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Una vita qualunque Eugenio Izhak Cuomo

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Una vita qualunque

Eugenio Izhak Cuomo

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Una vita qualunque

Eugenio Izhak Cuomo

Alla memoria di mia madre, che nonostante i pericoli

e le difficoltà, ha saputo conservare il mio essere ebreo,

e a quella di mio padre, che con il suo coraggio e la sua dedizione

ha reso ciò possibile.

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Prologo

La mia nascita, beninteso non quella fisica, avvenuta sei anni prima a Napoli, ma la

mia nascita esistenziale, avviene nel momento in cui io, bambino ebreo sballottato nelle

cupe vicende della seconda guerra mondiale, prendo coscienza di me stesso, della mia

identità ebraica. La mia nascita, o se volete, la mia seconda nascita, avvenne dunque a

Bologna, in un grigio mattino dell’aprile del ’45, quando dal giardino della casa di fronte

alla mia, al di là della strada, dove mi trovavo a giocare con amici, sentii la voce di mia

madre gridare: “Bubi, Bubi la guerra è finita”! Non mi era del tutto chiaro, nel suo

significato più profondo, cosa volesse dire esattamente “la guerra è finita”, ma intuivo che

doveva essere una qualcosa di estremamente positivo. Almeno per me. Qualcosa che

poneva fine ad un incubo, a paure inconscie, forse appena avvertite, forse

inconsapevolmente trasmesse dai miei genitori, ma in me continuamente esistenti, che mi

avevano accompagnato fin dai primi anni della mia vita. Nella fuga improvvisa all’età di

un anno da Napoli, mia città natale, in seguito alle leggi razziali; negli spostamenti

continui a Bologna, a Cento di Ferrara, e dopo l’8 settembre 1943, in paesi nella

campagna dell’entroterra bolognese e ferrarese: San Giovanni in Persiceto, Poggio

Renatico, Galliera, San Giorgio di Piano, Cinquanta. Nomi che riecheggiano nella

memoria, appesi ad una storia vissuta inconsciamente, come la storia di qualsiasi

bambino, oggi ritrovati e divenuti reali nei miei diversi vagabondaggi nella zona degli

ultimi anni a cavallo dei due secoli, in una ricerca quasi ossessiva per ritrovare quel pezzo

di vita, così breve, ma per me così significativo; tentando forse di trovare in quei luoghi,

una spiegazione, o le radici dello sviluppo successivo della mia vita.

Ma perchè allora quell'impressione di incubo, di paura, di angoscia dissoltasi quel

mattino della primavera del ’45? Eppure, la notte, dalla casa di campagna di Cinquanta, di

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Pio e Gina Candini, la famiglia di contadini che ci aveva generosamente e

disinteressatamente dato riparo dai nazisti e dai fascisti della Repubblica di Salò, i

bombardamenti degli aerei alleati, che sganciavano bombe a centinaia sulla città

semidistrutta, avevano avuto per me solo il fascino dei fuochi d’artificio; o almeno quelli

che immaginavo fossero tali, non avendone mai visti, di cui forse così mi era stato

raccontato con amorevole bugia, come Benigni a suo figlio, ne La vita è bella, intesa a

difendermi dai traumi della guerra. Né minacciosi erano i soldati del battaglione tedesco,

accampato a cinquecento metri dalla baracca costruita da mio padre nel cortile dei

Candini mentre, nei miei ricordi, cantavano seduti nella neve dolci nenie natalizie, attorno

ad un albero di Natale ornato da radi ornamenti di zucchero. Credo che una risposta

completa non la potrò mai ricevere. Quello che posso fare, ora, molti decenni dopo, rinato

dopo un brutto infarto nel febbraio del 2001, quando buona parte dei protagonisti adulti di

allora, e tra loro i miei genitori, non sono ormai più tra noi, è quello di frugare nella

memoria, tra le carte e le fotografie ingiallite dell’epoca, e raccogliere quello che gli

ultimi pochi sopravissuti sono ancora in grado di raccontare.

E tra i testimoni viventi c’era ancora Enzo, purtroppo deceduto nel 2008, il fedele

attendente di mio padre, ufficiale dell’esercito fino all’8 settembre del `43, che ci ha

seguiti per tutto il periodo della guerra, e che è rimasto anche in seguito, per parecchi

anni, in rapporti di amicizia con la mia famiglia. Enzo mi ha saputo ritrovare all’inizio dei

miei sessant’anni e ha riempito una notevole serie di lacune nella mia memoria

frammentaria di bambino, chiudendo circoli di memorie lasciati involontariamente aperti

dai miei genitori, forse per il pudore naturale di quella generazione a raccontare ai propri

figli.

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Enzo a Casalecchio - 2004

E tra i testimoni, ci sono stati anche Pio e Gina, che ho avuto la forza, e la gioia, di

ritrovare nel 1998 con commozione, appena prima della loro scomparsa avvenuta a

distanza di un anno l’uno dall’altra, giusto in tempo per far loro ottenere il

riconoscimento di Giusti fra i Popoli dallo Stato d’Israele e da Yad vaShem per averci

salvato la vita nel periodo nazifascista. E ci sono tuttora i loro figli, miei compagni di

giochi di allora, Irma e Romano, con i quali continuo a tenere un rapporto fraterno fino ad

oggi. Ma in questo prologo sto anticipando fatti e persone, ai quali va dedicato molto più

spazio, e sui quali mi dilungherò in seguito.

Fu dunque quel mattino dell’aprile 1945 che issato su una jeep di un ufficiale

americano amico dei miei genitori, in mezzo al tumulto della popolazione esultante che

circondava festante i mezzi dell’esercito alleato entrato nella città liberata, tumulto

esploso dopo il profondo silenzio carico di attesa lasciato dall’esercito nazista in fuga, e

nei giorni successivi, che la mia vita cambiò drasticamente, con la presa di coscienza di

un altro me stesso.

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Visioni di quei giorni continuano di tanto in tanto a passarmi a sprazzi davanti agli

occhi, come in un sogno: il palazzo di via Gombruti che racchiudeva le rovine della

sinagoga distrutta, e mia madre, all’ingresso, che mi rivelava la mia identità ebraica; il

gruppo di persone che per la prima volta, dopo gli anni della Shoah (altro concetto nuovo

che cominciai ad apprendere), osavano incontrarsi assieme in quanto ebrei; la scalinata

laterale della sinagoga bombardata, rimasta miracolosamente intatta nel cortile colmo di

macerie, sulla quale mi ritrovai con un ramo di palma tra le mani (era probabilmente nel

periodo della festa di Shavu'ot), con appuntata una bandierina bianca con due righe

azzurre parallele e in mezzo una stella a sei punte; e le prime parole in ebraico recitate:

deghel, deghel lì katán, deghel lì kakhól laván (una bandiera, ho una una piccola

bandiera, ho una bandiera azzurra e bianca); i soldati della Brigata Palestinese

dell’esercito britannico, recanti sulle spalline la stessa bandierina, che alla periferia di

Bologna ballavano la Hora attorno a un falò con i superstiti locali della Shoah; il sapore

nuovo, e mai più dimenticato, dei fagioli in scatola dell’esercito britannico riscaldati sul

fuoco. E come posso dimenticare Gafni, soldato della brigata palestinese, mio primo

maestro di ebraico, che ho avuto l'emozione di rivedere, una volta trasferitomi in Israele,

con i miei quattro figli sabres nel suo villaggio di Kfar Vitkin.

Questi ricordi, che con molta probabilità affiorano in ordine non cronologico,

debbono senza dubbio avere una loro potenza interna, perché non sbiadiscono con il

tempo, come non sbiadiscono le favole raccontateci da bambini, né i miti per i popoli. E

come le favole e i miti, danno, con la loro impronta, indirizzi e contenuti sostanziali allo

svolgersi e al significato di una vita.

E allora forse, in un certo senso, la mia vera nascita esistenziale avviene proprio nei

miei anni sessanta, nel momento in cui, libero dalle incombenze quotidiane di educazione

dei miei figli, già cresciuti, ed a loro volta genitori essi stessi, e di lavoro, reduce dal

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grave infarto a cui sono sopravvissuto, trovo il modo, e la forza di scavare nel passato,

qualche volta non senza pena, per cercare me, quel bambino ebreo privo di identità nei

suoi primi sei anni di vita, vagabondando, interrogando, cercando di comprendere quanto

avvenuto nei successivi decenni fino ad oggi; la mia nascita avviene forse proprio ora, nel

momento in cui, attraverso incontri e seminari a Yad vaShem con sopravvissuti della

Shoah, prendendo coscienza per la prima volta della mia Shoah dopo un lungo diniego,

mi sono reso conto che quei primi sei anni in incognito, troppo a lungo relegati nella

storia di un altro, hanno inciso non poco sulle motivazioni che mi hanno guidato nella

mia vita, ed un peso non indifferente nelle scelte da me fatte successivamente.

Per questo mi concentrerò in seguito su quegli aspetti della mia vita che più

intimamente sono legati a questa “ricerca del tempo perduto”.

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Capitolo 1 – La mia vera nascita

Come ho detto in precedenza, sono nato a Napoli in una bella casa di via Aniello

Falcone, tuttora esistente, almeno fino a pochi anni fa, quando la rividi nei mei

vagabondaggi del passato, a metà strada della salita al Vomero, con una straordinaria

veduta sul golfo e sulla città digradante verso il mare. La mia nascita a Napoli fu un

“caso” della vita, come tanti altri elementi “non lineari“, della mia vita. Intendo dire che

sin dalla mia nascita la mia vita non è stata appunto “lineare”, come quella di tanti altri

bambini. Non sono nato e vissuto nel luogo dove i miei avi avevano vissuto da tempo,

con la stessa religione, etnia, costumi e linee di pensiero. E questo ha fatto di me fin

dall’inizio un "caso", l’"eccezione". I mei genitori provenivano da ceppi nazionali e

socio-culturali diametralmente opposti e il loro stesso matrimonio fu "un caso".

Mia madre, Luisa, nacque all’inizio del ‘900 nella città di San Gallo, in Svizzera,

dove dalla città nativa di Slonim, si era trasferito mio nonno Yossef Lebedkin alla fine

dell’800, dopo aver partecipato ad uno dei primi congressi sionistici. Mio nonno, che

purtroppo non ho potuto conoscere perché morì prima della mia nascita, appartenente ad

una famiglia ebraica lituana vivente a Slonim, in quella che oggi è la Bielorussia, decise

con il fratello Shloime, di tentare la propria fortuna con le rispettive famiglie in un paese

meno arduo. Il caso volle che mio padre Vittorio, cattolico, figlio di un ex sindaco di

Napoli e medaglia d’oro della Resistenza, Eugenio Cuomo, di cui porto il nome, venisse

mandato da mio nonno, commerciante avventuroso di cineserie, a studiare presso l’allora

famoso Istituto commerciale Schmidt, nella stessa città di San Gallo dove si trovava mia

madre, ormai fanciulla nei suoi anni fiorenti. Mio padre e mia madre si conobbero ad un

ballo di gala organizzato dall’istituto, e ballando una sola notte si innamorarono.

Purtroppo, come succede in tutti i romanzi, i fatti della vita furono più forti dell’amore e

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li divisero, e una volta terminati gli studi, mio padre tornò a Napoli. Il caso volle che mio

nonno materno, ormai invecchiato, e rimasto vedovo già da parecchi anni, decidesse nei

primi anni ’30 di trasferirsi a Napoli con mia madre, dove viveva da tempo la figlia

maggiore, Marely, sposata con un ebreo proveniente dalla Bessarabia, Gherz Gherscfeld,

zia a cui sono stato molto legato, fino alla sua morte prematura, e da me a lungo

rimpianta, avvenuta nel 1961. E ancora il caso volle che mia madre, passeggiando in una

via centrale di Napoli, entrasse in un negozio di cineserie, Fior di Loto, di cui mio padre

era titolare, ritrovando così l’amore perduto di qualche anno prima. Il loro matrimonio,

celebrato nel 1936, portò alla mia nascita nel giugno del 1939. E fu ancora il caso che

volle che mia madre ottenne da mio padre, cattolico di nascita ma non praticante, che io

venissi educato come ebreo.

Il negozio di mio padre

Il 1939, anno in cui dopo appena due mesi e mezzo dalla mia nascita scoppiò il

secondo conflitto mondiale, era per un ebreo l’anno meno indicato per nascere. Già

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nell'autunno del 1938, il governo fascista italiano, seguendo la politica antisemita della

Germania nazista, aveva emanato le famigerate leggi razziali, che esclusero gradualmente

gli ebrei dalle cariche pubbliche, dagli istituti universitari e dalle scuole, imponendo loro

restrizioni sempre più pesanti, ed emarginandoli dalla società. Nel ’39 era probabilmente

ancora possibile decidere la religione di figli nati da un matrimonio misto, almeno a

giudicare della lettera che le autorità fasciste inviarono a mio padre, allora ufficiale di

complemento arruolato in seguito allo scoppio della seconda guerra mondiale, lettera che

ho personalmente letto, nella quale gli si chiedeva di dichiarare se io fossi cattolico o di

religione “mosaica”. Mio padre, il quale evidentemente intuiva gli svolgimenti futuri, non

rispose mai a tale lettera, compiendo una grave trasgressione disciplinare e penale, e

lasciò la mia e la sua città natale, facendosi trasferire dall’esercito a Bologna, dove dato il

caos amministrativo e l’entrata in guerra dell’Italia esattamente quando compivo un anno,

le tracce mie e di mia madre in quanto ebrei andarono perdute. Lasciavo la mia città

natale, ma mi separavo anche dai miei amati zii, e dai miei cugini Anita, Rita e Alberto,

che costituivano praticamente tutta la mia cerchia famigliare più prossima. Della famiglia

di mio padre, in lite allora con mio nonno, ho fatto la conoscenza solo molto più tardi, nel

periodo della mia adolescenza, e con parte di loro conservo rapporti di affetto fino ad

oggi. Ma, tranne la nonna paterna, Annunziata, la quale fu sempre molto vicina a me e a

mia madre che me ne ha sempre parlato con amore, la quale non posso purtroppo

ricordare perchè morì poco dopo la fine della guerra, a quel tempo gli altri non erano

ancora legati alla mia vita.

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Gli antenati

Mio nonno

Yossef

Lebedkin

Zio Shloime

con

Le mie

cugine figlie

di Marely

Anita e Rita

Mia mamma

(prima a

sinistra)

con i suoi fratelli

Marely, Teodor e

Fanny

Mia nonna

paterna

Annunziata

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Capitolo 2 – La mia infanzia e la Shoah

Della “fuga” da Napoli e dei primi tempi di vita a Bologna, non ho ovviamente

ricordi precisi, ma solo “fotografie” stampate nella mente, naturalmente o come effetto

della visione di fotografie vere. Ero allora un bambino gracile, e ho vivida la memoria di

un trattamento ai raggi ultravioletti all’ospedale Sant’Orsola di Bologna, nudo con altri

bambini, con occhialini in un box di cui ho ancora "nelle narici" il ricordo dell’odore di

ozono. Altre “fotografie” di quei tempi riguardano le varie case in cui abitammo, il

succedersi di vari attendenti di mio padre, e in particolare dell'ultimo di loro, di Enzo, e

poco altro. I primi veri ricordi, anche se non sempre cronologicamente ordinati, si

riferiscono a Cento di Ferrara, dove mio padre, capitano e vice-comandante di un’unità

addetta alla censura militare, in seguito ai frequenti bombardamenti alleati di Bologna,

venne trasferito con la sua unità portandoci con lui. Era il 1942 e avevo allora tre anni

circa.

Il ricordo di questi bombardamenti massicci, continuati praticamente fino alla

primavera del 1945, sono stati da me quasi completamente rimossi. Solo pochi anni fa

Enzo mi raccontò la terrribile notte in cui mille bombardieri americani bombardarono a

tappeto Bologna e l’adiacente cittadina di Casalecchio, dove abitavamo

temporaneamente, quando corse verso il rifugio più vicino con me sulle spalle che

piangevo gridando: “Enzo, non voglio morire!!!”. Come ho detto, ho completamente

rimosso questi ricordi, che non possono non essere stati traumatici per una vita appena

iniziata.

La vita a Cento fu, all’inizio, una vita tranquilla in una cittadina, piccola, pulita e

tranquilla. Cento è una cittadina medievale, in cui in determinati periodi del ‘500 e del

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‘600 la maggioranza della popolazione era costituita da ebrei, cacciati da Bologna dal

Papa, allora sovrano dello Stato Pontificio che si estendeva fino a Bologna, e richiamati

poi e reimmessi nel ghetto bolognese quando il Papa aveva necessità di prestiti di denaro.

A Cento sussiste ancora la zona del ghetto, oggi ristrutturata pur conservando le sue linee

principali, e in una delle mie puntate alla "ricerca del tempo perduto" dopo la guerra,

trovai tra le rovine della sinagoga un piccolo libro di preghiere per anziani, che testimonia

dell’esistenza di una grossa comunità che prevedeva anche una casa di riposo.

Ricordo la nostra abitazione in una vecchia casa nel cui retro si trovava un orto

enorme, agli occhi di un bambino, in cui amavo giocare all’ombra della vite, e nel quale

riuscii anche a feririmi piuttosto gravemento contro un filo di ferro teso nelle mie corse

sfrenate. Al nostro appartamento si accedeva attraverso una scala, e quell’appartamento fu

per me, dopo i tanti appartamenti in cui avevamo vissuto a Bologna di cui poco mi era

rimasto nella memoria, un appartamento finalmente “nostro” e “definitivo”. Non potevo

immaginarmi, allora, in quanti altri alloggi avrei dimorato in seguito prima di trovare

quello “definitivo”, almeno per un periodo di tempo ragionevolmente lungo.

A Cento i miei genitori avevano anche amici, una famiglia nella cui villa passavo

lunghe giornate assieme a mia madre, e la cui figlia Paola, che ancora vedo di quando in

quando, fu la mia prima amica e complice di giochi erotici infantili. Ricordo ancora i

nostri giochi nel cortile della casa, nei pomeriggi estivi assolati, mentre gli adulti

riposavano dalla calura estiva. Ricordo la drogheria all’angolo della strada dove

abitavamo, piena di merce diversa e di inebrianti profumi di spezie, dove mia madre

usava fare la spesa, e il piccolo sagrato della chiesetta a poca distanza da casa nostra. La

vita si svolgeva tranquilla, giorno per giorno, e giorno per giorno vi erano nuove cose da

scoprire, da godere. Il canapificio locale, allora adiacente alle mura, l’odore acre della

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canapa elaborata, le passeggiate per la cittadina che può essere percorsa da un punto

all’altro in meno di un quarto d’ora, le porte e la piazza medioevale della città, la statua

del pittore Guercino, a cui Cento diede i natali, lo sciamare dei fedeli dalla chiesa centrale

alla domenica.

Attorno a questa mia apparente e superficiale tranquillità soggettiva, in Italia e in

Europa regnava l’inferno. Milioni di ebrei venivano arrestati e deportati nei campi di

concentramento nei quali sei milioni trovarono alla fine la loro morte. Io preso dalla mia

vita tranquilla, protetto ancora da mio padre ufficiale dell’esercito che riusciva a

nascondere l’dentità ebraica mia e di mia madre, non ero conscio di tutto ciò, né gli

adulti, me ne misero al corrente, sia probabilmente per proteggere la mia serenità, che per

evitare che svelassi in pubblico la mia origine ebraica. Ma credo che disagio, ansia,

incertezza e paura, non potevano non essersi infiltrati nel mio subconscio. Enzo stesso mi

raccontò come mia madre gli svelò in segreto di "sapere" che in Germania si stava

perpetrando un olocausto del popolo ebraico.

L’idillio comunque non durò a lungo. L’8 settembre del 1943, dopo la caduta del

fascismo il 25 luglio, con l’armistizio firmato dal Regno d'Italia con gli alleati sbarcati in

Sicilia, l'esercito tedesco invase l'Italia, per tentare di opporsi all'avanzata alleata sul

fronte meridionale. Gli alleati con combattimenti sanguinosi avanzarono lungo la penisola

italiana, conquistando prima Napoli e successivamente Roma e Firenze, e l’Italia restò

così divisa in due. L'estate-autunno del 1944 l’Italia meridionale e centrale fino a Firenze

e la "linea gotica" difensiva creata dai tedeschi sull’appennino tosco-emiliano, era

occupata dagli alleati, mentre al di là, in tutto il nord, si costituiva la Repubblica Sociale

Italiana fascista, con governo fantoccio creato dai tedeschi, con a capo Mussolini liberato

dalla prigionia da Hitler.

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Da quel momento, l’inferno che aveva risparmiato Cento e la mia vita, vi entrò

d’improvviso. Nella Repubblica Sociale gli italiani non si limitavano più ora a

discriminare gli ebrei come avevano fatto sin dalla promulgazione delle leggi razziali del

1938, ma collaboravano attivamente alla caccia all’ebreo da parte degli occupanti

tedeschi, sia per mezzo delle forze dell'ordine, che attraverso delazioni di privati. Dopo la

razzia degli ebrei di Roma da parte dei tedeschi del 16 ottobre del '43, prima della ritirata

verso nord, e la loro deportazione a Auschwitz, ora nella Repubblica sociale italiana i

tedeschi misero sistematicamente in atto la soluzione finale degli ebrei italiani. La

maggior parte degli ebrei che vivevano nel nord dell'Italia vennero rastrellati dai tedeschi

e dai repubblichini italiani, convogliati nel Campo di concentramento di Fossoli, vicino a

Carpi, e successivamente inviati ad Auschwitz, da cui pochi tornarono. Gli ebrei che

risiedevano nella zona di Trieste, vennero rinchiusi nel campo di concentramento della

Risiera, che funse anche da unico campo di sterminio in Italia.

Lo stesso 8 settembre del 1943, saputo dell'armistizio, mio padre si rifiutò di servire

nell’esercito fascista della Repubblica Sociale, e gettò la divisa dopo aver esortato i suoi

sottoposti a fare lo stesso. Da quel momento egli non fu più in grado di coprire la nostra

identità. Ricercato come altri “disertori”, secondo il perverso razionale della repubblica

fascista, e fermato dai tedeschi, gli venne offerto, dal momento che parlava corentemente

il tedesco, di rivestire la divisa italiana e fungere da traduttore tra l’esercito tedesco e gli

italiani costretti a lavorare per l’esercito occupante nel riattivamento di linee ferroviarie

bombardate, presentandogli come alternativa la deportazione, e i lavori forzati in

Germania.

Conscio della necessità di aiutare me e mia madre, ora in pericolo di deportazione in

quanto ebrei qualora ci avessero scoperto, mio padre accettò la proposta. In tale incarico,

sapendo in anticipo dei rastrellamenti che avrebbero effettuato i nazisti, riuscì ad avvertire

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e salvare diverse persone. So per certo, per aver sentito la testimonianza di un’amica di

mia madre a Cento, che egli salvò in tal modo i suoi due fratelli. Da testimonianze

indirette, so anche che molte persone con cui era stato in contatto, avevano documenti

falsi, e come seppi poi da Enzo, noi stessi avevamo documenti falsi. È mia supposizione,

anche se non suffragata da prove concrete ma solo da racconti di mio padre sentiti, anche

se non interamente compresi da me bambino, che questi documenti fossero stati preparati

segretamente nell’ufficio tedesco in cui lavorava come traduttore, forse anche in

collaborazione con i partigiani locali. Ma anche di questa collaborazione ho vaghi ricordi.

È comunque un fatto che poco dopo, una volta trovata per noi, dopo una fuga di villaggio

in villaggio, una sistemazione almeno in apparenza sicura presso la famiglia Candini, mio

padre fuggì, sotterrando definitivamente nell'aia, aiutato da Pio, la sua uniforme.

A tal proposito, vale la pena ricordare, aprendo una parentesi, un episodio

interessante. Nei primi anni del duemila, in una delle puntate nostalgiche con Romano

alla casa colonica "di allora", di cui parlerò in seguito, ci recammo anche a visitare un

casino di caccia nascosto in quella che era stata una risaia, e per questo allora accessibile

solamente con barche. Il piccolo edificio mimetizzato da frasche, chiamato "il casone del

partigiano", funse appunto nel periodo della resistenza al nazi-fascismo da base del

comando partigiano della zona. L’accesso al “casone” non è dei più facili, e oggi sono

poche le persone che lo visitano di rado. All’interno, volantini, nomi di partigiani caduti,

una bandiera e pochi altri cimeli, che testimoniano del suo glorioso passato.

Ciononostante una coppia di coniugi in età molto avanzata, che nella loro gioventù

avevano preso parte alla lotta partigiana, si ostinava a curarsi del luogo, e a raccontare la

sua storia a chi li volesse ascoltare, quasi per giustificare la propria esistenza. Chiesi al

marito se si ricordava per caso di mio padre, ed egli sentendo il nome Cuomo, mi rispose

di ricordarsi vagamente di una persona estranea che ogni tanto faceva apparizione al

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casone. Se la storia sia vera o frutto di fantasie senili di quella persona, o sia

semplicemente frutto del mio desiderio di accertare mie supposizioni su quanto mio

padre, sempre molto parco di parole e di racconti sul proprio passato, avesse fatto in quei

due terribili anni prima della fine della guerra, non c’è più nessuno che lo possa

confermare.

Contemporaneamente ai fatti riportati, anche la nostra vita cambiò bruscamente.

Presagendo come sempre il futuro, come detto mio padre ci evacuò da Cento, e attraverso

peripezie e soggiorni provvisori in varie cittadine del ferrarese e del bolognese, ci portò

infine in una casa colonica di Cinquanta, frazione di San Giorgio di Piano nel bolognese,

dove nel frattempo aveva costruito una baracca di legno nella corte della famiglia

Candini, la quale aveva accettato di ospitarci, dove abitammo per un anno e mezzo circa.

Di questi viaggi, compiuti probabilmente con calesse trainato da un cavallo, ricordo ben

poco. Il calesse e il cavallo erano però probabilmente veri, perchè li ricordo un anno e

mezzo dopo, nel nostro viaggio di ritorno a Bologna. Ma di questo viaggio mi soffermerò

più tardi. Un soggiorno più lungo, credo a Poggio Renatico, fu in una casa di un

professore di medicina, della cui casa ricordo un lungo corridoio fresco dalla calura

settembrina, un teschio umano che mi interessò particolarmente perché perdeva i denti, e

la stanza da letto. Tale stanza mi è rimasta particolarmente impressa perché

probabilmente collegata con la definizione di “quel bambino ebreo privo di identità nei

suoi primi sei anni di vita”. A capo del letto vi era un crocifisso bianco verso il quale tutte

le sere, avendo visto altri bambini farlo, volevo pregare in ginocchio. Con mio dispiacere

dovetti alla fine desistere da ciò perché mia madre mi disse, cosa ovviamente

incomprensibile per me a quel tempo, che noi non usavamo farlo. Non è a caso che mi

impuntassi a farlo, così come a detta di Enzo, quando uscivo con lui esigevo

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instancabilmente di entrare nelle chiese, cosa che Enzo aveva l'ordine perentorio di mia

madre di negarmelo.

Ero probabilmente alla ricerca di una mia identità, necessità primaria in un bambino

di 4 anni, e in quel momento l'dentità era riposta nella religione. È interessante ricordare

un particolare avvenuto nel corso di uno dei seminari per sopravvissuti della Shoah a Yad

VaShem ricordati nel prologo. Nel corso della prima seduta, lo psicologo di AMKHA,

l’organizzazione di psicologhi che si prendono cura dei problemi di chi è sopravvissuto

allo sterminio nazista, che dirigeva il seminario, ci chiese di esprimere in pochissime

parole, d’impulso, il nostro problema principale, senza racconti, quasi un motto. Non è un

caso che senza esitazione risposi: cerco un bambino nei suoi primi sei anni di vita.

Ricordo che vi fu nella stessa occasione chi, essendo stato durante la guerra nascosto da

varie famiglie francesi, e di conseguenza anche cambiato nome ogni volta, nonostante

sapesse benissimo il proprio nome, rispose in lacrime: non so quale nome sarà apposto

sulla mia tomba. Per quella persona il problema dell'identità, come per me quello

dell'dentità religiosa, era riposto nell’incertezza angosciante sul proprio nome.

Iniziò così un periodo, lungo per un bambino di 4-5 anni, di un anno e mezzo, che

anche se non posso definire drammatico, lo ricordo, assieme a piacevoli giornate trascorse

nei campi e nell’aia della casa colonica, in giochi e litigi infantili con Romano, come

avvolto da una nube di incertezze, di paure indefinite e indecifrabili per me bambino. Non

c’è nulla che possa indicare con precisione questa nube, tranne un episodio che racconterò

in seguito, eppure sussisteva, e non può non aver influito sul resto della mia vita. Spesso

l’anima, soprattutto quella di un bambino, quando ci riesce, tende a trovare rifugio nella

negazione, nella rimozione di fatti che turbano, e a ricordare i momenti sereni passati.

Vorrei parlare sia di questi, che tentare di dare forma anche ai primi, perché fanno

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ambedue parte integrante dei miei primi anni di vita, o di quella che ho chiamato la mia

Shoah.

La baracca costruita da mio padre, che non doveva essere più grande di una ventina

di metri quadrati, comprendeva uno stretto e corto corridoio d’ingresso, con un piccolo

gabinetto sulla destra, che conduceva ad una camera da letto quasi completamente

occupata da un letto matrimoniale, dove dormivamo in due, o in tre, quando vi era anche

mio padre, molto spesso per me inspiegabilmente assente. Probabilmente alla continua

ricerca di cibo, o forse in attività segrete di resistenza, da me solo supposte come ho detto.

So per certo, come mi raccontò Pio Candini quando lo ritrovai prima della sua scomparsa,

che egli aiutò mio padre a seppellire la sua divisa nel campo adiacente alla casa colonica,

indicandomi anche il pagliaio dove mio padre si rifugiava quando giungevano squadracce

di fascisti alla ricerca di ebrei e partigiani per consegnarli ai nazisti.

Il sito della baracca nella corte dei Candini

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La baracca non era spaziosa né confortevole, ma era ben riscaldata da una stufetta a

legna, che per un ambiente così ristretto bastava. Del resto la maggior parte del tempo lo

si passava nei campi, in cui mi recavo con gli uomini che lavoravano la terra, tornando

issato su mucchi di fieno per le due mucche dei Candini. Nelle assolate giornate estive si

pranzava all'ombra della vite con quello che c'era e con il vinello preparato dalla famiglia,

e si cenava nella cucina della casa colonica, dove troneggiava un gran forno e una madia

con il pane fatto in casa. Ricordo ancora i prosciutti crudi sotto sale appesi al soffitto, e la

polenta che veniva tagliata in fette con uno spago. Non c’era molto altro da mangiare,

oltre a pane, prosciutto e polenta. Niente zucchero, poche vitamine, fatto che ebbe

probabilmente in seguito conseguenze sulla mia salute, causandomi dopo la guerra

un'adenopatia, forma di tubercolosi chiusa, che mi durò a lungo. Ma era quanto bastava

per non essere affamati. Eppure eravamo in molti. Oltre alla famiglia e ai famigliari, oltre

a noi i Candini avevano ospitato anche tre persone imprigionate dai fascisti perché si

erano rifiutate di servire nell’esercito repubblichino, trovate nei campi dopo la fuga dal

carcere bombardato. Ma in qualche modo c’era sempre del cibo. La vita d’inverno era

invece più dura. Il lavoro nei campi era sospeso, e il freddo intenso che portava la

temperatura sottozero, non ci permetteva di giocare nell’aia. Spesso Romano ed io ci

rifugiavamo nella stalla, e ci riscaldavamo al calore delle mammelle delle mucche, che ci

trattavano come fossimo loro vitellini.

A proposito delle mucche mi viene in mente una storia raccontata da Gina Candini, al

momento della consegna della medaglia di Giusti tra i Popoli da parte di Yad VaShem.

Come ho detto in precedenza, ho avuto la gioia di ritrovare la famiglia Candini, e in

seguito alla mia segnalazione, nel 1998 Yad VaShem conferì a Gina e Pio il

riconoscimento e la medaglia di Giusti tra i Popoli, per aver salvato ebrei nel corso della

Shoah. Purtroppo, sia pure dopo aver ricevuto la traduzione in italiano del riconoscimento

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che gli inviai immediatamente, Pio morì prima del conferimento della medaglia da parte

del rappresentante dell'Ambasciata d'Israele. Ma restava Gina, ricoverata con problemi

gravi alla gamba, e la cerimonia venne organizzata nella biblioteca dell'ospedale. Lì, Gina

commossa e imbarazzata davanti a personalità, giornalisti e il TG3, raccontando in breve

la "nostra storia", mi disse "La tua mamma mi salvò le mucche, sgridando in tedesco i

soldati tedeschi che volevano sequestrarle!" (mia madre, essendo nata in Svizzera,

conosceva perfettamente il tedesco). Al ché, ugualmente commosso, le risposi "Allora,

Gina, siamo pari. Io ti ho salvato le mucche e tu la mia vita!". Il racconto è simbolico

della semplicità e umiltà con cui quelle persone consideravano i propri atti, così altamente

umani ed eroici. Ed è anche testimone del coraggio e dell'abnegazione di mia madre non

solo nel "custodire" la mia identità ebraica in attesa di tempi migliori in cui rivelarmela,

ma anche nell'affrontare un nemico che avrebbe potuta inviarla ad Auschwitz, per

assicurare il sostentamento di tutti.

Rividi Gina un anno dopo, trascorrendo un paio di settimane in casa Candini, ma

purtroppo, circa un mese dopo il nostro ultimo incontro, ci lasciò anche lei. Non

dimenticherò mai Gina e Pio, per la loro umanità, generosità e coraggio, unica fonte di

luce, come altri Giusti italiani, nelle tenebre dell'Italia di quegli anni.

Nonostante la cappa di piombo che incombeva in quegli anni sulla vita, con

bombardamenti massicci, sparatorie nei campi, il battaglione tedesco, che nella lenta

ritirata dell'esercito, nell'inverno del '45 si era accampato dietro la casa dei Candini, la

nostra vita quotidiana trascorreva in giochi e "imprese", come quella di scavare un

rifugio, dove venni ferito piuttosto gravemente alla fronte da una badilata di Romano

mentre scavava. Ma, come ho detto prima, l'atmosfera era tuttavia avvolta da una nube di

paure indefinite e indecifrabili, tranne un episodio che ricordo nitidamente. Un mattino

grigio dell'inverno del '45, un ufficiale del battaglione della Wehrmacht, accampato come

ho detto a poche centinaia di metri dalla casa dei Candini, accompagnato da alcuni

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soldati, chiese alla mia famiglia di permettergli di fotografarci per portare con sé un

nostro ricordo dopo la ritirata verso la Germania. Per fotografarci, scelse il muro della

casa dei Candini, ma una volta "in posa" appoggiati a quello che ho in seguito ricostruito

nella mia mente infantile come un "muro di esecuzione", io scoppiai in un pianto dirotto,

e mia madre, con la scusa di dovermi calmare si allontanò, mentre mio padre, al momento

dello scatto dell'obbiettivo, volse la faccia. Può darsi che l'intenzione dell'ufficiale tedesco

e il suo "romanticismo" fossero autentici, ma l'episodio testimonia di quelle che ho

definito "paure indefinite e indecifrabili per me bambino".

Con molte probabilità, per mio padre le paure erano molto più definite e decifrabili

delle mie, perché subito dopo quell'episodio, prese la decisione che fosse giunto il

momento di continuare la nostra odissea. Mio padre possedeva, Dio solo sa come, un

cavallo che gli era stato sequestrato dai soldati tedeschi. Corrompendo un soldato con il

suo orologio da tasca, riebbe il suo cavallo, e all'alba di un giorno invernale, tra la neve

alta, su un calesse anch'esso giunto misteriosamente in suo possesso, lasciammo la

baracca e la casa dei Candini in fuga verso Bologna. Ricordo poco di quella fuga, tranne

la curva del viottolo che usciva dal podere, e me in braccio a mia madre, avvolto in una

coperta, e attorno la neve alta. Dopo, evidentemente, mi addormentai cullato dal caldo

della coperta e di mia madre, e mi risvegliai al nostro arrivo a Bologna. Né fui testimone,

,del nostro drammatico ingresso a Porta Galliera di Bologna, allora circondata da un muro

eretto dai tedeschi, in seguito raccontatomi da Enzo. Un soldato tedesco della

Feldsgendarmerie, esaminando i nostri documenti evidentemente falsi, interrogò mio

padre se conoscesse il capitano Cuomo, ricercato. Mio padre negò ovviamente di

conoscerlo, e giungemmo a quella che sarebbe stata l'ultima tappa della nostra avventura,

fino alla fine della guerra pochi mesi dopo.

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L'infanzia

Con la mia amica

Paola - Cento 1943

Con Enzo a Bologna

a 2 anni

Con i miei genitori

a 3 anni

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Capitolo 3 – La fine della guerra e la mia "ri-nascita"

Gli ultimi mesi dal nostro rientro a Bologna fino al 21 aprile '45, che segnò la

liberazione di Bologna da parte degli alleati e la fine di un incubo, passarono quasi senza

lasciar traccia nella mia memoria. Probabilmente perché non segnati da eventi traumatici,

o forse perché gli eventi traumatici mi vennero risparmiati dai miei. Per esempio, mia

madre mi raccontò in seguito come in uno degli ultimi giorni antecedenti alla liberazione

vedemmo, a pochi passi da casa nostra, un soldato tedesco ucciso di notte dai partigiani,

ma lei seppe allontanarmi opportunamente da quella scena, evitando che l'incontro con

una morte violenta rimanesse inciso nella mia memoria di bambino. Ricordo solo una

notte, sempre verso la fine della guerra, passata in un rifugio pubblico i cui muri

tremavano sotto i bombardamenti degli aerei alleati, ma non molto di più, se non i giochi

infantili con i bambini della strada fuori dalla mura di Bologna dove abitammo in quei

mesi. Enzo mi raccontò solo pochi anni fa come, giunti in quella mattina innevata a

Bologna, egli ci aiutò a trovare abitazione e rifugio in una casa di viale Audinot, liberi dei

proprietari rifugiati all'interno delle mura della città, i quali a torto ritenevano fosse più

sicuro dai bombardamenti.

Eppure quei mesi non debbono essere stati un periodo "tranquillo". In quei mesi di

fine inverno fino alla primavera del '45, i tedeschi che occupavano la città in attesa

dell'offensiva alleata occupavano case abbandonate depredavano mobili per accendere

fuochi. Mia madre salvò parecchie case apponendovi un cartello con su scritto

Flüchtlingen (in tedesco: profughi). Mio padre indicò a soldati tedeschi dove trovare

legna per il fuoco senza distruggere mobili. Enzo mi ha raccontato delle lunghe "gite" in

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bicicletta con mio padre sulle montagne dell'appennino tosco-emiliano alla ricerca di

cibo, ormai divenuto un bene sempre più scarso. Ma tutte le storie accadute in questi

pochi mesi di trepida attesa degli alleati che avevano svernato sulla passo della Futa e a

Porretta, a poche decine di chilometri da Bologna, in attesa della primavera e

dell'avanzata oltre quella che veniva chiamata "la linea gotica", mi sono state raccontate

in seguito dai miei o da Enzo, senza che la mia memoria se ne ricordasse, balzando

immediatamente a quella giornata grigia della fine della guerra raccontata all'inizio.

Il 21 aprile, giorno della mia "nascita" in quanto ebreo, segnò il recupero di

un'identità che fino a quel punto non avevo potuto avere. Ma se prima ero "diverso"

perché così definito dalle leggi razziali dal paese in cui ero nato, ma "uguale" agli altri,

nei miei desideri e nelle mie aspirazioni tipiche dei bambini, ora divenivo ufficialmente

"uguale, ma non per questo uguale agli altri nel diritto di essere quello che ero, diverso".

Prima ancora che fossi io, con lo sviluppo della mia coscienza ebraica, a giungere a tale

conclusione, furono gli altri a ricordarmelo. Quel 21 aprile non era rimasto più un solo

fascista a Bologna. Tutti coloro che avevano inneggiato al Duce in piazza, scritto sui

giornali di stampo inevitabilmente fascista, erano spariti, svaniti nel nulla. Ma

l'antisemitismo seminato dal fascismo non era morto, e continuava a sussistere, sia pure

non più in forma ufficiale, in tutti gli aspetti della vita sociale. Ero ancora troppo giovane

per poterne afferrarne tutte le espressioni; eppure alcune forti impressioni sono rimaste

fino ad oggi. Il mio primo incontro con l'antisemitismo fu nell'autunno del 1945, alla

riapertura delle scuole dopo la fine della guerra. Avendo appena compiuti sei anni, mia

madre mi portò ad iscrivermi. Ricordo vagamente l'affollamento nel corridoio della

scuola Masi, e il direttore. Ricordo anche mia madre la quale, facendogli presente che ero

ebreo, richiedeva che fossi esonerato dalle lezioni di religione. La sua risposta fu "suo

figlio è come gli altri e quindi dovrà seguire tutte le lezioni come gli altri". Da diverso e

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perseguitato ero dunque divenuto ufficialmente uguale, ma egualmente discriminato,

senza il diritto di essere diverso con la libertà di appartenere ad una minoranza. Nel

ritornare a casa, ricordo molto bene la delusione e la frustrazione di un bambino che nei

suoi sei primi anni di vita aveva tanto desiderato essere come gli altri. Mia madre si

rifiutò di iscrivermi, dovetti studiare presso una maestra privata, e fui finalmente

ammesso a scuola in terza elementare, dopo aver superato l'esame di ammissione. Ma di

nuovo non ero come gli altri. Prima delle lezione vi era la preghiera collettiva, e io

dovevo restare in piedi senza naturalmente prender parte alla preghiera, sotto gli sguardi

curiosi e penetranti, alcuni accusatori, dei miei compagni.

Era il 1948, e con la creazione dello Stato d'Israele sette paesi arabi attaccarono lo

Stato appena sorto. La comunità ebraica era ovviamente coinvolta, dopo la Shoah, in una

ritrovata unione del popolo ebraico, per la prima volta con una nazione propria.

L'identificazione con la lotta degli ebrei in Israele era anche un rafforzamento della

propria identità ebraica. Riunioni, filmati, discussioni erano al centro degli interessi degli

ebrei della mia città, e cominciarono, assieme alle lezioni di ebraico e di ebraismo, a

coinvolgere anche me. Non mi era sempre chiaro il mio rapporto con la lotta degli ebrei

in Israele, ma non potevo non sentirmene parte, e spesso, nelle discussioni con compagni,

avvertivo un certo astio nei miei confronti, nell'appoggio agli arabi, a loro peraltro

perfettamente sconosciuti, nel loro gioire quando ritenevano, per quel poco che riuscivano

a capire dai discorsi degli adulti, che sarebbero riusciti a buttare a mare gli ebrei. Una

volta di più, l'antisemitismo viscerale, probabilmente assorbito dai loro genitori, era

subdolamente penetrato anche negli animi dei miei coetanei, facendomi sentire sempre

più estraneo. Non era più l'antisemitismo discriminante delle leggi razziali, ma

l'antisemitismo strisciante, alienante, che emargina sottilmente dalla società "normale".

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E contemporaneamente all'euforia per la libertà acquisita e per l'esistenza dopo

duemila anni di uno Stato ebraico, erano giunti anche i terribili filmati dei campi di

concentramento liberati dalle forze alleate che ricordo nitidamente. La Shoah continuava

anche dopo la liberazione a gettare la sua ombra cupa sui supersititi, con i suoi milioni di

vittime e le sconvolgenti scene dei corpi emaciati che si aggiravano senza meta o

giacevano nel campo liberato, pur conservando ancora un lume di umanità e di vita. In

quel periodo la Shoah, il suo ricordo, erano per me quei campi, quei corpi; e i superstiti, i

sopravvissuti, erano felici di essere vivi, e di vivere la nuova dimensione sociale e politica

che concedeva loro la ritrovata libertà dalla famigerate leggi razziali e l'esistenza dello

Stato d'Israele. Nessuno si poneva allora il problema dei superstiti che non fossero, chi

meglio o chi peggio, sopravvissuti ai campi di sterminio, e cioè di quei sopravvissuti per i

quali, pur scampati ai campi, la vita aveva comunque significato per anni umiliazione,

ristrettezze, ansie, fughe, perdita d'identità, paure - ora rimosse per riuscire a ri-vivere

come normali essere umani.

Comunque, questa sensazione di "segregazione" mi seguì ancora per tutta la scuola

media nell'ora di religione, da cui ero finalmente dispensato, seduto accanto alla bidella,

tavolta dileggiato dai miei stessi compagni di classe, qualche rara volta persino attaccato

fisicamente. Con ciò avevo anche compagni diversi. Tra questi Gilberto Andriani, il quale

mi ha ritrovato dopo sessant'anni confessandomi di aver avuto per me una profonda

ammirazione per il fatto che fossi ebreo. Ma ero comunque, dileggiato o anche amato, per

il solo fatto di essere diverso, e non per quello che ero. Solo più tardi, al liceo classico

Galvani, frequentato da compagni più maturi e appartenenti per la maggior parte a classi

sociali più colte o più "aperte" politicamente, fui in gradi di cominciare a sentirmi,

socialmente e culturalmente parlando, più partecipe della società che mi circondava.

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Capitolo 4 – Gli anni della mia formazione

Una volta acquisita, dopo la guerra, la mia identità ebraica, la mia formazione

culturale e sociale prendeva due vie parallele che non solo non si incontravano mai per

definizione, ma divergevano sempre di più l'una dall'altra. In un suo scritto, lo scrittore

israeliano A.B. Yehoshua definì questo fenomeno con il temine schizofrenia della

diaspora. Da un lato, i miei studi classici al liceo Galvani prima, e i miei studi di

giurisprudenza all'Università degli studi di Bologna poi, mi permeavano di cultura greca

antica, latina e cristiana, nel senso culturale definito da Benedetto Croce in un suo scritto

intitolato Perché non possiamo non dirci cristiani. Dall'altro, fin da giovanissimo fui

esposto anche alla cultura ebraica.

Alcuni maestri di ebraico, tra i quali Gafni della brigata ebraica palestinese di cui ho

parlato in precedenza, e altre persone della Comunità ebraica di Bologna, subito dopo la

guerra mi fecero fare i primi passi nella lettura dell'alfabeto ebraico e nella prassi religiosa

ebraica. Poi vari mesi trascorsi fin dalla fine della guerra in Svizzera, a Zurigo, presso lo

zio Shloime, costituirono il mio primo significativo impatto con la cultura ebraica. Il

fratello di mio nonno era osservante, e da lui imparai non solo la pratica religiosa ebraica,

ma anche i primi significati della cultura ebraica. Il riposo sabbatico, la kasherùt, le

abitudini di Pessakh, a me del tutto sconosciuti o appena vagamente percepiti,

cominciavano a prendere forma di "appartenenza", direi più culturale che puramente

religiosa. Nelle lunghe passeggiate a piedi per recarci di sabato alla sinagoga, lo zio usava

narrarmi i racconti di Perez e della cultura ebraica ashkenazita della shtetl nell'Europa

orientale, che mi affascinarono e aprirono me bambino a un mondo del tutto diverso da

quello che mi circondava nella mia vita normale di Bologna. Il secondo impatto

significativo più maturo, iniziato anch'esso in giovanissima età, ma continuato fino agli

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anni degli studi universitari, fu per merito dell'allora giovanissimo primo rabbino della

Comunità ebraica di Bologna del dopoguerra, il rabbino Sergio Sierra, sia il suo ricordo in

benedizione.

Il rabbino Sierra giunse alla Comunità ebraica di Bologna assieme a sua moglie

Ornella, durante il 1948, quando avevo 9 anni, e tra le prime cose che fece, fu quella di

radunare tutti i bambini sopravvissuti alla shoah, e impartire loro lezioni settimanali, che

comprendevano lezioni di ebraico e lezioni sulle norme e la storia dell'Ebraismo. Non

solo, ma attraverso l'organizzazione di spettacoli teatrali in occasione delle varie festività,

con la partecipazione dei bambini e dei ragazzi, riuscì a introdurci anche nello spirito, e

non solo nella prassi, dell'Ebraismo. Khanukkah divenne una "realtà" vissuta nella

rappresentazione a cui prendevamo parte. Il seder di Pessakh collettivo organizzato in

Comunità permise a molti, come me, di capirne il significato e l'importanza della festa

nella cultura ebraica. La presenza all'officiatura sabbatica ci introdusse almeno una volta

alla settimana in un'atmosfera completamente diversa da quella vissuta negli altri sei

giorni della settimana a scuola e con i nostri amici non ebrei. A tredici anni divenni bar

mitzwah e per molti anni pregai ogni giorno con tallit e tefillin. Per via della mia

particolare situazione di bambino e di ragazzo senza un padre ebreo, il rabbino Sierra mi

prese sotto le sue ali, ritenendo probabilmente che gli sforzi operati da mia madre per

conservare la mia identità ebraica durante la Shoah e in seguito, andassero coadiuvati; e

fu anche così che mia madre e sua moglie Ornella divennero amiche intime, amicizia che

continuò, anche una volta stabilitesi ambedue in Israele, fino alla morte di mia madre

avvenuta nel 1996.

Nel 1958 mi iscrissi alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Bologna. Fu

questo l'inizio della mia formazione culturale matura, e anche l'inizio di una fase che

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doveva portare alla svolta più importante della mia vita. Gli studi classici del liceo e

soprattutto quelli di filosofia prima, e gli studi di diritto dopo, cominciarono a

presentarmi uno spettro di idee e di problematiche universali che avvolsero la mia vita

culturale. E dalla vita culturale, dalle letture, dalle discussioni con i miei compagni di

facoltà e con i miei amici nacque anche una coscienza politica. Presi parte alla creazione

di un partito universitario di tendenza liberale di cui divenni vice-presidente, e venni

eletto nel parlamento studentesco universitario. Chiedevamo riforme del piano di studio

scolastico italiano, il riconoscimento dello studente universitario come lavoratore e la

concessione di un pre-salario che gli permettesse di mantenersi agli studi, considerandoli

la premessa per un ingresso nel mondo del lavoro. L'attività politica ci portò anche a

prendere posizioni sui temi politici più scottanti nell'Italia della ricostruzione, facendoci

talvolta anche scontrare con le forze dell'ordine di uno Stato che non aveva ancora, e forse

non ha ancora oggi, dimenticato il suo passato fascista.

Contemporaneamente anche l'altra via parallela, quella della cultura ebraica, sia pure

in sottordine in quel periodo, continuava nella frequentazione della sinagoga, per lo meno

nel periodo delle festività ebraiche, ma soprattutto nella partecipazione alle lezioni

universitarie tenute dal rabbino Sierra, nelle quali discutevamo animatamente di temi

filosofici e ideologici dell'Ebraismo. Il mio rapporto con l'ebraismo era più culturale che

religioso. Da un lato era un attaccamento a quell'identità negatami fino alla fine della

guerra, e dall'altro un tributo a quello che mia madre tanto aveva fatto per conservarmela

senza poterne parlare apertamente, e che tanto fece, dopo, per rafforzarla. Dall'altro, la

mia identità ebraica cominciava a creare le radici di un vago sionismo, non tanto visto

come creazione di un "focolare ebraico", secondo la definizione della dichiarazione

Balfour, quanto piuttosto come soluzione culturale, ritenendo che solo in un paese

proprio, e in quello stesso luogo dove la cultura ebraica era nata, il popolo ebraico

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avrebbe potuto ricominciare ad essere un popolo completo, e a creare una cultura ebraica

intesa non solo come religione, ma anche come espressione complessa e completa della

propria identità. In un certo senso così come avevo cercato la mia identità, stavo

cominciando a propugnarla anche per quello che stava per diventare il "mio" popolo, non

solo di nascita, ma anche di appartenenza fisica.

Erano ancora pensieri che salivano alla mente e se ne andavano. Non ancora chiari,

non ancora cristallizzati. Da un lato respingevo l'esortazione di parenti vari ad andare in

Israele tout-court secondo il dettato sionistico di quei tempi, ma dall'altro cominciava a

svilupparsi in me una filosofia sionistica "motivata", valida per me e non genericamente

sionista. È interessante come fu solo una ventina di anni dopo, tra il 1980 e il 1982 che,

inviato in Italia come rappresentante centrale dell'Organizzazione Zionistica Mondiale,

questa particolare filosofia sionistica si consolidò definitivamente. In una serie di articoli

pubblicato in un periodico da me creato e redatto da giovani ebrei, Derekh, espressi per la

prima volta per iscritto la mia visione sionistica culturale. Gli articoli sono riportati per

intero nel mio sito internet. Riporto qui alcuni stralci indicativi:

Il sionismo ha compiuto solo metà della sua opera, e ha ancora

davanti a sè un compito non meno arduo di quello di ricostituire “un

focolare ebraico”, che è quello di ricreare un popolo unico, con

un'unica cultura ...

... È solo in un rapporto di unità, in collegamento fisico con il luogo

dove si è svolta la parte più pregnante della propria storia, e dove

sono stati raggiunti i contenuti più alti della propria cultura, che un

popolo può ritrovare sè stesso, e la propria storia continuare a

svolgersi in modo autonomo, e la propria cultura in modo originale.

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Nel giro di poco più di vent'anni di anni da bambino privo di identità ero diventato un

giovane uomo con due identità culturali, parallele e sempre più divergenti, al punto da

creare in me un'inconsapevole senso di disagio. Mi sentivo diviso tra due culture, due

linee di pensiero, due tipi di "futuro" nella mia vita. Questa, non ancora consapevole,

situazione di schizofrenia diasporica non poteva evidentemente durare a lungo, e non

tardò molto a diventare una consapevolezza chiara ed evidente.

L'occasione - come sempre esiste una "occasione" che funge da detonante delle

decisioni importanti - fu il dilagare di svastiche sulle lapidi del cimitero ebraico. Il partito

universitario a cui appartenevo, decise che fosse giunto il momento di condannare

all'interno dell'università quello che veniva allora definito il rinnovato "rigurgito fascista".

L'incarico venne affidato a me con la motivazione che ero ebreo e che per questo ero la

persona adatta a parlare. Allora ero poco uso a parlare in pubblico, ma nonostante le

esitazioni, accettai la sfida. Preparai con cura il discorso per iscritto, e ricordo che mi

consultai sul contenuto anche con il rabbino Sierra. La manifestazione di protesta, che si

tenne in una sala da concerti con un'enorme presenza di pubblico di oltre 700 persone,

ebbe grande successo e il mio discorso venne accolto da applausi calorosi. Da un lato ero

soddisfatto del mio primo successo da oratore, ma contemporaneamente mi turbava, al

limite del conscio, la domanda del perché, pur essendo uno come loro, che condivideva

con loro la stessa cultura, lo stesso codice culturale, le stesse tendenze politiche, fossi

tornato improvvisamente ad essere, per l'occasione, l'"ebreo".

Nella riunione del direttivo svoltasi subito dopo nella sede del Circolo di cultura,

sollevai improvvisamente e istintivamente il problema, salito alle mie labbra dalla

profondità del subconscio. Ricordo gli sguardi imbarazzati e sbalorditi dei miei

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compagni: non potevano ovviamente capire il dilemma della mia dicotomia, il disagio

della mia doppia identità. Per loro il mio essere ebreo era un fatto puramente religioso che

rispettavano, ma nulla di più. Per me era diventato un consapevole problema esistenziale,

e fu in quello stesso momento che giunsi alla conclusione che dovevo operare una scelta:

assimilarmi alla cultura italiana ed assumere totalmente l'dentità che si era venuta a creare

attraverso la mia vita culturale e miei studi, o aderire invece a quell'identità che mi era

stata così gelosamente conservata da mia madre durante la Shoah, e recuperata dopo la

liberazione dal nazifascismo, costruendo la mia vita adulta nel contesto di una società

ebraica. E in quello stesso momento optai per la seconda soluzione. Era il 1961. Avevo

appena 22 anni. Due anni dopo, il 22 ottobre del 1963, immediatamente dopo aver preso

la laurea universitaria, giunsi in Israele, dove ho vissuto due terzi della mia vita,

affrontando i problemi che incontra ogni emigrato quando cambia luoghi e amicizie

abituali, ma liberato dal disagio di quella dicotomia divenuta, nel corso degli anni,

insopportabile.

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Capitolo 5 – In Israele: il completamento della mia identità

In Israele non giunsi da solo, ma con la mia giovane moglie Luisa Ferretti, anche lei

partecipe come me della politica e delle lotte universitarie, con la quale mi ero sposato

poco prima della partenza. Nonostante la nostra separazione dopo lunghi anni di vita in

comune, la nostra fu una vita intensa di intesa, di collaborazione e di sviluppo personale,

in una società per noi completamente nuova. Insieme, abbiamo creato una famiglia,

cresciuto quattro figli, dai quali sono nati dieci nipoti, e ultimamente una bisnipote.

Haifa, ottobre 1963

I miei genitori mi seguirono tre anni dopo, nel 1966. Mio padre, colpito da un ictus,

nonostante il recupero parziale dalla paralisi seguente all'evento era divenuto

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praticamente inabile al lavoro. Per potermi meglio occupare di loro e avendo già due figli

di cui prendermi cura, suggerii ai miei genitori di raggiungermi in Israele, dove mio padre

morì nel 1972, mentre mia madre visse felice fino al 1996. Sono stati entrambi

ammirevoli per il loro coraggio negli anni difficili della Shoah e nelle ristrettezze del

dopoguerra, e per come mi abbiano sempre protetto in difficili frangenti, seguito, educato

e, a parte saggi consigli, aver sempre accettato le mie decisioni cardinali senza mai

interferire. In particolare voglio ricordare la determinatezza e il coraggio con cui mia

madre ha saputo conservare il mio essere ebreo, nonostante la difficili situazioni in cui si

è venuta a trovare, e la dedizione e la forza di mio padre che riuscì salvare la mia vita nel

periodo delle leggi razziali italiane, e dopo l'8 settembre '43 durante il periodo della

Repubblica di Salò, pur essendo lui stesso ricercato dai nazisti. Alla sua morte, il Rabbino

Capo d'Israele Untermann, impartendo istruzioni in merito alla sua sepoltura in una

sentenza rabbinica pubblicata in un libro a lui dedicato, lo dichiarò in mia presenza

Giusto tra le Nazioni per aver salvato me e mia madre nel periodo della Shoah.

In Israele ho vissuto, al momento di chiusura di questo scritto, per cinquant'anni la

mia vita matura, famigliare e professionale. Ma il racconto dei lunghi anni passati qua

esula dallo scopo di queste pagine le quali, più che una biografia, vogliono essere

un'introspezione e una ricerca proiettata nel passato di me stesso bambino ebreo, in quegli

anni dell'infanzia e della crescita senza identità durante la Shoah. Mi concentrerò quindi

solo sull'impatto che la mia vita in Israele ha avuto sulla mia interiorità. La vita materiale,

le preoccupazioni quotidiane della famiglia e del lavoro, i lunghi periodi di servizio

militari di riservista nell'Esercito di Difesa d'Israele, le non rare guerre che Israele si è

trovato ad affrontare, non sempre hanno lasciato spazio all'introspezione; e come ho

accennato sintenticamente nel prologo, è solo alla soglia degli anni sessanta che avviene

la mia vera nascita esistenziale, la chiusura di un circolo che si chiude con

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consapevolezza su quei sei primi anni di vita vissuti in incognito dal punto di vista

dell'identità, come relegati nella storia di un altro.

L'immigrazione in Israele aveva indubbiamente risolto quel malessere che mi

procurava la dicotomia culturale. Avevo finalmente acquisito quell'identità ebraica che mi

era stata privata, ora non più "permessa", a lato dell'altra, e spesso a lei subordinata nella

diaspora, ma ora "autonoma", in una società ebraica dove poteva liberamente svilupparsi

e plasmarsi culturalmente ed esistenzialmente.

Come ho detto in precedenza, nel 1980 venni inviato per due anni a Milano

dall'Organizzazione Sionistica Mondiale. Tra i miei compiti vi era la diffusione del

sionismo, soprattutto tra i giovani, e in quegli anni mi resi conto come il mio approccio

culturale, nel senso più ampio del termine, fosse cambiato rispetto agli ebrei locali.

Mentre per loro l'Ebraismo consisteva alla fin fine, nella partecipazione ad attività

ebraiche, religiose o meno, e nell'appoggio allo Stato d'Israele, come ben conoscevo dalla

mia vita precedente in Italia, il mio approccio era diventato invece quello di un Ebraismo

e di un Sionismo culturalmente attivi, creativi, vivi in quanto calati in una società

vivamente e completamente ebraica. E questa sensazione di completezza esistenziale mi

accompagnò per molti anni.

Cionostante, alla fine dei miei anni cinquanta, andato in pensione anticipata e meno

oberato da incombenze familiari e di lavoro, e probabilmente più libero all'introspezione,

qualcosa, nonostante la mia sensazione di completezza esistenziale, cominciò a turbarmi.

In un paese dove la Shoah faceva sempre più parte del narrativo sociale, a me era

estranea, la sua memoria perfino mi disturbava. Nel giorno della Shoah, che in Israele

viene celebrato una settimana prima del giorno dell'Indipendenza, ero partecipe del lutto

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generale, ma sempre in modo distaccato, per dovere di appartenenza nazionale. La Shoah

è nel DNA culturale di ogni ebreo e tanto più di un israeliano, ebbene io non la sentivo

così. I film trasmessi in TV in quel giorno di lutto da un lato mi attraevano, ma dall'altro

li respingevo, come se non mi appartenessero. Avevo alcuni libri, come "La notte" di Elie

Wiesel regalatimi da mia madre, non li avevo mai letti, li avevo inconsciamente rifiutati.

Eppure quel bambino i suoi primi sei anni di vita li aveva passati "durante" la Shoah. E

un po' alla volta, in un processo durato molti anni, giunsi a comprendere che il circolo

avrebbe potuto chiudersi solo se avessi accettato la Shoah come parte della mia esistenza.

Quel bambino che andavo cercando richiedeva "l'appartenenza" alla Shoah. Ma per

arrivare a questo, era necessario prima capire la ragione di questo mio rifiuto che in

seguito ho chiamato "il negazionismo della MIA Shoah".

E in questo processo ha avuto un peso notevole colei che era allora mia moglie, Ulla,

la quale mi ha spronato e dato notevole supporto in questa graduale e sofferta

acquisizione di identità.

Ulla ed io l'anno del nostro matrimonio, 1992

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Capitolo 6 – La mia Shoah

All'inizio del 1998 una mia cara amica intervistava superstiti della Shoah per conto di

Yad VaShem, che con gli introiti del film "The Schindler's list" donati da Spielberg

produceva cassette-video di testimonianze. La mia amica mi contattò perché le insegnassi

la pronuncia di una serie di nomi di città della Toscana dove erano stati nascosti ebrei

durante la Shoah. Alla fine del lavoro, mi guardò e disse "ma anche tu hai una storia

personale da raccontare". La guardai con il solito distacco con cui mi riferivo alla Shoah

e le dissi "No, io non c'entro ...". Alcuni giorni dopo il direttore del progetto mi chiamò

personalmente e mi chiese di intervistarmi e registrare la mia storia. Gli detti la stessa

risposta che avevo dato alla mia amica, ma dal momento che insisteva, facendomi

presente che qualunque ebreo fosse stato nell'Europa occupata dai nazisti era un

sopravvissuto, pur non convinto, alla fine accettai l'invito.

Durante l'intervista, mentre una camera mi riprendeva, raccontai la mia storia, che

ritenevo pertante abbastanza banale, basandomi sulla memoria a sprazzi di un bambino di

pochi anni, e su scarni racconti dei mei genitori, che sono stati sempre parchi di racconti

di quel periodo. A un certo punto sentii la voce della mia amica che mi disse "non parli

mai di tuo padre ...". Mi resi conto che stavo inconsciamente tralasciando una parte

importante del racconto e continuando, mi accorsi che, man mano che rispondevo alle

domande, mi si era formato un groppo in gola e lacrime sgorgavano dai miei occhi. Era

come se qualcosa si fosse sciolto improvvisamente dentro di me. Con mio stupore la mia

storia "banale", durò per più di un'ora.

Copia della cassetta mi venne regalata, e nel guardarla, sentendo la mia voce spezzata

e vedendo i miei occhi lucidi, mi tornò in mente la commozione che mi sopraffece

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durante l'intervista, e il groppo in gola che quasi mi impediva di parlare. Fu in quel

momento che cominciai a chiedermi come mai un racconto che consideravo banale mi

desse una tale commozione. Se il mio racconto era "parallelo", "distaccato" dalla Shoah,

nonostante si fosse svolto nel periodo della Shoah, perché il ricordarlo mi turbava tanto?

Ho ricordato in precedenza l'ambivalenza psicologica ed emotiva dell'immediato

dopoguerra, quando contemporaneamente all'euforia della libertà conquistata e

dell'esistenza dopo duemila anni di uno Stato ebraico, erano giunti anche i terribili filmati

dei campi di sterminio che continuavano a mantenere presente la memoria di ciò che era

successo solo poco tempo prima. Assieme all'euforia del sentirsi vivi, la maggioranza dei

sopravvissuti sviluppò inconsciamente anche un senso di colpa nei confronti di quei sei

milioni che non erano riusciti a scampare dalla follia genocida nazista e fascista.

Un po' alla volta mio resi conto che il negazionismo della MIA Shoah era anch'esso

l'espressione di quel senso di colpa, soprattutto verso quel milione e mezzo di bambini a

cui non era stata data neppure l'opportunità di vivere, sia pure in condizioni disagiate,

come gli adulti che erano in grado di lavorare. In fin dei conti avevo avuto un padre che

almeno fino all'8 settembre del 1943 con i suoi gradi di capitano mi aveva protetto e in

seguito, nascosto, ero riuscito a sopravvivere. Il senso di colpa non mi permetteva di

capire come avessi, al pari di altri bambini nella mia stessa condizione, interiorizzato la

paura trasmessomi dai miei genitori, e il trauma di una vita "anormale" di chi vive

nascosto e nei suoi primi anni di vita così formativi, senza un'identità. La Shoah per me

erano i campi di sterminio, le scene crude impresse nella mia memoria infantile e

adolescenziale, e non il trauma che in un modo o nell'altro ha lasciato la sua impronta in

chiunque abbia vissuto nell'Europa sotto il terrore nazista.

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Questo lo capii definitivamente qualche mese dopo l'intervista, al seminario di una

settimana per imparare a spiegare la Shoah che ho ricordato in precedenza. All'inizio del

seminario avvertii ancora quella "estraneità" nei confronti della Shoah, e mi sentii non

appartenente, fuori di luogo. Come ho ricordato in precedenza, lo psicologo che dirigeva

il seminario chiese ad ognuno di definire in poche parole il proprio problema. Nonostante

non pensassi di avere personalmente alcun problema, senza pensarci, dissi istintivamente:

"cerco un bambino nei suoi primi sei anni di vita". Lo psicologo non si accontentò della

risposta e mi chiese chi fosse quel bambino, e io risposi: "ma sono io!", ed egli mi disse:

"e allora dì, cerco me stesso!". Solo allora riuscii a realizzare per la prima volta il

significato di "appartenenza" alla Shoah, e l'influsso che tale appartenenza continua ad

avere anche sulle seguenti generazioni.

Da quel momento compresi improvvisamente anche cosa si fosse sciolto dentro di

me durante la testimonianza, e riuscii a connettermi con quel bambino, e soprattutto ad

accettarlo.

E l'accettazione della mia appartenenza alla Shoah del popolo ebraico, oltre a

chiudere un circolo, veniva anche a convalidare e a rendere più razionale quella decisione

presa intuitivamente negli anni '60, portandomi a scegliere di vivere in Israele.

Da allora, ho più volte parlato della "mia" Shoah a classi elementari di bambini, in

Italia e in Israele. Parlare ai bambini, leggere nei loro occhi la curiosità di apprendere,

sentire le loro domande, talvolta superficiali, altre volte molto acute, ma sempre naturali e

genuine, mi ha sempre commosso e convalidato la "accettazione" di me stesso. Ho

sempre ricevuto da loro più di quanto abbia dato. Forse perché parlando a bambini,

interessati all'esperienza di un bambino in situazioni non normali, torno per un'ora ad

essere di nuovo, con loro, un bambino.

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Alcuni mesi prima, nell'nverno del 1998, apparentemente (e probabilmente non solo

apparentemente) senza connessione con questi eventi, trovandomi a Bologna per un

congresso, chiesi al mio amico Mauro, il mio amico da sempre, di accompagnarmi in

macchina a trovare Romano Candini, il figlio di Pio e Gina che ci diedero rifugio durante

la Shoah. In effetti già nel 1994, in occasione di una mia partecipazione a un congresso

all'Università di Bologna, in un giorno libero, avevo espresso a Mauro il desiderio di

cercare la famiglia Candini a Cinquanta, frazione di San Giorgio di Piano, a una trentina

di chilometri da Bologna. Cinquanta è un piccolissmo paese fino ad oggi, allora con 4

case, una scuola e una chiesa, e attorno varie case coloniche, tra cui quella dei Candini

dove abbiamo vissuto dall'autunno del 1943 fino al tardo inverno del 1944-1945. Il paese

si trova in fondo a un vialone di un chilometro circa, che partiva dalla strada provinciale

per Ferrara. Trovata l'indicazione per Cinquanta, Mauro mi chiese come si chiamassero

quei contadini per informarci circa l'ubicazione della casa colonica. Rimasi ammutolito: a

distanza di cinquant'anni, pur ricordandomi i loro nomi, non riuscivo a ricordare il loro

cognome. Miracolosamente come giungemmmo alle prime case, mi ricordai il cognome,

ed esclamai: Candini! Alla prima casa chiedemmo a una persona dove abitassero e lui ci

rispose che erano tutti morti tranne Romano, il quale abitava a Funo, sulla stessa strada

provinciale, più vicino a Bologna.

Mauro Tagliani - 2005

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Dispiaciuto, chiesi comunque a Mauro di fare un giro per le case coloniche attorno al

paesino, e con grande commozione riconobbi la casa a prima vista. Mi fermai là,

guardando la casa, il luogo della baracca costruita da mio padre, i campi dove avevo

accompagnato gli uomini alla mietitura e alla raccolta del fieno, l'aia dove ci era stato

concesso di pigiare l'uva nel tino a piedi nudi, la corte dei nostri giochi infantili, la stalla

dove andavamo qualche volta a dormire sulle mammelle delle mucche per scaldarci, al

campo dietro la casa dove soggiornava un reggimento di soldati tedeschi. In silenzio, i

luoghi riportavano alla mia memoria quel periodo apparentemente tranquillo, ma carico

di tensioni e di paure inconscie, e la mia commozione coinvolse anche Mauro.

La casa della famiglia Candini

Come dicevo, quindi, nell'inverno del 1998 chiesi a Mauro di accompagnarmi di

nuovo, questa volta alla ricerca di Romano, a quanto pare l'unico rimasto in vita. A Funo

Romano, dopo aver abbandonato la campagna, aveva creato con successo un'impresa di

verniciatura a fuoco. Entrammo nell'officina, e un operaio mi indicò il padrone. Mi diressi

verso Romano, che non avrei altrimenti riconosciuto, e gli mostrai la cicatrice sulla fronte

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che mi aveva fatto allora con un badile durante i nostri giochi. Improvvisamente mi

riconobbe e con gli occhi lucidi mi abbracciò calorosamente. Alle mie condoglianze per i

genitori, rimase stupito, dicendomi che sua madre era di sopra, con una gamba amputata,

ma viva e vegeta. Saliti al piano di abitazione, la mamma Gina mia abbracciò commossa

piangendo e ricordando con amore mia madre. Feci nuovamente le condoglianze per Pio e

lei mi disse come mai non l'avessi visto in officina, e infatti era lì che limava, 92 anni

capelli candidi, ma ancora in gamba. Commosso lo ringraziai, e lui in dialetto bolognese,

chiese a Mauro perché lo ringraziassi. Mauro gli spiegò che era per l'aiuto datoci durante

la Shoah. Non dimenticherò mai la sua reazione, con un'alzata di spalle disse

semplicemente "quando le persone hanno fame gli si dà da mangiare". Nessun cenno alla

carità cristiana o all'ideologia comunista, solo un'espressione di grande,

incommensurabile umanità. Promisi che sarei ritornato presto a trovarli e tornai in Israele.

L'incontro nel 1998

Appena giunto aprii la procedura di riconoscimento di Giusti tra i popoli di Pio e

Gina Candini, per aver prestato aiuto ad ebrei senza ricevere alcun compenso. Il

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riconoscimento venne dato il 21 luglio del 1998. Come ho accennato all'inizio, tradussi la

lettera di riconoscimento in italiano e la inviai per fax a Romano perché la leggesse ai

suoi genitori. La medaglia di Yad VaShem venne consegnata da un delegato

dell'ambasciata isrealiana qualche mese più tardi, ma purtroppo Pio, come ho raccontato

in precedenza, alcuni giorni prima della cerimonia, ci lasciò e la medaglia venne

consegnata solo a Gina. L'unica consolazione è quella di avere almeno inviato la lettera di

riconoscimento a Pio prima della sua morte.

Esattamente un anno dopo anche Gina se ne andò, ma il rapporto è continuato con i

loro figli, Romano e Irma, che vado a trovare ogni volta che torno in Italia. Spesso

rimango con Romano e sua moglie Edera alcuni giorni. Parliamo del tempo passato, del

rapporto di sangue che ci lega, dei nostri genitori. Ogni volta visitiamo insieme i luoghi

dove lui bambino, e io bambino nascosto, trascorremmo insieme un anno e mezzo, due

freddi inverni, quasi fino alla fine della guerra. Guardiamo in silenzio la casa, i campi.

Non c'è bisogno di parole, l'emozione l'avvertiamo con il silenzio, e il silenzio ci

accomuna ogni volta.

"La repubblica" – autunno 1998

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Il 27 gennaio del 2005, in occasione della giornata della memoria della Shoah, i due

consigli comunali coinvolti nella vicenda, vollero onorare la memoria di Pio e Gina con

un incontro sulla Shoah con i bambini delle scuole, e con i due consigli comunali riuniti.

L'anno successivo, sempre in occasione della giornata della memoria, venne inaugurata a

San Giorgio di Piano una via dedicata a Pio e Gina.

I bambini delle scuole, i sindaci di San Giorgio di Piano e Argelato, Valerio Gualandi e

Luigi Pasquali , e i figli di Pio e Gina, Irma e Romano, all'inaugurazione della via.

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Il ritrovamento della famiglia Candini era il risultato di una "ricerca del tempo

perduto", ma costituiva, senza che allora me ne rendessi conto, anche la chiusura di un

circolo, il ritorno a "quel periodo". Ma per chiudere completamente il circolo era

necessario ancora compiere quello che non avevo mai avuto il coraggio di fare: visitare

un campo di sterminio.

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Capitolo 7 – La chiusura definitiva del circolo

Nel gennaio del 2010, anche in seguito alle varie conversazioni tenute con bambini

delle scuole sulla shoah, ebbi l'impulso di recarmi ad Auschwitz. Non avendo il coraggio

di andarci da solo, e non conoscendo un modo per potermi aggregare a qualche gruppo

israeliano che vi andava, mi misi in contatto con Marzia Luppi, direttrice della

Fondazione del Campo di Fossoli con cui avevo fatto conoscenza in Israele, chiedendo di

associarmi al loro "treno della memoria" per Auschwitz, che veniva organizzato ogni

anno in occasione della commemorazione della giornata mondiale della Shoah il 27 di

gennaio, giorno della liberazione di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche.

Fu così che mi trovai su un treno con 500 ragazze e ragazzi delle scuole medie della

zona di Modena e Carpi, e un piccolo gruppo di storici e scrittori, che con un viaggio di

22 ore, mi portò a Cracovia. Lo scorrere silenzioso del treno nelle lande innevate

dell'Austria, dell'Ungheria e della Slovacchia, le soste per lasciar passare i treni "di linea",

ebbero su di me un effetto sconvolgente. Era su su quel treno che mi sarei trovato all'età

di 4 anni se i nazifascisti mi avessero scoperto. Le soste mi fecero venir in mente visioni

di treni che durante la guerra lasciavano passare i convogli di truppe dirette al fronte,

prolungando fino all'estremo delle forze e talvolta alla morte, il viaggio di quegli ebrei

italiani inviati ad Auschwitz da quella stessa stazione ferroviaria da cui eravamo partiti.

Giacendo in una cuccetta non ruscii a prender sonno, e continuai ad osservare affascinato

dal finestrino il "percorso" immaginario di allora.

Cracovia, dista 60 chilometri da Oswieçim-Auschwitz. La visita fu per me

un'esperienza unica e indicibile. Sia quella di Auschwitz 1, oggi un museo della Shoah,

ma soprattutto quella di Birkenau, a 3 chilometri di distanza, in cui venivano gasati e

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bruciati in 4 forni crematori tutti coloro che non potevano, o non erano più in grado, di

lavorare ai lavori forzati ad Auschwitz 1. Era una giornata di freddo intenso, -15° e una

tempesta di neve che sferzava il volto e gelava le ossa. Mi aggirai nel campo, tra le poche

delle innumerevoli baracche che coprivano lo sterminato campo ancora rimaste, provando

un assurdo sollievo entrando nelle miserabili baracche al riparo dalla tempesta, capendo

per la prima volta quanto ha scritto il premio Nobel Imre Kertész in Essere senza destino:

" Non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza ...

Perché persino là, accanto ai camini, nell'intervallo tra i tormenti,

c'era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono

sempre dei mali, degli 'orrori': sebbene per me, forse, proprio questa

sia l'esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei

campi di concentramento che dovrei parlare loro, la prossima volta

che me lo chiederanno. Sempre che me lo chiedano. E se io, a mia

volta, non l'avrò dimenticata".

L'impressione agghiacciante che provai fu quella di silenzio. Non il silenzio di un

cimitero, ma un "silenzio assoluto" eppure pieno di energie. Ero solo in quel silenzio, ma

non lo ero veramente. Mi venne il mente il pensiero cabbalistico che le anime di persone

trucidate debbono fare un tikkùn, un'emendamento, prima di passare "al di là", ed ebbi

come la sensazione che le anime di più di un milione di persone continuassero a

volteggiare nell'aria, "e adesso ... sono nel vento", con le parole di Guccini nella sua

canzone "Auschwitz". Ero talmente attonito, che non riuscii neppure a piangere, ma solo

a camminare nella neve come un'automa, cercando di "comprendere" quello che non era

possibile comprendere, in quel maledetto campo sul quale da allora neppure gli uccelli

volano più.

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E nello stesso campo di Birkenau, la sera prima, assistendo nel gelo, vicino al

distrutto crematorio 2 alla cerimonia ufficiale del 27 gennaio, ebbi anche un incontro che

mi lasciò stupefatto. Tra tutte le persone che si trovavano sul posto, un ragazzo con una

kippah si avvicinò proprio a me, chiedendomi se ero ebreo. Gli risposi che lo ero e che

vivevo in Israele. Lui mi disse di essere di Vilna, al chè gli risposi che mio nonno era nato

"un palmo" sotto Vilna sulla carta geografica, a Slonim. Il ragazzo mi guardò

intensamente poi disse: "Sabato scorso ho pregato nella sinagoga di Slonim", e

scomparve nella folla. Non ho uno spirito particolarmente mistico, ma non riesco a non

essere per lo meno perplesso per il casuale incontro con una persona che aveva pregato

nella stessa sinagoga di Slonim dove aveva pregato mio nonno e lo zio Shloime più di un

secolo prima. Dovevo arrivare fino ad Auschwitz, per concretizzare anche un rapporto

"fisico" con un nonno che non ho potuto conoscere?

Il ritorno fu meno sconvolgente. Ciononostante non potei fare a meno di pensare che

all'età di 4 anni non avrei avuto un biglietto di ritorno dalla Polonia. E questa

considerazione fu anche la conclusione di un incontro con i ragazzi, durante il viaggio di

ritorno, parlando di un Bambino nascosto, senza identità.

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Un anno e mezzo dopo, nel settembre del 2011, sentii nuovamente la necessità di

tornare in Polonia, questa volta più preparato a "ricevere". Volevo andarci da solo, ma

mia figlia Dina me lo sconsigliò, ritenendo che non fosse opportuno affrontare da solo un

viaggio così carico di emozioni. Mi rivolsi allora a quel mio compagno di scuola

ricordato in precedenza, Gilberto, il quale acconsentì di condividere con me le esperienze

del viaggio in Polonia. E fu anche grazie a lui e alla sua sensibilità che il rinnovato

incontro con la Shoah fu così significativo.

Quella volta non mi recai solo ad Auschwitz, ma facendo un completo giro della

Polonia, visitai altri campi di sterminio, quanto rimane del ghetto di Varsavia, la zona del

ghetto di Łodg, l'immenso e antico cimitero ebraico e l'adiacente stazione deportazione ai

vari campi di sterminio di Radegast. Fu un viaggio più "consapevole", anche se non meno

coinvolgente del primo.

E per la prima volta piansi.

Piansi davanti ai forni crematori di Majdanek e ai poveri resti pietosamenti raccolti in

un'urna di vetro, mischiati con terreno perché il vento non li porti via.

Piansi a Treblinka aggirandomi tre le infinite lapidi a ricordo delle comunità distrutte,

erette nel luogo dove ottocentomila ebrei erano stati bruciati in poco più di un anno.

E quel pianto liberatorio, trattenuto così a lungo, l'impatto "fisico" con la Shoah e con

i luoghi dove più era vivo il ricordo, mi permise finalmente di sentirmene completamente

partecipe.

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Epilogo

Come ho detto in precedenza, questo scritto non ha avuto come scopo quello di

essere un'autobiografia, ma ha voluto piuttosto fungere da chiarimento interiore, da presa

di coscienza del mio essere e del motivo delle scelte cardinali da me fatte nella vita. Ha

inoltre permesso la chiusura di un circolo rimasto aperto per lunghi anni, riportandomi a

quei primi sei anni di vita, accettando quel bambino e il suo destino, e dandogli un nome:

IO.

Nel frontespizio ho dedicato questo scritto alla memoria dei miei genitori, perché è a

loro che debbo la possibilità di scriverlo e di come l'ho scritto. Ma esso ha anche una

funzione ulteriore: quello di rimanere come ricordo per i miei figli, i miei nipoti e i miei

bisnipoti, se e quando lo vorranno leggere. I miei figli sono nati in Israele e sono stati

educati ebraicamente proprio per evitare loro il bisogno di acquisire ciò che per me è stato

così gravoso e complesso, e concedere loro quindi la libertà di scegliere con più facilità e

meno traumi la vita culturale e spirituale che desiderano, in una società pluralista, spesso

piena di contrasti e di divergenze, ma proprio per questo anche libera dalla schizofrenia

della diaspora. E così è stato. Anche se ciò ha richiesto un prezzo: l'uccisione di Ishai, sia

il suo ricordo in benedizione, marito di mia figlia Hanna, in un attentato terroristico.

Spero che questa mia "ricerca del tempo perduto" possa costituire per loro un

contributo, quando non potrò più raccontarla, per capire da dove provengano e quali siano

le loro radici. Radici che hanno già ramificato in varie direzioni, e che continueranno a

ramificarsi in futuro attraverso i loro figli e i loro nipoti.

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Ishai con Hanna e Reut

É quindi anche a loro, ai miei rami, e ai loro rispettivi coniugi, che dedico questo

scritto:

a Yossi e a sua figlia Michal;

a Hanna e ai sui figli Reut, Shavit e Barak;

a Tamar e ai suoi figli Tom, Shakhar e Adì;

a Dina e ai sui figli Ofek, Yair e Peleg.

...e anche alla appena giunta e benvenuta Shai-li, figlia di Reut, nipote di Hanna e

mia prima bisnipote, che apre la quarta generazione in Israele, continuazione ideale

di un nonno che non ha ottenuto la possibilità di conoscere ...

Mevasseret Zion, marzo 2001 - settembre 2013

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I discendenti

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I miei figli

I miei nipoti

(2012)

Shai-li

la mia prima

bisnipote

-

luglio 2013