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1. INTRODUZIONE La pubblicità è la vera forma d’arte delle società a capita- lismo avanzato, “l’arte per eccellenza… pura esposizione del potere sociale” come sostenevano fin dagli anni ’40 i sociolo- gi marxisti della Scuola di Francoforte, Adorno e Horkheimer? Se così fosse, avrebbe poco senso parlare di rapporto tra arte e pubblicità, dato che si tratterebbe di una sostanziale equivalenza tra reparti diversi della medesima industria culturale (Adorno, Horkheimer 1947, p. 175). In verità le cose stanno in modo più complesso. Nonostante l’arte si sia manifestata, nel 900, e in partico- lare nel secondo dopoguerra, come un’arte tesa a sgretolare ogni tradizione figurativa e rappresentativa ed ogni pretesa di autonomia dell’arte “classica” – tuttavia, proprio in questo meccanismo di negazione l’arte ha salvato se stessa ed una sua specificità particolare all’interno del campo sociale e cul- turale. E benché come affermano i sociologi (Zolberg 1990) l’artista occupi né più né meno che il ruolo di un attore socia- le, per quanto privilegiato, ciò non toglie affatto che la sua figura rivesta un ruolo di primo piano, come dimostra proprio il fatto recentissimo che grandi artisti della scena contempo- ranea vengano sempre più spesso ingaggiati come testimonial pubblicitari da aziende che commerciano prodotti che con l’arte in senso stretto non hanno nulla a che fare (Senaldi, 2003; Codeluppi 2003) – il che implica che arte e pubblici- – 1 –

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Un saggio sul rapporto tra arte contemporanea e pubblicità (1960-2000). Analizza le opere di artisti internazionali e il loro rapporto col discorso delel merci

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1. INTRODUZIONE

La pubblicità è la vera forma d’arte delle società a capita-lismo avanzato, “l’arte per eccellenza… pura esposizione delpotere sociale” come sostenevano fin dagli anni ’40 i sociolo-gi marxisti della Scuola di Francoforte, Adorno eHorkheimer? Se così fosse, avrebbe poco senso parlare dirapporto tra arte e pubblicità, dato che si tratterebbe di unasostanziale equivalenza tra reparti diversi della medesimaindustria culturale (Adorno, Horkheimer 1947, p. 175).

In verità le cose stanno in modo più complesso.Nonostante l’arte si sia manifestata, nel 900, e in partico-

lare nel secondo dopoguerra, come un’arte tesa a sgretolareogni tradizione figurativa e rappresentativa ed ogni pretesa diautonomia dell’arte “classica” – tuttavia, proprio in questomeccanismo di negazione l’arte ha salvato se stessa ed unasua specificità particolare all’interno del campo sociale e cul-turale. E benché come affermano i sociologi (Zolberg 1990)l’artista occupi né più né meno che il ruolo di un attore socia-le, per quanto privilegiato, ciò non toglie affatto che la suafigura rivesta un ruolo di primo piano, come dimostra proprioil fatto recentissimo che grandi artisti della scena contempo-ranea vengano sempre più spesso ingaggiati come testimonialpubblicitari da aziende che commerciano prodotti che conl’arte in senso stretto non hanno nulla a che fare (Senaldi,2003; Codeluppi 2003) – il che implica che arte e pubblici-

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tà mantengano ciascuna la propria identità distinta, purintrattenendo vicendevoli “legami pericolosi”.

La storia dei rapporti fra arte e pubblicità va dunque inda-gata attentamente nei suoi snodi e nelle sue complesse evo-luzioni.

In questo testo descriveremo cinque diverse fasi storico-concettuali caratterizzanti questi rapporti:

1. una prima fase che possiamo definire mimetica, coin-cidente con la pop art inglese e americana degli anni ’50-’60;in questa fase è l’arte che si rivolge per la prima volta inmaniera chiara verso il mondo della pubblicità, delle merci edei prodotti, assumendone direttamente i messaggi e le formecome contenuti della propria opera;

2. una seconda fase critica, coincidente con le due moda-lità espressive, quella iperrealista e concettuale; due movi-menti che sostituiscono la mimesi con l’indagine e l’analisi,in un momento di crisi generalizzata (anni ’70); analisi da unlato (iperrealismo) condotta con i mezzi apparentemente tra-dizionali della pittura (ma subordinata alla totale trasparenzafotografica); dall’altro indagine dei meccanismi e delle strut-ture “invisibili” (concettuale), ossia linguistici, semiologici,ecc., soggiacenti alla produzione industriale e al discorsopubblicitario;

3. una terza fase, coincidente con l’affermarsi del pensie-ro postmoderno (fine anni ’70 – primi anni ’80) che definia-mo “simulazionista”, poiché il concetto principale è il pas-saggio dalla “rappresentazione” delle merci e dei prodottialla loro vera e propria “simulazione”, ossia a una forma diriproduzione più sottile in cui si evidenzia che l’opera d’artenon “copia” gli oggetti e il mondo, ma sa fornirne una versio-

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ne alternativa, in un mondo in cui l’“originale” non esistepiù;

4. alla fase simulazionista succede una quarta fase(primi anni ’90), processuale; dalla simulazione del “prodot-to” e/o dalla sua assunzione in quanto simulacro di se stesso,si passa alla simulazione del “processo” che dà luogo a quelprodotto, e si assiste ad un ritorno alle pratiche concettuali –applicate però stavolta non solo alle strutture linguistiche, maanche a quelle più direttamente politiche e sociali;

5. infine, una quinta fase di sconfinamento ed inversionetra i campi ormai resi reciprocamente permeabili di arte epubblicità, dove non vi sono più due realtà contrapposte, madue realtà ciascuna delle quali tende a diventare l’opposto dise stessa dis-identificandosi da se stessa – l’arte include lanon-arte, la pubblicità tende alla meta, o iper-pubblicità,sconfinando più volte nei territori artistici, servendosene elasciandosi usare, e viceversa.

1. INTRODUZIONE

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22.. LLAA MMIIMMEESSII DDEELLLLEE MMEERRCCII

Va ricordato che la pop art nacque, come concetto e comedefinizione, nei primi anni ’50 nella Londra dell’Institute ofContemporary Art al cui interno si era formato un gruppo dicritici e artisti che si autodefinirono Independent Group. Iltermine “pop art” era ampiamente in voga tra artisti comeRichard Hamilton e critici come Lawrence Alloway, e già aquell’epoca era chiaro che “Hollywood, Detroit e la MadisonAvenue erano i centri di produzione della migliore culturapopolare”.1 Questa affermazione è interessante perché, seHollywood è il luogo di nascita del cinema di massa, e Detroitquello degli oggetti di consumo, e in particolare delle fabbri-che di automobili, Madison Avenue è la strada di New Yorkdove hanno sede le più importanti agenzie di pubblicità. Laprima mostra del gruppo all’ICA, This is Tomorrow, del 1956,era organizzata e promossa come una “manifestazione pub-blicitaria (Grazioli 2001, p. 125).

Quindi, già per i predecessori inglesi della pop art, la pub-blicità è un linguaggio e una realtà contemporanea di cui gliartisti non possono non tener conto.

In una lettera del 16 gennaio 1957 all’architetto AlisonSmithson, Hamilton definisce i caratteri della Pop Art con

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1 Le parole di Alloway sono cit. in Lucy R. Lippard, Pop Art (1966), tr. it.Mazzotta, Milano 1967; cit. in L. Vergine, L’arte in trincea, Skira, Milano 1996,p. 72.

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grande lucidità: essa deve essere “designed for a massaudience”, “Witty”, “Sexy”, “Glamorous” e soprattutto “low-cost” (cit. in Stiles, Selz, 1996, pp. 296-297), esattamentecome una merce di consumo pari alle altre.

Le opere prodotte in quel torno di tempo da artisti inglesicome E. Paolozzi, R. Hamilton, R. Smith, A. Jones, D.Hockney, ecc., contengono quindi tutti i temi del rapportocon la cultura di massa. Nei loro dipinti si trovano già presen-ti icone pop come il viso di Marilyn (Peter Phillips, Per soliUomini, con MM e BB, 1961, cfr. E. Lucie-Smith, 1966,p. 136), o bandiere nazionali insieme a elementi di graficapubblicitaria (Derek Boshier, ibid.); o eroi dei fumetti come

Micki Mouse e una scatoladi conserva di succo difrutta (E. Paolozzi, RealGold, 1950; cfr. Stiles-Selz, 1996, p. 297).

Se poi si osserva ilfamoso dipinto-collage diRichard Hamilton, JustWhat Is it that MakesToday’s Homes so Different,so Appealing? (1956), incui appare un culturistacon un lecca-lecca consopra scritto POP, si nota-no sullo sfondo non solo lacopertina di una storia afumetti (incorniciata comese fosse un quadro dell’i-

potetica stanza del futuro) ma anche un giornale quotidiano,un televisore, un registratore, un aspirapolvere, con relative

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Richard Hamilton, Just What Is it thatMakes Today’s Homes so Different, soAppealing?, 1956

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istruzioni per l’uso, una scatola di prosciutto in conserva euno stemma della Ford — mentre sullo sfondo appare un’in-segna di cinema o teatro e la scritta “Warner’s” (Bros?), ecome soffitto fa capolino, innaturalmente vicina, la Luna. Inaltre parole ci sono già, Hollywood, Detroit, Madison Avenue,forse anche lo Sputnik — come se l’artista avesse già ampia-mente sott’occhio quello che McLuhan aveva già definito findal 1951 Il folclore dell’uomo industriale, (sottotitolo de Lasposa meccanica) primo grande testo — tra l’altro ampiamen-te illustrato con riproduzioni di réclames tratte da periodici equotidiani dell’epoca — dedicato allo studio dei consumi,delle merci, e soprattutto della pubblicità.

Gli artisti pop inglesi sono i primi a prendere in conside-razione nelle loro opere le merci, i loro imballaggi e le pub-blicità che li reclamizzano, e abbandonano i vecchi soggettidella pittura e della scultura, come il corpo umano o glioggetti quotidiani tipici delle antiche nature morte. Inoltretendono a imitare anche le stesse tecniche di produzione e dicomunicazione dell’epoca consumistica, concentrandosi dun-que sullo stile, la grafica, l’efficacia visiva immediata dellapubblicità, come carattere centrale della moderna società deiconsumi; non è un caso dunque che nelle opere dei pop arti-sti inglesi spesso l’autore rinunci alla riproduzione pittoricaper impiegare direttamente il collage, ossia il prelievo di ele-menti tratti dalla realtà comunicativa a lui coeva, come gior-nali, riviste, pagine pubblicitarie, immediatamente riportatisulla tela.

Quando, dopo qualche anno, il nome e l’idea di pop artgiungono negli USA, assistiamo ad un ulteriore evoluzioneespressiva. In America, la Pop Art, — con una serie di arti-sti, a vario grado legati tra loro (da A. Warhol, a J. Johns,

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J. Rosenquist, T. Wessellman, M. Ramos, R. Lichtenstein, R.Rauschenberg, ecc.) — compie un passo concettualmentedecisivo rispetto agli esordi inglesi: non basta occuparsi dellacultura di massa, impiegandola come contenuto delle proprieopere – occorre metterne in luce il meccanismo fondante.Qual è questo meccanismo, qual è l’“arcano della merce”(Marx) nell’epoca del consumismo?

Proprio McLuhan indica il tema della ripetizione cometipico stratagemma pubblicitario: “da che cosa si riconosce lavera Rosalind Russell?” dice una pubblicità di candele perautomobili, paragonando la foto dell’attrice famosa a quelladi una sconosciuta “sosia” — la vera naturalmente, è solol’autentica, l’“originale”.2 Non fatichiamo a riconoscere inquesto esempio una nota tecnica pubblicitaria: “diffidatedelle imitazioni!” — un escamotage per non dire che, nell’e-poca del consumo, ogni cosa è imitazione. Ossia, a causadella “ripetitività” della produzione industriale, ogni oggettoquando diventa merce cessa di essere semplicemente quelloche è, per diventare una replica di se stesso.

La pop art coglie tutto ciò come tratto caratterizzante del“folklore industriale”, e ne fa un elemento espressivo. Questoconcetto di replica rompe l’originaria relazione tra un modu-lo (l’originale) e le sue rappresentazioni.3 Come recita il tito-

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2 M. McLuhan, La sposa meccanica (1951), tr. it. Sugarco, Milano 1984,p.169.

3 Con la pop si avvera quel “rovesciamento del platonismo” che Foucaltaveva individuato nell’opera di Deleuze (prefaz. a Differenza e ripetizione), ossiail rovesciamento della condanna platonica dell’arte in quanto produttrice disimulacri tre volte lontani dalla verità (Platone, Repubblica. libro X, 598b). Lapop è dunque, nelle parole di Deleuze stesso (Logica del senso [1969], tr. it.Feltrinelli, Milano 1976, p.233) lo stadio compiuto dell’indipendenza del simu-lacro.

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lo di un’opera di Andy Warhol, Thirty Are Better Than One(Trenta sono meglio di Una) 1963; anche l’opera più famosae “più unica” del mondo, la Gioconda di Leonardo, puòdiventare una serie di 30 riproduzioni serigrafiche.

Serigrafia (Warhol), calco (Jasper Johns), utilizzo dell’og-getto stesso direttamente nell’opera (Rauschenberg impiegòad esempio tre bottigliette di Coca-cola in un suo quadro),diventano parte dell’espressività pop.

“Se si prende una lattina di minestra Campbell e la si ripe-te per cinquanta volte, non si è interessati all’immagine reti-nica. Ciò che interessaè l’idea di porre lattinedi minestra Campbellsu una tela”.4

Ciò significa che, daun lato l’“originale delprodotto” (l’originaledella scatola di conser-va Campbell, o dellascatola di Brillo, nelcaso di Warhol, o dellelattine di birraBallantine Ale, nel casodi Johns) non esiste, nonè in vendita (è tutt’al più una maquette sepolta in qualchestudio di comunicazione); dall’altro non esiste più l’operad’arte come “originale”. Esistono solo copie, virtualmenteidentiche l’una all’altra.

2. LA MIMESI DELLE MERCI

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4 Così afferma Duchamp in un’intervista al New York Herald Tribune del17 maggio 1964 (in: J. Gough-Cooper, J. Caumont, Effemeridi su e intorno aMarcel Duchamp e Rrose Sélavy, Bompiani, Milano 1993, catalogo della mostraa Palazzo Grassi, Venezia 1993).

Jasper Johns, Painted Bronze, 1960

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“La ripetizione è un carattere della cultura” ha dettoBarthes, e “la Pop Art , in modo spettacolare, ripete”.5 Eindubbiamente, quando con la mente riandiamo alla pop arte alle sue opere, pensando a oggetti ripetuti, a bottiglie diCoca-Cola o a lattine di zuppa Campbell’s, a bandiere ameri-cane e a frammenti di fumetti, a visi replicati, a divi del cine-ma, emerge il fatto che chiaramente, nella pop art, l’operad’arte stessa come unicum è finita.6

Le reazioni che questa presa di posizione generò furonotutt’altro che pacifiche. Da un lato, il mondo della produzio-ne si schierò inizialmente contro la pop art: proprio laCampbell Inc., produttrice della famosa linea alimentareCampbell’s Soup, fece stampare un avviso pubblicitario assaiparticolare; in esso si può vedere la riproduzione della altret-tanto famosa serigrafia di Andy Warhol, Campbell’s Soup can,del 1963, con accanto la scritta: “Quest’opera è stata recen-temente battuta all’asta da Sotheby’s — New York per quasi34.000 sterline. Voi potete comprare l’originale presso isupermercati Tesco per 26 penny”.7

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5 R. Barthes, in L’ovvio e l’ottuso, Seuil, Paris 1982 (2ª ed.), tr. it. Einaudi,Torino 1983; la cit. è da P. Taylor (a c. di) Post-Pop Art, MIT Press, Cambridge(Mass.)-London 1989, p. 23.

6 Sulla fine dell’opera d’arte come unicum si era fra l’altro già espressoDuchamp, secondo cui una caratteristica di suoi readymade (fin dagli anni ’10)era la “mancanza di unicità” e il fatto di non essere “un originale nel senso con-venzionale del termine”; queste parole furono pronunciate in occasione di unsimposio presso il MoMa di New York nell’ottobre del 1961; per ironia dellasorte ebbero l’effetto di mandare su tutte le furie l’allora sedicente neodadaista(e poi protagonista della pop art americana) Robert Rauschenberg; cfr. 19 otto-bre 1961, in: J. Gough-Cooper, J. Caumont, Effemeridi su e intorno a MarcelDuchamp e Rrose Sélavy, cit.

7 Cfr. un episodio simile cit. in Calvin Tomkins, The Scene, The VikingPress, New York 1976, tr. it. in Vite d’avanguardia, Costa & Nolan, Genova

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Dall’altro lato, la pop art disattese completamente le carat-teristiche dell’“arte di massa” individuate già nel ’57 daHamilton, quelle di essere “mass produced” e “low cost”8 —le opere pop continuarono ad essere prodotte per il ristrettogiro delle gallerie, furono sempre più richieste e quindi desti-nate a diventare fra le opere più care del secolo, e coloro chele producevano (alcuni dei quali, come Warhol o Rosenquist,provenivano dal mondo della grafica pubblicitaria) rinuncia-rono volentieri al loro lavoro di pubblicitari per diventare“artisti”.

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1983, p.243, in cui si ricorda che i quadri di Warhol con le lattine di Campbellfurono esposti per la prima volta nel 1962 alla Ferus Gallery di Los Angeles;“Una galleria accanto alla Ferus Gallery espose in vetrina una serie di lattinevere, impilate, con la scritta: ‘Ecco quelle vere a soli 29 cents la lattina’”. Ancorpiù interessante la vicenda delle Brillo Boxes realizzate da Warhol, esposte perla prima volta alla Stable Gallery di New York nel ’64; la famosa “onda” dellaconfezione del detersivo Brillo era stata infatti disegnata da un ex-espressioni-sta astratto, James Harvey, costretto a farlo per sopravvivere. Con grande intui-to pop, comunque, Warhol gli telefonò “proponendogli di scambiare una dellesue sculture con un originale firmato, ma prima di concludere lo scambioHarvey morì di cancro” (sott. nostra; cfr. V. Bockris, Andy Warhol, tr. it.Leonardo editore, Milano 1989, p. 171).

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Andy Warhol, Large Coca-Cola, 1962

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33.. LLAA CCRRIITTIICCAA DDEELLLLAA PPUUBBBBLLIICCIITTÀÀ

I. La crisi iperrealista

Quello che aveva messo in luce la pop art era la replicabi-lità come concetto, già intrinseco al mondo stesso dellemerci, prima che nell’arte. Aveva dunque ragione Warholquando sosteneva che il sapore della Coca-Cola è lo stessoovunque e per tutti; la bevanda mondiale è perfetta meno inragione del suo gusto, che per il fatto di essere eternamenteripetibile e uguale per tutti... Da questo punto di vista, la popart (e questo è forse il vero merito della pop americana) èandata anche oltre, dimostrando che la ripetibilità nonriguarda più solo le merci e le opere d’arte (nel senso indica-to da Benjamin), ma, riflessivamente, i soggetti stessi. Se laCoca-Cola è la stessa per Warhol, il Presidente degli StatiUniti, Liz Taylor, e per me, ciò significa anche che Warhol, ilPresidente, Liz ed io, siamo in qualche modo, intercambiabi-li; questo è il senso della famosa frase warholiana “in futurotutti saranno famosi per 15 minuti”: tutti sono già famosi, eper sempre, non perché ciascuno nasconda un nucleo sogget-tivo originale e unico, ma, al contrario, perché ciascuno è già

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in se, intimamente, “ripetibile”. Ne fa fede il fatto che lo stes-so Warhol arrivò a farsi sostituire da un sosia (l’attore AlanMidgette) in alcune apparizioni pubbliche: “Midgette è moltopiù simile a ciò che la gente si aspetta da me di quanto iopossa mai essere”.9

Tuttavia, occorre fare attenzione a queste prese di posizio-ne: se la pop art avesse veramente distrutto il mito del sog-getto e insieme quello dell’opera, allora le critiche commonsensical al fatto che le opere pop non avrebbero dovuto vale-re più delle merci da cui traevano spunto, sarebbero giustifi-cate. In effetti, anche il grande de Kooning si lamentava cheil suo gallerista Leo Castelli, passato alla pop, vendesse “lat-tine di birra vuote” — cosa che si verificò puntualmentequando Jasper Johns, udite le parole di de Kooning, realizzòeffettivamente la scultura bronzea delle due lattina di birraBallantine Ale.10 In realtà , i quadri , le sculture, ed anche iprodotti cinematografici o le installazioni della pop art, siportavano dentro la contraddizione di essere opere ispirate

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8 Cit. in Stiles e Selz, ibid.9 Cfr. Tomkins, cit., p. 248. È da ricordare che questa pratica di sostitu-

zione conosce varie riprese nel mondo dell’arte contemporanea; in particolare,recentemente è stata adottata da M. Cattelan (intervistato per il programma tele-visivo Le notti dell’Angelo [Canale 5, 1997] ha inviato un suo sosia); essa è soloapparentemente l’inverso della presenza all’evento “in carne e ossa” propria deibodyartisti (cfr. cap. 2). Si pensi ai lavori della Abramovic, in particolare a RoleExchange, 1975, in cui l’artista si era fatta “sostituire” da una prostituta diAmsterdam all’inaugurazione in galleria, e al tempo stesso la “sostituiva” nel-l’esercizio della sua “professione” (cfr. AAVV., Marina Abramovic, Artist Body,Charta, Milano 1998, p. 112); dimostrazione “warholiana” dell’interscambiabi-lità dei soggetti, sia pur apparentemente così diversi fra loro. Da ricordare chenel ’79 Warhol arrivò a “vendere l’anima” al duo artistico russo Komar &Melamid (cfr. C. Ratcliff, Komar & Melamid, Abbeville Press, New York 1988,pp.116 ss.), vendita testimoniata da un regolare atto firmato.

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alla cultura di massa, senza essere veramente “per tutti”come le merci di consumo. Lo stesso ragionamento si puòapplicare alle individualità: non fu un caso la contraddizioneche segnò tutta la vita dell’uomo-Warhol, il quale, più si sfor-zava di essere “qualunque”, più veniva idolatrato e veneratocome personaggio “eccezionale”, fino al punto da divenireoggetto di un gesto iconoclasta e di diventare il bersaglio diuna fan impazzita, al pari di una rockstar (si pensi al caso diJohn Lennon) o di un uomo politico (per inciso, l‘attentato aWarhol avvenne il 3 giugno 1968, quarantott’ore prima del-l’assassinio di Bob Kennedy a Los Angeles11).

Queste contraddizioni emergono chiaramente nel decen-nio successivo a quello in cui aveva preso l’avvio la pop art.Negli anni 70, in particolare, si afferma negli USA una cor-rente nota sotto il nome di Iperrealismo o ancheFotorealismo, la cui caratteristica risiede nella scrupolosa equasi maniacale cura nel rappresentare scene di vita tipica-mente contemporanee. Gli esponenti di questa corrente,come Douane Hanson, Chuck Close, R. Eastes, ecc., produ-cevano – a differenza dei loro antesignani pop – degli auten-tici quadri e delle autentiche sculture, spesso con materialinobili e appartenenti alla tradizione artistica classica (bron-zo, olio su tela), e tuttavia, nella scelta dei contenuti rappre-sentati si rifacevano a fotografie e a personaggi del mondoreale, ritratti senza alcuna condiscendenza al “tocco persona-le” o all’abilità pittorico-rappresentativa individuale. Nederivavano quadri e sculture formalmente molto elaborati, didimensioni spesso enormi, nel caso della pittura, e di resa

3. LA CRITICA DELLA PUBBLICITÀ

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10 Cfr. Tomkins, cit., p. 93-94.11 L’assassino di Lennon dichiarò ai media che, uccidendo una star, egli

era un Nessuno che era diventato Qualcuno.

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realistica addirittura sorprendente, nel caso delle statue, lacui realizzazione implicava moltissimo tempo, e che quindierano prodotti in quantità estremamente limitata – esatta-mente al contrario delle opere pop.

Anche se apparentemente l’iperrealismo segna un passoindietro rispetto alle sperimentazioni pop, ed anche se ilmovimento venne spesso bollato dall’accusa di costituire unsemplice “virtuosismo”, in realtà non fu così. Gli artisti iper-realisti esercitavano una analisi sul mondo della merce edella comunicazione pubblicitaria, sull’universo del consumoe della vendita, così accurata che era in grado di mettere inevidenza gli aspetti meno apertamente seduttivi del consumi-smo che aveva affascinato i pop artisti. Nelle opere degliiperrealisti, infatti, le merci erano spesso mostrate in unaluce che ne evidenziava i minimi difetti, gli eccessi, o addi-rittura la tragica crisi: in alcuni casi le confezioni sono ingi-gantite fino a mostrarne la mediocre qualità di stampa; inaltri, sono proprio prodotti come le automobili, che avevanoaffascinato artisti quali Hamilton o Rosenquist, ad essererappresentati non più nello splendore che possiedono danuovi, ma nella miserabile condizione che acquistano quan-do, invecchiati e inservibili, sono abbandonati nelle discari-che e ridotti a rottami.

Un caso a parte è poi quello dello scultore DouaneHanson, che si dedicò invece a riprodurre in scala 1:1 perso-naggi tipici della vita quotidiana: il poliziotto, la massaia alsupermarket, l’infermiera di colore, perfino la classica coppiadi turisti americani di mezz’età in vacanza. Il risultato diverosimiglianza è così sconvolgente che, alla prima mostradell’iperrealismo (MoMa, New York, 1970), molti visitatori sifermavano a osservare le statue, pensando che si trattasse dimimi in carne e ossa, e i guardiani dovevano controllare scru-

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polosamente che,dopo la chiusura,qualche visitatorenon si fosse confusotra le opere.12

La critica dell’i-perrealismo è evi-dente: esso accusala società dei con-sumi di ricoprirecon apparenze sgar-gianti il grigioredelle cose quotidia-ne, che, in quantooggetti materiali,sono soggette a rovi-narsi, a distruggersie a deludere chi lecompra. In partico-lare la pubblicitàspingerebbe lagente ad acquistare i prodotti facendo leva su promesseimmaginarie che questi ultimi non sono in grado di mantene-re, come dimostra l’analisi “fotografica”; ma il meccanismo ècosì ben congegnato che non basta certo una semplice foto-grafia della realtà per svelarlo, e occorre invece il sapiente epaziente rifacimento artistico per dire l’ultima e autenticaparola sul vero volto della “realtà”. L’iperrealismo è dunqueuna sorta di “realismo capitalista” di segno inverso rispetto alpiù noto “realismo socialista”; mentre quest’ultimo costituiva

3. LA CRITICA DELLA PUBBLICITÀ

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Douane Hanson, Turisti

12 Cfr. Dorfles, Vettese, Arti visive, Atlas, Bergamo 2000.

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una vera e propria propaganda del modello social-comunista(soprattutto in quei paesi dove tale modello era stato effetti-vamente applicato, come URSS e Cina), l’iperrealismo è unaforma esasperata del vecchio “realismo” o “verismo” ottocen-tesco, aggiornato però alle drammatiche condizioni di vitadella società capitalista degli anni ’70 – anni in cui il capita-lismo stesso stava conoscendo una delle sue maggiori crisienergetiche (crisi petrolifera del 1973-4), ideologiche (scon-fitta USA in Vietnam), culturali (diffusione dei movimenti dicontrocultura).

II. L’analisi concettuale

L’altra versione dell’indagine critica sull’universo del con-sumo e dunque sul senso della comunicazione pubblicitaria,viene condotta da una tendenza artistica, quasi coeva allapop art, e divenuta celebre sotto il nome di conceptual art obrevemente concettuale. Il concettuale aveva di mira l’anali-si dell’arte in quanto sistema di segni, e in particolare inquanto linguaggio.

Negli anni ’60, con le riflessioni di Henry Flynt (1961), lafondazione del collettivo inglese Art & Language (TerryAtkinson, Michael Baldwin e altri) e la definizione diConceptual art (da parte di Sol LeWitt nel ’67, ripresa daKosuth nel ’6913), la svolta dell’arte verso il linguaggio diven-

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13 Henry Flynt, musicista e matematico, pubblicò “Essay: Concept Art”, inun testo a cura del grande musicista minimalista La Monte Young, AnAnthology, edito da Maciunas e Mac Low nel 1962 a New York; Sol LeWittcostituisce il trait-d’union fra minimalismo e concettuale, e pubblicò i suoi

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ta radicale.14 Conceptual Art è prima di tutto un’arte i cuimateriali sono concetti, così come, per esempio, il materialedella musica è il suono. Dato che i ‘concetti’ sono strettamen-te legati al linguaggio, la Conceptual Art è un tipo di arte ilcui materiale è il linguaggio.15

Joseph Kosuth arriva a dire che, dopo Duchamp tutta l’ar-te è concettuale, in un modo a paragone del quale l’opera diartisti pur consapevoli come Manet o Cézanne, fino ai cubi-sti, appare “timid and ambiguous”.16 Come se anche l’opera-to di artisti a loro modo già d’avanguardia non fosse che unaanticipazione del vero destino dell’arte tutta — un destinoconcettuale. Il senso dell’aggettivo “concettuale” — sceltochiaramente con intento polemico verso altri aggettivi attri-buiti all’arte, come “spirituale”, “ideale” o anche solo“astratta” (o anche appunto “filosofica”) — si chiarisce inrelazione ad un contesto culturale in cui il linguaggio diveni-va progressivamente l’orizzonte teoretico di riferimento. Lasmaterializzazione dell’arte è dunque una sorta di necessitàstorica a cui gli artisti non possono sottrarsi: essi trovano larisposta appunto nel fatto coevo che già la filosofia (e lasociologia e l’antropologia...) si sono “smaterializzate”, rinun-

3. LA CRITICA DELLA PUBBLICITÀ

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“Paragraphs on Conceptual Art” in Artforum, June 1967, mentre le “Sentenceson Conceptual Art” del 1969 uscirono — il dato è significativo per la ricadutadel Concettuale in Italia — su Flash Art, estate 1971. “Art After Philosophy”di Kosuth apparve inizialmente in Studio International, october 1969; è ripub-blicato con altri testi in italiano in L’arte dopo la filosofia, Costa & Nolan,Genova 1987.

14 Per una recente visione d’insieme cfr. T. Godfrey, Conceptual Art,Phaidon Press, London 1998.

15 Così H. Flynt, cit.16 J. Kosuth, L’arte dopo la filosofia, (1969-87), Costa & Nolan, Genova

1987, pp. 24-25.

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ciando al loro “oggetto” (l’Uomo, il Sapere, la Verità...) arren-dendosi al modello linguistico.

Perciò, il caso del Concettuale è radicalmente diverso daquello di altri grandi movimenti innovatori comel’Impressionismo o il Cubismo. Impressionisti e cubisti pro-ducono sì una “innovazione originale”, uno “scarto dallanorma”, una “violenta istituzione di codice”17 — ma il lororesta pur sempre uno “scarto dalla norma linguistica”.Kosuth accusa gli impressionisti e i cubisti di aver prodottosolo dei “timidi e ambigui tentativi” perché, nonostante leloro innovazioni, ciò che viene istituito, nel migliore dei casi,

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Joseph Kosuth, Una e tre sedie, 1964

17 U. Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975, p. 316.

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nella più rivoluzionaria delle ipotesi, sarà sempre e comun-que un ennesimo codice; ma ciò che il concettuale intendeistituire ora non è un nuovo codice, ma il codice in quantotale; ciò che si tratta di fare è di trasformare l’“istituzione”nel “codice stesso” — dunque non di inventare un nuovomodo di fare arte che parli un nuovo linguaggio (un nuovomodo di produzione segnica), ma di stabilire l’equivalenzadefinitiva arte=codice, arte=produzione segnica, arte=lin-guaggio.18 Al limite si può dire che “l’arte è la definizionedell’arte” (secondo il ben noto motto di Kosuth19).

Ecco allora che gli artisti concettuali impiegano, per farearte, ogni linguaggio — scrittura, parola (Kosuth, Burgin,Lawrence Weiner, Paolini, Graham, ecc.), fotografie(Baldessari, Dibbets), appunti (Mel Bochner), persino formu-le matematiche e simboli logici (Anne Darboven, VincenzoAgnetti) o spartiti musicali (Giuseppe Chiari).

Tuttavia, “l’arte come definizione dell’arte” indica unasterzata autoreferenziale all’interno della tormentata storiadell’arte, e costituisce un paradosso. Infatti se l’arte diventaessa stessa linguaggio e non se ne distingue più, ogni lin-guaggio sarà automaticamente arte, e quindi non si potrà più“parlare di arte” senza automaticamente “fare arte” – con

3. LA CRITICA DELLA PUBBLICITÀ

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18 Ecco perché Art&Language non era Art as language (anzi talvolta risul-ta come semplicemente Art-language); esplicitamente nel numero 1 del maggio1969 leggiamo: “... per esempio, potremmo dire che il primo dipinto cubistaabbia cercato di stabilire alcune linee guida su cosa è l’arte visiva, mentreovviamente, viene anche considerato come un’opera di arte visiva. (...) Ma ciòche l’arte concettuale mette innanzitutto in questione sono le condizioni (percui) ... l’arte visiva resta visiva. (...) [Nelle opere concettuali] la forma visiva ègovernata dalla forma dei segni convenzionali della lingua scritta. Il contenutodell’idea dell’artista è espresso attraverso le qualità semantiche del linguaggioscritto.” (cit. in Stiles e Selz, p. 852).

19 L’arte dopo la filosofia, cit., p. 32.

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l’ovvio risultato che non sappiamo più cosa definisce cosa...Infatti, di che tipo sarebbe mai la relazione tra il linguaggio“descrizione” e il linguaggio “oggetto”? Chi dei due decide-rà l’identità dell’altro, ossia: come può un linguaggio diventa-re oggetto di un altro linguaggio, senza confondersi con esso?Analisi e oggetto analizzato risultano indistinguibili.

Nel suo fare artistico, il concettuale si trova nel mezzo diuna contraddizione; più cerca di ridurre l’opera al suo appa-rato linguistico, più essa gli si para di fronte con i suoi orna-menti estetico-visivi; più cerca di smaterializzarla, più la suamaterialità ricompare insistentemente; più si sforza di libera-re il processo creativo da ogni mercificazione, e più il fanta-sma della merce si rifà vivo feticizzando anche la cosa piùevanescente, il gesto più fugace, lo scarabocchio più esile, lafotocopia più incerta, ecc. — e si ripete la dialettica giàaffrontata dalle avanguardie storiche fra arte e vita: più gliartisti insistono sulla confluenza dell’arte nella vita, più lavita, anziché assimilare l’arte, si estetizza e prende formeartistiche. Val la pena di ricordare, per il suo significato dav-vero epocale, che — come ricorda Lucy Lippard — nel 1969nessuno avrebbe pagato un soldo per una fotocopia con ladescrizione di un “evento artistico”, o per qualche istantaneache documentava una “situazione”, e quindi gli artisti appa-rivano veramente liberi dalla tirannia del mercato dell’arte;tuttavia solo “tre anni dopo, i maggiori concettuali vendeva-no i loro lavori per somme considerevoli qui [in USA] e inEuropa”.20

L’insegnamento che dobbiamo trarre dalla “mercificazio-ne” di cui divenne oggetto il concettuale è però di grandeimportanza anche a livello sociale. Il concettuale infattiaveva dimostrato che si poteva fare arte semplicemente conconcetti astratti e non solo con oggetti concreti o rappresen-

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tazioni figurative. Kosuth, ad esempio, aveva acquistato spazia pagamento su quotidiani, dove stampava le sue “definizio-ni” (semplici definizioni di concetti astratti, tratte dal voca-bolario), e realizzò anche due “campagne” di manifesti edaffissioni col medesimo contenuto. Nonostante lo stile forte-mente essenziale e quasi severo delle scritte, è evidente cheil concettuale in queste operazioni tendeva a indagare illivello-zero della comunicazione, e di quella pubblicitaria inparticolare, perché è in essa che parola e immagine si rinfor-zano a vicenda senza essere “rappresentazioni” di alcunchédi concreto, ma piuttosto veicoli di suggestioni astratte (come“il benessere”, il “comfort”, ecc.).

L’importanza dell’esperienza concettuale – molto menofacile da identificare rispetto agli esiti vistosi e spettacolari

della pop e dell’iperrealismo –emerge in pieno se si considera-no alcuni fatti più recenti. Da unlato, il discorso pubblicitarionon ha esitato ad appropriarsidel formalismo concettuale,tutto giocato sul lettering, la pre-senza di immagini non referen-ziali, il b/n, lo stile volutamenteastratto e quasi filosofico (sipensi alla campagna diPhilosophy per Alberta Ferretti,o a quella di Piombo, o al packa-ging di cosmetici di lusso comePrada o Comme des Garçons,

ecc.), arrivando persino a sottoscrivere come testimonial diprodotto un eroe della smaterializzazione dell’opera d’arte

3. LA CRITICA DELLA PUBBLICITÀ

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come lo stesso Kosuth, dive-nuto così icona di un prodot-to mercantile puro e sempli-ce.

Dall’altro lato, alcuniartisti concettuali hannoinvece approfondito in sensoideologico l’indagine avviatadai loro predecessori deglianni 60, portandone alleestreme conseguenze i pre-supposti; così, artisti comeHans Haacke hanno impie-gato il tipico stile pubblici-tario (testo, foto, headline,ecc.) per mettere alla berli-na i punti deboli di impor-tanti corporations comeMercedes, o come Benetton,

riportando dettagliatamente i dati che li riguardano relativi allavoro illegale, ecc; o ancora, dimostrando i trascorsi nazistidel Presidente degli Amici del Museo van Beuningen diRotterdam, in cui l’artista era stato invitato, o i legami delMoMa di New York con la Chase Manhattan Bank. Altri arti-sti come V. Burgin, J. Holzer, o Barbara Kruger, inoltre,hanno sposato ancor più strettamente l’idea che fosse possi-bile impiegare l’immensa forza degli slogan pubblicitari pertrasmettere messaggi di valore diverso oppure apertamenteinverso; è il caso della Kruger, che, in una sapiente impagi-nazione di testo e immagine, ha realizzato “contropubblicità”come il famoso “I Shop therefore I am”, o di Jenny Holzerche, per diffondere i suoi “truismi” (frammenti di discorso

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Joseph Kosuth, Illy “modus operandi”,2000

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privi di valore argomentativo) ha utilizzato i display pubblici-tari luminosi più famosi del mondo, come quelli che si trova-no in Times Square a New York, o a Piccadilly Circus, aLondra.

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Barbara Kruger, I shop therefore I am, 1987

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44.. LLAA SSOOCCIIEETTÀÀ DDEEII SSIIMMUULLAACCRRII

Queste contraddizioni presenti nel contrastato rapporto fraarte e pubblicità contengono tuttavia in se stesse i germi diuna nuova situazione, che diverrà emergente negli anni ’80.

La fine delle forti contrapposizioni ideologiche (sfociatanel crollo del comunismo sovietico, 1989), l’affermarsi di uncapitalismo finanziario spregiudicato e legato più ai flussi diinformazione immateriali, che al commercio vero e proprio diprodotti, il moltiplicarsi delle occasioni di divertimento spet-tacolare (nascita delle televisioni private in Italia, affermarsidei grandi network televisivi all’estero), insieme al boomdella pubblicità e dei budget ad essa destinati, sono alcunitra i fattori che determinano un cambiamento culturale desti-nato a investire anche l’espressione artistica. Il postmodernoè l’ideologica che riflette il sostanziale eclettismo dell’epoca– ma anche il trionfo quasi definitivo della società dello spet-tacolo (Debord, 1967). Ma la società dello spettacolo è lasocietà in cui il rapporto tra essenza e apparenza non può piùessere deterministico (l’essenza è causa e fondamento del-l’apparenza), ma è dialettico: l’essenza non sarebbe se stessasenza l’apparenza e viceversa, in un insieme sociale definitocome “spettacolarizzazione”. In questo quadro, la pubblicitàcambia natura: non è semplicemente il veicolo promozionaletramite cui alcune industrie comunicano i loro prodotti ad unpubblico che non li conosce, ma diventa una realtà sui gene-

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ris, per la quale vengono creati dei prodotti ad hoc, i qualicostituiscono solo i frammenti concreti di un mondo immagi-nario al quale il consumatore non fa che aspirare. Il caso deibiscotti del Mulino Bianco di Barilla (nati nel 1975 ma affer-matisi tramite gli spot televisivi dal 1985 in poi) spieganobene ciò che stiamo dicendo: il prodotto da forno, merendinao biscotto, è secondario rispetto all’universo immaginario dicui è parte integrante e da cui deriva. In questo senso l’etàpostmoderna è stata anche definita epoca dei simulacri,intendendo con questo termine delle apparenze divenuteessenziali, immagini che non pubblicizzano più un prodottodiverso e “reale” ma se stesse, in una situazione dove la pub-blicità è pubblicità di pubblicità, e lo spettacolo è compiuto,non è più una finzione che si oppone ad una qualche realtà,che invece, cessa di esistere come referente “esterno”(Baudrillard).

Il simulazionismo è perciò laforma d’arte adatta ai tempi. Artisticome Jeff Koons, Haim Steinbach,Mike Bidlo, Mark Kostabi, AshleyBickerton, utilizzano in prima perso-na gli stilemi pubblicitari, il packa-ging, la marca, il logo, non solo perfare arte, ma per dare senso e corpoalle fatidiche parole di Warhol secon-do cui “la vera forma d’arte è il busi-ness”. Koons, ad esempio, arrivatoall’arte dopo avere fatto fortuna comebroker finanziario, ha inaugurato unanuova stagione impiegando diretta-mente se stesso in una serie di pub-blicità per reclamizzare le sue

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Koons, Rabbit, 1986

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mostre; le sue stesse opereconsistevano del resto nellatrasposizione di oggettibanali e kitsch in sculturedi acciaio, proprio a signifi-care l’indurimento, l’ispes-simento anche fisico delleapparenze più caduchedella società postmoderna(Rabbit, 1986). La distanzadalla pop art è evidente: ilconsumismo di beni haormai lasciato il posto alconsumo di immagini, alconsumo di simboli e diconcetti, dotati però di unaloro realtà, certificata dalprezzo. Bickerton ha realiz-zato un AutoritrattoTormentato (1987-88) in cuicompaiono invece solo le

marche degli oggetti da lui stesso impiegati quotidianamen-te, secondo un’ossessione che è rinvenibile nella letteraturacosiddetta minimalista dell’epoca (nel best seller anni ’80American Psycho di Bret Easton Ellis, il racconto è crivella-to di riferimenti a marche di abiti, occhiali, bevande, scarpe,accessori, auto, ecc.). Haim Steinbach realizza delle opereche sono il concentrato del consumismo simbolico: sulle suemensole di agghiacciante perfezione si allineano con disin-voltura merci reperibili al supermarket, come scatole dicereali o flaconi di detersivo, accanto a reperti archeologicidi valore, in una pacifica convivenza dominata dall’esigenza

4. LA SOCIETÀ DEI SIMULACRI

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Bickerton, Autoritratto tormentato,1987-1988

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spettacolare (Supremely Black, 1985; Stay with Friends,1986). Mark Kostabi porterà a compimento l’avventura war-holiana della Factory dando vita ad un vero e proprio centrocreativo (il Kostabi World), mentre, parallelamente, le grandicorporation multinazionali (come Esso, Chase ManhattanBank, ecc.) cominceranno a dare vita a grandi collezioni diarte contemporanea, il cui modelloresterà comunque quello creato dauna delle maggiori agenzie pubbli-citarie del mondo, la Saatchi &Saatchi.

Gli anni ’80 sono l’età dei simulacri in tutti questi sensi; esono anche l’epoca in cui, per esigenze di spettacolo, unapartita di calcio può essere giocata in assenza di pubblico,perché nel frattempo è accaduta una tragedia, ma il businessdella mondovisione non può venire deluso (Haysel, 1986).

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55.. DDAALL PPRROODDOOTTTTOO AALL PPRROOCCEESSSSOO

Proprio questo eccesso di spettacolarizzazione porta inevi-tabilmente ad una situazione di saturazione e di rinnovamen-to. Proprio quando lo spettacolo dei simulacri sembra rag-giungere il suo apogeo, tale culmine segna anche una svolta.Così come la pubblicità, una volta divenuta iperpubblicità eavere occupato tutti gli spazi a disposizione, genera un effet-to di saturazione e di nausea, ed è costretta a cercare nuovevie per sfuggire all’unico effetto indesiderato – il disinteres-se – così l’arte, toccato il vertice della simulazione generaliz-zata, cerca di ritrovare una strada espressiva diversa e piùconsapevole. La pubblicità ha scoperto un antidoto nellamedicina più amara possibile; la meta-pubblicità, ossia unapubblicità che rifà il verso a se stessa, che gioca fra le suecarte comunicative anche se stessa, il suo passato, la sua iro-nia, la messa in discussione dei suoi stessi meccanismi per-suasivi e retorici, nella speranza di poter attrarre di nuovol’attenzione di un consumatore nel frattempo più esperto edistratto. L’arte, dal canto suo, passa dalla simulazione dellepure superfici brillanti del consumo all’analisi più approfon-dita dei meccanismi di creazione e dunque di “produzione”dei valori simbolici.

Gli anni ’90 si aprono con grandi mostre come Art &Publicité, Beauburg, Parigi, 1990, e come Art & Co.,Groninger Museum, Groningen, 1993: grandi kermesse sui

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temi del rapporto fra arte e pubblicità, che però rivelano unaltro inatteso versante dell’evoluzione artistica: gli artisti nonriflettono più solo passivamente sul mondo dei consumi, madiventano in prima persona produttori di beni simbolici.

In questo senso nascono i primi gruppi artistici o emergo-no collettivi che erano sorti in precedenza e che in questocontesto conoscono la fama: si tratta di gruppi che spessohanno un nome collettivo o addirittura un logo e una ragionesociale, come vere e proprie aziende a marchio registrato:General Idea (trio canadese, che spesso impiega nelle proprieopere il simbolo del copyright); il duo francese BP, che rifà ilverso ala multinazionale del petrolio, e lavora effettivamenteproducendo opere che funzionano o sono ispirate al mondodell’olio combustibile; il duo italiano Premiata Ditta (chedopo qualche tempo si è trasformato in un’agenzia di servizion-line per l’arte); il gruppo francese IFP, Information FictionPublicité, che crea light box e strumenti promozionali sor-prendentemente privi di messaggio; la ditta s.r.l. Banca diOklahoma, che sponsorizza opere di altri artisti; o ditte sin-gole come la Ingold Airlines dell’artista svizzero Res Ingold,che promuove con ineccepibile competenza gli improbabiliservizi di una quasi-inesistente linea aerea mondiale, ecc.

Il tratto che caratterizza tutte queste esperienze è soprat-tutto lo spostamento di attenzione dai processi di consumodei valori immateriali, all’indagine intorno alla loro creazio-ne. Che cos’è e in cosa consiste la realtà di un’agenzia di ser-vizi, di viaggi, di intrattenimento? Non si tratta forse di valo-ri simbolici, per molti aspetti simili a quelli a cui si rifà l’o-perato di un artista, soprattutto dopo che il concettualismo hainsegnato a tutti e una volta per sempre che l’arte non è unquadro o una scultura, ma “la definizione stessa di arte”,ossia il suo statuto teorico e comunicativo? Appropriandosi di

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strategie simboliche, come la creazione di un logo, e inven-tandone altre, come la generazione di ambiguità semantiche,questi gruppi artistici fanno fare un passo oltre la seduzionepop e oltre la fascinazione postmoderna per il banale. Ladistinzione fra arte alta e arte bassa (che era chiave nella popart, ma anche nell’iperrealismo e nel simulazionismo) nonesiste definitivamente più: ciò con cui si ha a che fare sonole strategie di creazione del plusvalore simbolico, a cui l’ar-tista sente di non poter più essere estraneo, pena l’insignifi-canza della sua opera. All’opera d’arte si sostituisce l’opera-zione, al prodotto realizzato il processo che lo genera, ed eccoche gran parte del lavoro di questi gruppi si trasforma in lavo-ro relazionale, con la creazione di convegni, punti di incon-tro, spazi di dibattito che, fra l’altro, rilanciano anche il maisopito tentativo di rovesciare la dura realtà dell’orizzonte eco-nomico e di indicare una via d’uscita alla sua soffocanteonnipresenza.

5. DAL PRODOTTO AL PROCESSO

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66.. LL’’EETTÀÀ DDEELLLL’’IINNVVEERRSSIIOONNEE

Le vicende contemporanee vedono un’affollarsi di propo-ste artistico estetiche in cui la pubblicità come tale è ormaiaccettata come pate integrante del panorama percettivo emediale (quello che un sociologo come Appadurai ha defini-to mediascape) dell’uomo contemporaneo.

Vi sono però alcuni elementi di novità: la seduzione pub-blicitaria è stata ormai analizzata a fondo, e il fatto che con-tinui a resistere implica che ormai debba impiegare dei meto-di meta-seduttivi (in altre parole, se la pubblicità degli esor-di poteva far leva sui desideri direttamente sessuali deglispettatori, la pubblicità odierna deve far leva sul desiderio didesiderio, per esempio su richiami nostalgici, su allusioni adaltre pubblicità in cui si indicava più o meno direttamente ildesiderio sessuale, che nel frattempo, proprio per l’eccesso diesposizione mediatica, si è fortemente logorato, ecc.).Neanche l’analisi spietatamente critica basta più: in quantoideologica, essa ha finito col distruggere se stessa, perché glieventi storici si sono incaricati di mostrare come anche ogniposizione ideologica andrebbe a sua volta analizzata, datoche nasconde una mistificazione “pubblicitaria” (il mito delcomunismo, oppure quello, inverso ed omologo del “benesse-re” capitalista).

Nascono dunque micro-strategie di sopravvivenza indivi-duale molto articolate che, pur tenendo un occhio puntato sul

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livello globale della situazione, percorrono strade che comin-ciano dal basso, dall’esistenza quotidiana dei soggetti, secon-do il tipico dettame delle società complesse: “pensa global-mente, agisci localmente”.

A livello sociale nascono nuovi gruppi di autodifesa (grup-pi di sovversione ironica del messaggio pubblicitario comeAdbusters, unioni dei consumatori), oppure collettivi di lottache fanno emergere all’attenzione globale istanze dimentica-te o trascurate dai mass-media dominanti (gruppi di controin-formazione ambientalista come Green Peace, gruppi di soli-darietà internazionale come Emergency, Médicines sansFrontiéres, ong, ecc.); tali istanze trovano il loro mezzo dicomunicazione ideale nella rete, di cui internet è la realtà piùconcreta. L’individual-media, la chat, l’e-mail, il blog, leforme comunicative per gruppi o 1:1, tendono a scalzare ilpredominio dei media di massa, che si rivolgevano a pubbli-ci ancora indistinti.

Gli artisti si comportano in un modo simile, accettandoqueste sfide, rilanciandole,prendendovi parte. Un esempioè quello del francese MathieuLaurette, presente allaBiennale di Venezia del 2001con una installazione di saporeiperrealista, dove un manichi-no con le sue stesse fattezzetrasportava un carrello delsupermercato pieno di prodotti(quasi una citazione dellafamosa scultura di DouaneHanson). In effetti, l’aspettovisivo serviva solo a “promuo-

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vere” l’operazione artistica vera e propria che consisteva inun ingegnoso sistema per approfittare di tutti gli sconti pos-sibili di fatto offerti in determinati punti vendita, realizzandouna spesa enorme a costo praticamente zero: una vera strate-gia di sopravvivenza. Con un’altra opera, El Gran Truque, lostessa Laurette aveva dato vita su una rete tv spagnola ad unconcorso a premi all’incontrario, in cui i partecipanti si por-tavano via un premio di un certo valore barattandolo con altremerci di valore leggermente inferiore, cosicché, se il premioiniziale era un’utilitaria, alla fine resta in palio un misero ser-vizio di bicchieri dozzinali (1999).

Nella stessa edizione della Biennale, il gruppo della WestCoast Streetmarket (Todd, Powers, McGee) aveva organizzatola mimesi di un vero supermercato; anche in questo caso peròla distanza dalle poeti-che pop e iperrealiste èevidente, dato che nonsi tratta di un supermer-cato tradizionale (lindo,luminoso, fascinosa-mente consumista), madi un mercatino nellostile extracomunitario,più simile a quegli storegestiti quasi sempre daindiani, pachistani ocinesi ormai presenti nelle metropoli occidentali. All’internodel mercatino poi, ogni singola confezione di prodotto eraimpacchettata in modo “poetico” ed alle tradizionali etichet-te erano sostituite frasi allusive: sulle scatole di conservacomparivano diciture come “Dignity”, “Belief”, “Meaning”(dignità, credo, senso), quasi un catalogo di ipotetici valori

6. L’ETÀ DELLINVERSIONE

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che la nostra cultura ha obliato. Operazioni simili erano stategià realizzate negli anni ’90 da un artista belga comeGuillaume Bijl, che aveva trasformato una galleria in un pic-colo supermercato (galleria Lipman, Basilea, 1991), in un’ot-tica però ancora tipicamente simulacrale, secondo la qualenon conta il contenuto ma il contesto, ancora una volta secon-do la logica del “trionfo delle apparenze”.

Il packaging diventa un altro tema ricorrente in questestrategie di “sovversione subliminale” dell’esistente, perché,mentre da un lato ci si rende conto che il packaging è un veroe proprio medium comunicativo che permette di catturarel’attenzione del possibile cliente, è anche vero che esso costi-tuisce un discorso “da solo a solo”, una forma di dialogo tra

la merce e l’acqui-rente, ed è quindiluogo esteticamentestrategico. Intornoad un possibile“de t ou rnémen t”(“stravolgimento”,termine coniato daDebord) del packa-ging lavora datempo l’italiano

Antonio De Pascale, con due tipologie di operazione: da unlato ritorcendo contro se stesso il messaggio esplicito dell’im-ballaggio (ad esempio, la mano guantata che regge il bicchie-re di cristallo nel packaging dei guanti di gomma, lo rompenella versione rivista di De Pascale); dall’altro lato, in modoforse più sottile e convincente, utilizzando il packaging di undeterminato prodotto per imballarne un altro tutt’affattodiverso con esiti di autentico straniamento percettivo (il car-

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tone del latte imballato con il logo dei libri Feltrinelli; la con-fezione da due yogurt imballata con la grafica delle lameGillette; il classico pacchetto di sigarette imballato con isegni rassicuranti dei dadi da brodo, ecc.). Il tutto realizzato(un altro omaggio all’iperrealismo) non con semplici montag-gi fotografici o con l’ausilio di photoshop, ma rigorosamente aolio su tela centinata.

Altri straniamenti sono stati realizzati da un artista ameri-cano come Tom Sachs, il quale impiega invece il packagingsecondario (scatole e confezioni) di prodotti di lusso comePrada, Gucci, Chanel, per realizzare oggetti che sovvertonoapertamente ilmateriale di cuisono fatti; na-scono così moto-seghe Chanel,stura-lavandiniPrada, e persinoarmi, alcune del-le quali funzio-nanti (un detta-glio che è costato qualche giorno di prigione alla sua galleri-sta newyorkese Barbara Gladstone per detenzione abusiva di

armi da fuoco).All’analisi della forza dellogo sono invece dedicatele ricerche di GunillaKlingberg, che realizzavideo-mandala a partiredai simboli di catene didistribuzione come Lidl,o Daniel Pflumm, espo-

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nente della new wave berlinese, che realizza light box a formadi loghi famosi, privi però del nome riconoscibile e dunquecaricati di una enigmatica insignificanza.

Molte opere di questi artisti sono state di recente esposteall’importante mostra Shopping (2002), tenutasi a Francofortee Londra, che analizzava più che il semplice rapporto fra artee pubblicità, le complesse tematiche dell’atto d’acquisto equelle ad essa connesse della cultura più generale dei consu-mi.

Ma non possiamo concludere questa sia pur provvisoriarassegna senza fare riferimento al più noto giovane artista ita-liano, che ha saputo più volte utilizzare le proprie fattezze(peraltro assolutamente “normali”) come testimonial di sestesso, e cioè Maurizio Cattelan. Cattelan viene di continuoinvitato a nuove mostre, perché costituisce un richiamo sicu-

ro per il suo stileda tipica “presa ingiro all’italiana”;in un caso è arri-vato persino adesporre due guar-diani di un Museo,che dovevanopedalare su duecyclette per tenereaccese le luci

nello spazio espositivo, e rendere così possibile la visita;all’ultima edizione della Biennale di Venezia, ha esposto unpiccolo triciclo telecomandato da un assistente che si aggira-va per la mostra e che era “guidato” da un manichino raffigu-rante l’artista stesso nei panni di un poco raccomandabilebimbetto decenne, ecc. Ma il suo rapporto con la pubblicità

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è di lunga data; alla sua prima partecipazione alla Biennaledi Venezia del 1995, si limitò ad affittare (con regolare con-tratto) lo spazio espositivo che gli era stato assegnato ad unaagenzia di pubblicità che doveva lanciare un profumo dadonna. Oggi è abbastanza noto che Cattelan collabora stabil-mente, per la creazione delle sue opere, con l’agenzia pubbli-citaria McCann Erikson, e che proprio per tale agenzia harealizzato una sua opera – ironica come sempre – consisten-te nell’edizione in miniatura del classico ufficio dirigenziale,completo di telefono, sedia girevole in pelle, tavolo-scrivania,agenda, quadri di rappresentanza alle pareti, in una parolatutto l’armamentario tipico del manager di successo, ridottoperò in scala 1:2 e quindi intrinsecamente “meschino”.

Possiamo quindi concludere che nell’attuale fase i campidell’arte e della pubblicità sono ormai resi reciprocamentepermeabili e non vi sono più due realtà contrapposte. Gli arti-sti non esitano a impiegare strumenti pubblicitari per i pro-pri fini, che includono, oltre la creazione di opere-operazio-ni, anche l’auto-promozione; e d’altra parte la pubblicitàguarda con crescente interesse all’arte, non solo come fontedi ispirazione, ma come vera e propria sorgente creativa daarruolare al proprio interno. In tale quadro vanno ad iscriver-si la collaborazione già citata fra Cattelan e l’agenzia McCannErikson, o il fatto che uno spot tra i più famosi degli anni ’90,quello di Levi’s “corsa” sia opera di un talento emergentedella cosiddetta Young Brit Art, Richard Billingham.

Benché si tratti di collaborazioni non nuove (in passato unartista come Pino Pascali, esponente della pop art romana,aveva collaborato ad pubblicità tv di Rhodiatoce, inventan-do il famoso personaggio “Gregorio”), nuove sono le condizio-ni in cui tali fenomeni hanno luogo. In un generale panorama

6. L’ETÀ DELLINVERSIONE

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di crisi di identità, anche l’identità culturale dell’arte – eparallelamente, l’identità mercantile della pubblicità – sonooggetto di discussione quotidiana. È proprio nella assillanteinterrogazione sul proprio senso e sulla propria identità chequeste forme culturali continuano ad esistere e a rilanciare leloro domande in quel mondo di cui anche noi, come fruitori,spettatori, consumatori o produttori contemporaneamente,facciamo inevitabilmente parte.

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BBIIBBLLIIOOGGRRAAFFIIAA

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