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VISTO SI STAMPI PREVIO INSERIMENTO CORREZIONI SEGNALATE BOZZE DI STAMPA 15 LUGLIO 2011 8. ESTETICA DELLA TELEVISIONE di Marco Senaldi 8.1. RIASSUNTO DELLE PUNTATE PRECEDENTI Benché sia considerata uno dei mezzi di comunicazione più influenti della modernità, la televisione non ha generato ancora delle autentiche teorie in grado di spiegarne l’immane potere – e meno che mai delle teorie estetiche. È facile riscontrare questa lacuna se solo si prende in esame quello che forse è il primo contributo a una teoria estetica della TV, cioè l’articolo di Rudolph Arnheim apparso nel 1935, che peraltro ricomparirà in un volume il cui titolo è esemplarmente Film as Art, escludendo a priori che la TV pos- sa mai essere considerata un’arte. Di fatto questo è l’assunto di Arnheim: la TV – e la TV che poteva vede- re lo studioso doveva essere un mezzo alquanto preistorico! – è appunto un semplice mezzo che «trasporta» comunicazione: «La televisione è un pa- rente prossimo della motocicletta e dell’aeroplano: un mezzo di trasporto culturale. A dirla tutta, è un mero strumento di trasmissione, che non offre nuovi mezzi per l’interpretazione artistica della realtà» 1 . Pertanto la TV non genera valori esteticamente apprezzabili (forse lo potrebbe in quanto oggetto di design, ma allora in quanto elettrodomesti- co, non come sistema comunicativo di cui il monitor è solo una periferica). Questo testo in altre parole legittima uno dei più grandi equivoci intorno all’oggetto stesso di una eventuale teoria e di una ancor più eventuale este- tica, rinunciando a spiegare che cos’è (o non è) la TV, e concentrandosi sul banale ruolo tecnico del «televisore». 1 Cfr. Arnheim 1957, pp. 207-216 (per inciso l’articolo citato apparve sulla rivista italiana «Intercine 2», nel febbraio 1935, pp. 71-82, l’anno prima delle emissioni televisive in Germania all’epoca delle Olimpiadi di Berlino).

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8.ESTETICA DELLA TELEVISIONEdi Marco Senaldi

8.1. riassunto delle Puntate Precedenti

Benché sia considerata uno dei mezzi di comunicazione più influenti della modernità, la televisione non ha generato ancora delle autentiche teorie in grado di spiegarne l’immane potere – e meno che mai delle teorie estetiche.

È facile riscontrare questa lacuna se solo si prende in esame quello che forse è il primo contributo a una teoria estetica della tv, cioè l’articolo di Rudolph Arnheim apparso nel 1935, che peraltro ricomparirà in un volume il cui titolo è esemplarmente Film as Art, escludendo a priori che la tv pos-sa mai essere considerata un’arte.

Di fatto questo è l’assunto di Arnheim: la tv – e la tv che poteva vede-re lo studioso doveva essere un mezzo alquanto preistorico! – è appunto un semplice mezzo che «trasporta» comunicazione: «La televisione è un pa-rente prossimo della motocicletta e dell’aeroplano: un mezzo di trasporto culturale. A dirla tutta, è un mero strumento di trasmissione, che non offre nuovi mezzi per l’interpretazione artistica della realtà» 1.

Pertanto la tv non genera valori esteticamente apprezzabili (forse lo potrebbe in quanto oggetto di design, ma allora in quanto elettrodomesti-co, non come sistema comunicativo di cui il monitor è solo una periferica). Questo testo in altre parole legittima uno dei più grandi equivoci intorno all’oggetto stesso di una eventuale teoria e di una ancor più eventuale este-tica, rinunciando a spiegare che cos’è (o non è) la tv, e concentrandosi sul banale ruolo tecnico del «televisore».

1 Cfr. Arnheim 1957, pp. 207-216 (per inciso l’articolo citato apparve sulla rivista italiana «Intercine 2», nel febbraio 1935, pp. 71-82, l’anno prima delle emissioni televisive in Germania all’epoca delle Olimpiadi di Berlino).

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Un approccio sostanzialmente diverso è sostenuto da uno storico del-l’arte e grande studioso di cinema come Carlo Ludovico Ragghianti, che propone di leggere nella tv dei valori estetici di carattere formale, come l’importanza della ‘taglia’ del monitor, o il peso delle luci, dello spazio, del-l’atmosfera (che ne differenziano l’estetica da quella della fotografia e del cinema), che si dimostreranno in seguito autenticamente profetiche 2. Le sue intuizioni saranno decisive per quegli artisti, come gli spazialisti prima e i video artisti poi, che vedranno nella tv un mezzo di espressione del tut-to nuovo – ma fatalmente gli faranno sfuggire il senso riposto dell’anima ‘relazionale’ del televisivo come sistema mediatico.

Tra i primi critici a considerare in maniera più globale il senso e la potenza del mezzo televisivo, troviamo invece un filosofo e sociologo come Adorno, con un denso saggio del 1954 intitolato How to Look at Televi-sion 3. Adorno parte dal tentativo di definire più precisamente gli effetti della tv non solo in termini di successo/fallimento, ma facendo uso di cate-gorie socio-psicologiche più raffinate. Già dall’impostazione del discorso – per cui non ha senso parlare della tv in termini di «riuscita o fallimento» – appare chiaro che nel contesto della teoria critica, di cui Adorno è il massi-mo esponente, il problema non è la definizione del nuovo strumento – ma la valutazione del suo peso socioculturale. È evidentemente una radicale scelta di campo: non si tratta più di ragionare sull’eventuale importanza del mezzo televisivo nel campo sociale, ma di assumerne l’esistenza come una componente essenziale di questo campo, qualcosa che contribuisce a deli-mitarne i confini e a produrne delle rappresentazioni ideologicamente de-terminate. Non ha senso parlare della tv in termini di «riuscita o fallimen-to», semplicemente perché la tv «ha già vinto» – si tratta semmai di vedere come lo ha fatto e di rendere edotto il pubblico sul suo funzionamento.

In questo lavoro, dove vengono messe a punto le idee ancora embrio-nali sull’industria culturale già espresse nel celeberrimo Dialettica dell’Illu-minismo del 1947, Adorno scende nel dettaglio del prodotto televisivo e si concentra espressamente sulle fiction.

La sua idea di «pseudo-realismo» è assolutamente centrale in questo dibattito. Infatti Adorno non considera la tv come un medium semplice-

2 Cfr. Ragghianti 1957, pp. 387-393; il testo considerato è del 1955, cioè posteriore al Manifesto del movimento spaziale per la televisione, risalente al 1952, eppure sembra im-plicitamente prenderne le parti, anche suggerendo possibilità che, all’interno dei palinsesti tv fosse accordato spazio a ‘sperimentazioni visive’ di carattere artistico (quella a opera di Fontana, nel maggio ’52, doveva avere proprio questo senso). 3 Adorno 1954, pp. 213-235.

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mente «più realista» del cinema (a sua volta più realista della fotografia, da cui deriva). Da buon dialettico, Adorno sa che ogni accrescimento tecno-logico non è una semplice sommatoria dei fattori precedenti, ma implica dei rovesciamenti imprevedibili. L’aderenza senza precedenti alla vita quo-tidiana permessa della comunicazione televisiva, non fa che estremizzarne gli aspetti estetizzanti. In particolare, concentrandosi sulla fiction, Adorno ne sottolinea la similarità rispetto alla fiction cinematografica, dato che in entrambi i casi non c’è introversione (ciò che è visto, è visto senza retrosce-na, ma per come appare). Ma – cosa decisiva – questo elemento realistico (a differenza, aggiungiamo noi, di quanto accade nel cinema) non esclude una intima ambiguità del messaggio televisivo: a un messaggio esplicito dove vengono riproposti dei valori tradizionali, si associa un messaggio implicito che «mira a un quadro mentale dove essi non sono più validi» 4. Da qui l’idea di «pseudo-realismo»: la realtà rappresentata è implicitamente smen-tita dalla possibilità latente che la rappresentazione stessa lascia trasparire. Il verdetto di Adorno è pertanto molto negativo: lo pseudo-realismo tv è un «realismo camuffato», attraverso cui si contrabbanda uno spazio il-lusorio, è un metodo per far perdere il senso di realtà al pubblico, e un diversivo per distogliere l’attenzione da una realtà che nel frattempo si è fatta «sempre più opaca e complicata» 5.

Adorno si colloca certamente all’interno di una critica fortemente ideo logica della tv – ma la nozione di pseudo-realismo insieme a quella di scomparsa del retroscena non può non far pensare alle più acute ana-lisi successive, come quella di Joshua Meyrowitz 6. È proprio Meyrowitz a definire il carattere fondamentale della tv come l’impossibilità di non essere completamente realista, nel senso di svelare completamente lo spa-zio scenico, distruggendo in tal senso la nozione stessa di «scena» come spazio funzionale e separato. Meyrowitz, rifacendosi alla nozione di «vita come rappresentazione» di Erving Goffman, definisce questa caratteristi-ca come il crollo della fondamentale distinzione tra scena e retroscena; le conseguenze catastrofiche di questo crollo sono la confusione dei ruoli, la sovversione delle differenze, e in una parola l’impossibilità di mantenere il livello simbolico di una qualsiasi rappresentazione. Inoltre, questo crollo spinge a un livello più elevato la nozione adorniana di pseudo-realismo: in effetti, la comunicazione televisiva è realista a un punto tale da includere le condizioni stesse della propria efficienza – è talmente realista da ristrut-

4 Ivi, p. 218. 5 Ivi, p. 229. 6 Cfr. Meyrowitz 1985.

E. > Erving: bene?

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turare i parametri di ciò che consideriamo «reale» (e in tal senso le idee di Meyrowitz si avvicinano all’idea baudrillardiana di «iperrealtà televisiva»).

Le riflessioni di Meyrowitz costituiscono uno snodo importante per-ché includono esplicitamente tra le proprie fonti McLuhan e Goffman. Se condo Meyrowitz è indispensabile questa fusione tra le teorie mediali mcluhania ne e la sociologia della comunicazione goffmaniana, per dare profondità storica all’idea di «vita come rappresentazione», ma anche per ancorare nel contesto sociale il «media-centrismo» di McLuhan. Tuttavia, questa posizione sincretica non riesce veramente a dar conto degli esiti ge-nerati dal suo proprio impianto teorico. Quando nella parte IV del suo stu-dio Meyrowitz parla della «confusione» (merging) generalizzata di ruoli, tra privato e pubblico, tra adulti e bambini, o tra maschile e femminile, ecc., senza saperlo sta sviluppando le premesse di una concezione tipicamen-te dialettica, secondo la quale ogni confusione è solo la forma embrionale di un «superamento» (Aufhebung). Là dove l’occhio sociologico coglie un «semplice» fenomeno di confusione progressiva tra i «diversi», lo sguardo del dialettico decifra l’immanenza degli opposti. Ma questa impostazione teorica di fondo (la quale del resto sta al centro del grande dibattito filo-sofico del nostro tempo) 7 segna la divergenza-chiave nel campo dei me-dia studies tra i due ‘classici’ comparsi negli anni ’60 – cioè Understandig Mass Media di McLuhan e La société du spectacle di Guy Debord. È solo nel testo di Debord però che l’idea di una duplicità dialettica intrinseca nel discorso televisivo è veramente messa al centro, non solo dei consumi culturali, ma della deriva generale della società, d’ora in poi definita come «società spettacolare».

Lo «spettacolo» in senso debordiano (che quindi integra in sé le sue va-rie forme al di là e al di fuori delle specificità mediali, cioè cinema, tv, pub-blicità, ma anche turismo, uso del tempo libero, consumismo delle mer ci, ecc.) – viene quindi individuato come «l’inversione concreta della vita», «il cuore dell’irrealismo della società reale» 8. Questo pensiero fondamentale è quello che ritorna in varia guisa nei resoconti posteriori; giustamente nella Prefazione all’edizione italiana (2001) un autore e dirigente televisivo, non-ché intellettuale, come Carlo Freccero sottolinea che lo spettacolo integra-to nella visione di Debord costituisce quel «crimine perfetto» che «ha sop-presso la realtà», istituendo così un palese richiamo alle tesi espresse ne Le crime parfait, il libro di Baudrillard sulla derealizzazione televisiva apparso

7 Basti pensare in proposito alle pagine dedicate a una analisi critica della dialettica come strumento di pensiero nel classico Popper 1963, pp. 531-570. 8 Cfr. Debord 1967, tesi 2 e 4.

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nel 1993 9. In questa «irrealizzazione» si ritrova tutto il senso filosofico del-lo «pseudo-realismo» di Adorno, che d’altra parte ritorna nell’interessante disamina del rapporto tra finzione e realtà simbolica (condivisa) in altri contributi come Finzioni di fine secolo di Marc Augé 10. Nelle pagine che l’antropologo dedica all’analisi di un evento mediale come i Mondiali di cal cio del 1998, l’accento viene spostato sul fatto che, al termine dello spet-tacolo televisivo costituito dalla partita finale, le persone scesero per stra-da ritrovandosi in una festa collettiva condivisa; l’incontro è reso possibile però dalla spettacolarizzazione stessa dell’evento sportivo, a testimonianza del fatto che lo spettacolo «non è un supplemento del mondo reale, un suo sovrapposto ornamento», dato che «la realtà vissuta è materialmente invasa dalla contemplazione dello spettacolo» 11.

In questa linea, l’idea che la comunicazione televisiva nasconda un dop-piofondo dialettico è al centro del recente Feedback. tv against Democracy di David Joselit 12. La nozione di feedback sostiene che a ogni azione – in questo caso comunicativa – corrisponde una retroazione, consistente nel processare le informazioni dell’ambiente, che migliora le prestazione del-l’organismo considerato. Benché ricalcata dalla teoria cibernetica, l’idea fa compiere un decisivo passo in avanti nelle teorie mediali, sbarazzandosi de-finitivamente del vetusto impianto tecnocentrico unidirezionale basato sulla triade emittente-messaggio-ricevente, e, cosa ancor più importante, reintro-ducendo una visione ‘riflessiva’ del medium televisivo: «Una concezione dei media adeguata all’era televisiva del dopoguerra deve comprendere queste tre dimensioni [la struttura ricorsiva manifestata nel circuito chiuso, la po-sizione ecologica dei media uno rispetto all’altro, e la loro concentrazione speculativa condizionata dall’investimento sociale e finanziario]. Propongo che il feedback raccolga tutto ciò in una sintetica categoria». A partire dal feedback, Joselit si spinge a teorizzare una diversa storia e una diversa teoria dei media, e anche un diverso approccio creativo a essi, dato che «né la tatti-ca modernista della rivoluzione, né la tecnica poststrutturalista della sovver-sione […] sono adeguate a accompagnarci nel circuito chiuso che struttura i nostri mondi pubblici […] [occorre] prendere ispirazione dalle impossibi-li traiettorie inventate dagli artisti […] e dagli attivisti per produrre sentieri aberranti o utopici attraverso i terreni recintati della televisione» 13.

9 Cfr. Baudrillard 1995. 10 Cfr. Augé 2000. 11 Debord 1967, §§ 6 e 7. 12 Cfr. Joselit 2007. 13 Ivi, pp. 39-41.

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Inoltre, cosa in questo contesto oltremodo importante, a sostegno del-la sua tesi Joselit invoca un’opera d’arte «dialettica» quale il famoso Wipe Cycle di Frank Gillette e Ira Scnheider – una installazione presentata alla mostra tv as a Creative Medium (1968) e costituita da nove monitor nei quali lo spettatore rivedeva ciclicamente se stesso con un delay temporale diverso per ciascuno.

Quando il circuito chiuso è affare di (auto)coscienze (e non di animali o di sistemi cibernetici) le cose cambiano, la ‘retroazione’ assume tutto il suo senso profondo: spettacolarizzazione, emulazione, o anche semplice-mente innamoramento o violenza, possono davvero essere spiegati in ter-mini di feedback. Lette in questa chiave, le operazioni di Nam June Paik, a cominciare dalla famosa Exposition of Music – Electronic Television, per continuare con tv Cello Première (1971) con Charlotte Moorman che in-carna e ‘indossa’ letteralmente la tv, sotto forma di piccoli video-reggiseno, per continuare con vere e proprie trasmissioni televisive come Electronic Opera # 1 per The Medium is the Medium, programma in onda sulla wgbh tv, o Global Groove, andata in onda nel 1974 su wnet tv, assumono un preciso significato, quello di incursioni virali momentanee, cioè di produ-zione di rumore nel feedback silenzioso della televisione, e quindi di crea-zione di diverse possibili retroazioni dal valore altamente estetico.

8.2. lo sPecifico televisivo

Joselit conclude il suo testo con quello che suona quasi uno slogan: «Learn the system and counter it – make noise», concludendo il suo libro con quello che assume espressamente la forma di un vero Manifesto. Le acute indagini di Joselit farebbero dunque pensare che siano esistiti diversi usi della televisione per scopi prettamente artistici – ma nonostante la possi-bile ‘artisticità’ della tv, manca una vera descrizione estetica specifica di essa – o meglio, si evidenzia in proposito una evidente contraddizione. Da un lato i numerosi tentativi di definirne lo «specifico» come era già acca-duto per altri media più storicizzati (fin dal caso del ben noto «specifico filmico», consistente nel montaggio, nel movimento di macchina e nelle marche semantiche) 14, escludono che la tv possa avere un valore estetico. Dall’altro, si cerca molto spesso di leggere la televisione come un medium «transitorio», da un lato derivato da quelli precedenti (cinema e radio),

14 Cfr. Metz 1972.

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dall’altro presto destinato a dissolversi in quelli del futuro, se non proprio già scomparso in un universo mediale «convergente».

A questo proposito occorre notare una rilevante discrasia ermeneutica tra una lettura convergente e una lettura divergente dei media. La cosid-detta «convergence culture» 15 costituisce una novità di rilievo nell’ambito delle interpretazioni culturali dei media – intendendoli come una sorta di campo integrato entro il quale le relazioni tra artefatti, e soprattutto tra ar-tefatti e fruitori, rivestono grande importanza. Il problema di questo tipo di interpretazione è che, pur spiegando fenomeni come quello delle migrazio-ni di tematiche fra media e media, o delle convergenze transmediali, non è poi in grado di fornire soddisfacenti spiegazioni dell’emergere di tematiche specifiche, e del perché esse si affermino in questo o quel media, e in defi-nitiva non fornisce alcun metodo ermeneutico, ma solo osservazioni poste-riori. In un certo senso, opposto a questo è il metodo che è stato definito «anamorfico», e che potremmo ribattezzare divergente, secondo il quale un artefatto (mediale e non solo) viene letto mettendolo a confronto con le sue stesse mancanze intrinseche (versioni scartate o incompiute, remake che cercano di colmarne le lacune senza riuscirvi, ecc.) – per cui la specificità di un medium spicca per differenza rispetto a quella di un altro medium, e ri-salta ancor di più rispetto alle differenze che un medium mantiene rispetto a se stesso (i propri blocchi interni, i punti di dis-funzionalità, ecc.) 16. Così, anziché descrivere un universo ‘pieno’ in cui il prolungamento convergente di un film d’azione è una serie tv, e poi un videogioco diegeticamente affi-ne, e poi le manipolazioni mimetiche realizzate da una web community di fans, è assai più proficuo osservare come ognuna di queste «variazioni» non riesca a colmare i vuoti strutturali del «testo» di origine, anche se ciascuna è leggibile per differenza rispetto a esso (l’«originale» che andrebbe letto anamorficamente rispetto a se stesso).

In tal senso una lettura anamorfica dei media non può limitarsi a regi-strare le ovvie differenze, ad esempio, tra il cinema e il teatro sia dal punto di vista presentativo che dispositivo (il teatro non è riproducibile, non ha il montaggio, non possiede la possibilità di variare i punti di vista – sog-gettiva, oggettiva, semisoggettiva, ecc. –), ma deve anche mostrare come

15 Cfr. Jenkins 2006. Nonostante l’approccio apparentemente scanzonato, il libro di Jenkins si impegna seriamente in una disamina del nuovo mediascape emergente; purtrop-po, la sua analisi è inficiata dalla vetusta contrapposizione tra old media passivi e new media interattivi, senza avere gli strumenti filosofici per affrontare il complesso tema del-l’interpassività (su cui cfr. Pfaller 2000, concetto ripreso da Žižek 2004). 16 Cfr. Žižek 1991.

Žižek 2004 opp. 1997? verif. Bibliogr.

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lo specifico cinematografico si sia definito in risposta all’impasse dell’ori-ginario «teatro filmato». In questa prospettiva, al di là dell’originaria idea di immagini in movimento, occorre domandarsi cosa può fare la tv che il cinema non può fare. Come venne notato a suo tempo, certamente una caratteristica determinante del mezzo tv è la possibilità di trasmettere un evento live, all’interno di una forma comunicativa a flusso, aperta e non chiusa, e non soggetta a un disegno prefissato, ma disponibile all’improvvi-sazione 17; ma, purtroppo, proprio queste caratteristiche che rendono la tv diversa dal cinema, sono le stesse già offerte dalla radio.

Occorre dunque cercare in altro una «differenza specifica» televisiva, che risiede senza dubbio nel dispositivo televisivo, ossia nella forma-scher-mo: come ebbe a notare McLuhan, mentre nel cinema lo spettatore «è la macchina da presa», con la tv «lo spettatore è lo schermo» 18. Il monitor ha, rispetto allo schermo, il vantaggio di non richiedere una sala di proiezione e conseguentemente di poter essere installato ovunque; la dislocabilità del monitor e la sua taglia impongono un rapporto veramente faccia a faccia con lo spettatore, che è chiamato ad avvicinarsi alle immagini, è colpito da esse in modo quasi fisico, ma può muoversi nello spazio domestico, nel frat-tempo divenuto uno spazio mediale percorribile, «odologico», praticabile. Questo nuovo schema sensorio-motorio, ma anche culturale, modifica lo status dello spettatore e il meccanismo di identificazione con le immagini: al cinema l’identificazione è basata su elementi narrativi esteriori verso cui si dirige l’attenzione (identificazione proiettiva), la tv invece coinvolge lo spettatore come testimone oculare, lo rende complice di un processo co-municativo, ma insieme lo sposta rispetto a se stesso, lo chiama pertanto in causa attribuendogli un’identificazione ribaltata (disidentificazione) 19.

Il segreto del ribaltamento a cui la tv sottopone l’identità di chi la guarda implica una revisione della nozione stessa di comunicazione me-diale. La tv è stata vittima (consenziente) di una enorme ambiguità poi-ché è stata tradizionalmente intesa (ovviamente fin da McLuhan) 20 come medium, cioè come canale comunicavo (o peggio tecnico) che interviene tra emittente e ricevente. Questa visione proviene sostanzialmente da una

17 Cfr. Eco 1962. 18 Cfr. McLuhan 1962, p. 69. Notevole il fatto che la stessa frase sia ripresa da uno dei maggiori artisti video e performer americani, Vito Acconci, che afferma che col video siamo faccia a faccia con le immagini (cfr. Acconci 1990, pp. 125-134: 125). 19 Il concetto di «disidentità» deriva naturalmente da Hegel 1807; è ripreso soprattut-to nel discorso analitico, come in Lai 1999; ma in ambito filosofico, cfr. soprattutto i saggi di Žižek e in particolare Žižek 2004. 20 Cfr. McLuhan 1964.

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nozione deterministica di comunicazione quale quella descritta da Shannon e Weaver verso la fine degli anni ’40. Nel loro celebre testo Teoria mate-matica della comunicazione del 1949, i due studiosi pensano a un modello comunicativo dove il messaggio sia semplicemente concepibile come un «pacchetto di dati» che cerca di passare tramite un canale da un punto di partenza emittente a uno di arrivo (ricevente) – uno schema ricalcato su quello tecnico delle trasmissioni radio dell’epoca. La sola cosa che eccede lo schema – cioè il rumore di fondo – è anche ciò che deve in un modo o nel l’altro essere eliminato affinché la comunicazione sia efficace 21.

Tuttavia, fenomeni come la fascinazione, l’emulazione, l’interazione spettatoriale, pur rivestendo oggi un’importanza evidentemente centrale, resterebbero inspiegabili e paradossali all’interno di questo contesto. Tali fenomeni, hanno messo in chiaro che questo schema è non solo limitato, poiché circoscrive il ruolo del medium a quello di un «neutrale» condotto comunicativo, ma è profondamente ideologico, dato che nasconde l’impat-to comunicativo sulle reciproche posizioni di emittente e ricevente.

Basterebbe pensare alla celebre trasmissione radiofonica di Orson Wel-les, tratta da La guerra dei mondi, che anticipò il coinvolgimento tipicamen-te televisivo delle forme di neotelevisione, come il reality-show. Ciò che i cittadini americani si videro recapitare dalla radio quel 30 ottobre 1938 non fu affatto un messaggio che partiva da un emittente per raggiungerli come riceventi. In realtà, il messaggio in apparenza era una fiction di fanta-scienza (tratta dall’omonimo libro di Herbert George Wells): ma il messag-gio «vero» fu sostanzialmente la loro stessa inquietudine per la situazione mondiale, ossia il fatto di essere disidentificati dalla semplice posizione di «spettatori» di un programma di intrattenimento, e trasformati in testimoni di una guerra, dunque coinvolti emotivamente ed esperienzialmente – al punto di diventare i veri protagonisti, i veri «emittenti» del messaggio (con le ben note conseguenze) 22.

Da questo punto di vista, dunque, occorre ritornare alla celebre defini-zione che un altro hegeliano come Jacques Lacan dà del processo comuni-

21 Cfr. Cimatti 1999, p. 53 ss.; il modello deterministico di Shannon e Weaver è stato an-che definito un modello «postale» o ispirato ai «condotti» della posta pneumatica; sovente gli è stato opposto il modello aperto fornito da Gregory Bateson (ad esempio Bateson 1990), secondo il quale emittente e ricevente si definirebbero in un campo instabile costituito dal-l’ambiente. Ma anche questo modello, benché prenda in seria considerazione l’ostacolo-rumore come lo sfondo e il contesto in cui la comunicazione ha effettivamente luogo, non riesce a fornire una spiegazione genuina della dialettica mediale, segnatamente televisiva. 22 Sui disordini, e persino i suicidi, che seguirono alla trasmissione di Welles, cfr. Brown 1998.

H.G. > Herbert George: bene?

G. > Gregory: bene?

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cativo, secondo cui in una comunicazione «l’emittente riceve dal ricevente il proprio messaggio in forma invertita» 23. In altre parole, per Lacan, comuni-care non significa affatto «trasmettere» un messaggio da un emittente a un ricevente tramite un canale di trasmissione, ma piuttosto comunicare signi-fica ricevere indietro dal ricevente il nostro stesso messaggio in forma inversa, cioè vera. «Ricevere indietro dal ricevente» significa che il messaggio non è un qualche contenuto, ma è «l’azione stessa dell’inviare un messaggio, i cui destinatari in ultima analisi siamo noi stessi»; «[…] il nostro stesso messag-gio in forma invertita» significa che il senso vero della comunicazione deve venir catturato e rilanciato a noi «a rovescio», per poter esser colto appieno.

Benché inizialmente tale definizione fosse stata concepita soprattutto per descrivere il transfert, cioè l’interazione all’interno della seduta psi-canalitica tra analista e paziente – è evidente che il caso eccezionale della comunicazione psicoanalitica va inteso come il paradigma generale della comunicazione mediale contemporanea – che, come coglierà poi Debord, si basa sul rovesciamento (in questo, Debord spartisce con Lacan l’eredità della dialettica hegeliana) 24.

Questo modello comunicativo a boomerang (che per Lacan si verifica in ogni comunicazione tra soggetti) va assunto come la forma fondamen-tale della comunicazione televisiva e ne costituisce lo «specifico», perché va collegato al dispositivo della ripresa video in diretta. Non è un caso che prima di formulare questa «legge» della comunicazione, Lacan avesse cer-cato di definire il momento della presa di coscienza del soggetto (infan-te) in riferimento alla percezione della propria immagine riflessa («stadio

23 Lacan 1966, p. 291. 24 Cfr. Borch - Jacobsen 1991, che insiste giustamente sui motivi lacaniani tratti dal magistero di Kojève. Da questo punto di vista è vano inserire la teoria lacaniana e situa-zionista della comunicazione fra le altre teorie che si affacciano nei primi decenni del Novecento e si confermano poi negli anni Sessanta e Settanta – a cominciare da Laswell per continuare con Eco e Jakobson; infatti, mentre tutte quelle teorie sono appunto delle ‘teorie’, cioè dei modelli astratti più o meno perfezionati che cercano di descrivere un fenomeno ‘reale’ – queste sono comunicazioni ‘reali’ che cercano di concretizzare mo-delli astratti (il fatto che situazionismo e psicoanalisi fossero intese come ‘pratiche’ fu il tratto che le accomunò e ne segnò il destino). La ben nota ‘incomprensibilità’ del gergo lacaniano andrebbe letta in questa chiave, come una comunicazione che tende essa stessa al non-senso per resistere alla legge da lei stessa descritta della reversibilità comunicativa; mentre per quanto riguarda Debord, è noto il fatto che anche egli si sia mosso in un rove-sciamento intrinseco dei suoi enunciati, dato che la sua opera principale, La società dello spettacolo, dopo essere stata scritta in forma di saggio, costituì la ‘sceneggiatura’ di un film dallo stesso titolo (1973) che ne conferma/smentisce le ipotesi di fondo (le conferma in quanto il testo recitato dalla voce off di Debord stesso distorce il senso delle immagini, e le smentisce in quanto le immagini distorcono il senso ultimo delle affermazioni teoriche).

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dello specchio») 25. Lo specchio però si limita a «restituire» un’immagine rovesciata, non può certo costruire quel ribaltamento comunicativo che invece sperimentiamo davanti a un monitor. Si può pensare in questo sen-so a un’opera d’arte come Video Corridor (1968-1970) di Bruce Nauman. Come è noto si tratta di un corridoio in cui lo spettatore può entrare; come spiega l’autore stesso «su un altro supporto, c’è una videocamera installata in alto, al di sopra dell’entrata del corridoio. La videocamera è dotata di un grandangolo. Quando entrate nel corridoio, la videocamera è dietro e sopra di voi. Man mano che vi avvicinate al monitor, alla vostra propria im-magine – ossia all’immagine di voi stessi visti da dietro – vi allontanate dalla videocamera; così che sul monitor vi allontanate da voi stessi, e più cercate di avvicinarvi, più vi allontanate dalla videocamera, e dunque da voi stessi. È una situazione del tutto bizzarra» 26.

Si tratta di un’opera in cui entra in gioco la videoripresa, ma il video non viene usato per realizzare (come accadeva nella ripresa cinematogra-fica) una narrazione o un effetto pittorico, ma per riprendere a circuito chiuso solo e semplicemente l’eventuale fruitore, che diventa così il con-sumatore di un processo estetico da lui stesso innescato. Video Corridor mette in crisi l’abituale modo di relazionarsi con le immagini in movimen-to: al posto di una relazione pacifica e domestica tra schermo e spettatore, Nauman introduce un movimento dettato dal desiderio di vedere meglio, ma governato da una ripresa di cui, sulle prime, lo spettatore è inconsa-pevole, e il cui risultato è la sconcertante esperienza di vedersi ripresi e di «non riconoscersi» nell’immagine del monitor – quasi una parafrasi visiva e sperimentale dell’idea lacaniana di comunicazione.

Video Corridor ribadisce che in definitiva è solo davanti a un monitor televisivo e alle immagini live degli altri, del mondo e di noi stessi, che vie-ne messa in gioco la nostra identità e la consapevolezza visiva, cognitiva ed esistenziale che abbiamo di noi stessi.

In questa fondamentale inversione comunicativa consiste la specifica capacità inversiva della tv, inversione che è stata descritta a suo tempo da Jean Baudrilard, proprio in riferimento/distinzione rispetto allo «stadio dello specchio» lacaniano, come «stadio video» 27.

25 Cfr. Lacan 1949, pp. 87-94. Si noti che il testo di Lacan, che già individua con pre-cisione il carattere «drammatico» dell’identificazione prematura, insufficiente, ingannevo-le che il soggetto ha verso la sua immagine, è esattamente coevo con la teoria matematica della comunicazione di Shannon e Weaver. 26 Cit. in Nauman 1997, p. 102. 27 Baudrillard 1989.

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8.3. estetica dei generi tv

Da quanto detto, ne consegue che la discussione sui generi televisivi, deri-vata da quella sui generi cinematografici, risulta assai limitata, per non dire che non coglie affatto nel segno. Eppure come si può affrontare lo studio di una estetica televisiva prescindendo dall’evidente differenziazione dei generi che la tv dimostra di possedere? A questa domanda, pur pertinente, corrisponde un interrogativo che è però ancor più insistente: come è possi-bile che, pur nella varietà quasi estrema dei generi, la specificità televisiva continui a predominare in modo inequivocabile? Ovvero, come è possibile che, anche considerando le produzioni televisive le più diverse, esse restino comunque fondamentalmente accomunate proprio dal loro ineliminabile carattere ‘televisivo’ che le rende tutte invariabilmente simili, tutte ricon-ducibili facilmente allo specifico televisivo che abbiamo prima individuato?

Interpretare la televisione come una arena amorfa abitata da generi diversi deriva sostanzialmente dall’interpretarne la struttura come quella di un testo. Benché la metafora letteraria del testo implichi di per sé un abuso se applicata ad artefatti audiovisivi 28, è evidente che il cinema deve senz’altro molto di più alla letteratura di quanto non debba a esso la tv. In quel caso dunque, l’analitica dei generi, definita da studiosi di cinema come Rick Altman e Steve Neale, ha svolto l’importante funzione di trascendere il singolo artefatto (film) collocandolo all’interno di insiemi definiti da mo-delli, forme stili e strutture che sono appunto i generi 29. Ma il tentativo di suddividere la produzione televisiva in generi definiti da determinate con-venzioni e collegati ad altrettanti modi d’enunciazione risulta molto meno convincente, e in definitiva ha poco a che vedere con la realtà televisiva. L’idea che la tv incarni di volta in volta un modo d’enunciazione funzio-nale, uno veritativo e uno di intrattenimento o ludico, sembra non tener conto della capacità inversiva del mezzo 30.

28 Sul carattere problematico della definizione di tv come ‘testo’, anche all’interno di una concezione semiotica, concordano anche Grasso - Scaglioni 2003, che comunque ne sposano la posizione. 29 Non è il caso di ritornare alle analisi di Horkheimer e Adorno comunque per ren-dersi conto che la suddivisione in generi sia la classica costruzione di un sistema di ‘pseu-do-differenze’ atte a rendere semplicemente commestibile un’unica categoria merceo-logica che andrebbe definita come immaginario cinematografico. La teoria dei generi (anche cinematografici) in definitiva è meno «un’intelligente griglia ermeneutica», quanto piuttosto uno strumento produttivo, un importante ausilio nel marketing culturale – uno strumento che è costruito a priori, e che può essere applicato a posteriori solo a prezzo di un’evidente collusione ideologica tra interpretante e testo interpretato. 30 Cfr. Jost 1999.

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A tal proposito anche coloro che sostengono una divisione generi-ca fondata su queste diverse modalità enunciative, arrivano ad afferma-re: «In sostanza, un autore o un produttore televisivo dà vita a un nuovo programma avendo ben in mente la mappa dei generi che caratterizzano quel particolare momento di storia televisiva. E lo fa anche quando mette esplicitamente in campo operazioni tese a mettere in discussione la map-pa dei generi o a ibridare generi diversi» 31. Se ne evince che il problema della divisione in generi sembri riguardare più un tentativo di ‘costruire’ un senso relativo intorno all’artefatto visivo operato a priori, a monte, un atto dunque produttivo – che però rischia di distorcersi nella sua disce-sa verso l’audience. L’aggiunta secondo cui la teoria dei generi vale anche quando viene «esplicitamente» messa in discussione non ha tutta l’aria di una excusatio non petita? In effetti, se v’è qualcosa di veramente tipico nei generi televisivi è proprio il fatto che essi rimettono in discussione se stes-si – e non tanto per volontà dei loro autori o produttori, quanto per la alterazione che subiscono a opera della mediazione televisiva. Quello che la neotelevisione ha messo in evidenza negli ultimi due decenni è qualcosa di molto diverso dalla semplice ‘ibridazione’ dei generi fra loro (che è piut-tosto un effetto tipicamente letterario). Il fatto è che nel contesto televisivo un genere tende strutturalmente a invertirsi nel suo esatto inverso. Per non parlare del solito reality show (che fin nella terminologia inverte i termini del reale e dello spettacolare) prendiamo in considerazione ad esempio il caso ben noto dell’infotainment, cioè di quei programmi che uniscono en-tertainment e informazione. Già all’alba postmoderna della neotelevisione Gilles Lipovetsky notava: «Il ruolo importante svolto dall’informazione col processo di socializzazione e individualizzazione non può essere scisso dal suo registro spettacolare e superficiale. L’informazione, votata alla cronaca e all’oggettività non è per niente al riparo dal lavorio della moda, anzi: gli imperativi dello show e della seduzione l’hanno in parte rimodellata […]. I servizi devono durare poco, i commenti devono essere chiari e semplici, intramezzati da spezzoni d’interviste, di vissuto, d’aneddoti. E dappertutto immagini che divertano, che trattengano l’attenzione, che provochino emo-zioni forti» 32.

In Italia i casi di Annozero (prima Tempo reale, prima ancora Il rosso e il nero, e ancor prima Samarcanda), Matrix, Porta a porta, ecc., sono emble-matici in questo senso: il contenuto manifesto resta pur sempre l’informa-zione politica, di cronaca o di costume, ma il contesto spettacolare sovverte

31 Grasso - Scaglioni 2003, p. 93. 32 Lypovetsky 1987, p. 239.

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proprio la neutralità epistemologica su cui l’informazione dovrebbe basar-si – così che i «modi d’enunciazione» invertono il valore veritativo in quello ludico e viceversa. Anche se si potrebbe obiettare che questo continuo rin-corrersi di ruoli, interpretanti e interpretazioni che costituisce la trama stes-sa della comunicazione (e dunque dell’estetica) mediale è imputabile alla neotelevisione attuale – ed era sconosciuta alla paleotelevisione – è del tutto evidente che, come la tv ha «portato a verità» le caratteristiche comunica-tive che erano già inerenti ai media precedenti come la radio, la neotelevi-sione ha «fatto emergere» tendenze che erano già ben presenti e radicate nella televisione degli esordi, anche se tenute ai margini e tendenzialmente «controllate»; come non ricordare a questo proposito la sovversione docu-drammatica delle prime candid camera, che univano un linguaggio visivo da documentario socio-antropologico al vaudeville dello «scherzo a parte»?

La neotelevisione non ha fatto altro che rendere strutturale la sovver-sione della mappa dei generi, istituendo proprio la riflessione di un modo d’enunciazione dentro l’altro. Chiaramente questo fenomeno, inscritto nel-la genetica tv fin dalle origini, va molto al di là della semplice modalità enunciativa – è infatti centrato nell’identità ontologica stessa della comuni-cazione televisiva. Non è questa in fondo la cifra già contenuta in nuce nella nozione di pseudo-realismo coniata da Adorno nel 1954?

In questo senso, la crisi della nozione di genere è stata oltrepassata dal-l’imporsi della nozione di format, ossia dello schema originale e compiuto di un programma che però può essere indefinitamente tradotto e adattato a seconda dei contesti mediali, culturali e sociali di riferimento 33. Più che un macro-genere (un sovra-insieme di cui i generi sono gli insiemi e i pro-grammi gli elementi), il format si distingue dal genere per il suo carattere più strutturale che contenutistico. Ne segue la situazione paradossale che due programmi derivati (in contesti diversi) da un identico format possono sembrare appartenenti a generi diversi: il caso di Grande Fratello è emble-matico sotto questo aspetto, dato che il format, di origine olandese, in USA si è trasformato in senso fortemente spettacolare (e anche nelle ultime edi-zioni italiane ha prevalso la diretta da studio e l’incursione di celebrities), mentre in Africa Big Brother Africa ha assunto il pieno valore di un docu-mento sociologico e il senso di una vera sfida tra appartenenze nazionali, unitamente a un’imprevista emancipazione dall’occidentalismo mediatico egemone 34. La forza del format consiste dunque meno nella determinazio-

33 Cfr. P. Fabbri, Estetica del format, «la Repubblica», 18 maggio 2007. 34 Cfr. Jacobs 2007, pp. 851-868. Notevole il fatto che il vincitore Cherise Makubale fu ricevuto e indicato come un esempio da Nelson Mandela.

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ne dei contenuti o del registro enunciativo implicito, quanto nella dimen-sione strutturale, protocollare, in quanto condizione di possibilità «trascen-dentale» di un determinato artefatto visivo. Il format è la perfetta «cornice vuota» che permette al rovesciamento comunicativo televisivo di esprimersi appieno.

8.4. bello e brutto televisivi

A questo punto inizia a divenire più chiara la possibilità concreta di descri-vere un’estetica televisiva.

Solitamente la televisione è stata accusata di produrre forme imper-meabili all’estetica – non solo i singoli programmi, ma in generale gli usi retorici dei processi visivi (riprese, linguaggio, interazione fra personaggi e col pubblico) sembrano quasi condannati a essere confinati nel brutto, nel kitsch, nella spazzatura. È un punto di vista così diffuso nella saggisti-ca sulla televisione da risultare difficile anche criticarne i fondamenti. Si può prendere come esempio, anche per la sua notevole acutezza, l’analisi effettuata da Bottiroli in un intervento del 1999 35. Bottiroli fa riferimento alla nota triade peirciana di Primità, Secondità e Terzità, corrispondente alla triade modale classica di Possibile, Reale, Necessario, e si aggancia a Deleuze che utilizza le categorie di Peirce per interpretare le immagini ci-nematografiche. Così, il cinema non è solo dominato dalla Secondità, ossia dal l’immagine-azione (tipica del cinema americano), cioè dal ‘realismo’, ma è capace di fornire anche immagini-effetto o immagini mentali, afferenti al le tipologie modali della Primità e della Terzità. Per questo il cinema ha valenze artistiche, che alla televisione sarebbero precluse:

Il linguaggio specificamente televisivo è il linguaggio della realtà: le immagi-ni del telegiornale, i grandi avvenimenti sportivi, i funerali di lady Diana e l’interrogatorio di Clinton, ecc. Vorrei ora che cercassimo di trarre le con-seguenze sul piano estetico da questa subordinazione a ‘ciò che esiste, nel momento in cui accade’. Se questa è la forza della televisione, se questa è la motivazione fondamentale a guardarla, allora mi sembra difficile mettere in discussione la tesi secondo cui la tv è il luogo dell’antistile. Infatti lo stile è selezione ed elaborazione (e così genera bellezza): ma in una trasmissione in diretta non si può né selezionare né elaborare. Non vi è il tempo per farlo, e non sarebbe opportuno farlo. L’elaborazione stilistica appare superflua, in

35 Cfr. Bottiroli 1999.

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quanto il telespettatore viene interamente appagato dalla ‘percezione di real-tà’. Una realtà non selezionata è ridondante, ma la ridondanza è televisiva-mente necessaria: ogni correzione, ogni scelta, rischia di cancellare qualcosa di importante: come è accaduto per esempio la sera del 9-12-1998, quando un collegamento con lo stadio di Bilbao ha ‘disturbato’ e in pratica ha impe-dito di vedere in diretta il goal di Amoruso, al Delle Alpi di Torino. Questa goffaggine della tv, ogni volta che deve far ricorso a interventi di selezione, mi pare significativa

Bottiroli ne conclude che

un’opera in cui una categoria scaccia le altre, anziché includerle attivamente, sarà un’opera fallita o mediocre. Un linguaggio che privilegia unilateralmen-te una categoria modale è brutto. Ci si può chiedere se la televisione sia dav-vero ‘irriformabile’ sul piano estetico. Io affermo che il linguaggio televisivo può ospitare bellezze preesistenti, e provenienti dal mondo della vita (pesci tropicali e splendide soubrette) ma, in quanto linguaggio, è inadatto a gene-rare bellezza. 36

Il richiamo alla nozione di stile è in questo contesto problematico; pro-babilmente le osservazioni di Bottiroli potrebbero valere non solo per la televisione, per tutta la videoarte, anzi, forse per tutta l’arte contemporanea in generale. L’arte contemporanea si è costituita per differenza rispetto alla nozione tradizionale di «arte» come un fare orientato alla produzione di bellezza, fin dalle avanguardie storiche se non proprio a partire dal tra-volgente successo del realismo già nel XIX secolo 37. Certamente una data di nascita dell’antistile può essere rintracciata nelle forme artistiche del primo dopoguerra come l’Espressionismo Astratto americano, e più tar-di in tutte le esperienze performative, dall’happening in poi, che evitano a priori qualsiasi elaborazione proprio perché avvengono «in diretta». Sono queste forme che, lungi dal tendere semplicemente verso il «brutto», ne rovesciano il significato: brutto è proprio lo stilistico e l’elaborato, il volu-tamente selezionato, mentre «bello» è l’improvvisato, il casuale, l’amorfo, che coincide con il «riuscito», con il realizzarsi, l’attualizzarsi dell’even-tum 38. Un’idea unilaterale della bellezza, sostanzialmente come armoniosa composizione formale, rischia di essere inadeguata a cogliere il carattere «dialettico» dell’estetica tv, e tende a riflettersi sulla interpretazione stessa delle categorie modali peirciane. Sarebbe fare un torto a Peirce pensare che la Secondità sia banalmente la categoria del realismo: è cosa ben nota che la

36 Ivi, p. 10. 37 Cfr. Danto 2003. 38 Belgrad 1999.

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nozione di «realtà» in senso pragmatista implica un continuo rinvio all’in-finito, e «sarà compiutamente vera solo alla fine della serie dei rinvii inter-pretativi, mai nella presenza della raffigurazione intuitiva. ‘Tale teoria […] fa della realtà qualcosa costituito da un evento infinitamente futuro’» 39. La famosa Secondità è piuttosto un’angolazione del prisma che comprende le altre due categorie, e da cui esse stesse possono essere giudicate – proprio come nei nodi borromei cari a Lacan, in cui ogni elemento implica gli altri due. Il pragmatismo di Peirce è piuttosto la base per i nuovi approcci al-l’estetica come quelli di Dewey che, nel suo Art as Experience, riprendendo il dinamismo ontologico del maestro, anticipa le nuove forme d’arte come l’happening basate sull’accadimento nel qui e ora, e sull’allargamento del-l’estetica a qualunque tipo di esperienza 40.

Il significato estetico della dialettica genere/format che caratterizza in genere il prodotto televisivo è evidenziato in negativo proprio dai momenti di «malfunzionamento» del mezzo. La «goffaggine» della tv quando ad esempio «buca» un collegamento sportivo in diretta, potrà anche spiacere al tifoso, ma palesa in pieno il potenziale televisivo, rompendone da dentro la falsa naturalità: il vero evento che così si rivela è proprio l’evento stesso della comunicazione – in altre parole, «il televisivo» come tale (quello che con un modo di dire abusato è «il bello della diretta», ossia il suo carattere impredittibile, aperto sull’infinitamente futuro peirciano-deweyano) 41.

In questo contesto, all’apparenza addomesticato e strutturato in ge-neri ben definiti, le incursioni artistiche nel mezzo tv, da Dalì a Cage, da Duchamp a Warhol, a Chris Burden, Eco, Pasolini, Gino De Dominicis, Carmelo Bene, ecc., assumono un inedito senso estetico all’interno della dia-lettica tra mediazione ed esperienza e rivelano la vera natura della televisione.

Si prenda in considerazione una delle prime apparizione di un artista all’interno di un tipico quiz show paleotelevisivo come What’s my Line? (andato in onda su cbs dal 1950 fino al 1967). Il gioco consisteva nell’in-dovinare, da parte di alcuni concorrenti bendati, il nome di un personaggio

39 Cit. in Fabbrichesi Leo 1993, p. 21. 40 Su questo specifico punto rimando a Senaldi 2008, pp. 49-60. 41 Esiste tra l’altro una famosa opera di videoarte – ma ispirata chiaramente all’univer-so televisivo, realizzata da due importanti esponenti dell’arte contemporanea internazio-nale quali Douglas Gordon e Philippe Parreno, cioè Zidane. Un portrait du XXIème siècle, 2006, che consiste nella ripresa del solo zinedine zidane durante una partita escludendo tutto il resto dell’evento sportivo; il senso complessivo, cronachistico, della sfida tra Real Madrid e Villareal del 23 aprile 2005 a cui si riferiscono le immagini è perduto, ma il «sen-so» profondo della trasmissione televisuale torna visibile come se fosse la prima volta, e per la prima volta vediamo davvero cosa fa, come si comporta, come «esiste» un giocatore in una partita per tutti i lunghissimi 90' che ne compongono lo svolgimento.bene apice

dritto 90'NON 90’ ?

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famoso presente in studio, a cui potevano essere rivolte delle domande che prevedevano come risposta solo dei sì o dei no. In una puntata (ora dive-nuta visibile) 42 del 1952 fa la sua apparizione Salvador Dalì, all’epoca già molto famoso negli USA, sia come artista che come personaggio pubblico, anche per le sue stravaganze leggendarie come la realizzazione del «Dream of Venus Pavillion» in occasione della World’s Fair di New York del 1939. Si potrebbe trattare di una semplice ospitata all’interno del tipico quiz show, se Dalì, che evidentemente fatica a capire le domande in inglese, si prestasse non solo al gioco, ma in un certo senso lo facesse sfuggire alla sua logica appunto di gioco televisivo – instaurando una sorta di performance. Basta questa uscita di senso per ribaltare il significato della sua apparizione televisiva: con questa performance è la tv stessa a uscire dai propri limiti di intrattenimento e a costituire una vera e propria «opera» firmata Dalì: Dalì in effetti inizia la sua partecipazione allo show proprio apponendo una gigantesca firma su una parete dello studio, quasi anticipando la colossale firma apposta da Picasso su una tela bianca al termine del mitico Le Mys-tère Picasso di H.G. Clouzot del 1956) 43. È forse solo un caso che questo intervento avvenga nello stesso anno in cui John Cage concepisce e realizza il primo happening della storia dell’arte al Black Mountain College? E che, sempre nel 1952, Lucio Fontana firmi con altri spazialisti il rivoluzionario Manifesto del movimento spaziale per la televisione 44?

Evidentemente no, anche se occorre qui stabilire alcune distinzioni. Nel 1952 Fontana non solo teorizzò l’uso artistico della televisione, ma lo mise in pratica realizzando una trasmissione sperimentale oggi perduta, ma che certamente, se dobbiamo credere alle immagini sopravvissute e so-prattutto alle tesi spazialiste, doveva impiegare la luminosità dello schermo come strumento espressivo. Nel Manifesto è però messo in evidenza un al-tro carattere che a quegli artisti appariva fondamentale, cioè la vocazione «spaziale» (più che temporale) della televisione, il fatto che per loro fosse il mezzo ideale per usare «gli spazi … come materia plastica». Questo punto di vista si è rivelato, col tempo, assai fecondo, se solo si pensa all’opera

42 Su youtube, http://www.youtube.com/watch?v=zG41jTUVL5k (accesso del 12 set -tembre 2010). 43 Le partecipazioni televisive di Dalì furono del resto assai numerose, sia sotto for-ma di ospitate (oltre che a What’s my Line, anche a The Name’s the Same, nel 1954, poi a I’ve Got a Secret) che sotto forma di interviste, spesso sorprendenti. È noto che Dalì disprezzava la televisione, ma questo non gli impedì di utilizzarla a più riprese per i suoi «happening»; cfr. l’intervista a Amanda Lear, notoriamente la musa di Dalì negli anni ’70, che usa esattamente questa espressione, cit. in King 2007, p. 183. 44 Rimando qui, e per la sezione che segue, a Senaldi 2009.

dove si apre la parentesi?H.G. o nome

per esteso?

« » opp. corsivo, senza virgolette?

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video artistica di Nam June Paik, l’artista che forse più di ogni altro ha impiegato il video e le possibilità di trasmissione delle immagini nel tem-po e nello spazio. Tuttavia, proprio Paik, come la grande maggioranza dei video artisti, si è allontanato dallo specifico televisivo, impiegando la tele-trasmissione e l’immagine video come forma alternativa rispetto al tipico «contenitore» televisivo.

La strada percorsa invece da altri artisti, segnatamente da Dalì a Cage, su fino a Andy Warhol (artisti interessati al sistema televisivo, non al mez-zo in sé, e pertanto lontani dalla videoarte tradizionale) è invece quella di inserirsi entro il contesto televisivo – sovvertendolo per così dire da dentro, evidenziando in modo anamorfico la dissimmetria che lo contraddistingue.

Pochi anni dopo Dalì, anche John Cage stesso prese infatti parte a un quiz televisivo assai simile. Nel 1958 Cage, a quell’epoca in Italia, decise di concorrere a una delle più importanti e seguite trasmissioni della neonata tv italiana, cioè il celeberrimo Lascia o raddoppia, il cui format era peral-tro modellato sull’esempio del classico USA The $ 64.000 Question 45. La registrazione dell’intervento di Cage si è persa ma ne è sopravvissuta la tra-scrizione in ogni caso straordinaria 46. Inoltre, cosa ancor più importante, è sopravvissuta una partecipazione risalente al 1960 a I’ve Got a Secret, un quiz americano di quegli anni, in cui lo stesso Cage performa il suo brano «musicale» Water Walk 47.

Ora, si potrebbe sostenere che il motivo della partecipazione di Cage al quiz italiano fosse dovuta alla necessità di reperire i fondi per proseguire le sue ricerche musicali, e che quindi il senso di queste comparsate fosse puramente economico – del resto, in che altro modo si potrebbe giustifi-care la presenza all’interno della scatola tv di uno dei compositori più sovversivi del Novecento, sedotto dalla filosofia orientale la più distante che si possa immaginare dalla società spettacolare occidentale? Eppure, il comportamento di Cage, e soprattutto il fatto che tale partecipazione sia stata reiterata dopo poco tempo, fanno ritenere superficiale questa tran-quillizzante lettura.

In effetti, la partecipazione tv di Cage del 1958 segue di pochi anni Unti-tled Event il primo happening da lui tenuto con altri al Black Mountain Col-

45 Cfr. Grasso 2006, p. 365. 46 Cfr. il numero monografico dedicato a Cage di «Sonora» (1992). 47 Visibile su youtube http://www.youtube.com/results?search_query=cage+water+walk&aq=f (accesso del 9 settembre 2010). Cosa notevole, anche Dalì prese parte a una puntata di I’ve Got a Secret, in cui «impersona» la Monna Lisa, in una performance di straordinaria forza e di irresistibile comicità surreale.

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lege nel 1952. Uno dei caratteri dell’happening da non sottovalutare (oltre ai ben noti elementi di aleatorietà, improvvisazione, mescolanza di arti diverse, confluenza fra arte e vita, ecc.) è il fatto che esso si doveva inserire nel resto delle attività quotidiane senza una netta separazione, e che inoltre il suo sen-so dipendeva dal contesto in cui veniva realizzato 48. Ora, Cage negli anni ’50 si era già reso conto che il contesto in cui l’arte andava sempre più inseren-dosi non era il contesto «naturale» della pura vita. Benché il Black Mountain College fosse un luogo di educazione ispirato alle teorie sul rapporto arte/vita espresse da John Dewey nel suo Art as Experience del 1934, Cage opera in un contesto teoretico e sociale ormai distante da quello deweyano 49. Cage comprende chiaramente che l’«esperienza» in senso deweyano è qualcosa di utopico nel suo presunto ritorno alla natura – e infatti nelle opere degli anni ’50 come Wiliams Mix, e Imaginary Landscape 4 e 5 e soprattutto il celebre Radio Music (tutti del 1952, cioè coevi a Untitled Event) utilizza mezzi di comunicazione come radio e dischi registrati su nastro e riprodotti in modo aleatorio – cioè elementi appartenenti all’universo mediale.

Pensare dunque che quando Cage va in tv lo faccia ingenuamente sa-rebbe a sua volta ingenuo; in realtà Cage sta intervenendo esattamente al-l’interno di quella che è un modello dell’‘esperienza’ contemporanea.

Cage inserisce, nell’evento televisivo, l’evento come happening, l’even-to dell’arte. L’evento dell’evento riporta le cose all’inizio – situazione non diversa che in Welles, se pure su scala molto ridotta: Cage cioè riconduce a verità l’ideologia falsamente trasparente del mezzo, ritrasforma la tv da (pseudo) mezzo di comunicazione (ciò per cui essa stessa vuole farsi passare) a comunicatore di mediazione (la mediazione come ciò che conta nella co-municazione, l’accadimento del fatto mediale in quanto tale).

Nella seconda partecipazione tv degli anni ’60, che invece possiamo osservare interamente, questo aspetto è ancor più accentuato. Il conduttore inserisce Cage all’interno del flusso tv esattamente come se si trattasse di un comico o di un pezzo di varietà come un altro – e di fatto ci vuole un po’ per realizzare che si tratta di un happening e non di un bizzarro inventore di macchine inutili. La sua esibizione musicale, infatti, è realizzata perlopiù con oggetti domestici (un frullatore, una vasca piena d’acqua, ecc.). Que-sto dettaglio è però di grande rilevanza: a differenza, infatti, delle letture tradizionali che vedono nell’happening una forma di evento multimediale «eccezionale», «festivo», di rottura e di inaugurazione di pratiche spetta-colari rivoluzionarie, occorre invece ribadire che l’happening ha invece un

48 Cfr. Balzola - Monteverdi 2004. 49 Cfr. ancora Senaldi 2008.

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registro basso, routinario, segnato anche da una vena di insopprimibile co-micità. La scoperta specifica di John Cage consiste pertanto proprio in que-sto, nel comprendere che, attraverso una «semplice» iniezione di nonsense è possibile una inversione dialettica del televisivo – ovvero che il televisivo non è altro che questo continuo ribaltarsi di senso. Le partecipazioni tv di Cage sono dunque di estrema importanza perché riflettono il funzionamen-to inverso del sistema mediale televisivo – lo afferrano per quello che esso (non) è, e lo rilanciano non al mittente, ma a se stesso – lo flettono, per così dire, su di sé (su ciò che non sa di essere).

In tal senso l’happening prende atto del ribaltamento universale indot-to dall’esperienza spettacolare (già sottolineato da Debord) – ribaltamento a cui non si può opporre nessun «mondo raddrizzato», nessuna utopia arti-stica, nessun atto «rivoluzionario» – ma in cui l’unico modo per «prendere coscienza» consiste nel creare un momento di minimo distacco, di leggera asincronia, di sottile sfasamento – cioè appunto l’happening televisivo, ca-lato entro e realizzato dentro (e non fuori o contro) le strutture stesse dello «spettacolo» nella sua massima espressione.

In questo senso, la cifra estetica televisiva, il distacco disidentificante che la mediazione televisuale ha sulle cose e sui soggetti, viene pienamen-te assunta dall’unico artista che si sia incaricato non solo di partecipare a trasmissioni tv, ma di diventarne autore e produttore – cioè Andy Warhol. Warhol si dedica alla tv in maniera approfondita e tutt’altro che episodica a partire dalla fine degli anni ’70 fino alla sua morte, nel 1987, prima con Fashion, una sorta di proto-talk show andato in onda sull’emittente via ca-vo Manhattan Cable. Alcune puntate di Fashion vengono del resto riprese e ritrasmesse all’interno della Andy Warhol’s tv (su msg Network, 1980-1986) che quindi può a pieno titolo essere considerata la prima vera tv warholiana, seguita dalla più celebre serie Andy Warhol’s Fifteen Minutes (1986-1987) su mtv. È significativa la presenza di Warhol: sempre laterale, non fa assolutamente nulla per imporsi nello show, non conduce, non ruba la scena – anzi, molto spesso, la lascia ad altri, quasi che in fondo il livello più alto dell’opera fosse ormai quello di un puro registrare gli eventi e le novità che si susseguono in un andirivieni senza posa, di cui solo la televi-sione può essere il fedele specchio. È vero che a più riprese intervengono nello show vecchie glorie della Factory come Divine, o artisti veri e propri come David Hockney, Philip Glass, Keith Haring, ma è indiscutibile che Warhol non fa nulla per far fare alla tv ciò che la tv non farebbe da se stes-sa. Il fatto, a tutta prima sorprendente, che Andy Warhol’s tv non evidenzi dei contenuti apertamente artistici, non ne fa un ‘sottoprodotto’ all’inter-no della variegata attività di Warhol, anzi, ne costituisce semmai – e nella

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voluta mancanza di qualsiasi elemento «originale» – l’originalità estrema. Andy Warhol’s tv va collocata pertanto al punto limite della sdefinizione dell’arte, e contestualmente della figura separata dell’artista, là dove questa sdefinizione sconfina nella sdefinizione del medium televisivo. Con questa operazione Warhol compie un gesto estremamente significativo perché, proprio nella sua vicinanza alla logica più retriva e commerciale del pro-dotto televisivo di massa, cioè il talk show, riesce ad additarne la cornice strutturale non da una presunta alterità ermeneutica, ma da dentro – da una vicinanza rischiosamente confondibile con la collusione. Un po’ come accadde per le famose Brillo Boxes, autentiche sculture che simulano le vere scatole di prodotto, Andy Warhol’s tv riesce a mettere in simulazione la macchina produttrice per eccellenza di simulacri, ossia la televisione – e con ciò produce sia l’oggetto (un vero prodotto mediale, un talk show) che un processo mentale (una riflessione su di esso). Per questo la Andy Warhol’s tv è l’equivalente mediale delle Brillo Box di vent’anni prima.

D’altra parte quest’«opera» televisiva cela un monito che nella sua vi-ta Warhol ha ribadito a più riprese, ossia il fatto che, nella società dello spettacolo mediale, si può certo diventare famosi, ma questa fama, o me-glio, questo successo momentaneo, è pagato con la moneta sonante della propria identità. Diventare dei personaggi televisivi, insomma, ci ricorda Warhol, implica necessariamente cessare di essere persone – significa en-trare nello stadio-video – dunque cessare di «essere se stessi». E il primo a sperimentare questo senso di estraneità intrinseca è Warhol stesso: «Avevo sempre pensato di non essere del tutto presente: ho sempre avuto l’impres-sione non di vivere, ma di guardare la tv» 50.

Andy Warhol’s tv riassume quindi i caratteri determinanti della poe-tica warholiana, ma esprime anche un’importante concezione dell’estetica televisiva: il carattere inversivo della comunicazione (per cui tutto ciò che entra nel video tende a perdere la propria identità, e a rovesciarsi nel suo opposto); l’elemento di creazione dell’«evento»; e infine (qui più chiara-mente che altrove) la ripresa del concetto di interpassività, trattandosi del classico talk-show in cui non succede niente – il titolo originariamente pen-sato da Warhol era Nothing Special (Niente di speciale), in cui l’eccezionale dell’opera d’arte diventa quel nulla di speciale che è la televisione stessa, questo nulla che non si nota, ma che domina le nostre vite, le «passivizza» –.

In ogni caso, tra le partecipazioni più notevoli di Warhol alla tv, vanno annoverati i tre celebri episodi di un minuto ciascuno realizzati per il Satur-

50 Warhol 1975, p. 77.

bene inciso per lasciare trad. in corsivo e in parentesi (per unif.)?

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day Night Live, lo show più famoso d’America. È sintomatico il modo con cui Warhol gestì questo rapporto con la più importante emittente USA, la nbc, produttrice dello show. Contattato da Lorne Michaels già nel 1979 in-fatti, che aveva intenzione di realizzare uno speciale di 90' su di lui, Warhol rifiutò, perché non avrebbe avuto abbastanza controllo artistico sulla pro-duzione. Questo rifiuto è della massima importanza in quanto fa capire che Warhol era talmente consapevole dell’importanza estrema della tv, e del fatto che la propria identità di individuo e di artista ne sarebbe stata segna-ta, da rifiutare la possibilità che la tv si occupasse di lui se lui non poteva occuparsi della tv. Fu solo più tardi, nel 1981, quando venne nuovamente contattato da Nelson Lyons, amico del writer e produttore Dick Ebersol che gli chiedeva di realizzare tre spezzoni per lo show, che Warhol – che nel frattempo aveva acquisito l’esperto Don Monroe come direttore delle produzione tv della Andy Warhol Studio – accettò. Lo spezzone più fa-moso è quello in cui Warhol viene truccato davanti a uno specchio e parla dell’unico vero tabù televisivo, cioè la morte. Ma non si tratta della morte cristiana – il passaggio all’aldilà –, né della morte romantica (tema autodi-struttivo che invece è tipico proprio di Basquiat come incarnazione tardiva del vangoghismo) – no: qui la morte è veramente la morte mediale, il venir meno dello spettacolo all’interno dello spettacolo come tale. Infatti, mentre Warhol dice: «[…] la morte può renderti simile a una star. Ma tutto va stor to se il tuo make up è sbagliato …», gradualmente, mentre viene truc-cato con un pesante cerone biancastro, quasi come se fosse già un cadavere da esporre allo sguardo dei fan, l’immagine si sfuoca, diventando una trama di pixel sempre più larghi, sempre più astratti. Warhol, la sua effige, diven-tano niente, si smarriscono nei pixel che compongono l’immagine televisiva stessa 51.

La vita, divenuta completamente estetizzata (e non a caso la tv di Warhol si occupa spesso di moda e di stilisti) è anche divenuta totalmente anestetizzata (secondo la profezia di Duchamp): il massimo della pervasi-vità dell’esperienza estetica combacia col suo minimo, coincide con la spa-rizione di ogni Bedeutung artistica – altro ossimoro tipicamente televisivo. Il singolo è l’universale, il minimo diventa il massimo, l’inestetico diventa l’estetico e viceversa l’estetizzazione forzata conduce all’anestesia totale, e infine il massimo dell’agire coincide con il puro patire – in questo inces-sante rovesciarsi di una cosa nel suo opposto sta il tratto tipico dell’epoca televisiva.

51 Su questo punto, cfr. Spiegel 2008, cap. 7, «Andy Warhol tv».

al di là > aldilà: bene?

bene apice dritto 90'NON 90’ ?

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