la sua finanza ma soprattutto conlo stile di vita.

Il Guang Dong è cresciuto nel2004 ad una media del 15%, conun aumento del valore industrialedel 23% e con una crescita delleesportazioni del 26%, ma anchecon un aumento delle importazio-ni del 30%. Per l’intera Cina i datisono un aumento del prodottointerno lordo del 9.5%, del valoreindustriale del 17%, con esporta-zioni cresciute del 35% ed importa-zioni del 38%. Numeri fantasticiche però ci ricordano che la Cinanon solo compete sui mercatimondiali come entrante in moltisettori e molti mercati, ma è tutto-ra uno straordinario importatore

CON QUALI AZIONI RISPONDEREAI NUOVI ASSETTI ECONOMICI

PATRIZIO BIANCHI

Rettore dell’Università di Ferrara. Professoreordinario di economia applicata ed esperto dipolitiche industriali, ha lavorato a più riprese inCina. Dal 2000 è membro della ConsultativeConference on the Future of GuangDongProvince; nel 2005 gli è stata attribuita laHonorary Professorship dalla South ChinaUniversity of Technology di Canton.

Lo sviluppo impetuoso dell’Estremo Oriente, e in particolare della Cina,

pone a tutto l’Occidente il tema della crescita nei prossimi anni.

Si tratta in concreto di affrontare i problemi di sostenibilità industriale, ecologica, sociale

che una tale crescita determina sull’intero contesto mondiale. Analizzato lo scenario,

l’Autore osserva con specifico riferimento all’Italia: il risveglio dell’Asia esalta le nostre

contraddizioni interne e diviene un’opportunità per disegnare una strategia del paese,

coerente con le analisi più volte avanzate in materia di ricerca,

trasferimento tecnologico, high-education, ruolo delle università.

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non solo di materie prime ma anche di beni sempre piùcomplessi.

Egualmente questi dati ci ricordano che l’esplosionedella Cina è essa stessa risultato di un immenso proces-so di migrazione dei capitali e quindi di investimentistranieri. In Cina gli investimenti diretti dall’estero sonocresciuti nel 2004 del 21% in valore e del doppio nelGuang Dong, che si avvantaggia della partnership conHong Kong.

Lo sviluppo di Shen Tzen si incentra sulla attrazione diinvestimenti diretti stranieri, con la creazione di un unicoimmenso distretto tecnologico in cuitutte le grandi multinazionali del set-tore ICT si concentrano sia per pro-durre per il mercato cinese che perl’esportazione, dimostrando che – aldi là delle straordinarie condizioni dilavoro – eccezionali economie discala ed economie di agglomerazione.

Va infatti inteso che lo sviluppocinese è stato sostenuto da unamassiccia politica di attrazione degli investimenti che havisto riunire nelle diverse zone franche costiere concen-trazioni crescenti di imprese multinazionali, che pro-gressivamente hanno spostato in quelle aree non solola produzione di massa ma anche attività di ricerca e svi-luppo, rese possibile dalla ampia offerta di ingegneri etecnologi di alta qualità.

L’attrazione di imprese multinazionali in queste zonefranche è resa possibile dalla disponibilità di giovanilavoratori a tempo determinato, provenienti dalle zonerurali, che alla fine del periodo di lavoro tornano nellezone di origine con una buona qualificazione tecnicaed una esperienza di grande azienda.

Anche avvantaggiandosi di questa manodopera qua-lificata, si è quindi sviluppata una industria minore chetuttavia si agglomera in città satellite che tendono adassumere le caratteristiche di distretti specializzati.Intorno a Canton si è sviluppata ad esempio una coronadi distretti produttivi in settori tradizionali, che produco-no ormai grandi volumi di piastrelle, abbigliamento, elet-trodomestici.

D’altra parte nella città di Canton sono stati realizzatinegli ultimi cinque anni grandi investimenti in univer-sità e ricerca. Le dieci università della città hanno realiz-zato un nuovo campus di grande qualità urbana, in cuihanno concentrato i soli studenti dei primi anni – icosiddetti freshmen – nella convinzione che lo sviluppoaccelerato richiede una elevata offerta di laureati e dot-torati.

La politica di “ritorno dei cervelli” attuata dalle auto-rità centrali e provinciali sta riportando nelle universitàcinesi molti ricercatori formatisi negli Stati Uniti ed invo-gliati a tornare in virtù dei massicci investimenti in corsodi realizzazione in infrastrutture di ricerca.

D’altra parte le stesse autorità cinesi si pongono già iltema della sostenibilità del processo di crescita accelera-ta di questi anni. Nella recente sessione dellaInternational Consultative Conference sul futuro dellosviluppo economico del Guang Dong - la prestigiosaconferenza che ogni anno riunisce un numero ristrettodi economisti e managers di grandi multinazionali - èstato posto infatti il tema della sostenibilità industriale,ecologica e sociale di uno sviluppo così rapido.

Lo sviluppo impetuoso delle grandi città fa crescere adismisura la distanza fra campagna e città, cresce il red-

dito disponibile nelle città (11.8% nel2004), ma cresce anche la differenzafra ricchi e poveri, determinando situa-zioni di conflitto sociale, difficilmenteriducibili a problemi di ordine pubblico.

La città si espande e con essa il con-sumo di acqua e di suolo, sapendobene che i rischi di squilibrio ecologicopotrebbero costare ad una immensaconglomerazione urbana, cresciuta sul

fragile delta di un grande fiume, il rischio di alluvionidisastrose.

Tutto questo ci ricorda che ormai la Cina non puòessere più considerata un entrante pericoloso ma mar-ginale nella scena economica internazionale. La Cina èentrata nel mercato internazionale certamente operan-do su segmenti tradizionali, ma è cresciuta rapidamen-te ed ora si sta ponendo il tema di un’articolazione dellasua presenza industriale, che possa rendere sostenibilinel tempo le trasformazioni sociali ed ambientali fin quirealizzate; una tale attenzione ha spinto ad esempio leautorità cinesi ad investire massicciamente in educazio-ne e ricerca come base di una sostenibilità sociale futura.

Si deve quindi prendere atto degli effetti della presen-za della Cina e più ampiamente dell’Asia nel nuovo con-testo mondiale.

In prima battuta sia dunque evidente che non si trat-ta di evidenziarne solo gli effetti sul commercio interna-zionale, ma anche gli effetti sulla stessa organizzazionedella produzione a livello mondiale. In questi anni si èridisegnata la mappa dell’industria mondiale con l’e-mergere di specializzazioni relative, che delineano cate-ne produttive articolate a livello globale.

Il primo tema è dunque di carattere strategico. LaCina e l’India oggi, il Giappone e la Corea ieri, pongo-no all’industria italiana lo stessa tema del posizionamen-to strategico del paese in un contesto mondiale in rapi-da evoluzione. Il problema non è la Cina, ma l’Italia.

La crisi dei grandi gruppi, la straordinaria difficoltà adabbandonare il modello di controllo familiare, il riposi-zionamento dei gruppi maggiori verso la fornitura sulmercato interno di servizi regolati pubblicamente e lapersistenza dei gruppi minori ad operare a livello inter-nazionale in settori di nicchia portano a proporre un

“Le azioni da svolgere vannopensate e predisposte in termi-ni progettuali, produttivi, finan-ziari, per potersi proporre comealleati di lungo periodo e noncome intelligenti, ma inaffidabi-li partner di una notte”.

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sistema produttivo frammentato e disperso; un sistemaindustriale che non riesce a trovare leader capaci di tra-scinare l’intero sistema produttivo italiano su grandiprogetti-sistema, come ad esempio stanno facendo itedeschi con le ferrovie o i francesi con le forniture dicentrali elettriche o con le forniture aeronautiche.

Scontiamo oggi in Cina i problemiche da anni andiamo evidenziandoin Italia. Vi è un problema di profiloindustriale del paese e quindi di unaazione di politica industriale non sur-rogatoria del mercato, ma rivolta afavorire processi di aggregazione eriposizionamento della nostra indu-stria sul mercato internazionale.

Un’attenta strategia di crescita delnostro sistema produttivo implicaproprio quell’analisi delle nuove cate-ne produttive internazionali, che passano anche per laCina, ma che sarebbe un errore vedere solo come “con-correnza cinese”. Se la Cina si presenta oggi come unformidabile competitore in molti comparti, in molti altrisi presenta come utilizzatore, ed in altri come partnerper ri-esportazioni verso paesi terzi. Come in tutte leavventure, bisogna sapere – prima di iniziare la partita –quale gioco si vuole e si può giocare, per poi dedicarsialla realizzazione di una strategia coerente.

Sicuramente in Cina, come ieri in Giappone non pagané l’assalto individuale né l’affollamento di rappresentan-ze di regioni, di province, di associazioni, di missioni varie.In Cina disponiamo di una rappresentanza diplomatica digrande livello, ben radicata nel territo-rio, molto stimata, che deve essere ilpunto di partenza per ogni successivaazione: ma le azioni vanno pensateprima e predisposte in termini proget-tuali, produttivi, finanziari, per potersiproporre come alleati di lungo periodoe non come intelligenti, ma inaffidabi-li partner di una notte.

In questo senso sia evidente che laconcorrenza internazionale richiedeoggi un’azione collettiva in cui le imprese si sentanoaccompagnate dai sistemi educativi e di ricerca, nel dif-ficile tentativo non solo di competere ma anche di coo-perare a livello internazionale, stabilendo legami dilunga durata.

La forte presenza tedesca nel settore delle costruzioniferroviarie si unisce ad una parallela presenza delFraunhofer Gesellschaft, cioè della rete universitaria disupporto alle imprese.

Ancora una volta la nostra presenza in Cina può essereaffidata a piccole e medie imprese capaci di stabilire rap-porti stabili e certi con operatori locali, noi proponendo lenostre tecnologie e richiedendo apporti conoscitivi ai

nostri partner locali, ma non può ridursi a queste soleazioni individuali. Nell’estrema difficoltà tutta italiana dicoordinare azioni di sistema, la nostra presenza potrebbeessere più incisiva se proponessimo noi temi oggi signifi-cativi per la Cina, su cui organizzare la varietà di cono-scenze proprie delle imprese, ma anche delle università e

delle nostre strutture di ricerca.Lo stesso rapido processo di trasfor-

mazione della Cina può essere alloraun’opportunità per la nostra econo-mia. La crescita di un nuovo ceto diborghesia urbana genera una doman-da di beni di lusso tipicamente italiani,lo sviluppo produttivo richiede fornitu-re di macchine sempre più personaliz-zate, la necessità di garantire la sosteni-bilità ambientale dei processi di crescitarichiede tecnologie e competenze nel

settore del rilevamento dei danni ambientali, del monito-raggio e del disinquinamento.

Ancora una volta la possibilità di cogliere questadomanda richiede però una volontà da parte del paese dirilanciare le proprie capacità industriali, certamente richie-dendo alla Cina di garantire le regole del “fair trading”,ma anche ponendosi in gioco come sistema produttivo,educativo, di ricerca.

Sia tuttavia evidente che un quadro così articolatorichiede una risposta altrettanto articolata sia a livellonazionale che europeo. Dopo una fase avviata dalla pre-cedente Commissione europea, tesa a stabilire fra Unioneeuropea e Cina un confronto rivolto a presentare l’Europa

nel suo insieme come il partner unitarioper il nuovo protagonista asiatico, inquesta fase sembra che l’Europa debbamisurare anche in Estremo Oriente lasua nuova debolezza, presentandosidivisa agli appuntamenti politici edeconomici mondiali.

Il rilancio di un forte discorso euro-peo è oggi una necessità per garanti-re lo sviluppo di un sistema produttivocome il nostro che rischia di essere

sempre troppo frammentato per disporre di una pre-senza stabile sui mercati globali.

Si tratta quindi di vedere la Cina come un’opportunitàper riposizionare il paese nel contesto globale, a partiredalla nostra posizione in Europa.

“La nostra presenza in Cinanon può ridursi ad azioni indi-viduali. Dovremmo proporretemi significativi oggi per laCina, su cui organizzare lavarietà di conoscenze propriedelle imprese, ma anche delleuniversità e delle nostre struttu-re di ricerca”.

“Il rilancio di un forte discorsoeuropeo è oggi una necessitàper garantire lo sviluppo di unsistema produttivo come ilnostro che rischia di esseresempre troppo frammentatoper disporre di una presenzastabile sui mercati globali”.

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Un nuovo indicatore recentemente elaborato dallaBanca d’Italia aggiorna le misurazioni effettuabili in mate-ria di competitività rendendole maggiormente rispon-denti ai nuovi trend dell’interscambio globale. In partico-lare, le nuove statistiche aumentano da 25 a 62 il nume-ro dei paesi considerati in competizione con l’Italia nelsettore manifatturiero. Entrano così nel campione deinostri competitor anche importanti economie asiatichequali la Cina.Nel dettaglio, secondo le nuove elaborazioni, i primiquattro concorrenti dell’Italia risultano la Germania, laFrancia, gli Stati Uniti e il Regno Unito con un pesocomplessivo del 46%.

Tra le economie emergenti, la Cina assume il peso piùelevato (3,3%) tra i concorrenti dell’Italia. Nel loro insieme, i paesi asiatici entrano con un peso dicirca il 10% nel nuovo indicatore di competitività dellenostre imprese manifatturiere.

Come risulta evidente dal grafico, negli ultimi cinqueanni una perdita di competitività è stata segnata sui mer-cati internazionali dei beni manufatti da Germania,Francia e Italia. La perdita di competitività del nostropaese è, tuttavia, significativamente maggiore di quellaregistrata dai nostri maggiori concorrenti europei.

LA COMPETITIVITA’ DEI PAESI ASIATICIIl nuovo indicatore messo a punto dalla Banca d’Italia

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COMPETITIVITÀ: CHI PERDE DI PIÙ IN EUROPA?(indicatore costruito sulla base dei prezzi della produzione dei manufatti)

Fonte: Ufficio Studi BNL

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La presentazione del primonumero di “Global Competition– L’impresa italiana nell’econo-mia globale” ha dato l’occasioneper sviluppare e dibattere, nelcorso di una Tavola Rotonda,svoltasi nella sede dell’Associa-zione della Stampa Estera aRoma, alcune riflessioni formula-te dalla Rivista sulle grandi tra-sformazioni che hanno caratte-

rizzato l’ultimo ventennio nel contesto dei cam-biamenti dello scenario geo-politico mondiale.Ha aperto il giro di tavolo Franco Venturini,esperto di politica internazionale ed editorialistadel “Corriere della Sera” che ha richiamato l’at-tenzione sui problemi che l’Europa cerca infrut-tuosamente di affrontare e risolvere. L’Europa –è il pensiero di Venturini – non riesce a curare ilsuo mal di democrazia. Per anni si era dettogiustamente che l’Unione era troppo lontanadai cittadini, che occorreva coinvolgere i popolinel processo integrativo. Ma quando la parola èpassata agli elettori con il risultato di affondarela nuova Costituzione e di far vincere la sindro-me della paura anche in Germania, l’auspicata

democrazia si è rivelata un boomerang chelascia la Ue avvilita e divisa.L’insicurezza che si esprime nelle urne (e nonilludiamoci che il fenomeno riguardi soltantopochi paesi) ha posto con forza all’Europa il piùdecisivo dei suoi molti problemi: come evitareche consenso democratico e competitività eco-nomica entrino stabilmente in conflitto? Comeimpedire che elettorati timorosi di unirsi ai 20milioni di disoccupati europei frenino o impedi-scano ragionevoli riforme modernizzatrici?Obbligata a riconoscere un dilemma tanto com-plesso e tanto cruciale per il suo futuro,l’Europa avrebbe dovuto come minimo ricoprirenel concetto di solidarietà il motivo più profon-do del suo (fino a ieri) successo. Non è così. Sicomprime il bilancio 2007-13 fino alla sogliadell’1.03% del PIL europeo per conquistare l’ap-poggio dei contribuenti netti di Olanda eSvezia, ma anche quello tacito della Germaniache non vuole spendere un euro in più, e forseanche quello della Francia che vuole conteneregli esborsi mentre restano intatti i finanziamentialla politica agricola.Non mancano in questo periodo giri di valzerdei governi europei (il riferimento va a Tony

Appuntamento...con il dibattito su concorrenza e competitività

GLI INTERVENTI

Interventi di Franco Venturini (giornalista esperto di problemi internazionali), StefanoMicossi (Direttore Generale Assonime), Guido M. Rey (Scuola Superiore S. Anna diPisa), Maurizio Sella (Presidente ABI), Giampietro Nattino (Amministratore DelegatoBanca Finnat Euramerica), Franco Varetto (Direttore Generale Centrale dei Bilanci) ePaolo Gnes (Presidente Centrale dei Bilanci e Cerved B.I.) alla presentazione del primonumero della Rivista “Global Competition”.

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Blair, ma anche a Barroso, a Zapatero, aBerlusconi, ecc.). Non sono sufficienti a consola-re l’Europa. Il nodo del bilancio europeo restacomplicato. Sullo sfondo – annota Venturini –rimane l’esigenza di un risveglio politico-istituzio-nale. Di un’“avanguardia” europea che prendaa modello l’odierna concertazione nell’Euro-gruppo e preceda i vagoni più lenti, riempien-do di volontà politica lo strumento tecnico dellecooperazioni rafforzate. Di un gruppo di testanel quale, e questo noi italiani dovremmo capir-lo sin d’ora, non esisteranno posti riservati nem-meno per i soci fondatori. Non soltanto perchécon tale formula verrebbero escluse la GranBretagna, la Spagna e la Polonia, ma ancheperché a fare la selezione saranno la capacità diiniziativa e la credibilità dei singoli paesi e deiloro governi. Forse hanno ragione i tedeschi,che parlano di rilancio nel 2007. Ma se nel frat-tempo l’Europa non si sarà data i mezzi peraffrontare la sfida del consenso democratico, ilrilancio rischierà di fallire prima di cominciare.

Una prima risposta, con specificoriferimento all’Europa e ai proble-mi economico-sociali che attana-gliano il Vecchio continente èvenuta da Stefano Micossi,direttore generale di Assonime(l’Associazione che riunisce lesocietà per azioni italiane).Micossi è partito da una constata-zione troppo spesso trascuratanel dibattito sull’attuale momento

economico e sulle sue prospettive: l’economiamondiale va bene, molto bene, da quasi undecennio. Vanno male solo i paesi dell’Europacontinentale, in particolare la Francia, laGermania e l’Italia. Vanno male perché hannoseguito politiche sbagliate di fronte alla globaliz-zazione: frenando l’integrazione, proteggendoproduttori domestici inefficienti, cercando diimpedire invece che assecondare il cambiamento.Secondo Micossi, per anni direttore generaleper l’industria alla Commissione europea, le poli-tiche industriali sono da tempo state abbando-nate dall’Europa, per lasciare il passo a politiche“orizzontali” tese a creare condizioni favorevoliper le imprese e l’investimento. Ma ogni sistemaeconomico funziona – ha annotato – se ha unbuon sistema per gestire il rischio di perdere illavoro. Non esiste un modello unico, ma diversimodelli appaiono soddisfacenti (più o meno).Quello che certamente non funziona è unadifesa rigida dei posti di lavoro: così le aziende

muoiono lo stesso, e inoltre si distruggonomolte possibilità alternative di investimento e diinnovazione. Di qui nasce la discussione deimodelli svedese e danese: dall’esigenza di pas-sare a una difesa flessibile delle persone disoc-cupate, abbandonando al loro destino impreseche non possono più sopravvivere nel nuovocontesto globale.E l’Italia? Secondo Micossi, l’Italia è un casoestremo di protezione rigida dell’esistente. Sedovessi indicare dove mettere le mani – hadetto polemicamente Micossi – “metterei alprimo posto la ricostruzione delle istituzioni pub-bliche: la prima politica industriale che possiamofare è di ricostruire lo Stato, di combattere la cri-minalità organizzata, di fare funzionare la giusti-zia e la scuola, di aprire l’università al merito ealla selezione. Subito dopo, al secondo posto,metterei l’apertura del mercato dei servizi: utili-ties, nazionali e locali, distribuzione commerciale(dove le cose già si stanno muovendo da qual-che tempo), professioni e altri servizi personali.Solo al terzo posto comincerei ad occuparmi dipolitiche per l’innovazione, che dovrebberoseguire la linea europea di creare un ambientefavorevole al cambiamento, più che sostenere eaiutare singoli soggetti”.

Replica immediata di Guido M. Rey, professoreall’a Scuola Superiore S. Annadi Pisa, che ha posto l’accentosui problemi della competitivitàdell’industria italiana. Il prof.Rey ha innanzitutto richiamatol’attenzione sul concetto dicompetitività che – ha detto –non va confusa con la concor-renza (nel nostro paese ilnumero delle imprese è elevato e non emergo-no apparentemente situazioni di posizionedominante).Per il prof. Rey, il tema della competitività nonpuò e non deve essere affrontato in terminiaggregati, ma va studiato settorialmente.L’aggregazione va perciò effettuata rispetto allafiliera di riferimento, ossia ai comparti produttiviche compongono il settore non solo dal puntodi vista manifatturiero ma allargando l’orizzonteal settore dei servizi innovativi. Questo schemaconsente di individuare i settori in crisi e dinotare che questi dovevano essere abbandonatida almeno venti anni ma non per il prodotto,poiché i bisogni dei consumatori sono sostan-zialmente stabili, ma perché non hanno saputo

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innovare e si sono addormentati al riparo dellesvalutazioni competitive, della protezione delmercato comunitario e dell’evasione fiscale eparafiscale. La crisi non è di questi ultimi annima discende dall’incapacità di prevedere le con-seguenze dell’adesione del nostro paese all’eu-ro unita alla mancanza di linee guida per lo svi-luppo di questi settori. Fra le carenze di indiriz-zo possiamo annoverare anche la mancanza diselettività da parte del sistema bancario ma aloro giustificazione si può ricordare che in que-sti anni le banche erano concentrate sulla ricer-ca della loro competitività.Il fatto che ci siano delle medie imprese di suc-cesso non deve nascondere la contraddizioneitaliana dove si assiste da oltre trent’anni allacrisi delle grande industria, prima pubblica eprivata, adesso solo privata. In questo ambito lafinanziarizzazione delle grandi imprese nonsembra essere compatibile con la crescita dellagrande impresa produttiva. L’uscita dello Statodalle imprese pubbliche ha creato un campo diattrazione per la grande finanza che ha sempreavuto come aspirazione l’entrata nei settori pro-tetti dei servizi pubblici. Questo cambiamentonella proprietà non si è accompagnato a unapolitica antimonopolistica, che non deve limi-tarsi agli aspetti tecnologici ma deve toccare gliassetti proprietari, perché la saggezza popolareci ricorda che il lupo perde il pelo ma non ilvizio…Questo richiamo si associa a quello del poten-ziamento delle infrastrutture materiali ed imma-teriali che per troppi anni sono state penalizzatedallo scontro fra le lobby che hanno paralizzatoil paese con la scusa del disavanzo pubblico edel debito pubblico. Adesso le condizioni ester-ne sono cambiate perché il settore pubblico èstato ridimensionato, i sindacati hanno accetta-to la concertazione, i tassi di interesse sonosostanzialmente uguali a quelli dei concorrentiesteri, l’inflazione è sotto controllo; spero che lafantasia delle lobby si sia esaurita anche se è soloun auspicio perché la Cina è vicina e io non capi-sco il nesso con la perdita di competitività dell’e-conomia italiana.Le grandi imprese devono capire, ma questoinvito va esteso anche ai mercati finanziari, chela crescita non si realizza riducendo i costi, ed inparticolare i costi del personale, ma aumentan-do il valore aggiunto; ossia, la produttività cre-sce se aumenta il numeratore e non se diminui-sce il denominatore perché si rischia di perdereun patrimonio di conoscenza e di legami internied esterni che difficilmente si possono in segui-

to ricostruire. Questa strategia difensiva alimen-ta un processo di involuzione che non favoriscel’innovazione di prodotto, di processo e di orga-nizzazione e soprattutto la crescita e la diffusio-ne della conoscenza mediante le tecnologiedell’informazione e della comunicazione. Tengoa precisare che – ha annotato il prof. Rey - nonsto difendendo i posti di lavoro obsoleti ma stosuggerendo di valorizzare prima di tutto lepotenzialità di capitale umano presenti nell’im-presa specie nella grande impresa. Informazione e conoscenza sono i fattori chiavedell’innovazione e sono anche i fattori che defi-niscono la capacità di concorrenza e di succes-so sul mercato perché favoriscono la trasparen-za dei comportamenti.Un accenno infine al ruolo che può e devesvolgere il sistema bancario, specie nella nuovadefinizione di banca universale, per aiutare leimprese a crescere, ad innovare e a selezionaregli investimenti da finanziare. L’occasione forni-ta dall’introduzione dei principi di Basilea 2non va sprecata per la parte che richiama lagestione del rischio mediante modelli di analisisofisticati. Se il sistema bancario non si dota dicompetenze tecniche che possano analizzare legrandi linee di innovazione ed in particolare ladiffusione e l’utilizzo dei servizi in rete da partedelle imprese, non solo nei rapporti con lebanche, si corre il pericolo di ripercorrere vec-chie strategie di protezione dei finanziamentibasati sulle garanzie reali, finanziarie o politi-che, e quando si punta sulle garanzie si privile-giano gli aspetti di recupero del credito piutto-sto che la minimizzazione della probabilità diescutere la garanzia. Intuisco la difesa dei ban-chieri ma finché non entrano nella conoscenzadella banca anche le valutazioni degli aspettitecnologici e quindi la banca diventa a pienotitolo una banca universale, l’orizzonte tempo-rale dell’innovazione sarà sempre troppo brevee fra le anomalie dell’economia italiana conti-nueremo ad osservare l’ampiezza del capitalecircolante come conseguenza delle difficoltà difinanziamento delle imprese, specie delle gran-di imprese incluse le amministrazioni pubbli-che, della mancanza di fluidità nel sistema deipagamenti e di una scarsa attenzione ai servizidi cash management forniti dalle banche alleimprese.Dall’analisi macroeconomica alla riflessione,con dati di fatto, sui cambiamenti intervenuti,sui passi compiuti, sui nuovi scenari che si deli-neano. Ha disegnato il quadro di riferimento ilpresidente dell’ABI (l’Associazione delle banche)

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Maurizio Sella. Dal tempodella “foresta pietrificata” –ha detto – le banche italianehanno fatto grossi passiavanti, si sono ristrutturate esono oggi più efficienti, maguadagnano ancora poco.Come conferma il tasso chemisura la redditività, il Roe,degli istituti di credito che èpiù basso del 3% rispetto alla

media europea.Quanto alle prospettive del rapporto tra banchee imprese, Sella ha ribadito che se i criteri del-l'accordo Basilea 2 “saranno ben applicati porte-ranno straordinari vantaggi per le imprese per-ché ci sarà una migliore erogazione del credi-to”. Sulle priorità più generali per l’Italia, il presi-dente dei banchieri ha sottolineato tra l’altroche è importante creare un ambiente favorevo-le, sviluppare le infrastrutture, portare a compi-mento la legge fallimentare (i cui ritardi implica-no costi pari a mezzo punto di PIL e limitanol’arrivo di investimenti esteri).L’impresa bancaria – ha spiegato Sella – hafatto la rivoluzione negli ultimi 13 anni. Sonostate portate a termine 600 fusioni con un mar-cato aumento delle dimensioni operative di sin-gole banche: “i primi 5 gruppi bancari – ha ricor-dato – coprono oggi il 51% del mercato”. Sonodati di fatto indiscutibili.Anche i prezzi offerti dalle banche italiane – hadetto Sella – sono allineati se non inferiori aquelli dei nostri competitori e questo nonostan-te il peso del fisco sia molto più consistente danoi che negli altri grandi paesi europei: noipaghiamo il 30% di tasse, contro il 28% dellaGran Bretagna, il 22% della Francia e il 18,5%della Spagna.

Ha integrato le annotazionidel presidente Sella il cav. lav.Giampietro Nattino,amministratore delegato diBanca Finnat Euramerica, ilquale ha sottolineato comenel settore finanziario e ban-cario la competizione globaleabbia portato in tutto ilmondo grandi trasformazioni.Anche nel nostro paese si è

sentita la necessità di profonde riforme per ade-guare alle nuove esigenze il sistema impresa.L’Associazione Bancaria Italiana c ha affermatoNattino – ha iniziato un lavoro di importante

innovazione di tutto il settore per mettere lenostre aziende in grado di competere a livellointernazionale. Il compito è molto impegnativo,con alti costi sia economici che umani. Quantogià fatto ed in corso d’opera non è assoluta-mente sufficiente poiché il tutto va coniugatocon una rivisitazione dell’intero sistema, dalleinfrastrutture al mondo del lavoro, al settorefiscale, alla burocrazia. Bisogna mettere gliimprenditori nella condizione di poter compe-tere partendo da basi analoghe con i concor-renti.È un lavoro impegnativo, ha osservato. L’interosistema paese è chiamato a riparametrare l’am-biente produttivo alle nuove esigenze. È unasfida importante ma perseguibile con la buonavolontà di tutti gli interlocutori.

Dopo le banche, le impresemanifatturiere. Ha analizzatola situazione FrancoVaretto, direttore generaledi Centrale dei Bilanci, il qualeha osservato che per moltotempo le imprese italiane, spe-cie quelle di piccole e mediedimensioni, si sono sviluppatefacendo leva sulla loro flessibi-lità, sulla creatività e sullacapacità di rispondere più prontamente emeglio alle esigenze dei clienti. Accanto ai bril-lanti risultati passati faceva peraltro riscontro lascarsa spesa in R&S, l’affermarsi di un modellodi specializzazione fondato sulle produzionitradizionali, l’investimento in innovazionesoprattutto di processo e raramente di prodot-to. La leva del cambio, com’è noto, interveni-va di quando in quando per sostenere leesportazioni.Negli anni più recenti questo modello ha mani-festato i suoi limiti, con una pesante stagnazio-ne produttiva, con significative perdite di com-petitività e riduzioni di quote di mercato nelcommercio internazionale. Crisi specifiche nelcomparto della grande dimensione hanno resopiù acute le difficoltà complessive.L’uscita dal circolo vizioso “piccola dimensione-scarsa R&S-carenza di prodotti innovativi-scarsacompetitività-stagnazione produttiva-bassa pro-duttività-bassi salari-bassa crescita della doman-da e del reddito” richiede un formidabile sforzodi innovazione da parte delle imprese e di irro-bustimento dei processi di internazionalizzazio-ne (di cui la delocalizzazione costituisce solouna componente).

Allo sforzo microeconomico richiesto alle impre-se – ha detto Varetto – deve accompagnarsinecessariamente una prolungata e pervasivapolitica nazionale che costruisca le condizioni dicontorno indispensabili al rilancio industriale.Di particolare rilievo appaiono le politiche:- per la ricerca scientifica, con la definizione dicampi prioritari cui destinare gli investimenti piùconsistenti, con la semplificazione dei rapportiimpresa-università per accelerare il passaggiodelle invenzioni dai laboratori alle aziende, conil favorire l’insediamento di imprese estere high-tech, con il ridare slancio alle facoltà scientifiche;- per la razionalizzazione e l’aumento della con-correnza nel settore dei servizi, favorendo l’affer-marsi di un terziario avanzato;- per il miglioramento del sistema logistico com-plessivo.Quest’ultimo è cruciale anche da un altro puntodi vista. Uno dei fattori di appesantimento delleimprese italiane rispetto a quelle dei paesi euro-pei con cui ci confrontiamo riguarda la maggio-re intensità di capitale circolante operativo perunità di prodotto: ne deriva un eccesso di capi-tale per scorte e, soprattutto, di crediti (al nettodei debiti commerciali) che viene finanziato pre-valentemente con debiti a breve termine chegravano sulle strutture patrimoniali e sui contieconomici (via oneri finanziari). Una logisticaefficiente ed un sistema moderno dei pagamen-ti commerciali, allineato ai termini prevalenti inEuropa, consentirebbero alle imprese italiane diridurre l’indebitamento finanziario senza sacrifi-care il finanziamento degli investimenti fissi, conevidenti benefici anche ai fini di Basilea 2.

Ha concluso il dibattito, conalcune rapide annotazioni, il dot-tor Paolo Gnes, presidente diCentrale dei Bilanci e di CervedB. I., riprendendo il filo dell’anali-si interpretativa delle grandi tra-sformazioni che hanno caratte-rizzato l’ultimo ventennio: l’aper-tura dei mercati internazionali ela globalizzazione dell’economiamondiale, il rilancio del processo

di integrazione europea e l’adozione dellamoneta unica, l’evoluzione del sistema finanzia-rio e bancario italiano, il passaggio della politicadi bilancio dal “deficit spending” al necessarioma faticoso riequilibrio, la crescente difficoltàdell’industria manifatturiera a reggere il confron-to con la concorrenza estera nel nuovo contestodel mercato globale e della tendenziale unicità e

stabilità dei prezzi all’interno dell’eurozona.Questa sintesi interpretativa, che – ha dettoPaolo Gnes – sarà via via approfondita nei suoisingoli aspetti nei prossimi numeri di “GlobalCompetition, consente peraltro d’individuare find’ora alcuni tratti essenziali della linea editorialedella nuova Rivista: la globalizzazione comecontesto con il quale l’industria italiana dovràcontinuare a confrontarsi; il ruolo essenziale chel’Unione Europea può svolgere nell’affrontare laglobalizzazione contenendone i costi e valoriz-zandone le opportunità e quindi l’esigenza diun ruolo proattivo da parte nostra nel promuo-vere il rafforzamento politico dell’Unione e ilruolo dell’Italia al suo interno; la necessità dipreservare la stabilità garantita dall’euro e dallapolitica di riequilibrio dei conti pubblici, da assu-mere come vincolo nell’impostazione delle poli-tiche di rilancio industriale, che dovranno esseredi carattere essenzialmente strutturale, comerichiesto peraltro dalla natura dei problemi darisolvere.

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“La bussola del cambiamento”Mario Deaglio (a cura di) – Ed. Guerini e Associati– Milano – 2005 – pagg. 171 – € 24,50È un vero e proprio atlante della globalizzazionequello che Mario Deaglio ha curato nell’ambito

delle attività del Centro diDocumentazione e Ricerca“Luigi Einaudi”. Le ottantatavole, corredate da altret-tante schede informative,costituiscono infatti la tramadi un viaggio attraverso igrandi cambiamenti checondizionano nel bene e

nel male lo scenario mondiale in questo avvio dimillennio: dai temi demografici a quelli politico-religiosi, dalle grandi rivoluzioni economiche ainuovi equilibri dell’industria e del commerciosenza dimenticare il terrorismo, gli squilibriambientali e il ruolo sempre più importante, maanche ancora scarsamente incisivo, delle grandiorganizzazioni internazionali. Un libro che ha lagiusta ambizione di essere insieme una cartageografica e una bussola: una carta geograficaper capire le difficoltà del cammino di ogniuomo, di ogni azienda, di ogni nazione, unabussola per cercare la direzione giusta senza per-dere l’orientamento. Con una conclusione moltosignificativa: “Il mondo non si aggiusta da sé”.Per affrontare i grandi squilibri, per avviare unapiù equa distribuzione delle ricchezze, per col-mare i divari non solo alimentari, ma anche tec-nologici, sono necessarie scelte aperte e corag-giose. “Una deliberata politica di trasferimentodi risorse – scrive Deaglio – è indispensabile pernon creare un futuro di tensioni a noi e ainostri figli”.

“La Cina non è per tutti” Maria Weber (a cura di) – Ed. Guerini e Associati –

Ed. Olivares – Milano –2005 – pagg. 290 - € 30“La Cina non è per tutti”,curato da Maria Weber,non è uno dei tanti libri cheaffollano le librerie sull’ondadell’interesse creato dallatravolgente crescita delcolosso asiatico. Già il titoloindica che si tratta di unaguida pratica, di una serie

di istruzioni per l’uso, di una serie di analisi utiliper chi vuole in qualche modo avviare qualcheforma di collaborazione commerciale, industrialeo finanziaria con Pechino.Maria Weber, docente di Relazioni internazionaliall’Università Bocconi di Milano, ha infatti raccol-to una serie di contributi di grandi esperti nonsolo italiani partendo dal presupposto, tantospesso citato solo come slogan, secondo cui laCina è soprattutto un’opportunità. Ed è un’op-portunità non solo come mercato, ma anchecome realtà imprenditoriale e come potenzialitàfinanziaria. Una serie di contributi di esperti dei diversi ramieconomici contribuisce ad offrire l’immagine diuna realtà altrettanto interessante quanto diffici-le: in effetti non c’è solo la distanza geografica, cisono colossali differenze dal punto di vista cultu-rale e linguistico oltre che sensibili ostacoli dalprofilo delle norme, delle abitudini, dell’organiz-zazione aziendale e della logistica commerciale.Una serie di casi aziendali di imprese italiane che,con alterna fortuna, sono riuscite ad avviare part-nership di vario tipo con realtà cinesi costituisceun ulteriore spunto per segnalare con estremaconcretezza che se è difficile (e anche costoso)avviare i rapporti sulla strada giusta è tuttaviaestremamente appagante raggiungere risultatipositivi. Per raggiungere l’obiettivo bisogna, tral’altro, stare attenti ai particolari: per esempio seun cinese vi guarda fisso negli occhi più che ungesto di attenzione e interesse nella maggiorparte dei casi è un gesto di sfida.

“Gli enigmi dell’economia”Paolo Savona (a cura di) – Ed. Luiss UniversityPress – Roma – 2005 – pagg. 290 – €16

Il libro di Paolo Savona sembrascritto apposta per smentireun pregiudizio, quello secon-do cui l’economia sarebbetroppo complessa per esserespiegata dagli economisti.Sulla complessità è d’accordolo stesso Savona, anzi negliultimi anni la dimensione deiproblemi è anche aumentatacon nuove realtà come la

moneta unica europea, l’apertura della Cina, lacompetzione globale, le incognite del terrorismo,le innovazioni (e gli scandali) finanziari, le nuove

Libri in vetrina a cura di Gianfranco Fabi

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frontiere tecnologiche. I vecchi strumenti dell’a-nalisi economica, così come le tradizionali formedi gestione della dimensione economica dellasocietà, rischiano di trovare posto nell’armadio dinonna Speranza se non vengono costantementepassate al vaglio della conoscenza e soprattuttodell’aggiornamento. Ecco allora che una guidacome quella di Savona è utile, quasi indispensa-bile, per capire quali sono le nuove relazioni deitradizionali soggetti e in particolare quali i nuovieffetti di vecchi comportamenti. L’obiettivo è cer-tamente ambizioso, quanto indispensabile: farcapire che ogni persona è protagonista di quelsistema chiamato mercato e che ogni scelta,ogni comportamento, ogni decisione ha inevita-bilmente un effetto sugli equilibri generali. È unobiettivo, tuttavia, che viene avvicinato cercandodi appianare le terminologie più aspre, i generiletterari esclusivi, le formulazioni da iniziati. E perchi volesse scavare più in profondità PaoloSavona propone “cento llibri per il viaggio”, unabibliografia aggiornata e documentata per met-tere qualcosa di utile nella valigia della conoscen-za economica: non solo Adam Smith (che tutta-via, giustamente, non manca), ma ancheGasparo Scaruffi che nel 1582 pubblicò “Il discor-so sopra le monete”.

“Oro nero, conti in rosso”Cristina Corazza – Ed. Il Sole-24 ore – Milano –2005 – pagg. 206 – € 24,50

Il petrolio è certamente unodei fattori centrali chehanno permesso e insiemecaratterizzato lo sviluppoindustriale del secolo scor-so. Ma è anche una risorsa,che ha già provocato guer-re e recessioni e sul cui futu-ro gravano preoccupazioninon tanto e non solo per lequantità disponibili (comun-

que non infinite), quanto per le tendenze, talvol-ta apparentemente erratiche, al continuo rialzodei prezzi. Agli inizi del 2004 il petrolio costava30 dollari al barile; nel 2005 ha superato i 50,con punte anche fortemente superiori, e secon-do molti esperti potrebbe salire e superare addi-rittura i 100 dollari entro pochi anni.Quello del petrolio può apparire come una gran-de gioco internazionale, un gioco in cui interessienormi si sovrappongono e si contrastano, in cuipolitica ed economia sono strettamente intreccia-te, in cui le decisioni di pochi potenti possonocondizionare la vita quotidiana di ciascuno di noi.

Un filo d’Arianna per capire quali sono i fattoriche condizionano questo mercato, quali le forzein campo, quali le prospettive, viene fornito daCristina Corazza in un libro (“Oro nero, conti inrosso”) che spicca insieme per chiarezza e profon-dità. Un viaggio attento e documentato tra sceic-chi e uomini d’alta finanza, tra tecnologie diestrazione e analisi delle riserve, tra prospettivedei grandi paesi e ricadute su un’Italia che nonha brillato certo in passato per la sua politicaenergetica.

“Oltre il declino”Tito Boeri, Riccardo Faini, Andrea Ichino,Giuseppe Pisauro, Carlo Scarpa – Ed. Il Sole-24ore – Milano – 2005 – pagg. 296 – € 20

Di fronte a un’Italia conun’economia stagnante euna società appagata sisono moltiplicate negli ulti-mi anni attente analisi epreoccupate diagnosi. Conuna larga convergenza diopinioni sulla necessità diuna svolta che permettaalle imprese di riconquistarecompetitività e alle personedi tornare a guardare confiducia al proprio futuro.

Sui passi avanti, ovvero sulle terapie da adottare,non solo tuttavia c’è una palese difficoltà di cata-lizzare i consensi (anche se la crescita nondovrebbe essere né di destra, né di sinistra), mac’è anche la necessità di dare ossigeno al cantie-re delle idee per evitare di affrontare con le vec-chie ricette problemi del tutto nuovi.La Fondazione Rodolfo Debenedetti ha chiama-to a raccolta alcuni tra i più autorevoli, e vivaci,economisti italiani affidando loro il compito diaffrontare il tema “come superare il declino” conun profilo il più possibile costruttivo. Ne sono natinumerosi rapporti, un convegno e infine un libroche raccoglie la trama delle idee emerse in que-ste occasioni. Con un profilo fortemente costrut-tivo e con una sorpresa. Il profilo costruttivo èdato dal fatto che si tratta di proposte largamen-te attuabili in tempi brevi: dalle vere liberalizzazio-ni alle regole per i mercati finanziari, dall’abolizio-ne dei concorsi universitari all’impiego delle risor-se europee per la ricerca. La sorpresa è che lagran parte di queste riforme sarebbero, dal profi-lo finanziario, praticamente a costo zero. Certoresterebbe il costo politico. Ed è in fondo perquesto che riforme di questo tipo incontranotante difficoltà.