Esteban n. 2

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!! !!!!! !!!!!!!!!!! in esclusiva per Esteban racconti inediti di RATTI LIVRAGA ARRIGONI ARLENGHI DELLA MONICA portfolio : le interviste di VINCENZO SGROI MARCO SAVINI la cultura popolare : le fiabe Questo numero di Esteban è dedicato a Yousef Azizi Bani Torouf, Mohammad Sadiq, Kabudvand, Kaveh Javanmard, Adnan Hassanpour, Abdulvahed Butimar and Ejlal Qavami. Sono solo alcuni dei giornalisti ed attivisti curdi detenuti in Iran. Alcuni di loro sono già condannati a morte e sono in attesa di esecuzione. L'Iran è al secondo posto, dopo la Cina, come numero di condanne a morte.

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la rivista dell'associazione "Il villaggio di Esteban" di Mortara (PV)

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!!!!!!!

!!!!!!!!!!!in esclusivaper Esteban

racconti ineditidi

RATTI LIVRAGA

ARRIGONI ARLENGHI

DELLA MONICA

portfolio : le interviste di

VINCENZO SGROI

MARCO SAVINI la cultura popolare :

le fiabe

Questo numero di Esteban è dedicato a Yousef Azizi Bani Torouf, Mohammad Sadiq, Kabudvand, Kaveh Javanmard, Adnan Hassanpour, Abdulvahed Butimar and Ejlal Qavami.

Sono solo alcuni dei giornalisti ed attivisti curdi detenuti in Iran. Alcuni di loro sono già condannati a morte e sono in attesa di esecuzione.

L'Iran è al secondo posto, dopo la Cina, come numero di condanne a morte.

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Un popolo è noto non per le dichiarazioni ufficiali o le statistiche, bensì per le storie che racconta.

(Flannery O'Connor)

Il giorno in cui qualcuno ti racconterà la tua storia, saprai che sei stato perdonato.

(Baal Shem Tov)

Esteban ama l'inverno perchè è il tempo migliore per le storie. Per sedersi ad ascoltarle, per narrarle agli altri, per leggersele o inventarsele da soli. Prima di tutto Esteban ama le storie, ama sentire raccontare le storie dei vecchi, ama rubare di nascosto i brandelli di storie che la gente si racconta sui treni o per strada. (in effetti, se lo incontrate, state attenti e parlate sottovoce) per poi magari finirsele da solo. Ama le storie perchè sa che per conoscere la realtà è necessario narrarla. Perché pensa che il mondo sia una storia che Dio racconta continuamente. Perché, una volta raccontate, le storie poi se ne vanno in giro da sole, come bambine cattive e si finisce a ritrovarle ovunque, a cercare altre voci per farsi di nuovo raccontare. Perché è veramente una sfiga quando di storie non ce n'è più, o meglio non si riesce più a trovarne, quando sembra che il mondo abbia smesso di raccontarcele. Quando effettivamente non sono più le storie a parlarci di noi, ma solo le statistiche e i bollettini. Così ha deciso di dedicare buona parte di questo numero della sua rivista, che dovrebbe farci compagnia in questi mesi invernali, al racconto, alle storie scritte. E, come sua abitudine, ha chiesto aiuto ai suoi tanti amici: a quelli che in qualche modo curano un rapporto privilegiato con la scrittura, ma anche a chi non c'aveva mai pensato prima. Come al solito ad Esteban non interessa la perfezione, ma solo la voglia di condividere qualcosa con gli altri, di tornare a parlarsi e ad ascoltarsi. Su questo numero ci hanno raggiunto nuovi amici : Esteban saluta e ringrazia e invita nuovamente tutti a collaborare. Questo il modo per mettersi in contatto con lui: [email protected]

NATALE 2008ESTEBAN NUMERO DUE il giornale dell’Associazione Culturale

IL VILLAGGIO DI ESTEBAN. Stampato con la collaborazione di CSV PAVIA E

PROVINCIA via Taramelli 7 Pavia \ via Da Vinci 15 Vigevano.

HANNO COLLABORATO : Arlenghi, Arrigoni, Brasca, Chiesa, Della Monica,

D’Oli, Giacomone, Invernizzi, Livraga, Maia, Oisin, Palombella, Ratti, Savini, Sgroi.

Un ringraziamento particolare ad Andrea Ravazza che ci ha messo l’hardware e a Bruno Laverone,

il nostro angelo custode.

Le immagini di questo numero

provengono dalla raccolta di

cartoline di Lino Maia.

Devolvi il cinque per mille a favore del VILLAGGIO DI ESTEBAN

codice 92008840180

TANTISSIMI AUGURI A

TUTTI I LETTORI

DI ESTEBAN E

ARRIVEDERCI IN

PRIMAVERA !

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IL NATALE DEL DOTTOR VALDESI di Domenico Della Monica

Fausto Valdesi si era laureato a Pavia nel 1908. Gli esami e i voti se li era dimenticati. Il suo orgoglio era un altro : per sei anni consecutivi, tutte le sere, aveva mangiato zuppa di fagioli. Era stato l'unico modo per far quadrare il bilancio. Zuppa di fagioli col pane spezzato dentro, naturalmente. L'osteria si trovava in un vicolo dalle parti della basilica. Il vecchio medico sorrideva e con un gesto insolito in lui, invitava ad osservare la magrezza del suo corpo. No, quel povero cibo non c'entrava per niente. Era un uomo alto, secco come un chiodo, dalle mani lunghe come quelli di chi abbia dimestichezza con le corde dei violini. Quando palpava il fegato e gli altri organi addominali, le sue dita penetravano come sonde. L'inverno cambiava le abitudini. Ad esempio, non poteva più avvenire in cortile il rito dell'estrazione dei denti. Il dottor Valdesi usciva dalla stanza dell'ambulatorio e faceva mettere una sedia sotto il pergolato dell'uva. Assistenti erano la nuora o il giovane nipote. Prima si procedeva all'anestesia con una generosa sorsata di grappa tenuta in bocca per qualche minuto. “Se vuoi, manda pure giù”, diceva il medico al paziente. Poi ecco la tenaglia e l'inevitabile grido che invadeva il cortile, si perdeva verso il sentiero che conduceva ai campi. La nuora o il nipote si precipitavano con un bicchiere d'acqua. Non si era mai capito il perchè di quella scena all'aperto. Questione di luce, visto che l'ambulatorio era piuttosto in penombra? Voglia di evitare il rimbombo del grido tra le pareti? L'unica cosa certa era che l'inverno impediva tutto questo. Nel cortile avanzava la cauta nebbia di novembre. Il pergolato si mostrava nudo e nodoso come le ossa di un martire. In casa accendevano le stufe e i camini. In quei giorni il dottor Valdesi pensava ad altro. Un amico gli regalava puntualmente due capponi, per Natale. Prigionieri della stia, bianchissimi di penne, mandavano uno strano roco cadenzato chioccolio. La nuora, cui non difettava l’immaginazione, sosteneva che borbottavano come filosofi. Il medico non faceva commenti ad alta voce. Indossava il mantello e usciva per andare a controllare la crescita dei due animali. Sotto le piume bianche, la pelle doveva diventare gialla

come lo zafferano : solo allora le carni sarebbero state morbide e il vapore del bollito profumato. “Uno a Natale e uno a Capodanno”, ordinava Valdesi. La frase da tempo immemorabile era sempre la stessa, ma a lui piaceva ripeterla come se ciò garantisse più continuità alla tradizione. Nel dicembre del 1961 il vecchio medico si avviava ai novant'anni. Per il paese dove era nato ed esercitava era sempre “il dottore”, l'unico vero “dottore”, anche se per gli ammalati credeva soltanto nella forza risanatrice del digiuno e se agli antibiotici preferiva antiche pastiglie e antichi purganti. L'inverno non prometteva bene. Il 13 dicembre, Santa Lucia, nevicò abbondantemente. Ormai le lunghe dita del medico servivano soltanto a picchiettare sul cristallo del barometro. Lui faceva così per vedere in quale direzione vibrava l'ago. S'era preso una brutta tosse, cavernosa. Cercava di curarla restando curvo per diversi minuti su un catino di acqua caldissima in cui aveva versato alcune gocce di trementina. Meglio

che non andasse a sorvegliare i due soliti capponi nel freddo del cortile. Venne la notte della vigilia. Passarono a raccogliere l'obolo i ragazzi che cantavano la litania della Stella d'Oriente. Dalla strada le loro voci si sentivano anche nelle stanze più lontane della casa. Era scesa altra neve. In cucina era già pronta la grande pentola piena d'acqua per bollire le carni. Il dottor Valdesi ascoltò la radio, un vecchio modello anni Trenta, poi salì a dormire. La casa in quelle ore diventava gelida. Nei letti ci si scaldava con una padella colma di cenere e brace; le lenzuola emanavano un odore di pane abbrustolito. C'era la luce elettrica in tutti i corridoi e in tutte le camere, ma il medico continuava ad usare la candela quando andava a letto.

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Per spirito di imitazione, anche il nipote compiva lo stesso rito : quella sera rientrò molto tardi, dopo la mezzanotte. Si diresse verso le scale e subito vide che un altro lume di candela veniva verso il suo. L'ombra che esso proiettava sui muri non ammetteva dubbi : era il vecchio che stava lentamente scendendo, vestito come se fosse giorno, con il cappello, il gilè, la cravatta e gli stivaletti. “Nonno, dove vai a quest'ora ?”. “Mi hanno chiamato. È un caso urgente.” “Chi ti ha chiamato?” “Hanno suonato il campanello, hanno anche tirato dei sassi contro la finestra”. “Sei sicuro?” “Si, sono sicuro. Mi prendi per un imbecille?” Il vecchio cercava il mantello, annaspava con una mano fra l'attaccapanni e una poltrona. Ripeté : “Mi hanno cercato”, e il tono della voce era stranamente, dolorosamente infantile. Allora il nipote capì. C'erano state mille e mille altre notti in cui qualcuno del paese o della campagna (la condotta era molto vasta) aveva suonato, bussato, tirato sassi alle finestre. E in quelle mille e mille altre notti il medico si era sempre alzato; aveva ascoltato, era andato col suo stetoscopio in una tasca della giacca. Un cuore faceva i capricci, una febbre era salita, una pancia era impazzita... Non era poi tanto assurdo che la chiamata si ripetesse nel buio di un sogno, che nel silenzio della casa sembrasse di udire l'appello dei tempi lontani. Fu difficile convincere il vecchio. Soltanto quando il nipote gli aprì la porta e gli mostrò la strada deserta, si arrese. “Mi sono sbagliato”, disse, e cominciò ad allentare il nodo della cravatta con un gesto che al nipote parve stanchissimo e desolato. Il pranzo di Natale fu triste. Il cappone troneggiò senza successo in mezzo alla tavola. “Un po' di polpa del petto e basta”, chiese il vecchio. Non pronunciò altre parole. I suoi occhi fissavano la vetrata che dava sul cortile, coperta da arabeschi e fiori di ghiaccio, ed erano occhi smarriti, come di uno che non comprenda più i suoni e le cose del mondo. Morì due mesi dopo, in febbraio, e anche quel giorno il cielo era di un grigio infinito e cadde un po' di neve.

Domenico Della Monica

L’ULTIMO AD ANDARE VIAdi Franco Ratti

Quel giorno avevo fatto il cattivo. Forse avevo disubbidito, forse avevo picchiato la sorellina, non

ricordo. Ricordo solo che ero in castigo, ero arrabbiato, ero scappato fuori e fuori pioveva.

Forse mi ero anche bagnato, non ricordo. Ricordo che ero scappato in cantina e mi ero

nascosto dietro una botte. Là non mi avrebbero trovato. La cantina era scura ma io non avevo

paura, la conoscevo. Era una serie di stanze scavate nella collina, di fianco alla stalla e alla legnaia. Mi mandava la nonna a prendere il

formaggio o le mele. A settembre il nonno ci faceva il vino con lo zio Adelio e la zia Angioletta.

Mi ero messo dietro la botte, avevo aspettato, aspettato che mi venissero a cercare. Non erano

venuti e mi ero addormentato. Quando mi ero svegliato era proprio buio. Dalla finestrella della cantina non arrivava più luce. Il pomeriggio era

scivolato nella sera e la sera stava scivolando nella notte. Adesso avevo paura, freddo e fame. Uscii in cortile. Dal cortile si vedeva la luce del camino

acceso. Entrai. Sentii il caldo e l’odore familiare di fumo e di latte. “Ah! Eccolo.”

Gli altri erano a tavola : la mamma, lo zio Adelio, la zia Angioletta, il nonno Ulisse, la nonna

Natalina, la sorellina. Al mio posto mancava il piatto. “Sei in castigo. A letto senza cena!”

Le facce dei grandi erano serie. La fiamma di una candela traballava fra i piatti. Lo zio si alzò da

tavola e buttò mezza fascina nel camino. Scoppiettò subito una gran fiamma : “Per far

chiaro e per tenere via l’umido …” Mi sedetti al mio posto ma nessuno mi diede da

mangiare. Ero in castigo. Terminata la cena, la zia Adelina aprì un fagotto di panno. Le castagne

arrosto profumarono la stanza. Dio, che fame ! Guardai verso il camino, alla pentola nera, quella

che aveva tutto il fondo bucherellato per fare saltare le castagne sul fuoco. Magari ce n’era

rimasta qualcuna. Era là appesa, vuota. Finite le castagne, il nonno Ulisse si alzò da tavola col suo bicchierone di vino in mano, entrò sotto la

grande cappa del camino e si sedette sulla panca di destra, vicino al fuoco, il suo posto. Il nonno

era grande, metteva soggezione. Ma poi era buono. Entrai anch’io dentro nel caminone e mi

sedetti dall’altra parte della panca. Il nonno posò il bicchiere in un anfratto del muro. Infilò una

mano nella tasca della giacca, cavò fuori la pipa e il sacchetto del tabacco. Lo guardavo: pantaloni

grigi, gilè che copriva una camicia bianca a quadretti, giacchetta e cappello in testa, sempre

così, col cappello in testa, estate e inverno. Aprì il pacchetto, ci infilò tre dita e tastò il tabacco.

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“Umh!” Lo rimescolò, ne prese un po’ fra le dita e cominciò a caricare la pipa, schiacciandolo con un chiodo. “Umh!” Mi diede un’occhiata. Le donne sparecchiavano e lavavano i piatti. Il nonno accese la pipa. Un’altra occhiata. Abbassai gli occhi. Anche la nonna venne dentro a scaldarsi nel camino. Il suo posto era di fronte al suo Ulisse. La fiamma calava. Si sedette anche lo zio Adelio. Allungò le gambe, si accese una sigaretta e guardò il nonno : “Ho sentito che hanno visto l’uomo nero in Oneta.”

“L’ho sentito dire anch’io.” “Era tanto che non passava da queste parti.”

“Era tanto, sì” “Forse i bambini di qui erano tutti buoni.”

“Speriamo che non passi di qui e non si accorga del Felice, se no ce lo porta via.”

Io non ci avevo mai creduto all’uomo nero che porta via i

bambini cattivi, però… La nonna raggomitolava una

matassa nella luce del fuoco. “Dov’è la mamma?”

“E’ andata a dare gli avanzi alle galline.”

Guardai nella direzione della porta. Oltre la porta c’era il buio

totale. Prima della porta, sulle pareti della cucina grigie per il fumo, stavano appese, nere, le

pentole, le padelle e il paiolo. Il calderone del formaggio, grande che ci stava dentro un bambino,

era nell’angolo in fondo. Il nero non faceva paura. Mi facevano

paura i due secchi di rame lucenti, quelli che si usavano per

andare a prendere acqua alla fontana. Nel buio riflettevano le

fiamme del fuoco. Dal soffitto pendeva una lingua di carta appiccicosa, piena di mosche morte. La carta era lucida. Si muoveva e

girava lentamente, piena di mosche morte appiccicate. Anche quella mi faceva paura. La

mamma tornò con la zia Angioletta. “Ma no che non era lui!” La mamma bisbigliava

nell’orecchio della zia. “Guarda che era lui!”

“Speriamo di no!” “Parla a bassa voce che se no si spaventa!”

“Proprio stasera che ha fatto il cattivo!” Scoppiai a piangere.

“Perché piangi?” “Ho paura che arriva l’uomo nero e mi porta via,

uh, uh, uh…” “Sssst non farti sentire!”

“Uh, uh, uh, uh…uuuuh…. Il nonno fumava la pipa, serio, impassibile. Lo

zio Adelio riattizzò il fuoco. I riflessi delle fiamme sul rame aumentarono.

“Uh, uh, uh, uh…uuuuh….”

“Basta piangere bambino mio!” Disse la nonna. “Corri subito in braccio alla mamma e chiedile

perdono!” La nonna aveva messo giù il gomitolo e mi guardava.

“Uh, uuuuh …. uh, uh, uh…” “Dai!”

Mi buttai in braccio alla mamma. Mi prese e si sedette anche lei sotto il camino.

“Uh, uh, uh… perdonami!” “Prometti di fare il bravo?”

“Sì, sì, sì… uh, uh…” “Angioletta va fuori e dì all’uomo nero che non ce

n’è più di bambini cattivi qui.” La zia Angioletta si alzò, aprì la porta, uscì e, fatti tre passi, gridò nel buio: “Se ne vada! Non ce n’è

di bambini cattivi qui!”

“Uh, uh, uh…” Sentii un bacio sul collo.

“Ma questo bambino ha la febbre!” “Fa sentire anche a me”

“Ha preso freddo quando si è addormentato in cantina.”

Mi avevano anche scoperto, nel mio nascondiglio. La febbre lavò via metà della mia colpa e mi

ridiede un po’ delle coccole perse ma non mi tolse il castigo. A letto senza cena, l’autorità non si può

contraddire. Ma la cena l’avrei trovata domani mattina e la stufa sarebbe stata calda per scaldarmi

la polenta avanzata. La febbre mi procurò invece un tazzone di latte caldo col miele. Il nonno ci

volle mettere dentro un goccio di grappa. “Gli fa bene, pota.”

Freddo, fame, febbre. Mi infilarono a letto, sotto l’enorme piumone bianco. Sprofondai. La

mamma accese la candela sul comodino. “Se ti scappa la pipì qui c’è il vaso da notte.”

“Stai qui con me!”

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“Un minutino” Si sedette accanto al letto e mi prese la mano. Sotto il pavimento si sentivano le mucche che si muovevano nella stalla. Qualcuna tirava la catena della mangiatoia e faceva vibrare i muri. Ogni tanto : splaff …plaff… L’indomani stavo bene. Correvo per il frutteto, aiutavo a raccogliere l’ultima frutta, mentre la mia sorellina aiutava la nonna che stirava mettendo e togliendo dal fuoco i ferri da stiro. “Attenta a non scottarti!” Lo zio Adelio fece il formaggio nel calderone grande. Sentìva la temperatura del latte col dito mentre io facevo girare il latte frullando fra le mani un bastoncino con quattro rametti. Poi lo zio tirò su il caglio con la garza, lo mise nella forma e lo portò in cantina con gli altri formaggi che stavano stagionando. Alla sera, davanti alla gran fiamma del camino, ci fecero fare il bagno nel mastello di legno. “Prima tua sorella, poi tu che sei sporco come un maialino!” Gran via vai di acqua dalla fontana al camino, dal camino al mastello. Finito il bagno della sorella, dentro me. “Attento! Fai acqua dappertutto!” Il giorno dopo ricominciavano le scuole. Ritornammo nella casa dei nonni a giugno. Come tutti gli anni, ci restammo per tutte le vacanze, fino a fine settembre. Ogni anno noi bambini eravamo un pochino più grandi, mentre la casa dei nonni non cambiava mai : sempre lo zio Adelio e la zia Angioletta, l’orto, i fichi, l’uva, le nocciole, le vacche, le galline e quell’odore di fumo e di latte nella cucina. Per tanti anni la casa dei nonni non cambiò mai. Poi, in pochi anni, ci fu un viavai. Il primo ad andar via fu nonno Ulisse.“Bambini silenzio! Lo sapete che il nonno sta male.” “Che cos’ha? E’ malato.” “Sì, è molto malato. Pregate per lui.” Io dicevo la mia preghierina perché il buon Dio trattasse bene il mio nonno. La casa era un andirivieni. Ogni tanto veniva il dottore, un signore alto con una borsa nera. La mamma era molto agitata quando doveva venire il dottore.

Cambiava le lenzuola al nonno, metteva una brocca di acqua pulita sotto la bacinella, metteva un asciugamano pulito per fare lavare le mani al dottore. Il dottore veniva, si informava, visitava, commentava, prescriveva, si lavava le mani, se ne andava. La mamma lo accompagnava all’automobile per non perdere anche le ultime gocce di inutili parole che il dottore avrebbe detto. Noi bambini guardavamo la macchina del dottore, grigia, con il muso lungo e stretto, i parafanghi rotondi, su cui occhieggiavano i fanali e il bauletto bombato di dietro. La macchina si allontanava. La mamma tornava indietro adagio e ci abbracciava. Il nonno Ulisse si incamminò verso il buon Dio, in camera sua, sopra le sue mucche, accompagnato dalle preghiere della moglie, dei figli e dei nipotini. Un ‘brutto male’, allo stomaco, l’aveva smagrito e smagrito, finchè non l’aveva ridotto a pelle e ossa. Beveva solo un po’ di vino e tirava con la pipa. Passarono pochi altri giorni. “Bambini venite a salutare il nonno. Forse è l’ultima volta.” La mamma piangeva e ci teneva per mano. Il nonno era magro, pallido, respirava a fatica. Le labbra erano secche. Non gli uscivano le parole. Ci fece cenno di venire vicino al letto e ci mise la mano sulla testa. Sorrideva. Lo rivedemmo l’indomani con una strana fascia che gli legava il mento. Come era piccolo, in quel vestito grande! La nonna gli mise il suo cappello sulle mani che stringevano la corona del rosario. Intorno si erano radunate le donne. “AveMariagraziaplenadòminustécu benedìtatumulérus frutivéntistùi Iesus.” iniziò una. Le altre in gruppo continuarono: “SantaMariamàterDéiorapronòbispecatòris noretinòremòrtisnòstreAmen!” “Ave Maria graziaplénadominustécu benedìtatumulérus frutivéntistùi Iesus.” “SàantaMariamaterdéiorapronòbispecatòris noretinòremortisnòstri. Amen!” Gli uomini stavano indietro, seri, con il cappello in mano, in silenzio : il rosario era per le donne.

Avemariagraziaplénadominustécu benedìtatumulérusfrutivéntistuiiésus. Sàantamariamaterdéiòrapronòbispecatòris oretinòremortisnòstriàmen! Avemariagraziaplénadominustécu benedìtatumulérusfrutivéntistuiiésus. Sàantamariamaterdéiòrapronòbispecatòris noretinòremortisnòstriàmen ! Il nonno Ulisse aveva sempre lavorato, aveva dato da mangiare alla famiglia, aveva dato alla patria e alla guerra un figlio, non era mai andato ubriaco all’osteria. Peccati non ne aveva. Per questo il buon Dio gli diede il privilegio di vivere in una generazione in cui si moriva alla svelta, a casa propria, senza la lunga farsa di ospedali, flebo, tubi, vomiti e lingua spelata dalle chemioterapie… L’anno dopo andò via la zia Angioletta. Al suo matrimonio andammo tutti.

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Lo sposo strizzava l’occhio a noi bambini, suoi futuri nipoti, e ci riempiva di confetti. Intanto, in cucina era arrivato un fornello con la bombola e il flit, una pompetta con un barattolino che spruzzava il DDT. Via le mosche e via quella schifosa lingua di carta, con le mosche appiccicate, che pendeva dal soffitto. Poi andò via lo zio Adelio e con lui sparirono le mucche nella stalla, il calderone in cucina e le forme di formaggio in cantina. Tornava a settembre e faceva il vino. Lo aiutavamo nella vendemmia e nella pigiatura. Noi eravamo sempre di più con i cuginetti che si aggiungevano. Per fare compagnia alla nonna, era arrivata la televisione. Le sue gambe erano diventate stanche. Non ce la faceva più a scendere in paese tutti i giorni per la spesa. Per questo arrivò anche un frigorifero bianco, con una portiera bombata e una manigliona che faceva clok quando si apriva e si chiudeva. D’estate arrivavamo noi e i cuginetti più piccoli, ogni anno qualcuno in più.Poi, un anno, andò via la nonna. Con lei sparirono le galline. In quella casa, d’inverno, non ci abitava più nessuno ma, qualche anno dopo, la mamma e gli zii decisero di fare delle trasformazioni e arrivò il riscaldamento. Senza la nonna e con i termosifoni, andò in pensione la stufa e il camino non si accendeva più. Solo a settembre, per arrostire le castagne… Lo zio Adelio imbiancò la cucina: “Così andrà via l’odore del fumo!” E sparì l’odore forte di fumo che si attaccava ai vestiti e ai capelli. Le pentole e i paioli di rame non erano più neri. Erano lucidati, appesi come i secchi dell’acqua, per bellezza. Adesso l’acqua arrivava lei dal rubinetto, senza andare alla fontana. Però il rame lucente non faceva più paura ai bambini con i riflessi delle fiamme perché il buio se n’era andato via per sempre, con l’arrivo della luce elettrica. La sera si stava su tardi, tutti insieme, a vedere la televisione. Arrivò il bidone della spazzatura. Prima non c’era. Gli avanzi li mangiavamo le galline, la carta spariva nella stufa e le tolle dell’olio diventavano vasi da fiori. Un po’ di mobili vecchi di noce si trasferirono nei nostri appartamenti, assieme ai ferri da stiro, alle pentole di rame, alla bilancia stadera. Restava, non so perché, l’odore del latte. Da quanti anni non si faceva più il formaggio? Il pavimento in cemento si coprì di piastrelle. Via il soffitto di legno, perché scendeva la polvere, via il frigorifero con la porta bombata e il maniglione che faceva clok, via il mastello di legno… “Si è rotto.” “Dovevi battere i cerchi. Le doghe si sono asciugate e ristrette.” “Peccato!” L’ultimo ad andar via fu l’odore del latte.

Franco Ratti

LO SCONOSCIUTO di Anna Livraga

Che strana luce! Gialla aranciata, luminosa e calda, e nello stesso tempo fioca, che sfuma i contorni. Dove sono, cosa faccio ? Mi sembra di stare in una stanza senza finestre, non ci sono rumori, non riesco a vedere a lato e dietro di me, eppure non sono bloccata da nulla, che strana sensazione. Ah, ecco. Ora sento qualcosa; una voce conosciuta si avvicina, ora posso distinguere bene le parole, però non vedo la persona. Ma la voce è inconfondibile, è Gloria, la mia amica del cuore e dice : “Ma certo Signore, è una figura squallida, si crede una Sapienza unica al mondo e così si comporta. Tratta amici e conoscenti con un disprezzo subdolo, fatto di sorrisi, di moine ed altri atteggiamenti dai quali si capisce che ci considera tutti dei poveri cretini. Non solo, fa anche battute scontate, che non fanno ridere, anzi risultano spesso pesanti ed inopportune. Quando parliamo in compagnia, affronta solo argomenti in cui può sfoggiare le proprie conoscenze ed evita - molto amabilmente, sa ? - che altri si intromettano e parlino delle loro opinioni, sfuggendo il loro contatto se non riesce a primeggiare. Non riesco a liberarmene, anche se lo vorrei tanto, e anche tanti altri amici la pensano come me.” Santo cielo! Ma di chi sta parlando? Dice che è un amico, quindi dovrei conoscerlo anch’io, ma la descrizione non mi dice niente. Che Gloria abbia altre compagnie di cui non sono a conoscenza? È strano, siamo più che amiche e mi racconta tutto di lei. E poi, con chi sta parlando e perché? E adesso che si sente? Chi parla ancora? E perché non si vede nulla? Ah, ora si capisce qualcosa. “Signore, sono Andrea Besozzi…..” Andrea ? Ma è di nuovo uno dei miei amici !!! Ma che cosa diavolo è questa riunione ? Ok, ascoltiamo anche lui, chissà se riuscirò a capire qualcosa. “Signore, mi dispiace, ma quanto ha detto la testimone che mi ha preceduto è poca cosa.” La testimone ? Ma guarda ! Siamo in un tribunale !

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Certo che non sembra un’aula convenzionale, non si vede nessuno, è tutto spoglio, c’è solo questa strana luce… “In effetti stiamo parlando di una situazione ben peggiore. È una persona assolutamente egoista, cerca sempre un tornaconto. A livello materiale e non solo. O non dà niente, glissando con quelle sue belle frasi o, se proprio non può evitare di impegnarsi, dopo ci ricorderà fino alla nausea quanto dobbiamo alla sua bravura e alla sua generosità eccetra eccetra eccetra, tante altre parole, fiumi di parole di autocelebrazione.” È proprio un bel caso; anche Andrea parla di uno che io non conosco ma che lui conosce fin troppo bene. Eppure con Andrea siamo amici sin dalle elementari, abbiamo praticamente una vita in comune, cosa potrebbe essermi sfuggito ? E così a lungo poi? Come ho potuto non accorgermi di un tipo così ? Andrea continua, implacabile : “Insomma è insopportabile!!! Per me è una sanguisuga e sono convinto che meriti ... (pausa ad effetto, il silenzio si fa schiacciante) ... sono convinto che meriti L’ESILIO!!!!” Accidenti, è una faccenda seria! Ma alt! Ora si sente altro: una voce sommessa e cavernosa nello stesso tempo; no, questa è proprio sconosciuta e sembra anche un po’ minacciosa. Ma che dice? “La mia lunga esperienza di giudice mi induce a ritenere che le testimonianze sin qui sentite siano state talmente esaurienti da poter emettere in tutta sicurezza un verdetto di colpevolezza piena con relativa condanna esemplare. La norma procedurale mi impone tuttavia di ascoltare brevemente anche l’imputato.” Chissà chi processano e perché; chissà qual è il reato? Mi incuriosisco sempre di più. Se solo potessi vedere meglio e sapere qualcosa di più degli antefatti di tutta questa storia … Ah, ma ecco di nuovo la voce del Giudice!! “E dunque, Signora Anna Mara, cosa può addurre a sua difesa ? Presumo le sia chiaro che il suo reato è esistere, procurando di conseguenza grave nocumento al tessuto sociale….” Come sarebbe, signora Anna Mara? Ma sono IO!!!!! E quello che hanno detto Gloria e Andrea era riferito a me! Beh, avevo sempre sospettato che fossero dei serpenti, sarà meglio girarmi dall’altra parte e riprendere sonno, poi domani facciamo i conti, altro che esilio. Sogni d’oro !

Anna Livraga

CAMPO MIR, LE QUATTRO DI NOTTE di Adriano Arlenghi

Le quattro di notte sono un’ora impossibile. Per chiunque e sotto qualsiasi latitudine. Ma quando il telefono-sveglia inizia a trillare, non ti riesce di guardarlo con la rabbia dei giorni normali. Incredibile : una sveglia che ti sorride ! Attorno si scatena un piccolo terremoto, i letti cigolano, il parquet traballa, le mani nel buio cercano di afferrare un maglione, una scarpa, le porte si socchiudono tutte di colpo. Ti ritrovi improvvisamente fuori, sull’uscio della foresteria. Le stelle ti sono complici e il vento caldo di un estate che non vuole morire ti prende per mano. Ore quattro, tutti alle Vigilie, la lettura dei salmi al Monastero che vive la sua vita immerso nel verde di una collina che profuma di erbe aromatiche, di sogno e di attesa. Cosi’ e’ iniziato il mio primo campo Mir.

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IL DESERTO Ma Prad Mill, il luogo dove sorge il Monastero mi ha fatto anche conoscere il Deserto, come lo chiamano i monaci, il silenzio. Incredibile per me che quando torno dal lavoro accendo immediatamente il televisore e comincio a telefonare a caso per riempire artificialmente la mia solitudine. Ma cos'ha di così affascinante il silenzio ? Per i monaci la quiete è l'elemento fondante, una necessità imprescindibile, ciò che rende possibile il loro essere uomini e monaci. Questa calma va dalla riduzione dei rumori, dallo stare in silenzio in modo cosciente, fino alla pace interiore, uno stato dell' anima che procura nel profondo armonia, felicità e conoscenza. L'idea, dicono, è molto semplice : nel silenzio c'è la verità e nell'isolamento c'è Dio, e in entrambi il soffio dell'eterno viene a contatto con la nostra anima. Nel mondo dei monaci tutto è orientato alla quiete. Le loro tonache e gli abiti che li proteggono. I loro edifici, le cui mura tengono lontano il rumore; i loro chiostri, che sono luogo del silenzio, della contemplazione, del fluido gioco di movimento e spirito nella sfera della meditazione. E poi il loro modo di muoversi, di camminare, di parlare, tutti i loro movimenti e i loro gesti, il loro modo di comunicare. Infine lo svolgersi di una giornata che non solo prescrive momenti di riposo, di raccoglimento, di vita spirituale e perfino di solitudine, ma che inizia proprio nel silenzio (alle quattro, per l’appunto) e - in modo del tutto diverso rispetto a noi - termina andando a dormire molto presto. La calma crea spazio. È una premessa fondamentale per

rilassarsi, per creare nuove energie. Secondo il modo di vedere dei monaci, l'uomo può vivere in armonia con se stesso e con il mondo solo nel momento in cui trova la tranquillità. Da queste condizioni i monaci ancora oggi traggono sicurezza, capacità di giudizio e non ultima, la loro serenità.

IL LAVORO MANUALE Un campo Mir e’ anche la fine della separazione tra lavoro intellettuale e manuale. Oddio, prima di provarci pensavo che questa idea del movimento non violento fosse un po’ troppo simile a quella sperimentata dai Kmer Rossi laggiu’ in Cambogia, mi vedevo gia deportato nelle campagne di Pian del Re o imprigionato se dissenziente nelle segrete del Monastero e gia pensavo a come fuggire dal campo... Il secondo giorno, armati di piccone e badile siamo andati a sbancare un cumulo di terra e sassi, togliendo i

sassi e filtrando la terra. Una fatica inenarrabile. Sara’ per la mia eta’ cosi’ poco verde, sarà per la testa arsa dal sole, o per le mani che rimpiangevano la solenne leggerezza di una tastiera di computer... E non era finita, c’erano pure le fascine dei rami dei castagni, prima bisognava abbracciarle e poi buttarle giù dai dirupi... Bene, non mi sono mai sentito cosi’ felice, cosi’ in pace con me stesso, un pezzo integrante di quella montagna, di quella vallata, di quella storia. Quando sorse la vita, il mio Creatore mi plasmo’. Con il nettare dei frutti. Uso’ la malvarosa della collina. Gli alberi e i rovi. I fiori dell’ortica. Conservo le tracce di cio’ che è eterno in natura…. Sono le parole di un antichissimo poeta, mi ci sono riconosciuto.

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LA CENTRALITA’ DELLA PERSONA E soprattutto un campo Mir sono le persone. Ma qui, a differenza di quelle che incontri negli spazi vuoti delle nostre citta’ cresciute senza piu’ radici, qui le persone hanno tutte un nome, una storia, una favola da raccontare, un sogno da inseguire, un’ utopia da realizzare. Una strada che ognuno cerca di trovare, una strada che per nessuno e’ facile o comoda, una strada per non diventare, come amava dire Don Tonino Bello, i notai dello status quo dell’esistente, ma capace di inseguire cieli nuovi e terre nuove. Il racconto di Giorgio che ha conosciuto Moreno Locatelli, il pacifista bresciano ucciso sul ponte di Vrbania mentre alzava al cielo il pane simbolico della riconciliazione. La storia di Mariella del sacro fiume Gange, sulle cui sponde si vive, si ama, si prega, si muore e che mi ricorda le frasi piu’ belle di quell’ultimo giro di giostra fatto da Tiziano Terzani. E poi la storia di chi fa fatto il Cammino di Santiago e la voglia di farlo anche tu; la scoperta grazie a Paolo delle poesie cristalline di Davide Turoldo; la fatica e la gioia di Francesco col quale la vita avrebbe potuto essere un po piu’ generosa. E poi c’e’ una Perugia-Assisi da fare insieme, nuovamente, anche per cementare meglio la nostra voglia di creare futuro. Conoscere uomini e donne e’ un grande lezione di umanita’. Non e’ facile, ci vuole disponibilita’, ma poi quando te ne vai ti rendi conto che hai tessuto insieme un pezzo di societa’ diversa, molto diversa da quella delle merci, del consumo, del profitto. La centralita’ delle persone non e’ un concetto che si ritrova spesso nelle relazioni dei Grandi della Terra e non a caso nel mondo possono viaggiare in un lampo le merci, i soldi, la finanza, ma le persone no; sovente esse finiscono ad abitare i fondali marini o imprigionate nei CPT.

MOLTO DI PIU’ “Che ti porti a casa ?” mi ha chiesto l’ultimo giorno Silvia, l’incredibile e infaticabile organizzatrice del campo. Molto, moltissimo, ho pensato, molto di piu’ di quello che speravo. Gli incontri pomeridiani sulla non violenza, sul consumo critico e sulla ricerca della tensione ideale di pace che anima il Vecchio Testamento; il tentativo miracolosamente riuscito di trasformare un sacco di farina in pane e torte (quanta pazienza padre Cesare !); le serate danzanti di musica popolare, e ancora oltre, fino a sperimentare addirittura il sirtaki. Improvvisamente sono stato riportato indietro di tanti anni, a quella notte in cui eravamo finiti a danzare gli stessi balli nel

grande piazzale ginevrino di fronte alle Nazioni Unite per chiedere al Palazzo della Prudenza di non abbandonare al loro destino le enclaves bosniache di Goradze e di Sebrenica.. Invano. Il ballo come pratica antimilitarista? Perche’ no ? Del resto anche i poveri delle bidonville di Korogocho, come racconta Alex Zanotelli, nonostante tutto hanno sempre tanta voglia di danzare la vita. Finisco con un furto, e rubo le parole ad un libro di Marguerite Yourcenar, per dire con lei che fare un campo Mir oggi e’ come costruire ancora granai pubblici, dove ammassare riserve in attesa di un inverno dello spirito e dell’etica che da molti indizi, mio malgrado, sento venire.

Adriano Arlenghi

Post scriptum : Si chiama Mir, significa Movimento non violento ed è una associazione internazionale che si batte per ritrovare quei valori della cultura e dell’ambiente naturale che considera un patrimonio prezioso per il presente e per il futuro e la cui distruzione e contaminazione è una delle tante forme di violenza dell’uomo contro l’uomo. Il Mir è conosciuto anche per i campi nonviolenti che organizza in Italia, rivolti a tutti perché, come dicono gli organizzatori, “la nonviolenza e’ la tenerezza della storia”. Tra i tanti campi che il Mir organizza c’è questo a cui ho partecipato e che mi ha dato molto. Come lavoro io faccio il cassiere in un istituto di credito, sempre in lotta con il tempo che non basta mai. Il tempo di qualità intendo dire, quello da usare per crescere, per cercare relazioni sociali, per fare volontariato, per giocare la propria vita per qualcosa che sia più importante di un computer e di tante mazzette di soldi che ogni minuto mi girano attorno…

Adriano

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Incontenibile come d’abitudine, Adriano Arlenghi si è presentato da solo, cosa del resto

assolutamente superflua, giacchè oramai lo conoscono persino su Marte. Anche gli altri

autori ospiti di questo numero di Esteban godono tutti (o quasi) di una più che meritata fama, anche

al di fuori dell’ambito locale e basteranno poche righe per tratteggiarne un sintetico ritratto.

Signore e Signori, ecco a voi

I NARRANTIDomenico Della Monica, di origine salernitana, è medico a Mede ed apprezzato scrittore; particolarmente significativa è la sua produzione di racconti incentrati su figure esemplari di dottori del passato. Pure Francesco Ratti è medico e scrittore, ma è stato ed è tuttora anche tante altre cose : dopo una lunga esperienza di cooperazione in Africa, è stato a più riprese sindaco di Gravellona, ha inventato l’affermatissima Festa dell’Arte e ha pubblicato due libri : “Il violino e le lucciole” e “Aspettando papà”. Ha detto di sè : “Mi piace raccontare le storie della gente che normalmente non ha nessuna caratteristica per essere assunta alle cronache. Non sono emarginati, né immigrati, non sono assassini né tossici. Eppure sono persone anche loro, e proprio a tutta questa gente ho voluto dedicare i miei libri”. Maria Antonietta Arrigoni è insegnante di filosofia a Vigevano ed etnoantropologa; attiva ricercatrice sul campo, ha scritto e pubblicato diversi libri sulla cultura popolare. Si distingue tra questi navigatissimi lavoratori della scrittura Anna Livraga, che è invece alle sue prime prove come narratrice : “Non è un improvviso bisogno di esprimermi – ci dice – ma una specie di sfida”, superata con notevole destrezza, ci pare. A tutti loro un grande grazie e arrivederci a presto sulle pagine di Esteban.

C’E’ VITA NEL VILLAGGIO ! Come ogni Natale da quando è nata, la nostra associazione promuove un momento di solidarietà dal titolo “L’EVENTO NELL’AVVENTO”. Quest’anno vogliamo sostenere EMERGENCY mettendo anche noi con voi un obolo per la realizzazione di un centro pediatrico a Nyala in Darfur (Sudan). EMERGENCY è una realtà che ormai da anni opera nel mondo con la realizzazione di ospedali attrezzati al meglio e con personale specializzato, nelle zone di guerra o comunque “calde”, a sostegno dei più deboli, di chi non ha mezzi per difendersi dalle atrocità vissute quotidianamente. Il Villaggio di Esteban presenta il recital PER UN MONDO DI PACE (letture sugli orrori della guerra). La regista Marisa Palombella e l’attore di teatro Corrado Bega, molto conosciuto e apprezzato anche qui a Mortara dove è intervenuto più volte a sostegno delle nostre iniziative daranno voce ad autori che hanno scritto poesie, pensieri, canzoni e reportage contro la guerra; saranno accompagnati alla tastiera da Jacopo Marchesi, giovane promessa della musica sempre disponibile per i momenti di solidarietà. Interverrà a illustrare le tante realtà di EMERGENCY Silvana Vinai, fisioterapista a Kabul. Siamo certi vorrete condividere con noi questo momento partecipando numerosi. Vi aspettiamo domenica 14 dicembre alle 17 presso la Casa Madre Immacolata Regina della Pace a Mortara.

E’ piaciuta parecchio la camminata sotto la luna dello scorso 20 settembre; una cinquantina i partecipanti e tra essi numerosi i bambini. Molto suggestivo lo spettacolo iniziale allestito da Lorella Carisio e Andrea Mazzino con le loro giovanissime e brillanti collaboratrici che ringraziamo ancora tantissimo.

Per chi scrive deve ancora avvenire, per voi che leggete è già il passato : nel pomeriggio del 6 dicembre, presso la Civica Scuola Musicale di Mortara si tiene il seminario LA MUSICA DELLA TRADIZIONE POPOLARE, con particolare riferimento al nord Italia e alla provincia di Pavia. Curato da Raffaele Nobile con la presentazione di documenti audiovisivi, l’incontro è organizzato dalla Civica Scuola Musicale P. Mazza, dall’Associazione Culturale R. Nobile e dal Villaggio di Esteban.

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LE FIABE E LA NARRATIVA POPOLARE

di Marco Savini

La “letteratura” prodotta dal popolo è costituita da tutta una gamma di racconti orali che partendo dalle storie di vita arrivano sino alle fiabe. Per racconto popolare si intende un racconto che circola nella tradizione orale sebbene in alcuni casi si possano avere influenze anche dalla tradizione scritta. Della fiaba, come di gran parte dei repertori popolari, non si conosce il primo narratore ma soltanto l’ultimo e, forse, la sua fonte. La storia si svolge nel passato, in un’epoca solitamente indefinita (“c’era una volta”), anche se spesso viene evocata un’atmosfera medievale con re, principesse e streghe. È un’avventura a lieto fine, una storia d’amore contrastata che si conclude con un matrimonio (“e vissero per sempre felici e contenti”). La struttura base della fiabe può essere riassunta dalle tre fasi : il viaggio, la prova, il premio. Lo schema principale prevede che l’eroe/eroina infrangano un divieto e quindi debbano intraprendere un viaggio; poi devono essere eseguite delle imprese; dove altri due hanno fallito il terzo riesce : lui/lei deve sconfiggere tre antagonisti; ha tre aiutanti o tre oggetti magici; infine giunge la vittoria e il premio meritato. Oltre a questo ritmo tripartito molte fiabe presentano un’ulteriore struttura suddivisa in due parti : una volta risolto il problema di partenza, liberata la principessa e sconfitto il drago non si arriva ancora alla conclusione, ma comincia una nuova serie di avventure, anch’essa secondo una trama tripartita. Per esempio perché l’eroe/eroina vuole aspettare ancora un anno, perchè infrange un tabù o subisce un incantesimo, o perché un impostore prende il suo posto. Sul punto complesso dell’influenza delle fiabe d’autore (Perrault, Grimm) su quelle popolari o viceversa le opinioni degli studiosi sono discordanti. Comunque con il diffondersi della capacità di leggere, nel corso del ‘900 si deve tener conto di un crescente influsso letterario sulla tradizione orale. Possiamo riscoprire in questi repertori sepolti nella memoria valori educativi non superati, benché ingiustamente sottovalutati.

Sull’interpretazione delle fiabe ci sono tante diverse correnti di pensiero. Si possono leggere

le fiabe da un punto di vista psicologico, storico, letterario, ecc.. Secondo l’orientamento psicologico le fiabe vengono considerate come il sedimento di esperienze e problemi umani secolari. Nel corso del tempo questi hanno assunto una forma in cui i bambini possono riconoscersi senza difficoltà (ma anche gli adulti; infatti un tempo le fiabe non erano un tipo di racconto solo per l’infanzia). Si tratta soprattutto dei problemi che accompagnano il passaggio all’età adulta, come la tensione tra dipendenza dai genitori e autonomia, tra gli interessi personali e le norme sociali. Quindi le fiabe assolvono a un precisa funzione educativa. Come sottolineava Bruno Bettelheim : “Le fiabe, a differenza di qualsiasi altra forma di letteratura, indirizzano il bambino verso la scoperta della sua identità e della sua vocazione, e suggeriscono inoltre quali esperienze sono necessarie per sviluppare ulteriormente il suo carattere. Le fiabe suggeriscono che una vita gratificante e positiva è alla portata di ciascuno nonostante le avversità, ma soltanto se non si cerca di evitare le rischiose lotte senza le quali nessuno può mai raggiungere una vera identità (…) Oggigiorno molti dei nostri bambini sono privati della possibilità stessa di conoscere le fiabe. Oggi la maggior parte dei bambini conoscono le fiabe solo in versioni edulcorate e semplificate che attenuano il loro significato e le privano dei contenuti più profondi. (…) Per la maggior parte della storia dell’uomo, la vita intellettuale di un bambino (…) dipese da storie mitiche e religiose e da fiabe.

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Questa letteratura tradizionale alimentò l’immaginazione del bambino e stimolò la sua vita fantastica. Nello stesso tempo queste storie, dato che rispondevano ai più importanti interrogativi del bambino, furono un fattore importantissimo della sua socializzazione”. Secondo l’interpretazione storica di V. Propp molte fiabe fantastiche sono nate nella fase di passaggio dalle società preistoriche basate sulla caccia alle prime comunità basate sull’agricoltura, quando cioè i riti di iniziazione caddero in disuso e diventarono storie di meraviglie, crudeltà e paure. Esiste poi il metodo di studio storico-geografico della scuola finlandese che in base all’analisi del maggior numero di varianti cerca di definire il luogo e l’epoca di origine e il territorio di diffusione di ogni singola fiaba. Nella classificazione si sono distinti i tipi, cioè le storie complete con un’esistenza indipendente e i motivi, cioè i più piccoli elementi di un racconto capaci di persistere nella tradizione. Dalla combinazione di diversi motivi possono nascere fiabe nuove o diverse versioni di uno stesso intreccio. Un concetto espresso a questa scuola è quello della “universalità della fiaba”, cioè della circolazione secolare di tipi e motivi fiabeschi tra fabulatori di classi sociali diverse e paesi lontani, per cui si trovano le stesse storie in località lontanissime fra loro. Secondo l’interpretazione “letteraria” le fiabe vengono analizzate soprattutto come racconti con una loro struttura e un loro particolare stile.

La narrazione orale presenta in genere i fatti in modo lineare senza interruzioni, divagazioni, flash-back. Non ci si perde nelle descrizioni, ma si susseguono incessantemente le azioni. Nell’analisi della fiaba tradizionale bisogna tener conto delle caratteristiche e dei vincoli che la distinguono per il fatto di essere un racconto orale. Può essere interessante un confronto tra uno scrittore (anche di fiabe) e un narratore orale.

Lo scrittore :

Fissazione definitiva del testo Libertà di inventiva Originalità Nessuna censura Riferimento a un repertorio molto più ampio (tutta la letteratura) Non necessari interlocutori diretti Circolazione ampia nel tempo e nello spazio Fruizione in genere individuale

Il narratore orale :

Testo sempre variato Legame (vincolo) con la tradizione Ripetitività Censura preventiva Repertorio limitato dalla tradizione locale e dalla memoria Necessari ascoltatori Circolazione limitata nello spazio e arischio nel tempo Fruizione collettiva con aspetti teatrali

Oltre alle fiabe magiche ci sono altri generi della narrativa orale, per esempio: -le favole che vedono come protagonisti gli animali; -le favole con protagonisti i bambini; -i racconti con protagonisti il diavolo o le streghe; -i racconti "di paura", che evocano la presenza dei morti; -le novelle che parlano di furbi e delle loro bricconate e di sciocchi e delle loro scempiaggini; -i racconti che, esplicitamente, propongono una morale; -le storielle semplici, che sono costruite attraverso l'uso di alcune formalizzazioni e che, spesso, si risolvono in una battuta finale; -le fiabe a formula : dove lo "schema narrativo non è interessante per l'azione che contiene, bensì per la forma della narrazione"; comprendenti fiabe senza fine, fiabe cicliche (che ricominciano sempre daccapo), storie con giochi di parole, fiabe a catena;

-infine le leggende e gli aneddoti, spesso ambientati localmente.

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È specialmente in gennaio che ci mordono le volpi. È specialmente in gennaio che annaffiamo queste croci. Specialmente in gennaio qualcosa filtra da lassù.

(Massimo Bubola)

VOI NON AMATE I VOSTRI ARTISTIun Contributo del Maestro Andrea Nazareno D'Oli di Novara,

docente di strumenti a plettro

Prepariamoci ad un gennaio denso di commemorazioni in ambito cantautorale : nel 2009 saranno giusto 10 anni dalla scomparsa di De Andrè, ma in questo mese molti si ricorderanno anche di Giorgio Gaber e di Luigi Tenco. Forse pochissimi si ricorderanno di Piero Ciampi, anche lui morto in gennaio. L'elenco comunque non è completo. Su questi nomi si leggerà probabilmente tantissimo nei prossimi mesi; sicuramente non si leggerà nulla su Rudy Cipolla. Rudy Cipolla è stato un grande musicista, suonatore di mandolino, che ci ha lasciati nel gennaio del 2000 quasi a 100 anni di età. Ci piace ricordare Rudy Cipolla perchè attraverso la sua possiamo incrociare tante storie diverse. Quelle dei tanti musicisti migranti che hanno dovuto lasciare i loro paesi d'origine in cerca di sorti migliori. Cipolla era infatti partito con i genitori per gli USA dalla Calabria agli inizi del '900, quando aveva otto anni. In quel periodo tantissimi musicisti di ogni nazionalità e cultura si trovarono negli stati Uniti dove spesso trovarono spazio anche nella nascente industria discografica e combinando le loro diverse tradizioni contribuirono a creare il suono che ci accompagna oggi. Musicisti che spesso emigravano in America con i loro strumenti sotto braccio, la qual cosa poteva essere disastrosa, come nel caso di Dave Tarras, che poi sarebbe diventato uno dei più grandi musicisti klezmer, che si vide distruggere il proprio clarinetto di legno, dopo l'accurata disinfezione che anche lo strumento dovette subire ad Ellis Island. E all'interno di questa epopea, la storia dei tanti musicisti italiani spesso da noi quasi ignoti ma il cui ruolo è stato fondamentale nella storia della musica, come Eddie Lang, riconosciuto tra i padri della chitarra jazz, e che in realtà aveva l'italianissimo nome di Salvatore Massaro. La storia di Rudy Cipolla è stata molto particolare : inizia giovanissimo come musicista semiprofessionista, poi passa la vita a lavorare nel suo emporio a San Francisco ma senza mai abbandonare la musica. Alla fine i suoi momenti di maggior gloria arrivano dopo i 60 anni, il primo disco lo incide a 83 anni, e ci lascia una mole incredibile di musica per mandolino, forse non ancora del tutto valorizzata. La sua riscoperta si deve al grande mandolinista americano David

Grisman che ha prodotto il suo primo album e cura la pubblicazione dei suoi lavori. Se volete più informazioni o ascoltare al musica di Rudy Cipolla, dovete cercare sul suo sito (www.dawgnet.com) dove, per $ 9,95 potete scaricarvi non solo il suo disco, ma anche lo splendido cd di Beppe Gambetta e Carlo Aonzo “Traversata”, che oltre a presentare un brano di Cipolla è un’ottima introduzione alla musica degli emigranti italiani, in particolare mandolinisti, dei primi del secolo scorso.

M° A.N. D'Oli (NO)

TRE LIBRI SOTTO L’ALBEROun contributo di Lino Maia

Siamo nel 1510, Giorgione è morto da pochi mesi e la sua dipartita prematura ed inattesa ne ha fatto una superstar; Isabella d’Este, prestigiosa collezionista d’arte, ha sentito dire un gran bene di una Notte (cioè una Natività) dipinta dal giovane artista defunto e scrive al suo corrispondente in Venezia chiedendogli di fare il possibile per acquistarla. La risposta è scoraggiante; di Natività dipinte da Giorgione ce ne sono in città addirittura tre, una più bella dell’altra, però i proprietari non le cederebbero per tutto l’oro del mondo. Parte da questi tre quadri di soggetto natalizio l’indagine di Enzo Vaccarone che ne I CAPOSALDI ASSENTI (editore Modrighi) ci racconta in che modo non sempre limpidissimo i collezionisti e gli studiosi abbiano ricostruito la carriera artistica di Giorgione giocando interessatamente su equivoci, forzature e falsificazioni belle e buone. Giorgione è stato il primo eroe e il primo martire del mercato dell’arte : non c’è una sola opera che gli possa essere attribuita con assoluta certezza, ma qualsiasi direttore di museo ammazzerebbe la nonna pur di poter appendere una targhetta col nome di Giorgione sotto uno dei suoi quadri. L’altro caposaldo assente a cui Vaccarone dedica il suo lavoro è Giotto : anche del maestro fiorentino non esiste opera che sia sicuramente autografa e i critici si accapigliano addirittura sulla paternità delle celeberrime Storie di S. Francesco ad Assisi. A differenza di Giorgione che visse poco e produsse pochissimo, Giotto ebbe vita e carriera lunghissime e fu a capo di una folla di collaboratori che dipinsero non si sa quanti chilometri quadri di affreschi; distinguere la mano del maestro nella sconfinata produzione della sua factory è praticamente impossibile, eppure c’è chi si ostina ancora a provarci. Anche nel saggio su Giotto, Vaccarone si misura con due opere di soggetto natalizio : la famosa Adorazione dei Magi della Cappella degli Scrovegni e quella, meno nota, della Basilica Inferiore di Assisi, e uno dei capitoli più simpatici del libro è dedicato al raffronto tra i cammelli che accompagnano i Magi nei due dipinti.

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Un libro che di natalizio ha solamente il titolo ma che merita comunque la segnalazione è TU SCENDI DALLE STELLE, di Vitaliano Sasso (Edizioni Astra Caserta), una bella biografia di S. Alfonso de’ Liguori, autore di quella che è sicuramente la più celebre folk song italiana. La narrazione è un filino romanzata ma la cosa non guasta, perchè la scrittura di Sasso ha un sapore un po’ balzachiano che invoglia a leggere per sapere cosa succederà poi. Brillante rampollo della migliore società, giovanissimo principe del foro e poi uomo di fede e di cultura, ripetutamente coinvolto suo malgrado in giochi di potere più grandi di lui, S. Alfonso attraversa, sempre più curvo sotto il peso dei malanni e della perfidia umana, tutti i livelli di un mondo – la Napoli del XVIII secolo – che Sasso descrive in maniera brillante senza mai rinunciare alla scrupolosità dello storico. Chiudo questa breve rassegna di libri che vale la pena di farsi trovare sotto l’albero di Natale con un’opera assolutamente di culto: CERNUNNO E’ TORNATO, di Nigel Moss (Chirone Editore). Scrittore tanto simpatico quanto balzano, Moss si è guadagnata sul campo la nomea di abile demistificatore rivolgendo le armi dell’intelligenza verso le scemate tipo Il Codice da Vinci ma anche contro certe sacre mostruosità come gli archetipi junghiani. In questo libro, però, Moss ci parla di quelle che considera le sue sconfitte, fenomeni culturali bizzarri di cui non sa intravedere motivazioni sensate. Spicca tra questi il caso di Babbo Natale : com’è possibile – si chiede l’autore – che alle rassicuranti fattezze del generoso S. Nicola vescovo di Mira si siano ad un certo punto sovrapposti i connotati di qualcuno che in teoria era morto, sepolto e dimenticato da quasi duemila anni ? Stiamo parlando di Cernunno, enigmatica figura della mitologia gallica, raffigurato come un uomo maturo ma vigoroso, dotato di un vistoso palco di corna di cervo e di un sacco straboccante di ogni ben di dio. Su cosa facesse Cernunno nella vita le fonti antiche non dicono nulla, nè il folclore ha conservato sue tracce e Moss non trova verosimile che qualcuno si sia preso la briga di riesumare un oscuro personaggio di cui si conosceva a malapena l’aspetto, per farne il primo e il più fortunato fra tutti i testimonials pubblicitari della storia. In appendice un gustoso capitolo ci trasporta nella Paperopoli inventata dal disegnatore Carl Barks, nella quale a Moss pare di riconoscere una precisa trasposizione del pantheon gallico. E siccome non capisce come ciò sia possibile, si incazza di brutto coi poveri paperi. Impagabile.

Una frase di Friedrich Nietzsche può aiutarci ad introdurre una disanima dei cambiamenti indotti

dall’innamoramento :

”L’AMORE È LO STATO IN CUI L’UOMO VEDE LE COSE PIÙ DIVERSE DA COME SONO.”

un contributo di Luigi Chiesa :

Il filosofo certamente non sapeva che questo stato di visione alterata era indotto dai cambiamenti a livello di metabolismo cerebrale. Le ricerche sulla biochimica dell’amore hanno suscitato grande attenzione e il lavoro pionieristico di Donatella Marazziti, psichiatra dell’Università di Pisa, le è valso riconoscimenti a livello mondiale. I suoi studi le han permesso di scoprire che dal punto di vista biochimico l’innamoramento è paragonabile ad un grave disordine ossessivo-compulsivo. Infatti soggetti passionalmente innamorati denunciano significative riduzioni di serotonina e la carenza di questo neurotrasmettitore è caratteristica proprio del disturbo ossessivo-compulsivo. Non è quindi casuale che l’innamorato manifesti fissità e ripetitività di pensiero, costantemente indirizzato sull’oggetto d’amore. Dal canto suo, Pierangelo Garzia, psichiatra, spiega sul numero di febbraio di “Mente & cervello” che un altro neurotrasmettitore legato alla vita amorosa è la dopamina : l’euforia tipica degli innamorati corrisposti sarebbe spiegabile con la presenza di alti livelli di dopamina nel cervello. Sarà poi l’ossitocina a favorire sentimenti di tenerezza e calore; quando interverrà la vasopressina, sarà per instaurare fedeltà e monogamia. Peccato però che a questo cocktail di sostanze chimiche subentri assuefazione e il cervello non reagisca più come prima. Succede allora, tra i 18 ed i 30 mesi dall’inizio della relazione, che il rapporto di coppia vada incontro ad una forma di decadimento qualitativo. Se poi questa crisi dovesse anche essere sostenuta da una carenza del neurotrasmettitore endorfina, responsabile di trasmettere calma e senso di intimità, potrebbe anche verificarsi la risoluzione del rapporto stesso. Va da sé che questa dinamica biochimica non trovi concordi altri scienziati e una delle voci più discordanti, rispetto a questo tipo di ricerche, è quella di Fausto Manara, professore di psichiatria presso l’Università di Brescia. Egli, infatti, sostiene che nell’innamoramento è riscontrabile una certa quota di follia ma che è fuorviante costringere il sentimento d’amore ad un problema d’organo. “Così facendo – egli conclude - ci si allontana sempre più dall’uomo, cercando di ricondurlo ad un ammasso di molecole, di cellule e di quanto altro risulta visualizzabile.” E qui giunti non rimane che citare, come chiusa, un aforisma dello scrittore tedesco Georg Cristoph Lichtengerg (1742-1799), tratto da “Libretto di consolazione” che ben si addice alle pene d’amore ed agli inevitabili corollari: “Non posso dire se sarà meglio, quando sarà diverso; ma posso dire : è necessario che cambi, se deve migliorare.”

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LE RUBRICHE DI ESTEBAN

A cavallo tra Settecento e Ottocento, quando nacque la moderna scienza economica, i primi economisti suggerirono che il principale obiettivo dell’economia fosse quello di allargare sempre più la felicità complessiva di una società. Questa concezione è presente persino nella Dichiarazione

di Indipendenza degli Usa del 1776, dove troviamo scritto che la pursuit of happiness, cioè la

ricerca della felicità, è tra i diritti inalienabili di tutti gli uomini insieme al diritto alla vita e alla libertà. Poi, però, prevalse l’impostazione di Adam Smith, che diceva che l’interesse individuale è la molla dell’interesse collettivo e si arrivò all’adozione - ed era il 1930 - del concetto di reddito pro-capite come misura dell’economia e all’idea che un aumento di produzione desse anche più benessere e quindi più felicità. Aumentare il reddito pro capite degli stati come fonte di benessere per tutti, divenne dunque il metodo adottato dalle Nazioni Unite, dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale. Nessuno metteva in dubbio questa verità : “Non è forse stata la straordinaria crescita economica promossa dall’industrializzazione che ha creato il progresso, che ha dato da mangiare e una casa a tutti, che ha allungato la durata della vita, insomma che ha dato la sicurezza economica?” Oggi la risposta a questa domanda non è più così scontata; i progressi della psicologia e della sociologia hanno confermato che l’aumento del reddito e della ricchezza di una persona non è automaticamente legato ad un aumento delle felicità, e che oltre un certo livello di reddito che corrisponde al soddisfacimento dei bisogni di base, la curva della felicità tende a diventare orizzontale o addirittura a decrescere. Oggi l’economia è a una svolta storica e deve porsi come obiettivo principale non la crescita del Pil, ma la felicità. Robert Kennedy diceva : “Il Pil comprende l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le ambulanze che trasportano i feriti degli incidenti stradali; conta le serrature che blindano le porte delle nostre case e delle celle in cui rinchiudiamo chi cerca di scassinarle. Il Pil non considera la distruzione delle sequoie e la morte del Lago Superiore. Aumenta con l’aumentare della produzione di Napalm, di missili

e di testate nucleari, ma non tiene in alcun conto la salute delle nostre famiglie, la qualità dell’istruzione, la gioia dei giochi. Non riesce a rilevare la bellezza della poesia, la forza di un matrimonio, l’intelligenza del dibattito politico o l’integrità dei funzionari pubblici. Insomma, misura tutto, salvo quello che rende la vita degna di essere vissuta.”. Nella nostra società industrializzata lo sforzo concentrato sul solo obiettivo di incrementare il reddito pro capite, oltre a non aumentare il livello di soddisfazione dei singoli individui, crea incentivi che distruggono l’occupazione, la salute, l’ambiente, la stabilità dei legami familiari. Autori alternativi come Mauro Bonaiuti parlano apertamente della necessità di creare un’economia della decrescita. Il collasso di un sistema economico, dice Bonaiuti, è inevitabile quando il meccanismo diventa talmente complesso che per farlo funzionare i costi superano i benefici. Questo significa che le possibilità di far crescere i redditi delle persone sono sempre più ridotte, richiedono sempre più sforzi e provocano crescenti tensioni politiche. A queste tensioni sarà sempre più difficile dare una risposta. Ne deriva la necessità di un modello non più fondato sull’accumulazione, sul lavoro, sulla produzione, sul consumo ma sull'attenzione alle risorse naturali e sul rallentamento della crescita, prima che sia il sistema economico stesso a imporla in modo doloroso. Spetta alla politica a questo punto comprendere questa domanda, che sostanzialmente è una domanda di relazione e quindi di felicità, e darvi una risposta adeguata.

Adriano Arlenghi

E’ Natale, il giornalino è ricco, lo spazio è poco e per questa volta me la cavo con una citazione che riassume perfettamente lo spirito di questa rubrica. “Tutte le città fuor di mano hanno qualche particolarità di costumi, dialetto, accento, indole ecc. che le distingue sì dal generale della nazione sì l’una dall’altra. E si trova, proporzionatamente parlando, maggior varietà di costume scorrendo un piccolo circondario posto fuor di mano, che non si trova scorrendo da capo a piedi un intero regno, ed anche più regni e nazioni, per le vie postali. Tanto la natura è varia, e l’arte monotona; e tanto è vero che la civilizzazione tende essenzialmente ad uniformare.” E’ il 3 ottobre del 1821, e chi scrive non è evidentemente qualche sfigato di No Global, ma uno di quei pochi, pochissimi uomini di genio che la sorte matrigna si è degnata di regalare alla nostra povera Italia : Giacomo Leopardi. Quasi duecento anni fa.

Guido Giacomone

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PORTFOLIOPORTFOLIOle interviste diVINCENZO SGROI “Mi chiamo Vincenzo e fra poco compirò 34 anni. Abito in una poco ridente cittadina della provincia di Pavia, Vigevano, un paesone che per evitare i problemi causati dalla modernità ha deciso di essere completamente atemporale. Il mio lavoro è quello dell’educatore, nel tempo libero invece cerco di complicarmi la vita. Giusto per non farmi mancare niente, mi sono dato un compito particolare, far circolare la cultura nella Lomellina. Gli strumenti che adopero sono cineforum, spettacoli teatrali, interviste, presentazioni di libri, etc.etc. Se vuoi contribuire a questo progetto, mandami un'email : [email protected]”. Si presenta così Vincenzo Sgroi, fingendosi un tantino timido ed impacciato, un vezzo caratteristico dei tipi in gamba che non vogliono dare l’impressione di tirarsela. Fortunatamente, però, quando fa il suo lavoro di intervistatore Sgroi lascia perdere i falsi pudori e sfodera una padronanza del mestiere degna del vecchio e scafato giornalista che in effetti egli è, collaborando da lunga data al mensile vigevanese La Barriera. Volendo offrire ai lettori di Esteban un saggio dell’abilità e del garbo con cui Sgroi sa spremere i suoi interlocutori, ci siamo permessi di estrapolare ampi stralci dalle numerose interviste che ha pubblicato in questi anni su La Barriera. Abbiamo focalizzato la nostra attenzione su di un paio di grandi temi ricorrenti nelle chiacchierate di Sgroi (quasi dei passaggi obbligati): i meccanismi della creatività e la potenza devastante della televisione. Ci è piaciuto inoltre mettere in evidenza alcuni frammenti di conversazione che ci pare suggeriscano angolazioni inedite o non usuali da cui guardare la realtà che ci circonda. Ringraziamo vivamente Vincenzo Sgroi augurandoci di averlo presto ospite sulle pagine di Esteban, e un grazie anche a La Barriera, una realtà editoriale e culturale che merita di essere maggiormente conosciuta anche fuori dei confini di Vigevano.

IL MOMENTO MAGICO

- Lei afferma di essere solo un mezzo, uno strumento al servizio della musica... - Può sembrare incredibile ma è la musica che bussa al mio cuore, non sono io a decidere. Mi arriva dall’alto, entra dentro di me, si evolve ed esce direttamente fuori delle corde del pianoforte.

E’ bellissimo perché così il lavoro duro non lo devo fare io. - E come nascono i titoli dei suoi album? - Come

dicevo prima, è la musica che mi usa, ma la cosa più incredibile è che alla fine di ogni “visita” mi lascia sempre un regalo finale : il titolo.

(Giovanni Allevi, pianista)

- Un libro di poesie, una raccolta di racconti, un romanzo : cosa l’ha spinta a produrre tutto questo? - Riuscire a ricucire uno strappo profondo che all’improvviso mi aveva abbattuta. Dalla morte di mio padre qualcosa ha cominciato a smuovermi l’animo. All’improvviso è stato come risvegliarsi da uno stato di torpore. Ho guardato la mia vita come se fosse la vita di un’estranea. Non riuscivo più a ritrovarmi nei gesti di tutti i giorni. Ho cominciato a vagare nella mia mente come un vagabondo. Una parte di me era donna, un’altra bambina, un’altra un essere delirante e in preda alle allucinazioni. Rimettere insieme i pezzi non è stato facile, ma scrivendo, giorno dopo giorno, credo di aver fatto qualcosa di buono.

(Roberta Raise, scrittrice)

- Quando è cominciata la grande avventura del Teatro ? - Pesco qualche episodio dalla mia infanzia. Un’infanzia dominata dal dio pallone, dal calcio e dai giochi di gruppo in generale. Il cmpo sportivo, la passione per le figurine e per i burattini. Ecco, forse il teatro dei burattini è stata la prima molla. Uno dei giocattoli con cui giocavo di più in inverno. Una passione per i burattini e per le voci. Per cui con il mio piccolo mangianastri registravo alcuni personaggi televisivi, alcuni cantanti e raccontavo attraverso i burattini delle storie inventate da me. Quasi sicuramente nasce da qui la mia grande passione per il racconto. Per la narrazione. Di Teatro serio ne avevo sentito parlare in modo sfuggente solo alle superiori ... - Non ha quindi maturato questa passione sul campo, magari in piccoli lavori parrocchiali. - No, no. Il mio è stato un colpo di fulmine. La mia prima esperienza è avvenuta in un piccolo centro per disabili. Ero agli inizi della mia carriera educativa. Fui chiamato all’ultimo momento per dare una mano in uno spettacolo interamente fatto da disabili. Non avevo minimamente idea di cosa avrei visto e a cosa avrei assistito.

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Ecco, in quel momento ho avuto il classico colpo di fulmine : l’illuminazione. Non si rivelò una classica recita, ma uno spettacolo vero, recitato in modo superbo e magistrale.

(Paolo Schiavetta, scrittore, poeta e uomo di teatro)

- Lei fa un tipo di Teatro molto particolare, come potremmo definirlo ? - Un Teatro “urgente”. Nasce, principalmente, da una mia urgenza. La cosa che mi interessa di più e’ se intorno a questa mia “urgenza” si crea una rete di varie “urgenze” simili. Se questo poi porterà a farmi conoscere persone o a fare uno spettacolo, il percorso può ritenersi riuscito. Più che lo spettacolo in sé, aggiungo, è il processo che porta ad uno spettacolo che mi interessa. Spesso ho iniziato diversi percorsi che non sempre si sono trasformati in una iniziativa, però sono quelli che ricordo con più gioia. - Ha delle tematiche fisse ? - Dipende dall’urgenza del momento.

(Luca Littarru, artista multimediale)

LA TELEVISIONE

- Tra le tante questioni che non sono mai trattate dai media c’è la sensibilizzazione sulle questioni lavorative, trovo che ci sia molta ignoranza su questi temi. Crede che ci sia una volontà precisa ? - Non so, partirei dal fatto che ormai Rai e Mediaset sono da anni in una sorta di guerra per gli ascolti. Quando la priorità è l’audience è chiaro che argomenti come il mobbing vengono slittati ad orari notturni. Non dico che una volta c’erano contenuti perfino nell’intrattenimento, ma resta un dato di fatto che stiamo assistendo ad un imbarbarimento mai visto. - Quale è il peso dello spettatore ?- Nullo, perché fa una non scelta. Lo stato delle cose ormai ci ha allontanato dalla consapevolezza delle azioni. Io vedo milioni di automi che

accendono la tv più per abitudine, distrazione, noia che per reale bisogno conoscitivo. - Sta dicendo che pochi guardano realmente le trasmissioni… - Ormai la tv è solo un sottofondo della nostra giornata. In questo contesto trasmissioni che trattino argomenti di etica lavorativa diventano seriamente inutili. C’è un’incapacità di gestire le informazioni, o forse è solo rassegnazione. Avrà notato che sempre di più le pubblicità televisive o cartacee si riferiscono ad un target molto preciso : il ceto medio-alto. Mi sembra molto evidente, le famiglie modello delle pubblicità rappresentano solo una piccola realtà in Italia. Ma qui funziona il modello “soap opera”, ovvero far sognare le persone su falsi bisogni.

(Luigi Furini, scrittore ed ex precario)

- Che tipo di famiglia trasmette la tv ?- Beh, la televisione è la regina delle illusioni. Mette in piazza tutta una serie d’emozioni che poi per forza di cose deve annacquare. Anche perché la natura stessa della tv è di semplificare le cose ed i concetti. Qualità che stona con la tentazione che hanno certi programmi di mettere in scena determinati comportamenti famigliari. I valori che la tv propina, poi, sono modelli che purtroppo sono presi molto seriamente da una certa fetta di spettatori. Valori che ci tengo a ribadire sono più subiti che acquisiti. Ho visto genitori terrorizzati dalla paura di perdere un certo status all’interno dei loro gruppi.

(Mirella Cicciò, avvocato civilista e consulente dell'Associazione Donne Divorziate e Separate)

- Negli anni settanta spopolavano i romanzi della Ravera, adesso invece quelli di Moccia. Segno che i tempi sono cambiati... Non per fare della demagogia semplice, ma una delle responsabili di questo cambiamento credo sia la televisione. - Non le sembra un po' troppo facile attaccare la televisione ? - Forse, ma sicuramente ha aiutato a far perdere la poca coscienza rimasta. C'è tutto un immaginario falsato che è stato creato dalla tv. Immaginario che ci accompagna ogni giorno. Un vero e proprio sistema di mistificazione. - Colpa degli spettatori o della televisione ? - Chiaramente è un serpente che si morde la coda. Una cosa è certa, la tv ha perso la sua forza educativa.- Non mi dica che quando era piccolina non la guardava... - Mi ricordo che io e alcuni miei amici ci riunivamo per guardarla a casa di uno di loro che aveva la nonna particolarmente paziente... Vedevamo trasmissioni tipo “Rintintin”, “Zorro”... Programmi che raccontavano storie. Alla fine delle trasmissioni, infatti, continuavamo a far rivivere quei personaggi, inventandoci finali alternativi.

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Adesso invece, i bambini li trovo privi di voglia di fare fantasia. Negli ultimi anni mi capita di tenere corsi di scrittura creativa nelle scuole e ne sento di tutti i colori. Ti sembra normale che nel 2007, uno dei desideri delle quindicenni sia rifarsi le tette? Chiaramente c'è qualcosa che non va. Se leggi le inchieste sui giornali, leggi cose allarmanti. Non ci si indebita più per il pane o la caciotta, ma per comprarsi il televisore al plasma e rifarsi le tette. Sono i nuovi bisogni...

(Alessandra De Vizzi, scrittrice e traduttrice)

- Guadagno di più a dire cazzate in tv che scrivere libri di denuncia. Soprattutto mi ascoltano di più.

(Filippo Facci, giornalista)

ALTRE PROSPETTIVE

- Che significato ha oggi la parola “lavoro”? - Come ben sai, questa parola per gli italiani è molto importante. Gli italiani si sono formati la propria reputazione grazie al fatto che si sono rimboccate le maniche nei momenti più drammatici. - Certo, anche se prima hanno dovuto toccare il fondo. Si potrebbe dire che hanno proprio bisogno di questo per reagire. - Considerazione interessante ma io la metterei in un’altra maniera. Diciamo che il sacrificio è una parte integrante del concetto di lavoro in Italia.

(Luigi Furini) - Sta dicendo che il progresso non è più a misura di persona ? - Di persona e soprattutto di donna, per come sta andando questa società. Il lavoro non più a tempo indeterminato, poi, ha moltiplicato le difficoltà. Orari flessibili si trasformano automaticamente in turni massacranti. Si dice tanto della famiglia ma a ben vedere esistono pochissime leggi che nel concreto l’aiutano. Ultimamente, qualcuno ha sentito parlare del problema degli asilo nido e delle scuole materne che non riescono a soddisfare le nuove esigenze? Della mamme che lavorano al sabato e alla domenica e infrasettimana fino alle 22.00 ? Del mobbing femminile, dei licenziamenti causa maternità o delle proposte di contratti di lavoro a turni inaccettabili ?

(Barbara Verza, presidentessa dell’associazione Bimbi dell’infertilità)

- Fino a ieri ci decantavano le virtù della flessibilità, il piacere di poter cambiare il lavoro quando si voleva. Questa è una fesseria che ormai non sta più in piedi. Soprattutto perché il tutto non è supportata da mezzi adatti. A nessun precario viene fatto un mutuo. Una cosa è la

gavetta lavorativa, un’altra è non poter vivere in maniera dignitosa.

(Luigi Furini)

- Come si fa ad a distinguere cosa è utile e cosa no ? Al giorno d’oggi c’è una miriade di notizie. Ci sono notizie che smentiscono notizie, notizie che non aggiungono niente ma fanno rilevare aspetti morbosi, notizie parziali… - Ma non esiste più un’etica professionale, una deontologia ? - A fare questi discorsi si rischia di diventare moralisti, semmai bisognerebbe capire chi fa il proprio dovere. Di certo se una notizia viene dilatata in trecento puntate una motivo ci sarà… - Non ho mai capito se è il pubblico che richiede queste trecento puntate o se sono i media che hanno un interesse ad “allungare il brodo” ? - Dal mio punto di vista, la notizia non è più il piatto forte ma il contorno di qualcos’altro. - Quel qualcos’altro è la pubblicità, vero ? Possiamo dire che ormai la notizia è lo specchietto per le allodole ? - Possiamo dirlo.

(Filippo Facci)

- Essendo terrone, di flussi migratori me ne intendo parecchio. L’idea di base dei flussi è la stessa di tutti : la volontà di migliorare la propria vita. Mi sembra un discorso molto chiaro, si parte da un posto che non offre niente per andare in un altro che si presume dia tanto. Il vero dramma, però, sta nello scoprire che il posto tanto agognato in realtà era solo percepito come tale.

(Giovanni Giovanetti, fotogiornalista)

- E’ la C.I.A. che comanda sulle questioni di politica estera. Non dobbiamo dimenticare che i mujaeddin afgani sono stato addestrati e armati dagli americani. L'estremismo islamico è stato sfruttato dalla C.I.A. per la sua lotta contro il comunismo. Capisci bene che non serve a niente sapere quale presidente sarà eletto negli Stati Uniti se non si risolverà in maniera definitiva il problema C.I.A. (Malalai Joya, ex deputata al parlamento afgano)

I CONFINI DEL TEMPO

- La qualità dell’immagine digitale è ormai uguale a quella analogica, se non migliore. I vantaggi sono tanti, ecco, l’unico limite (che non è quello della qualità o dei costi) mi sembra quello della durata delle stampe e dei supporti, e della compatibilità dei formati digitali; non sappiamo se i nostri files potremmo aprirli ancora fra 20 anni, mentre la foto analogica, se ben conservata dura nel tempo.

(Valerio Incerto, fotografo)

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L’ OCA DI

NATALEdi Maria

Antonietta Arrigoni

Nella grande cucina nera di fumo un’oca grassa e bianca sonnecchiava nel gabbiotto di legno intrecciato. A fatica il suo corpo rotondo stava rannicchiato tra le sbarre, il collo piegato e quasi nascosto dall’ala, mentre le zampe come schiacciate dal peso affioravano appena tra le sue piume arruffate. Venne il gatto di casa a domandare : - Che fai oca? Oca che fai? -E l’oca a fatica si riscosse da quel suo sonno che pareva un sogno, liberò il capo dall’ala e molto lentamente disse : - Non faccio nulla, aspetto - - Che stupida - ribatté il gatto, limandosi le unghie nel graticcio del gabbiotto – non sai che oggi è la vigilia di Natale? - L’oca si lisciò un poco la piuma dell’ala col becco aguzzo. - E non sai che questo è l’ultimo giorno per te? Tra poco verrà la padrona e ti tirerà il collo, ti spennerà, ti tufferà nell’acqua bollente, ti farà a pezzi e ti cuocerà in fricassea per il pranzo di Natale - - E immagino che tu - disse l’oca - mangerai i miei avanzi e magari berrai un po’ del mio sangue mentre la padrona mi uccide - - Immagini bene, oca, e sei davvero stupida poiché nessuno, sapendo di morire, si metterebbe a dormire come fai tu – - Hai ragione, nessuno - disse ancora l’oca e infilandosi di nuovo il capino sotto l’ala si rimise a dormire. Il gatto se n’andò, scuotendo la testa, e s’acciambellò vicino al focolare. Di solito, la vigilia di Natale era proprio contento per tutto quello che avrebbe potuto mangiare e per tutte le carezze che avrebbe ricevuto e per le luci del presepe e i canti dei bambini e le favole raccontate accanto al camino al calore del grande ceppo. Di solito… ma quell’oca lo innervosiva proprio, ecco… perché se ne stava così calma e tranquilla invece di tremare come le altre oche dei Natali passati… era stupida, mille volte stupida… non sapeva neanche valutare la sua sfortuna, forse non se ne rendeva neppure conto. La chiamò : - Oca… oca…-Non avrebbe dovuto farlo ma la chiamò e quella stupida rispose : - Che vuoi, gatto? - Non poteva starsene zitta? - Voglio sapere perché non hai paura…- - Ho vissuto bene, perché dovrei averne? - - Ma tutti hanno paura della morte… - - Bè, certo - disse l’oca - sollevando un poco il capo - ne ho anch’io ma posso accettare il mio destino perché, vedi, mi sembra d’aver ben vissuto,

ho amato e sono stata amata, ho ricevuto e ho dato, e anche nella morte sono stata fortunata perché non sarò un qualsiasi arrosto ma un arrosto di Natale, che te ne pare?- - Sei proprio stupida, ecco quel che mi pare… - - E comunque mio caro gatto io non morirò perché le mie piume entreranno nel letto della padrona per renderlo più morbido e lì si incontreranno con le piume di mia madre e di mia nonna e di mia bisnonna. Generazioni di oche dormono in quel letto e rendono da anni un buon servizio agli uomini ma tu stesso puoi dire altrettanto? A che servirai tu e chi hai amato? - - Sciocchezze - borbottò il gatto e se n’andò a ciondolare sul cuscino di una sedia. Un rumore improvviso di passi gli fece rizzare le orecchie. La padrona era entrata con la sua bambina. - Mamma - diceva la bambina – guarda com’è bella? Non vedi… - E’ solo un’oca però… e di solito a Natale si mangia…- - Ma è la mia oca, la mia oca Gelsomina… io le voglio tanto bene, giochiamo insieme da tanto tempo… mamma… non essere cattiva a Natale…- - Ma non è cattiveria, tesoro, le oche sono fatte per essere mangiate…-La bambina si era messa a piangere:- Non è vero le oche non sono fatte per essere mangiate, non la mia oca Gelsomina… no… no… che brutto Natale, che direbbe Gesù Bambino… oh mamma, ti prego…-- Ma che pranzo di Natale sarebbe? Senza l’oca, non è mai successo, che dirà piuttosto la nonna… e papà? - - Oh, papà sarà contento perché anche a lui Gelsomina piace, ti prego mamma… per una volta al posto dell’oca non puoi cucinare qualcos’altro? Le lenticchie che portano fortuna… o i cavolini al burro… o qualche torta di verdura come sai fare tu… ti prego… E così dicendo la bambina liberò dal gabbiotto Gelsomina e se la portò via. - Torna subito qui con l’oca - gridò la mamma. - No invece, porto Gelsomina nella mia stanza, qualche volta devono comandare anche i bambini, almeno a Natale mamma… lasciateci comandare almeno a Natale, se comandassimo noi il mondo sarebbe più bello e anche se comandasse Gelsomina…- - Il mondo comandato da un’oca - pensò il gatto – che sconquasso sarebbe! E il Natale senza l’oca coma sarà? Che schifo! Lenticchie e cavoli al burro, come siamo caduti in basso…- Tuttavia, in fondo in fondo, non gli dispiaceva, diavolo di un’oca era riuscita a rammollire anche lui…