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Europa e Cina, due grandi civiltà delle opposte periferie dell’Eurasia, oggi unite dal mercato globale: come confrontarsi con la “diversità culturale”? Questa è la sfida cruciale del XXI secolo! Franco Mazzei Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”

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Europa e Cina, due grandi civiltà delle opposte

periferie dell’Eurasia, oggi unite dal mercato globale:

come confrontarsi con la “diversità culturale”? Questa è la sfida cruciale

del XXI secolo!

Franco Mazzei

Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”

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Il jazz è un immenso calderone culturale. E’ venuto formandosi su base ritmica africana, con la deportazione degli schiavi neri in America, sovrapponendo ai ritmi esotici la lezione armonica eurocolta (e conservando, ad ogni modo, alcune tipiche scale forestiere), alimentandosi di giorno in giorno, di ora in ora, con i suggerimenti musicali provenienti pressoché dappertutto, e dividendosi infine – com’era naturale che fosse – in molte “correnti” diverse. E anche quei Paesi che, geograficamente e culturalmente, sembrerebbero più lontani dal verbo jazzistico, più restii ad accettarne la sintassi, la cadenza, le parole, risultano a conti fatti più vicini di quanto non si pensi. Di musicisti jazz cinesi, in realtà, non è che ce ne siano tantissimi. Però se estendiamo lo sguardo ai Paesi confinanti, gli esempi non mancano. C’è un pianista, celebre, che da tempo furoreggia in ambito new age e che in più occasioni si è avvicinato alla musica afro-americana: Ryuichi Sakamoto. Cuong Vu, invece, è un trombettista vietnamita che da qualche anno milita nel Pat Metheny Group, incantando ogni volta le platee con degli assoli di grande liricità. Anche Nguyen Lee, grande virtuoso della chitarra elettrica, è vietnamita. E poi… E poi niente. Diciamoci la verità, il tentativo appare disperato. Di jazzisti cinesi non ce ne sono. Basta affidarsi a quel formidabile cane da fiuto che è il più popolare motore di ricerca sul web, digitando “jazzista cinese”, ed il risultato sarà tanto triste quanto univoco: “La ricerca non ha prodotto risultati in nessun documento”. Chi è aduso ad effettuare ricerche in internet, sa molto bene che una risposta del genere la si ottiene raramente, e quando capita, è il caso di dirlo, “non ci stanno santi”. In ogni caso, se i cinesi guardano scarsamente al jazz, non vuol dire che i jazzisti facciano lo stesso, anzi. Giulio Martino – direttore artistico della Federico II Jazz Orchestra, e sassofonista dell’ensemble che suonerà stasera – lo sa molto bene, ed ha schierato con puntualità un pugno di brani dagli occhi a mandorla. “Oriental Folk Song”, “Miyako”, “Mahjong”, sono tutti pezzi firmati dal leggendario Wayne Shorter, l’ultimo dei quali prende il titolo dal famoso solitario cinese; il penultimo, invece, dal nome che il sassofonista statunitense volle dare a sua figlia. “Specchio” è una partitura originale, di Martino, che inizialmente recava un titolo giapponese (e che ha voluto, convenientemente anche per chi scrive, tradurre). “Autumn in New York” (di Vernon Duke, interpretata da Billie Holiday, Frank Sinatra e moltissimi altri tra i “big”) e “April in Paris” (sempre di Duke) rappresentano il tentativo – ad opera dello stesso Martino - di fare una “viaggio musicale” da Oriente a Occidente, fermandosi in alcune città tra le più rappresentative al mondo. Apprezziamo, almeno, il tentativo. Stavolta, onestamente, non era facile…

Stefano Piedimonte

Programma musicale Oriental Folk Song (Wayne Shorter) Mahjong (Wayne Shorter) Mijako (Wayne Shorter) Autumn in New York (Vernon Duke) April in Paris (Vernon Duke) Specchio (Giulio Martino) East Of The Sun (Brooks Bowman) Soft Winds (Benny Goodman)

Ensemble Federico II Jazz OrchestraGiulio Martino (sassofoni) Flavio Guidotti (piano) Michele Fiore (basso) Giovanni Romeo (batteria)

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Prof. Franco Mazzei

Grazie ad una solida preparazione storico-filologica unita alla padronanza di metodologie proprie delle scienze sociali, Franco Mazzei ha affrontato i complessi nodi dell’Orientalismo contemporaneo spaziando dalla storia antica a quella contemporanea, dalle issues geopolitiche ai temi della transculturalità. Iniziata la sua formazione universitaria all’Augustinianum della “Cattolica” di Milano dove ha studiato neotomismo, attratto dagli studi areali si è trasferito all’“Orientale” di Napoli (oggi Università degli Studi di Napoli “l’Orientale”), dove si è laureato in Lingue e Civiltà Orientali.

Specializzatosi presso l’Istituto Storiografico di Tokyo, ha condotto ricerche sui codici Tang (VII-VIII sec.) e la loro diffusione in Giappone pubblicandone, per la prima volta in

una lingua occidentale, il capitolo sul “diritto di famiglia”, cellula essenziale del sistema burocratico-centralizzato proprio della tradizione politica sinica. Dal 1968 al 1971 è stato visiting professor all’Università di Studi Stranieri di Tokyo.

Tornato a Napoli, nel 1979 è diventato Professore Ordinario di Storia e Civiltà dell’Estremo Oriente presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’“Orientale”, di cui nel 1983 è stato eletto Preside. Dal 1985 al 1993, in qualità di esperto, è stato consigliere presso l’Ambasciata d’Italia in Tokyo, continuando a collaborare con il MAE anche dopo la conclusione della sua missione.

Rientrato in ruolo, ha tenuto corsi di Storia Moderna del Giappone, Relazioni Internazionali, World Politics, Storia e Istituzioni della Cina. Nel 1998 è stato di nuovo eletto Preside.

Ha pubblicato numerosi saggi e monografie ed una decina di volumi, fra cui Ilcapitalismo giapponese (1978), La transizione dal Feudalesimo al Capitalismo in collaborazione con Soubul, Wallerstein e altri (1986), Japanese Particularism and the Crisis of Western Modernity (1999), La nuova mappa teoretica delle Relazioni Internazionali (2001) e recentemente in collaborazione con Massimo Galluppi Campania e Cina (2004).

Ricopre incarichi in varie organizzazioni scientifiche ed è membro di numerose organizzazioni culturali. Ha ottenuto riconoscimenti in Italia e all’estero, fra cui l’Onorificenza concessa da S.M. l’Imperatore del Giappone per meriti culturali.

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Gli articoli degli incontri si trovano all’indirizzo:

www.comeallacorte.unina.it

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Messaggerie orientali Confucio, l’occidente ed il mercato

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

MESSAGGERIE ORIENTALI

Pasquale Ciriello

Rettore Università degli Studi di Napoli "L'Orientale"

Desidero anzitutto ringraziare

l’Università Federico II di Napoli, e il suo

Rettore Guido Trombetti, per avere accolto

con grande disponibilità la proposta di

invasione di campo che l’Orientale ha

avanzato – con le sue Messaggerie Orientali

– nel ciclo di conferenze “Come alla corte di

Federico II”: si tratta di un segnale –

magari piccolo, ma non per questo meno

significativo – di come due Atenei contigui

possano proficuamente e fattivamente

lavorare insieme.

Sin dall’avvio dell’esperienza di

queste conferenze ho sempre ritenuto che

si trattasse di un’iniziativa intelligente e

destinata ad avere successo. Ciò, per

almeno due ordini di motivi: anzitutto, il

suo rivolgersi non solo ad un pubblico di

addetti ai lavori, ma anche ai comuni

cittadini intellettualmente curiosi,

attraverso la scelta di temi di grande

respiro, da affrontare con linguaggio non

paludato; in secondo luogo, la sua evidente

finalità di “aprire” l’Università alla città,

restituendole ed esaltando quel ruolo di

sede di riflessione culturale che dovrebbe

rappresentarne la cifra essenziale.

Forse la presenza dell’Orientale –

che non vanta un’anzianità paragonabile a

quella della Federico II, ma che con i suoi

circa tre secoli di storia ha ormai superato

la soglia dell’adolescenza – varrà a rendere

ancor più evidente quale sia il peso che, nel

contesto cittadino e campano, riveste il

sistema universitario: un patrimonio di

esperienze e di saperi su cui sarebbe

delittuoso non puntare per ogni ipotesi di

rilancio dei nostri territori.

L’Orientale è nato come la più antica

scuola di sinologia e di orientalistica

d’Europa, secondo un modello che fu

successivamente importato in Francia da

Napoleone Bonaparte. È conosciuto per la

ricchezza e la varietà delle lingue, delle

letterature e delle culture asiatiche,

mediorientali, africane ed est-europee che

vi si insegnano. Oggi l’Ateneo è cresciuto:

attorno al suo nucleo fondante e costitutivo,

si sono formate una Facoltà di Scienze

Politiche ed una Facoltà di Lingue attente

alle dinamiche culturali dell’occidente,

all’integrazione europea, ai problemi della

comunicazione e del linguaggio.

Il tratto che accomuna le diverse

anime dell’Ateneo è però nella fedeltà

all’obiettivo che all’Ateneo stesso fu affidato

dai suoi fondatori: trasmettere i propri

valori culturali attraverso la conoscenza

dell’altro, del diverso da sé.

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Con questo spirito vorremmo

concorrere – oggi che tanto si parla di Cina,

di Islam, di Oriente – a diffondere una

conoscenza di queste realtà che superi i

tanti stereotipi, le tante banalità che

quotidianamente si rincorrono sul tema. Sia

chiaro: non pretendiamo alcun diritto di

esclusiva su questi argomenti. Vorremmo

solo evitare che l’incontro fra civiltà

plurimillenarie possa risolversi in polemiche,

talvolta di bassa lega, sulla contraffazione

di certi marchi o sull’importazione

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

clandestina di certi prodotti. Anche queste

sono questioni che attendono di essere

risolte, ma certamente esse non debbono

far velo ad un incontro cui possono

dischiudersi ben altre prospettive.

Quali eredi dell’antico “Collegio dei

cinesi” vorremmo che una platea sempre

più vasta si accostasse a questi problemi

secondo un approccio razionale e

scientificamente corretto. Siamo grati

all’Università Federico II per avercene

offerta l’occasione.

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LA CINA AFFASCINA O INQUIETA, MA NON LASCIA INDIFFERENTI

Franco Mazzei

Professore di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente Università degli Studi di Napoli "L'Orientale"

Si dice che la Cina affascina o

inquieta, ma non lascia indifferenti. E

come potrebbe lasciare indifferenti un

Paese che è il più popoloso del pianeta,

che è grande quanto l’intera Europa

dall’Atlantico agli Urali, che ha il terzo

arsenale nucleare ed il primato come

meta degli investimenti diretti esteri, che

è la seconda economia mondiale per PIL

espresso in parità di potere d’acquisto

(PPA), che negli ultimi vent’anni con un

tasso di crescita straordinariamente alto è

diventata l’“officina” del mondo e che

secondo alcune previsioni nel 2040

potrebbe superare gli stessi Stati Uniti? Il

tutto – va aggiunto – tra gravi

contraddizioni e difficoltà interne:

crescenti disuguaglianze socio-

economiche, spaventose “fratture”

regionali, corruzione dilagante nella

burocrazia e nel Partito Comunista, il cui

compito, paradossalmente per noi

occidentali, è quello di inserire l’economia

cinese nella globalizzazione capitalistica.

Si dice che la Cina è immensa; ma

la sua immensità non è meramente

spaziale: certo, la Cina si presenta come

un paese-continente; in realtà per

estensione è inferiore al Canada. La

percezione d’immensità deriva dalla

combinazione del suo estesissimo

territorio con altri due fattori costitutivi di

una civiltà: l’uomo (una popolazione pari

al 20% della popolazione mondiale) e il

tempo, cioè la sua memoria storica

multimillenaria e soprattutto il suo

sviluppo ortogenetico. In effetti, la civiltà

cinese (o confuciana) è l’unica grande

civiltà che abbia avuto uno sviluppo

lineare senza decisive soluzioni di

continuità in senso antropologico

culturale per più di tre millenni. E’ la

combinazione di questi tre fattori che fa

della Cina un “paese fuori della norma”.

Tuttavia, il “pericolo cinese” non è

costituito tanto dall’essere la Cina una

“potenza in rapida ascesa” in senso

geopolitico e soprattutto economico,

quanto invece dalla sua “diversità

culturale”. C’è da aggiungere che la

civiltà cinese – che rappresenta la più

elaborata coerenza estranea ai referenti

fondamentali della civiltà occidentale -

dal bacino del fiume Giallo si è diffusa

gradualmente in tutto il Nord-est asiatico

e che ancora oggi continua ad influenzare

profondamente la cultura dei paesi vicini,

tra cui il Giappone, la Corea e

naturalmente Taiwan, ossia il terzo

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vertice del triangolo economico mondiale

nel suo insieme. Ora, contrariamente alle

ottimistiche ed affrettate proclamazioni

fatte dopo il crollo del comunismo

sovietico, la globalizzazione capitalistica

non si è accompagnata all’universa-

lizzazione dei valori occidentali, ma tende

a radicalizzare il senso di appartenenza al

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gruppo (etnico, religioso, culturale…), che

non di rado si esprime in forme violente.

Ne consegue che una delle grande sfide

per l’uomo del XXI secolo è proprio la

gestione della “diversità”, in primo luogo

tra le due grandi civiltà agli antipodi

dell’Eurasia ma più in generale nella

quotidianità delle relazioni interpersonali.

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DOBBIAMO AVERE PAURA DELLA CINA?

Massimo Galluppi

Professore di Storia Politica e Diplomatica dell'Asia Orientale Università degli Studi di Napoli "L'Orientale"

Dobbiamo avere paura della Cina? A

questa domanda che – per citare un testo

famoso – “si aggira come un fantasma per

l’Europa”, in Campania i due principali attori

interessati – gli imprenditori e i politici –

danno una risposta singolare. Entrambi

ammettono che esiste un “problema” ma

rifiutano qualsiasi responsabilità a proposito

dell’incapacità di affrontarlo.

Gli imprenditori rimproverano ai

politici di non fare abbastanza per

proteggerli dalla concorrenza sleale dei

cinesi e di non aiutarli a sufficienza ad

entrare sul mercato di quel lontano ed

immenso paese. Ma sorvolano pudicamente

sulla struttura familiare e sulla

frammentazione delle imprese, per questo

condannate ad un approccio episodico,

frettoloso, occasionale, privo delle strategie

di lungo periodo e di grande respiro

indispensabili per chi vuole lanciarsi sui

mercati internazionali. Sulla mancanza di

competenze manageriali dotate della

necessaria conoscenza della Cina, un deficit

organizzativo che aggrava la distanza

culturale con un paese erede di una civiltà

millenaria, diversissima da quella

occidentale. Sorvolano, infine, sulla fragilità

del loro assetto finanziario che le priva delle

risorse necessarie per una seria politica

degli investimenti diretti, volano

indispensabile per le esportazioni di merci

occidentali sul mercato cinese.

Senza dirlo apertamente, i politici

accusano gli imprenditori di scarso coraggio

e di incapacità, ma non sono disposti ad

ammettere che governanti che dedicano

gran parte del loro tempo a lottizzare i

vertici delle ASL non sono certo i più adatti

ad attuare le politiche di

‘accompagnamento’ sui mercati

internazionali di cui le imprese campane

hanno un disperato bisogno. Che

organizzare qualche missione diplomatica a

Pechino o partecipare a qualche fiera

campionaria a Shanghai non basta. Che le

politiche di internazionalizzazione centrate

sui distretti industriali sono state un

fallimento. Che la mancata riforma della

macchina amministrativa regionale ha

consolidato le posizioni di potere di una

burocrazia vecchia, sclerotica, reclutata in

passato con criteri clientelari, impermeabile

a qualsiasi serio discorso sul merito, ostile

nei confronti dei suoi elementi più giovani e

meglio preparati, diffidente nei confronti

delle competenze esterne, pretenziosa ma

del tutto inadatta a muoversi sulla scena

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internazionale per esplicare i nuovi compiti

che il governo centrale ha trasferito ai

governi regionali.

E’ chiaro che in una situazione del

genere non si può fare molta strada.

Prendere coscienza di questi problemi e

darsi immediatamente da fare per risolverli

è il primo e indispensabile passo per

confrontarsi con qualche probabilità di

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successo con il mercato cinese. Ma in

Campania questo non avviene. La

conclusione è chiara. Non è della Cina che

dobbiamo avere paura ma di noi stessi,

della nostra incapacità di fugare le ombre

del passato e affrontare, con

l’immaginazione e il coraggio necessari, le

sfide della modernità.

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PARLARE DELLA CINA VUOL DIRE PARLARE DI NOI OCCIDENTALI

Roberto Esposito

Professore di Filosofia Morale Università degli Studi di Napoli "L'Orientale"

Parlare della Cina - come farà con la

sua incomparabile sensibilità culturale

Franco Mazzei alla Corte di Federico II -

vuol dire parlare di noi occidentali. Come

ben sa chi si occupa di filosofia, l'unico

modo non apologetico di affrontare la

propria tradizione è quello di aggirarla,

prendendola per così dire alle spalle, da un

punto di vista ad essa esterno. Perciò, per

decostruire la metafisica greca, Heidegger

cercò di situarsi fuori di essa, come

Wittgenstein interrogava il linguaggio a

partire dal silenzio. Ma perché individuare

questo fuori, questa esteriorità, proprio

nella Cina e non, per esempio, nell'India o

nel mondo arabo?

Perché - questa è la risposta di

Mazzei - per allontanarsi davvero dal nostro

universo mentale, è necessario uscire dalla

koiné indo-europea, non fermarsi ad un

orizzonte, come quello arabo, a noi così

prossimo ed intrecciato sul piano storico e

culturale. E, infine, individuare una civiltà

altrettanto originaria nei suoi testi e nelle

sue tradizioni quanto la nostra. A questo

insieme di condizioni non risponde che la

Cina.

Ma se questo è il senso della scelta

di Mazzei - e dei pochi, grandi, studiosi

occidentali che si sono rivolti alla Cina -

come va condotta la ricerca? Quali sono i

rischi che già nei suoi studi Mazzei è

sempre riuscito ad evitare? Essi sono da un

lato l'etnocentrismo - vale a dire la

tendenza a proiettare la propria prospettiva

sul resto del mondo; dall'altro il relativismo

assoluto in cui si smarrisce il significato e i

confini di identità distinte e non

sovrapponibili. In entrambi i casi quello che

così finisce per restaurarsi è la dialettica,

eminentemente occidentale, dell'altro e

dello stesso, dell'altro nello stesso e dello

stesso nell'altro. La conseguenza inevitabile

è la perdita di quella differenza che sola

consente la vera comparazione: cioè la

presa di distanza da sé, dai propri

parametri, ma anche il ritorno con in più gli

strumenti ermeneutici forniti da un punto di

vista diverso e lontano.

Soltanto questo movimento

ininterrotto di andata e ritorno - dall'Europa

alla Cina e viceversa -, questo sguardo

sagittale attraverso la diversità, consente

un confronto critico con la nostra origine,

con il nostro presente e dunque anche con il

nostro futuro. Mai come oggi - per venire

all'altro grande tema della conferenza di

Mazzei – quando ciò che ha preso nome di

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globalizzazione comporta insieme grandi

opportunità e grandi pericoli, la capacità di

un confronto autentico con chi ci attende

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all'altro capo dell'Eurasia può rafforzare le

speranze in un mondo più pacifico e più

giusto.

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SÌ, VIAGGIARE...

Luigi Spina

Professore di Filologia Classica Università degli Studi di Napoli Federico II

Non so se sia mai venuto in mente a

qualcuno di rivendicare, accanto a tante

altre, le radici odeporiche dell’Europa.

Anche se, per la verità, non v’è traccia di

tale proposta, il fascino di questo sofisticato

aggettivo non avrebbe sfigurato accanto a

tanti altri, apparentemente più

comprensibili, che sono stati evocati nella

famosa discussione sulle radici: cristiane,

greco-latine ecc. ecc. ‘Odeporico’ conserva

la suggestione delle parole greche; indica,

con solenne semplicità, qualcosa che ha a

che fare col viaggio, con la delineazione di

un cammino, di un percorso. Ora, nessuno

vorrà negare che le culture dell’Europa si

sono irradiate proprio attraverso i viaggi, i

cammini aperti nel resto del mondo: nel

bene e nel male, si potrebbe e si dovrebbe

aggiungere. Gli uomini e le donne di cui

parla la storia antica sono stati spesso

grandi viaggiatori, e non solo del mito e nel

mito. Discendere nel regno dei morti o

raggiungere un paese lontano per riportare

in patria una regina rapita sono viaggi che

coesistono tranquillamente in una stessa

opera poetica, nell’epica omerica. A chi

volesse ricordare il verso dantesco che ha

immortalato e reso europeo e moderno il

viaggio di Ulisse, si potrebbe facilmente

obiettare, però, che ‘virtute e canoscenza’

hanno significato, più realisticamente e il

più delle volte, ‘rapina e canoscenza’ senza

per questo attenuare il valore essenziale del

secondo termine del binomio. Chi sa

viaggiare per conoscere, anche nel nostro

mondo di mezzi di trasporto velocissimi,

avrà sempre un vantaggio su chi viaggia

per rapinare, magari anche solo immagini.

Ma al di là del mito, di un viaggiatore antico

possiamo ancora essere fieri, e seguirne le

tracce anche sui sentieri difficili della

globalizzazione. Difficili perché,

paradossalmente, in un mondo globalizzato

il viaggio rischia di essere superfluo: può

essere, infatti, sostituito da surrogati

elettronici, da ingombranti banche-dati, da

motori di ricerca. Allora, delle due l’una: o è

questa la nuova natura del viaggio, virtuale,

appunto, e forse molto meno virtuoso; o,

come in realtà penso, è solo attraverso la

dialettica fra viaggio, per così dire, antico e

viaggio moderno che può continuare la

nostra ricerca di conoscenza e, soprattutto,

di conoscenza dell’altro. Il nostro

viaggiatore antico si chiama Erodoto, lo

storico – forse dovremmo dire il reporter -

di Alicarnasso, vissuto nel VI secolo a.C., e

la sua duttilità moderna è stata già

sperimentata da un giornalista famoso dei

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nostri tempi, viaggiatore per eccellenza,

Ryszard Kapu ci ski. Mettersi in viaggio con

Erodoto, come suona il titolo di un recente

volume del giornalista polacco (Feltrinelli,

Milano 2005), significa non farsi limitare

dalle frontiere e dalle barriere: barriere di

lingua, frontiere costruite dall’uomo.

Significa servirsi, come Erodoto, di

traduttori e di altri viaggiatori, di occhi e di

orecchie capaci di stabilire un contatto

comprensibile con mondi altri, ma

soprattutto significa sperimentare in prima

persona per trovare le risposte: e le

risposte sono in parte, come scrive

Kapu ci ski, nel viaggio stesso, nello

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spostarsi, nel cammino. Anche ai tempi di

Erodoto viaggiavano merci, prodotti,

monete, affari. Ma la Storia, la ricerca sul

campo che il grande storico-reporter ci ha

lasciato, è una storia di uomini e di donne,

immersi certo nei propri affari e affanni, nei

pensieri alti dello stato e in quelli privati

dell’amore, ma proprio perché uomini e

donne. La conoscenza e il racconto delle

diverse culture, in guerra e in pace, rimane

il frutto più duraturo e profondo di ogni

viaggio che scopra con le sue sofferte tappe

il vero valore di una inarrestabile

globalizzazione.

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IL “CICLO AGRARIO” CINESE IN ITALIA

Adolfo Tamburello

Professore di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente Università degli Studi di Napoli "L'Orientale"

L’Italia divenne, come la Cina,

attraverso la storia, una grande produttrice

di riso e seta, condividendo con essa le due

principali voci di quello che si può chiamare

il “ciclo agrario” cinese. La seta, la

conosceva almeno dall’età romana ed

avrabbe continuato ad importarla per secoli

e secoli dalla Cina, anche dopo avere

appreso a produrla.

Non si può precisare quando

impiantasse una prima sericoltura, e certo

non la conosceva direttamente dalla Cina.

Occorreva che Giustiniano la importasse

dalla Persia a Bisanzio e che

successivamente Bizantini ed Arabi la

diffondessero nel Mediterraneo.

L’espansione musulmana, dal secolo

VII, la portava forse in Siria, Cipro, Africa

del Nord e Sud-Est della Spagna. Da lì,

arrivava in Sicilia fra i secoli IX-X. Secondo

Michele Amari, Palermo era il primo centro

di produzione della seta in Italia. Bisanzio la

portava a Catanzaro e a Venezia. Altri

vogliono che l’impianto della sericoltura

avvenisse solo nel secolo XII con Ruggiero

II (1105-1154). Il re normanno, di ritorno

dalla spedizione in Grecia, ove già la

sericoltura prosperava ad Atene, Corinto e

Tebe, deportava nel 1146 prigionieri esperti

nella coltura del baco e nella lavorazione

della seta, per intraprenderne l’arte in

Sicilia. Ma sembra che già per l’incoro-

nazione del 1130 Ruggiero II indossasse un

sontuoso manto di seta, di manifattura

locale, che ci è stato conservato. Era ancora

praticata all’epoca la sola tessitura o anche

la sericoltura era già stata attivata? Nel

primo Novecento, il Della Corte proponeva

che il primo centro di bachicoltura in Italia

fosse la Campania longobarda, che la

sperimentava anteriormente alla seconda

metà del secolo VIII. Per altri, erano

Crotone e Catanzaro, le prime aree di

sperimentazioni sericole e manifatturiere

della penisola.

Nella sua strada verso il Nord, la

sericoltura e la manifattura della seta

raggiungevano Lucca, Firenze, Genova,

Vicenza e Venezia. Della pianta del gelso

che nutriva i filugelli esistevano due specie

principali, la nigra e la alba, sotto varietà

sia selvatiche sia coltivate. Si ritiene, ma

mancano dati certi, che la prima specie

acclimatata nel Mediterraneo fosse la nigra,

la quale precedeva l’alba anche per la

bachicoltura. Il gelso bianco era quello

tradizionalmente usato dai Cinesi, e si vuole

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fosse trapiantato in Occidente con l’inizio o

lo sviluppo della produzione della seta,

quando cominciarono ad essere operati

anche innesti della specie alba sulla nigra.

Un’enigmatica testimonianza proveniente

da Pescia identifica in un viaggiatore di

ritorno dall’Oriente nel 1434, Francesco

Bonvicino, colui che primum exoticam mori

plantam in suam patriam advexit. Il gelso

bianco, originario della Cina o dell’India, a

differenza del moro, provenuto

direttamente forse dalla Persia, trovava le

coltivazioni più sistematiche per i bachi in

Sicilia e Campania.

Un vero ‘ciclo agrario’ cinese si

completava in Italia con la coltura del riso

su campi allagati. Il cereale, chiamato con

nome latino (Oryza), era nativo dell’Asia

orientale.

Si è incerti anche per il riso quando

cominciasse a prodursi nel nostro paese.

Del cereale parlava già Teofrasto, ed i

Romani lo apprezzavano come prelibatezza

esotica, forse dell’Africa, con la specie del-

l’Oryza amylata, ma sembra si astenessero

dal coltivarlo. Nel Reame di Napoli, erano

gli Aragonesi (1282-1516) a patrocinare la

risicoltura, probabilmente dopo che gli Arabi

l’avevano con successo collaudata nella

penisola iberica da poco invasa. Sappiamo

pure che il riso della Sicilia, in piccole

partite, raggiungeva nel Quattrocento

Napoli per il consumo della corte.

Il riso che si produceva in Italia era

l’Oryza sativa japonica, una varietà così

chiamata molti secoli dopo e tutt’altro che

solo nipponica. Diventava un cereale

importante per la vita economica della

penisola dal XV secolo. La prima data che

ne registrava la coltivazione era quella del

1468. In merito ad un reperto d’epoca

anteriore, leggiamo: L’unico ritrovamento

archeobotanico più antico, del XII secolo a

Pavia (Castelletti, 1978), sembra essere

relativo a scarti di materiale importato.

Diffusasi la coltivazione in risaia

stabile su terreni acquitrinosi e di palude,

oltre che artificialmente allagati, la

risicoltura risaliva il Nord della penisola,

attestandosi fra Cinquecento e Settecento

in Emilia, Veneto, Lombardia e Piemonte.

Nel ciclo agrario cinese, che era

allogato in Italia, entravano a pieno titolo i

bufali, di cui alcuni capi erano importati dai

Longobardi già nel secolo VI, sotto Agilulfo.

Dal secolo XII erano allevati in Campania e

dal XIII nella Capitanata. Secoli dopo,

quando il meridione optava per liberarsi

della laboriosa risicoltura e ne assecondava

il trasferimento al Nord, la Campania

tratteneva i bufali per la produzione della

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mozzarella. Nessun allevatore asiatico

aveva mai escogitato un’utilizzazione così

confortante del latte di quel vaccino.

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L’INCONTRO MEDIOEVALE DELLE

ISTITUZIONI EUROPEE E CINESI

Marco Polo parlò per primo

all’Europa della cartamoneta cinese

incontrando l’incredulità di tutti. L’insigne

storico dell’economia Carlo M. Cipolla

scriveva: L’Europa medievale e

rinascimentale conobbe soltanto la moneta

metallica. I Cinesi ebbero moneta cartacea

già nel secolo XIII e anche prima e Marco

Polo nella sua opera ne parla in termini

entusiastici. Ma l’esperienza cinese restò

limitata alla Cina e non passò, come invece

tante altre invenzioni cinesi, nell’Europa del

tempo.

Se comunque per allora la carta

moneta sembra non avesse effetti diretti sul

sistema monetario europeo, non mancano

gli studiosi che sarebbero tentati di

rintracciare alcune influenze cinesi sui

sistemi monopolistici e gli sviluppi

istituzionali intervenuti in Europa nel corso

del Basso Medioevo.

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Già il mondo ellenistico e romano

era ricorso alla politica dei monopolî, sul

sale e le miniere, sull’olio, il papiro, il

pescato, le banche. In Cina, i monopolî

erano assai più antichi e risalivano almeno

all’epoca degli Stati Combattenti (secoli V-

III a.C.). Verso la fine del II secolo a.C.,

precisamente nel 113, l’imperatore Wu

della dinastia Han aveva imposto una

coniazione di monete di rame con un titolo

pari al valore del metallo, al fine di irriderne

le falsificazioni. Roma istituiva un

monopolio sulla moneta nel secolo I d.C.,

estendendolo nel secolo IV al sale, ai

prodotti minerari, al cinabro ecc. Frattanto,

una normativa simile a quella in vigore in

Cina era presa per la seta, di lontana

importazione cinese e che Roma si limitava

a lavorare. Nel Medioevo i monopolî statali

avevano la tendenza, anche ciò

analogamente alla Cina, se non sotto sua

influenza, a trasformarsi in concessioni ed

appalti, così come assumevano forme

monopolistiche le corporazioni sia mercantili

sia d’arti e mestieri.

Un momento di incontro fra politiche

monopolistiche europee e cinesi si sarebbe

quindi rinnovato in Sicilia con lo stato

normanno di Ruggiero II, alla cui corte

viveva l’arabo al-Idrisi, importante

mediatore, sembra, con altri arabi, della

cultura cinese fino in Sicilia. Il sovrano

istituiva un monopolio del sale

apparentemente improntato a quello in

vigore in Cina dal 762. Non si fermava lì.

Pur nell’assetto ancora feudale del suo

regno, pare impostasse i quadri di una

burocrazia centralizzata e specializzata, re-

clutata con criteri meritocratici non dissimili

da quelli che la Cina seguiva da secoli per le

carriere civili e militari dei propri burocrati.

Le riforme del re normanno avevano quindi

un seguito in Inghilterra con Enrico II

(1154-1189), anche lui normanno, nel

programma di burocratizzazione del proprio

Stato; si avvaleva, fra i più fattivi collabora-

tori, di Thomas Brown, il quale era stato al

servizio di Ruggiero II. A sua volta, Fede-

rico II (1194-1250) procedeva sulle stesse

linee di burocratizzazione e centralizza-

zione, firmando con gli Statuti di Melfi del

1231 quello che Ernest Kantorowicz definiva

il certificato di nascita della burocrazia

moderna. Pure Federico II istituiva un uffi-

cio governativo «del sale e del ferro», che

mutuava perfino nel nome il corrispondente

monopolio cinese. Robert M. Hartwell

concludeva che l’introduzione dei metodi

cinesi di amministrazione fiscale presso i

Normanni esercitassero un’influenza

importante sulla struttura economica degli

stati europei nel tardo Medioevo. Ancora

alla fine del Cinquecento Leonardo Massone

di Benevento suggeriva a Filippo II di isti-

tuire un monopolio del sale.

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