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Tariffa Assoc. Senza Fini di Lucro: Poste Italiane S.P.A - In A.P -D.L. 353/2003 (Conv. in L. 27/02/ 2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB/43/2004 - Arezzo - Anno XI n° 2-3/2007 essenziale L '

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Primapagina3

Attraverso la cruna dell'ago6

Scegliere tra il molto e l'uno 4

Beati i puri di cuore10

Un nocciolo di vita 8

Il cuore comune di ciò che esiste14

Riconoscere l'essenziale 12

Desiderio di deserto20

Le pietre di fuoco 18

Un pomeriggio con Erri De Luca 22

Senza varcare la soglia24

La nuova agenda 29

La nuova veglia di Romena 26

Avvisi28

trimestraleAnno XI - Numero 2/3 - Settembre 2007

REDAZIONElocalità Romena, 1 - 52015 Pratovecchio (AR)tel./fax 0575/582060

DIRETTORE RESPONSABILE:Massimo Orlandi

REDAZIONE e GRAFICA:Simone Pieri - Massimo Schiavo

STAmPA:Arti Grafiche Cianferoni - Stia (Ar)

FOTO:Alessandro Ferrini, Massimo Schiavo, Giuliano Fantechi.COPERTINA: Massimo Schiavo e Claudia Sander.

HANNO COLLABORATO:Luigi Verdi, Pierluigi Ricci, Maria Teresa Abignente., Stefania Ermini, Thomas Müller

www.ROmENA.IT A cura di Alessandro Bartolini

Filiale E.P.I. 52100 ArezzoAut. N. 14 del 8/10/1996

www.romena.ite-mail: [email protected]

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Conosco le isole Vanuatu perché c’è andata a vivere una vecchia amica. Anche per questo mi ha colpito un articolo di giornale secondo cui è proprio lì, in quel minuscolo arcipelago perso nel Pacifico, che vivono le persone più felici del mondo.Eppure è gente povera, quella di Vanuatu. Il reddito medio non arriva a 3mila euro l’anno, in molti villaggi non ci sono luce elettrica nè telefono. Perché allora stanno così bene? “Non abbiamo molto – spiega il direttore dell’unico giornale locale – ma quello che abbiamo lo condividiamo”.

L’essenziale abita il mondo. Trovo la mia Vanuatu nelle mani estrose di un artigiano. Si chiama Piero Santoni, faceva il falegname, ora che è in pensione dedica il tempo a costruire giocattoli. Ne riscopre di vecchi, ne crea di nuovi. Prende pezzi di legno e materiali riciclati e li tiene insieme con lo spago della fantasia e la colla della passione. La lingua dell’essenzialità parla con le sue mani che accarezzano il legno, che ridanno vita a una bottiglia di plastica, a un pezzo di stoffa. Il primo passo verso l’essenziale, mi insegna, consiste nel riappropriarsi di un rapporto vero, non mercantile, con ciò che abbiamo intorno: si diventa essenziali non quando si rinuncia a qualcosa, ma quando si impara a guardare ciò che abbiamo con uno sguardo diverso, dandogli valore, dignità, attenzione. Piero ha anche scelto un genere di giochi: quelli di relazione. “I giochi – sostiene — non devono isolare i bambini, ma insegnargli a comunicare tra sé e con gli adulti”. È ancora una metafora di ciò che serve per diventare essenziali: se si guardano le cose in profondità si scopre che non sono fatte per servire solamente a noi, ma per essere messe in circolo, offerte, condivise. Più ti avvicini al cuore di un oggetto, più entri nel flusso della vita: senti di esser parte di un tutto, e quel tutto lo senti parte di te.

Non fare spazio, ma dare spazio. Non isolarsi, ma aprirsi. Sono questi i movimenti dell’essenzialità. Facili da raccontare. Ma inutili se solo raccontati. Ha scritto Gibran: “Prima o poi voglio semplicemente vivere quello che dico”: si comprende davvero ciò che è essenziale solo quando si comincia a affondare le mani nelle viscere della vita. Io, per esempio, faccio fatica a tradurre il richiamo verso uno stile di vita più semplice perchè vivo ancora una contraddizione fra le mie amate radici contadine e la scarsa capacità che ho di misurarmi con la concretezza della terra. Eppure non c’è alternativa: per incontrare l’essenzialità non basta respirare la campagna, bisogna entrarci in contatto. Ascolto ancora Piero che col suo percorso rivolto all’infanzia in realtà parla a tutti noi:“Da un po’ di tempo insegno ai bambini a costruirsi i giochi. Oggi i bambini non sanno né quali né quanti giochi hanno. Ma quando tornano a casa con il giocattolo che hanno saputo realizzare da soli non lo abbandonano più: hanno imparato ad amarlo”.Il cammino verso l’essenzialità non può che partire da qui: da un diverso grado di amore. È quan-do un pezzo di legno passa per le nostre mani, quando un muro è fatto della calce che abbiamo preparato, è quando il destino di un fiore è affidato alle nostra cure che comincia il viaggio verso la nostra “Vanuatu”.Servono spazi, servono mani. Serve la terra. E una meta: “Non aver molto, e saperlo condividere”. Pochi ingredienti. Il succo della vita.

Massimo Orlandi

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SCEGLIERE TRA IL MOLTO E L'UNOdi Luigi Verdi

Si può tornare a vivere con poche cose? Sì lo possiamo, ma è difficile, perché l’essenzialità non solo di oggetti ma sopratutto di gesti e di spazio richiede una ricchezza interiore che non abbiamo più.C’è un nemico che minaccia il nostro cammino e avvelena i pozzi della gioia, è il bisogno.Maggiori sono i nostri bisogni, minore è la nostra gioia. Il demone della velocità ci istupidisce tan-to da essere incapaci di abitare il corpo e restare in contatto con il nostro cuore, e questo ha come conseguenza l’impossibilità di essere in contatto con “l’altro”.In ebraico essenzialità è iquar, che significa la radice.Come una radice che spacca la terra cercando nutrimento, l’essen-ziale è nascosto agli occhi.Dipendiamo da questa moder-nità, dalle sue nevrosi, e dipen-diamo dalle nostre radici. Ma se provassimo a spogliarci di ogni alibi, di ogni sicurezza e lega-me, cosa rimarrebbe?Se lavorassimo ogni giorno come a pulire il chicco di grano dalla pula e dalla scorza, non ri-troveremmo forse la nostra vera forma tenera, nuda, palpitante?Quando cogli l’essenziale è come essere afferrati dal vento, da un vento indicatore che ti getta là dove inizia il cammino.L’essenziale fa sì che la materia non resti chiusa in se stessa, ci ricorda che noi siamo chiamati ad altro,evita di farci rimanere prigionieri del nostro “dentro”. L’essenziale apre il tempo, dilata il tem-po e, per poter fare a meno delle cose, ci pone in attesa.“Marta tu ti agiti e ti preoccupi per troppe cose, ma una sola è la cosa di cui tu hai bisogno”.II messaggio è di saper scegliere tra il molto e l’uno.Il Vangelo è l’opposto delle possibilità televisi-ve che moltiplicano le sensazioni, i bisogni. Ci è chiesto di opporci a questa moltiplicazione: “Vivi

l’essenziale, le troppe cose, i troppi desideri, sof-focano l’uomo”. (Gc 1,15)È essenziale nutrire la vita ed essere fedeli ad essa: questa fedeltà al “poco” ci renderà capaci di “esserci” quando l’amore si risveglierà.Resto appeso alla speranza che Dio abbia ancora nelle sue mani una carta da giocare, una carta ca-pace di sorprenderci. Io ho avuto alcune passioni ma molto disordinate. Ma nonostante il disordine quello che capitava in un certo orizzonte del mio sguardo lo assorbivo con molto interesse. Cosa è diventato essenziale oggi per me?

La bellezza fatta di attenzione, di ricerca di armonia in tutto ciò che vedo e tocco. Mi piace la nudità della materia, quella del fango, della tela grezza, del le-gno naturale, della creta: questa loro essenzialità ispira la mia creatività, fa emergere forme che esprimono armonia.La leggerezza che si oppone alla pesantezza che vorrebbe portare il peso di troppa roba, di tutto, mentre la leggerezza prende solo l’essenziale.La tenerezza e la dolcezza che trovo nel volto dell’altro che mi interpella con la sua fragilità e

debolezza, nel profumo della rosa senza sentire il bisogno di strapparla. Amo tanto chi ripone nel silenzio tutta la forza della dolcezza. Amo chi attende pazientemente il proprio momento di re-surrezione trattenendo il respiro e mantenendo il contatto con la terra.La piccolezza e l’umiltà come frutto dell’estrema libertà del cuore che si è scrollato tutte le prigioni.Mi piace “La chiesa di Auvers” di Van Gogh, così piegata al vento, obliqua, insicura, come la nostra preghiera malferma, questa chiesa scossa come un terremoto dalle preghiere nate dagli abissi da dove giunge il grande grido.Mi piace pensare che l’essenziale è quel grido che nasce dal profondo e quel cielo aperto sopra ogni chiesa piegata al vento.

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SCEGLIERE TRA IL MOLTO E L'UNOIl mio cuore

aveva tanti desideri sparsi,ma quando ti ho visto,

si sono condensati in uno.

Charles de Foucauld

Foto di Massimo Schiavo

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ATTRAVERSO LA CRUNA DELL'AGOdiGiovanni Vannucci*

“È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno di dio” (Mt 19,24). Sono Parole dure per i nostri innumere-voli attaccamenti, gioiose per la rivelazione che la vera grandezza dell’uomo è nella più totale spoliazione, unica via per raggiungere la vita.Chi è il ricco? Innumerevoli sono i modi del possesso: i campi, le case, le ricchezze, l’onore, la fama, la stima, la capacità, le idee, le teologie, le visioni del mondo, gli effetti, il proprio io. Essi non sono dio. Egli dimora oltre tutti questi limitati confini.La spoliazione non è compiuta per ripiegamento masochista su se stessi, è la liberazione da quanto imprigiona le vive forze umane perché erompano in tut-ta la loro nobile vigoria. Quando il fiore si spoglia nel frutto segue una legge che spinge la pianta a compiere il suo ciclo vitale. Analogamente è per la vita che cristianamen-te vuole raggiungere la sua pienezza.La spoliazione è il superamento della ricerca spa-smodica della salute, della bellezza, dei piaceri, dell’attaccamento alle proprie sofferenze, della ricerca di fermare l’attenzione altrui su di noi. È l’andare oltre il desiderio di possedere le co-noscenze non sul piano dell’ascesa, ma su quello dell’utilitarismo. È il superamento della paura della sofferenza, della morte, del complesso di colpa, di perdere le nostre limitate raffigurazioni del divino. Il non-ricco è colui che, liquidando l’avere e le bramosie, vive nello spazio sacro dell’io senza io, in una beatificante comunione con Dio.Comunione, non disincarnazione: gli oggetti del possesso vengono riscoperti nella loro es-senziale verità, non più oggetti, ma soggetti che emergono illuminati da una luce inimmaginabile e incontaminata. Nulla è più mio e tuo, tutto è

compagno di viaggio verso la gioia dello spirito, tutto è avvicinato con nuova tenerezza e con infinito rispetto.Che forza, che pace quando riusciamo ad annulla-re ogni forma di avere, a lasciare indietro i calvari della proprietà, a immergerci nella comunione. La spoliazione si ha quando l’io tramonta, quando le cose non più possedute diventano compartecipi della nostra vita senza fine: essa colma tutte le nostre aspettative, rivela l’intima essenza del tutto

e l’inanità dei nostri innumere-voli possessi.Così anche nella vita terrena: quando amate, cosa fate? Vi spogliate di tutte le convinzioni che avevate dell’amore. Esso sorge in voi come qualcosa di nuovo e non ricorrete ai libri per sapere se è vero o no; amate e vivete questa esperienza con pienezza di partecipazione e con novità di sentimenti. Così l’artista, nel momento della creazione, si libera da tutte le

conoscenze che ha imparato e crea una forma nuova, ed è attraverso questa spoliazione che si svincola dalle pesantezze delle accademie che renderebbero il suo verbo artistico meno intenso. La spoliazione, necessaria anche nei piani più ordinari e semplici della nostra esistenza, quando ci inoltriamo nell’essenza della vita bisogna che sia ancor più completa.Nell’incontro con Cristo dobbiamo avere la preoccupazione di spogliarci di ciò che viene dalle nostre convinzioni, dai nostri ragionamenti. Fare silenzio ed ascoltare il fluire della sua vita.Dio ci stimola a liberarci da molti amati possessi e questa è la via per fare un passo in più verso una vita nuova e diversa. Domandiamo a Dio la grazia di spogliarci sempre di più per poter passare attraverso la cruna dell’ago, unica via per giungere alla verità e alla vita.

* Tratto da “Meditazioni cristiane”, Edizioni Gribaudi (Torino) 1972

Che forza, che pacequando riusciamo

ad annullare ogni forma di avere,

a lasciare indietro i calvari della proprietà, a immergerci

nella comunione.

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ATTRAVERSO LA CRUNA DELL'AGO È bene che restiamo “senza”, senza punti di riferimento fissi, senza sicurezze. Così possiamo diventaresensibili al trasparire del divino.

R. Panikkar

Foto di Alessandro Ferrini

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UN NOCCIOLO DI VITA di Maria Teresa Marra Abignente

“Io dico addio di minuto in minuto e mi libero da ogni esteriorità. Recido le funi che mi tengono ancora legata, imbarco tutto quel che mi serve per intraprendere il viaggio…” (Etty Hillesum)No, non è solo per l’ultimo viaggio che bisogna recidere le funi. È per il mare da solcare, per quel-la vastità che attimo dopo attimo si apre davanti a noi e diventa la nostra storia, la nostra vita. È inutile e inopportuno aggrapparsi agli ormeggi e appesantirsi di zavorre: il viaggio ne potrebbe ri-sentire, i tempi potrebbero allungarsi e noi essere più facilmente prede di tempeste.Non trovo immagine migliore per cercare di parlare dell’essenzialità. Questa dimensione che sembra esser propria solo dei santi e degli asce-ti, di coloro così tanto abituati alle rinunce e ai sacrifici che sembrano ormai non soffrirne più; di quelli che riducono tanto all’osso i propri bisogni da sembrare levitare un metro al di sopra di noi comuni mortali. Troppo lontano, troppo alto questo concetto di essenzialità e probabilmente adatto solo a persone non comuni. Ma forse c’è un tipo di essen-zialità alla quale tutti siamo chiamati, forse anche noi pos-siamo raggiungere una dimensione che ci leghi all’essenza della vita e ci liberi da ancore e pesi.Se solo riuscissimo a recidere le funi ed a mettere nella nostra barca quel che realmente ci serve per il viaggio... Tagliare quelle spesse funi che ci an-nodano alla terra e che nonostante gli strattoni non ci lasciano andare, liberi e attirati dal vento...Penso che dovremmo rivedere la nostra nozione di essenzialità partendo dal fatto che non è qual-cosa cui si giunge “togliendo” o “sottraendo”: non ci si arriva mediante la spoliazione o la scar-nificazione dei nostri bisogni; anzi, credo che chi giunge a questa dimensione riesca ad assaporare il tutto con più gusto, proprio perché capace di coglierne le sfumature ed i particolari, perchè ha così tanto allargato i suoi orizzonti da contenerli misteriosamente tutti... come se portasse tutto il mondo nella propria anima.

Ho conosciuto persone che con la loro vita mi hanno fatto meditare la possibilità di un respiro profondo ed umile, perché sono giunte ad essere come realmente sono, profondamente ed umil-mente. Persone che senza fatica e sforzo riescono a rendere grandi le cose piccole, dimostrandomi che il segreto è nascosto solo in noi, semplicemen-te perché siamo noi quel segreto: è il più interiore del nostro intimo, è quel nocciolo di vita, amore, dolore racchiuso in noi e che in loro si è come dilatato. Trasformandosi da nocciolo in frutto.Potrebbe sembrare facile essere come realmente siamo, riuscire cioè a diventare quella materia prima di cui siamo plasmati: può essere il lavoro di una vita quando non sappiamo più chi siamo perché sepolti da bisogni e desideri fittizi, mossi da venti inaffidabili, agitati da passioni superfi-

ciali. E allora la nostra barca rischia di affondare, portata alla deriva in un oceano tanto più pericoloso perché scono-sciuto.Non resta che metterci silen-ziosamente in ascolto di noi stessi, guardarci dentro con occhi spalancati, cercare di afferrare quel nocciolo: solo tendendo l’orecchio ed affi-

nando il nostro tatto saremo capaci di intendere quel po’ di vita, di amore e di dolore deposto in noi. Ma c’è bisogno di silenzio, perché è una voce delicata e che a volte sembra muta, una presenza che dobbiamo imparare a decifrare tra le ombre e i fruscii che vogliono nasconderla o soffocarla. C’è un invisibile che ci nutre: nascosto nell’os-so c’è un midollo che porta cibo e nutrimento, che noi non vediamo ma che genera una linfa profonda e ci consente il respiro. Così in qual-che nascondiglio del nostro cuore c’è un seme segreto, qualcosa che assomiglia ad una pro-messa, dove si fonde il visibile con l’invisibile. L’essenzialità è sentir fluire questa linfa, rimanere in contatto con quel midollo che ci rende capaci di vedere l’invisibile e toccare l’impalpabile, e di prendere finalmente il largo con le vele gonfiate dal vento.

In qualche nascondiglio del cuore c'è un seme segreto, qualcosa che assomiglia a

una promessa, dove il visibile si fonde

con l'invisibile.

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L’essenziale non è nel raccolto,

l’essenziale è nella semina,

nel rischio, nelle lacrime.

Neher

Foto di Massimo Schiavo

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"BEATI I PURI DI CUORE" di Antonietta Potente

L’essenzialità e la libertàQuando nasciamo, nasciamo semplici, nudi, senza nessuna protezione. Ma lungo il cammino le cose si complicano: cominciamo a rivestirci, una e più volte; cominciamo a proteggerci, a difenderci, a diventare sospettosi gli uni degli altri. È quello che le varie culture tramandano nelle loro tradizioni: pensate alla tradizione giudaico-cristia-na della Genesi che racconta proprio il passaggio dal sentirsi liberi, essenziali, al diventare sospet-tosi, all’essere reciprocamente falsi, a raccontare cose che non sono essenziali. La falsità non consiste nel non dire la verità, ma proprio nel dire cose che non sono essenziali. Essere essenziali significa anche essere liberi. Le sapienze religiose e culturali, anche quelle scientifiche, ci ricordano l’itinerario di vita verso la Libertà, cioè verso la semplicità.Pensiamo alla beatitudine di Matteo: “Beati i puri di cuore perché vedranno”; i puri di cuore”, i semplici vedranno qualcosa che certamente aiu-terà loro e altre persone a vivere.

L’essenzialità e la diversitàLa semplicità consiste in gesti e spazi dove ci si sente vivi, e non si impara da soli, ma stando con altre semplicità, nella vita. I vangeli non invitano a stranezze: “Guardate i gigli del campo…” è un invito alla consapevo-lezza, al contatto con la realtà, con elementi della vita che evocano la semplicità e dai quali a lungo andare si impara. Il problema è che non siamo semplici di mentalità: abbiamo pregiudizi grandissimi per cui per esempio intendiamo l’ascoltare come rivolto esclusivamente a una persona che parla: dove è scritto? Si ascolta tutto, non solo chi parla o cosa dice. Nella comunità dove vivo la più anziana non sa leggere e scrivere. Quando è uscito un mio libro che, nella versione castigliana ha una copertina allegra, con tutti i colori tipici della Bolivia lei ha esclamato: “Che bello!”. Non leggerà mai il libro, e anche se sapesse leggere non capirebbe, tratta questioni di mistica… Ma lei ha un’altra dimensione, preziosissima, da portare avanti. Il problema non è quello di parlare tutti i medesimi linguaggi. Il problema è scoprire linguaggi diffe-

renti perché questa è la semplicità che possiamo vivere tutti. Noi occidentali pensiamo che la semplicità sia l’esclusione: un ambiente diventa semplice se togliamo il quadro, le seggiole, il tavolo, i lam-padari, le cose tecnologiche che non servono. Invece probabilmente è il contrario. È cominciare a riconoscere che c’è anche il lampadario, che ci sono dei quadri più o meno belli, delle tende, un tappeto, delle seggiole e tante persone differenti. Questo potrebbe essere un altro itinerario da percorrere.

L’essenzialità e lo spazioLasciare spazio, lasciare silenzio e solitudine in-torno a noi, non occupare tutto lo spazio, lasciare che qualcosa si produca, senza occupare tutto il tempo della produzione. Probabilmente è questa l’essenzialità, anche rispetto al Mistero. Alle nostre preghiere dobbiamo lasciare ancora più spazio. Per vivere l’essenzialità dobbiamo osservare, guardare, essere umili, fare spazio non solo intorno a noi, ma dentro, nel nostro corpo, nella nostra mente. È preziosa la capacità di far entrare in noi altre idee, ma in questo ci scontriamo con le istituzioni post moderne che fanno tutto meno che creare spazi. Continuo a pensare che la solitudine consista nel-l’accorgerci che lo spazio è molto più grande di quello che pensavamo. Per cui dobbiamo rendere grazie tutte le volte che ci accorgiamo che siamo soli, che lo spazio è molto più grande, per cui pos-siamo accogliere ancora altre cose, altre persone.

L’essenzialità e il tempoDovremmo passare più tempo insieme in silenzio per dilatare il tempo, invece riempiamo tutto il tempo che passiamo insieme e facciamo così anche con Dio: se non ci danno qualcosa in mano da leggere non sappiamo come pregare. Anche nelle nostre dinamiche di incontro do-vremmo passare dei tempi di silenzio con le persone che amiamo: sono tempi profondamente preziosi. Non dobbiamo aver paura dei lunghi silenzi, dello stare lì e sentire, ascoltare, dando al silenzio il suo essere, il suo un significato, quello di essere un linguaggio alternativo.

La ricerca dell’essenzialità nelle intuizioni della teologa domenicana. Il testo è tratto dal suo ultimo libro ‘Semplicemente vivere’ che riproduce i testi delle sue conversazioni alla pieve di Romena.

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Ama la vita così com’è, amala pienamente, senza pretese; amala quando ti amano o quando ti odiano, amala quando nessuno ti capisce o quando tutti ti comprendono.

Alda Merini

Foto di Alessandro Ferrini

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RICONOSCERE L'ESSENZIALEdi Stefania Ermini

“Quando devo insegnare a pregare, mi viene in mente mio figlioche ha 3 anni. Lo vedo disteso sul divano appoggiato alla sua sorellina. È questo che mi fa dire agli altri come accarezzare Dio ogni giorno”. Incontrare Dio nella concretezza dell’esperienza e nell’essenzialità della Parola. La Fraternità ha incontrato Lidia Maggi, pastora della Chiesa battista di Milano, teologa, ma anche moglie e madre di 4 figli. Una mamma che parla di Dio.

Lidia si muove lentamente negli spazi, accoglie con un sorriso, mastica parole semplici, asciutte. Lidia Maggi, pastora della chiesa battista, ci incontra a Romena. Il mondo cattolico, racconta Lidia, le stava stretto. Essenzialità. Questo è ciò che cerca nelle chiese della riforma che, dice Lidia, “hanno fatto deserto nella chiesa, hanno cercato l’essenzialità della fede. A 14 anni mi innamoro di Gesù del suo modo di parlare, dei suoi gesti, della sua vita esemplare. È un’esperienza di fede forte, intensa, totalizzante. Tuttavia la conversione è tutt’altro che un incontro di libertà. Oggi oserei parlare piuttosto di fede devastante!”Lidia ci porta nella Scrittura, nelle sue prediche, negli incontri. Racconta della fedeltà alla vita, della fragilità umana, dell’imperfezione dell’uomo. Ogni parola, ogni tema è un continuo tornare alla Scrittura, è un tornare a Dio ospite che abita l’uomo, le sue case, le sue famiglie. A Romena si sente a casa. “Qui riconosco volti già visti e questo a significare che le persone si rincontrano, i luoghi si attraversano”. Getta voci lunghe e appassionate Lidia. Getta voci e parole nude sul bisogno di riconoscere l’essenzialità, di trasformare la parola di Dio in

cibo da cucinare, da masticare. “Noi dobbiamo fare i conti con un cibo cucinato e anche condiviso. Il cibo accompagna la necessità di dire si alla vita. Basti pensare che tutto inizia con un morso sbagliato! Per parlarvi di questo cibo di vita scelgo Eliseo. Eliseo non ha lo stesso carisma e passione di Elia. Vive un tempo di care-stia di parole di Dio. Quel Dio che parla con tutti i profeti, con Eliseo parla sottotono. Eliseo è in cucina (Libro dei RE, cap 4, 38-41) che prepara una minestra per i suoi discepoli e chiede ai di-scepoli di accendere il fuoco e cuocere la realtà. Ci sono alcuni discepoli che aspettano davanti al fuoco mentre altri vanno fuori a cercare gli ingredienti necessari per la minestra”.Alcuni discepoli seguono dunque una vita con-templativa, mentre altri discepoli vanno fuori e cercano gli ingredienti e selezionano, rischiano di percorrere sentieri selvatici e incontrano piante mai assaggiate o conosciute. Lidia riprende il racconto “Un discepolo trova una pianta che produce zucche e se ne riempie il grembiule, porta il suo contributo senza sapere se sarà buono o cattivo. Le zucche vengono mes-se nella minestra e poi viene distribuita a tutti.

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RICONOSCERE L'ESSENZIALE Mentre viene distribuita Eliseo si accorge che la minestra è velenosa. Ma erano tempi di carestia e bisognava essere cauti, non si poteva buttare tutto al vento. Eliseo compie un gesto semplice: prende la farina, la mette nella minestra e da velenosa diventa nutriente. Eliseo si limita a correggere la realtà valorizzando il lavoro di tutti”L’essenziale è lì, nascosto nel tempo, nel giorno, negli eventi quotidiani.L’essenziale è lì, è anche dentro i fallimenti, anche dentro le minestre riuscite male. Ogni scelta “sbagliata” può essere corretta e diven-tare nutrimento. “Dio non abita nel tempio ma vive nelle famiglie imperfette” ricorda Lidia. “Riconciliamoci con la nostra fragilità, con i nostri fallimenti. Siamo fragili e imperfetti e Dio disdegna la nostra perfezione. Se cerchiamo Dio dobbiamo cercarlo nella nostra fragilità. Chi è povero, chi è nudo sa cosa vuol dire abbandonarsi a lui. È da quell’essere nudo e fragile che si può provare a ripartire. Si possono trasformare le situa-zioni. Ritrovare l’essenziale non significa sfuggire la vita, non significa appiattire il pre-sente. Vedete il profeta Eliseo non ha necessità di fare grandi proclami, si accontenta di guardare da un’altra prospettiva. È il profeta che aggiusta le cose, non fa nuovi cieli, non fa nuove terre” aggiunge Lidia. “Mi piace perché mi acquieta rispetto alle performance della vita. Questo è un miracolo che risana la pentola che richiede di aggiustare, più che inventare qualcosa di nuovo” .La Parola di Dio risulta a volte cruda, indigesta e deve essere cotta perché sia resa appetibile per nutrire la nostra realtà, perché si trasformi in minestra che può essere distribuita e mangiata da molti. Vorremmo trovare nuovi linguaggi, nuovi ingredienti per cuocere la Parola, nuove ricette. “Carestia di Parola, di passione, di coraggio e di discernimento. Forse però la morsa della fame ci rende disponibili ad apprezzare anche solo le briciole della parola di Dio e a non gettare via troppo frettolosamente quei piatti che ci sembra-no riusciti male”.Eliseo corregge, cerca e riconosce l’essenziale: ciò che serve, ciò che basta è già lì. C’è solo da trasformare, da aggiungere un po’ di creatività, un po’ di fantasia.

Lidia si muove con le parole e i suoni della sua voce. Si muove nella Pieve, nell’aria. Si muove tra la gente che ascolta tenendo stretta a sé le sue parole. La parola di Lidia ha poi un sussulto. Tutto è fermo. Lidia si porta le mani sulle gambe, quasi a carezzare lentamente le parole che stanno arrivando. “Sono mamma di quattro figli. Sono una mamma che parla di Dio. Come essere mamma entro il percorso di fede? Non lo so! La mia fede è abitata in ogni piega della mia vita. La vita familiare entra nelle pieghe di tutta la mia vita. Tendo all’astrazione. Non sono concreta. Ma sono i miei figli la concretezza del quotidiano. Le mie illustrazioni nei sermoni vengono dal mio vissuto familiare, quotidiano, dalle domande dei miei figli. Quando devo insegnare a pregare, ad avere una relazione affettiva con Dio mi viene in mente mio figlio che ha 3 anni.

Lo vedo disteso sul divano appoggiato al corpo morbido e amabile di sua sorella. È questo che mi fa narrare agli altri come accarezzare Dio ogni giorno”.Di nuovo, in questo quotidiano povero, vero, fedele al giorno, Lidia ritrova l’essenziale della parola, ritrova Dio, ritrova se

stessa. Riconosce l’essenziale in questo muoversi calmo, disteso di suo figlio. Lidia si cala nella terra ogni giorno. Ascolta le storie affidatele dagli altri e le intreccia nella sua storia quotidiana con la Scrittura, con Dio.In questo incontro Lidia ci ha nutriti con la sua minestra, ci ha nutriti con i suoi gesti familiari, con le sue parole misurate. Ci ha dato un nocciolo duro e nudo da masticare. Quello di riconoscere con coraggio, il vero, l’essenziale. Senza inventare il nuovo. Solo trasformando. Solo riconoscendo. Essenzialità dunque. Un’essenzialità del quotidiano che scioglie; un’essenzialità del quotidiano che brucia e cura le ferite; un’essenzialità del quotidiano che dà sapore; un’essenzialità del quotidiano che preserva, conserva. Lidia ci fa dono di un nocciolo da masticare piano, piano, col tempo. Ci lascia un nocciolo da rigirare in bocca come le sue parole. Un nocciolo da riconoscere e aggiustare, che non richiede niente di nuovo. Un nocciolo solo da trattenere, solo da custodire.

Se cerchiamo Dio,dobbiamo cercarlo

nella nostra fragilità.

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L’essenzialità è il cuore comune di ogni cosa. Nell’essenzialità dell’altro, di un avvenimen-to, di un sentimento riconosco la mia propria essenzialità e il mio destino comune a tutte le realtà di questo mondo. Oggigiorno non è facile vivere la consapevo-lezza del collegamento fra tutte le cose in Dio, e che ci fa riconoscere le mille cose del mondo esterno e dei nostri mondi interni come tanti fili di un unico tessuto. Quotidianamente devo richiamare me stesso dalle distrazioni che mi portano al superfi-ciale e al superfluo invece che all’essenziale, e lasciarmi prendere da ciò che mi nutre ve-ramente: l’essenziale che non s’impone con voce rozza o insistente, le cose autentiche che richiedono solo la mia sem-plice presenza.Perché è così difficile stare nell’essenzialità delle cose, nella consapevolezza del tutt’uno? Perché siamo così tanto distratti? Antoine de Saint-Exupéry nel racconto Il Piccolo Principe ce lo dice con parole chiare e nette: “È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi… È il tempo che hai per-duto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante… Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato.” Rimaniamo troppo sulla superficie delle cose. Ci interessano solo in quanto possono darci qualcosa, materialmente, emotivamente, spi-ritualmente.Cerchiamo sempre al di fuori di noi le cose che ci possono nutrire, che ci possono dare soddisfazione e felicità. E non riusciamo a tro-varle. È ugualmente vero che non le troviamo neppure dentro di noi, quando trattiamo que-sto spazio interiore come una realtà scollegata dal resto del mondo, quando viviamo la nostra interiorità come un regno separato dagli altri. I rapporti con le persone che amiamo, le belle

IL CUORE COMUNE DI CIÒ CHE ESISTEdi Thomas Müller

cose che ci attirano, gli ideali che inseguiamo, ci nutrono solo in quanto noi li “addomesti-chiamo”, naturalmente non nel senso di colo-nizzarli ma di lasciarli entrare dentro di noi, in casa nostra, nel nostro spazio più intimo. Che le cose esterne diventino interne, come quelle interne esterne: in ciò possiamo scopri-re il collegamento fra l’interno e l’esterno e fra tutte le cose. Siamo chiamati a riconoscere il mondo come un mondo unico, un mondo fatto di una sola sostanza, ciò che chiamiamo “l’essenziale”, l’essenzialità. Possiamo dare tanti nomi a questa essenza: l’invisibile, il cuore, la vita, Dio… non im-porta. Importa invece sapere che è la nostra capacità di riconoscere l’essenzialità delle

cose, delle persone che alla fine ci dà ciò che noi cerchia-mo e di cui abbiamo bisogno per vivere: il riconoscimento della nostra propria essenzia-lità e attraverso di lei il no-stro collegamento con il tutto che c’è.Parlando della Genesi e della

creazione dell’essere umano ad immagine di Dio, sentii un rabbino dire: “la divinità del-l’uomo è la sua capacità di vedere la divinità dell’altro”. Mi è sempre rimasta in mente questa sempli-ce e radicale affermazione. L’essenzialità per me non è frutto dei bei pensieri astratti, ma di un impegno quotidiano, di una “tensione” ininterrotta che, più che altro, mi mette con-tinuamente di fronte alle mie incapacità e ai miei mille modi di sfuggirmi ed ingannarmi. Alla fine riesco a riconoscere che l’essenziale è sempre lì, dentro e fuori di me, che l’essen-zialità è nient’altro che la materia della quale noi, io e tutto il resto siamo fatti. Mi basta fermarmi un po’ ed ascoltare il mon-do che mi circonda e che mi riempie per senti-re il vento che passa dentro e fuori di me e mi unisce con tutto ciò che c’è.

La divinità dell'uomoè la sua capacità divedere la divinità

dell'altro.

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IL CUORE COMUNE DI CIÒ CHE ESISTE

Le parole devono essere

poche, fra spazi e silenzi.Così vivono.

Lalla Romano

Foto di Massimo Schiavo

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Foto di Giuliano Fantechi

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Senza studiare, senza fiatare, basta intuire che è anche troppo.Colpo d’occhio è quello che ci vuole, uno sguardo rapido.Il nostro suono, il nostro suono è un battito.

Ivano Fossati

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Suonano a festa le campane nella chiesa del mio paese. È il segnale. La cerimonia del matrimonio sta finendo e gli sposi stanno per uscire. Con gli altri bambini arriviamo a frotte davanti alla chiesa. Non conosciamo nessuno, ma che importa? Ci in-teressa quello che avverrà tra poco: sposi e invitati usciranno di chiesa, saliranno sulle loro macchine e da lì ci lanceranno manciate di caramelle. È una nostra tradizione, come il vostro riso, le caramelle sono la scia di dolcezza che gli sposi lasciano per condividere il loro primo cammino insieme. Sono caramelle grandi, colorate di rosso acceso, di verde, di giallo. Le chiamiamo pietre di fuoco. Buonissime. A pensarci già ne sentiamo il sapore.Ed ecco, le macchine si mettono in movimento, il festoso corteo parte: è ora, i finestrini si abbas-sano, spuntano fuori mani cariche di pietre di fuoco. Corriamo, corriamo forte, è una gara tra noi bambini raccoglierle appena cadono in terra, farne bottino, dimostrare di essere i più veloci. Ci provo anch’io. Ma i miei occhi non mi danno retta. Il mio campo visivo è troppo stretto per individuare la traiettoria delle caramelle. Mi devo muovere con lentezza, quando arrivo gli altri bambini si sono già presi tutto. Le mie tasche restano vuote. “Non vedo, non vedo come gli altri”. Per la prima volta percepisco con chiarezza che la mia vita sarà

LE PIETRE DI FUOCOdi Wolfgang Fasser

Sono grandi caramelle colorate, che vengono lanciate come segno

di gioia alla fine di ogni matrimonio in Svizzera. La loro ricerca è

anche la prima occasione in cui un bambino di allora, uomo oggi,

si accorge che la sua vista non è uguale a quella degli altri bambini,

che potrà trovare le sue pietre di fuoco solo con un cammino diver-

so, più lento, più attento ai particolari, più essenziale.

Il nostro Wolfgang Fasser, fisioterapista, musicoterapeuta, non ve-

dente a causa di una malattia da quando aveva 20 anni, ci permette

di conoscere questa storia tratta dalla sua vita. Ne sta raccogliendo

altre che, come sassi di Pollicino, costruiranno un cammino che per

noi diventerà un libro in uscita nei prossimi mesi.

diversa, diversa da quella dei miei compagni. È un momento duro, durissimo, per me. Eppure non sono triste. È difficile spiegarlo: mi sento come toccato da Dio, con dolcezza. Vivo sulla mia pelle l’espe-rienza di una fiducia profonda e consapevole verso un ordine più grande di me. In quell’ordine c’è spazio anche per la mia diversità.“Va bene così”, mi dico mentre vedo gli altri bambini che sciamano festosi verso casa portando i loro colorati trofei di zucchero.Io non ho fretta. Mi muovo lentamente, ora che sono solo posso guardarmi intorno con calma, soffermarmi sui particolari. Sono di nuovo davanti alla chiesa, in uno spazio verde abbracciato da alcuni ippocastani. Cammino tra le foglie, le smuovo delicatamen-te, ed ecco, d’un tratto, la sorpresa: ma sì, sono loro, una rossa, una verde, una blu. Tre pietre colorate. Nessuno aveva guardato lì sotto: quelle pietre di fuoco erano nascoste per gli altri, ma non per me. Le ho tenute in casa molto tempo. Contenevano un messaggio troppo prezioso: mi ricordavano che la mia diversità non era un’esperienza solo negativa. Anche la mia vita avrebbe avuto lo stesso una sua ricchezza, un suo significato. In posti nascosti, all’ombra, come sotto a quelle foglie, avrei trovato altre pietre colorate.

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Foto di Massimo Schiavo

Non si comunica con gli altrise non si riesce a trovare sé stessi,non ci si ritrova che a pattodi ridimensionare le coseattorna a sé.

Domenico Bianco

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Desiderio di deserto

Quale fosse il motivo di questo desiderio di deserto, non lo sapevamo, fino a quando non abbiamo sentito la nostalgia nel salutare Alì, Mustafà, Ibrahim, Kadì, e Baschir la notte del ritorno, alla partenza dall’aeroporto.Avevamo un bisogno quasi fisico di mettere “spa-zio” fra noi e le paure che c’inseguono, mettere “tempo” fra noi e questo periodo fatto d’esami, visite mediche e terapie. Il deserto è ambiente da affrontare leggeri, così per agevolarci qualcuno degli inservienti dell’aeropor-to ha pensato bene di non spedirci metà del nostro bagaglio. Ma forse è l’essere nei luoghi di Charles de Foucauld che ci fa dimenticare rapidamente l’inconveniente, trasformandolo in occasione di leggerezza e condivisione. Da Tamanrasset, dalla capanna dove ha vissuto Charles, fondatore dei Piccoli Fratelli, comincia il nostro viaggio con quattordici compagni di età, provenienza e storie diverse. Partiamo, la mattina, con un’emozione che condi-vidiamo per adesso solo con gli occhi. La strada lascia presto il posto alla sterrato e questo, a sua volta, a quello che era il letto di un fiume. Le case si cambiano in capanne e presto scompaiono, come le tracce della pista. Gli occhi che Mohammed, la

nostra guida, tiene seminascosti dietro lo chech, il turbante, vedono cose per noi invisibili e i fuoristra-da si muovono sicuri seguendo fili tesi fra punti di riferimento a noi ignoti. Il primo campo ci lascia senza fiato: è una duna di sabbia altissima appog-giata ad una ripida collina di roccia, che sembra voler seppellire. Come bimbi, neanche il tempo di scendere e siamo già a seguire, a piedi scalzi e in fila indiana, il crinale che ci porta in vetta.In cima siamo senza fiato, per la fatica del cammino ma anche per lo sguardo che spazia quasi senza vedere l’orizzonte nella luce della sera. Il campo è laggiù, in fondo alla discesa, molto più in basso, dove le nostre guide ci stanno preparando il tè. Trovare questa bevanda calda alla fine del giorno, sarà uno dei momenti più belli per l’occasione di scambiarsi le emozioni vissute, le difficoltà incontrate nell’oggi e nella vita o semplicemente gustare il silenzio.È la prima notte nel deserto, la prima nella piccola tenda igloo, la prima in questo luogo fatato.

La pace di stare con se stessiCi alziamo presto ogni giorno, per svolgere le atti-vità del campo ma, soprattutto, perché le prime ore del giorno offrono grandi opportunità per trovare

Di Maurizio Valleri e Rita Garfagnini

È un’esperienza speciale, di incontro in profondità con se stessi e con la natura nella sua essenza:

sabbia, rocce, cielo. È il deserto che, sui passi di Charles de Foucauld, ormai vari gruppi di amici della

Fraternità hanno intrapreso. Maurizio e Rita ci raccontano il loro viaggio, tra le dune del Sahara.

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Desiderio di deserto

un po’ di spazio-tempo da dedicare a noi stessi. L’aria è fresca, il sole, ancora basso, delinea le ombre fra le rocce e puoi camminare in silenzio, ascoltare la sabbia che lascia affondare il tuo pas-so, osservare le tracce dei piccoli animali notturni o, semplicemente, stare a braccia aperte in modo che il silenzio che entra dentro ti svuoti dai pesi accumulati e faccia posto al senso di pace.I fuoristrada si muovono su terreni sempre diversi, sulla sabbia compatta dove puoi correre veloce gareggiando senza successo con le gazzelle, su piastre friabili di roccia che si sgretolano come fette biscottate sotto le ruote dentate, sulla sabbia punteggiata da miriadi di sassolini neri oppure cer-cando passaggi improbabili fra fiumi di rocce aguzze.La luce e le ombre disegna-no le ore del giorno e con-sumano il nostro viaggio, ma non la sensazione di percorrere un Sahara senza limiti. Per non fuggire il tempo e dare senso alla spazio, ancoriamo il nostro sguardo ai grandi archi forati, alle cattedrali di roccia che assumono il colore rosa del tramonto, ai pinnacoli isolati sormontati da cappelli di pietra, ai volti di giganteschi guerrieri o alle forme d’animali pietrificate dal tempo. Salire in alto, sulla vetta di queste formazioni, diventa quasi un’esigenza, quasi poter definire un limite a questo spazio attraverso l’altezza ma è, nello stesso tempo, fruire della pace di stare con se stessi, lavarsi gli occhi e la mente da cose insignificanti e dalle paure.In fondo al giorno, all’interno del campo, ci ritro-viamo intorno al fuoco, dove solo la legna degli alberi secchi trovati per via, ha il diritto di ardere. Affamati e assetati, ci sediamo sui tappeti stesi al riparo delle auto e la zuppa di verdura, rigorosa-mente speziata di cumino, ci sembra non possa essere superata da nessun’altra pietanza. Accovac-ciati nelle loro lunghe vesti colorate, Ibrahim e Alì, vigilano attenti alle nostre esigenze, per poi unirsi nella cena ai loro compagni Tuareg ed approfittare per parlare ridere di chissà cosa o chissà chi.

Un invito a depurarci dal superfluoLa giornata è lunga ma mai troppo perché non finisca cantando, ballando o giocando tutti insieme,

ognuno portando qualcosa della sua tradizione ed abbattendo ogni distanza.Kadì, con il suo strumento, suscita suoni e melo-die tipiche di questi luoghi. Canta e si muove con delicatezza, questo gigante nero dagli occhi grandi e dolci. Questi ritmi sembrano invitare a muoversi con morbidezza, senza frenesia in maniera più consona alla nostra corporeità. Comprendiamo come muoversi lentamente, non affrettarsi sia un’esigenza dettata dal luogo, ma anche qualcosa di più: un’interpretazione di vita. Sollan sollan, nella lingua dei nostri amici tua-reg, è la leggerezza nel muoversi e nel parlare, è

l’attenzione ai gesti ed alle cose che fai, è interpretare il tempo e lo spazio dando importanza all’essenziale. Per questo viaggiamo de-purandoci dall’eccesso, dal superfluo e, nello stesso tempo, evitando gli sprechi e dando valore all’essenza delle cose, come l’acqua.

Durante il nostro cammino abbiamo incrociato due pozzi ed, intorno a loro, anche gli unici gruppi di persone oltre al nostro. Pastori di dromedari e capre, riservati ma cordiali, poveri, per i nostri criteri di valutazione, ma dignitosi e perfettamente integrati in un ambiente che continua a meravigliar-ci ogni giorno e sempre più ci rivela che il deserto non è uno, ma una complessità. È la calura che ti sorprende improvvisa, ma anche l’ombra che ti fornisce refrigerio; è la duna del nostro immagi-nario che sembra un onda da cavalcare, ma anche la roccia su cui arrampicarti; sono i graffiti, traccia remota d’uomini che ci hanno preceduto, ma an-che le increspature della sabbia che domani non saranno più le stesse; è il sole padrone, ma anche le stelle che non rendono mai buia la notte; è la calma piatta del pomeriggio, ma anche il vento che la notte sembra strapparti la tenda; sono le scarpe che si riempiono di granelli rosa, ma anche le tue impronte accanto a quelle della persona che ami; è l’aranciata fatta con l’acqua fresca della ghirba, ma anche il caldo tè tuareg forte come la vita, dolce come l’amore e leggero come l’amicizia.Tutto questo è il deserto e molto di più ancora potrai trovare, nascosto dentro di lui e dentro di te, se verrai a trovarlo… sollan… sollan.

Soltanto guardando l'effimero dall'infinito,

l'effimero cessa di essere una prigione.

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Ci sono cammini che hanno già fatto tanta strada prima di incontrarsi. A Romena, sin dagli inizi, abbiamo letto e amato Erri De Luca nei suoi libri, nei suoi articoli.Il 17 giugno, grazie al ciclo di incontri “Le parole e il silenzio” organizzato dalla Fondazione Baracchi, lo scrittore napoletano è venuto a Romena. Lo abbiamo accolto in tanti, con ener-gia e calore. Ecco solo alcuni frammenti di quella conversazione.

La BibbiaIl posto dove mi sento più al largo è quando leggo la Scrittura Sacra, lì sono ospite di quegli spazi e di quella lingua che pur essendo come un’isola, molto circoscritta (l’antico ebraico ha poco più di 5.000 vocaboli) per me contiene tutte le vie di deserto percorribile, tutti gli isolamenti possibili. Io non sono credente, ma non credo che quella storia si rivolga a dei credenti. Racconta una relazione, una volontà di manifestazione di una divinità che aveva un’urgenza, che gli scappava dalle mani e dalla bocca, di fare, di creare, di dire e di rivolgersi. E si rivolge ad un piccolo gruppo di ascoltatori scelti. È una storia che si svolge tra di loro. Resta un mistero per me come quella storia sia diventata poi il caposaldo della cultura della nostra civiltà. Come quella piccola divinità, che pretendeva di essere l’unica, è riuscita a convin-cere tutti quelli di quel mediterraneo che avevano inventato tutte le divinità possibili immaginabili. I greci avevano esaurito così tanto la loro fantasia che si erano inventati pure un altare a un Dio sconosciuto “ce ne fossimo scordato uno”. Ecco, proprio in mezzo a questa prolificità di inventiva

teologica si andava a piazzare una divinità nuova che buttava all’aria il banco, le cancellava tutte. Le estirpava dal suolo, dal cuore degli uomini. Quella lingua e quella storia contengono una forza creatrice e distruttrice, insieme, nella quale io ci sono rimasto ficcato dentro. Io mi sveglio tutte le mattine con quella lingua e faccio questo percorso di sonnambulo. Certo, non sono uno che sta camminando bene, ad occhi aperti, là sopra. Sta sentendo una voce… perché la pronuncio anche, la dico perché quella è una Scrittura, noi la chiamiamo Bibbia, ma in ebraico si dice “miqrà”, cioè lettura e lettura con la voce. E così mi introduco dentro una giornata nuova. Quello è per me il largo. Uscire dallo stretto, dal chiuso, dal buio della notte in cui dormo come un morto e ogni mattina mi sembra di risorgere… Credo di non spostarmi neanche nel letto dalla posizione in cui mi metto a quella del risveglio, come una mummia. E poi invece la mattina av-viene la resurrezione con l’ebraico antico e con il caffè napoletano!CredereSono rimasto un non credente, uno che tutti i giorni sta lì e non si sposta da quella estraneità. Mentre penso che esista nella vita degli altri.

Un pomeriggio con ERRI DE LUCAa cura di Massimo Orlandi

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Esistono delle notizie, delle consistenze nella vita degli altri che io ignoro e che prendo per buone. Non ho la presunzione dell’ateo che dice non c’è niente, non esiste niente e che quelli che ci credono sono dei mutilati che hanno bisogno di una protesi per reggersi. No, non ce l’ho quella notizia con quella certezza dell’ateo. La differenza maggiore sta tra credenti e non cre-denti, perché sia il credente che il non credente è qualcuno che sta ubbidendo al participio presente; è qualcuno che si trova quella questione e quella Scrittura e quella Presenza tutti i giorni nella sua vita e dà una risposta: il credente rinnovando la sua fiducia, il suo affidamento, la sua carta di credito nei confronti di quella divinità, il non credente senza riuscire a farci niente. Ma insom-ma credo che siano affini perché si “scocuzzano” tutti i giorni, o spesso, con quella domanda. Penso che invece siano affini l’ateo e il talebano, quelli che hanno risolto il problema una volta per tutte. Quelli lì si somigliano di più. Quindi la contraddi-zione maggiore non sta tra credente e non credente, ma tra i credenti-non credenti e gli atei-talebani.

Il perdonoIo non sono capace di per-donare. Non riesco a perdonare nessuna di quelle offese che sono state recate a me e agli altri. Ho un effetto secondario: io me ne scordo! E quindi è come se fosse passato perché poi quando me ne ricordo, il fatto di essermelo scordato ha tolto quel nervo del risentimento, e quindi è andata. Basta che me ne scordi. Ma neanche so dire a qualcuno “Scusa, perdono per quello che ti ho fatto” perché penso che quello che si fa è irreparabile, non si può riparare, è andata. C’è una storiella ebraica che ho trovato leggendo quegli argomenti. Un illustre studioso, un rabbi-no, un grande saggio del Talmud, poverissimo, miserabile, viene invitato nella grande sinagoga di Varsavia e dunque si avvia nei suoi poveri panni, dal suo villaggio. E sale su un treno, su un vagone di terza classe e lì ci sono altri ebrei che stanno andando proprio a quell’appuntamento che non lo conoscono né lo riconoscono, e che

lo insultano. Lo fanno stare in piedi e lo trattano male. Poi arrivano alla stazione, e qui l’uomo viene accolto con grandi onori. Fa tutta la sua lezione, il suo racconto, la spiegazione della Scrit-tura Sacra che gli è stata assegnata e poi quegli ebrei che lo avevano insultato cercano di andare da lui per chiedergli scusa per il modo con cui si sono comportati. Vogliono il suo perdono ma lui risponde: “Io vi perdonerei tanto volentieri, ma non posso perché voi dovete andare a chiedere perdono a quello del treno, non a me”. È proprio così: tu quella cosa lì non la puoi più riparare, però tutte le volte che in quella stessa circostanza evi-terai di fare quella offesa, avrai chiesto perdono a quello del treno. Cioè, quella singola cosa la puoi poi moltiplicare, come esperienza di perdono, non con quello che hai offeso, ma con tanti altri che magari non offendi più, per cui quella lezione ti è servita almeno per rimanere nel tuo ambito di correttezza, di dignità umana.

L’amore L’uso del verbo amare mi sembra un buon uso. Se ne fa poco. Se ne fa poco anche tra i poeti o i romanzieri. Noi a Napoli ci mettiamo due emme “Ammore”. Mi piace tutte le volte che

trovo il verbo amare. Credo che quel monotei-smo, di cui si parlava all’inizio, sia riuscito a fare piazza pulita di tutti gli altri perché è l’unica fra le divinità che si è rivolta a quel sentimento della creatura umana, alla più forte energia pulita prodotta dal corpo e dalla creatura umana che è l’amore. “Amerai il tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutto il tuo fiato, con tutte le tue forze”. Ma quale divinità prima si era azzardata a bussare a questo sentimento?! Questo “a tutto il tuo cuore, tutto il tuo fiato, tutte le tue forze”, insomma lo svuotamento totale delle energie fisiche. Simpa-tico che non dica assolutamente “con tutta la tua intelligenza, con tutta la tua scienza, con tutta la tua cultura, il tuo sapere, la filosofia” proprio non gliele importa niente, non è quella, non è da quelle parti lì che vuole essere acciuffato, che vuole essere ricambiato. Però se c’è un motivo per cui quel monoteismo si è piantato dentro la nostra civiltà è per via di quel verbo. “Amare”.

Mi sento un passaggio di mente sul mondo,

con però, la consistenza

del dono di vivere.

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Senza varcare la soglia

Spesso le raccolte di lettere consentono di aprire spazi nuovi, sconosciuti, nelle biografie di perso-naggi noti. La loro pubblicazione è però delicata, perché la lettera apre canali di comunicazione molto intimi.Le lettere tra Sorella Maria e Albert Schwei-tzer non sollevano questo imbarazzo. All’eremo la lettura della corrispondenza è un rito quotidiano e corale, a Lambaréné, Schweitzer si lascia sempre aiutare dalla sue collaboratrici più fidate; il dono di questo incontro a distanza è così grande, per i due protagonisti, che non può essere loro patrimonio esclusivo: e così le loro lettere riescono a tenere insieme, magicamente, due cuori e due comunità. Il carteggio è quindi soprattutto una celebrazione dell’amicizia, di un’amicizia così libera e liberante da non aver bisogno di nulla, nemmeno della cono-scenza diretta.

Cammini paralleliLe lettere coprono gli ultimi anni del cammino sulla terra dei due protagonisti. Ma la sensazione che si ha, leggendo il cammino di Schweitzer e di Sorella Maria è che questa amicizia si sia preparata per tutta una vita. Un primo segno di vicinanza è quello di partenza: entrambi sono nati esattamente 75 anni prima di conoscersi, lui il 14 gennaio del 1875, lei appena dieci giorni dopo. “Valeria Pignetti”, scrive nei registri l’impiegato dell’anagrafe di Torino. Il nome Sorella Maria lo detterà la vocazione. Suora nell’ordine delle Francescane missionarie, superiora dell’ospedale anglo-americano di Roma che svolge assistenza a

militari feriti, Sorella Maria nel 1919 lascia l’or-dine per obbedire a una chiamata: è il bisogno di creare una comunità, un luogo dove tutti possano essere accolti senza distinzione, con fraternità, con rispetto, dove si viva in semplicità e povertà. La destinazione ha già una forma nel cuore, ma ci vuole ancora un lungo pellegrinaggio perché quel luogo si possa trovare, inerpicandosi sui colli dell’Umbria. È l’eremo di Campello, un piccolo gioiello che la foresta nasconde e protegge, non lontano da Assisi. Da allora (siamo nel 1926) l’eremo e le sue sorelle offriranno un luogo di accoglienza, di abbraccio, di attenzioni, di libertà a tutti i pellegrini. “La nostra - scriverà sorella Jacopa, che Maria, per sottolinearne la vicinanza, chiama l’Unanime - è una vita fraterna di spirito monastico antico, su radici benedettine e francescane. È clausura senza chiusura. Non siamo né monache né suore, Non abbiamo una regola speciale, ma seguiamo con semplicità e amore il pensiero di San Francesco”.In parallelo a quella di Maria anche la vita del gio-vane Schweitzer, nato in Alsazia, è segnata da una chiamata. Giovanissimo si è già affermato come pre-dicatore, come saggista, come pianista, ha la vita che si apre a ventaglio, ma che finirà per muoversi dietro una nuova vocazione: “Mi riusciva incomprensibile – scriverà – che io potessi vivere una vita fortunata mentre vedevo intorno a me così tanti uomini afflitti da ansie e dolori. Mi aggrediva il pensiero che questa fortuna non fosse una cosa ovvia ma che dovessi dare qualcosa in cambio”. Decide così di studiare medicina e nel 1913, subito dopo la laurea,

di Massimo Orlandi

Sorella Maria vive in un eremo nascosto nel cuore dell’Umbria.

Albert Schweitzer in un ospedale immerso nel-l’Africa equatoriale. Non si vedranno mai. Eppure oggi possiamo raccontarvi il loro incon-

tro: sono lettere, sono decine di foto, di biglietti, di doni, di pensieri. Li abbiamo raccolti in un libro che non solo ci permette di vedere da vicino queste straordinarie

figure, ma anche di capire quanto profonda e libera possa essere un’amicizia.

Lettere tra Sorella Maria e Albert Schweitzer

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sposta la sua vita verso il caldo torrido del Gabon, nel cuore dell’Africa. All’ospedale di Lambaréné, da lui costruito, la cura delle terribili malattie tropicali e della lebbra è anche un’occasione perché finalmente l’uomo bianco e l’uomo nero si tendano la mano. Le semplici strutture in legno sono aperte: l’ospedale è una comunità dove si fa casa nella sofferenza e nella speranza. E il segreto non sta nel bisturi, non nelle medicine, quelli sono solo i primi messaggeri di pace che l’Occidente porta in questo continente, il segreto è nel senso di umanità che tutto abbraccia, che nulla chiede in cambio. Schweitzer ha messo la sua vita, i suoi studi, le sue riflessioni filosofiche in quattro parole: rispetto per la vita. E Lambaréné rappresenta lo specchio fedele di un pensiero che non può esistere se non facendosi concreto. Anche per questo, nel 1953, gli verrà assegnato il Premio Nobel per la pace.

Un abbraccio verso il mondoÈ un destino delle profezie quello di abitare in peri-feria. Lambaréné è nella giungla africana, Campello nei boschi dell’Umbria. Ma l’isolamento fisico è solo apparente: in realtà questi luoghi hanno le braccia aperte sul mondo, e se sono distanti rispetto ai centri pulsanti della nostra civiltà è solo per essere più vicini all’uomo. Lambaréné e il suo fondatore diventano negli anni il simbolo di un mondo che che può riconciliarsi solo se impara a ridare il giusto valore alla vita. L’azione di Sorella Maria si compie in maniera meno pubblica, meno eclatante. Ma è sorprendente vedere quanti fili partano e quanti fili ritornino all’eremo scrivendo traiettorie d’incontro e di amicizia: prima di Schweitzer, Sorella Maria corrisponde con Gandhi e con figure chiave di una chiesa che cerca di rinnovarsi come Primo Mazzolari

o Giovanni Vannucci. In questo abbraccio gioioso verso tutte le forme dell’umano si rimpiccioliscono sino a svanire i tanti muri, spesso fittizi, creati nei secoli dalla mente umana in ambito religioso. Così l’ecumenismo rappresenta sia per Sorella Maria che per Schwei-tzer non una diplomazia delle confessioni, ma una forma spontanea di incontro con tutti coloro che amano Gesù. “La fede – sostiene Sorella Maria – non si trova nelle formule teologiche, non essendo l’atto di credere ai dogmi e ai misteri teologici. La fede è l’invinci-bile fiducia nel Padre”. “Un cristiano – sintetizza Schweitzer - è uno che ha lo spirito di Cristo. Questa è l’unica teologia”.

La corrispondenza più preziosaGennaio 1950. Quando Sorella Maria invia la sua prima lettera a Schweitzer tutto è ormai pronto per-ché tutto, in fondo, era stato già preparato. Seguono almeno 60 intensi momenti di incontro. Nero su bianco. “La corrispondenza con Sorella Maria – dirà Schweitzer – è la più preziosa che abbiamo”.Sorella Maria scrive l’ultima lettera a Schweitzer nel gennaio 1961. Muore pochi mesi dopo. Il dottore continua a comunicare con l’eremo fino a un passo prima del suo ultimo respiro, nel 1965.Alla vigilia di Natale di quell’anno a casa del dottore viene recapitato un ramoscello d’ulivo. A Campello arrivano invece alcune foglie della vite rampicante che riveste la casa di Schweitzer. Accade la stessa cosa un anno dopo e un anno dopo ancora. Un ramoscello d’olivo nello studio del dottore. La vite rampicante sulla madia di Campello. L’amicizia continua. Non aveva avuto bisogno di un incontro. Ora non le servono più neanche le parole.

Quello che posso fare è una goccia d’acqua in un oceano.

Ma è ciò che dà significato alla mia vita.

Albert Schweitzer

Che resterà di noi? L’eco di un canto d’allodola

in un cuore che l’ha ascoltata.

Sorella Maria

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Coraggio alzati

“Lavatevi i piedi

e accomodatevi sotto l’albero.

Permettete che vada a prendere

un boccone di pane

E rinfrancatevi il cuore;

dopo, potete proseguire”.

(Genesi 18, 1-10)

Bastano poche cose per portare Romena in giro per l’Italia. Il silenzio, il lume di una candela, la lettura di alcuni brani (quest’anno il testo della Veglia, basato su alcuni passaggi della Bibbia, è stato scritto da don Luigi), pensieri, la musica della pieve, composta e eseguita da An-tonio Salis.Poche cose ed essenziali, ma messe insie-me sono le nostre veglie, sono le occasioni per incontrarsi in ogni angolo d’Italia. Da Biella a Messina, da Rovereto a Lamezia Terme, da Milano a Bari, Romena si mette in movimento per “fare casa” ovunque ci siano amici che lo richiedano. Quest’anno trenta città accoglieranno la nostra ve-glia, trenta città saranno Romena, per una sera, creando quel clima di accoglienza semplice, di intimità nel quale incontrare se stessi, gli altri e forse anche Dio.Coraggio Alzati è il titolo della veglia. Un tema che si svilupperà attraverso tre fasi: “Getta il mantello del lutto”, “Rivestiti del mantello della giustizia”, “Alzati e guarda verso oriente” e nel quale si intesseranno i canti, le riflessioni e il silenzio.

La nuova veglia di Romena

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San Benedetto del trontoChiesa SS. Annunziata - Porto d’Ascoli ore 21,00

26 Settembre

S. angelo in Vado

Biella

genoVa

roVereto

Udine

PadoVa

BreScia

Bergamo

milano

lamezia terme

catania

meSSina

naPoli

Valdarno

FirenzeParrocchia dei Salesiani - via Gioberti ore 21,00

12 Dicembre

Pieve di Cascia - Reggello ore 21,0021 Novembre

Istituto Maria Ausiliatrice, via Alvino 9 - Vomero ore 21,008 Novembre

Parrocchia S. Gregorio Magno - Villa Franca Tirrena ore 20,307 Novembre

Parrocchia SS. Pietro e Paolo - via Siena ore 20,306 Novembre

Chiesa del Carmine - Sambiase ore 20,305 Novembre

Parrocchia Beata Vergine - Lavanderie Segrate ore 21,0025 Ottobre

Parrocchia di S. Paolo d’Aragon ore 21,0024 Ottobre

Chiesa di San Faustino ore 21,0023 Ottobre

Parrocchia SS. Trinità - via Bernardi ore 21,0018 Ottobre

Parrocchia di San Pio X ore 21,0017 Ottobre

Parrocchia di Santa Caterina - Frati Cappuccini ore 21,0016 Ottobre

Nostra Signora Assunta di Rivarolo ore 21,003 Ottobre

Santuario Madonna della Brughiera - Trivero ore 21,002 Ottobre

Monastero Serve di Maria ore 21,0027 Settembre

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AVVISI

CORSO BIBLICOcon Paolo De Benedetti

“Giobbe”12 - 13 - 1 4 Ottobre

CORSOcon Antonietta Potente

“La lotta con Dio”17 - 18 Novembre

FeSta D’autuNNOUna semplice festa all’insegna dei frutti di questa stagione.

Un momento d'incontro, di ascolto, di abbraccio.Stiamo preparando gli incontri della giornata, per il programma definitivo ti invitiamo a consultare il nostro

sito www.romena.it

21 Ottobre

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La nuova Agenda di RomenaOgni Giorno 2008

“Dobbiamo essere sempre nuovi, nuovi nel pensiero,nel sentimento, nella volontà, nell’amore per le cose, dobbiamo essere sempre pronti al distacco perché ogni alba ci ritrovi freschi e aperti per ricominciare la nostra esistenza.”

Giovanni Vannucci

Ogni giorno è una finestra aperta sul nuovo.

All'orizzonte c'è la nostra vita, che verrà.

Questa agenda vorrebbe offrirvi lo spazio per progettare o immaginare il vostro tempo che

sarà, ma anche l'occasione per accogliere il tempo che è, per provare a renderlo più fertile.

Quest'anno ci accompagnano lungo le settimane e i mesi i pensieri e le intuizioni di Giovanni

Vannucci (1913-1984), una delle figure più innovative e profetiche della nostra spiritualità

recente. Accanto alle sue anche le piccole perle quotidiane di artisti e pensatori, di uomini

di fede, di cultura, di scienza. Piccoli semi da far germogliare, giorno per giorno.

Puoi trovarla o ordinarla nella tua libreria (è distribuita da Messaggero Distribuzione) o a Romena.Prezzo euro 14,00 - ISBN 978-88-89669-19-8

Disponibile da fine ottobre 2007

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Carla

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GR

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A causa di un guasto al nostro computer la maggior parte delle mail inviateci sono andate perdute. Ci scusiamo per la mancata pubblicazione dei vostri contributi.

igi, ultimamente ha sottolineato la stupi-dità di cercare un senso alla propria vita. È vero la vita, in quanto tale, in quanto

dono di cui prendersi cura, ha già un senso in se stessa. E allora da cosa nasce l’ansia che ho di trovare questo fatidico senso? Guardo attenta-mente: non do ascolto alla mia parte profonda e, quindi, antepongo i miei bisogni superficiali a quelli essenziali. Teoria! Come fare in pratica a discernere gli uni dagli altri? Darmi delle ri-cettine sarebbe facilissimo: “non occorre che tu tolga niente, basta che tu guardi con occhi nuovi ciò che hai già!!” già, si fa presto a dirlo, ma a farlo?! Mi occorre un’esperienza concreta… il Cammino di Santiago.Il Cammino è un’ottima palestra per fare ordine, per ridimensionare bisogni e capricci: cammi-nare, solo camminare senza avere altro fine se non quello di raggiungere la meta giornaliera che, comunque, non è sempre quella da te pro-grammata; la giornata va come deve andare. Ho percorso, prevalentemente da sola, 800 km, portando sulle spalle, come una tartaruga, la mia casa: uno zaino pieno solo del necessario, dell’es-senziale, senza orpelli. Passo dopo passo, libera da pre-occupazioni, era più facile accorgermi che ogni incontro arrivava al momento giusto e, ad un livello o ad un altro, produceva uno scambio creativo; era più facile guardare in profondità, scorgere il seme che deve morire per dare frutto; era più facile guardarmi intorno e provare una sensazione di benessere di armonia, sentire che ogni piccolo particolare che la natura mi offriva era lì anche per me. Non avrei potuto fare una scelta più indovinata per rispondere alla necessità, che sento da tempo, di sperimentare uno stile di

vita esenziale: ho avuto la conferma che, per me, sfrondare, togliere non vuol dire “privarsi” vuol dire trovare il molto nel poco.

C iao Carissimi, sono una fortunata perchè conosco Romena dal 1995, anno del mio Primo corso con un forte Gigi! Ma mi

ritengo fortunata anche perchè, con insistenza ho potuto ripetere il Primo corso il 20/21/22-04 con Pigi, non da meno di Gigi!Romena ha per me una forza che mi piace man-tenere viva nella mia vita, mi ha aiutata a comin-ciare a considerarmi un essere di valore, certo con difetti ma che se accolti e non esagerati li puoi cambiare. Fu per me quasi doloroso sentirmi dire che andavo bene anche così, cominciare ad accogliermi! Molto forte! Perchè da lì il passo è breve per accogliere gli altri! È Essenziale non abbatterci per alcuni difetti, entriamo nel labirinto della vittima e non se ne esce più, perchè quasi diventa comodo! Molte vite si sciupano per que-sto. Prendere responsabilità è vitale ed accresce la nostra maturità, per questo Romena, con tutte le esperienze che possiamo fare ci aiuta a trovare il meglio di noi, con la possibilità di essere di aiuto anche al prossimo!Grazie, grazie di cuore a te Gigi, che mi hai sopportato in tutti questi anni, sperando nella mia crescita, Grazie ancora e un ABBRACCIO FORTE A TUTTI. Rober ta

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Aldo

La nostra associazione è giuridicamente rico-nosciuta come ONLUS (Organizzazione Non Lucrativa d’Utilità Sociale), per questo chi vuole dare un contributo può beneficiare delle age-volazioni fiscali previste contenute nel decreto legislativo 460 /1997.Il versamento può essere effettuato tramite:- C/C Postale n. conto 38366340 intestato a: Fraternità di Romena Via Romena 1 52015 Pratovecchio - Arezzo - Bonifico bancario su C/C n. 3260 c/o Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio (BPEL) Filiale di Pratovecchio codice ABI 5390 CAB 71590 intestato a Fraternità di Romena Via Romena 1 52015 Pratovecchio - Arezzo, specificando nella causale “Offerta Progetto Romena”

Per darci una mano

FRATERNITA’ DI ROMENA - ONLUS -

PROSSIMO NUMERO: il giornale in uscita a Dicembre approfondirà il tema: “CORAGGIO ALZATI”. Inviateci lettere, idee, articoli, foto (termine ultimo: 15 No-vembre 2007), preferibilmente alla nostra e-mail: [email protected] UN CONTRIBUTO: se volete darci una mano a realizzare il giornalino e a sostenere le spese potete inoltrare il vostro contributo sul c.c.p allegato.CASSA COMUNE: è composta dai vostri c.c.p. più offerte libere. La cassa sarà utiliz-zata per continuare a realizzare il giornale e ampliarne la diffusione (in carceri, istituti, associazioni, gruppi, ecc.)PASSAPAROLA: se sai di qualcuno a cui non è arrivato il giornale o ha cambiato indirizzo, o se desideri farlo avere a qualche altra persona, informaci.SEGRETERIA: l’orario per le iscrizioni ai corsi è preferibilmente dal mercoledì al ven-erdì dalle 17,30 alle 19,30, sabato e domenica quando vuoi.Le iscrizioni ai corsi si aprono il primo giorno del mese precedente al corso stesso.

S e si prova ad associare una figura umana al concetto di essenzialità, a molti verrà subito in mente l’anziano asceta, che

medita in una grotta o sulla cima di una montagna alla ricerca del senso ultimo delle cose. Ho solo ventisei anni, ma questa immagine di persona che ricerca la propria essenza nel raccoglimento e nella riflessione mi accompagna da sempre: ho vissuto tentando di aderire alla mia natura più profonda, alla ricerca della mia intima specificità, con un atteggiamento minimalista che mi portava a ridimensionare gli aspetti della vita accessori ed accidentali, quelli che portano soltanto piccoli piaceri e dolori.Condivido ancora lo spirito di quella ricerca, ma credo anche che così impostata essa non produca esiti. L’essenzialità non si esplica nello stare immobili di fronte al mondo, osservandolo; è piuttosto un modo di entrare in contatto con le cose, con semplicità e immediatezza. Se fuggo dal contatto con le esperienze della vita, se non imparo a conoscere la mia modalità fondamentale di stare al mondo, il tentativo di adeguarsi a una

mia immagine superiore, perfetta e distaccata diventa la ricerca di un altro diverso da me, e contraddice l’essenzialità stessa, che è appunto lasciar esprimere con spontaneità il proprio io. Es-sere essenziali significa essere capaci di muoversi in equilibrio sul nucleo della nostra personalità: niente di quello che facciamo è accidentale, ogni nostra piccola azione esprime Marco

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obbiamo ritrovare il sapore nuovo delle cose essenziali,delle verità che non riusciamo più a incontrare perché ci sono tanto vicine da diventare quasi invisibili.

Luigi Ciotti

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