Espresso No.37 - 18 Settembre 2014

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ALL’OMBRA DEL CALIFFO L’0FFENSIVA GLOBALE DELL’ISIS DAL MAROCCO ALL’INDIA P. 24 TU VUÒ FA’ L’AMERICANA WOODY ALLEN AMORE, FORTUNA, ERRORI. IL REGISTA SI CONFESSA p. 52 FRANCIA IL POTERE DELLE DONNE E IL DECLINO DI HOLLANDE p. 58 LA FERRARI DIVORZIA DA MONTEZEMOLO E SBARCA A WALL STREET. È L’ULTIMO CAPITOLO DEL LUNGO ADDIO ITALIANO ALL’AUTO. CHE RACCONTIAMO METTENDO A CONFRONTO L’ALFA CHE CHIUDE ARESE E LA TOYOTA CHE CONQUISTA L’EUROPA Settimanale di politica cultura economia - www.lespresso.it N. 37 anno LX 18 settembre 2014 Poste Italiane s.p.a.sped.in A.P.-D.L.353/03(conv.in legge 27/02/04 n.46)art.1comma 1-DCB Roma - Austria - Belgio - Francia - Germania - Grecia - Lussemburgo - Olanda - Portogallo - Principato di Monaco - Slovenia - Spagna € 5,50 - C.T. Sfr 6,60 - Svizzera Sfr. 6,80 - Inghilterra £ 4,70 Copia di e06893e7c3ad44328ad32c0a07b4c886

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all’ombra del califfoL’0ffensiva gLobaLe deLL’isisdaL marocco aLL’india P. 24

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Settimanale di politica cultura economia - www.lespresso.it n. 37 anno lX 18 settembre 2014

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il sommario di questo numero è a pagina 20

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È chiaro che il Governo in carica da pochi mesi non può essere considerato responsabile dello sfascio che si è andato accumu-lando nel corso dei decenni. Non

si può neanche tacciare superficialmente l’azione di questa compagine di essere in piena continuità rispetto a quelle che l’han-no preceduta negli ultimi tre anni, poiché si affermerebbe una verità parziale che non aiuterebbe a comprendere le ragioni dello stallo. In aereonautica lo stallo può prece-dere lo schianto al suolo, poiché l’aereo, oramai ingovernabile, inizia a perdere ine-sorabilmente quota.

Date queste conDizioni, quello che non si comprende è l’allegrezza, la spaval-deria. Si pensava davvero che questi accen-ti caricaturali appartenessero, dopo il no-vembre 2011, al passato. Si pensava che con l’uscita di scena di Silvio Berlusconi, quell’e-terno rinvio ai tipici personaggi della com-media all’italiana fosse esaurito. Si sperava che il pagliaccio e l’abile battutista con re-sponsabilità di governo avessero lasciato il terreno a una generazione di persone serie, in grado di cogliere la gravità delle situazio-ni e dunque capace di lavorare con discre-zione a soluzioni anche dolorose, ma di largo respiro. Per un attimo era balenata l’idea che il cambiamento avrebbe consen-tito finalmente l’utilizzo di tante intelligenze umiliate o addirittura costrette alla fuga e all’esilio. Si credeva che quel capitale umano formato a caro prezzo e poi espulso dal mercato del lavoro potesse avere una pos-sibilità di rientro in Italia. Certo sono pas-sati pochi mesi e sarebbe ingiusto pensare che questo sogno sia del tutto infranto, ma il timore è che questi mesi, contraddistinti da un’assoluta inazione di Governo, abbia-no mutato i caratteri di quel sogno.

Il timore è che dietro un Presidente del Consiglio che non esita a mettere in scena una pagliacciata per rispondere a un’auto-revole testata economica, più che le intelli-genze dimenticate si stiano accodando tanti sciacalletti in attesa di una chimerica nuova stagione delle vacche grasse: perlo-meno questo sembra emergere dai territori, dove il Pd sembra sempre più uno di quei

treni sovraffollati delle ferrovie indiane (o anche italiane), oramai parte dell’immagi-nario collettivo.

E non si tratta solo di messinscene o di comunicazione politica abbassata al rango della linea comica di una qualsiasi fiction; vi è di più. L’idea che ogni Governo si senta in obbligo di annunciare una “rivoluzione” nel mondo della scuola è oramai una trage-dia alla quale dobbiamo rassegnarci. Come quel ministro senza voti che ha provato ad animare agosto con due polemiche stantie e studiate a tavolino - tra le quali l’eterno ritorno dell’art. 18 - così l’impressione è che l’ennesima rivoluzione della scuola altro non sia stato che il tentativo di creare un fronte polemico per l’autunno. Con una drammatica, poiché fuori tempo, reitera-zione di quel gioco delle parti (ministro, sindacati, studenti in piazza) che ha ammaz-zato la formazione degli italiani. Un giova-ne laureando che eroicamente pensi di di-ventare insegnante deve almeno avere la possibilità di sapere che i criteri di selezione e accesso alla professione saranno immuta-bili di qui a dieci anni almeno. Non deve subire l’opera di mobbing da parte di oscu-ri ministri, anch’essi senza voti, che dall’og-gi al domani spacciano nuovi tagli alla spesa scolastica per “rivoluzioni”.

il momento è gravissimo e la neces-sità di serietà è illimitata: il primo ministro e gli altri componenti del Consiglio dovreb-bero rendersi conto che non è possibile sempre e comunque strizzare l’occhio alla più stantia rappresentazione della cialtro-neria nazionale. Ci si aspetterebbe umiltà, silenzio, riservatezza: esistere solo quando si è al lavoro, rifuggendo ogni futilità. Ci si aspetterebbe la messa al bando di ogni ar-guzia. E se il giorno in cui si è ufficializzata la deflazione che ha portato l’economia italiana al 1959 il nostro Premier ha teatral-mente mangiato il gelato, forse a breve sarà costretto a presentarsi al Paese in ginocchio e con la testa bassa, in un vuoto di parole, finalmente rappresentativo del disastro. Almeno allora potremo evitare di sorbirci l’ennesima cattiva rappresentazione di quei personaggi magistralmente ritratti - e non esaltati - dalla commedia all’italiana.

Ogni governo si sente in dovere di

annunciare una “rivoluzione”

nel mondo dell’istruzione. Un diversivo che serve solo a mascherare

nuovi tagli. E il capitale umano del

nostro paese diventa sempre

più povero

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Roberto Saviano L’antitaliano

Non so che fare? Riformo la scuola

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La testa di Montezemolo reca-pitata su un vassoio d’argento alla famiglia Lambs (ex Agnel-li) nel suo nuovo ranch di De-troit: è la raccapri cciante im-

magine che ha sconvolto l’opinione pubblica mondiale. Macabro dettaglio, la testa era perfettamente pettinata.

Marchionne Ci si domanda a che titolo il manager della Fiat abbia fatto fuori il presidente della Ferrari. La Fiat più veloce mai prodotta è un Fiorino precipitato da una scarpata durante il viaggio di collaudo: nel corso della ca-duta ha superato i 210 chilometri all’o-ra. Come è dunque possibile che Mar-chionne si senta in grado di dire la sua anche a Maranello? Secondo la psicoa-nalista Lucy Van Pelt, oggi in pensione ma a suo tempo popolarissima in tutto il mondo, «uno che costruisce utilitarie color grigio topo non può che odiare uno che costruisce fuoriserie rosso fiammante». Alla interpretazione psi-coanalitica si intreccia anche una pos-sibile lettura dinastica della vicenda: alle voci che vogliono Montezemolo figlio naturale di Gianni Agnelli (la so-miglianza è notevole) si aggiungono quelle che vedono in Marchionne il fi-glio naturale dell’Orso Yoghi (la somi-glianza è impressionante). Il classico conflitto di classe.

il piano Marchionne Merito ricono-sciuto di Marchionne è avere cercato con estrema decisione di mettere fine all’e-quivoco che, negli ultimi vent’anni, ha tormentato la Fiat: voler costruire a tutti i costi automobili. «Una fissazione davvero incomprensibile e del tutto an-tieconomica - come spiegò anni fa a Cernobbio - e facilmente risolvibile chiudendo un paio di fabbriche e impor-tando dall’America un po’ di Chrysler già bell’e fatte». Di qui l’idea geniale: basta un operaio con un cacciavite per togliere dalla macchina il nome ameri-cano e riavvitarne uno italiano, facendo ben attenzione a non dirlo a nessuno. Funziona anche l’operazione contraria: la Punto, ribattezzata Point dopo una

lunga ricerca del Centro Ricerca e Idea-zione di Lapo Elkan, durata mesi, è stata rivenduta negli Stati Uniti come fermacarte. Per la Ferrari le cose non sono così semplici: distruggerla non può essere questione di pochi anni, ci voglio-no applicazione, tempo, professionalità. Secondo i bene informati, la prima mos-sa sarà sostituire il rosso Ferrari con il grigio topo.

l’innovazione Marchionne, appas-sionato di motori quanto Bin Laden era appassionato di cooperazione interna-zionale, è rimasto molto impressionato quando gli hanno spiegato che la Ferra-ri monta un motore a dodici cilindri. Ha chiesto se è proprio necessario utilizza-re i cilindri, costosissimi, e non i Borsa-lino o le bombette, che mantengono un profilo elegante ma non impegnano troppo. «Queste comunque sono scelte che lascio volentieri al nuovo manage-ment». Per la presidenza si fanno i nomi di Gerbera Agnelli, che ha il vantaggio di essere una donna ma lo svantaggio di essersi occupata per tutta la vita solo di composizioni di fiori secchi per il cen-trotavola; oppure un membro a caso della famiglia Grande Stevens, che come rivela il nome stesso non è realmente esistente ma da molte generazioni rico-pre il ruolo di amico immaginario degli Agnelli Lambs.

la faMiglia Ha avuto momenti di tensione con Marchionne solo quando ebbe a dichiarare che «la Fiat è fatta a immagine di Umberto Agnelli». Gli ere-di di Umberto, esaminato il listino, chie-sero e ottennero da Marchionne una rettifica e le scuse in pubblico. Per il resto, gli Agnelli Lambs sono molto contenti che qualcuno si occupi, in loro vece, della Ferrari, azienda che non sapevano di possedere e che imbarazza decisamen-te la componente femminile della fami-glia, che considera la Ferrari molto ru-morosa. Geppe Agnelli, del ramo dissi-dente, da anni in esilio a Igea Marina dove gioca a boccette, propone di ven-derla agli arabi e con il ricavato compe-rare la Averna e la Biancosarti.

Un fermacarte chiamato Fiat Punto

Svelato il piano di Marchionne per

chiudere anche la Ferrari. Il primo

passo sarà abbandonare il

rosso fiammante e adottare il colore

grigio topo caratteristico di

tutte le auto prodotte dal gruppo

torinese

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Michele Serra Satira preventiva F

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L’Occidente, Unione Europea in testa, ha sbagliato tutto nella crisi ucraina. Per pigrizia men-tale, per ignoranza, per riflessi condizionati da guerra fredda.

Il tutto alimentato dai revanscismi dei pae-si baltici, dalle ansie da perdita di ruolo dell’apparato Nato e dagli appetiti delle industrie militari. Si è arrivati a un fragile cessate il fuoco, senza alcun intervento da parte della Unione Europea né tanto meno degli Stati Uniti. In realtà, i paesi occidenta-li un ruolo lo hanno avuto in questa crisi, ma nefasto, con conseguenze negative di lungo periodo. Come spesso è accaduto negli ultimi lustri, l’Occidente ha agito da apprendista stregone senza rendersi conto di cosa sarebbe successo “dopo”.

Così è suCCesso in Libia dove il sacro-santo intervento per fermare e far cadere Gheddafi non è stato accompagnato da un intervento civile-militare di ricostruzione delle istituzioni statali di quel paese, lascian-dolo preda del delirio di onnipotenza delle varie milizie. In Ucraina l’Occidente ha giocato subito la carta del “regime change” sostenendo le buone ragioni della Maidan democratica, ma al contempo chiudendo gli occhi sulla presenza armata dei neona-zisti di Pravj Sektor. Per ottenere l’allonta-namento del presidente filo-russo gli Stati Uniti, trascinandosi dietro l’Ue, non sono andati per il sottile. La destituzione di Ya-nukovich, la cui elezione quattro anni pri-ma era stata consacrata come “trasparente e onesta” dagli osservatori internazionali dell’Osce, va rubricata come colpo di stato in quanto la costituzione ucraina richiedeva una maggioranza parlamentare qualificata che non venne raggiunta. Ma poiché i rivo-luzionari si dichiaravano amici dell’Occi-dente questo sfregio alle norme non ha causato alcun problema. L’obiettivo geo-strategico era troppo succoso per lasciarse-lo sfuggire. Lo sosteneva con espressioni non proprio diplomatiche verso alcune ti-tubanze europee l’ambasciatrice america-na a Kiev. Solo che questa realpolitik si scontra con la pretesa di agire sventolando le bandiere della difesa dei diritti e del dirit-to internazionale (assai lacere, peraltro,

dopo Kossovo, Iraq e Guantanamo). Il peggio è che a questa disinvoltura

sull’instaurazione del nuovo regime ucrai-no si è accompagnata un sostegno a spada tratta per qualsiasi azione da esso intrapre-sa. L’Occidente ha chiuso gli occhi - peraltro comprensibilmente vista l’assenza di im-magini drammatiche e strappalacrime sui civili bombardati dalle truppe di Kiev nell’Est russofono - sul conflitto. In altre situazioni, il mezzo milione di profughi, le città assediate da un esercito regolare, i ci-vili uccisi a centinaia, le rivendicazioni di autonomia di una minoranza sarebbero stati argomenti sufficienti per un intervento se non diretto - cioè militare, come in Kos-sovo - almeno di pacificazione. Invece l’in-gombrante presenza russa ai confini dell’U-craina, e pure dentro, e il precedente dell’i-nammissibile annessione della Crimea, hanno prodotto uno strabismo devastante. Di fronte all’interventismo russo, i governi occidentali non hanno fatto pressione sul governo Kiev per fermarlo e portarlo al tavolo delle trattative e si sono concentrati sulle sanzioni a Mosca come se questo po-tesse far tacere i cannoni. Non hanno capi-to che c’era una guerra civile in atto. Con il risultato che la Russia, isolata, ha persegui-to senza freni e senza scrupoli, il suo obiet-tivo strategico. Ora, quello che l’Occidente doveva sostenere fin da subito, e cioè una federalizzazione dell’Ucraina, un paese peraltro dall’identità posticcia e diviso reli-giosamente, linguisticamente ed economi-camente, arriverà dopo molti lutti, come conseguenza logica di quello che è accadu-to in questi mesi.

AllA fine, lA RussiA avrà ottenuto il suo scopo perché con gli accordi del 5 set-tembre è diventata ufficialmente garante della minoranza russofona. Anche la Nato potrà brindare in quanto ha ritrovato una sua ragion d’essere, baldanzosa al punto da chiedere più investimenti in armamenti e nuove basi militari anche laddove il tratta-to con la Russia del 1997 lo escludeva. Ovviamente, il perdente è l’Ue che non ha espresso alcuna linea coerente e in linea con i suoi principi finendo per perdere influen-za, relazioni, e commesse. Un disastro.

Quanti errorinella crisi ucraina

I veri sconfitti della guerra sono gli

occidentali. Con la loro condotta

incerta e ambigua. Risultato: Putin ha

accresciuto il suo potere malgrado le

sanzioni. E la Ue perde influenza,

relazioni e commesse. Un disastro

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Piero Ignazi Potere&poteriCopia di e06893e7c3ad44328ad32c0a07b4c886

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C’è un buco nero nel dibattito europeo sulle riforme strutturali. Il tema è econo-micamente scomodo e po-liticamente imbarazzante.

Perciò se ne parla poco o nulla e anche chi vi ha fatto di recente un cenno (Mario Draghi) si è poi limitato a una rapida toc-cata e fuga. Eppure la questione è di quelle che toccano le fondamenta del condominio comunitario in generale e tengono aperte incognite minacciose sull’esperimento del-la moneta unica. Il punto è che, con la na-scita dell’euro, si è compiuto un grande passo storico in quanto i governi dei paesi aderenti hanno rinunciato a una signoria costitutiva del loro potere sovrano: quella di battere moneta. Ma gli stessi Stati, che hanno deciso di condividere la responsabi-lità monetaria, continuano a mantenere saldamente nelle proprie mani l’altro scet-tro che definisce e completa il potere del Principe moderno: quello tributario.

TanT’è che il panorama dei trattamen-ti fiscali nella cosiddetta Eurozona e ancor più nell’Unione in generale appare quanto di più caotico e disarmonico si possa imma-ginare. Abbiamo sì un cosiddetto mercato unico ma quanto al sistema delle imposte - salvo qualche vincolo più che altro forma-le sull’Iva - ciascun paese è di fatto autoriz-zato a procedere come ritiene per sé più comodo e conveniente nella totale negli-genza delle istituzioni comunitarie. Anche in questo campo, quindi, continua ad esse-re dominante quella visione rinunciataria dell’Europa che fatica a guardare oltre gli anacronistici confini di uno “Zollverein” o unione doganale.

Nessuno, nell’attuale fase di prolungata caduta della crescita, può essere così ottu-so da disconoscere l’importanza e l’urgen-za di riforme che sblocchino, per esempio, i mercati del lavoro in modo da favorire il riassorbimento di una disoccupazione divenuta imponente in alcuni paesi, a co-minciare da Spagna e Italia. Ma nemmeno si può essere così sprovveduti da non considerare che un’offerta di manodopera meno rigida o più malleabile possa risol-vere il problema se, sul versante degli in-

vestimenti, ai capitali finanziari e indu-striali è consentito muoversi all’interno della Comunità in base a convenienze manipolate dalla competizione fra regimi tributari. Come appena deciso dalla Fiat che ha messo il piede societario nei Paesi Bassi e quello fiscale a Londra.

Già è sTaTo un Grave errore nell’Eu-ropa a 28 quello di concedere al Regno Unito privilegi da paradiso fiscale. Ma va anche peggio all’interno dell’Eurozona dove un non più sostenibile “benign ne-glect” di Bruxelles protegge forme odiose e distorsive di “dumping fiscale” praticate a piene mani da paesi come Olanda, Irlan-da nonché dal Lussemburgo del presiden-te della nuova Commissione, Jean-Claude Juncker. Che, prima della sua nomina, è stato sì sottoposto a un accurato esame programmatico ma senza che nessuno ponesse con forza sul tavolo il nodo delle disarmonie fiscali che dividono il campo europeo. Un segnale allarmante.

Alla creazione dell’euro si è arrivati perché il caos prodotto dalle ricorrenti svalutazioni competitive rischiava di minare le basi del mercato unico e lo stesso ideale politico unitario. L’attuale indifferenza verso le pratiche di concor-renza tributaria, soprattutto nel tratta-mento dei capitali d’investimento, tiene ora sospesa sul futuro dell’euro (e dell’U-nione) una minaccia non meno esiziale. Se si vuole che il progetto europeo cam-mini, occorre che i Principi dell’euro pongano in cima alla loro agenda la più strutturale delle riforme con la cessione della sovranità anche fiscale. Magari ri-petendo il percorso seguito per la moneta unica, con il ricorso a sperimentazioni di convergenza attraverso vincoli di varia natura tecnica. Insomma, progettando una sorta di serpente tributario che defi-nisca modi e tappe di una graduale armo-nizzazione fiscale complessiva. Purtrop-po nell’orizzonte europeo non si scorgo-no né un Giscard e uno Schmidt che aprano questa strada e nemmeno un Kohl e un Mitterrand che la concludano. Si vedono solo ometti e donnicciole che si guardano l’ombelico.

Un serpente fiscale per salvare l’Europa

L’esistenza di veri e propri paradisi

come Olanda, Irlanda e

Lussemburgo (per non parlare del

Regno Unito) è il male oscuro

dell’Unione. Una minaccia seria sul

futuro che imbarazza tutti

i governi

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Massimo Riva Avviso ai navigantiCopia di e06893e7c3ad44328ad32c0a07b4c886

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A quanto sembra, controllare i dipendenti è diventata una vera e propria priorità anche per la Basnca d’Italia. A Palazzo Koch hanno infatti deciso di investire tra i cinque e i sette milioni di euro per rinnovare i sistemi di rilevazione delle presenze e di controllo degli accessi nelle sedi della banca centrale. Un’iniziativa, presa in pieno agosto, che sembra stare particolarmente a cuore al governatore Ignazio Visco. L’azienda che si aggiudicherà l’appalto dovrà fornire alla Banca d’Italia hardware e software di gestione, badge, assistenza, installazione e manutenzione degli impianti nell’arco dei prossimi quattro anni. Se poi la spesa affrontata non dovesse ancora risultare sufficiente, la banca centrale ha già stabilito che valuterà con la massima attenzione l’acquisizione di eventuali altri beni e servizi, spendendo fino a un ulteriore 20 per cento rispetto all’importo con il quale alla fine verrà aggiudicata la gara. Nell’insieme, insomma, i tornelli e tutto il resto potrebbero arrivare a costare una cifra superiore ai 8 milioni in 48 mesi. Cl. Pi.

La Asl di Bari compra 13 automediche, ma non ci sono gli autisti. Così sono rimaste parcheggiate nell’ospedale di Triggiano le autovetture acquistate con regolare procedura Consip nel 2013 e destinate al servizio 118 della città. «Inizialmente dovevano essere affidate alle associazioni di volontariato, ora invece stiamo per convocare un tavolo con i sindacati per proporre che alla guida vi sia un infermiere, come accade nelle altre Regioni», spiegano dalla direzione generale della Asl. Con il blocco delle assunzioni, però, e il piano di rientro sanitario messo a punto, le automediche sono rimaste in garage. Anche perché, finora, l’assenza di defibrillatori a bordo le rende inutilizzabili. S.D.

Il biologico non è in recessione. Secondo un rapporto del Ministero delle politiche agricole i terreni a coltivazione bio sono aumentati in un anno del 6 per cento (quasi 200 mila ettari in più). Inoltre, nei primi cinque mesi del 2014 i consumi sono cresciuti del 17,3 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il prodotto più acquistato? Le uova. Alla luce di questi risultati, l’Aiab (Associazione nazionale per l’agricoltura biologica) chiede al governo Renzi di «sostenere le filiere nazionali e locali, supportare tecnicamente le aziende nella transizione verso il biologico, sviluppare la ricerca e l’innovazione». A. Mas.

Asl di BariParcheggio imbarazzante

Agricoltura Quant’è bello credere in bio

Si chiama Stephanie Fi-guccio. E il suo nome, per il momento, dice poco o nulla. È una ra-gazza di 25 anni di Long Island, Stato di New York, che sogna di emulare Erin Brocko-vich, la celebre paladi-na dell’ambiente cui prestò il volto in un film di successo Julia Ro-berts. Se Erin trascinò in giudizio un colosso dell’energia, costrin-gendolo a pagare il più grande risarcimen-to nella storia degli Stati Uniti (333 milio-ni dollari ai 600 residenti di Hinkley), Stephanie ha lanciato il suo guanto di sfida a un gigante della moda come Gior-gio Armani. È infatti la capofila di una class action promossa da più di cento persone che negli anni scorsi sarebbero stati erroneamente classificati come stagi-sti non pagati invece che come dipenden-ti della sede newyorkese di Armani. Se-condo l’atto di citazione depositato pres-so la Corte suprema di Manhattan, avreb-

bero dovuto invece essere retribuiti alme-no con un salario minimo. La Figuccio - che nell’estate del 2009 lavorò per circa 20 ore settimanali, da giugno ad agosto, presso il quartier generale di Armani a New York - ha chiesto ai giudici, oltre ai salari non ricevuti, anche il risarcimento dei cosiddetti “danni punitivi” sia per sé che per gli altri. Interpellata a riguardo da “L’espresso”, l’azienda ha risposto con un asciutto «No comment». PI. Fal.

Class action

Figuccio vs. Armani

UN PUNTo VeNdITA dI ARmANI A New yoRK

BAnkitAliACinQue milionidi Controlli

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riservatoabuso alla bergamasca | partigiani in cattedra | curriculum da conte | battaglia sul carroccio | cortesie e rifiuti

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“Fischia il vento”, “Bella Ciao”, le Brigate Garibaldine, la Divisione Acqui e Marzabot-to: i partigiani, con le loro storie, entrano nelle scuole. Lo prevede un accordo tra il ministero della Pubblica istruzione e l’Associazione nazionale dei partigiani italiani. L’obiettivo è ambizioso: offrire alle istituzioni scolastiche, di ogni ordine e grado, un sostegno alla formazione storica, dalla documentazione alla ricerca, per lo sviluppo di un modello di cittadinanza attiva. Per questo gli eroi della Resistenza diventano “mae-stri” per le nuove generazioni. Il tutto nel quadro delle iniziative che il governo sta mettendo a punto per le celebrazioni dei settant’anni della Resistenza e della guerra di liberazione. Un’attenzione che si è manifestata anche nel decreto interministeriale pro-mosso dai ministeri della Difesa e dell’Economia con lo stanziamento di ulteriori 300 mila euro per le associazioni dei combattenti, rispetto ai 674 mila già previsti. S.G.

Scuola

maeStri partigiani

paeSe nato % pil in SpeSe militariStati Uniti 4,40%Regno Unito 2,30%Estonia 2,00%Francia 1,90%Polonia 1,70%Grecia 1,70%Portogallo 1,40%Paesi Bassi 1,30%Italia 1,30%Germania 1,20%Spagna 1,00%

Nell’ultimo vertice Nato in Galles si è discusso nel dettaglio della crisi tra Ucraina e Russia e della minaccia dell’Isis. Il nuovo scenario globale ha spinto i Paesi dell’alleanza atlantica ad impegnarsi per un aumento della spesa militare fino al 2 per cento del proprio Pil. A seguire, la situazione nel 2012 secondo i dati dell’Agenzia europea di sicurezza.

percentuali di Sicurezza

16 sono le missioni internazionali sotto bandiera europea attualmente in corso. Di queste, cinque sono

militari e 11 civili. Dal 2002 gli interventi militari sono stati 30, distribuiti su tre diversi continenti. a cura dell’associazione openpolis

parlamento in cifre

Foto

: Arc

hivi

o A3

a cura di riccardo Bocca / Stefano Livadiotti

ecce Bobo Sergio Staino

lA pArAtA Dei pArtigiAni nel 1945 A milAno

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Nella nuova Figc di Carlo Tavecchio ogni riferimento agli scandali che hanno turbato il calcio italiano deve essere censurato. Per questo lo scorso 18 agosto il consiglio federale ha deciso che al ripescaggio in serie “B” non possono concorrere le squadre coinvolte nell’ultimo calcioscommesse. Ma proprio il nuovo commissario tecnico della nazionale scelto da Tavecchio, Antonio Conte, due anni fa era stato squalificato (10 mesi, poi ridotti a 4) per non aver denunciato la combine di una partita del Siena (squadra allenata in passato da Conte), di cui «non poteva non sapere». Nel curriculum che riepiloga la carriera del neo ct azzurro, pubblicato sul sito internet della Figc, è stata omessa la stagione 2010-2011, uno dei successi dell’allenatore salentino, culminata con la promozione in serie “A” del suo Siena. Ma infangata dallo scandalo per cui Conte è stato squalificato l’anno successivo. G. Pagl.

CalcioscommesseOplà, scomparso lo scandalo Conte

Il presunto abuso edilizio compiuto da Giorgio Gori, allora candidato del centrosinistra alla poltrona di sindaco di Bergamo, era stato nei mesi scorsi uno degli argomenti che avevano infiammato la campagna elettorale. «Qualora vi fossero state delle inesattezze, non esiterò a correggerle», aveva promesso l’ex manager televisivo rispondendo alle critiche in arrivo dagli avversari. In effetti, come accertato poco tempo dopo dalla Polizia municipale, la veranda che Gori aveva costruito (quattro anni addietro) non vantava «titoli abitativi»: era stato cioè allargato il portico della villa, trasformandolo in una veranda chiusa, senza l’autorizzazione del Comune. Per questo, nelle scorse settimane, Gori, divenuto nel frattempo primo cittadino, non ha potuto fare altro che mantenere la promessa. E demolire l’abuso. G. Pagl.

E Gori demolì il suo abuso

Nel 2010 Enrico Rossi spingeva a favore del sotto-attraversamento di Firenze per i treni ad alta velocità. Oggi il governatore della Toscana punta tutto sui pendolari (che nella Regione sono 250 mila) e chiede che i convogli locali abbiano la precedenza su quelli veloci. «Di fronte a un treno regionale», sostiene, «l’inchino lo deve fare il convoglio ad alta velocità».Lo scorso dicembre Rossi è andato alla stazione di Montevarchi e ha preso il treno delle 7.08 per verificare personalmente le condizioni dei viaggiatori. Da allora, il governatore ha cominciato ad attaccare le Ferrovie, chiedendo un miglioramento delle condizioni dei treni locali. Siccome nulla è stato fatto, e a causa dei lavori del sotto-attraversamento i ritardi sono aumentati ancora, il presidente della Regione ha deciso di alzare il tiro. E minaccia di non firmare alcun accordo con Trenitalia finché non sarà chiarito nel contratto nazionale con Rfi che i treni regionali devono avere la precedenza sui convogli dell’alta velocità. I pendolari, continua a ripetere Rossi, «hanno diritto ad arrivare in orario». A. Cal.

FerrovieRossi di rabbia

ENrICo roSSI, GovErNATorE dEllA ToSCANA

In Italia non si potrà più importare legname che non sia certificato. Il Consiglio dei ministri ha infatti dato il via libera a un decreto legislativo, firmato dal ministro delle Politiche Agricole, Maurizio Martina, che applica la normativa europea per il contrasto al legno illegale. Il regolamento Ue che vieta l’importazione non certificata, a dire il vero, era entrato in vigore il 3 marzo 2013, ma non era stato applicato. A. Mas.

lEGnamE sì ma solo doC

marco damilanoTOp eFLOp

ToP ANTONIO CATRICALÀVi faccio la guerra, aveva proclamato Renzi. Sembrava finita per consiglieri di Stato, capi di gabinetto e per il loro nume tutelare, l’ex segretario generale di palaz-zo Chigi, deus ex machina di governi di ogni colore (di uno, soprat-tutto, il grigio azzurro di Gianni Letta). E invece Ca-tricalà spunta tra i candida-ti per la Consulta, in tandem con Luciano Violante. Eter-nità del potere.

FloP LIONELLO COSENTINOSegretario del Pd romano, dirige un par-tito che governa Regione e Comune, ma che si dilania. Sulle strategie per la città? No, sul nuovo stadio della Roma: pallo-ne, mattone e affari. Riunioni segrete, attacchi a mezzo stampa tra opposte cordate, di costrut-tori e politici, tra gli irridu-cibili contrari e gli ultras del “sì”. Sembra un derby Ro-ma-Lazio. Senza Totti; con Caltagirone.

ToP FRANCO MARESCOTra l’impresario artistico Francesco Mira detto Ciccio, che porta i neomelo-dici nel quartiere Brancaccio e ammira la vecchia mafia, e il suo collega di Arco-re non c’è distanza. Il ber-lusconismo ha conquistato la società, non solo il Palaz-zo. Per questo “Belluscone” del regista palermitano è il film da vedere sul venten-nio di Silvio B.

FloP GIANNI bELFIORELo storico paroliere di Julio Iglesias dedi-ca una canzone al ministro Maria Elena Boschi: «A prima vista fai innamorare per quel tuo fa-scino vellutato che non si lascia decifrare...». Adulare è un’arte, il renzismo non aveva ancora il suo Apicella. Belfiore colma il vuoto.

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Nel Mezzogiorno l’emergenza-rifiuti continua. E ora colpisce la Calabria. Così, la Campania si prepara a restituire un favore datato 2010. Quando scoppiò l’ultimo grande allarme in provincia di Napoli, la Calabria fu tra le prime Regioni ad aiutare i vicini, aprendo i cancelli dell’impianto di Crotone. Ora è la Calabria a registrare un’eccedenza di 1.200 tonnellate di rifiuti al giorno e ad andare incontro alla vicepresidente della Regione, Antonella Stasi, ci pensa il governatore campano, Stefano Caldoro, che ha siglato un accordo per trattare dalle 300 alle 500 tonnellate di rifiuti al giorno negli impianti di Battipaglia (Salerno), Casalduni (Benevento) e Pianodardine (Avellino), attualmente non impegnati a pieno regime. Il tutto per un periodo che va da sei a dodici mesi. A. Cal.

Scambio di rifiuti

In Veneto la sanità infiamma il duello tra le anime della Lega. Da un lato il bossiano Massimo Bitonci, neo sindaco di Padova; dall’altro il governatore, Luca Zaia. Al centro della disputa il nuovo ospedale che, in base a un pre-accordo di programma firmato lo scorso anno da Zaia, da Ivo Rossi e Barbara Degani (all’epoca, rispet-tivamente, sindaco reggente e presidente della Provincia di Padova), dal direttore generale dell’azienda ospedaliera e dal rettore dell’Università, dovrebbe sorgere nell’area Ovest della città del Santo. Pro-getto però bloccato da Bitonci fin dall’in-sediamento: «quella zona è in dissesto idrogeologico». Ma, se non verrà rispetta-ta la data, la società che deve costruire la struttura in project financing potrebbe chiedere un risarcimento dei danni. Ecco perché ora Zaia si è rivolto ai legali per valutare la possibilità di fare causa al Comune, guidato da un esponente del suo stesso partito. G. Pagl.

Veneto

duello leghista

«Avete visto il sottosegretario Lotti?» domanda qualcuno dalla situation room renziana. «Dev’essere giù in galleria», è la risposta. Laddove mica s’intende la galleria Deti, adibita a salotto di cortesia alla presidenza del Consiglio.POPOLO DI SORDI. Ma, invece, lo spazio che Walter Veltroni, al tempo sindaco della città, dedicò ad Alberto Sordi, cambiandone il principesco nome Colonna. Così palazzo Chigi ora ha un’altra sede: per fortuna non costa un euro. Basta attraversare la strada, infilare una porta a vetri ed entrare nella Galleria, tra la folla della libreria Feltrinelli, quella di Zara e dei due bar, punto simbolico e strategico tra palazzo e popolo, potere e popolarità, dove c’è la vita e non ci sono gli ori.A LONDRA NO. È improbabile che a Londra, per esempio, Nick Clegg, vice primo ministro del governo inglese, accolga interlocutori e questuanti seduto a un tavolo del Red Lion, bar a due passi da Downing street. Ma nel Palazzo romano in rivoluzione il nuovo topos del potere contemporaneo è questo.BAR MALAGÒ. Il sottosegretario alla Presidenza Luca Lotti, chioma da elettrochoc ma il privilegio, secondo cronache accreditate, di essere chiamato «fratello» da Renzi - s’immagina per influenza da fiction tv americane come “House of Cards”, idolatrata da Palazzo Chigi - riceve spesso al bar, lato sinistro rispetto a Feltrinelli. A fine agosto nel mezzo del bailamme per la candidatura di Carlo Tavecchio alla Federcalcio, il presidente del Coni, Giovanni Malagò, si aggirava a cercar libri, ovvio, mica sottosegretari o premier.RENZI DA STRADA. Quando Renzi va, arriva il tweet di avvertimento, mezza stampa gli si mette alle costole e il codazzo s’ingrossa. Si punta dritti alla Feltrinelli, unico luogo della città che frequenta, dove fa incetta di libri, poi opportunamente tweettati e rilancia verbo e slogan. In un Paese che non legge e con l’editoria di libri e giornali in affanno, andrebbe lodato per la testimonianza e la pubblicità occulta. Ma il messaggio che conta di più per lui è

altro:«io scendo per strada; non sono un premier a porte chiuse».INCONTRO CASUAL. Sotto i portici e sotto gli occhi di tutti, nella climax per la riforma del Senato, in un incontro che persino la più paludata delle agenzie ha definito «casuale» tra virgolette, Renzi e Gianni Letta si sono fermati a chiacchierare e nessuno ha detto bah: si può immaginare l’orrore se fosse stato a Palazzo Chigi o in un altro luogo segreto o istituzionale.VOLPONI AL TAVOLO. Stessa tattica per volponi come Denis Verdini e Ugo Sposetti, architravi del patto del Nazareno, costruito lì ai tavolini in un via vai di marocchini (caffè assai in voga tra i politici). E anche per bravi figli come Roberto Rao, consigliere economico di Andrea Orlando e nel cda di Poste, che ha eletto a suo ufficio il quarto tavolo a destra.SOSTIENE MASTELLA. Alcuni profani si domandano come mai altolocati personaggi s’incontrino in una galleria. Nel codice di Palazzo Renzi la novità è la volontà di fare - quasi - tutto alla luce del sole. E va bene. Ma la millenaria regola del potere è non farsi sentire. Negli anni d’oro Clemente Mastella, noto politico del pleistocene superiore, sosteneva che il rumore di tazze e tazzine era il miglior antidoto all’intercettazione ambientale. Pare che in questo la Galleria Sordi (con quel nome poi) non abbia rivali.

al bar tutti ti vedono e nessuno ti sente

IL SOTTOSEGRETARIO LUCA LOTTI. A SINISTRA: LUCA ZAIA, GOVERNATORE DEL VENETO

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denise Pardo Pantheon

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l’appello alla guerra santa di al-baghdadi

sta radunando nuove formazioni armate in tutto il

mondo musulmano: in afghanistan

come in indonesia, ma soprattutto

nelle nazioni che si affacciano

sul mediterraneo. il ministro alfano ritiene che anche

il nostro paese sia nel mirino di

questa offensiva fondamentalista

globale, a cui abbiamo dedicato l’altra copertina

(a pagina 24).in copertina:

il dibattito sul futuro dell’industria

automobilistica italiana, dopo

la fine dell’era montezemolo alla ferrari,

con un’inchiesta di fabrizio gatti che mette a confronto

la demolizione del polo di arese

per produrre vetture ecologiche

e la fabbrica modello realizzata

dalla toyota in inghilterra

(a pagina 46)

L’altra copertina

Settimanale di politica cultura economia - www.lespresso.it N. 37 anno LX 18 settembre 2014

tu vuò fa’ L’americaNal’auto italiana dopo la fine dell’era montezemolo p. 46

L’ombra deL caLiffowoody aLLeN amore, fortuna, errori il regista si confessa p. 52

fraNcia il potere delle donne e il declino di hollande p. 58

Lo Stato iSLamico aLLarga Le Sue mire daLL’iNdia aL marocco. e accerchia L’europa coN uNa miNaccia SeNza precedeNti. meNtre L’itaLia NoN rieSce a puNire i jihadiSti arreStati, che veNgoNo riLaSciati e torNaNo a coLpire

Se ne parla su www.lespresso.it

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SommarioQuesta settimana23 / pure la ferrari, chi l’avrebbe detto di bruno Manfellotto

Primo Piano24 / califfato senza confini Dal Marocco all’Indonesia, lo Stato islamico continua ad allargare la sua rete. Ecco la mappa del nuovo jihad di Gigi riva28 / porte aperte ai jihadisti Accusati in tutta Europa, ma assolti nel nostro Paese. Le storie dei miliziani che l’Italia non riesce a punire di paolo biondani32 / a Me ricordano le br Le motivazioni dei giovani combattenti integralisti ricordano quelle delle reclute degli anni di piombo. L’analisi di Kureishi colloquio con hanif Kureishi di W. Goldkorn

Esclusivo34 / iMMobiliare tavecchio Un palazzo nel cuore di Roma. Pagato 20 milioni, quando ne valeva 11 pochi giorni prima. Con la firma di mister Figc di Gianfrancesco turano

Attualità36 / i raGazzi con la pistola Il sedicenne innocente ucciso a Napoli da un carabiniere. E una città di giovani pistoleri senza futuro. Che ora guidano lo storico clan Giuliano di Giovanni tizian41 / se lo stato uMilia i suoi servitori di lirio abbate42 / a palazzo coManda la viGilessa Antonella Manzione, ex capo della polizia locale di Firenze, è il vero braccio destro del premier. Ecco chi è di Marco damilano44 / viareGGio crac La città dei carri è diventata la città dei carrozzoni. Con i buchi delle partecipate che mettono a rischio pure il Carnevale di david allegranti

Inchiesta46 / così abbiaMo perso l’auto Demolito lo stabilimento Alfa Romeo per produrre vetture verdi. Mentre in Inghilterra la Toyota ha creato un impianto modello di fabrizio Gatti51 / Ma più delle fabbriche conta lo stile di riccardo Gallo

L’intervista52 / non sono Woody allen... L’amore. La fortuna. I rapporti sbagliati. Il regista si confessa. E spiega perché non assomiglia al suo personaggio colloquio con Woody allen di fred allen

Mondo56 / cherchez la france Mentre il libro di Valérie Trierweiler scuote Parigi, le donne della politica aspettano la caduta di Hollande per prendere il potere di denise pardo

Reportage62 / san paolo folle e disperata Finiti i fasti del Mondiale, la più grande megalopoli del Brasile fa i conti con il suo sviluppo sbagliato. E con le sue mille favelas di Gianni perrelli

Cultura73 / la Mia scala reale Riccardo Chailly, arrivato alla direzione del teatro milanese, parla per la prima volta dei suoi progetti. Dal recupero della tradizione al modello Abbado di riccardo lenzi76 /Guarda coM’è caMbiato Giove Nuove scoperte e studi ci obbligano a vedere l’antichità con occhi diversi di salvatore settis78 / picasso che sorpresa Variazioni su “Guernica”. E opere che precorrono il futuro. In mostra a Firenze di alessandra Mammì80 / bellezza per un anno Sorrentino e Pif. Virzì e Sibilia. I film più amati del 2014 in cofanetto con “l’Espresso di daniela Giammusso

Scienze84 / professione MaKer Una stampante 3D, computer, strumenti di precisione. Per fabbricare oggetti. Viaggio tra i nuovi artigiani digitali di viola bachini e Manuela perrone88 / il cibo finirà Non servono guerre di principio. O progetti di lunga durata. Un super esperto spiega come dare vigore all’agricoltura di david baulcombe

Tecnologia90 / Kolossal videoGaMe Produzioni che durano anni. E costano centinaia di milioni. Così l’industria dei giochi elettronici imita Hollywood di Marco consoli

Economia96 / nella rete di anGela La Bce prova a sottrarsi ai veti della Merkel per far ripartire l’Eurozona. Ma la Germania ottiene un nuovo favore per le sue banche di luca piana e stefano vergine101 / una bici carica di pacchi Parte da Milano la consegna delle merci nei centri città con mezzi a pedalata assistita di Maurizio Maggi102 / pasticcio d’acciaio La siderurgia di Terni vive ore buie. Per colpa dei dietrofront del gruppo Thyssen di Gloria riva

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5 / per esempio di Altan7 / l’antitaliano di Roberto Saviano9 / satira preventiva di Michele Serra11 / potere&poteri di Piero Ignazi12 / avviso ai naviganti di Massimo Riva14 / riservato di R. Bocca e S. Livadiotti16 / top e flop di Marco Damilano17 / pantheon di Denise Pardo57 / senza frontiere di Minxin Pei103 / follow the Money di Vittorio Malagutti138 / il vetro soffiato di Eugenio Scalfari

Rubriche

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n. 37 - 18 settembre 2014

104 / Che futuro, la Carta L’azienda modello di Fabio Franceschi, terzo stampatore d’Europa di roberto Di Caro106 / Mi CoMpro wall street Jeffrey Sprecher è il nuovo padrone della Borsa di New York. Ecco cosa vuole farne di antonio Carlucci

Società110 / la Donna È MorbiDa Dal web alla moda è il momento delle “curvy”. Simbolo, certo, di un nuovo orgoglio. E di un mercato che era impossibile continuare a ignorare di roselina salemi116 / roMa siaMo noi Fendi si rispecchia completamente nella Città Eterna. Perché ne condivide l’amore per il bello e il senso della storia. Parola del suo uomo di punta colloquio con pietro beccari di Valeria palermi

Passioni122 / Cinema123 / spettacoli124 / Musica125 / arte126 / libri129 / beauty 130 / Moda132 / la tavola133 / Viaggi134 / Motori136 / lettere

Copertina: illustrazione di Shout

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quanto laVorano gli onoreVoliQuelli che non si vedono mai e quelli che non mancano una seduta: le classifiche in tempo reale del comportamento dei nostri rappresentanti, divisi anche per partito

riso aVaroUna vignetta al giorno per raccontare il nostro quotidiano, dalla politica alla cronaca al costume, nel blog satirico di Marco Gaucho Filippi

Man ray superstarLa vita del fotografo, pittore, ideatore di oggetti e autore di cortometraggi cinematografici, in un percorso espositivo di oltre 250 opere a Villa Manin di Codroipo

perù Da sCoprireDalla birra di mais all’Inka-cola, dalle ricette di ceviche ai carpacci d’alpaca, mille motivi per curiosare nei gustosi piatti della cucina peruviana

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U n anno fa titolavamo “Se ci portano via anche il made in Italy”. Se ne sono portati via un altro bel po’. Intanto i cine-si mettono gli occhi sull’Ansal-

do Breda che per anni ha insegnato al mondo come fare i treni, e Luca Monteze-molo lascia Maranello accusando: «Anche la Ferrari diventerà americana». Come è già successo con la Lamborghini. Che si continua ad assemblare qua, certo, ma a onore e profitto altrui.

Prima, un lungo elenco di “passi pure lo straniero”. Vale la pena rinfresca-re la memoria: Krizia parla cinese; Star, Gancia e Fiorucci spagnolo, come il Riso Scotti. I francesi hanno portato a casa un bel po’ di pezzi pregiati: Loro Piana, Fendi, Bulgari, Acqua di Parma, Gucci, Pucci e Bottega Veneta. In mano araba sono finiti Valentino e Missoni e ora pure Alitalia. Agli americani è passata Poltro-na Frau, venduta - ironia della sorte - dall’avvocato Montezemolo. Natural-mente si potrebbe continuare con Orzo Bimbo, Buitoni, Perugina, Pernigotti, Amaro Averna, San Pellegrino, Birra Pe-roni, Parmalat… E per carità di patria qui si tace dell’epopea Telecom.

Già, ma perché il made in Italy se ne va? Per più di una ragione. Un imprenditore cede per fare cassa e poi investire in finan-za e in immobili, che è meno rischioso e più redditizio perché gli utili relativi vengono tassati la metà della metà. Perché non è facile crescere in un mercato sempre più vasto e difficile. O perché non vuole cresce-re e finire così nella tagliola dei vincoli sindacali, dei crediti bancari, degli equilibri manageriali. Spesso cede perché non ha preparato in tempo la successione, perché il mercato domestico è asfittico, o perché un socio straniero consente di allargare i mercati, spostare le attività all’estero e sfruttare migliori condizioni fiscali.

La Fabbrica Italiana Automobili Tori-no che diventa Fiat Chrysler Automobiles ne è l’esempio principe; la Ferrari costretta a perdere la sua autonomia per portare lustro e valore alla holding che si quota a Wall Street, la prova che mancava. Ma di

Marchionne in sedicesimo ai quali Diego Della Valle potrebbe far arrivare i suoi strali (“Paghi le sue tasse personali in Ita-lia”) ce ne sono a decine.

Intendiamoci, non è pratica solo italia-na. Negli Stati Uniti capitalisti e protestan-ti per eccellenza dove “pagare le tasse è bello”, come predicava Tommaso Padoa Schioppa, l’elusione fiscale è piaga nazio-nale. Ma lì il governo non dà tregua ai furbetti dell’aliquota, a differenza di qui dove un procuratore generale applica la legge e spiega perché Dolce & Gabbana non evadono le tasse trasferendo qualche loro marchio in terra straniera. Già, perché il mondo è globalizzato e pensare di tenere un’impresa al di qua delle Alpi e del mare è assurdo. E allora, che senso ha parlare ancora di “italianità”? Forse uno ce l’ha.

Un Paese che non aiuta chi è costretto a vendere gioielli svela al mondo intero di non avere la forza per impedirlo, di non essere riuscito a creare un sistema-Paese, di rinunciare all’immensa forza d’urto che avrebbe il made in Italy se marciasse come un fronte unito e compatto, di non sfrutta-re investimenti e potenzialità. Per averne conferma, si legga (pag. 46) l’inchiesta di Fabrizio Gatti svolta tra lo stabilimento ex Alfa di Arese, dismesso e destinato a inve-stimento immobiliare, e l’insediamento Toyota a Burnaston con le sue regole e i suoi codici made in Japan.

certo, lo sPiega bene Riccardo Gal-lo (pag. 51), il made in Italy non sono solo linee di produzione, ma soprattutto centri di creatività, ideazione, design. Teste italia-ne. Giusto, ma sono teste singole di italiani geniali, non è l’Italia. Sono i figli del capi-talismo senza capitali sul quale regnava Enrico Cuccia; che preferiscono la dimen-sione familiare; che non corrono in soccor-so di Telecom o di Alitalia. E che, se capita, litigano, com’è successo nelle poche ore che hanno preceduto l’addio di Montezemolo. Finendo così, proprio loro che dovrebbero essere borghesia produttiva e classe diri-gente, per scimmiottare i modi di quei politici e di quei partiti ormai spenti che disprezzano da cinquant’anni.

Pure la Ferrari, chi l’avrebbe detto

La casa di Maranello che

rischia di diventare americana è solo

l’ultimo caso di Made in Italy che se

ne va. Simbolo di un capitalismo e di una borghesia che non riescono a fare sistema. E litigano. Come i politici che

da anni disprezzano

Se ne parla su www.lespresso.it

Bruno Manfellotto Questa settimana

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Primo Piano IsIs / l’offensIva globale

califfato senza confini

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L’ultimo allarme, in ordine di tempo, lo ha lanciato il g enera l e Mohamed Rashad, ex vicecoman-dante dei potenti servizi segreti egiziani: c’è una cellula dello Stato islami-

co di Abu Bakr al-Baghdadi anche nel Sinai. Si è alleata con Ansar Bait al-Maqdis, un pericoloso gruppo già filo al-Qaeda. Ma, dopo il terremoto provo-cato dall’irrompere sulla scena dell’auto-proclamato Califfo, tutte le alleanze sono in discussione nel composito mondo del fondamentalismo. Dal Marocco fino all’Indonesia sta diventando irresistibile il richiamo al jihad dell’uomo che con-trolla larghe fette di Siria e Iraq, mentre perde consenso l’organizzazione che fu di Bin Laden ed è ora guidata dall’egiziano Ayman al-Zawahiri. Proprio il Cairo fu il sogno proibito dello sceicco del terrore: per il suo ruolo di faro del mondo arabo, la posizione baricentrica, la prossimità con Israele. E la penisola del Sinai, mai completamente controllata dalle autorità centrali, è la palestra per campi d’adde-stramento, la via sicura per traffico di armi, esplosivi, droga, esseri umani. Da lì, e attraverso i tunnel, è facile entrare

califfato senza confini

Dal Marocco all’India, dall’Egitto al Pakistan. Dopo Siria e Iraq lo Stato islamico allarga le sue schiere. Ecco la mappa del nuovo jihad, minaccia senza precedenti per l’OccidenteDi gigi riva

manifestazione di ansar al-sharia a bengasi, in libia, nel settembre del 2012

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Primo Piano

a Gaza. Una spina nel fianco dello Stato ebraico. Il governo del generale Abdel Fattah al-Sisi ha promesso una decisa operazione militare per stanare i covi dei gruppi combattenti. Ma non solo da questo si deve guardare, stando sempre agli avvertimenti di Rashad, se l’allarme riguarda anche molti egiziani che hanno lasciato il teatro siriano e, forti dell’espe-rienza accumulata, stanno importando la guerra in casa. Al pari di quanto stanno facendo, in molti altri Stati, i reduci da quella internazionale islamista che si è formata negli ormai oltre tre anni di as-salto al regime di Bashar al-Assad. Tanto da far sembrare la conquista di Siria e Iraq un obiettivo persino riduttivo rispetto a una dottrina che ha come orizzonte la “umma”, un unico Stato per tutti i mu-sulmani. Vasto programma, irraggiungi-bile se, come c’è da augurarsi, l’Occiden-te, assieme ai governi arabi moderati, saprà reagire e raccogliere la sfida. Però i semi sono stati gettati e l’idea infiamma i cuori e le menti di una moltitudine di mujaheddin pronti a immolarsi per la causa (l’Europa non è immune, come leggete nelle pagine seguenti). Abu Bakr al-Baghdadi fa scuola oltre i confini già estesi che controlla. Minaccia il Mediter-raneo come l’oceano Indiano. Per ora, da ovest a est, la mappa dei seguaci del Ca-liffo è questa.

MAROCCO Nel Paese dove non è stato ancora superato il trauma degli attentati di Casablanca 2003, il ministro dell’In-terno Mohamed Hassad, già a metà lu-glio, poco dopo la proclamazione del

Califfato, aveva ammonito: «Siamo a rischio e la minaccia del terrorismo dure-rà anni». Aveva anche sciorinato cifre eloquenti: «Sono partiti per Siria e Iraq 1.122 marocchini. Duemila se si conside-rano quelli che abitano in Europa. Circa 200 sono morti. E 128 arrestati». In molti tornano, diffondono il nuovo verbo salafita, reclutano, progettano di abbat-tere la monarchia. Nessuna sorpresa se a fine agosto la polizia spagnola ha arresta-to nell’enclave di Melilla due ragazze di 16 e 19 anni in procinto di raggiungere la Turchia per poi passare sui campi di bat-taglia. E scoperto un’organizzazione de-dita al “traffico di miliziani”. Dodici persone arrestate. Ed è solo l’inizio.

ALGERIA Esiste il filmato di appoggio allo Stato islamico (Is) attribuito ad Ab-dullah Othman al-Assimi (nome di bat-taglia, non si conosce la vera identità), il leader di Aqim (al-Qaeda nel Maghreb). E questo nonostante il feroce comandan-te militare Abdelmalek Droukdel abbia dapprima ribadito la propria fedeltà ad al-Zawahiri. Salvo, secondo le intelligen-ce, ripiegare su posizioni meno ostili alla

nuova star dei movimenti terroristici. Gli stessi 007 avvertono che ormai i vertici delle principali formazioni jihadiste par-teggiano apertamente per il Califfo, fino a immaginare una collaborazione “diret-ta, continua e strutturata”.

TUNISIA Anche il Paese della primavera araba più riuscita (o meno fallita) si ritro-va a essere fronte. Dalle sponde del Me-diterraneo sono partiti per servire il Ca-liffo, secondo il ministro dell’Interno Lotfi Ben Jeddou, 2400 giovani. Non tutti disperati senza prospettive. Anche, ad esempio, Mohamed S., studente uni-versitario di fisica e chimica. Il suo com-puter è stato trovato in Siria e dentro c’erano 146 gigabite di file nascosti con manuali per la fabbricazione di bombe, e istruzioni sulla composizione di ordigni biologici. Il leader tunisino di Ansar al-Sharia, Abou Iyadh, avrebbe inoltre in-contrato nel porto libico di Derna gruppi di reduci dalla Siria e gettato le basi per un’alleanza strategica valida per tutto il Nord Africa.

LIBIA Il caos libico del dopo-Gheddafi favorisce il fiorire di sigle estremiste e ha trasformato il Paese in un santuario del terrorismo internazionale, dove si può oltretutto fare ottimo shopping fra il va-sto arsenale bellico del Colonnello. Ma anche qui la voce più ascoltata è quella che si leva dalle moschee di Mosul (Iraq). L’ombra del Califfo lambisce le coste del Mediterraneo grazie al fatto che Ansar al-Sharia, il gruppo più tristemente famo-so, ne ha di fatto riconosciuto la leader-ship. Ansar al-Sharia, responsabile

Proclama di volere la umma, unità di tutti i fedeli in un solo stato. e così continua a fareProseliti

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dell’uccisione dell’ambasciatore ameri-cano Christopher Stevens l’11 settembre 2012 a Bengasi, ha già proclamato un emirato islamico in Cirenaica. Sarebbe sul punto, assieme ad altre sigle, di fon-dersi nel “gruppo libico di sostegno all’I-sis” in attesa della fondazione dell’Isim, lo “Stato islamico nel Maghreb islami-co”. I legami tra Africa e Medio Oriente datano da almeno un paio d’anni, quan-do furono molti i libici che emigrarono in Siria con un patrimonio prezioso per la guerra: armi, munizioni e persino missili terra-aria Sa 14. Il più famoso di loro, il comandante Abu Abdullah al-Libi, è morto in battaglia in Siria dopo aver col suo gruppo abbandonato al-Nusra (or-ganizzazione filo al-Qaeda) per l’Is.

PAKISTAN Nel Paese nevralgico per tutti gli equilibri del ventre molle dell’A-sia, già culla dei talebani afgani, il Calif-fato è la nuova stella polare, il polo ma-gnetico d’attrazione che sostituisce (ma

solo in parte) Kabul. Secondo lo stimato analista Muhammad Amir Rana, mem-bri della Lashkar-i-Jhangvi combattono per il Califfato fin dalla sua costituzione e costituiscono lo zoccolo duro e meglio addestrato dell’esercito di al-Baghdadi. Avrebbero anche aiutato a costruire il campo di addestramento per miliziani “Ghazi Abdul Rasheed” nella provincia di Erbil, in Iraq. Un altro gruppo pakista-no, Tehreek-e-Khilafat, ha pubblicamen-te dichiarato di essersi alleato con l’Is. E infine da una scissione di Tehrik-i-Taliban (movimento talebano in Pakistan) è sorta una nuova sigla, Jamatul Ahrar, guidata da Omar Khalid Khorasani che segue la stessa agenda del Califfo e ha definito l’Is “fratelli mujaheddin”. Lo scorso 3 set-tembre a Peshawar e nei campi di rifugia-ti afgani sono stati distribuiti opuscoli, in lingua dari e pashtun, con la bandiera dell’Is: invocano l’unità di tutti i musul-mani e la creazione di un Califfato dal Pakistan alla Siria.

AFGHANISTAN Il signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar, “terrorista globa-le” per gli Stati Uniti, si sarebbe pure alle-ato col Califfo, secondo voci insistenti a Kabul. Il portavoce del suo gruppo Hezb-i-Islami ha negato, senza peraltro che cessassero i rumours. E singoli militanti si sono espressi chiaramente a favore dell’Is.

Dall’Afghanistan, in uno scenario niente affatto pacificato a 13 anni dall’invasione, la forza internazionale si dovrebbe ritirare entro la fine di quest’anno.

INDIA La vittoria alle elezioni del nazio-nalista hindu Narendra Modi, primo ministro dal maggio scorso, non è desti-nare a favorire la distensione dei rappor-ti con la comunità musulmana. La polizia di Calcutta ha arrestato nei giorni scorsi quattro ragazzi che cercavano di passare il confine col Bangladesh per unirsi a una locale unità di reclutamento dell’Is. Inter-rogati a Hyderabad, hanno affermato che almeno una dozzina di giovani erano pronti a partire. Tutti contattati via Face-book o attraverso il proselitismo di jiha-disti delle rispettive città.

INDONESIA La polizia di Giacarta ha aperto un’inchiesta dopo che all’univer-sità sono stati distribuiti dei volantini alle studentesse in cui si chiedeva chi si prestasse a diventare la “schiava sessua-le” dei valorosi soldati che si battono per lo Stato islamico in Siria e in Iraq. Anche qui il governo teme che l’Is possa attira-re l’interesse di cellule estremiste, in passato protagoniste di sanguinosi at-tentati. L’Indonesia, coi suoi 250 milioni di abitanti stimati, è il più popolato Pa-ese musulmano.

ha collaborato Francesca Marino

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Presunti innocenti, ma con li-cenza di uccidere. Se la polizia americana avesse potuto fer-mare il terrorista Mohamed Atta la mattina dell’11 set-

tembre 2001, gli avrebbe trovato addos-so solo un banale taglierino. Se gli agenti spagnoli avessero perquisito gli stragisti di Madrid tredici giorni prima degli at-tentati dell’11 marzo 2004, non sarebbe-ro riusciti a sequestrare nemmeno un grammo di esplosivo. E se la polizia in-glese avesse fatto irruzione nella casa-covo dei quattro integralisti ventenni che il 7 luglio 2005 si sono fatti saltare in aria a Londra, provocando 56 morti, avrebbe scoperto solo fertilizzanti agricoli, aceto-ne e altre sostanze legali e facili da repe-rire, mescolate in una vasca da bagno.

Per capire quanto sia difficile contra-stare la minaccia del terrorismo jihadista, rilanciata e amplificata dalle guerre reli-giose in corso dal Nord Africa al Medio Oriente, si può partire dai più famosi precedenti storici. L’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono, con il suo bilan-cio di quasi tremila morti e le sue conse-guenze epocali, è stato eseguito da dician-nove dirottatori-kamikaze che non ave-vano neppure un’arma da fuoco. Le 191 vittime della mattanza sui treni di Madrid sono state dilaniate da quattro valigie di esplosivo, che i terroristi ultra-integralisti salafiti avevano comprato (da un ladro spagnolo) appena dodici giorni prima. Mentre per la strage nel metrò di Londra, come a Casablanca e in molti altri eccidi, gli attentatori si sono fabbricati le bombe da soli, assemblando in casa prodotti chimici di uso comune. Di qui il problema

che angoscia le polizie di tutto l’occiden-te: come fermare un nuovo terrorismo capace di compiere immani carneficine non solo in totale segretezza, ma riducen-do al minimo anche i reati preparatori?

Tra i poliziotti e carabinieri che lavo-rano nell’antiterrorismo, i più esperti studiano da anni come affrontare questa drammatica sfida investigativa. Molti hanno imparato a riconoscere generazio-ni di capi e gregari delle tante organizza-zioni islamiste, intercettare i loro messag-gi in codice, decifrare i segnali nascosti nelle lingue e dialetti locali, collegare e valorizzare i minimi indizi. Ma la risposta definitiva dello Stato spetta alla giustizia italiana nel suo insieme. Che non sempre e non ovunque sembra essersi dimostrata all’altezza del compito di trovare un giu-sto equilibrio tra le esigenze collettive di sicurezza e i sacrosanti diritti di difesa. Soprattutto nei processi d’appello, molte inchieste importanti sono state azzerate da assoluzioni e scarcerazioni quantome-no discutibili. Sentenze molto garantiste,

forse troppo. Che hanno rimesso in liber-tà personaggi che oggi appaiono impres-sionanti, almeno col senno di poi. “L’E-spresso” ha ricostruito una dozzina di casi di jihadisti conclamati che la giustizia italiana non ha potuto o saputo fermare: arrestati per il nuovo reato di terrorismo internazionale, sono stati assolti, ma si sono prontamente riciclati come recluta-tori, combattenti, attentatori suicidi e perfino comandanti militari o feroci ide-ologi delle guerre sante che stanno insan-guinando interi Paesi come Libia, Siria o Iraq. Conflitti che attraggono migliaia di volontari anche dall’occidente, che si ar-ruolano nelle milizie più crudeli, spesso collegate a reti integraliste ramificate da anni in mezza Europa, Italia compresa.

Uno dei casi giudiziari più controversi si apre nel novembre 2008. Nel porto di Bari la polizia di frontiera ferma un cam-per in arrivo dalla Grecia. All’interno sono stipati cinque immigrati senza per-messo. A trasportarli in Italia sono due strani viaggiatori: un sessantenne siriano

Primo Piano isis / le falle italiane

Porte aperte ai JIHADISTI

Accusati in tutta Europa ma assolti nel nostro Paese. Ecco le storie dei miliziani islamici che i giudici non riescono a punire

Di paolo bionDani

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che vive in Belgio, Bassam Ayachi, lunga barba bianca e tunica da religioso, e un trentenne francese convertito all’Islam, Raphael Gendron, entrambi arrestati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, come se fossero due scafisti. Quando i loro nomi entrano nella banca dati delle polizie europee, però, a Parigi e Bruxelles scatta l’allarme: Ayachi è sche-dato come “l’emiro” di una pericosa or-ganizzazione pan-islamista, con base in Belgio, che indottrina giovani cresciuti in Europa, per mandarli a morire da marti-ri combattendo (allora) in Iraq e Afgha-nistan. Gendron è il suo braccio destro e nel suo bagaglio la Digos trova dvd e pen-drive con un archivio inquietante: documenti di Al Qaeda tradotti integral-mente, decine di nomi e foto di integrali-

sti partiti per la guerra santa, scene cruen-te di addestramento alla battaglia, perfi-no testamenti firmati da ventenni convin-ti a immolarsi in nome di Dio.

Le autorità belghe e francesi trasmet-tono alla giustizia italiana interrogatori e intercettazioni che indicano Ayachi come il leader indiscusso di una rete terroristica transnazionale attiva fin dagli anni No-vanta, con spaventose connessioni. L’e-miro fermato a Bari, per dirne una, ha celebrato personalmente le prime nozze di una delle più inquietanti figure femmi-nili del jihad internazionale, Malika El Aroud, marocchina trapiantata in Belgio, vedova di due martiri. Il suo primo mari-to era il kamikaze belga-tunisino che si è fatto esplodere in Afghanistan il 9 settem-bre 2001, riuscendo a uccidere il leggen-

dario comandante anti-taliban Ahmed Shah Massud e a decapitare così il fronte contro Al Qaeda due giorni prima dell’at-tacco alle Torri Gemelle; il secondo, arre-stato più volte tra Svizzera e Belgio, risul-ta morto due anni fa combattendo al fianco dei taliban pakistani in Afghani-stan. Malika stessa, condannata per ter-rorismo, è tuttora in carcere in Belgio.

Informati che la polizia italiana ha catturato i due pesci più grossi, i magi-strati belgi e francesi continuano a inda-gare su una quindicina di presunti com-plici dell’emiro, che vengono tutti con-dannati. In quei processi l’accusa dimo-stra, tra l’altro, che l’organizzazione di Ayachi era nata come centrale ufficiale di traduzione e diffusione dei proclami terroristici di Osama Bin Laden e del suo successore Ayman Zawahiri. In Italia invece la giustizia si rivela molto più ga-rantista. Da un verdetto all’altro, tra ec-cezioni ammazza-prove e formalismi procedurali, sembra quasi che si ripeta il vecchio copione dei processi a Cosa No-stra, nei decenni che hanno preceduto la storica maxi-sentenza del 30 gennaio 1992, quando le accuse ai mafiosi cade-vano una dopo l’altra e alla fine vinceva sempre l’insufficienza di prove.

In primo grado, nel giugno 2011, Aya-chi e Gendron vengono condannati a otto anni di reclusione. Nel luglio 2012 la corte d’appello li assolve a sorpresa, ma la Procura impugna e la Cassazione an-nulla il verdetto innocentista. Ayachi, tra l’altro, aveva fatto l’errore di rivendicare la sua fede in Al Qaeda spiegando di aver chiamato il figlio minore Mohamed Atta «perché lo considero un eroe». I suoi di-fensori italiani però, con arringhe magi-strali, convincono i giudici che «non si può condannare nessuno per le sue idee, per quanto sembrino inaccettabili». Molto probabilmente sul processo di Bari pesano i disastrosi precedenti di al-cune montature orchestrate dai nostri vecchi servizi segreti nell’ansia di fare colpo dopo l’11 settembre, come le cele-bri assoluzioni dei tre pescatori egiziani di Anzio ingiustamente accusati di terro-rismo nel 2002 o la fanta-scuola per Fo

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Primo Piano

kamikaze milanesi inventata nel 2005 dal generale Pollari. Fatto sta che l’onda ga-rantista di ritorno premia anche i due imputati di Bari, che il 3 aprile 2014 vengono assolti anche nel nuovo proces-so d’appello. Intanto altri giudici di se-condo grado hanno scagionato Gendron pure per il traffico di immigrati e ridotto a soli due anni, ormai scontati, l’unica residua condanna di Ayachi. Scarcerati dall’Italia, l’emiro e il suo fedelissimo collezionista di testamenti tornano beati in Belgio. Da dove ripartono segretamen-te per la Siria. Gendron, il francese con-vertito, si arruola in una milizia islamista e muore combattendo ai primi di aprile, proprio mentre l’Italia lo assolve. L’emiro Ayachi sostiene di essere in Siria solo per portare “aiuti umanitari”, ma secondo la polizia belga è l’ideologo di una fazione in guerra, come confermano anche le foto, diffuse dalla sua stessa organizza-zione, che lo ritraggono con un kalash-nikov sulle ginocchia, circondato da jiha-disti con i mitra e le bandiere nere. Ora l’emiro assolto in Italia ha un martire anche in famiglia: suo figlio maggiore, Abdel Rahman Ayachi, che era diventato il comandante di un battaglione con oltre 500 combattenti chiamato “I falchi della Siria”, è morto in battaglia nel 2013. Perso il capo, i suoi miliziani, per lo più

non siriani, sono confluiti nei maggiori eserciti jihadisti: i qa-edisti di Al Nusra e i tagliatori di teste del califfato dell’Isis.

Il caso di Ayachi spiega anche perché la nostra centrale di po-lizia antiterrorismo (Dcpp) ha saggiamente deciso di tenere sotto controllo, nei limiti del possibile, tutti i residenti in Ita-lia (cittadini o stranieri) che ri-sultano partiti per una guerra santa, compresi gli assolti, che oggi combattono soprattutto in Siria e Libia. Il battaglione del figlio di Ayachi aveva reclu-tato già prima del 2013 almeno 22 belgi di Anversa, attratti da una micidiale propaganda dif-fusa su Internet con il marchio di “Sharia4Belgium”. Anche per questo la Digos di Brescia aveva co-minciato a sorvegliare l’ormai famoso ventenne di Vobarno, Anas El Abboubi, nato in Marocco ma cresciuto in Italia da quando aveva sette anni, noto anche co-me il rapper “Mc Khalifh”. Nel 2012, proprio mentre quel network jihadista, molto forte nei Paesi Bassi e in Gran Bretagna, incita i musulmani europei alle rivolte di strada, Anas chiede alla questu-ra di poter organizzare una manifestazio-

ne contro un pessimo film di un reazio-nario californiano, che fu usato come pretesto per l’assalto terroristico in cui fu ucciso l’ambasciatore americano in Li-bia. Il ventenne firma la sua richiesta a nome di “Sharia4Italy”, sigla mai com-parsa prima in Italia e dichiaratamente collegata alla rete estera. Intercettandolo al computer, la polizia dimostra che Anas scarica e diffonde video di guerra, sermo-ni dei più pericolosi imam integralisti,

tra garantismo e leggi Poco

chiare, i tribunali hanno

rilasciato esPonenti di Primo Piano dell’armata nera. e ora si teme che

Possano tornare Per colPire noi

«La Gran Bretagna è considerata oggi il Paese più in prima linea contro gli jihadisti europei che vanno a combattere per lo Stato Islamico, ma la prima a muoversi sul piano legislativo è stata in realtà la Francia», ci spiega Mathieu Guidère, professore di Islamologia dell’Università di Tolosa. «Ad aprile il ministro degli Interni Bernard Cazeneuve ha fatto approvare la legge “anti-jihad”, inizialmente proposta dal suo predecessore e attuale primo ministro Manuel Valls. Si tratta di un pacchetto che include sia misure di prevenzione, come l’istituzione di un numero verde a cui segnalare parenti e conoscenti sospetti o come la possibilità di vietare l’espatrio a un minorenne su richiesta di un genitore, sia misure di contrasto, che includono una maggiore sorveglianza su Internet, con la chiusura di siti e l’uso di pseudonimi con cui la polizia può partecipare a forum

jihadisti». Il piano francese prevede anche l’espulsione degli stranieri di cui è stata provata la partecipazione a reti terroristiche, l’apertura di processi e il ritiro della cittadinanza (ma solo ai naturalizzati e a quanti hanno doppia nazionalità) per quegli jihadisti che tornano in Francia dopo aver combattuto all’estero. Misure che però non bastano, tanto è vero che a luglio Cazeneuve ha proposto nuovi provvedimenti, come il temporaneo divieto di espatrio per i sospetti fondamentalisti. Non tutte queste norme sono considerate efficaci, altre vanno interpretate e molto rimane a discrezione dei giudici (Un tribunale di Nogent-sur-Seine, nelle Ardenne, ha da poco bandito un ingegnere da un sito nucleare in cui lavora, perché avrebbe legami con dei network islamisti). In Francia sarebbero circa 900 i cittadini e residenti, incluse alcune dozzine di donne, che sono andati a combattere in Siria,

su circa 2-3 mila europei. È il numero più alto dell’Europa occidentale, e infatti non stupisce che qui il 16 per cento della popolazione e il 27 per cento dei giovani guardi con simpatia allo Stato Islamico (Is), secondo un sondaggio di Icm Research. Anche in Gran Bretagna, dove gli jihadisti partiti sarebbero 500 e da cui a giudicare dall’accento proverrebbe il boia dei due giornalisti americani decapitati in Siria, il primo ministro David Cameron ha annunciato, a fine agosto, di voler far approvare una legge che preveda la possibilità di temporanea confisca del passaporto, alla frontiera, nei confronti dei viaggiatori sospetti. In Spagna, dopo un incontro con il suo omologo francese Cazeneuve, il ministro degli Interni Jorge Fernández Díaz ha annunciato invece di voler «includere nella definizione di terrorismo» anche l’addestramento passivo dei jihadisti,

Da Parigi a Londra, tutti corrono ai ripari DI DanIele CastellanI PerellI

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inni al martirio, inviti a sgozzare i nemici. Anas viene arrestato il 12 giugno, ma dopo due settimane riconquista la libertà: i giudici del riesame stabiliscono che non si può accusarlo di “addestramento al terrorismo”, perché si è comportato da reclutatore jihadista solo qualche volta, mentre per arrivare a una condanna in Italia la polizia dovrebbe provare un’at-

tività «sistematica, non occasionale». Appena scarcerato, il ventenne contatta una rete di violenti predicatori albanesi e kosovari. E a quel punto parte per la guerra in Siria, da dove pubblica su Inter-net una foto con il mitra in spalla, sotto il nome di Anas Al Italy, “Anas l’italiano”. Ma nemmeno quel suo autoritratto ar-mato potrebbe bastare alla giustizia ita-

liana: il nostro codice, in attesa di una riforma ora ventilata anche dal ministro Alfano, punisce solo i mercenari che vanno in guerra all’estero per soldi.

Tra i diversi casi di integralisti assolti in Italia, ma diventati guerriglieri o terro-risti all’estero, non mancano altre vicende controverse. Un esempio: nel 2011 la polizia di Catanzaro arresta l’imam di Sellia Marina, Mohammed Garouan, insieme al figlio Brahim. Tra le prove spunta un loro video con le tecniche per farsi una cintura esplosiva da kamikaze. I giudici del riesame però annullano gli arresti. Tornati liberi, i due predicatori vengono puntualmente segnalati in Siria. Dove Brahim, il figlio dell’imam, è entra-to nella lista degli otto “jihadisti d’Italia” che risultano morti in battaglia.

Vive e lotta tuttora in Libia, invece, l’italo-tunisino Moez Fezzani, uno dei tre ex prigionieri di Guantanamo che nel 2011 furono consegnati dagli americani all’Italia. A Milano Fezzani è stato inqui-sito ininterrottamente dal 1997 al 2012 in una successione di processi, ma ne è uscito sempre assolto in appello. Scarce-rato dall’Italia, ora combatte in Libia con Ansar Al Sharia, la più pericolosa milizia jihadista. Ma è stato segnalato alla nostra polizia anche come stratega di una rete di reclutamento che avrebbe inviato «centi-naia» di jihadisti anche in Siria. Con l’incubo qualcuno torni in Italia. n

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quello cioè mirato all’apprendimento di tecniche terroristiche senza l’intenzione di adottarle nell’immediato. In America qualche repubblicano propone la revoca della cittadinanza, ma in Europa non si può fare, per via di un trattato dell’Onu firmato dai Paesi dell’Ue. Vi si potrebbe ricorrere solo per chi ha doppia nazionalità, e proprio su questo terreno intende muoversi ora l’Olanda. Va ricordato infine che molte leggi sono state già approvate in questi anni per combattere i terroristi islamici di casa nostra, sia dopo l’11 settembre 2001 sia dopo gli attentati di Atocha (2004) e di Londra (2005). In altre situazioni, poi, sembra difficile fare di più. È il caso ad esempio della Germania, da dove sono partiti in oltre 400 e dove la Cancelliera Angela Merkel ha giustificato l’invio di armi ai curdi proprio con la necessità di combattere jihadisti che un domani potrebbero attaccare l’Europa. Qui i partner di governo, Cdu e Spd, sono divisi

sul da farsi. I socialdemocratici sostengono che non c’è bisogno di nuove leggi, mentre i cristianodemocratici di Angela Merkel aprono il dibattito, anche se il ministro degli Interni Thomas de Maizière, della stessa Cdu, ricorda quanto sia difficile in certi casi provare che si sia davvero davanti a un jihadista tedesco che ritorna dal Medio Oriente. Inoltre il ricordo dell’esperienza nazista ha reso molto difficile la revoca della cittadinanza, mentre togliere il passaporto per fermare chi espatria è inutile, visto che gli jihadisti di solito passano per la Turchia, che si può raggiungere dalla Germania anche solo con la carta d’identità. L’unico provvedimento che sembra attuabile è la messa al bando dell’Is in quanto organizzazione terroristica. «È giusto punire le azioni terroristiche, o la loro preparazione, ma processare le intenzioni può essere pericoloso», conclude Guidère, «perché si entra nella sfera dell’arbitrario e si rischiano di creare tensioni e di generare nuovi terroristi».

dA SInISTrA: COnTrOLLI AnTITErrOrISMO ALL’AErOPOrTO dI FIUMICInO E nELLA METrO dI MILAnO

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Noi, i liberali, abbiamo un fottu-to problema, quando dobbia-mo far fronte al radicalismo di stampo islamista». Usa pro-prio la parola «fucking», Ha-

nif Kureishi per descrivere quanto sia diffi-cile mettere in atto una strategia convincen-te e vincente per sconfiggere quel morbo che ha contagiato tanti giovani nati, cresciuti, educati nella multiculturale e tollerante società britannica, e che invece hanno scelto la via del jihad, della guerra santa contro gli infedeli occidentali e i “non sufficientemen-te fedeli” correligionari. Kureishi è un ses-santenne scrittore, drammaturgo, cineasta, nato a Londra da padre pakistano e madre inglese. È diventato famoso, a metà anni Ottanta, con il film “My Beautiful Laun-drette” (con la regia di Stephen Frears), in cui metteva in scena il rapporto gay tra un giovane pakistano e un ex fascistello locale nella capitale britannica, sullo sfondo del razzismo e dell’incomprensione tra le co-munità. Ma si è trasformato in un autore di culto, quando nel 1990 pubblicò il roman-

zo “Il Budda delle periferie”. L’incipit di quel libro: “Mi chiamo Karim Amir e sono un vero inglese dalla testa ai piedi, o quasi”, era diventato il manifesto della nuova identità britannica. Quelle parole ripren-devano un altro incipit, degli anni Cin-quanta negli States, e dove l’ebreo di origi-ni russe Saul Bellow scriveva: “Sono un americano nativo di Chicago” (“Le avven-ture di Augie March”). «Era un modo per affermare che la Gran Bretagna non è più un Paese per i soli bianchi, per gente coi nomi inglesi. I protagonisti della letteratura inglese finora si chiamavano Charles, Sara, Mathilda. Io invece volevo dire, noi, i figli delle colonie, siamo qui, facciamo parte di questo Paese», chiosa Kureishi.

L’occasione per questo colloquio in cui si affronta la crisi di quel modello di inte-grazione difficoltosa e contraddittoria, ma pure sempre integrazione degli immigrati e dei loro figli, è l’arrivo dello scrittore al Festival Pordenonelegge, dove verrà pre-sentato il suo più recente romanzo “L’Ulti-ma parola” (Bompiani, come tutti i suoi

testi in Italia). E da quel libro, dove al centro c’è il rapporto tra Mamoon, un immigrato famoso, scrittore britannico di origini indiane e un giovane inglese dell’up-per class, suo biografo, parte questa con-versazione. Anche perché quel romanzo (di risvolti comici) è una metafora delle diffi-coltà di definire che cosa sia un’identità.Mamoon, l’indiano e sua moglie Liana, un’ita-liana, si comportano come se fossero una coppia di signorotti di campagna britannici. Esistono ancora inglesi così?«È un modello coloniale. Per duecento anni, si pensava che il modo di vivere dei benestanti bianchi inglesi fosse il migliore

Primo Piano IsIs / Il fascIno dell’IntegralIsmo

A me ricordano le BrI giovani che vanno in Siria credono

nella Rivoluzione. Come le reclute degli anni di piombo. L’analisi di

un grande scrittore anglo-pachistanocoLLoquio con hanif kurEishi di wLodEk goLdkorn

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possibile al mondo. Mio padre pakistano diceva di certe persone: è un gentleman. Era questione di potere. Detto questo, essere britannici oggi non significa più niente. Forse la sua icona più significativa è David Bowie, l’uomo di mille identità mutanti».E allora come mai oggi dobbiamo far fronte a un fenomeno come John “il jihadista”, rapper londinese, cresciuto su canzoni di Bowie e che poi va in Iraq e decapita giornalisti occi-dentali, in nome dell’Islam?«Si tratta di giovani che credono nella Ri-voluzione. E che hanno una visione utopi-stica del futuro. Non si scandalizzi, ma io vedo forti analogie coi bolscevichi. Lenin e i suoi seguaci erano persone istruite, fre-quentavano la migliore letteratura e cultu-ra dell’epoca, erano figli della classe media. Avevano una visione dell’avvenire chiara. Erano ben organizzati e hanno preso il potere in Russia».Ma l’utopia bolscevica era illuministica, razio-nalista. Trotzkij usava il linguaggio della Ri-voluzione francese. L’utopia dell’Islam politi-co è invece irrazionale, il linguaggio è incom-prensibile per una mente occidentale.«Le differenze sono solo apparenti. In Italia negli anni Settanta c’erano dei gio-vani ben istruiti diventati terroristi e as-sassini in nome di un’utopia marxista. E anche qui in Inghilterra non si scherzava. Tutti i miei amici erano comunisti e mar-xisti e volevano sequestrare o ammazza-re i capitalisti. Un mio amico, con cui stasera vado a prendere un aperitivo era

maoista. Oggi sembra una follia. Io penso che essere stati maoisti sia altrettanto ir-razionale che aderire all’islamismo radi-cale. E non vedo qual è la differenza tra chi vuole realizzare alla lettera gli inse-gnamenti del Corano o del Profeta e chi pensava di farlo in base al Libretto rosso di Mao. Aggiungo, non c’era niente di razionale e illuministico nell’essere mar-xista in Cambogia. Pensi a Pol Pot, edu-cato alla Sorbona e genocida».Sta dicendo che percepire come più vicino un allievo di un’università parigina che parla di Hegel, di un islamista che cita invece le gesta del Profeta e sogna il Paradiso sia solo un’illu-sione di noi bianchi, occidentali, colonialisti?«In ambedue i casi si tratta di sistemi gestiti e guidati da personalità paranoiche e intel-ligenti. Sistemi che si trasformano in culture della morte. Mi spiego: la caratteristica principale dell’utopia realizzata è il tentati-vo di distruggere ogni complessità sociale. Di creare una società omogenea. È questo che voleva Mao ed è questo che sognavano i suoi seguaci occidentali, a Londra come a Roma. Quindi, il nemico è chiunque affer-ma, con la parola o con modi di vita, che gli umani abbiano più di una sola identità. E per quanto riguarda gli islamisti radicali: dicono che la loro identità stia nel Corano. E il Corano è dato da Dio, quindi non può essere oggetto di critiche o discussioni. Il fondamentalismo è questo. Ma non c’è solo ideologia».Si spieghi.«La diffusione di questo tipo di Verbo, oltre all’utopia si basa su fatti sociali. Stiamo parlando di Paesi come Egitto, Iraq (ma l’elenco potrebbe essere lungo) gestiti per decenni da governanti fascisti corrotti e senza scrupoli. E che hanno la-sciato dietro di sé il vuoto e il caos. Ecco

perché gli islamisti sono percepiti spesso come rivoluzionari liberatori».Lei ha scritto un racconto profetico “Matri-moni e decapitazioni”. Il protagonista è un operatore tv cui viene chiesto di filmare le decapitazioni, appunto. Guardando i video diffusi dallo Stato islamico oggi si ha l’impres-sione di avere a che fare con una messa in scena sofisticata e professionale e con una specie di estetica raffinata e nichilistica.«È un tentativo di terrorizzare l’Occidente. Come l’11 settembre. Il messaggio è: pos-siamo colpirvi quando e come vogliamo. Tutto quello che loro dicono e pensano è nichilista. Ho detto che si tratta di una cul-tura della morte: eliminiamo una dopo l’altra le varie “impurità”. Però, chi la pro-pugna finirà per autodistruggersi, come è accaduto a Hitler. Ma sarà un processo lungo. Un ciclo che temo durerà almeno una decina di anni. E siccome stiamo parlando dell’anima dell’Islam, io penso che questo nichilismo, questo radicalismo utopico debba essere combattuto e sconfitto dai musulmani stessi».Perché non lo fanno?«Perché gli islamisti sono forti e armati. I maschi hanno il potere, le donne sono soggiogate. E chi si oppone ai radicali viene bollato come rinnegato e schiavo dell’Oc-cidente. È difficile resistere a questo tipo di demagogia. Io continuo a discutere con loro, ma è faticoso».Gli argomenti dei liberali sono deboli di fronte al fanatismo? «Il liberalismo vorrebbe che ognuno possa fare quello che vuole. I veri limiti di questa dottrina li abbiamo scoperti con l’affare dei “Versetti satanici”. In quell’occasione ab-biamo capito che con chi vuole uccidere uno scrittore solo perché ha scritto un ro-manzo non possiamo essere tolleranti». n Fo

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Il primo a parlare sarà David Grossman, spiegando come è difficile essere uno scrittore in Israele, convivendo con la guerra senza rinunciare mai alle proprie idee, sostenendo quello che ha definito «il dovere della speranza». La quindicesima edizione di Pordenonelegge si aprirà proprio con la situazione più dura, quella dei conflitti mediorientali. Il festival è riuscito a imporsi proponendo una visione della letteratura calata nelle realtà contemporanea, discutendo le contraddizioni della storia nella contaminazione con cinema e poesia. Quest’anno, dal 17 al 21 settembre, nella città friulana si ritroveranno alcuni degli scrittori più importanti del momento. Un elenco lunghissimo, che oltre a Kureishi comprende Chuck Palahniuk, Yasmin Khadra, Katherine Pancol, Francesco Piccolo, Antonio Scurati, Francesco Pecoraro, Tiziano Scarpa, Nicolai Lilin, Marcello Fois, Andrea De Carlo e Mauro Covacich.Uno spazio importante è stato riservato alla storia e alla filosofia con Ulrich Beck, Massimo Cacciari, Luciano Canfora, Giulio Giorello, Vito Mancuso, Massimo Recalcati.

La letteratura nella terra del conflitto

LA deCApitAzione di jAMeS FoLey. A SiniStrA: LA CoMunità pAkiStAnA di LondrA e Sotto Lo SCrittore ingLeSe AniF kuireiShi

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Da 11 a 20 milioni di euro in tre settimane. Nel calciomercato una plusvalenza simile sareb-be impossibile. Nel mercato immobiliare del calcio, invece,

è successo. Il 23 gennaio 2008 un intero piano del palazzo di piazzale Flaminio 9, in pieno centro di Roma, è stato venduto da Beni Stabili Gestioni sgr alla Vispa 07 per 11 milioni. Il 14 febbraio 2008, venti-due giorni dopo, la Vispa 07 ha girato la proprietà per 19,7 milioni di euro alla Lnd servizi, società di capitali fondata il 21 gennaio 2008 e interamente controllata dalla Lega nazionale dilettanti. A firmare il passaggio di proprietà finale è stato l’allora numero uno della Lega dilettanti, Carlo Tavecchio.

Con i soldi provenienti dai 14 mila club iscritti alla Lnd, il neo-presidente della Fe-dercalcio ha conquistato 46 vani, sei soffit-te, una fetta di terrazza con vista su piazza del Popolo, quattro cantine e dieci posti auto più che necessari vista la scarsità di parcheggi ai piedi della collina del Pincio. Stando alle dichiarazioni della Lnd, non è stato speso denaro pubblico per comprare la reggia di piazzale Flaminio perché i con-tributi annuali versati dal Coni, cioè dallo Stato, alla Lnd sono destinati unicamente a sostenere l’attività dilettantistica e a pagare gli arbitri. Bisogna fidarsi sulla parola per-ché, come accade con altre federazioni sportive affiliate al Coni, la Lega dilettanti non pubblica sul web il suo bilancio.

Ex bancario con fama di uomo accorto e attento al denaro, Tavecchio avrebbe ri-sparmiato il 45 per cento sull’acquisto se si fosse rivolto direttamente a Beni Stabili Gestioni. Il ragionamento si può fare anche all’inverso: Beni Stabili Gestioni, che aveva conferito i suoi appartamenti di piazzale Flaminio 9 al veicolo Securfondo, avrebbe potuto ricavare l’82 per cento in più, se solo avesse venduto direttamente al ragio-niere di Ponte Lambro (Como).

In questo modo, la megaplusvalenza è stata incassata dalla Vispa 07, creata pochi mesi prima dell’affare con Tavecchio (nel 2007, appunto) e amministrata da Cesare Anticoli, un commerciante romano classe 1928 che gestisce vari immobili nel centro della capitale.

Il colpo di mercato della Vispa fa impal-lidire anche la transazione lampo su via della Stamperia 64, altro edificio romano di pregio al centro di una triangolazione da

26 a 44 milioni di euro (57 per cento di plusvalenza) e di un’inchiesta della magi-stratura. Tanto in via della Stamperia come in piazzale Flaminio a godersi i frutti è stata la società di interposizione tra vendi-tore originale e acquirente finale.

Bisogna però aggiungere che in un altro caso la Vispa è stata meno fortunata. Fra il dicembre 2007 e il gennaio 2008 la società amministrata da Anticoli ha intermediato anche la cessione del quinto piano di piaz-zale Flaminio 9, quello sopra gli uffici di Tavecchio. A comprare è stato il Mediocre-dito italiano (gruppo Intesa) per un prezzo vicino a quello della prima cessione da Se-curfondo a Vispa 07 (9,2 milioni di euro).

Chi siano gli azionisti di Vispa 07 non è dato sapere. I proprietari dell’immobiliare sono schermati dalle fiduciarie Finnat e Fedra del gruppo Euramerica di Giampie-tro Nattino, grande custode dei segreti fi-nanziari di Roma di qua e di là dal Tevere,

visto che è stato consultore della prefettura economica del Vaticano e che è legato alla vecchia dirigenza dell’Apsa, l’amministra-zione del patrimonio della sede apostolica riformata da papa Bergoglio.

Il gruppo Euramerica ha anche una par-tecipazione di minoranza in Beni Stabili Gestioni, la società che ha gestito il fondo chiuso Secur fino alla cessione di tutto il portafoglio. I quotisti, ossia chi ha investito i soldi in Securfondo, non saranno conten-ti così come non lo saranno i detrattori di Tavecchio. La vicenda di piazzale Flaminio si aggiunge alla gestione del business per pochi intimi dei nuovi campi in sintetico, estesi a molti impianti del calcio dilettanti-stico sotto la vigilanza di Tavecchio, e alle gaffe del ragioniere di Ponte Lambro. Il presidente del calcio italiano è tuttora sotto scacco per l’inchiesta della stessa Uefa sul capitolo “Optì Pobà e mangiabanane”.

Il verdetto della Disciplinare europea è

Esclusivo calcio & aFFaRi

Immobiliare TavEcchIoUn palazzo nel cuore di Roma. Pagato venti milioni, quando ne valeva 11 pochi giorni prima. Con la firma di mister FigcDi gianfrancesco turano

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slittato quanto meno a metà settembre ma potrebbe arrivare alla fine del mese. Nel frattempo, Tavecchio ha ribadito di avere scritto una lettera di scuse alle 53 federazio-ni continentali e, finché non sarà emessa la sentenza, si è impegnato a non partecipare a eventi Uefa incluso il convegno romano degli scorsi giorni sul razzismo (“Respect diversity 2014”). Intanto, ha incassato l’assoluzione della giustizia sportiva italia-na e si mostra fiducioso dopo la mail di sostegno alle decisioni della Figc spedita da

Sepp Blatter, grande capo della federazione mondiale che in un primo momento aveva criticato lo sketch razzista su Optì Pobà.

Allo stesso tempo, Tavecchio sa bene che il Coni di Giovanni Malagò continua a te-nere i fucili puntati su di lui. La “sorpresa” annunciata dal presidente del comitato olimpico italiano non è arrivata, finora. Né è mai stato esplicitato in che cosa consistes-se. Secondo fonti accreditate, si trattava di spostare in Federcalcio Michele Uva, attua-le direttore generale di Coni servizi e braccio

destro di Malagò. Alla fine, è stata scartata ogni forma di cogestione, con Uva che resta il principale candidato alla gestione com-missariale della Figc qualora l’inchiesta dell’Uefa si chiudesse con una condanna e una sospensione.

Se Tavecchio, dopo i disastri di comuni-cazione iniziale, ha adottato una politica del basso profilo, lo stesso non si può dire di Claudio Lotito. Il proprietario della Lazio, grande elettore di Tavecchio, si è incorona-to presidente federale facente funzione pur essendo sulla carta soltanto uno dei ventu-no consiglieri federali della Figc.

L’ubiquità lotitiana ha messo in imbaraz-zo lo spogliatoio della nazionale alle prese con una faticosa ricostruzione dopo la figu-raccia di Brasile 2014 ed è diventata un tormentone del web con fotomontaggi che mostrano il presidente biancoceleste alla conferenza di Yalta, sulla luna con gli astro-nauti dell’Apollo 11 e all’Ultima cena leo-nardesca come tredicesimo apostolo.

Le previsioni dell’11 agosto, quando il giudice amministrativo Pasquale De Lise ha incoronato il nuovo presidente della Figc, sembrano quindi confermate. Tavec-chio ha portato i voti necessari a vincere le elezioni ma resta un vaso di coccio confina-to a un ruolo di rappresentanza per conto del blocco di potere dominante: l’onnipre-sente Lotito e l’amministratore delegato del Milan Adriano Galliani. n

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«Noi siamo in questo momento protesi a dare una dignità anche sotto l’aspetto estetico della donna nel calcio perché finora si riteneva che la donna fosse un soggetto handicappato rispetto al maschio sulla resistenza, sul tempo, sull’espressione anche atletica. Invece abbiamo riscontrato che sono molto simili» 5 maggio 2014 intervista Rai

«Se l’inadeguatezza dipende dalla statura, io sono alto un metro e sessantuno. Sono stato il primo sindaco democristiano che ha fatto una giunta con un comunista. Io ricordo solo una cosa, di una persona che non stimo: Stalin. Lui diceva che contano solo i fatti. Io ho dei fatti. Se ce ne

sono altri che hanno dei fatti, li mettiamo sul tavolo e vediamo», 9 luglio intervista Rai

«L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano se hanno professionalità per farli giocare. Noi invece diciamo che Optì Pobà è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare della Lazio. E va bene così. In Inghilterra devi dimostrare il suo curriculum e il suo pitigrì (pedigree)» 25 luglio conferenza stampa

«L’assassino di John Kennedy non ha subito quello che sto subendo io in questi giorni» 3 agosto dopo le polemiche su Optì Pobà

«Vorrei fare un appello alla vostra cortesia: concedetemi il beneficio dell’inventario, da ragioniere. Con le parole non sono mai stato a mio agio» 11 agosto dopo la nomina a presidente della Figc al terzo ballottaggio

«Conte spenderà in Italia fondi che vengono dagli Usa, ma non avrà pressioni. La Puma non farà nessuna formazione», 15 agosto per spiegare il contributo finanziario del main sponsor dell’Italia all’ingaggio del nuovo commissario tecnico

«Capiranno. Mi difenderò nei temi che credo di non essere razzista». 4 settembre 2014 prima dell’amichevole Italia-Olanda, con il debutto sulla panchina azzurra di Antonio Conte

Così parlò il Presidente

DA SINISTRA: CARLO TAVECCHIO E LA GIOIA DEGLI AZZURRI DI CONTE DOPO IL GOL CON L’OLANDA

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Attualità napoli / l’ultima emergenza

davide Bifolco avrebbe compiuto diciassette an-ni tra due settimane. In-vece è morto, mentre cercava di fuggire a un controllo. Uno dei cara-binieri che lo inseguiva-

no ha sparato: un unico colpo, letale. «Sono scivolato, è stato un incidente», si è difeso il militare. L’omicidio ha provocato la rivolta del rione Traiano che segna il confine tra il quartiere Soccavo e Fuori-

grotta. In questo squarcio di periferia na-poletana tra barricate, assalti contro le forze dell’ordine, urla di dolore dei fami-liari e tanta voglia di vendetta, c’è chi in-voca: «La camorra ci protegge, lo Stato ci uccide». La strada come valvola di sfogo di un malessere più profondo. Di una violenza che scorre sotto la pelle della città e che al primo corto circuito riemerge con la forza di un fiume in piena. Davide non aveva guai con la giustizia, non aveva un lavoro, non aveva finito la scuola

dell’obbligo. Era uno dei tanti ragazzi di Napoli senza futuro, che affidava a Face-book rabbia, emozioni e paure. Un eserci-to di guaglioncelli cresciuti nei sobborghi dove i clan trasformano il degrado in ri-sorsa per “il Sistema”. In questo mucchio la camorra sceglie la sua ultima leva di pistoleri, con il volto da bambini e il revol-ver in tasca. A giugno gli agenti che aveva-no fermato un gruppo di giovanissimi in motorino sono stati bersagliati con mitra e pistole. Tanti adolescenti ingaggiati come

Il sedicenne innocente ucciso dal carabiniere. E una città di baby camorristi senza futuro. Che ora guidano lo storico clan GiulianoDi giovanni tizian

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manovalanza armata, mentre c’è già una famiglia storica interamente guidata da baby-boss, che hanno deciso di scalare i vertici della criminalità locale.

Forcella è sempre stato il termometro del ventre di Napoli, una pancia di vicoli sgar-rupati e ricchezze illecite dove si possono intuire gli equilibri oscuri dei clan. Lì l’eco delle pistolettate ha annunciato tempesta: grilletti facili, che fanno fuoco tra la folla

contro la polizia e sparano solo per sentir-si importanti. Ma non si riesce a capire se è l’ouverture di una guerra di camorra o l’esordio armato di una nuova generazio-ne. Il quartiere infatti è in mano a una masnada di ragazzini, dal cognome impor-tante e l’ambizione smisurata: gangster senza calcolo, senza mentalità mafiosa. Scugnizzi cresciuti troppo in fretta, che vogliono tutto e subito.

Le loro foto su Facebook li mostrano pronti per la serata in discoteca con un dj che ha fatto ballare tutta Europa scanden-do il ritmo ipnotico di “Gallo Negro”. Hanno sguardi eccitati, caricati dalle strisce di cocaina. Piercing al labbro, orec-chini al naso, pelle affrescata di tatuaggi tribali, di nomi di ragazze, di madonne e di croci imitando i campioni come “el Pocho” Lavezzi e Marik Hamsik. Affa- Fo

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Attualità

mati di divertimento, frequentano i mi-gliori locali di Napoli e ogni estate volano a Ibiza per un agosto senza limiti. Insom-ma, sono identici ai loro coetanei. Ma si sentono diversi, impazienti di affermare il loro ruolo nella dinastia criminale dei Giuliano, che per vent’anni ha reso For-cella capitale di una camorra rinnovata: una potenza criminale che è rimasta nella storia per avere ospitato le sere folli di Maradona nella vasca a forma di conchi-glia. Gli inquirenti li chiamano “I nuovi Giuliano”, spesso semplificato in “Giulia-nos” alla maniera dei Sopranos. Somiglia-no terribilmente alla gang ragazzina di Genny Savastano della fiction Gomorra: incosciente, gradasso, incattivito dall’e-ducazione del padre-padrino don Pietro. Non ancora ventenni, incapaci di conce-pire un futuro che non sia soldi e violenza.

Sognano un letto sommerso di quattri-ni. L’ossessione è tale che molti di loro portano come fibbia sui jeans, stretti e col cavallo basso, il simbolo del dollaro. Per il denaro sono disposti a tutto. Ma a dif-

ferenza di chi li ha preceduti non hanno grandi mire o strategie di investimento. Bruciano le mazzette in fretta. Quello che guadagnano con le estorsioni, le rapine, lo spaccio, finisce la sera stessa per lo champagne nei privé delle discoteche dove sono i benvenuti. O per gli abiti griffati nelle boutique che stendono il tappeto rosso al loro arrivo. Guappi che vogliono comandare il rione e poi l’intera città. E sparano. Tanto, troppo. Basta uno sguardo sgradito per mettere mano al revolver. Basta avere una fidanzata che piace a loro. Basta avere un oggetto che loro desiderano. Basta niente e tirano fuori l’arma.

i rAid in scooterPer questo gli investigatori faticano a

interpretare gli ultimi scontri, interrotti solo dalle vacanze agostane. C’è chi teme una vera guerra, tra i Giulianos e i Mazza-rella, gli eredi delle famiglie nate dal con-trabbando che trent’anni fa si coalizzarono per strappare a Raffaele Cutolo il control-lo del centro di Napoli. All’impero com-merciale dei Mazzarella, che gestisce una

holding industriale dei falsi di qualunque genere, serve tranquillità: ogni delitto sca-tena l’attenzione delle forze dell’ordine. Ma non possono tollerare l’invadenza dei giovani leoni. A febbraio quattro ragazzi in motorino si sono lanciati nel territorio dei Mazzarella: come cowboy, in pieno pomeriggio hanno messo in mostra le pi-stole tra la gente, continuando a girare nelle strade. Poi in via Sant’Arcangelo a Baiano, sotto la casa di un boss rivale, hanno cominciato a sparare contro i muri, urlando minacce. Il 25 giugno le pallottole sono volate in piazza Mercato, lasciando a terra due persone. E quando il 9 luglio scorso Oreste Giuliani, classe 1993, è stato abbattuto da una raffica alla schiena sul selciato di via Duomo, i dubbi sono torna-ti a riproporsi: è stato ucciso per uno sgar-ro o è una vittima del conflitto tra clan?

Perché tra gli inquirenti c’è chi pensa che i vecchi schemi siano saltati. E nella frene-sia pistolera dei Nuovi Giuliano vita e morte non significano più guerra e pace, ma sono solo variabili di una ordinaria Fo

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esistenza di strada. Loro vogliano diven-tare i capi, ma esagerano nell’usare il “ferro”, il revolver. Fanno valere la discen-denza diretta con il padrino che conquistò Napoli, ma spaventano i passanti con paranze improvvisate che sparano a salve, forse esercitandosi in vista di esecuzioni reali. Ostentano il loro rango ereditario per piegare i commercianti alle richieste di mazzette (da mille a 100 mila euro, a se-conda della grandezza del negozio). O per aggregare orde di adolescenti, cani sciolti che bramano soldi e potere, “guaglioncel-li” pericolosi perché imprevedibili. È un magma, caldissimo e devastante, che non si stabilizza: non ci sono gerarchie rigide; più che ai mafiosi, somigliano agli ultras della curva da cui hanno ricalcato miti e valori. Copiano stereotipi criminali visti nei film e nelle serie tv, idolatrando lo Scarface di Al Pacino che muore imbrac-ciando il mitra. E fanno proprie espressio-ni e atteggiamenti: «Quella è una tigre e un giorno sarà mia», ha scritto uno di loro qualche giorno prima di essere ucciso. Ma

c’è spazio anche per le frasi pronunciate dai protagonisti de “Il clan dei camorristi”: «Se non ci siamo non ci siamo, ma se ci siamo comandiamo noi e basta». 0 per massime prese dal copione di “Natural born killer”: «Un cacciatore mi disse: vuoi venire a caccia di uccelli? No mi dispiace io vado solo a caccia di cristiani». Il lessico che utilizzano è impregnato di finzione televisiva. Il padrino dello schermo è l’e-sempio da seguire. Consapevoli che la loro vita è appesa un filo, mettono in conto pallottole, agguati e blitz: «Rischiamo

insieme, e moriremo insieme» è la promes-sa tra due fratellini di malavita.

fuoco sulla poliziaSfrecciano senza casco su scooter potenti,

come l’Honda Sh 300 e il Tmax, nuovi status symbol. E non temono le forze dell’ordine. La polizia presidia quelle strade con i Falchi, agenti in borghese su moto enduro. Il 26 giugno una di queste pattuglie ha sorpreso Luigi Giuliano, nipote diciannovenne del padrino, mentre obbligava una persona a inginocchiarsi davanti a lui. Il capo branco non ha esitato: è fuggito sparando. Sette

Un altro Davide a tredici anni faceva la vita da nababbo. Grazie al posto fisso offerto dal Sistema. Era infatti un soldato al servizio dei boss di Scampia. Per conto loro gestiva una piazza di spaccio. «Racimolavo fino a 900 mila lire al giorno. A sedici anni avevo comprato una moto da 11 milioni che per legge non potevo nemmeno guidare. Subivamo il fascino dei capi clan. Ancora oggi è così. C’è un esercito pronto ad arruolarsi, sedotto da padrini in carne e ossa e da quelli delle fiction e dei film». Davide Cerullo adesso ha quasi quarant’anni e ha chiuso con la camorra quando ne aveva ventitré. Dopo una parentesi in Emilia Romagna, dove ha ricominciato da zero, è tornato nel quartiere di Gomorra. Tra le Vele corrose dal degrado e una rete di

associazioni che, con tanta fatica, stanno cambiando il volto di quella che era la più grande piazza di spaccio in Europa. Con la sua onlus Centro Insieme accoglie bambini in difficoltà. Giovanissimi che rischiano di diventare carne da macello. «Il camorrista di oggi è quello che non è mai stato bambino», osserva. Soldi facili, moto, gioielli, vestiti griffati, a questo aspirano i “guaglioncelli”. «La camorra ti concede come favore ciò che lo Stato dovrebbe garantire come diritto, così diventa datore di lavoro, santo protettore da venerare. Quando ero nel Sistema avevo tutto, non mi interessava altro. Tra di noi ci incoraggiavamo con un motto:“si campa ’na vota sola, e bisogna camparla bona”». Ha scritto pure un libro, Davide: “Ali bruciate”, pubblicato nel

2009, è alla quarta edizione. Racconta di quando era una pedina, illusa dalle promesse dei sovrani del quartiere.«Tutto questo un giorno sarà tuo», gli ripetevano. Cerullo si è liberato da quelle catene. E mostra ai giovani di Scampia l’alternativa. Cerca di spiegargli che la malavita non ti lascia niente, se non il lezzo della morte addosso. «L’altro giorno un ragazzo mi ha confessato orgoglioso che era “nu buono”, cioè un camorrista. Allora gli ho risposto che per recitare quel ruolo non ci vogliono le palle ma bisogna essere coglioni. Probabilmente mai nessuno gli ha spiegato che esistono altre strade. Ci vogliono però le alternative. La mancanza di lavoro è umiliante. E porta gli esclusi a bussare alle porte del clan».

Io, ex bambino padrino, vi spiego il male

il boss di forcella ha 21 anni. con

un’orda di coetanei sfida i rivali. e ha

sparato sugli agenti per fuggire

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Attualità

proiettili esplosi durante un inseguimento tra i vicoli, in pieno pomeriggio e con mam-me e bambini a passeggio. Poteva essere una carneficina. Il rampollo non ha imparato niente dalle tragedie del passato, o forse nessuno gli ha mai raccontato il dramma di Annalisa Durante, la quattordicenne am-mazzata per errore proprio in quelle strade dieci anni fa. Il Giuliano adolescente si è costituito qualche giorno dopo: si è conse-gnato in Molise. “Radiocarcere” fa sapere che ha voluto evitare Napoli per non finire in cella a Poggioreale o a Secondigliano. Dove il suo attivismo calibro nove potrebbe venire punito dai vecchi boss degli altri quartieri, sempre più insofferenti per le prodezze di questi ragazzini. Tutti i clan ormai arruolano bambini soldato, ma cer-cano di frenarne gli eccessi. Nella notte del 6 gennaio tre ragazzi in sella a un unico scooter sono stati fermati da una volante. Michele Marzio, venti anni, non ha esitato: ha sparato, ferendo due agenti. Poi ha festeg-giato fino all’alba con cornetti e champagne, baciando la pistola: «Quanto sei bella». La baldoria è finita in fretta: è stato arrestato dopo 48 ore, tradito dalle confessioni dei compagni. Persino la madre ha chiesto per-dono ai poliziotti: «Mio figlio deve pagare». Michelino è ritenuto vicino ai Mazzarella, che hanno interessi troppo grandi per finire nei guai per una bravata.

Lo StAto LAtitAnteAi loro rivali Giulianos invece non interes-

sa la pax mafiosa: non devono gestire appal-ti o traffici internazionali. Fanno soldi con il racket, le rapine o rivendendo droga acqui-stata dai narcobroker sul territorio. Ma sono già i padroni di Forcella e in poco tempo hanno conquistato almeno cinque piazze di spaccio. Ognuna può fruttare anche 20 mila euro a settimana: una bustina di coca scaden-te ormai si trova a 20-25 euro. Il nucleo principale è piccolo: una ventina di fedelissi-mi, tutti imparentati tra loro. Poi c’è la ma-novalanza, la banda di adolescenti pronti a tutto per mettersi in mostra. Insomma, secon-do fonti investigative, tra reclute e piccoli boss sarebbero una cinquantina. Comanda chi porta un cognome di rispetto e ha dimostra-to di non temere nulla. Nelle piazze, i capi restano in disparte e mandano avanti “i sol-dati”, ansiosi di esibire la loro ferocia. Ma sono soltanto ipotesi, visto che manca un’in-dagine completa sui banditi metropolitani di Forcella. «Sono saltati gli schemi classici», spiega un altro investigatore, «sono più simi-

li a gangster che ad affiliati della vecchia fa-miglia che dovevano prestare giuramento e avevano delle regole precise da rispettare».

La procura distrettuale antimafia e la Squadra Mobile non intendono assistere alla crescita di questo clan. Dopo l’omici-dio di Oreste Giuliani, sono scattate per-quisizioni nelle case di quaranta persone ritenute vicine alla gang. Un segnale per

cercare di riconquistare la fiducia del quartiere, terro-rizzato dalle esibizioni dei pistoleri in motorino. «Lo Stato c’è» osserva Geppi-no Fiorenza di Libera Campania «la polizia e i carabinieri controllano il territorio, la procura è at-tenta, ma non basta». Qui le associazioni che cercano di diffondere il seme della legalità portano avanti tante iniziative: «Penso al progetto messo in piedi dal padre di Annalisa Duran-te, una biblioteca a dispo-sizione di tutti gli abitanti di Forcella. Sono queste le

esperienze che vanno sostenute, e che oggi vanno avanti tra mille difficoltà». Ma la presenza delle istituzioni è sempre più ra-refatta. Ci sono simboli come lo storico Teatro Trianon, amato da Totò, finiti all’a-sta per i debiti degli enti pubblici e adesso a rischio speculazione. Ci sono problemi antichi, a partire dalla disoccupazione: «Ci vuole un’overdose di opportunità per i

diego armando maradona, al centro tra due dei vecchi fratelli giuliano. sotto: un adolescente armato a scampia

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giovani di questo quartiere», sottolinea Fiorenza. Ma oggi le alternative al fascino dei baby boss sono poche. E il seguito dei Giulianos si ingrossa ogni giorno. Un po-tere che si materializza nelle orde di scooter che sciamano nei vicoli spingendo sul gas fino a costruire un rombo minaccioso. La Napoli borghese, quella dell’Università Orientale e di corso Umberto, resta dietro l’angolo e teme il peggio.

La scomunicaIl vecchio re di Forcella, Luigi “Lovigi-

no” Giuliano, ha preso pubblicamente le distanze da questi emuli. La sua camorra era un impero solido, che uccideva ma creava consenso sociale. Prima il contrab-bando, poi la droga, il totonero, le scom-messe e infine il gioco d’azzardo. Lui e i fratelli erano manager di un’economia sommersa che sfamava migliaia di perso-ne. Investivano i proventi criminali in atti-vità legali: case, aziende, imprese. Avevano persino messo in piedi una sorta di welfare per i bisognosi, che serviva a fare proseliti-smo negli anni neri del terremoto. Pure il successo dei cantanti neomelodici nasce da loro: producevano i dischi, finanziavano gli artisti. Lovigino si vanta di avere sco-

perto Gigi D’Alessio, con cui scrisse un brano. Un modo per diffondere la loro auto-rità e incassare altro denaro. Era ricco, Luigi “Lovigino” Giuliano. Lo erano anche i suoi fratelli. Talmente ricchi, che uno di loro aveva mon-tato una vasca da bagno a forma di conchiglia nella sua residenza reale incastonata tra i palazzi lesionati dal si-sma. Lì dove Diego Arman-do Maradona veniva a di-vertirsi, tuffandosi nella conchiglia della perversione. Un altro mondo. “O Rre” ha abdicato da tempo: è un col-laboratore di giustizia, che ha messo a verbale omicidi e traffici. È lontanissimo dai vicoli, caduti in mano a quei nipotini che non conoscono regole, né limiti. Che non ascoltano le ballate dei neo-melodici ma sono cresciuti con il martellare della musi-ca elettronica. E se ne frega-no del futuro. n

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NULLA PUò GIUSTIFICARE la morte di un sedicenne, come quella di Davide Bifolco. E i fatti di Napoli ci mettono davanti a due drammatiche vicende umane e sociali. C’è da una parte un ragazzo che alle due e mezzo di notte gira su un motorino con altri due giovani, senza casco, e non si ferma all’alt dei carabinieri. Che in quelle strade sono visti come nemici, ma sono costretti - come il dovere impone loro - a inseguire i fuggitivi. E così, nella foga di bloccarli, un colpo parte dalla pistola di ordinanza, raggiunge il petto del sedicenne e scatena la tragedia che sappiamo. Sarà la magistratura a fare luce sull’episodio. Dall’altra parte c’è l’uomo in divisa, anche lui vittima di un gesto che mai avrebbe voluto compiere. Per questo ha chiesto “con pudore” perdono alla famiglia di Davide. Come le cronache raccontano, Napoli non è una città tranquilla: l’Europa resta lontana. I criminali spesso sono giovanissimi, sono armati e non ci pensano un attimo a sparare, anche contro le pattuglie delle forze dell’ordine. Sotto il Vesuvio ci sono quartieri dove è difficile vestire una divisa senza essere scherniti, perché per molti non è lo Stato a garantire protezione, ma la camorra. Il rione Traiano in cui si è consumata la tragedia non c’entra nulla con la rivolta di Ferguson e con il razzismo: la gente è scesa in strada a protestare con violenza solo contro quello che il carabiniere rappresenta. Mi chiedo come mai quando ci sono state vittime innocenti trucidate dai clan, come la quattordicenne Annalisa Durante, uccisa per sbaglio a Forcella da un sicario, o ancora Lino Romano, ammazzato per errore dai killer, fino a Vincenzo Ferrante, assassinato pochi mesi fa, non ci sono state reazioni così plateali contro i camorristi. Nei quartieri tutti li conoscono, ma nessuno è andato a manifestare sotto le loro case. E nessuno si è affrettato a bussare alla porta degli avvocati dei familiari delle vittime per proporre testimonianze,

video di telecamere che potevano aver ripreso la scena del delitto. Ogni giorno a Napoli e in molte altre città calde poliziotti, carabinieri e finanzieri si trovano a confrontarsi con rischi che pesano molto di più della loro busta paga. Il loro stipendio è bloccato da quattro anni: l’unico sollievo sono stati gli 80 euro concessi dal governo Renzi, perché la maggioranza degli uomini in divisa guadagna al massimo 1.400 euro al mese. Anche gli straordinari non vengono retribuiti. E chi è stato promosso, assumendo maggiori responsabilità, non riceve neppure l’aumento previsto dal nuovo incarico. Insomma, l’impegno nel garantire la sicurezza, il sacrificio di una professione senza orari, il pericolo che si corre ogni giorno non vengono premiati, ma addirittura disincentivati. Per questo i sindacati avevano proposto uno sciopero senza precedenti nella storia del Paese, violando il divieto di astenersi dal lavoro imposto alle forze dell’ordine: il segno dell’esasperazione della categoria. Investimenti sulla sicurezza non se ne vedono. Questo governo si sta accodando sulla scia dei suoi predecessori, sta chiudendo gli occhi davanti ai problemi che vivono tutti i cittadini: dal dilagare di nuove forme di criminalità nelle metropoli meridionali all’aumento vertiginoso di furti e rapine nelle città del Centro-Nord, fino al radicamento delle mafie. Le forze dell’ordine, con sempre più fatica, restano l’unica barriera di fronte al senso crescente di paura. Ma dall’esecutivo arrivano solo slogan, senza passi concreti. Invece di riforme per rendere più incisivi gli interventi, scattano tagli alla cieca che lasciano uffici anticrimine senza mezzi, volanti senza benzina né ricambi, impedendo un controllo mirato del territorio. Invece di premiare il merito e compensare i rischi, si fanno crollare le motivazioni di chi ha scelto la divisa per sentirsi ogogliosamente servitore dello Stato e della comunità.

Lirio abbate

se lo stato umilia i suoi servitori

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Attualità governo / la mappa del potere

Il sottosegretario Graziano Delrio aveva bisogno di passare un po’ di tempo con i nove figli, aveva con-cordato con il premier una settima-na di ferie: «Mi prendo i primi

giorni di settembre». Non si può mai stare tranquilli, con Delrio in vacanza la sua Emilia è andata politicamente a pez-zi, con i due candidati alla presidenza della regione, i renziani Stefano Bonacci-ni e Matteo Richetti, indagati per pecula-to. Ed è ripreso il pressing per candidare il sottosegretario nella regione rossa co-me salvatore della patria. Delrio doveva essere il Gianni Letta di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, ma il ruolo è stato occu-pato da un tandem di toscani. Uno pensa alle nomine, l’altra fa le leggi. Uno, il Lotti, inteso come Luca, sottosegretario, il “fratello minore” di Renzi (Delrio è il “maggiore”), gestisce il potere. L’altra deve trasformare i tweet di Renzi in realtà e del Letta originale ha ereditato l’invisibi-lità. Di sé dice: «Sono un soldato». Una combattente usa a obbedir tacendo, sul fronte più caldo, il passo dopo passo, il giorno dopo giorno, l’ordinaria, infernale quotidianità del governare.

Nel Palazzo hanno smesso di definirla la Vigilessa, come facevano fino a poche settimane fa. È stata a lungo considerata la dirigente che prima di prendere qualun-que decisione avvertiva: «Il presidente dice che...», ora cominciano a temerla, si chiedono dove voglia arrivare. È vertigi-nosamente salita nella gerarchia renziana, informale e difficile da decifrare come una nomenclatura sovietica. Qualcuno la chia-ma la Governante. Perché deve rimettere a posto la babele di decreti fantasma, ri-forme annunciate ma non presentate, ri-valità tra apparati. E fuor di metafora di

confusione al primo piano di Palazzo Chigi ce n’è parecchia: mail, post-it, pen-narelli, fogli svolazzanti, il pallone da rugby che Renzi ha riportato dal vertice Nato in Galles. Sembra una scolaresca irrequieta, invece è lo staff del premier.

Antonella Manzione, 51 anni, lucchese di Forte dei Marmi, ha guidato per anni i vigili urbani di Firenze. Nel suo curricu-lum vanta l’insegnamento di diritto negli istituti superiori, seminari su temi come “Il sinistro stradale”, “Disturbo della quiete pubblica e degrado urbano”, “La guida in stato di ebbrezza: criticità ope-rative al momento dell’accertamento”, pubblicazioni su “I veicoli in stato di fermo, sequestro, confisca e abbando-no”. E il romanzo “Miranda va alla guer-ra”, premio miglior scrittore 2010 (d’Eu-ropa? D’Italia? No, di Toscana), trama autobiografica: «Martina è una donna che, al vertice della carriera, si ritrova con la leadership in discussione...».

Dal mese di maggio ha cambiato ma-terie: giustizia, pubblica ammistrazione, infrastrutture. Catapultata a Roma, alla guida del Dipartimento affari giuridici e legislativi della presidenza del Consiglio (Dagl), da cui passano tutti i decreti e i provvedimenti di legge del governo. Po-sto che in genere spetta a consiglieri di

Stato e giuristi di fama. La Corte dei conti l’aveva bocciata per mancanza di requisiti, poi si sono trovati. La scommes-sa più azzardata del “cambioverso” ren-ziano, quella che lo riassume tutto: tra-sformare una dirigente della provincia toscana nella domatrice di leoni nel circo da cui transitano le leggi del governo. Il pre-consiglio dei ministri, il palcoscenico prediletto da capi di gabinetto, direttori generali, capi degli uffici legislativi dei ministeri che si esercitano nello spettaco-lo d’arte varia della rivalità e del veto, «gente che vive nell’attesa di una telefo-nata da Palazzo Chigi, se non la ricevono impazziscono», racconta uno della schie-ra. Il regno del formalismo giuridico, dove la forma significa sostanza e potere.

Tocca alla Manzione domare le belve feroci dell’alta burocrazia. Antonella va alla guerra. Contro il partito dei consi-glieri di Stato, l’apparato che si sente sfi-dato dalla gioiosa macchina da guerra renziana. E contro il capo di gabinetto del ministero dell’Economia Roberto Garo-foli, il rivale più ostico, oggi con Pier Carlo Padoan, ieri con Enrico Letta, l’uomo che deve approvare le misure del governo dal punto di vista finanziario.

Risultato: il caos. I due decreti che de-vono segnare l’inizio dei mille giorni di Renzi, lo Sblocca-Italia e la riforma della giustizia civile, sono stati approvati nel Consiglio dei ministri del 29 agosto, presentati alla stampa ma si sono poi inabissati, non sono pervenuti per giorni al Quirinale per l’esame presidenziale. Non è la prima volta che accade: il decre-to sulla Pubblica amministrazione del ministro Marianna Madia fu approvato dal governo il 13 giugno, ma arrivò al Quirinale undici giorni dopo. In mezzo,

Ora a Palazzo comandaLA VIGILESSA

Antonella Manzione, ex capo della polizia locale di Firenze, è diventata il vero braccio destro del premier. E decide tutto

Di MARCO DAMiLANO

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giri di bozze come a un tavolo da poker, intere parti cancellate, irritazione del Colle per un testo che di definito aveva solo il titolo. Ora ci risiamo. Nel transito dalle burocrazie ministeriali al pre-consi-glio dei ministri al Consiglio e poi da Palazzo Chigi al Quirinale le norme mu-tano, cambiano pelle, svaniscono. Quella sulle aziende municipalizzate da accorpa-re doveva essere uno dei punti centrali del decreto Sblocca Italia e invece si è volati-lizzata. La riforma della giustizia è ogget-to del braccio di ferro tra la presidenza del Consiglio e il ministero di Andrea Orlando. Per non parlare dei litigi con i dicasteri di spesa più pesanti, Economia e Infrastrutture. Con la Manzione, tipa tosta, riconosciuta come una gran lavo-ratrice, che ha il mandato di avocare a Palazzo Chigi tutti i dossier. E i ministeri che oppongono resistenza. «Non è che i capi gabinetto siano diventati all’improv-viso degli incapaci. Se i testi legislativi non

arrivano sul tavolo della presidenza del Consiglio vuol dire che c’è chi li blocca per poi dare a Renzi la colpa della lentez-za», racconta un dirigente di lungo corso. «È sempre successo che i decreti fossero approvati con la postilla “salvo intese”. Erano decreti-copertina, con i fogli in bianco. Almeno ora abbiamo le slides!».

Ma l’impasse in cui si trova il governo, improvvisazione, sovraffollamento, troppi treni che si accalcano sugli stessi binari, porta il segno della stagione ren-ziana. L’accentramento di tutte le funzio-ni governative nella figura del premier e del suo ristretto gruppo di lavoro (i mini-stri sono ridotti a comparse, ogni nomina e ogni misura va approvata da Palazzo Chigi) cui non corrisponde una macchina in grado di girare a mille e una squadra affiatata. Nei progetti iniziali doveva or-ganizzarla Delrio, ma le buone intenzioni si sono infrante sulla tensione tra il segre-tario generale Mauro Bonaretti, emiliano

come il sottosegretario, e il clan toscano. Ora tocca all’ex vigilessa Manzione. Tra lei e Renzi la fiducia è assoluta, da quan-do l’allora sindaco di Firenze la chiamò a ricoprire un doppio incarico, capo dei vigili urbani e city manager di Palazzo Vecchio. In virtù delle sue capacità, ma anche delle sue parentele. Il fratello Do-menico, magistrato, è stato a lungo pub-blico ministero a Lucca, nella procura diretta da Giuseppe Quattrocchi, che fu promosso capo della procura di Firenze quando Renzi era sindaco. Oggi Quat-trocchi, lasciata la magistratura, è consi-gliere del nuovo sindaco Dario Nardella, Manzione è sottosegretario agli Interni del governo Renzi, l’uomo di fiducia del premier al Viminale. E la sorella è la sen-tinella piazzata a Palazzo Chigi. Passata dalle strade di Firenze alle stanze del po-tere romano, pedina fondamentale del renzismo di governo, quello che non vive di selfie ma che punta a durare. n Fo

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Attualità SPENDING REVIEW / VERSIlIa amaRa

Era la città dei carri. E adesso è diventata la città dei carrozzo-ni. Scatole vuote. Pensioni per politici trombati. Oppure, semplicemente inefficienti. Le

definizioni si sprecano per descrivere le società partecipate (in Italia sono oltre 10 mila) che stanno ingolfando le ammini-strazioni pubbliche. Ma a Viareggio han-no un sapore tutto versiliano. Montagne di debiti, che si sono accumulate negli anni. E che oggi presentano il conto alla città. Metafora di tanti piccoli e grandi comuni stretti nella morsa dei tagli, della spending review, della revisione di spesa. «Scatole vuote», appunto, come le chiama il commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli.

Un elenco di malanni, guai, buchi delle partecipate. Sono almeno tremila quelle

con meno di sei dipendenti e in circa metà delle partecipate dei Comuni ci sono meno dipendenti che persone sedute ai tavoli dei cda. Insomma, se ne può anche fare a meno. Sui “trombati”, invece, è solo que-stione di lessico. Perché, dice Cottarelli, fra le partecipate ci sono «piccole società con il sospetto che molte siano state create principalmente per dare posizioni di favo-re a qualche amministratore o dipenden-te». Ex sindaci che hanno già fatto due mandati, assessori rimasti fuori dalla giun-

ta, candidati non eletti alle elezioni: mada-mine, il catalogo è questo.

E per capire fino in fondo quanto nero sia il buco, bisogna partire appunto dalla Versilia. A Viareggio, famosa certo per il Carnevale, tanto da attrarre nel 1954 Humprey Bogart e Lauren Bacall, ormai sono le partecipate il nuovo tormentone. Ce ne sono 14 per 64 mila abitanti. Una ogni 4.500 persone. E sono le principali responsabili della situazione finanziaria critica del Comune che un tempo festeg-

VIAREGGIO CRACEra la città dei carri, ora è quella dei carrozzoni. Con i buchi delle partecipate che mettono a rischio lo storico CarnevaleDi DAViD ALLEGRAnti

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giava il più bel carnevale d’Italia. E che oggi vive una Quaresima di conti pubblici, che durerà per anni. Il 27 agosto il consi-glio comunale ha approvato il bilancio consuntivo 2013 con un disavanzo di 53 milioni. Tracce, neanche troppo difficili da scovare, della situazione dei conti dell’am-ministrazione, si trovavano già in una re-lazione del professor Stefano Pozzoli. Una relazione commissionata due anni fa dal commissario di Viareggio, arrivato in città dopo le dimissioni di Luca Lunardini, l’ex sindaco del Pdl che lasciò il municipio in un mare di polemiche. E dentro quelle pagine c’è già tutto. Scriveva, infatti, già nel 2012: «Il monitoraggio dei contratti di servizio è poco efficace». E ancora: «In qualche caso, praticamente inesistente». Oppure: «Perfino l’approvazione dei bi-lanci non segue un iter corretto tra socio e società». In sostanza, chiosava il super-esperto collaboratpre do Cottarelli, «il sistema di controllo è molto carente e comporta grandi difficoltà».

E così il ministero dell’Economia, a inizio anno, ha mandato gli ispettori. E ha scoperto quello che ci si aspettava. Duran-te il mandato di Lunardini, che fu eletto sindaco con il 61,8 per cento nel 2008 e per anni fu indicato come sindaco model-lo del sistema berlusconiano in Toscana, il deficit delle partecipate è aumentato del 21,53 per cento. In soli due anni, fra il 2010 e il 2012, l’indebitamento è passato da 295,6 a 359,2 milioni di euro. Soldi che dovranno essere pagati dai cittadini: quei debiti pesano sul bilancio comunale e sono aumentati di oltre il 25 per cento (da 149,1 milioni a 187,1).

I casi sono decine. Le storie tutte simili. Nella città dove tutto è maschera, anche le società pubbliche hanno mostrato per anni un volto che non corrispondeva alla realtà. Fuori erano efficienti, dentro erano marce. Prendi la Patrimonio Viareggio, dal nome altisonante: è la società per la riscos-sione di tributi e multe. Ecco che se si guarda bene, ha un problema non da poco: i soldi riscossi non sono mai stati dati al Comune. E non si parla di spiccioli: «L’am-montare delle riscossioni non versate, al 31 dicembre 2013 risulta pari a 27,1 mi-lioni», certificano gli ispettori del Mef. Che tradotto significa che i cittadini di Viareg-gio dovranno fare tante rinunce per poter trovare, nei ritagli del bilancio municipale, almeno una parte di quel tesoretto.

Ed ecco l’altro lato della medaglia. Gli ispettori del ministero che hanno analiz-zato i bilanci del Comune dal 2009 in poi, hanno scoperto che negli esercizi 2009, 2010 e 2011 «i disavanzi di amministra-zione e i deficit correnti risultano finanzia-ti solo contabilmente, ma non sostanzial-mente». Significa che in quei tre anni l’amministrazione versiliana ha cercato di coprire il buco con entrate straordinarie, prendendo i soldi qua e là e attingendo, spiegano i tecnici, soprattutto «dai pro-venti degli oneri concessori (permessi di costruzione) e dalle presunte plusvalenze da alienazioni immobiliari». Peccato che la “strategia” non abbia funzionato e le previsioni non siano state rispettate. E il meccanismo è diventato vizioso.

Quello di Viareggio, insomma, è un caso di scuola. Che mostra come dietro ai debiti dei Comuni ci siano quasi sempre loro: le partecipate. E non tanto quelle che

gestiscono o forniscono servizi veri per i cittadini, come acqua, trasporto o gas. Ma «società strumentali o società che si hanno anche difficoltà a classificare», spiega Pozzoli. Tocca a un renziano gestire questa delicata situazione. Leonardo Betti, vinci-tore di primarie partecipatissime (erano in otto), ha cominciato a mettere mano alla macchina comunale con un piano di pre-pensionamenti. Adesso sta valutando qua-le strada prendere, se quella del dissesto (molto rigida) o del pre-dissesto (più leg-gera, percorsa ormai da molti Comuni, tra cui Napoli). Sono settimane complicate per il centrosinistra viareggino. Il presi-dente della Fondazione Carnevale Stefano Pasquinucci e il cda si sono dimessi per mancanza di certezze economiche per il 2015. Qualche mese fa, il sindaco aveva informato Pasquinucci che il contributo preventivo per il Carnavale (un milione e quattrocentomila euro) non era disponi-bile. Dopo le notizie sul disavanzo da 53 milioni, i vertici hanno preferito abbando-nare l’incarico. Però almeno una certezza esiste: signori, non c’è più un euro.

Il sindaco ha incontrato il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, che darà una mano e ha assicurato che il Car-nevale si farà. A badare ai conti ci penserà un commissario, ma le opposizioni sono furibonde. «Non esiste più il Carnevale di Viareggio, ma il Carnevale della Toscana», nel senso della Regione, ironizza il capo-gruppo di Forza Italia Alessandro Santini, ex presidente della Fondazione Carnevale, che accusa il sindaco di aver promesso soldi che poi non ha potuto impegnare realmente e vuole sfiduciarlo con una mozione in Consiglio. Ma pure Betti, di fronte alle critiche che gli arrivano, rispon-de con piglio renziano. «Permetteteci di provarci. Evitare il tracollo di questa città, darsi da fare per trovare finanziamenti alle nostre manifestazioni e per le nostre infrastrutture e cercare soluzioni al fine di portare in pareggio il bilancio mi sembra un imperativo morale, un vero e proprio obbligo per tutti noi. Noi ci proviamo, anche se i gufi e gli avvoltoi continueranno a parlare». La Toscana non è più quella regione felix descritta dall’ex governatore, oggi senatore del Pd, Claudio Martini. I luoghi della crisi sono aumentati, il sistema senese e il “groviglio armonioso” sono esplosi, Piombino ha spento i suoi altofor-ni. E ora c’è Viareggio. n Fo

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Da Arese a Burnaston

COSÌ ABBIAMOPERSO L’AUTO

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Qui a Burnaston, sotto la pioggia fitta e sottile che bagna il Nord dell’Inghil-terra, gli operai della Toyota escono a centinaia dalla fabbrica. Hanno comincia-to alle sette e mezzo stamat-

tina. Sono le sei di sera. Dieci ore di catena di montaggio, due di straordinario, più le pause. Costruiscono macchine a bassa emissione di anidride carbonica, in capan-noni in parte alimentati da pannelli solari. Sì, proprio così: pannelli solari nel Nord dell’Inghilterra, anche se in una settimana il sole si è visto, sì e no, tre ore. Questo è il polo ecologico con cui la casa giapponese rifornisce gran parte del mercato europeo: compresi alcuni modelli ibridi, con motori elettrici e a benzina, che stanno sostituendo i taxi a Milano e a Parigi e si stanno diffon-dendo un po’ ovunque. Nelle stesse ore,

negli stessi giorni del duello tra Sergio Mar-chionne e Luca Cordero di Montezemolo sul futuro della Ferrari, i bulldozer hanno invece demolito una volta per tutte un altro simbolo dell’industria italiana: lo storico stabilimento dell’Alfa Romeo ad Arese. Vi ricordate? Doveva diventare il nostro polo dell’auto ecologica: il progetto di grande fabbrica sostenibile, favorito dallo Stato con centinaia di milioni in finanziamenti alla Fiat e ore di cassa integrazione ai suoi dipendenti. È finita che l’Italia ha perso la Fiat, l’Alfa Romeo ha ridotto drasticamen-te modelli e vendite. Mentre sull’area della ex sede di Arese sarà costruito il più grande (così dicono) centro commercial-residen-ziale d’Europa. È il nuovo schema di socie-tà post industriale. Shopping e mattone, al posto del lavoro. Consumismo e bolla im-mobiliare, invece dello stipendio. Il contra-rio di quanto è successo agli operai inglesi a Burnaston.

Come faranno milioni di italiani a spende-re senza più guadagnare è un dilemma che né la politica europea né il capitalismo naziona-le hanno finora risolto. All’incontro annuale a Cernobbio su mercati e finanza, l’ammini-stratore delegato di Fiat-Chrysler ha comun-que criticato l’Italia: «Purtroppo c’è la ten-denza a discutere delle questioni economiche in termini ideologici». Tre i fattori fondamen-tali con cui Marchionne dice di essersi scon-trato: il mercato del lavoro, la mancanza di certezza del diritto, la burocrazia. L’unica soluzione per sopravvivere sarebbe la fuga all’estero. Come ha deciso l’ex gruppo di Torino: sede legale in Olanda, residenza fi-scale a Londra, produzione non solo in

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demolito. Mentre in Inghilterra la

Toyota ha creato un impianto modello

di fabrizio gatti da burnaston (inghilterra)

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Italia, ma dove più conviene. È l’industria globale. Con il rischio che se ne vada anche la Ferrari dopo che, per le recenti delusioni in Formnula 1, Marchionne ha bocciato urbi et orbi Montezemolo, sostituendolo al vertice della società di Maranello. «È finita un’epo-ca, la verità è che ormai la Ferrari è america-na», ha replicato in privato Montezemolo.

Non è necessario essere supermanager per rendersi conto che un’epoca è davvero finita e che la burocrazia, l’incertezza del diritto e spesso la certezza del rovescio stanno soffo-cando l’Italia. L’errore sta forse nel conside-rare un’azienda nazional popolare come la Fiat esclusivamente vittima e non beneficia-ria di quel sistema che l’attuale amministra-tore delegato oggi condanna. Ma che in passato, anche dopo la globalizzazione dei mercati e l’introduzione dell’euro, ha per-messo all’allora gruppo di Torino di ottenere aiuti e protezione dalla mediazione politica. E alla politica, ma anche al sindacato, ha re-stituito consenso in cambio di posti di lavoro.

Il polo italiano dell’auto ecologica è così una triste favola al contrario. Una storia in cui i dipendenti hanno idee più innovative dei loro manager: il piano nasce proprio dagli operai di Arese che tentano di dare un futuro sia all’impianto, sia a loro stessi. Le buone idee però non bastano a produrre nuove macchine e motori ecologici. Toccherebbe alla Fiat sviluppare i progetti, gli investimen-ti e una visione globale capace di guardare avanti. A parte una vaga apertura dell’allora amministratore delegato, Giuseppe Mor-chio, in una lettera al presidente della Regio-ne Lombardia nell’ottobre 2003, è proprio ciò che è mancato.

Con la demolizione dei capannoni, i sacchi bianchi di polvere di amianto ammucchiati lungo la recinzione, il viavai di bulldozer e camion, di quel mondo resta adesso una spianata di macerie. L’unica traccia, vicino alla fermata dell’autobus in viale Alfa Romeo ad Arese, è il cartello malandato con il mar-chio della casa fondata a Milano nel 1910: il Biscione verde visconteo e la croce rossa su

In cambio di un’ottima paga, gli operai Toyota in Inghilterra si autocensurano sulle dure condizioni alla catena di montaggio. Nell’industria contemporanea sembra non ci sia via di mezzo tra lavoro e democrazia: il modello di produzione Toyota, lo stesso adottato dalla Fiat per i suoi stabilimenti, con la sua rigida disciplina, è l’unico in grado di reggere la globalizzazione?«Non credo proprio», risponde Tommaso Pardi, codirettore di Gerpisa, il gruppo francese di studi sull’industria dell’auto, e ricercatore presso il laboratorio di “Istituzioni e dinamiche storiche della società” all’ École normale supérieure di Cachan, vicino a Parigi: «Anzi, penso valga esattamente il contrario. L’esempio più concreto è l’immensa fabbrica della Volkswagen a Wolfsburg, in Germania, che secondo gli standard della Toyota è una struttura poco produttiva perché poco agile. Ma è la fortezza industriale del principale costruttore di auto e di IG Metall, il principale sindacato in Europa».Toyota però è una industria globale.«Sì, il suo modello è oggi dominante, praticamente universale. La sua forza è fornire un quadro preciso per organizzare la produzione e strumenti chiari per ridurre i costi. Siccome è un sistema basato sul costo e non sulla capacità di aggiungere valore ai prodotti attraverso l’inventiva e la professionalità di una manodopera qualificata, non offre alcuna resistenza alla delocalizzazione. Ma la capacità di adattamento di queste fabbriche è limitata. Le statistiche sulle condizioni di lavoro mostrano che la

diffusione del metodo Toyota va di pari passo con una degradazione evidente: questo si traduce in una moltiplicazione di malattie professionali, il cui costo ricade sulla collettività. E sulla produttività. Volkswagen è invece riuscita a imporsi come numero uno in Europa sviluppando una strategia di qualità sui segmenti C e D. Grazie a una manodopera qualificata, stabile e pagata più di ogni altra. Pur non avendo le fabbriche più produttive».Fiat avrebbe potuto fare altrettanto?«Il modello Volkswagen non è stato esportato. Dipende dal ruolo chiave del sindacato e da una serie di istituzioni che tutelano i lavoratori contro le tentazioni del management di fare come Toyota».Bisogna rassegnarsi all’operaio-robot?«Il punto essenziale che si sta dimenticando è che più una fabbrica è fatta a misura di lavoratore, più questa è efficiente. È l’idea alla base dello Human resource management lanciato da Elton Mayo negli Usa. Per finire, però, è chiaro che se l’Europa permette a grandi imprese come Fiat di avere accesso a manodopera che costa dieci volte meno di quella italiana in Paesi come Serbia e Polonia, di ottenere aiuti sostanziali, sia in quei Paesi sia per chiudere impianti in Italia, allora poche fabbriche sopravviveranno al processo di delocalizzazione. Inoltre, se in nome della libera circolazione delle merci difesa da Bruxelles, i mercati di auto nuove in quei Paesi stagnano perché sono inondati di macchine usate vendute dai nostri Paesi ad alti costi salariali, la delocalizzazione sarà ancora più brutale e rapida».

Ma c’è anche l’alternativa tedesca colloquIo coN Tommaso pardI

Lo scontro finaLe tra montezemoLo e marchionne mentre veniva raso aL suoLo iL poLo miLanese deLLa fiat

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campo bianco, simbolo medioevale del Co-mune. L’enorme palazzina degli uffici mostra una rassegna di tapparelle da anni alzate, abbassate, sbilenche che nessuno ripara più. Il primo ottobre verranno licenziati e messi in mobilità altri dodici lavoratori dell’ex contabilità, come racconta Carlo Pariani, progettista nel gruppo di lavoro per la Seicen-to elettrica e la Multipla ibrida e storico sin-dacalista della Confederazione unitaria di base. Gli ultimi 79 dipendenti di Fiat e Po-wertrain, dei reparti di progettazione, speri-mentazione e centro stile sono stati licenziati l’11 dicembre scorso. Oggi nella palazzina di Arese rimangono circa 400 addetti del servi-zio clienti: il call center che la maggioranza delle imprese globali ha delocalizzato in Pa-esi come l’Albania o la Romania. Si può dire insomma che la gloriosa catena di montaggio è stata ridotta a un centralino multilingue.

Il 24 aprile 2003 i quotidiani annunciano la chiusura definitiva di quella che ormai tutti chiamano l’ex Alfa di Arese. I numeri misurano le dimensioni dell’accordo di pro-gramma tra la Fiat e il governo. Un piano da realizzare in 5 anni: la produzione del Biscio-ne è concentrata nell’altro stabilimento a Pomigliano d’Arco in Campania, due miliar-di e mezzo di finanziamenti non solo privati, mille assunzioni. Mentre ad Arese oltre tre-mila lavoratori passano a carico dell’Inps: 2.400 sono dipendenti Fiat, il resto di società collegate e di Powertrain, la joint-venture con General Motor per fabbricare motori.

«Il progetto dell’auto a basso impatto ambientale», sostiene Carlo Pariani, «era fattibile. Il problema è che Fiat non ci ha mai creduto e lo ha sfruttato solo per incamerare finanziamenti, fino a quando ha potuto. La

Regione Lombardia ci ha messo anche del suo, ha fatto un sacco di pasticci e non so se nemmeno loro ci abbiano creduto fino in fondo. Visto che Fiat è sempre stata contraria, c’erano stati contatti con Bmw. Ma non se n’è fatto nulla». Secondo un esposto presen-tato dai lavoratori alla Corte dei conti e al ministro per il Welfare, Roberto Maroni, attuale presidente della Regione Lombardia, soltanto per la piattaforma «Vamia», la vettura a basso impatto ambientale da pro-durre ad Arese, nel triennio 1996-99 Fiat ottiene finanziamenti pubblici per 238 mi-liardi di lire, quasi 123 milioni di euro. Ma la piattaforma Vamia viene sciolta già nel giu-gno 2001 dopo aver fabbricato appena le versioni a metano e gpl della Multipla. «L’ac-cordo con la Regione sul vero polo ecologico di Arese arriva dopo, nel 2004», ricorda Pa-riani: «Aveva sostanzialmente due scopi: ri-prendere gli investimenti sull’auto ecologica e ampliare la ricerca su altri fronti. È stato tutto un disastro. Dei 107 milioni di euro deliberati dallo Stato con la finanziaria del 2005, si saprà poi che 40 milioni sono stati utilizzati per pagare i forestali della Calabria. Gli altri non sono mai stati spesi».

Il sindacato di base si costituisce proprio all’Alfa, durante lo scontro con Cgil, Cisl e Uil sull’integrazione nel gruppo Fiat dell’azienda del Bi-scione un tempo pubblica. Rifareste le stesse scelte? «La sorte di Arese è stata segnata non da noi ma soprat-tutto da quando Fiat e governo hanno concordato di costruire lo stabilimento di Melfi, in un periodo di non espansione. Questo avrebbe comportato, come poi è stato, la chiusura di Rivalta, Desio e Arese per eccesso di capacità produttiva.

Cgil, Cisl e Uil nazionali, invece, hanno ap-poggiato il progetto di Melfi. Decretando di fatto la morte di Arese».

In mezzo alle pecore e alle mucche che pascolano su queste colline verdi del Derbyshire, la storia è andata molto diversa-mente. Burnaston è un villaggio di ricchi agricoltori, duecento residenti e nemmeno l’illuminazione pubblica notturna. Le strade buie in mezzo ai filari di biancospino sono trincee così strette da non lasciar passare due macchine affiancate. Nessuno degli abitanti lavora nello stabilimento Toyota, il primo aperto dalla casa giapponese in Europa nel 1992. E dal paese la fabbrica nemmeno si vede, circondata su tutti i lati da parchi e terrapieni ricoperti da alberi. L’unico accesso è dalla supestrada che collega Derby, la città più vicina, a Birmingham, un’ora di camion: un reticolo di vie di comunicazione veloci e senza pedaggio che salva dal traffico pesante i villaggi come Burnaston. Ne sanno qualco-sa i nostri paesi del Nord, attraversati da colonne di Tir senza vie alternative.

Da quando è venuta qui ventidue anni fa, Toyota ha sfornato tre milioni e 250 mila macchine. E ha investito un miliardo e

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Operai in via d’estinzione Occupati nel settore della fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi (in migliaia) Variazione in percentuale 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2013 / 2008

Unione Europea 3.172,2 2.891,4 2.848,1 3.040,2 3.020,2 2.956,3 -6,8%

Eurozona 2.212,5 2.069,6 2.024,9 2.159,1 2.101,4 2.002,8 -9,5%

Italia 234,9 229,0 218,8 209,7 208,5 210,1 -10,6%

Fonte: Elaborazione Ufficio Studi della Camera di Commercio di Monza e Brianza su dati Eurostat

L’iMpianto britanniCo deLLa toyota e, neLL’aLtra paGina, queL Che resta deLL’aLFa di arese

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mezzo di sterline, meno di un miliardo e 900 milioni di euro: cioè molto meno dei due miliardi e mezzo spesi da Fiat nel piano quin-quennale del 2005 per chiudere Arese e po-tenziare Pomigliano. Dopo un periodo di crisi e la riduzione delle ore di lavoro, gli ul-timi 231 milioni di euro (185 milioni di sterline) arrivano a Burnaston nel 2012 per costruire i nuovi modelli di Toyota Auris. Non solo soldi, però. Anche millecinquecen-to operai in più. Così nel 2013 la produzione raggiunge le 179.233 auto: 62.148 quelle ecologiche con motori ibridi elettrici/benzina a bassa emissione di anidride carbonica. Dati in linea con la crescita del 3,5 per cento dell’industria automobilistica britannica che per il 2014 prevede l’uscita di 791 mila vei-coli sui 764 mila dello scorso anno: di questi, il 79 per cento viene esportato. Mentre gran

parte dell’area euro è prigioniera della reces-sione, non si ferma la corsa su base annua del Pil della Gran Bretagna: più 3,2 per cento nell’ultimo rilevamento a settembre.

L’ecologia nel polo inglese è rispettata anche nella catena di montaggio: zero rifiuti da destinare in discarica, zero materiale da incenerire, riciclo dei fumi per alimentare altri processi produttivi, recupero degli scar-ti di alluminio, impiego di vernici a base d’acqua. E riduzione delle emissioni di ani-dride carbonica con due grandi impianti fo-tovoltaici: dal sole si ricava l’energia per produrre fino a settemila auto all’anno a Burnaston e il dieci per cento dei 200 mila motori nell’altro stabilimento più piccolo, 553 operai a Deeside, in Galles. Da queste parti l’eliofania, cioè la durata media del so-leggiamento giornaliero, raggiunge a mala-pena le sei ore in giugno con una media an-nuale di tre ore. Ad Arese sono nove. A Po-migliano dieci. Ma lì, zero pannelli solari.

Le similitudini dello stabilimento di Bur-naston con quello che era l’Alfa Romeo sono impressionanti. Nel numero di dipen-denti: 2.977 contro poco più di tremila ad Arese. E nelle dimensioni: 2,35 milioni di metri quadri l’estensione del sito, la stessa. Gli operai Toyota li incontri a fine turno nel parcheggio. Superano i cancelli a gruppi. Sembra l’uscita dalle officine Lumière, la famosa pellicola del 1895: una scena sempre più rara in Italia. Oppure li trovi il venerdì sera nella vicina Willington, al bancone del pub “The rising sun” e al “Dragon”. Una domanda semplice: è felice del suo lavoro? Il risultato è curioso. Nessuno vuole rispon-dere con nome e cognome. Su ottanta inter-

vistati, nemmeno un’eccezione. Anche quando dicono sì, che sono sostanzialmen-te felici. Oppure quando spiegano che pro-durre auto al ritmo di una ogni 66 secondi è così massacrante che a volte non si può fare a meno di tirare l’andon, la corda d’al-larme che blocca la catena e fa partire i rimproveri del caposquadra. Sostengono tutti che per il rigido codice di condotta Toyota non possono esporsi: «È come ave-re una dog watching cloud», il cane da guardia sulla testa, rivela un quarantenne, tre figli, casa in affitto e vacanze in Spagna.

Parlano di sanzioni disciplinari. «Fa parte del contratto», dice un giovane addetto alle verniciature: «Ti pagano il 20 per cento in più di qualunque altra industria, non c’è altro lavoro stabile in giro. È giusto rispettare il silenzio». Lo stipendio base di un operaio è l’equivalente di 2.055 euro netti al mese, 24.660 l’anno. Gli straordinari sono pagati da 16 a 24 euro netti l’ora, tra notturni e fe-stivi. Con indennità e premi, un lavoratore senza qualifiche arriva a 34 mila sterline, 42.500 euro l’anno. Più i contributi per la pensione e l’assicurazione sanitaria privata che copre anche dentista e fisioterapie. Stesso trattamento per i 379 operai presi in affitto da un’agenzia: la principale differenza è che, in caso di calo delle vendite, loro sono i primi a perdere il posto.

Commentando il sondaggio de “l’Espres-so”, la direzione britannica di Toyota osserva sorpresa che nessun dipendente è mai stato sanzionato per avere manifestato le sue opi-nioni personali. Dopo epoche di battaglie sindacali e fabbriche ferme per sciopero, anche l’autocensura è segno dei tempi. n

il verde intorno alla fabbrica ecologica inglese. a destra: sergio marchionne

la casa nipponica ha imposto ai

dipendenti inglesi regole dure

offrendo però paghe competitive

Boom ibridoAndamento delle vendite totali di vetture Ibride Toyota e Lexus in Europa dal 2000 al 2013

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54.700

70.100

82.800

106.800

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Fonte: Dati TMC

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Continuerà Fiat a produrre in futuro auto in Italia? Potrebbe il nostro paese sopravvivere senza un’industria dell’auto? Per rispondere, dobbiamo capire cosa succede nel mondo. Quando Marchionne arrivò dieci anni fa, le case automobilistiche indipendenti erano scese a tredici dalle 64 di quarant’anni prima e coprivano più del 90 per cento della produzione mondiale. Nord America, Europa e Giappone assorbivano quasi il 70 per cento delle vendite mondiali e una persona su due già aveva una macchina e anche di più. Come non bastasse, il grado di utilizzo della capacità produttiva era basso, 65 per cento, con un eccesso di 30 milioni di auto producibili ma non vendibili, destinato a salire a 38 milioni nel 2010. Le fabbriche più piccole andavano chiuse, era solo un problema di relazioni industriali e istituzionali. Bisognava sbrigarsi a invadere altri continenti. Per avere un portafoglio più ricco, ogni casa doveva divenire multi-segmento, con prodotti via via più complessi per tutta una serie di ragioni (di mercato, di normativa sulle emissioni, di sicurezza). I rapporti con i fornitori sarebbero divenuti più difficili, perché bisognava coinvolgerli nelle strategie ma anche selezionarli e ridurne le pretese. I costi di produzione e di vendita sarebbero aumentati. Perciò bisognava ripartire i costi fissi su un volume di prodotti molto maggiore, quindi fare economie di scala con altre concentrazioni societarie.In questo scenario, Fiat Auto era in pre-fallimento. Il sindacato ne chiese il passaggio del controllo azionario al Tesoro, il cui ministro non disdegnava l’ipotesi. Fiat Auto avrebbe chiuso per sempre. Quando nel 2004 Marchionne arrivò, i migliori consulenti internazionali di strategie caldeggiarono una filosofia affascinante ma difficile, mirata a definire un modello di collaborazione globale e flessibile per ogni regione del mondo, padroneggiare molti marchi, definirli in modo distinto in ciascun portafoglio, anche ricorrendo a piattaforme intelligenti, con un punto focale in

ciascun segmento, con un giusto mix tra paesi, separando il livello strategico da quello operativo.Le politiche industriali si dicono orizzontali se puntano alla competitività dell’economia generale, o verticali se lo Stato interviene in uno specifico settore. In Italia i governi hanno sempre fatto quella verticale, si sono impelagati in un sacco di guai sotto la pressione di clientele corruttrici e una cultura protezionistica, giustificandola con nobili finalità occupazionali, mai sono stati capaci di farne una orizzontale, perciò siamo ridotti come siamo. Quelle verticali però, se ben fatte, circoscritte nel tempo e soprattutto reversibili, mica è detto che facciano schifo. Gli Stati Uniti di Obama per esempio ne hanno fatta una nell’auto con la Chrysler. Marchionne si è infilato e la Fiat ha fatto fortuna. Nel 2012 le case

erano ancora tredici e FCA (Fiat Chrysler Automobiles) stava al settimo posto. Ciò farebbe concludere che Fiat sia diventata americana e lasci l’Italia.In questi dieci anni, tuttavia, la riorganizzazione industriale dell’auto ha evidenziato un altro processo, inatteso. Mentre, per ridurre i costi di trasporto, le fabbriche di assemblaggio e la filiera della componentistica vengono localizzate vicino al mercato finale, invece sviluppo e prototipazione di nuovi modelli, che sono attività a maggior valore aggiunto, vengono svolte dove esiste uno stretto e fertile scambio tra casa auto e centri di ricerca, università, centri stile. Vengono cioè svolte in centri chiamati “motor city”, che hanno una storia automobilistica e un patrimonio immateriale molto più competitivo delle regioni del mondo dove magari le auto

si vendono di più. Per arricchire il portafoglio di prodotti sempre più complessi, queste attività sono centrali e permanenti. Anche sulla base di ricerche econometriche della BdI, ciò farebbe concludere che pur americanizzata FCA non lascerà le sue migliori motor city italiane, tantomeno Maranello. Sempreché il trasferimento altrove della sede legale non svuoti le motor city ma, se lo facesse, FCA agirebbe contro i propri interessi egoistici.Per rispondere alla seconda domanda, la ribalterei. Se perdesse la cultura dello stile, della ricerca, della prototipazione, un paese come l’Italia non esisterebbe più. A quel punto ovviamente FCA se ne andrebbe, ma forse non sopravviverebbe neanche [email protected]

Twitter @riccardo_gallo

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Più delle fabbriche conta lo stile

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Si diverte a sfatare i tanti miti che circolano su di lui. Non vuol essere considerato un brillante autore cinematogra-fico. Continua a ripetere che non assomiglia affatto ai per-sonaggi dei suoi film. E nega

di essere un intellettuale. Tutte affermazioni al tempo stesso vere e false, perché Woody Allen è una figura complessa e un nevrotico molto più intelligente del normale che nega la propria genialità. Oggi è nel pieno di una rinascita prevalentemente europea che ha

avuto inizio nel 2005 con il tanto decantato “Match Point” (girato a Londra), ed è prose-guita con le riprese di “Vicki Cristina Barce-lona”, “To Rome with love” e di “Midnight in Paris”, il più grande successo al botteghino della sua carriera che ha incassato oltre 150 milioni di dollari nel mondo e gli è valso il suo quarto Oscar, per la miglior sceneggiatu-ra originale. E anche il suo nuovo film: “Ma-gic in the Moonlight” è stato girato nel sud della Francia la scorsa estate ed ambientato negli anni Venti. È un’allegra commedia che deve molto del suo fascino agli attori prota-

gonisti - Colin Firth e Emma Stone. Insomma, otto degli ultimi nove film di Woody Allen (l’eccezione è stata “Blue Jasmine”, girato a San Francisco) sono ambientati in Europa, anziché nella sua New York, la città in cui è nato che è stata a lungo il suo originale epi-centro creativo. «Il lavoro è una grande di-strazione», ironizza Allen: «Se non stessi gi-rando, me ne starei seduto a casa ossessiona-to dall’idea di quanto sia terribile la vita. Sono sempre in procinto di scrivere una nuova sceneggiatura, di promuovere un film o di realizzarne un altro. Sono stato fortuna-

L’amore. La fortuna. I rapporti sbagliati. Il regista si confessa. E svela perché non somiglia affatto al suo personaggiodi Fred Allen / The inTerview PeoPle

non sonoWoody Allen...

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to nel riuscire a mantenere questo ritmo per la maggior parte della mia vita e non saprei come vivere in altro modo. Girare film in Europa permette inoltre a me e alla mia fa-miglia di trascorrere estati in posti molto belli e interessanti... ho potuto facilmente trasferirmi a Londra o a Parigi quando non ero a mio agio a New York». Nell’intervista che segue, il regista parla liberamente del ci-nema, dell’infelicità e della sua vita molto più confortevole con la giovane moglie, Soon-Yi Previn, figlia adottiva della sua ex compagna, Mia Farrow. Woody e Soon-Yi, oggi quaran-

tenne, vivono in una casa in mattoni rossi tipicamente newyorkese, assieme alle loro due figlie adottive, Bechet, di 14 anni, e Man-zie, di 13, che prendono il nome da due mu-sicisti jazz. Quanto è stato piacevole per lei poter lavora-re in Europa negli ultimi nove anni e girare i suoi film in posti come Londra, Parigi, Barcel-lona, Roma e ora in Costa Azzurra? «Mi piace lavorare in Europa. Ma se di-pendesse da me, girerei sempre a New York perché ci vivo, posso tornare a casa dopo il set e non devo preoccuparmi se il servizio

in camera è lento o se mi perdo e devo chiedere a una coppia di turisti lituani che strada prendere per tornare al mio albergo. E quando ho scritto la sceneggiatura di “Match Point”, avevo pensato inizialmen-te di ambientare la storia a New York ma sarebbe stato troppo costoso così l’ho ri-scritta adattandola a Londra e la cosa ha funzionato molto bene». Fo

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Lei sembra avere una vita quasi ideale come regista, riesce a fare un film all’anno... «Ho avuto la fortuna di poter lavorare a un ritmo molto comodo. Dirigere un film non è un mestiere così difficile e scrivere per me è molto facile. Scrivo in fretta e non sto lì a ri-pensarci tormentosamente per mesi. Ho un lavoro molto più facile di quello di un poli-ziotto o di un maestro di scuola e vivo esat-tamente come vorrei. Guardo film, passo le serate con mia moglie e le mie figlie, vado a vedere partite di basket e di solito trascorro l’estate in bellissime città come Londra, Ro-ma o Parigi girando dei film». Resta sempre convinto che la vita sia una lotta esistenziale? «Riesco a sopravvivere distraendomi. È una via di fuga, lo so, ma funziona. Pensa-te quante persone si distraggono guardan-do orribili spettacoli televisivi o partite sportive, concentrando tante energie e aspettative su chi vincerà un insignificante incontro di calcio o andando al cinema. Io continuo a fare film nella vana speranza di realizzare un vero capolavoro anche se mi rendo conto che la maggior parte dei miei film sono dei fallimenti». Tre anni fa, “Midnight in Paris” è stato il più grande successo finanziario della sua carrie-ra. Questo non le ha permesso di riprendere a girare di nuovo a New York? «No, perché è molto più costoso. Se ho un budget di 15 o 18 milioni di dollari per rea-lizzare un film, so che con quei soldi faccio molte più cose in Europa. Spesso posso per-mettermi di scritturare certi attori solo perché hanno degli intervalli nei loro calendari di impegni e sono disposti a lavorare per una piccola frazione del loro solito cachet. E poi, ho continuato a lavorare in Europa perché ho ricevuto offerte di finanziamento per gi-rare laggiù. È difficile dire quando potrò tornare lavorare a New York, anche se questa sarebbe la mia prima scelta». Il fatto di aver cominciato a girare film in Europa le dà la sensazione di essere nel pieno di una nuova carriera? «No. Sono solo felice di poter continuare a lavorare. Da tempo ormai ho rinunciato all’ambizione di realizzare un film che un giorno verrà proiettato in un festival e reg-gerà il confronto con un’opera di Kurosawa, di Fellini o di Bergman. Sono costantemen-te deluso dal mio lavoro anche se mi piace “Match Point” perché il risultato finale è molto vicino a quello che volevo ottenere quando ho scritto la sceneggiatura. Ma di

solito non è così. Anche i miei film conside-rati migliori - come “Io e Annie” e “Manhat-tan” - sono molto diversi da quello che avevo in mente. “Io e Annie” doveva essere un collage di ricordi ma è diventato un racconto più tradizionale. “Manhattan” l’ho odiato a tal punto che ho cercato di ri-comprarlo dalla casa di produzione per un milione di dollari. “Settembre” l’ho rigirato completamente e la seconda versione non era molto meglio della prima». Come spiega allora il suo successo?«Sono stato incredibilmente fortunato. Ho avuto la capacità di divertire il pubblico, scrivere battute e raccontare storie che in qualche modo interessano la gente. Ma è pura fortuna e non credo di essermi meritato per questo la posizione privilegiata di cui ho goduto, con la possibilità di girare un film ogni anno e di vivere una vita molto confor-tevole. Ecco perché uno dei temi principali di parecchi miei film è l’elemento della fortuna. A molte persone non piace ammettere che gran parte del loro successo nella vita è do-vuto al puro caso. Preferiscono credere di essere brillanti e di essersi potute affermare grazie al duro lavoro. Ma quanti lavorano altrettanto duramente e hanno altrettanto talento, e però sono dei completi falliti? La maggior parte delle persone rifiuta di ammet-tere che tanta parte della vita dipende dalla sorte perché questo metterebbe in crisi la loro identità e la convinzione di essere padro-ni del destino. Io invece sono sempre stato consapevole di essere stato molto fortunato». Anche la felicità dipende dalla fortuna?

«Sono due cose separate. La felicità spesso dipende dalla capacità di ignorare gli eventi terribili che accadono nella vita e di concen-trarsi solo su quelli buoni. Ma raramente le cose vanno come ci aspettiamo. Spesso siamo delusi dai nostri rapporti sentimentali. La maggior parte delle persone non si sente creativamente e intellettualmente soddisfat-ta dal proprio lavoro. Ma alcuni hanno un loro modo di superare o aggirare la realtà, e si illudono di essere felici. Capita a tutti, e io non voglio certo criticare chi si consola in questo modo. Il mio modo di affrontare le negatività della vita, come l’invecchiamento o il fatto di non vivere all’altezza delle mie ambizioni, tuttavia è quello di continuare a lavorare, guardare le partite o andare al cine-ma. È il mio modo di illudermi e tenermi occupato per non cadere nella disperazione di fronte al lato più oscuro delle cose. Posso correre sul mio tapis roulant ogni mattina e mangiare cibi sani, ma alla fine la morte verrà a prendermi». Molti dei suoi film come “La rosa purpurea del Cairo” o il più recente “Midnight in Paris” hanno in comune questa fuga dalla realtà. La tendenza a fantasticare è per lei una dimen-sione così importante?«La vita reale è molto spesso più noiosa e inevitabilmente più triste. In un film, puoi controllare tutto quel che succede e puoi in-dulgere nelle fantasie e nei sentimenti più romantici evadendo dalla realtà. Puoi fare tutto quello che vuoi. Ecco perché è molto seducente e piacevole guadagnarsi da vivere col cinema. Ti svegli la mattina e vai a lavo-

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rare circondato da belle donne e tipi brillan-ti e spiritosi, ti inventi delle storie e tutti si calano nella loro parte. La musica è bellissi-ma. Non vivi la tua vita, ma crei qualcosa che va ben oltre questa dimensione. Qualcosa di bello, ma non di vero. Situazioni divertenti, realizzabili soltanto nella finzione». Un altro leitmotiv dei suoi film è l’incapacità di molti di trovare il partner giusto. È il desti-no dei più?«Spesso uomini e donne si innamorano della persona sbagliata, o di qualcuno che non prova alcun interesse per loro. Le variabili in gioco sono talmente tante che gli esseri uma-ni tendono ad accontentarsi di molto meno di quel che vorrebbero o sperano che il loro cuore li stia conducendo nella direzione giusta. Ma non è sempre così. Parlando con i miei amici mi sono trovato a sostenere che gran parte della nostra vita e della nostra felicità dipendono dal destino. Due persone devono essere molto, ma molto fortunate se si innamorano e riescono anche ad andare d’accordo nella vita di ogni giorno». Ma non si può arrivare a un compromesso? È davvero così importante che, all’interno di un rapporto, ciascun partner faccia esattamen-te ciò che vuole? «È una questione di equilibrio. Bisogna spe-rare che la relazione non ci imponga di accet-tare così tanti sacrifici e compromessi da renderci infelici strada facendo. Sono convin-to che le persone seguano il loro cuore anziché la loro testa, ovvero che si innamorino per ragioni che non si possono spiegare. O peggio ancora che si innamorino di persone comple-tamente sbagliate sotto ogni aspetto pratico. Spesso non riusciamo a trovare l’armonia con un’altra persona, perché ciascun partner, all’interno di un rapporto, è guidato dai propri desideri e da impulsi contrastanti. Quel che poi complica ancor più le cose è che

a volte questi desideri cambiano nel tempo. Improvvisamente, smettiamo di amare, non riusciamo a spiegare perché, ma succede». L’amore è dunque qualcosa di molto fragile e sfuggente? «C’è solo da sperare che le cose funzionino. Anche se sei profondamente innamorato di qualcuno hai sempre bisogno di trovare una forma di convivenza che permetta a te, e al tuo partner, di sentirti amato e sicuro, man-tenendo al tempo stesso la tua indipendenza. Non c’è una formula che assicuri questo equilibrio. C’è poi da sperare che la nostra passione per qualcosa non dia fastidio all’al-tro. Tu magari ami Mozart mentre al tuo partner piace la musica country o heavy metal. Fino a quando è possibile conciliare queste diversità c’è qualche speranza». Insomma, ci vuole fortuna per mantenere un rapporto felice? «Si tratta solo di incontrare la persona giusta. Mi sono sposato la prima volta quando ero molto giovane. Io avevo diciannove anni, mia moglie diciassette. Volevamo entrambi vive-re una nostra vita. E lo abbiamo fatto. Lei era una donna meravigliosa, di grande talento. Una pianista, una filosofa, una persona ecce-zionale. Era stato un buon matrimonio, ma siamo andati entrambi in direzioni diverse. Poi ho sposato Louise (Lasser), della quale ero pazzo allora e continuo ad esserlo. Siamo

rimasti ancora buoni amici. Non ho mai avuto alcun reale interesse a sposarmi. Con Soon-Yi abbiamo cominciato a uscire insie-me. Mi era parsa la cosa giusta da fare, e lo fu davvero. Siamo stati molto, molto felici». Le sue figlie guardano i suoi film? «No. Preferisco che vedano quelli dei fratelli Marx o alcuni vecchi film classici che hanno un meraviglioso sapore romantico. Non ho mai mostrato loro i miei film perché voglio che mi vedano come il padre e non come una celebrità. In casa mi vedono per quel che veramente sono, anche se non mi tengono nella più alta stima». Dopo 46 film, sente di aver capito qualcosa di più sulla vita adesso o essa le appare an-cora come un enigma inestricabile? «Non credo che potremo mai trovare un significato profondo o anche solo capire gli elementi importanti della vita. Penso che continueremo a renderci ridicoli, a venti come a quaranta o a sessant’anni. Siamo ancora alle prese con le stesse domande alle quali i più grandi filosofi - dai greci a Kier-kegaard - hanno cercato di trovare una ri-sposta. Siamo condannati a vivere gli stessi dubbi, le stesse contraddizioni e delusioni che i nostri predecessori hanno dovuto af-frontare nel corso dello sviluppo della civil-tà. Non sono riuscito a trovare lumi né ri-sposte soddisfacenti e proprio per questo i miei film riflettono quanto sia sfuggente la felicità, quanto sia impossibile trovare l’ar-monia e quanto fragili e imprevedibili con-tinuino ad essere i rapporti tra gli uomini e le donne». I nostri istinti ci tradiscono quando si tratta dell’amore e della capacità di mantenere un rapporto? «Spesso tradiscono le nostre migliori inten-zioni. In teoria potreste anche incontrare la donna ideale. Quella che tutti i vostri amici ritengono perfetta per voi. Una donna bril-lante, attraente, brava a letto e convinta che siate meravigliosi. Ma voi amate un’altra, la segretaria a cui piacciono i film d’azione e che veste come una prostituta. È pazzesco inna-morarsi di lei, ma vi succede e non potete faci niente né cambiare il vostro modo di sentire. L’amore è fuori dal nostro controllo, e nessun grado di saggezza o di coscienza storica e sociale potrà mai cambiare questo aspetto della natura umana».

traduzione di Mario Baccianini Foto

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magari incontrate la donna ideale. ma voi amate una a cui

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emma stone e colin Firth, protagonisti del nuovo Film di Woody allen “magic in the moonlight”. nella pagina accanto: scarlett johansson in “match point”

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I pirati? Per quelli somali si fa sempre più dura. L’ultimo colpo è stato messo a segno il 18 agosto, quando a Mogadiscio è finito in manette Mohamed Abdi Garfanji: “numero due” dei bucanieri, ricercato da Stati Uniti e Seychelles, noto alle cronache per i nove milioni di dollari intascati nel 2010 con il sequestro della petro-liera sudcoreana Samho Dream. Le forze di sicurezza lo hanno catturato durante una campagna di disarmo delle milizie, tesa anche a colpire i ribelli islamisti forti nel sud della Somalia. Garfanji era diventato un’icona della pirateria contemporanea quattro anni fa, quando l’inglese “Sunday Times” aveva pubbli-cato una sua fotografia, sguardo e ricci da trentenne, fucile auto-matico dietro la schiena, fasciato dalle cartucciere. All’epoca comandava centinaia di miliziani e si presentava come un Robin Hood pronto a tutto per aiutare le famiglie rovinate dalla pesca a strascico delle navi europee e asiatiche. Il suo arresto ha segui-to di pochi mesi quello del “numero uno”, Mohamed Abdi

Hassan. Ospite gradito nella Libia di Muammar Gheddafi ma finito in trappola e in attesa di giudizio in Belgio, dove credeva di dover offrire una consulenza su un documentario sui suoi abbor-daggi. Che ormai sono un ricordo sbiadito. Nel 2011, tra le coste dell’Africa orientale, il Golfo di Aden e il Mar Arabico, gli attac-chi attribuiti ai pirati somali erano stati almeno 237. Dall’inizio dell’anno scorso a oggi, solo sei. E tutti falliti, a causa delle guar-die armate a bordo dei mercantili, delle rotte più lontane dalla costa, delle fregate cinesi e delle missioni militari dell’Unione Europea e della Nato. Antidoti efficaci a largo della Somalia o delle isole di Sandokan, ma che hanno un costo. Secondo la Banca Mondiale, la spesa raggiunge i 18 miliardi di dollari l’an-no, a fronte di una media di riscatti pagati che dal 2005 non su-pera i 53 milioni. Cifre alla mano, un punto a favore di chi so-stiene che la pirateria bisogna combatterla anche con lavoro, strade e sviluppo. Ricostruendo la Somalia. Vincenzo Giardina

Somalia

Tempi duri per i pirati somali

Politica | analisi | oPinioni | africa | asia | america | euroPa

pirata a obbia, in somalia. a destra: un antico gioiello

della crimea in mostra in olanda

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Lo scontro tra Russia e Ucraina si gioca anche ad Amsterdam, più precisamente all’Allard Pierson Museum, che dal 7 febbraio ha ospitato la mostra “Crimea: oro e segreti dei tesori del Mar Nero”. L’esposizione, con un migliaio di pezzi di Sciti, Goti e Unni a testimonianza dell’eredità millenaria della penisola, è arrivata da Berlino quando Crimea e Ucraina erano una cosa sola. Il referendum del 16 marzo e l’annessione russa di due giorni dopo le hanno divise, aprendo un complicatissimo fronte artistico in Olanda. «È un caso unico», dicono dal museo, «e stiamo facendo un’indagine minuziosa per chiarirlo, dobbiamo capire chi ha il diritto sulle opere, quali leggi si possono applicare e l’origine dettagliata dei tesori». Le opere provengono da quattro musei della Crimea e da uno di Kiev, e tutte e due le parti reclamano in toto il migliaio di pezzi. La mostra è terminata il 31 agosto, ma i tesori della Crimea rimangono ancora in Olanda, chissà fino a quando. Alberto D’Argenzio

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Crimea e UcrainaUn tesoro per due

DA pArecchi Anni la bolla immobiliare cinese è un argomento avvincente e allarmante. Gli economisti mettono in guardia da un crollo catastrofico, ma malgrado ciò la bolla immobiliare cinese ha sbaragliato i catastrofisti, fino a questo momento. Non si discute: la Cina ha vissuto un boom immobiliare straordinario negli ultimi 15 anni. Tra il 1997 e il 2013 l’investimento nel settore edilizio è quintuplicato, passando da meno del 2 per cento al 10,4 per cento del Pil. Secondo l’“Economist”, dal 2000 a oggi i prezzi degli edifici sono più che raddoppiati (solo Gran Bretagna e Canada hanno conosciuto aumenti maggiori). Nelle grandi aree metropolitane come Shanghai e Pechino, i prezzi sono schizzati alle stelle (a Shanghai sono cresciuti di oltre sette volte rispetto al 2000, a Pechino di dieci). L’Aspetto controproducente è rappresentato, come in altri Paesi, da un eccesso di costruzioni e di investimenti speculativi. Di conseguenza il paesaggio della Cina è costellato di città fantasma. Da un autorevole sondaggio condotto a livello nazionale e reso noto a giugno si è appurato che non è abitato il 22,4 per cento delle unità che sono già state acquistate in aree urbane (49 milioni). Oltre a ciò, restano invendute almeno 3,5 milioni di case. Stime più pessimistiche parlano di 64 milioni, un numero che potrebbe dare alloggio a oltre 200 milioni di persone. purtroppo alla fine stanno emergendo segnali dai quali si comprende che la bolla, secondo alcune stime la più grande di sempre al mondo, sta per iniziare a scoppiare. Tra gennaio e giugno di quest’anno le vendite delle case sono precipitate di oltre il dieci per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Di conseguenza, i prezzi hanno iniziato a calare, e lo hanno fatto con un tasso annuo del 3 per cento per cinque mesi di seguito. Tra le 70 città più grandi della Cina, a maggio i prezzi immobiliari riportati sono calati in 35, e a giugno in 55. Il cedimento costringe i costruttori ad abbassare ancora di più i prezzi, e il trend al ribasso sta accelerando. L’interrogativo più interessante è quanto nocivo potrà

diventare il crollo del settore immobiliare. Per gli operatori immobiliari il rapporto tra indebitamento e capitale è in media del 300 per cento, il che li rende estremamente esposti alla pur minima recessione. La bancarotta di un gran numero di loro potrebbe innescare un default dei prestiti da loro contratti, per lo più tramite il sistema bancario ombra. L’impatto sui singoli investitori dipenderà dalle dimensioni del crash. Se i prezzi scenderanno del 30 per cento, circa 5 milioni di unità abitative vuote avranno un valore negativo. in termini puramente finanziari, non sembrerebbe poter essere una catastrofe per il sistema bancario. In ogni caso, è un fatto risaputo che i crash immobiliari tendono a sforare e, nel caso della Cina, la portata del calo dei prezzi potrebbe essere di gran lunga maggiore. La caduta dei prezzi dell’immobiliare quasi certamente farebbe scendere quelli dei terreni. Dato che i governi locali traggono quasi la metà dei loro introiti dalla vendita dei terreni, un crollo potrebbe portare a inadempimenti dei prestiti fatti ai governi locali. L’impatto reale di tale crack si ripercuoterebbe in lungo e in largo. Il settore edilizio è stato un potente motore trainante della crescita della Cina. Includendo i settori industriali a monte e a valle, il settore immobiliare produce dal 16 al 25 per cento del Pil cinese. Qualora i prezzi delle abitazioni calassero di un terzo, Moody’s Analytics, agenzia americana di rating, prevede che la crescita cinese rallenterebbe fino al 4 per cento rispetto al 7,7 per cento dell’anno scorso. per iL cinese medio, una simile recessione comporterebbe quasi di sicuro la sensazione di sentirsi più indigente. Provocherebbe un calo significativo nel valore netto dei nuclei famigliari, dato che la casa di proprietà costituisce il bene più importante. E, per quanto riguarda la leadership cinese, potrebbe far deragliare i piani che ha delineato per la ristrutturazione dell’economia. La sua nuova priorità, pertanto, potrebbe essere puntellare il mercato, non esercitare pressioni per varare difficili riforme che potrebbero deprimere ancor più l’economia. traduzione di Anna Bissanti

Minxin Pei Senza frontiere

Anche la Cina rischia una bolla immobiliare

il palazzo di new scotland Yard, che dagli anni sessanta ospita la sede della polizia di Londra, è stato messo in vendita per più di 300 milioni di euro. L’operazione fa parte del più grande piano di riduzione dei costi mai avviato dal ministero degli interni britannico. L’edificio di 56 mila metri quadri nell’area di Victoria station è giudicato obsoleto ed è destinato a ospitare appartamenti residenziali, negozi e uffici. La sede centrale della polizia di Londra verrà spostata negli uffici di curtis Green. il risparmio sarà di circa 7,5 milioni di euro l’anno. L’edificio, protagonista di diversi film, è diventato un’icona di Londra. ma ormai «è come un museo, ha fatto il suo tempo», ha detto un rappresentante dell’ufficio del sindaco. Ludovico tallarita

Addio Scotland Yard

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Mondo parigi / la nuova mappa del potere

Dopo Valérie un’altra donna ancora. Non è finita per François Hollande. A metà otto-bre esce un nuovo li-bro: di nuovo una don-na ferita da lui, non al

cuore questa volta, ma al portafoglio, ministeriale certo, passato da Hollande a un’altra donna ancora. Cherchez Mo-lière, la Francia ha bisogno di lui.

Delphine Batho, ex ministro dell’Eco-logia (poltrona poi andata a Ségolène Royal, un tempo compagna del presi-dente e madre dei suoi quattro figli) co-stretta alle dimissioni per aver criticato il governo di Jean-Marc Ayrault, ha dato alle stampe “Insoumise”, 220 pagine di attacco al vertice dello Stato e all’arcipe-lago socialista. Rue Solférino, quartier generale del Ps, nonostante la difesa a oltranza e le efficaci parole del segretario Jean-Christophe Cambadélis, teme dav-vero che la tempesta sull’Eliseo sia solo alle prime battute.

Forse poteva succedere unicamente nella patria delle Marianne e delle Char-lotte Corday, di Simone de Beauvoir e Françoise Giroud che una donna, una giornalista, una première dame illegitti-ma con un impietoso ritratto del presi-dente marchiasse in questo modo la po-

litica e la sinistra francese, avamposto femminista d’Europa, seconda solo alle istanze d’oltreoceano. Valérie Trierweiler, che la si ami o la si odi, che si deprechi o si applauda, ha comunque segnato il solco, ribaltato il rapporto di potere tra i due sessi, violato la presidenza, e in un certo senso l’ha parificata. Anche la nuo-va generazione di politiche («Miracolate dalla madonna delle quote rosa», ironiz-zano gli elefanti di Solférino), che mostra coraggio e si batte per posizioni innova-tive, contribuisce a montare lo scontro anti-Hollande all’interno del partito.

In testa alle polemiche Najat Val-laud-Belkacem, ex portavoce prima di Ségolène e poi del presidente alle cam-pagne per l’Eliseo di entrambi, chia-mata a un ruolo quasi celeste in Fran-cia, il vertice del ministero dell’Educa-zione nazionale. Prima donna ad aver-lo scalato, paladina di una legge sulla prostituzione, ha provocato non pochi mal di pancia con la sua politica pro-uguaglianza e anti-sessismo (vedi ar-ticolo a pagina 61). O ancora Fleur Pellerin alla Cultura, ramo che nel Paese conta ancora qualcosa. Ministre simbolo dell’integrazione riuscita, fiato lungo e gambe pure, corpo esibi-to con fierezza, giurista, bocciata per due volte all’Ena e di origine maroc-

china la prima, “enarca” come Hollan-de e nata a Seul la seconda.

Lo scacco al re e per mani femminili non era mai arrivato così a segno. Suc-cede in un momento in cui la Francia è tormentata dalla disoccupazione, dall’ingiustizia sociale, dall’illegalità, dalla crisi delle istituzioni - gli stessi problemi strutturali dell’Italia. È un Paese depresso e stanco che scopre l’umiliazione di fronte al mondo intero, toccato nel vivo di quel che resta della grandeur della Quinta Repubblica.

Ad appiccare l’incendio è stata la passione latina, la vendetta di madame Trierweiler, compagna del presidente, tradita in mondovisione per la più giovane attrice Julie Gayet. Il suo libro “Merci pour ce moment”, record di vendite, 15 mila in poche ore, 200 mila copie scomparse come fossero dieci, in prospettiva 500 mila euro di diritti, ha oltraggiato il letto e il tetto quasi sacrale dell’inquilino dell’Eliseo. Pagine che hanno demolito l’architet-tura gollista del presidente monarca, al di sopra della legge, diverso da tutti in un ricorso quasi metafisico, indebolen-dolo da un punto di vista umano e

CherChez La fraNCe

Mentre il libro della Trierweiler scuote l’Eliseo, una nuova generazione di

donne aspetta la caduta di Hollande per sancire la fine del dominio maschile

Di Denise ParDo

il presidente francese françois Hollande con la sua ex compagna Valérie trierweiler

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Mondo

politico probabilmente per sempre. Proprio quando il nuovo governo

affidato da Hollande all’ex massone Manuel Valls è accusato di rinnegare la sinistra e di aver ceduto ai poteri forti e alle banche. Proprio quando Arnaud Montebourg - ex ministro dell’Econo-mia, che durante le presidenziali 2007 da portavoce di Ségolène disse in tv che lei aveva un solo difetto, «il suo com-pagno François Hollande» - gira la Francia in nome della gauche tradita dal presidente. E proprio quando altre due donne incalzano l’Eliseo: Christine Lagarde, nominata da Nicolas Sarkozy a capo del Fondo monetario internazio-nale al posto di Dominique Strauss-Kahn, freddato sul suo cammino verso la presidenza anche lui dall’“amour fou” per il genere femminile, chiede ri-forme e ancora riforme; e Marine Le Pen grida ai francesi che Hollande non è più credibile neppure per le sue mogli.

Martine Aubry, un’altra donna anco-ra, ex segretario del Ps, potente sindaco di Lille, ha fatto la signora e si è rifiuta-ta di commentare la vicenda Trierwei-ler. Si è limitata a dire di essere «estre-mamente scioccata» dal libro di quella che ha definito, tutto sommato più so-lidale con lei che con il presidente, «una donna ferita». Anche Aubry non vede l’ora di rimirare lo scalpo di Hollande, e guida con grande piglio una buona parte della fronda all’interno del parti-to. Di sicuro non gli ha perdonato il siluramento della sua protetta Cécile Duflot, leader dei Verdi, ex ministro della Giustizia territoriale e dell’Allog-gio nel governo Ayrault, poi non ricon-fermata da Valls. Duflot, che al primo consiglio dei ministri si presentò in je-ans facendo venir meno il segretario generale dell’Eliseo e gettò il governo nello sconforto sostenendo la legalizza-zione della cannabis, è un’altra vendi-

catrice grafomane (per fortuna in Italia la moda non è ancora esplosa). Così ha scritto “De l’intérieur”, anch’esso usci-to da poco in libreria. «Non è un rego-lamento di conti», ha voluto precisare graziosamente Duflot. Nel libro spalma amabili definizioni su Hollande, «il presidente di nessuno», sostenendo che non è un uomo incapace di decidere, semplicemente aspetta che le decisioni s’impongano da sole. Il colpo mortale assestato da Duflot si allinea alla perfe-

zione allo scenario di cui si parla negli ambienti politici parigini di rango, il fatto che la presidenza di Hollande se-gni la fine di un sistema.

A La Rochelle, al raduno socialista dell’Université d’été del 28 agosto, definito dai giornali «il rientro esplo-sivo del Ps», i toni nei con-fronti di Hollande e del rim-pasto del Valls II sono stati accesi, con gli ultrà dell’ala sinistra sulla linea di com-battimento. A dettare una posizione severa, guada-gnandosi una grandinata di applausi, è stata un’altra donna ancora, Laura Slima-ni, presidente dei Giovani socialisti: «La gauche et la droite ce n’est pas la même

chose», la sinistra e la destra non sono la stessa cosa.

Ma la ferita più grave inferta a Hol-lande è stata quella dell’autorevole Christiane Taubira, Garde des Sceaux, ministro della Giustizia, sopravvissuta a tre governi e succeduta alla vanitosa Rachida Dati. Taubira, nata nella Gu-yana francese a Caienna, fresca firma-taria di un progetto di riforma della giustizia, si è presentata accolta da un’ovazione, unica rappresentante del

dalla batho alla duflot, diverse

ex Ministre hanno scritto MeMorie velenose verso

i vertici socialisti

dall’alto: Ségolène Royal, MaRtine aubRy, e, in baSSo nella pagina accanto, najat Vallaud-belkaceM

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governo, alla riunione di La Rochelle, per la nuova corrente dei socialisti frondisti “Vive la gauche”. Un gesto dal pesante significato, tanto che Valls ha dovuto minimizzare la faccenda ricordando che «la coerenza, la limpi-dezza e la coesione voluta dal presiden-te della Repubblica non sono messe in discussione».

Per il momento, dall’Hôtel de Ville di Parigi, sede del municipio e ufficio di Anne Hidalgo, prima donna sinda-co, nessun segnale di contrasti con Hollande. Ex ispettore del lavoro, ex consigliere di Aubry, Hidalgo è stata per i due mandati l’alter ego del suo predecessore Bertrand Delanoë. È con-siderata così vicina al presidente da suscitare pesanti pettegolezzi, poi rien-trati dopo furiose minacce di azioni legali. Hidalgo - che per amministrare Parigi ha dovuto battere un’altra don-na, Nathalie Kosciusko-Morizet, det-ta, per non morire di scioglilingua, Nkm (perché i francesi usano tutti questi cognomi?) - ha messo la città sottosopra a causa dei lavori in corso, e questo fa sperare bene per la città e per la sua carriera. La prima cittadina ha espresso, come d’ordinanza, il suo sdegno nei confronti dell’affaire Valérie Trierweiler.

Nel frattempo l’ex première dame ha pensato bene di scomparire, non chiu-dendosi in convento come da antiche tradizioni di Versailles, ma lasciando trapelare di essere impegnata, come fa da tempo, in varie missioni umanitarie. Che non sembrano però aver inciso sulla sua bontà d’animo e sulla sua misericordia, tutt’altro. Nonostante, si possa immaginare, quanto speri e preghi il presidente Hollande. n

Il suo volto sbarazzino è uno dei pochi a regalare un sorriso al governo di François Hollande, la cui popolarità è ormai in caduta libera. Ma Najat Vallaud-Belkacem, 37 anni il 4 ottobre, ministro dell’Istruzione e prima donna a diventarlo in Francia, continua la sua scalata al successo e al potere: un recente sondaggio de “Le Parisien” decreta che il 51 per cento dei francesi ha una buona opinione di lei, presso i simpatizzanti di sinistra è apprezzata dall’81 per cento, e tra i socialisti dall’89 per cento. Quelli di destra invece non la amano proprio, al punto che è stata vittima di forti attacchi sul Web, soprattutto a causa delle sue origini marocchine. Qualche giorno fa ha dovuto smentire, querelando, di essere stata l’autrice di un comunicato indirizzato ai sindaci che prevedeva un corso di arabo di un’ora a settimana nell’ambito della riforma scolastica. La firma è stata falsificata, ma la notizia aveva già fatto il giro di Internet, con relativi commenti e polemiche. La giovane ministra ha però le spalle larghe ed è abituata a battaglie pesanti. Prima di questa nuova nomina la chiamavano la “ministra anti-prostituzione”, anche se l’etichetta non le piaceva molto, perché le sembrava riduttivo. Najat Vallaud-Belkacem, infatti, è stata ministro dei Diritti delle Donne nel precedente governo Hollande, di cui è considerata da sempre una beniamina (ne è stata anche portavoce), e aveva fatto scalpore quando poco tempo dopo la sua elezione, nel giugno 2012, aveva dichiarato, con una sfumatura di candida presunzione: «Il mio obiettivo è di far scomparire la prostituzione». Proclama di quelli tosti, che non aveva comunque incontrato l’unanimità: molte associazioni, tra cui quelle delle prostitute indipendenti, si erano ribellate, tra ironia e manifestazioni di protesta.Vallaud-Belkacem non si è però fatta intimorire neanche dal polemico “Manifesto dei 343 mascalzoni”, che, lanciato tra gli altri dallo scrittore Frédéric Beigbeder, ha rivendicato il diritto di usufruire del sesso a pagamento. Così sono arrivati i primi

cambiamenti e a dicembre l’Assemblea nazionale ha approvato con 268 voti la proposta di legge contro la prostituzione. Najat, che in questa situazione si era ritrovata contro anche un’avversaria prestigiosa, la filosofa femminista Élisabeth Badinter, ha continuato a difendere le proprie convinzioni e continuerà a farlo anche ora, alle prese con lo scottante dossier della scuola. Del resto, lei ha

sempre avuto le idee chiare. Najat Vallaud-Belkacem è nata a Beni Chiker, nella regione del Rif, nord-est del Marocco. Seconda di sette fratelli, con la madre e la sorella maggiore Fatiha raggiunge all’età di cinque anni il padre, operaio, emigrato in Francia per lavoro. Cresce ad Amiens ed è un’allieva modello. A 18 anni prende la nazionalità francese. Aspira a qualcosa di diverso da un futuro di operaia o casalinga: vuole fare l’avvocato. Si iscrive a Sciences-Po, dove incontra sia il futuro marito Boris Vallaud sia Caroline, moglie di Gérard Collomb, sindaco socialista di Lione che la fa entrare nel suo gabinetto. Una carriera folgorante per la giovane marocchina, che non sbaglia un colpo: nel 2002 entra nel Partito socialista, nel 2004 diventa consigliere della regione del Rodano, nel 2005 è consigliere nazionale del Ps, nel 2007 entra nello staff di Ségolène Royal e ne è la portavoce per la campagna presidenziale. Nel 2011 ricopre lo stesso ruolo per le elezioni delle primarie socialiste, finché nel 2012 è Hollande a chiamarla al governo, affidandole il ministero dei Diritti delle Donne, che ridiventa un ministero a pieno esercizio per la prima volta dal 1986. È una consacrazione, ed è anche la possibilità di dedicarsi interamente alla causa femminile. Dopo la lotta alla prostituzione, affronta anche il tema della violenza sulle donne, e cerca di ridurre il divario che c’è nel lavoro tra uomo e donna. E così un anno fa firma una convenzione con undici società francesi, che si sono impegnate ad allargare le quota rosa nei loro ruoli dirigenziali. Incita le donne a battersi, e dice: «Mi sento una privilegiata, perché ho potuto fare studi appassionanti che mi hanno permesso di scegliermi il futuro. È scandaloso pensare al pesante prezzo che ancora oggi certe donne devono pagare per essere libere». Con l’aria impertinente prosegue per la sua strada, sicura, senza esitazioni: il tempo libero lo dedica ai gemelli Nour e Louis, nati nel 2008, e al marito Boris, fino a poco tempo fa direttore del gabinetto di Arnaud Montebourg, ex ministro dello sviluppo economico. Insomma, in famiglia si mangia politica dalla mattina alla sera. Lui, riservato e discreto, si dedica molto ai figli quando lei, a suo agio sotto i riflettori e ricercatissima dai media in quanto volto nuovo della sinistra e in più donna, non può farlo. Quando era agli inizi, a Lione, non nascondeva una certa passione per il giornalismo. Ora dei giornalisti è diventata uno dei soggetti preferiti. Alessandra Bianchi

Najat, marocchina, speranza socialista

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Veduta dei grattacieli del centro di San Paolo del braSile: la città ha

quaSi 12 milioni di abitanti Su una SuPerficie di

1.500 chilometri quadrati

Oltre 400 rapine al

giorno. Trenta sequestri al

mese. E una malavita

organizzata che ormai si propone

come un vero contro-Stato. Finiti i fasti

del Mondiale, la più grande

megalopoli del Brasile fa i conti con il suo sviluppo

sbagliato Di gianni perrelli Foto Di gaia light e

alessanDro Cosmelli

Reportage

san paolo folle e dispeRata

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I mille volti di un’umanitàA sinistra: l’Edifício Copan, costruito tra il 1952 e il 1966 su progetto dell’architetto Oscar Niemeyer; grattacielo residenziale, ha 1.160 appartamenti. A destra, dall’alto: baracche della favela Paraisopolis, dove vivono circa 100 mila persone, e una donna alla fermata dell’autobus in Avenida Paulista. In basso, da sinistra: graffiti sui muri di Vila Madalena, quartiere borghese nel distretto di Pinheiros, noto per i suoi locali e la sua vita notturna; uomini d’affari in Avenida Faria Lima, una delle più importanti arterie commerciali e finanziarie della città, famosa per i centri commerciali e i suoi sport club; un senzatetto cammina su un marciapiedi del centro; passanti in piazza Ramos de Azevedo, uno dei luoghi turistici più visitati della città. Le immagini di queste pagine sono il risultato di un mese trascorso sui mezzi pubblici di San Paolo da Gaia Light e Alessandro Cosmelli, seconda tappa di un progetto iniziato a Brooklyn nel 2012 che si propone di portare alla luce i risvolti delle metropoli in un mondo in cui il numero di persone che vivono nelle aree urbane ha superato quello di chi abita nelle campagne

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Reportage

Lamborghini e baraccopoliDa sinistra, in senso antiorario: un uomo nel quartiere Morumbi, una delle zone più antiche della città, che recentemente è stata oggetto di una gigantesca speculazione edilizia; un palazzo d’epoca in ristrutturazione in centro; il distretto Liberdade, dove vive la più grande comunità giapponese del mondo fuori dal Paese d’origine: qui vengono anche pubblicati i due quotidiani “Sao Paolo Shimbun” e “Nikkey Shimbun”, entrambi destinati ai nippobrasiliani; una concessionaria della Lamborghini; un negozio di gommisti in Avenida Europa Itaquera; giovani nel quartiere di Vila Madalena. Nella foto grande a destra: una favela nella parte orientale della città. Secondo uno studio commissionato dal governo nel 2007 (l’ultimo disponibile) a San Paolo ci sono 1.538 favelas, che occupano un territorio di 30 chilometri quadrati e ospitano quasi 2 milioni di persone

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Reportage

U na città senza li-miti. Che oltrepassa l’orizzonte verso tutti i punti cardinali. Tale appare San Paolo vista dall’aereo, quando in fase di atterraggio per una decina di minuti si snoda davanti agli occhi una infinita e affastellata sequenza di grattacieli, fave-las, autostrade, parchi, corsi d’acqua. Il cuore brasiliano della politica, dell’eco-nomia, della cultura, della moda. Una regione, più che una megalopoli, di 22 milioni di abitanti. Immersi in una natura lussureggiante che può regalare sorprese. Come un branco di scimmie che spunta-no all’improvviso da un palmeto.

Sampa, il nomignolo con cui è veloce-mente chiamata, è la città più importante del Sud America. Traboccante di energia e di calore umano. La meta del sogno brasiliano che attrae eserciti di inurbati da tutti gli angoli del paese. Ma anche dall’universo mondo. Metropoli cosmo-polita, ospita la più grande comunità nipponica fuori dal Giappone e almeno

un residente su due con qualche ascen-dente italiano. Un magnete potentissimo. Nonostante, in un groviglio di contrad-dizioni, continuino a incancrenirsi i drammatici problemi di criminalità, vio-lenza, droga, emarginazione, traffico, inquinamento.

Ma dal cielo è impossibile catturare l’anima della città. Per esplorarne lo spi-rito bisogna calarsi nel tessuto urbano. Girare per le strade, penetrare negli am-bienti, confrontarsi con gli abitanti, im-mergersi nel verde. Vedere la città con gli occhi di chi ci risiede e vive la sua quoti-dianità. È l’operazione documentata nel-le immagini di queste pagine. Un’indagi-ne artistico-fotografica realizzata sul campo da Alessandro Cosmelli e Gaia Light, che hanno trascorso un mese a San Paolo percorrendola in lungo e in largo a bordo degli autobus di linea. Seconda tappa di un progetto iniziato a Brooklyn nel 2012 che si propone di portare alla luce i contrastanti risvolti delle metropo-li in una società globalizzata in cui il nu-mero di persone che vivono nelle aree urbane ha superato quello dei residenti nelle zone rurali.

Il viaggio spazia dall’opulenza della roccaforte della finanza e degli affari, che si articola intorno al serpentone dell’Ave-nida Paulista, alle miserie delle favelas più degradate in mano ai signori della droga. Un frastornante rimbalzo fra primo e terzo mondo, che spesso convivono a

distanza di pochi isolati. La metropoli che luccica alterna nel suo caleidoscopio il temperamento forte di New York, le suggestioni avveniristiche alla “Blade Runner” e le sfumature dolci delle città europee. È in quest’area che si concentra-no gli edifici più imponenti, dalle torri in vetrocemento che sfidano il cielo alle perle severe dell’architettura neoclassica o gotica o barocca. E anche paradisi di equilibrio ecologico come l’isola pedona-le Jardins. Un sogno futuristico che pur nella successione di negozi di lusso e di ristoranti di tendenza sbarra le porte allo stress cittadino delle convulsioni e dei rumori. Un’opera realizzata da Oscar Niemeyer che già negli anni Cinquanta aveva dato la sua impronta al profilo urbanistico firmando il Copan, un palaz-zone diventato col tempo un’icona di San Paolo. Ma, appena svoltato l’angolo, si stagliano anche le atmosfere ridenti delle facciate coloniali e dei piccoli commerci brulicanti intorno a rua Augusta che ri-propongono la dimensione del Brasile più autentico.

Lungo le strade eleganti si srotola una lunga teoria di negozi di lusso, marchi celebri, ristoranti pluristellati, teatri pre-stigiosi, atelier di alta moda, night sofisti-cati, bordelli con escort levigate. Le notti di San Paolo non hanno paragoni in Sud America. Più lunghe di quelle di Rio, più eccitanti di quelle di Buenos Aires. I su-permercati rimangono aperti 24 ore al

da sinistra: una strada di terra nella favela do bato, a est di san paolo;

la favela paraisopolis; una donna alla fermata dell’autobus in centro

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giorno. Si può cenare fino all’alba in de-cine fra i 12 mila locali che propongono menù multietnici per tutte le tasche.

A ridosso della downtown si espande il quartiere bohémien-chic di Pinheiros, la mecca degli artisti e della movida cre-ativa. Che ha la sua proiezione a Vila Madalena, densa di gallerie, balzata quo-tidianamente agli onori della cronaca durante i recenti Mondiali di calcio come epicentro delle tifoserie internazionali. Allargando il raggio si procede verso i pascoli dell’alta società. L’area con le re-sidenze più sontuose e più care è Morum-bi, dove la ricca borghesia vive in condo-mini di lusso presidiati come fortilizi. Barriere di filo spinato sopra i muri di cinta percorse da corrente ad alta tensio-ne. Vigilantes armati che controllano ogni varco. San Paolo è la capitale dei sequestri (almeno uno al giorno) e delle rapine a mano armata (circa 400 al gior-no). A pochi passi da Morumbi sorge la favela Paraisopolis, bacino di coltura per il piccolo crimine.

La mappa delle bidonville si frastaglia a macchia di leopardo. È la faccia abbru-tita della metropoli. Trasuda miseria, stenti, infelicità, fatica di vivere. Senza le coloriture di folclore che illuminano le baraccopoli di Rio, assurte ormai a desti-nazioni del turismo da brivido. Più anco-

ra che a Rio gli alveari disperati di Sampa sono vessati dalla mafia del narcotraffico. E, al contrario di Rio dove due o tre gang si contendono il territorio, sono domina-ti da una centrale unica: il Primeiro Co-mando da Capital. È la più grossa orga-nizzazione criminale di tutto il Brasile, fondata nel ’93 da alcuni carcerati nella prigione di Taubatè, e sviluppatasi poi capillarmente in tutte le favelas pauliste. Dove recluta la manovalanza e guadagna ubbidienza e rispetto non solo con il terrore ma anche con un costante impe-gno di assistenza sociale. Supplendo alle carenze dello Stato che nonostante la crescita del Pil non riesce a farsi carico dei problemi di sopravvivenza delle fasce più disagiate. Un’azione sostenuta da una componente ideologica che cerca di co-prire i crimini più efferati sotto il mantel-lo della lotta per il riscatto sociale. Mar-cola, il capo supremo di 46 anni che ha trascorso oltre metà della sua vita nelle celle di massima sicurezza e deve sconta-re più ergastoli, indica ai primi posti fra i libri preferiti “L’arte della guerra” di Sun Tzu, “Il Principe” di Niccolò Machiavel-li e le biografie di Ernesto Che Guevara. Si considera un comandante militare e non un leader del crimine, giustificando come moti di liberazione le esplosioni di guerriglia urbana contro la polizia.

Ma il carattere di Sampa risalta so-prattutto dalla galleria dei volti. I mana-ger di Borsa con l’espressione decisioni-sta di chi non deve chiedere mai. Le ra-gazze da copertina che sorridono spa-valde distillando seduzione. La massaia che stende i panni con aria perplessa davanti alla sua baracca. I fedeli con la mimica infervorata che affollano i tem-pli delle chiese evangeliche. I poliziotti con i muscoli facciali in perenne tensione. I nullafacenti dallo sguardo attonito che oziano all’ombra di edifici fatiscenti. I calciatori in erba che sbuffano dietro un pallone sui campetti scalcinati sognando Neymar. I bambini che sgranano gli occhi sulla giostra del luna park. I graffitari che trasferiscono lampi di provocazione sui muri in disarmo dei palazzi abbandonati. I vagabondi dalle smorfie stordite. Gli ubriaconi dalla faccia triste o rassegnata fra mani tremule. I meninos da rua che ammiccano con furbizia. Le adolescenti delle periferie che a dispetto di un cliché femminile incline all’esuberanza esibi-scono con esitazione labbra scontata-mente troppo cariche di rossetto.

La gamma della sfere emozionali in una città che è un crogiuolo di razze e un palcoscenico di disparità sociali. San Pa-olo, radiografata nei multiformi aspetti, attraverso le lenti disincantate della sua vibrante umanità. Fonte di ispirazione per letterati e musicisti. La Sampa canta-ta nel brano omonimo (un atto d’amore) da Caetano Veloso che si strugge «per la nuda poesia concreta dei tuoi angoli e per l’ineleganza saggia delle tue ragazze».

Gianni Perrelli

Il capo dell’organizzazione che controlla le favelas si chiama Marcolas, ha 46 anni e dice di ispirarsi a tre maestri: Sun Tzu, Machiavelli e Che Guevara

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Al centro, la parola. Protagonisti studiosi, nomi internazionali, scrittori specialmente. Settembre è il tempo delle trasferte colte: rassegne tra le più accreditate, consolidate dal tempo e da un largo seguito, scelgono la stagione della rentrée. Così, da Nord a Sud, al riparo di un portico o in un giardino di limoni; ai piedi di una cattedrale o in un chiostro secolare, si dà appuntamento un pubblico attento e mai casuale. Semmai, messo alla prova dall’imbarazzo della scelta.Festival della Politica, Mestre, fino al 14. Promosso dalla Fondazione Gianni Pellicani è dedicato a “Politica e violenza”. Tra gli ospiti Marc Lazar, Enrico Ghezzi, Massimo Donà. Il 13 Ezio Mauro, Emanuele Macaluso e Massimo Cacciari ragionano su “Vita e morte della sinistra italiana”. Sabina Guzzanti porta in scena “Homo srl”, monologo inedito (14).Lectorinfabula, Conversano, fino al 14. “Privato, Pubblico e Comune”: ne parlano Marco Malvaldi, Marino Sinibaldi, Giuseppe Laterza. E Beatrice Masini, coi bambini.Marina Cafè Noir, Cagliari, fino al 14. “Non tutto è in vendita”. Con Sarah Menefee di Occupy San Francisco, Maurizio De Giovanni (13), i Wu Ming e Michela Murgia (14).FestivalFilosofia, Modena Carpi Sassuolo, 12-14. Dal 2001 lezioni magistrali dei più grandi filosofi inchiodano un pubblico di 200 mila persone sui dilemmi dell’esistenza. Parlano di Gloria Remo Bodei (12), Zygmunt Bauman (13) Marc Augé (14). Alessandro Baricco rievoca le gesta di Achille (12).Conversazioni di San Francesco, Lucca, fino al 23 novembre. “Ilaria e le altre, ovvero della bellezza eterna” è un ciclo di incontri ideato da Lea Codognato, Alba Donati e Sergio Risaliti e ispirato dal Monumento funebre di Ilaria del Carretto di Jacopo della Quercia. Con Aldo Nove (4 ottobre), Melania Mazzucco (19), Bernard-Henri Lévy (7).Jewish and the City, Milano, 13-16. Il Festival

di cultura ebraica si muove sulla traiettoria della festa di Pesach, la Pasqua. Denso il 14: da Catherine Chalier a Salvatore Veca.Pordenonelegge, 17-21. Grandi ospiti alla Festa del libro con gli autori, da Boris Pahor a David Grossman. Il 20 Ricardo Menéndez Salmon, Umberto Eco e l’attesa Margaret Atwood. Chiudono Nicolai Lilin, Yasmina Khadra, Katherine Pancol, Jamaica Kincaid. Arte libro, Bologna, 18-21. Con un omaggio alla grafica dei libri di Andrea Camilleri si apre il rinnovato Festival del libro e della storia dell’arte, dedicato all’“Italia: terra di tesori”. Taobuk, Taormina, 20-26. È Luis Sepúlveda il premiato del primo Taobuk Award. Al Teatro antico aprono il presidente del Senato Pietro Grasso e Nicola Piovani. Seguono Giancarlo De Cataldo (21) Giuseppe Catozzella (22), Francesco Piccolo (26). Omaggio a Scianna.Dialoghi di Trani, 23-28. Al Castello Svevo si parla di “Futuro”. Con Ennio Capasa (24), Marco Travaglio (27), Umberto Guidoni (26).Torino Spiritualità, Torino, 24-28. Cinque giorni di incontri coordinati dal Circolo dei lettori. Parlano di “Cuore intelligente” Roberto Prosseda, Serge Latouche, Valeria Parrella. Women’s Fiction Festival, Matera, 25-28. nello scenario dei Sassi arriva Bella Andre, regina della narrativa rosa. E a Clara Sánchez, il 27, si assegna il premio “Baccante”.

chailly scala reale | settis: come cambia l’antichità | picasso sorprendente | cinema italiano: bellezza per un anno

Appuntamenti

Settembre in festivalDi SAbiNA MiNArDi

LUIS SEPúLVEDA RICEVE IL “TAOBUK AWARD” A TAORMINA. A DESTRA: UNA SCENA DA “LA MIA DROGA SI CHIAMA JULIE” DI TRUFFAUT. SOTTO: I SUD SOUND SYSTEM

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Festeggia i vent’anni di attività il Mei, il Meeting delle Etichette Indipendenti, con un’edizione dedicata a Roberto Freak Antoni, il cantante degli Skiantos scomparso lo scorso febbraio. Dal 26 al 28 settembre, a Faenza, si riuniranno gli stati generali dell’in-dustria musicale italiana tra premi, concerti, incontri, seminari e workshop. Partita in sordina nel 1994, la manifestazione si è trasformata in un appuntamento irrinunciabile per chi vive di musica in Italia. Sono i numeri a raccontare la crescita del Mei che oggi richiama oltre 30mila visitatori, 400 artisti e 200 espositori. Ne è consa-pevole il patron Giordano Sangiorgi: «Quando abbiamo inizia-to, certo non ci aspettavamo che il Mei diventasse una manife-stazione di rilievo nazionale. In questi venti anni ha subito cambiamenti radicali: abbiamo valorizzato il concetto di indi-pendente come colui che riesce a proporre validi percorsi arti-stici alternativi, arrivando a un’ampia fetta di pubblico. Dal Mei sono passati grandi artisti ai loro primi passi come Afterhours, Subsonica, Baustelle, Negramaro, Caparezza, Sud Sound Sy-stem e molti altri». L’edizione 2014 premierà con la “Targa MEI Musicletter 2014” quattro programmi che in tv, radio e Internet hanno offerto un contributo alla diffusione della musica indipendente in Italia: “Webnotte” di Repubblica TV, a cura di Assante e Castaldo, “Roxy Bar” di Red Ronnie, “Casa Bertallot” di Alessio Bertallot e “Ghiaccio Bollente” di Carlo Massarini. In arrivo anche un doppio cd con 38 brani di gruppi come Massimo Volume, Dia-framma, Marlene Kuntz, Almamegretta, Perturbazione, Bau-stelle, Tre Allegri Ragazzi Morti, Le Luci della Centrale Elettri-ca (Sony Music). Roberto Calabrò

Musica

passerella degli indipendenti

A trent’anni dalla morte di François Truffaut, Milano gli rende omaggio con una retrospettiva di 21 sue opere in versione originale allo spazio Oberdan (dal 17 settembre al 5 ottobre). Da “I 400 colpi” (1959), uno dei capisaldi della nouvelle vague e prima apparizione del personaggio di Antoine Donel, alter ego di Truffaut protagonista di altre cinque opere, a “Jules et Jim”, memorabile triangolo amoroso che si affaccia sulla Prima Guerra Mondiale. E poi capolavori indiscussi come “Effetto notte”, Oscar come miglior film straniero nel 1974 inserito da “Time” fra i 100 migliori film di tutti i tempi, ma anche opere che in Italia hanno avuto destino avverso

come “La calda amante”, solo recentemente distribuito senza tagli censori. Un’occasione per rivedere attrici e attori francesi divenuti icone del grande schermo: da Fanny Ardant a Jean Paul Belmondo, da Jeanne Moreau a Jean-Louis Trintignant. Enrica Murru

Solo trenta giorni dal 15 settembre al 15 ottobre per candidare le proprie opere al Premio Terna 2014. Il concorso aperto a tutti gli artisti maggiorenni residenti in Italia ha, quest’anno, un tema molto ampio e complesso, ovvero “L’arte guarda avanti”. Un invito a proiettarsi nel futuro e superare le inquietudini da crisi «per tradurre in realtà tangibili i progetti, le opere, i pensieri, i cambiamenti che desideriamo» spiegano i curatori della manifestazione Cristiana Collu e Gianluca Marziani. Il montepremi, del valore

di circa 70mila euro, prevede per i primi classificati una “artist residency” a Berlino e la possibilità di esporre la propria opera all’interno di una grande manifestazione di Contemporary Arts di Torino in calendario per il prossimo novembre. I secondi e i terzi classificati si aggiudicheranno un premio acquisto ripettivamente di tremila e duemila euro. Tutti i finalisti saranno inseriti nel catalogo, in distribuzione in Italia, edito da Silvana Editoriale. Per tutte le informazioni e le modalità di partecipazione consultare il sito www.premioterna.com.

Premio Terna a caccia di giovani artisti

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la mia scala realeCultura

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La Scala di Riccardo Chailly, fra tradizione e ampliamento di reperto-rio, aperta al mondo e allo stesso tempo ben radicata nella sua identi-tà storica. Dove il parti-

colare, ovvero la cultura italiana, è in-teso come valore universale, un vero e proprio “patrimonio dell’umanità”. Chailly, ormai prossimo alla scadenza del 3 ottobre quando, con la direzione della Messa da Requiem di Verdi nel tempio del Piermarini, si presenterà alla città in attesa dell’ufficializzazione della nomina, ci concede una chiacchie-rata sul futuro del teatro lirico più im-portante d’Italia e, per la sua storia, del mondo. La prima “ad personam”, in esclusiva, dopo l’annuncio del suo in-carico di direttore musicale scaligero, nel dicembre 2013, succedendo nella carica a Daniel Barenboim. Ecco dun-que le idee portanti di Chailly.«Coloro che amano la nostra musica, si aspettano che la Scala s’identifichi per quello che è sempre stata famosa, cioè il grande repertorio operistico italia-no», esordisce il maestro.I motivi di questa scelta?«È un forte senso di responsabilità, che io sento nei confronti della tradizione. Un punto di forza di questo teatro sugli altri, nel mondo. Come direttore musi-cale ho sempre tenuto in massima con-siderazione la matrice culturale degli ensemble dove ho esercitato la mia at-tività. Ad Amsterdam, al Concertge-bouw, erano imprescindibili Mahler e

Bruckner. A Lipsia, con la Gewandhaus, sulla colonna portante di Bach, ci dove-vano essere Mendelssohn, Beethoven, Schumann e Brahms. Le storie di queste compagini sono le naturali radici musi-cali su cui basare lo studio e l’impegno interpretativo. A Milano gli autori a cui mi dedicherò saranno Puccini, Verdi, Rossini e Donizetti». E la musica contemporanea?«Necessaria, per un teatro della leva-tura della Scala. Nella prossima stagio-ne, con l’opera “Fin de partie” di Györ-gy Kurtág, abbiamo lanciato un segna-le forte da parte di uno dei grandi au-tori viventi. Continueranno poi le commissioni da parte della Filarmoni-ca scaligera. Ciò che auspico è che l’orchestra stabilisca un rapporto più diretto, coinvolgente con gli spettato-ri, che riporti alla Scala ancor più amore e affetto dal suo pubblico. Inte-razione e spiegazione, a esempio, per le opere eseguite in prima assoluta».Qual è il biglietto da visita per il prossimo Expo?«Sarà un momento in cui tutto il mondo guarderà Milano. Dovremo esibire la forza e la capacità di espressione di tutte le potenzialità migliori della città. Per quanto mi riguarda io avrò la responsa-bilità, il primo maggio 2015, di inaugu-rare con il Teatro alla Scala questa pre-stigiosa rassegna. Lo farò con la “Turan-dot” di Puccini. Un segnale che arriva da due nostri grandi autori: oltre a Puccini, Luciano Berio, che completò il finale dell’opera. Lo stesso che portai alla luce in prima mondiale nel 2002 ad Amster-dam con la regia di Nikolaus Lehnhoff. Luciano assistette per molti giorni alle

prove durante le quali avvennero anche delle divergenze con il regista, poi chia-rite, e apportò infinite correzioni alla partitura da me trasmesse poi a Casa Ricordi per una nuova pubblicazione. Ricordo ancora l’emozione di Berio causata dal grande senso di responsabi-lità che ha vissuto con trepidazione per Puccini e il suo ultimo capolavoro. Il messaggio è evidente: sulla nostra tradi-zione si innesta la produzione di grandi musicisti innovatori come Berio».Un legame con la Scala del suo grande mentore Claudio Abbado, che la diresse dal 1968 al 1986?«Parlare di Abbado è parlare dei miei ricordi personali, delle emozioni che mi suscitano. Quando Abbado mi invitò nei prima anni Settanta a diventare suo assistente per i concerti sinfonici, fu un modo per avere accesso a tutte le sue prove e a quelle di tanti grandi diretto-ri ospiti. Un’esperienza fondamentale. Con il Requiem di Verdi, che lo vide tante volte protagonista, intendo anche celebrare la memoria di Claudio come amico, oltre che come maestro esempla-re. Un grande interprete che ha influen-zato generazioni di musicisti e allargato la conoscenza della musica a nuovi pubblici. Indimenticabili i suoi “Woz-zeck”, “Boris”, “Simon Boccanegra”, “Macbeth”, “Don Carlos” eccetera. Così come le sue esecuzioni di Mahler, Brahms, Nono e altri autori allora poco frequentati dal grande pubblico». Nel suo stile sarà un Verdi in cui l’approc-cio sinfonico sarà fondamentale. «Con però la massima attenzione a tutto ciò che riguarda la parte di ac-compagnamento alla voce umana. Fo

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Riccardo Chailly, arrivato alla direzione del teatro milanese, parla per la prima volta dei suoi progetti.

Dal recupero della tradizione al modello AbbadodI rICCArdo lENzI

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Cultura

L’orchestra è al servizio del canto, che è così ben distribuito da Verdi, per le parti corali e quelle solistiche. Il Re-quiem esige una chiarezza negli stac-chi dei tempi, come sempre in Verdi dettati anche dalle sue scelte metro-nomiche. E d’altra parte all’interno di questa chiarezza, una grande flessibi-lità richiesta proprio dalla vocalità verdiana».C’è ancora qualche reminiscenza abbadia-na nel concerto pubblico che lei ha tenuto due anni fa a Milano, in piazza del Duomo, con Stefano Bollani per Gershwin, alla presenza di cinquantamila persone, espe-rienza che rinnoverà nel 2015?«Claudio mi ha insegnato l’idea di di-vulgazione. Il mio fine è stato quello di suonare grande musica al meglio per tutti. In questo ho un’assonanza con i musicisti dell’orchestra e con la direzio-ne artistica della Filarmonica. Lo rea-lizzereremo uscendo dalle mura scali-gere. E spero di farlo anche con dei “concerti-scoperta”, come studiare una partitura insieme al pubblico, spie-garla e decomporla per poi riassemblar-la in una esecuzione che per questo ri-sulterebbe più comprensibile anche ai neofiti. Stiamo elaborando il progetto sia operistico che sinfonico».“Viva Verdi” è stato il cd classico più venduto del 2013. Anche le giovani ge-

nerazioni sentono questo legame con il bussetano.«Non mi stupisce. È anche l’occasione per considerare come, mediaticamente par-lando, la Filarmonica scaligera, protago-nista di quell’album, debba essere sempre più presente nel mondo. Per questo stiamo lavorando a un progetto video dedicato ancora a Verdi, con la Decca di Londra. Un discorso che, per forza di cose, presto dovrà riguardare anche Internet. Anche questo è nella progettazione futura». A proposito di Pereira: cosa ha da dire sul presunto conflitto d’interessi che avrebbe avuto nell’acquistare per la Scala alcune opere che già aveva programmato a Sali-sburgo, dove precedentemente era diret-tore artistico? «Le coproduzioni sono d’obbligo ancor più per la crisi finanziaria che stiamo attraversando. I contratti fra enti statali non possono che essere limpidi. La burocrazia interna ai tea-tri è altra cosa che non mi compete. A ciascuno il suo sapere. Consideri però che i più grandi teatri del mondo vi-vono di coproduzioni, da New York a Vienna a Londra, a Monaco di Bavie-ra. È così che oggi, in anni di crisi, si programma per puntare a un progetto artisticamente valido con grande at-tenzione ai costi».Recentemente Pereira ha espresso qual-

che perplessità a proposito del fenomeno dei Loggionisti, che tanto hanno pesato con i loro polemici interventi nella gestio-ne di Stephane Lissner.«Il dissenso è lecito. Ma mi spiace sem-pre quando travalica con eccessi il rispet-to delle idee altrui, trasformandosi in un atteggiamento arrogante, non consono all’importanza e alla classe del teatro».Sempre dei Loggionisti si è lamentato il tenore Roberto Alagna.«Alagna mi ha fatto quasi prendere un infarto la sera di quella famosa recita di “Aida”, dopo Sant’Ambrogio (si riferi-sce alla replica in cui il cantante fu contestato ferocemente, n.d.r.)»Rivedremo Riccardo Muti alla Scala?«Ho fatto una conferenza stampa molto chiara in proposito: devono tornare alla Scala i direttori che han-no segnato la sua storia. E lo stesso devono fare artisti di prestigio mon-diale, che non hanno mai condotto alla Scala in passato».È immaginabile una forma di collaborazio-ne fra la sua magnifica orchestra tedesca, la Gewandhaus di Lipsia, e la Scala? «Posso solo dirle che in febbraio faremo una tournée europea molto corposa, e saremo anche alla Scala. Un primo segno di collaborazione. Per il fu-turo vedremo».Intanto con la Gewandhaus è in lizza per vincere il premio della rivista “Gramophone”, nella sezione riguardante la migliore esecuzione orche-strale, con l’integrale sinfoni-ca brahmsiana. «Ripensare Brahms con un ensemble dove le abitudini della tradizione hanno la-sciato enormi radici, come era già avvenuto per l’inte-grale beethoveniana, è stata un’impresa non da poco. Un’orchestra coraggiosa che con me ha saputo ri-schiare, rileggendo tanti capolavori del passato e abbandonando strade già percorse, più sicure».Il suono delle orchestre italia-ne e di quelle tedesche. Po-tremo mai ascoltare un gior-no dall’orchestra scaligera

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l’integrale delle sinfonie di Bruckner? «Dipende anche da come si profila il mio futuro milanese. La mia intervista con lei è un po’ il debutto, per parlare di questa nuova carica. Tutto è ancora in evoluzione. Ma se ci saranno le condizioni di lavoro e di collaborazio-ne che io auspico, allora sì che si può pensare anche a un un’integrale bruckneriana o di altri autori. Bruckner potrebbe rappresentare per la Filar-monica un passo epocale».

Fra i suoi progetti anche quello riguardan-te Sciostakovic?«Un autore non abbastanza eseguito a Milano. L’Orchestra della Scala è se-condo me uno strumento stilisticamen-te molto idoneo per affrontarlo. Ho in mente da qualche tempo la sua Quinta sinfonia. Sciostakovic è un autore a cui arrivo relativamente tardi. In passato ho eseguito tanta sua musica da film, danza, teatro e opera. Un preludio ide-ale allo studio delle sue complesse sin-

fonie. Consideri a esempio quante siano le affinità musicali fra l’ultimo Mahler e Sciostakovic».Che importanza potrebbe per lei avere una collaborazione con l’altra orchestra mila-nese, la Verdi, di cui è stato uno dei mas-simi promotori?«Recentemente ho celebrato il suo venten-nale interpretando l’Ottava sinfonia di Mahler. Ho devoluto l’onorario, dando un piccolissimo contributo alla loro difficile realtà finanziaria.Per me è importante questa idea di collaborazione fra enti, e spero di attuarla anche con la Verdi. Un decennio fa riunii per la prima volta questi due ensemble nell’esecuzione di “Ameri-ques” di Varèse e fu un successo. Vorrei ripartire con un’idea di quel genere».Lei ama vivere ad alta quota in Engadina. È poi impegnato a Lipsia: come si organiz-zerà per la Scala?«Non amo il pendolariato. Torno in città».Con il braccio infortunato, per una frattura al gomito destro avvenuta a giugno duran-te una passeggiata in montagna, Chailly si avvicina dunque alla data del 3 ottobre, che segnerà il nuovo corso scaligero. «Non voglio assolutamente mancare all’appuntamento con il Requiem di Verdi. L’Orchestra della Scala per la parte sinfo-nica e il coro per quella vocale ne sono gli interpreti più idonei per tradizione, stile, cultura e frequentazione. Possono inter-pretare le pieghe interne più profonde, tragiche e spirituali di questo capolavoro definito da Brahms “l’opera di un genio”. Verdi lo diresse a cinquecento metri dalla sala del Piermanini, nella chiesa di San Marco, in prima mondiale. E poi scompar-ve al Grand Hotel et de Milan, che è situa-to a duecento metri dalla Scala. Un trian-golo della memoria, un crogiolo di sensa-zioni, per ogni autentico milanese. Per me, che sono cresciuto con il senso della storia musicale di questa città, avendo seguito fin da bambino questo teatro, del quale mio padre è stato per due mandati Direttore artistico, sarà un momento di straordina-ria commozione». n

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Sessantunenne, milanese, Chailly è figlio dell’importante compositore Luciano, autore di storici lavori teatrali e strumentali. Fra i suoi insegnanti di direzione d’orchestra, Franco Ferrara a Siena. Dopo essere stato assistente nel 1972 ai concerti sinfonici del Teatro alla Scala di Milano per volontà di Claudio Abbado, ha debuttato prima a Chicago (1974), quindi a San Francisco (1977) e poi alla Scala (1978 con “I Masnadieri” di Verdi). Ha diretto nei massimi teatri del mondo e le più grandi orchestre internazionali. Direttore stabile dell’Orchestra Sinfonica della Radio di Berlino dal 1982, Chailly è stato anche principale direttore ospite della London Philharmonic Orchestra (1982-85). Dal 1988 è stato direttore stabile del Concertgebouw di Amsterdam. Direttore musicale dell’Orchestra sinfonica G. Verdi di Milano (1999-2005), dal 2005 è direttore principale dell’orchestra del Gewandhaus di Lipsia. Le sue integrali sinfoniche dedicate a Bruckner, Mahler, Brahms e Beethoven (pubblicate da Universal) sono state premiate con numerosi riconoscimenti. In campo operistico è pietra di paragone per i capolavori di Puccini, Rossini e Verdi. Direttore principale della Scala dal primo gennaio, assumerà la carica di direttore musicale dal 2017.

Giro del mondo e ritorno a casaLA Cover deLLe sinFonie di brAhMs in LizzA per i GrAMophone AwArds. sotto: AbbAdo, Mentore di ChAiiLLy. neLLA pAGinA ACCAnto: pereirA Con zubin MehtA

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Cultura

Che fine ha fatto l’arte classica? Ma davvero non possiamo far-ne nient’altro che (per esempio) spedire i bronzi di Riace, quasi fossero ingombranti sopram-

mobili, alla Maddalena o a Milano al segui-to dei potenti della politica? Nell’età dell’il-luminismo, si puntarono tutte le carte sul valore educativo dell’arte greca: si ritenne che essa trasforma chi impara a conoscerla, donandogli il senso del bello, una vita inte-riore più ricca. Fu Winckelmann, nella fa-mosa “Storia dell’arte nell’antichità” (1763), a mettere le statue antiche al centro di una visione del mondo che ispirasse alle classi colte nuovi ideali etici ed estetici. Grazia, equilibrio, misura divennero crite-ri distintivi dell’arte greca, ma anche mo-dello per artisti come Canova o Thorval-dsen. Questa visione, oggi assai datata, fu allora considerata rivoluzionaria, tanto è vero che Diderot, scrivendo «io amo i fa-natici», citava Winckelmann accanto a Rousseau. Fu anche per questo che greco e latino divennero l’asse portante dei siste-mi educativi europei: ma che cosa succede oggi, mentre lo spazio della cultura classica si riduce ogni giorno?

L’arte antica non è più quella di Winckel-mann, e non solo perché l’educazione clas-sica ha perduto la sua posizione centrale. Fra Otto e Novecento tre forze principali agirono contro la classicità “alla Winckel-

mann”, eppure oggi possono essere rilan-ciate sul tappeto come altrettanti meccani-smi conoscitivi che suscitino per l’arte greca e romana una nuova curiosità. Questi tre processi sono: il rapporto fra originali e copie, la scoperta che i marmi antichi non erano bianchi ma vivacemente colorati, e infine l’irruzione sulla scena di un crescen-te numero di bronzi greci. Da questi tre punti di vista, l’immagine tradizionale dell’arte greca si è rafforzata o si è indebo-lita? Sarà di nuovo possibile farne un ingre-diente del nostro orizzonte culturale, e non solo un tema per specialisti?

Winckelmann non fu mai in Grecia, anzi nemmeno in Sicilia, e costruì la sua “Storia” solo sulle statue che vedeva a Roma. Era convinto che fossero originali greci, “pezzi unici” di un’arte suprema. Ma si scoprì presto che la più gran parte di quei marmi sono in realtà copie di età romana da origi-nali perduti di grandi maestri. Non abbia-mo nemmeno un originale di Policleto o di Lisippo, anche perché molti erano in bron-zo e furono fusi nel Medioevo per fame di metalli. Gli archeologi cominciarono a ri-costruire gli originali perduti con una sofi-sticata “critica delle copie”, che però com-portò la svalutazione delle “statue di Ro-ma”, che avevano determinato il gusto delle élites ma ora rivelavano un carattere derivativo e seriale. Arrivavano intanto a Londra i marmi del Partenone (1816), a

Monaco quelli di Egina, a Berlino l’Ara di Pergamo (1886); la Grecia si apriva agli scavi, e numerosissime scoperte di marmi originali ricacciavano in un angolo la folla di copie di età romana: al vertice del gusto non c’era più il “classico”alla Winckel-mann, ma l’“autentico” (anche un mutilo torso, come in una famosa poesia di Rilke). Ma oggi non è forse il tempo adatto per rivalutare la serialità, per vedere nella stessa moltiplicazione degli originali la forza di un’emulazione culturale attuale anche nel XXI secolo?

Anche l’abbagliante biancore del mar-mo, così caro a Winckelmann, venne presto travolto dalla scoperta di tracce di policro-mia sui marmi antichi. Specialmente elo-quente la coloritura delle korai (ragazze) scavate sull’Acropoli di Atene dal 1863 in poi: erano state esposte all’aperto per poco, poi sepolte dopo le incursioni persiane del 480 a.C. Ma nonostante questa ed altre prove, accettare la scultura antica come colorata era difficilissimo: per l’inglese W. H. Leeds, una statua greca dipinta a vivaci colori «somiglia a un barbaro coperto di tatuaggi, con figure grottesche dipinte sulla pelle»; meglio ignorare le nuove scoperte, «e andare avanti come si è sempre fatto». Negli ultimi anni, un agguerrito gruppo di studiosi (fra cui in Italia Paolo Liverani, in Germania Vinzenz Brinkman, in Danimar-ca Jan Østergaard) hanno ripreso in grande

guarda com’è cambiato giove L’antichità è sempre con noi ma non è più quella di un tempo. Nuove scoperte e studi archeologici ci obbligano a vederla con occhi diversi. Uno studioso riflette su come comunicare l’arte classicaDi salvatore settis

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queste ricerche utilizzando nuove tecnolo-gie di analisi e foto a luce radente. Le mostre sul tema, fra cui “I colori del bianco” ai Musei Vaticani nel 2004, stanno avendo molto successo: la prossima (“Transforma-tions. Classical sculpture in Colour”) apre in questi giorni alla Ny Carlsberg di Copen-hagen. Fra i risultati più impressionanti, la ricostruzione sperimentale della coloratis-sima veste di un arciere troiano (forse Pari-de), con pantaloni attillati e una specie di pullover. Un’immagine così ci sembra an-cora “barbarica”, oggi che anche noi ci copriamo di tatuaggi? O un’arte greca tanto difforme da una classicità un po’ stantia merita più attenzione?

Terzo meccanismo di crisi (e rinnova-mento) dell’arte antica, la scoperta dei bronzi greci. Oggi è difficile credere che fino a poco più di un secolo fa non si co-nosceva quasi nessuna statua greca in bronzo. Del resto anche ora ne abbiamo pochissime, rispetto alla loro frequenza nelle città antiche. Secondo Plinio il solo Lisippo ne produsse 1500 e nella sola Rodi ce n’erano 73.000. Spezzati e fusi nel Medio Evo per farne monete, spade, col-telli, i grandi bronzi furono assenti nella stagione formativa della storia dell’arte

greca. Eppure per i Greci il bronzo era più prestigioso del marmo, più “appropriato” a rappresentare dèi ed eroi. Il rarissimo “Fanciullo in preghiera” trovato a Rodi verso il 1503 fu conteso in tutte le città d’Europa, migrando fra Venezia, Verona, Mantova, Londra, Parigi, Vienna, Potsdam, Berlino (dov’è ancora); e l’Apol-lo trovato presso Piombino nel 1832 prese subito la via del Louvre. Ma il grande ri-torno delle statue bronzee di maestri greci comincia con la sensazionale scoperta dell’Auriga di Delfi (1896), a cui ne sono seguite molte altre: fra le più recenti, l’At-leta di Lussino (Croazia), restaurato ed esposto a Firenze, e lo straordinario “Apol-lo che uccide la lucertola” del museo di Cleveland, che si aggiunge a una serie di copie di questa famosa statua di Prassitele: ma la sua qualità è tanto alta che, secondo il curatore Michael Bennett, quello del museo americano potrebbe essere l’origi-nale. Molto attesa è una grande mostra di bronzi ellenistici, che nel 2015 sarà a Fi-renze (Palazzo Strozzi), a Los Angeles (Getty) e a Washington (National Gallery).

Anche dai bronzi viene uno choc inatte-so, il loro colore. La patina verdastra di cui sono coperti i bronzi antichi (per esempio

quelli di Riace, scoperti in mare nel 1972) non è quella originaria. Secondo un grande archeologo, Bianchi Bandinelli, «l’immagi-ne che l’artista greco si propone di creare nel bronzo è una immagine lucente, metal-lica, che si regge come se non avesse peso. La fusione gli fornisce un corpo opaco, di aspetto terroso, ma l’artista lo sottopone a una completa rilavorazione a freddo che gli restituisce l’aspetto del metallo lucente». La lucentezza era ottenuta con l’osso di seppia, e la statua era animata coloristicamente da lamine di rame sulle labbra e sulle areole; i denti erano d’argento (come in uno dei bronzi di Riace), gli occhi di pasta vitrea, marmo, metallo, avorio, cristallo di rocca, ossidiana, quarzo. In una recente mostra di Francoforte (Liebighaus) è stata esposta la neofusione in bronzo di un perfetto “clone” della testa di un bronzo di Riace, sperimen-talmente ricostruita da Vinzenz Brinkmann secondo il suo possibile aspetto antico.

Sarà questa, allora, la “nuova classici-tà” che può incuriosirci oggi? Un’arte greca che rinasce, colorata e multimate-rica, mediante la ricerca e con l’aiuto della tecnologia, sembra fatta apposta per suggerire una forte diversità rispetto all’immagine che ce ne hanno dato a scuola. Ma la diversità culturale è il più prezioso ingrediente per la cultura del nostro tempo. Guardare ai Greci, “padri d’Europa”, più come diversi che come identici a noi, è la miglior ginnastica pos-sibile per comprendere la radicale diver-sità delle culture più lontane. I Greci “colorati” parevano barbari a W.H. Leeds. Ma sono più veri, e forse per que-sto più vicini al mondo di oggi.

Il testo che presentiamo in queste pagine è una parte dell’intervento che Salvatore Settis presenterà al Festival della Comunicazione di Camogli. L’appuntamento con la relazione su “Comunicare l’arte classica: da Winckelmann al nostro secolo” è per sabato 13 settembre alle 10 sulla Terrazza delle Idee. Il festival, ideato da Rosangela Bonsignorio e Danco Singer, fino a domenica 14 mette a fuoco ogni forma di comunicazione. Apre Umberto Eco (anche in streaming), chiude Federico Rampini: in mezzo settanta eventi gratuiti tra conferenze, workshop, spettacoli, escursioni, mostre.

Sulla terrazza di Camogli

un bronzo di riace ricostruito al liebighaus di FrancoForte; arciere di egina policromo alla gliptoteca di monaco; l’apollo di cleveland

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Cultura

Lo so anch’io che un’altra mostra su Picasso per quanto bella, può sembrare già vista. Persino il curatore si chiede “Cosa possia-mo aggiungere a quel che già

sappiamo?” E invece ...» . Invece persino lui, il professor Eugenio Carmona, andalu-so come Picasso e di Picasso uno dei massi-mi esperti al mondo, studioso che offre la sua consulenza scientifica in materia al Museo Reina Sofia di Madrid, e che qui ci parla in veste di curatore della mostra che presto aprirà a Firenze ( “Picasso e la mo-dernità spagnola” opere dal Reina Sofia, Palazzo Strozzi, 20 settembre -25 gennaio), persino lui, dunque, da Pablo Picasso ha sempre da imparare.

Se ne accorse a New York tre anni fa quando - racconta - di rassegne sul grande spagnolo ne erano aperte al pubblico ben due: una al Moma sulle chitarre e l’altra nella galleria Gagosian su “Marie Thèrese et l’amour fou”. Lì il nostro professore pensò: «Due mostre di Picasso in una sola città? Ma non saranno troppe?». Poi le vide entrambe e ancora una volta prese appun-ti. È così che si consolidò nei suoi scritti la tesi che Picasso non sia esattamente un pittore-artista-pensatore moderno; non appartenga a quella coraggiosa pattuglia che combatteva contro il mondo per rom-pere le convenzioni e imporre il nuovo; non vide la ricerca come un processo lineare nel tempo; e, infine, che non si vestì della paro-la avanguardia, come di un’armatura per combattenti della rivoluzione estetica.

Picasso non è moderno perché scaval-

cando tutti, con uno spericolato anticipo sui tempi, fu post-moderno. Il professor Carmona non usa questa parola. Ma redi-ge un lunghissimo saggio nel profondo e serissimo catalogo (ed. Mandragora), per farla usare a noi. E poi a domanda risponde, ridendo: «Se vuole, sì. Può essere una defi-nizione più adatta». Lui preferisce scrivere: «Picasso si avvicina in altra maniera alla gestione e comprensione dell’arte moder-na. La messa in discussione del paradigma dello stile lo porta a istituire il concetto di “variazione” come elemento base di tutta la sua sintassi plastica e di tutte le sue con-vinzioni iconografiche».

Non ha leggi, Picasso. Non ha conven-zioni. Il suo istinto è più forte delle regole che l’avanguardia si è imposta, se non altro nel tracciare il fossato con il suo antagonista e nemico di sempre: l’accademia. Lui non

si preoccupa dei nemici a costo di scanda-lizzare i compagni di strada. Carmona ri-corda lo stupore di Ernest Ansermet, com-positore e musicista impegnato, che nel 1917 vede Picasso disegnare simultanea-mente in stile cubista e in stile classico. Non capisce, e alla domanda su come possa un artista lavorare in questi due opposti, in-conciliabili stili, si sente rispondere: «Dov’è la differenza? Io disegno. È la stessa cosa».«Per Picasso», spiega Carmona, «essere moderno non significava abbrac-ciare la supremazia della società tecnologi-ca e scientifica. Non era nemmeno il con-trario di questo, non voleva dire primitivi-smo e nostalgia di un mondo preindustria-le. Il senso di Picasso della modernità era non assogettarsi alle determinazioni dello stile e poter oscillare a seconda delle circo-stanze e delle necessità della sua ricerca ».

picassoche sorpresaMille variazioni su

“Guernica”. E opere che precorrono il

futuro. In mostra a Firenze un artista

che stupisce sempreDi alessanDra mammì

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Il vero Picasso è sempre fuori norma. Le collezioni del Reina Sofia in questo sono uno specchio particolarmente fedele. Arri-vato leggermente tardi ad acquistare le sue opere, su una scena già ampiamente arata da grandi istituzioni e collezionisti francesi, inglesi, tedeschi e americani, il museo na-zionale spagnolo ha avuto la fortuna di raccogliere opere singolari, all’epoca meno ricercate dal mercato, ma molto “picassia-ne” nel loro frantumare schemi, mescolare stili, stressare i codici persino dello stesso Picasso più riconoscibile e noto.

E poi lì, nel tempio di Madrid, c’è “Guer-nica”, capolavoro totale e insuperato. Che non arriva a Firenze, ma invia i suoi emis-sari: quel corpo di disegni, incisioni e dipin-ti mai esposti in numero così elevato fuori dalla Spagna, che precedono e seguono “Guernica”. Soprattutto, la seguono. Rac-conta Carmona: «Per Picasso un disegno non è un bozzetto. Tutta l’opera grafica nella sua mente non è un’opera minore, ma un mezzo per veicolare contenuti che attra-verso la pittura e la scultura non si sarebbe-ro concretizzati. Soprattutto nei giorni di “Guernica” i disegni non sono preparatori all’opera. Ma già opera in sé. Quando Pi-casso decide di lavorare a un tema così drammatico e complesso, la domanda che si pone è: “Si può dipingere un massacro?”. La risposta la trova ridisegnando ossessiva-mente tori, cavalli, mostri che trasforma ed elabora per fissare la tragedia». Ma una tragedia non si conclude in un atto efferato. Né in un quadro. Il pianto delle donne ri-

suona a lungo. Picasso lo ascolta e lo dipin-ge. Anche dopo aver finito il quadro. Anche dopo che è stato esposto, contemplato e applaudito. Lui lo disegna ancora, quel massacro. Ancora e ancora. Lamentazioni, voci di prefiche, elaborazioni del lutto. Un’unica opera processuale che si rincorre su fogli di carta. E anche qui siamo ben oltre un’idea di moderno.

In questa libertà di agire sta il segreto dell’eterna gioventù di un artista che ha dominato il secolo passato e che ancora oggi è icona postata su Facebook. «Intorno

agli anni Cinquanta», spie-ga il professore, «l’imma-gine di Picasso si emancipa dalla figura dell’artista, per trasformarsi in icona di se stesso». È il Picasso media-tico che troviamo sulle copertine dei rotocalchi, cittadino onorario nel bo-om del glamour da Costa Azzurra, testimonial della “marinière”, la maglietta a righe orizzontali che lui rende immortale ben pri-ma di Brigitte Bardot. Ed è prodigioso che nella ditta-tura della gioventù, in pie-ni anni Sessanta, al di là delle sue opere l’immagine di quest’uomo né bello né giovane diventi un simbo-lo dei tempi: il tombeur de femmes, il bon vivant della

dolce vita mediterranea, l’artista totale che è felicemente sopravvissuto a tutti e che. grazie a colpi di coda, ha reso vecchi tutti i suoi colleghi. Braque imprigionato nel Cubismo inizio secolo, Bréton che non ha superato il Surrealismo anni Trenta, i pitto-ri del “ritorno all’ordine” scomparsi nell’In-formale disordine del dopoguerra. Solo lui resta “forever young”, camminando a piedi scalzi sulla spiaggia accanto a una donna bellissima sotto il sole. «Mito neces-sario» lo definisce Eugenio Carmona. E in quanto necessario, eterno. n

Trentatré giorni di pura creatività e dannazione. Ma anche di tormento e passione, tra il maestro e la sua musa. A quasi 20 anni dal “Surviving Picasso” con Anthony Hopkins, il genio della pittura del XX secolo torna protagonista al cinema, con il volto di Antonio Banderas e la regia di Carlos Saura, in “33 Dias”, storia della creazione di “Guernica”. Un film al quale Saura (autore già di ritratti di Goya, Buñuel e Dalí) lavora da anni, tra problemi produttivi e un’iniziale reticenza dello stesso Banderas. «Picasso per me non è solo il genio che tutti conoscono», spiega l’attore. «Siamo nati nella stessa città, Malaga, e l’abbiamo lasciata alla stessa età. È un fantasma enorme, come enorme è l’ammirazione che provo per lui. E solo ora finalmente credo di essere pronto». Attesa in sala nel 2015, girata tra Francia e Spagna con un budget di sei milioni di euro e la fotografia di Vittorio Storaro, la pellicola racconterà il periodo del 1937 in cui Picasso elaborò il suo capolavoro: il gigantesco olio su tela (oltre tre metri per sette), commissionato per il Padiglione Spagnolo dell’Esposizione Mondiale di Parigi, ispirato dal bombardamento con cui la Luftwaffe il 26 aprile ’37, in piena guerra civile spagnola, rase al suolo la cittadina di Guernica, cuore dei Paesi Baschi. Trentatré giorni di tormento e genialità condivisi con la fotografa Dora Maar, che immortalò ogni passo della creazione e fu a sua volta immortalata nel dipinto (è la figura che regge la lampada al centro). A interpretare la bellissima e tormentata Maar è Gwyneth Paltrow: scelta opinabile che si spiega, assicura Banderas, non solo per la bravura, ma anche per il perfetto spagnolo, imparato dall’attrice grazie a un programma di scambio ai tempi della scuola. Daniela Giammusso

Bello come Banderas da sinistra: “il pittore e la modella”; “testa piangente, post scriptum a guernica”; “testa di cavallo, schizzo per guernica”

Anche a quadro finito, l’artista continua a disegnare ossessivamente tori, cavalli, mostri per fissare la tragedia

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Cultura

Tutti in piedi per “Hungry He-arts”. Pubblico, stampa inter-nazionale, giuria della Mostra del Cinema di Venezia. Sembra quasi un déjà-vu. Era esatta-

mente un anno fa, a Venezia 2013, e si fe-steggiava Gianfranco Rosi e il suo “Sacro Gra” che riportava il Leone d’oro in Italia dopo 15 anni. Pochi ci avrebbero scommes-so, ma dodici mesi dopo eccoci di nuovo ad applaudire ancora il tricolore con il nuovo film di Saverio Costanzo che ha eccezional-mente regalato ai suoi protagonisti, Alba Rohrwacher e Adam Driver, entrambe le Coppe Volpi.

Tra le due premiazioni veneziane è acca-duto ancora di più, a testimoniare un anno d’oro del cinema italiano. Paolo Sorrentino ha fatto sognare con “La grande bellezza”. Una maratona che dalla sala è arrivata fino all’Oscar per il Miglior Film Straniero, oltre a conquistare Golden Globe, Bafta, nove David di Donatello, cinque Nastri d’Argento e un passaggio tv “benedetto” da 12 milioni di spettatori. Forse basterebbe già questo per un brindisi alla rinascita del “Nuovo cinema

italiano” e invece è arrivato anche il Gran Prix a Cannes per “Le meraviglie” di Alice Rohrwacher, regista piena di talento, capofi-la di una schiera di nuovi cineasti che sanno piacere a critica e pubblico. Così, il cinema italiano si ritrova al 30 per cento del mercato, facendo morire d’invidia la Francia e mar-cando al botteghino i colossi americani.

Per festeggiare, proprio al nuovo cinema italiano “l’Espresso” dedica una raccolta in dvd dei quattro migliori successi della stagio-ne appena conclusa. Una piccola collezione

che non solo riunisce i protagonisti di questa rinascita, ma che racconta anche il paese che siamo diventati. A inaugurare le uscite, vener-dì 19, è proprio il successo dell’anno, “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino. Un omaggio a Roma, santuario di meraviglia e grandezza, ma anche un malinconico j’accu-se sulla capacità di inventare che abbiamo perduto, con uno strepitoso Toni Servillo nei panni del giornalista Jep Gambardella e uno stuolo di grandi attori da Carlo Verdone a Sabrina Ferilli, Isabella Ferrari. A seguire, “Il capitale umano” di Paolo Virzì, affresco beffardo della ricca provincia del nord con Fabrizio Bentivoglio, Fabrizio Gifuni e Va-leria Bruni Tedeschi. Poi la rivelazione della stagione, ovvero il sorprendente talento di Pif, al secolo Pierfrancesco Diliberto, che con “La mafia uccide solo d’estate” raccon-ta in modo del tutto nuovo la Palermo degli anni Settanta-Novanta. E infine “Smetto quando voglio” di Sydney Sibilia, che con Edoardo Leo e Pietro Sermonti fa ridere persino su precarietà e disoccupazione, grandi piaghe dell’Italia di oggi. n

bellezzaper un annoSorrentino e Pif.

Virzì e Sibilia. I film italiani più amati del 2014 in

cofanetto per i lettori dell’Espresso

Di Daniela Giammusso

il nuovo Cinema italiano più premiato e applaudito in italia e all’estero arriva in edicola con “l’espresso” dal 19 settembre. in programma, una collezione di quattro film in dvd (al costo di 9,90 euro in più) con i registi più importanti e gli attori più conosciuti, ma soprattutto con quattro storie che hanno lasciato il segno. la prima uscita, venerdì prossimo, è dedicata a “la Grande Bellezza” di Paolo sorrentino, il film premiato dall’oscar con Toni servillo. seguono “il capitale umano” di Paolo Virzì (in edicola il 26 settembre); “la mafia uccide solo d’estate”, di Pif (3 ottobre); e “smetto quando voglio” di sydney sibilia (10 ottobre).

Poker di successi

toni servillo in una scena de “la grande bellezza” di paolo sorrentino

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Scienze&Tecnologia

Un defibrillatore impiantato sotto la pelle, e senza fili: può aiutare a prevenire la morte improvvisa, che colpisce circa 50 mila persone ogni anno in Italia. «È un’importante possibilità di cura di aritmie che possono essere mortali», spiega Maria Grazia Bongiorni, direttore dell’a Cardiologia del l’ospedale Cisanello di Pisa.

I dispositivi vengono impiantati sotto la pelle in prossimi-tà dello sterno e non raggiungono le cavità del cuore passan-do attraverso una vena, come accade con i classici defibrilla-tori. E hanno dimostrato un’efficacia paragonabile a quella dei sistemi classici. In particolare, spiega la cardiologa: «Il “sotto pelle” è particolarmente adatto ai giovani perché è meno invasivo; non solo, l’ipotesi è quella che si deteriori molto meno col tempo e quindi sia meno esposto ai rischi di malfunzionamento di un dispositivo tradizionale il cui “filo” è permanentemente collocato all’interno del sistema vasco-lare». Ma attenzione: non si tratta di dispositivi terapeutici capaci di assicurare la classica attività di regolazione dei battiti dei pacemaker, quindi non sono indicati per chi ha bisogno di questo. Tuttavia possono rappresentare un’arma in più per tenere sotto controllo il cuore dei giovani esposti a rischi di aritmie gravi, visto che la “scossa”, ovvero la defi-brillazione precoce, è l’unico trattamento efficace per ripri-stinare il normale ritmo del cuore.

Fondamentale, in ogni caso, è riconoscere precocemente con esami mirati chi ha bisogno di utilizzare questo genere di dispo-sitivi. Le statistiche internazionali dimostrano infatti che anche nella fascia che va dai 25 ai 45 anni l’incidenza di eventi di questo tipo tale incidenza sarebbe responsabile del 2-5 per cen-to dei decessi. Federico Mereta

Errata CorrigENell’articolo “Antidepressivi. Troppi rischi per i giovani”, firmato da Michele Tansella e uscito sul N. 35 dell’Espresso (datato 4 Settembre 2014), si legge: «la probabilità di tentare e riuscire in un suicidio, dopo un comportamento autolesivo, riguarda circa 2 persone su 100 dopo un anno di terapia, e cresce di anno in anno». Un “taglio” disordinato ha travisato i fatti: la probabilità di ripetere, con esito fatale, un tentativo di suicidio, è relativa a dopo un anno dal primo tentativo, non dopo un anno di terapia. Come emerge dallo studio pubblicato da Carroll et al.su “PLOS One”, 2014. Ce ne scusiamo con i lettori e con l’autore.

innovazione: chi sono i makers | agricoltura | videogame | non solo cyber

Defibrillatori senza fili

Quella scossa ti salva la vita

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Scienze&Tecnologia Ci sono ancora dei posti in italia dove a causa delle condizioni ambientali il rischio di nascere con malformazioni è più del doppio della media italiana. È una cosa tollerabile? Qualcuno se ne sta occupando? Qualcuno ha dichiarato un’emergenza sanitaria? No. Non stiamo parlando dellaTerra dei fuochi in Campania. Né dell’Ilva di Taranto. Stiamo parlando di Gela, Sicilia meridionale, con il suo polo petrolchimico da anni al centro di preoccupazioni e polemiche, area nazionale di bonifica dal secolo scorso, sempre in attesa di quel risanamento e rilancio che non arriva. Ora uno studio del Cnr di Pisa ha confermato ciò che si sa da tempo, mostrando come il tempo passa e le malformazioni restano. L’analisi condotta dall’epidemiologo Fabrizio Bianchi e dai suoi collaboratori ha mostrato che il tasso di malformazioni genitali maschili resta decisamente sopra la media dagli anni Novanta ad oggi, senza apparenti flessioni. La malformazione per la quale i dati sono più solidi è l’ipospadia, vale a dire difetti da lievi a gravi del pene, che colpisce 47 nati ogni diecimila, il 170 per cento in più rispetto alla media del registro europeo, e il 230 in più dei dati italiani disponibili (Toscana ed Emilia Romagna). Quali le cause? Difficile individuare la pistola fumante. Con tutta probabilità si tratta di un effetto multifattoriale, di un “contesto”, composto da pesticidi, gas di scarico, metalli pesanti e interferenti endocrini “scassa-ormoni” di origine industriale, e soprattutto arsenico emesso da parchi minerari e discariche inalato o ingerito con gli alimenti.Ma serve a questo punto precisare meglio le cause per cominciare ad agire? O non è forse il caso di mettere in sicurezza l’area, e provvedere al più presto alla bonifica? «Sicuramente le conoscenze possono essere ancora migliorate svolgendo studi più specifici», spiega Fabrizio Bianchi: «Tuttavia ciò che già sappiamo è sufficiente per asserire che il tema più urgente è quello degli interventi per produrre un forte risanamento e condizioni sicure di produzione». Proprio in queste settimane sindacati e istituzioni locali stanno affrontando il tema del futuro della raffineria di Gela con l’Eni. Speriamo che questi nuovi dati aiutino a prendere sagge decisioni.

InquinamentoPerché a Gela il sesso è malformato di Luca carra

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Multidisciplinarietà: è la parola d’ordine di chi si prede cura dei malati di tumore. in alcuni ambiti, come per il carcinoma della mammella, con le Breast unit, l’approccio multidisciplinare è già una realtà, ma in altri casi no. il tumore della prostata è uno di questi, perché è sempre stato affidato agli urologi. Ora però iniziano a nascere le Prostate unit, cioè équipe e strutture in

cui operano gruppi multidisciplinari che si fanno carico dei malati fino dal momento della diagnosi. in italia - come nel mondo - le Prostate unit sono pochissime: la prima in italia è stata quella fondata a Milano, presso l’istituto dei tumori, da riccardo Valdagni. alla quale si affianca oggi quella dell’Ospedale Sant’Orsola Malpighi di Bologna diretta da Giuseppe Martorana,

che spiega: «Le persone cui viene diagnosticato un carcinoma della prostata hanno una molteplicità di opzioni, dall’intervento chirurgico alla radioterapia, dalla terapia farmacologica all’osservazione». Nella Prostate unit la situazione di ogni singolo paziente viene discussa dall’insieme delle figure professionali coinvolte – urologo, radioterapista, oncologo medico e psicologo e poi prospettata al paziente stesso in modo chiaro e senza ambiguità. agnese codignola

Vita extraterrestreCaccia ai rifiuti degli alieniGrazie ad alcuni sviluppi degli strumenti astronomici presto potremmo essere finalmente in grado di riconoscere la presenza di vita su altri mondi, anche se in modo molto indiretto e senza possibilità di comunicare. L’idea, sviluppata presso il Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics è quella di studiare le atmosfere dei pianeti extrasolari alla ricerca di sostanze che non possano essersi formate naturalmente. In pratica, vedere se le atmosfere sono state inquinate.Il James Webb Space Telescope, il cui lancio è previsto per il 2018, potrà, per esempio, individuare due tipi di clorofluorocarburi, le sostanze responsabili della formazione del buco nell’ozono sulla Terra.La tecnica ha però i suoi limiti e sarà possibile analizzare in grande dettaglio solamente le atmosfere dei pianeti di tipo terrestre in orbita attorno a stelle nane bianche. Più probabilmente, quindi, si potrebbero vedere i resti di civiltà ormai scomparse. Questo perché le nane bianche sono il risultato finale dell’evoluzione di stelle come il nostro Sole, che però prima passano da una fase di gigante rossa, in cui bruciano la superficie dei loro pianeti. Alcune sostanze hanno però vite molto lunghe e potrebbero sopravvivere a questa fase e anche alla civiltà che le ha prodotte. A meno che, avverte Henry Lin: forse, questa civiltà aliena potrebbe considerare l’inquinamento come un segno di vita poco intelligente. aldo conti

Tumore della prostataun medico Solo non baSTa

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Scienze nuovi mondi

In Italia quelli ufficiali sono 27, ma è difficile effettuare una sti-ma precisa perché molti sfuggo-no alle etichette. Sono i FabLab, moderne officine dove chiun-que abbia in testa un prodotto da realizzare, da un semplice

bicchiere a un ben più complesso dispo-sitivo elettronico, può fabbricarne un prototipo a costi contenuti.

Ai Fablab si appoggiano i maker, una categoria eterogenea che va dallo scien-ziato al semplice appassionato di tecno-logia. Quello che li unisce è la volontà di costruirsi da soli i propri oggetti, in modo da controllare meglio il processo di pro-duzione e abbattere i costi.

Se la realizzazione è preceduta da una fase di studio e progettazione, le limita-zioni sono davvero poche: dai FabLab escono ogni giorno utensili per la casa, ma anche cellulari o abiti originali. Qual-che mese fa, per esempio, ha ricevuto un record di click il blog di un giovane maker tedesco che ha postato le istruzioni per

fabbricare un compu-ter portatile a partire da  un secchio di pla-stica e pochi altri ma-teriali facilmente re-peribili.

Il movimento ma-ker nasce negli Stati Uniti nei primi anni 2000 ma ultimamente ha acquistato dimen-sioni importanti e dai pochi appassionati che si dilettavano nei garage si è arrivati ai laboratori universita-ri. Tutto questo è pos-sibile grazie alla condivisione delle com-petenze e alle stampanti 3D, che permet-tono di produrre un oggetto senza appog-giarsi a una realtà industriale.

Una stampante da sola, però, non ba-sta. Secondo il Mit (Massachusetts Insti-tute of Tecnology) di Boston, che per primo ha dettato le linee guida ufficiali,

un FabLab deve essere dotato di una serie di strumenti, dal computer alla stampan-te 3D, passando per macchinari di preci-sione. E deve cooperare con gli altri labo-ratori digitali, grazie a internet e a piatta-forme liberamente accessibili come Ardu-ino, la scheda elettronica made in Italy facile da programmare.

Computer, una stampante 3D, strumenti di precisione. Per fabbricare oggetti.

Viaggio nei FabLab d’Italia dove nascono

gli artigiani digitali. E la Top-science si fa consumer

di Viola Bachini e Michela Perrone Foto di Pietro Paolini Per l’esPresso

Professione Maker

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Ma come lavorano i nostri maker? Da Torino alla Costiera Amalfitana, siamo andate alla scoperta dell’artigianato digi-tale italiano.

Primato sotto la moleÈ a Torino che è nato il primo FabLab

d’Italia. Iniziato come esperimento nel 2011, è proseguito grazie a Massimo Banzi, membro del team che ha inventato la scheda elettronica programmabile Arduino, nata a Ivrea e oggi utilizzata in tutto il mondo. Banzi decise di dedicare parte degli spazi della nascente sezione Ricerca e Sviluppo della sua azienda Officine Arduino a un FabLab.

«Da noi possono passare maker, arti-giani o imprenditori», racconta Stefano Paradiso, coordinatore di FabLab Tori-no: «Si tratta di figure che hanno solo

alcuni aspetti in comune. Il FabLab per-mette a tutti l’accesso alla tecnologia».

Fabrizio Alessio, per esempio, ha 28 anni, capelli spettinati e sguardo da sogna-tore. Dopo la laurea in disegno industriale, ha preferito frequentare il FabLab, invece di cercare un posto di lavoro in uno studio. «Volevo sviluppare due idee che mi ron-zavano nella testa da un po’ di tempo», racconta: « La prima è una carrozzina per sport indoor. Sul mercato un oggetto del genere può costare tra i 2.500 e i 5.000 euro, mentre quella che ho progettato unisce materiali più economici a caratte-ristiche del fai-da-te e si può avere a 200 euro». Naturalmente le prestazioni non sono le stesse, ma il basso budget può es-sere un incentivo per chi non ne farà un uso professionale o per chi ha una disabi-

lità momentanea, per esempio una gamba rotta. Nel FabLab Fabrizio ha potuto muovere i primi passi e costruire material-mente la carrozzina, verificando di perso-na i punti deboli del progetto: «In questo momento la carrozzina è in fase di test», spiega: «Dopodiché sarà possibile scarica-re gratuitamente le istruzioni per l’assem-blaggio. Parallelamente cercherò di avvia-re una piccola linea produttiva per poter vendere kit di montaggio».

L’altra idea di business riguarda una serie di gioielli in lega di alluminio. «Ci lavoro da diversi anni e nel FabLab ho potuto utilizzare strumenti per lavorazio-ni sperimentali sui prodotti e occuparmi del packaging. Tutto questo fuori di qui avrebbe richiesto un’infrastruttura di tipo industriale con costi inaccessibili». Negli ultimi anni Fabrizio ha portato i braccia-letti in alcuni design store e in fiere de- Fo

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Fabrizio alessio di Torino, con la sua carrozzina Per sPorT indoor, a sinisTra, un ParTicolare

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Scienze

dicate: «I feedback sono stati positivi, ora sto preparando una strategia d’impresa per capire come investire sul prodotto e come affrontare il mercato della distribu-zione. Sono arrivato al mio giro di boa». Se Fabrizio riuscirà a trovare finanziatori e risorse per proseguire, i suoi gioielli in lega di alluminio potrebbero passare da una nicchia di mercato a una distribuzione più ampia. Se così non fosse «avrò avuto la possibilità di lavorare concretamente a costi ragionevoli e senza dover produrre oggetti su larga scala», conclude.

droni Sul duomoLa sede del Fablab Milano si trova a

nord della città, all’interno di una moder-na struttura di vetro e acciaio. Chi ci acco-glie è Massimo Temporelli, uno dei fonda-tori, con Francesco Colorni e Giovanni Gennari, del FabLab milanese. Cravatta marrone su camicia mezzemaniche a qua-dri è il look scelto dal fisico appassionato di storia della scienza e della tecnologia. «I FabLab? Li abbiamo inventati noi italiani nel ‘500, quando il nostro Paese pullulava di botteghe dove mastri artigiani e garzoni creavano capolavori», dice.

Tra le molte persone che affollano il luminoso open space del FabLab milane-se, Roberto Alfieri, 50 anni, è un professio-nista che si occupa di registrazioni video.

È il “dronista” del gruppo, cioè colui che costruisce e guida i droni, robot teleco-mandati in grado di volare, come quelli che Amazon pensa di utilizzare in futuro per le proprie spedizioni. «Con la mia azienda utilizziamo i droni dal 1999 per le riprese aeree» spiega: «Era da un po’ che accarezzavo l’idea di costruirne uno. Qui al Fablab ho trovato le competenze che mi servivano per riuscire nell’impresa». Alfie-ri ci mostra un prototipo di circa 10 kg che ha realizzato nel laboratorio milanese: «È costruito con materiali leggeri come accia-io, carbonio e fibra di vetro. Posso coman-darlo a distanza e, a seconda dell’altezza raggiunta, i led lampeggiano in modo di-verso. In questo modo, oltre a leggere sullo schermo del telecomando l’altezza, posso avere la conferma guardando diret-tamente il drone». In questo momento la

fase di commercializzazione è lontana e Alfieri sta testando i prototipi, oltre a es-sere tra i docenti che insegnano a costru-irli durante i corsi organizzati all’interno del Fablab milanese.

cominciamo dall’univerSitàA Pisa Daniele Mazzei, Carmelo De

Maria e Gualtiero Fantoni fanno parte di una squadra affiatata. I tre svolgono atti-vità di ricerca al centro di ateneo Enrico Piaggio, dove da anni si sta cercando un collegamento tra università e impresa. «Come ricercatori abbiamo sempre se-guito gli studenti durante la loro tesi di laurea. Ma mancava una struttura che trasformasse quelle idee in oggetti fisici», commenta Mazzei.

Dal 2012, anno della fondazione, dal FabLab Pisa sono passati molti progetti. Come Besos, del venticinquenne salenti-no Luigi Francesco Cerfeda, che è arriva-to in finale alla competizione della Maker Faire. «Luigi aveva un bella idea per la sua tesi e noi lo abbiamo aiutato a realiz-zarla nel concreto», afferma orgoglioso Mazzei. Besos - acronimo che sta per Bio Engineering Systems for Open Society - è un caschetto indossabile, in grado di rile-vare i segnali dell’attività del cervello di chi lo indossa e inviarli a un computer. Un progetto ambizioso con un design perso-

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L’evento è previsto a Roma dal 3 al 5 ottobre prossimo (http://www.makerfairerome.eu ) e sono attesi oltre 30 mial partecipanti. La Maker Faire è un gigantesco evento rivolto a appassionati ma anche ai curiosi che per la prima volta sono stati catapultati nel mondo dell’artigianato digitale.Negli ultimi mesi si sono moltiplicate le Mini Maker Faire in tutta Italia e a ottobre si terrà la seconda edizione romana. A prendere parte attiva sono gruppi che lavorano all’interno delle università o nel Fablab che da una parte vengono invitati a mostrare il loro lavoro, dall’altra sono lì anche per raccontare della filosofia del “do it yourself”, il fai-da-te che sta prendendo piede anche nel nostro Paese. E il fenomeno è diventato talmente importante da meritare una fondazione pensata appositamente per aiutare i makers italiani, “Make in Italy”, nata a febbraio 2014. C’è però chi mette in guardia dai facili entusiasmi: «In Italia il fenomeno è partito in ritardo e adesso siamo in una specie di bolla, dobbiamo ancora trovare un modello di crescita sostenibile per i FabLab: dovremmo pianificare i nuovi centri in modo da non averne troppi sullo stesso territorio, che si troverebbero in concorrenza tra loro», suggerisce Massimo Menichinelli, consulente freelance per la progettazione di FabLab.

Roma tridimensionale

ricercatori che hanno progetti:

dalle neuroScienze alla robotica. e Si

Saldano con le microimpreSe

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nalizzabile, che mira a far dialogare le macchine con il corpo umano.

“Kiss the revolution”, bacia la rivolu-zione: è questo il motto del progetto dell’ormai ex studente di ingegneria bio-medica, che oggi sta cercando di costrui-re un’impresa che ruoti proprio intorno al caschetto.

La scheda elettronica di Besos funziona con il sistema Arduino. «A differenza delle classiche cuffiette utilizzate durante l’elettroencefalogramma, il casco di Be-sos è personalizzabile in base alle dimen-sioni effettive del cranio del paziente e al numero di elettrodi per rilevare l’attività celebrale, che varia in base al tipo di in-dagine», racconta Cerfeda. Grazie alla sua capacità di adattarsi, Besos potrà essere utilizzato nell’ambito della ricerca scientifica e non solo.

Il casco, infatti, può essere facilmente smontato in piccoli pezzi a loro volta ri-assemblabili in mini veicoli giocattolo, pensati per favorire un approccio più amichevole alla strumentazione medica dei pazienti in età pediatrica.

Per prepararsi al meglio al lancio sul mercato della sua creazione, quest’anno Luigi ha frequentato il Phd Plus, il pro-gramma di formazione dell’Università di Pisa che mira a far acquisire compe-

tenze imprenditoriali ai ricercatori. «Per attrarre potenziali investitori le cono-scenze tecniche non bastano. Per questo sto studiando anche marketing e comu-nicazione», conclude Cerfeda, che al momento è alla ricerca di uno sponsor per il progetto

smart city sul golfoAmleto Picerno ha visto per la prima

volta un Fab Lab nel 2007 a Barcellona, quando era ancora studente al master in architettura avanzata in Catalogna. Tor-nato in Italia, ha pensato di replicare il modello nella sua città di origine, Cava de’ Tirreni, sulla costiera Amalfitana. «Siamo partiti nel 2009, organizzando un workshop sulla fabbricazione digita-le, cioè la realizzazione di oggetti solidi a partire da un disegno sul computer», ri-corda. Grazie alle quote di quella prima attività Picerno e gli altri quattro fonda-tori del Mediterranean FabLab hanno potuto acquistare alcuni macchinari, mentre la sede è stata ricavata all’interno di un immobile comunale. Il terzo piano di una palazzina del ‘700 si è così trasfor-mato in uno spazio moderno, dove si tengono corsi per studenti, professionisti, ma anche per imprenditori nel settore dell’innovazione e consulenti delle ammi-nistrazioni. Il focus principale è sull’ar-

chitettura e lo sviluppo di città smart, dove cioè la tecnologia interviene nella vita di tutti i giorni.

E se al primo workshop gli iscritti era-no tutti stranieri, da un paio di anni anche gli imprenditori delle aziende locali si stanno avvicinando curiosi al FabLab. Come Valeria Prete, ingenere trentenne e manager di una ditta specializzata nel settore della produzione di infissi. «Fac-ciamo chiusure ma siamo molto aperti», sorride Prete, che ha preso in mano l’a-zienda di famiglia dopo esserci pratica-mente cresciuta dentro. «Per questo quando Amleto ci ha proposto una colla-borazione abbiamo accolto subito l’i-dea». Il compito del Fablab è stato quello di riprogrammare i macchinari già pre-senti in azienda e formare il personale in modo da aumentare la qualità della pro-duzione.

Così adesso l’azienda di Valeria produ-ce infissi a oscuramento programmabile in base alla luce e al vento, facciate venti-late personalizzate sulle richieste dell’u-tente riguardo alla temperatura o all’acu-stica, e padiglioni con materiali innovati-vi. «Non so se ci sia un vantaggio econo-mico immediato nella collaborazione con un FabLab, ma di sicuro così si riescono a cogliere cogliere nuove opportunità nelle persone e nelle macchine che già conosciamo», conclude Prete. n

lavoro al fablab di torino. a sinistra: una sedia prodotta in digitale

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Scienze sfide globali

L’approvvigionamento ali-mentare è una delle sfide principali cui si troverà di fronte la prossima genera-zione. L’aumento della

domanda di cibo legata alla crescita della popolazione e al cambiamento delle abitudini alimentari si scontra con la riduzione della capacità di man-tenere alti livelli di produzione a cau-sa del degrado ambientale, dei cam-biamenti climatici e dell’esigenza di contenere al massimo l’impatto dell’agricoltura e delle altre attività sull’ecosistema. Potremo evitare la catastrofe soltanto prendendo atto dell’esistenza del problema e comin-ciando a intervenire immediatamente per combattere tutte le difficoltà che cominceranno a farsi sentire in ma-niera pesante soltanto nel futuro.

Io sono biologo molecolare e il mio gruppo ha avuto la fortuna di fare una serie di scoperte che hanno trovato na-turale applicazione nel campo degli Ogm. Vorrei quindi cominciare proprio da qui. Perché oltre a introdurre un motivo di distrazione nell’ambito della più ampia discussione su cibo e agricol-tura, il dibattito sugli Ogm ha determi-nato una polarizzazione fra il movimen-to ambientalista e la comunità scientifi-ca attiva nella ricerca sulle biotecnolo-gie. Io credo che entrambe le parti siano, in ultima analisi, favorevoli a una agri-coltura che salvaguardi la biodiversità e gli ecosistemi e che contribuisca al tempo stesso a contrastare la sfida della

sicurezza alimentare. E penso che si tratti di una polarizzazione assoluta-mente fuori luogo, come sottolineato nel rapporto della Royal Society “Rea-ping the Benefits”, poiché sia l’approc-cio biotecnologico che quello ambien-talista hanno molto da offrire.

Attualmente la produzione agricola mondiale è ampiamente sufficiente a soddisfare gran parte della domanda. Esistono tuttavia diversi indicatori che evidenziano la fragilità della sicurezza alimentare: innanzitutto il fatto che c’è un miliardo di persone malnutrite sul nostro pianeta. In secondo luogo, la capacità produttiva non può essere ulteriormente ampliata in maniera so-stanziale. Le riserve dei principali pro-dotti agricoli sono basse ed è opinione generale che non esistano molti altri campi da coltivare. Ci sono forse anco-ra alcune regioni in cui i terreni produt-tivi possono essere messi a coltura senza causare gravi impatti ambientali, ma sono pochi.

Di contro, la maggioranza delle stime indica che sarà necessario incrementare la produzione alimentare, e prevede un aumento di oltre il 50 per cento della domanda nel corso della prossima ge-nerazione. Per assicurare il necessario aumento di produttività sarebbe neces-sario che l’attuale aumento dei rendi-menti annuali dei terreni coltivati (pari all’1-2 per cento all’annuo) venisse mantenuto costante per i prossimi 20 o 30 anni. Ma un miglioramento protrat-to così a lungo sarebbe difficile anche in

un mondo non soggetto a cambiamenti come quello in cui viviamo. Invece, nel 2009, John Beddington, Chief Science Advisor del governo britannico, ipotiz-zò uno scenario di “tempesta perfetta” secondo il quale non riusciremo a sod-disfare la domanda di prodotti alimen-tari e di energia per colpa degli effetti combinati della carenza d’acqua e del cambiamento climatico.

Abbiamo quindi bisogno di una se-conda rivoluzione verde che promuova l’integrazione delle pratiche sostenibili con gli attuali sistemi di produzione agricola, ad esempio nei sistemi produt-tivi meno efficienti, come quelli di alcu-ne regioni dell’Africa. E io ritengo che questa seconda rivoluzione sia possibile soprattutto integrando soluzioni inno-vative attualmente in fase di sviluppo nell’ambito della ricerca biotecnologica e ambientale. Abbiamo assistito a incre-dibili progressi nel settore della biome-dicina, grazie alla rivoluzione delle scienze biologiche avviata dalla scoper-ta della struttura del Dna nel 1953, e sarebbe sorprendente se anche l’agricol-tura non dovesse subire un’analoga trasformazione. Perché questo accada, però, studiosi di scienze sociali e natu-rali, biotecnologi, ambientalisti e tutti coloro che sono interessati ad affronta-re il problema della carenza di cibo dovrebbero unire i propri sforzi piutto-sto che dedicarsi a inutili dispute.

Invece sono molti i motivi alla base della mancata collaborazione fra le diverse discipline che si occupano di

Non servono guerre di principio. E nemmeno progetti di lunga durata. Per combattere la fame dobbiamo trovare tutti insieme soluzioni hi-tech. Uno scienziato spiega dove abbiamo sbagliatodi david BaulcomBe

Basta litigare sugli ogm perché il cibo finirà

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sicurezza alimentare. In parte a causa dei linguaggi utilizzati dagli specialisti nei vari settori: il classico problema della incapacità di comunicazione. Penso, poi, esista anche un elemento di scetticismo, che contribuisce ad allargare il divario, indotto dal fatto che nessuna delle parti in causa ha saputo dare tempistiche realistiche quando si è trovata a prospettare i probabili benefici derivanti dalle pro-prie innovazioni. Sono scettico in me-rito alla probabilità che le scienze so-ciali possano ottenere risultati positivi nel breve termine. Tuttavia, a onor del vero, devo riconoscere che le scienze naturali e la tecnologia dimostrano spesso un’analoga ingenuità riguardo

alle potenzialità di raccogliere frutti nel breve periodo.

Un esempio di questa ingenuità riguarda i cereali che fissano l’ossige-no. La Bil l and Melinda Gates Foundation ha finanziato un proget-to da 10 milioni di dollari condotto dal John Innes Centre di Norwich, e nel materiale pubblicitario si parla di contribuire alla sicurezza alimentare in Africa e in altri paesi. Si tratta tuttavia di un progetto a lungo termi-ne: il finanziamento iniziale riguarda un periodo di cinque anni, ma non ci si aspetta certo che il progetto possa essere completato in tempi così brevi. I finanziatori si accontenteranno an-che di minimi segni di progresso e gli

scienziati verranno inon-dati di riconoscimenti. Ci vorranno poi almeno altri cinque anni per ottimizza-re e rendere utilizzabile la tecnologia e altri cinque ancora per introdurla e testarla sulle colture.

Tempi così lunghi non significano, però, che il pro-getto non debba essere por-tato avanti: esso ha infatti un enorme potenziale scien-

tifico e fortissime implicazioni pratiche nel lunghissimo termine. Tuttavia non servirà in alcun modo ad aiutare i pic-coli agricoltori africani nel breve perio-do, né a ridurre l’inquinamento da azo-to derivante dall’agricoltura nel Regno Unito; e non dovrebbe essere pertanto pubblicizzato in questo modo.

Altri progetti a lungo termine riguar-dano i cereali perenni, il potenziamen-to dell’efficienza della fotosintesi, il rapido miglioramento delle colture orfane e lo sviluppo di nuovi metodi per sfruttare l’ibridazione delle colture. Si tratta di progetti da portare avanti ma non da presentare come una pana-cea a breve termine.

In conclusione: gli esperti di scienze naturali e di tecnologia come me possono svolgere un ruolo importante nel fornire i dati che dimostrano l’esistenza reale di un problema di approvvigionamento alimentare da affrontare quanto prima, e nell’individuare soluzioni per aumen-tare la produzione. Gli esperti di scienze sociali, gli economisti potranno invece occuparsi di raccogliere dati sugli altri elementi. E bisogna che gli esperti delle diverse discipline integrino i loro lavori.

Royal Society Research Professor e Regius Professor di Botanica

alla University of Cambridge traduzione di Gabriella Verdi

Cosa possono fare la scienza e la tecnologia per combattere la carenza di cibo e acqua che affligge oltre un miliardo di persone nel mondo? In che modo l’economia e la politica possono (e devono) portare avanti l’impegno di ridurre della metà, entro il 2015, il numero delle persone che soffrono fame e malnutrizione? Sono queste alcune delle domande al centro della decima conferenza internazionale “The Future of Science”, organizzata dalle Fondazioni Umberto Veronesi, Silvio Tronchetti Provera e Giorgio Cini, in programma a Venezia dal 18 al 20 settembre. A Venezia si parlerà di maltruzione, ma anche dell’altra faccia della medaglia: l’eccesso di cibo e le malattie a esso correlate, prima tra tutte l’obesità. Spazio dunque, durante la conferenza, agli approfondimenti in materia di agricoltura, con sessioni dedicate alle nuove strategie per migliorare la produttività delle piante e ridurre il consumo di acqua, o ancora per affrontare la sfida degli ogm, tra sicurezza alimentare e credenze popolari. E alle questioni economiche: dai costi della malnutrizione a quelli dello spreco di cibo ed acqua.

A Venezia contro la fame

ricerca sulle piante da coltivazione in india

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Quando nel 2007 il fonda-tore di Bungie Jason Jones decise di abbandonare il gruppo Microsoft, che aveva acquistato la sua software house sette anni prima, la mossa parve una

follia: i tre capitoli del gioco sparatut-to “Halo”, pubblicati sotto le insegne del colosso di Redmond, avevano venduto 46 milioni di copie nel mondo, incassan-do oltre due miliardi di dollari e a Hol-lywood circolavano voci su un adatta-mento cinematografico. Perché dunque mollare tutto e lasciare in mano a Micro-soft una gallina dalle uova d’oro? I moti-vi saranno chiari il 9 settembre, quando Bungie pubblicherà “Destiny”, già defi-nito come il videogame più costoso mai realizzato: il primo capitolo dà infatti avvio a un accordo di sviluppo per i pros-simi 10 anni col nuovo partner Activi-sion, che costerà 500 milioni di dollari. Il motivo di un investimento di tali propor-zioni è dovuto al fatto che «si tratta del gioco più ambizioso che abbiamo mai realizzato», come spiega a “l’Espresso” David Dague, community manager di Bungie. «Fino a oggi all’interno di un videogame si potevano trovare due sezio-ni separate: da un lato l’avventura per giocatore singolo, più narrativa e parago-nabile a un film, in cui si segue la vicenda di un personaggio decisa dal game desi-gner; dall’altro la sessione multigiocato-re, in cui l’utente può creare il proprio alter ego e combattere in Rete contro

Tecnologia entertainment

Kolossal VIDEOGAME

Produzioni che durano anni. E costano centinaia di milioni. Così i giochi elettronici imitano HollywoodDi marco consoli

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nemici impersonati da altri utenti, senza vincoli di trama». Il modello ha sempre lasciato separate le due esperienze, rom-pendo quella sospensione dell’increduli-tà necessaria ad essere totalmente coin-volti in un grande racconto. «Con “De-stiny” tutto ciò è destinato a cambiare», prosegue Dague, «perché uniremo i due aspetti in un’unica esperienza attorno al personaggio interpretato dall’utente». Anziché saltare da una partita in totale solitudine ad una nel caos della battaglia contro altri utenti, in “Destiny” ogni si-tuazione sarà legata all’altra, permetten-do perciò di esplorare il mondo da soli, incontrare altri giocatori, sfidarli in gare

ad hoc per ottenere speciali ricompense o chiederne l’aiuto per superare missioni troppo difficili, il tutto senza interruzioni.

Per realizzare una saga che aspira a diventare lo “Star Wars” dei videogame, Jones e il suo team, cresciuto nel tempo da pochi collaboratori fino a 500 perso-ne, hanno dovuto creare un nuovo uni-verso fantascientifico. Perciò “Destiny” si svolge nell’anno 2714, secoli dopo la cosiddetta Età dell’Oro, in cui l’uomo ha intrapreso viaggi nello spazio e coloniz-zato altri pianeti del sistema solare. La situazione all’avvio del gioco però è ca-povolta e forze extraterrestri hanno at-taccato le colonie umane, ucciso i suoi

abitanti e costretto gli ultimi superstiti a rifugiarsi nell’ultima città sulla Terra, protetta da una misteriosa entità aliena chiamata Viaggiatore, una sfera che flut-tua sul pianeta come una seconda Luna. Ogni giocatore impersona uno dei Guar-diani, chiamati a difendere gli umani e ad avventurarsi nel sistema solare per sco-prire le colonie ormai abbandonate e i suoi miti ormai dimenticati, sconfiggen-do i nemici e avviando la riscossa. «Ave-vamo bisogno di un luogo di partenza, la Terra, che stabilisse una forte connessio-ne emotiva con il pubblico, ma anche di creare una mappa di gioco enorme», dice Dague, «perché Destiny è un fantasy esplorativo, oltre che un gioco d’azione, in cui ciascun utente deve avere la sensa-zione di essere il primo a scoprire altri mondi».

L’impegno produttivo per creare loca-tion su Marte, Venere, Mercurio e altri pianeti è paragonabile a quello di un kolossal cinematografico e ha richiesto una consulenza di un esperto della Nasa, per capire come riprodurli in maniera verosimile, oltre allo sviluppo di un sof-tware ad hoc, chiamato Grognok, con cui disegnatori, artisti e programmatori pos-sono lavorare alle mappe di gioco  in maniera rapida e più semplice; senza contare la necessità di creare da zero ve-livoli, armi, nemici, oggetti e tutto quanto richiede un progetto del genere.

Lo sforzo tecnologico maggiore è stato dedicato al nuovo motore grafico, cioè il programma che dovrà essere in grado di gestire ogni singolo elemento visivo del videogame. «Ci abbiamo lavorato per quattro anni e permette di fare cose che in passato non erano possibili», spiega l’ingegnere informatico Hao Chen , «co-me creare un sistema di illuminazione in tempo reale mai sperimentata prima. È un sofware pensato per essere all’avan-guardia per 10 anni, ovvero tutto l’arco temporale in cui si svolgerà la saga».

Se questo sarà davvero possibile sarà anche per merito delle console di nuova generazione, la Playstation 4 e la Xbox One, arrivate sul mercato a novembre dell’anno scorso e che finora hanno ven-duto rispettivamente 10 e 5 milioni di esemplari. Numeri destinati ad aumenta-re con l’uscita di “Destiny” e di tutti i nuovi videogame che mirano a sfruttarne appieno la potenza dell’hardware, che

un’immagine da “unity”, ultimo espisodio della saga di “assassin’s creed”

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permette una dose di realismo e comples-sità vicini al reale. Anche se per fare tutto ciò è necessario aumentare a dismisura i budget, perché i costi di sviluppo salgono ad ogni nuovo salto tecnologico, di pari passo con gli investimenti per il marke-ting, necessari in un mercato sempre più competitivo. Il costo di un videogame simile a quello sviluppato da Bungie può variare tra 20 e 60 milioni di dollari e ciò spiega perché nell’ondata di titoli in arri-vo, la maggior parte sono seguiti di saghe già conosciute: molte tecnologie si posso-no riciclare da un capitolo al successivo, ammortizzando in parte i costi, e il rischio di fallire è minore perché il pubblico co-nosce ed è già affezionato al prodotto. La multinazionale canadese Ubisoft per esempio ha appena dichiarato che inve-stirà 20 milioni di euro nel suo nuovo studio di Quebec City per sviluppare i futuri episodi di “Assassin’s Creed”, la saga avviata nel 2007 che il 31 ottobre tornerà con “Unity”, ambientato duran-te la Rivoluzione francese, ricreata con un livello di verosimiglianza storica im-pressionante. Inoltre ha in serbo anche lo sparatutto d’avventura “Far Cry 4”, ambientato in Nepal e in arrivo il 28 novembre. Qualche giorno prima, il 4, sarà la volta di “Advanced Warfare”, il nuovo capitolo dell’infinita serie bellica “Call of Duty”, che punta tutto su una trama futuristica e armi fantascientifiche, e può permettersi quest’anno la parteci-pazione tra gli interpreti del premio Oscar

Kevin Spacey. Naturalmente i giocatori italiani saranno concentrati anche sulla sfida tra Fifa 15 e PES 2015, i videogame in uscita a settembre che ripropongono ogni anno da vent’anni una simulazione molto fedele delle partite di calcio. 

Mentre Nintendo continua a puntare sui suoi marchi storici come “Legend of Zelda” e “Super Mario”, il 2015 vedrà l’arrivo su console di altre saghe che ten-teranno di insidiare l’incasso record di 2 miliardi di dollari ottenuto l’anno scorso da “Grand Theft Auto V” e che “Destiny” tenterà di insidiare. Ecco allora in arrivo i fantasy “The Witcher 3”, tratto dai ro-manzi del polacco Andrzej Sapkowski, e “Dragon Age: Inquisition”, terzo episo-dio di una saga medievaleggiante.

In mezzo a tanti sequel c’è anche chi osa come Sony, che scommette sul gioco “The Order 1886”, horror ambientato nella Londra vittoriana, e la stessa Ubi-soft, che punta anche su “The Division”, sparatutto ambientato in una New York annichilita da un virus che in pochi gior-ni mette in ginocchio l’America. Come il cinema, anche i videogame alternano fuga dalla realtà a riferimenti agli incubi veri che ci circondano, ma più di quanto si faccia a Hollywood mirano a rinnova-re l’intrattenimento, non solo grazie a nuove forme di interazione, ma anche rispondendo ai canoni della cross-me-dialità, secondo cui una storia deve es-sere raccontata attraverso differenti media. È quello a cui punta “Destiny”

che oltre a nuovi capitoli del gioco decli-nerà la saga in fumetti, libri e chissà, magari anche una serie tv, come già an-nunciato d’altra parte per “Halo” con “Nightfall”, prodotta dal regista Ridley Scott, e dall’ambiziosissimo “Quantum Break”: nel videogame fanta-poliziesco in arrivo l’anno prossimo, che mescola azione e manipolazione del tempo, le azioni del giocatore finiranno per in-fluenzare la trama di episodi televisivi girati con attori in carne ed ossa. n

Tecnologia

Costosi come kolossal cinematografici e serie tv. Ecco gli ambiziosi videogame in arrivo che daranno filo da torcere all’attesissimo “Destiny”:AssAssin’s Creed UnitySi vestono i panni di Arno, un assassino in lotta coi Templari, durante la Rivoluzione francese. La ricostruzione storica è impressionante, la novità è la possibilità di giocare insieme a 3 amici. Uscita: 31 ottobreBAtmAn: ArkhAm knightIl cavaliere mascherato si trova ad affrontare un nuovo nemico, lo Spaventapasseri, in questo quarto capitolo della saga videoludica. Con una Gotham City sempre più ampia e la novità della Batmobile. Uscita: 2015CAll of dUty: AdvAnCed WArfArePer affrontare un attacco terroristico globale viene incaricata una multinazionale privata militare con armi intelligenti ed esoscheletri che potenziano le facoltà umane. Nel gioco c’è Kevin Spacey. Uscita: 4 novembrethe divisionNel clou dello shopping a New York si diffonde un virus che mette in ginocchio l’America in 5 giorni. Al giocatore il compito di riportare l’ordine con un manipolo di soldati guidati dal Presidente Usa. Uscita: 2015fAr Cry 4Ogni capitolo di questa saga ha un nuovo protagonista: qui è Ajay, un anglo-nepalese che torna sull’Himalaya per disperdere le ceneri della madre, ma rimane coinvolto in una guerra civile. Uscita: 18 novembrethe WitCher 3: Wild hUntDai romanzi fantasy del polacco Andrzej Sapkowski ecco l’ultimo capitolo di questa serie che ruota attorno a Geralt, uomo dai poteri sovrannaturali che dovrà respingere un’invasione della sua terra. Uscita: 24 febbraio

I più attesi in arrivo

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News Tecnologia

Social

faNTasmi di TwiTTer

Braccialetti che misurano temperatura del corpo, battito cardiaco, tipo di movimento sono ormai piuttosto diffusi in ambito sportivo. Ci voleva però l’americana Rana June, diventata celebre un paio di anni orsono per essere la prima disc jokey a usare l’iPad per i suoi show, per espanderne l’uso alle discoteche. Con Lightwave - così ha battezzato la sua creazione - al polso la folla danzante entra a far parte dello spettacolo. Il Dj può visualizzare un grafico interattivo che mostra, in tempo reale, la reazione del pubblico alla performance,

e regolarsi di conseguenza. Abbassando o alzando le luci, cambiando la scaletta, variando il volume o le temperatura dell’ambiente. Oltre ad avere il polso complessivo della serata, si può risalire al comportamento di un singolo utente, se al pubblico è stato chiesto di registrarsi al momento della consegna dell’accessorio. E anche gli anarchici “rave” potrebbero diventare così ordinati e quantificabili. È il prezzo da pagare, per scovare la formula dello sballo perfetto. Federico Guerrini

DiscotecheUN braccialeTTo mapperà lo sballo

Il presidente del consiglio Matteo Renzi, molto amico di Internet e grande utilizzatore di Twitter, da quando è al governo sembra aver curiosamente dimenticato una delle riforme più richieste da chi si occupa di Rete in Italia: il Freedom of Information Act. Si tratta, come noto, di un tipo di legge che consente a tutti i cittadini di avere accesso, tramite il Web, a tutte le informazioni in possesso della pubblica amministrazione, eccetto ovviamente quelle coperta da segreto di Stato. Nata in Nord Europa, diffusasi nel mondo anglosassone, adesso questa norma di trasparenza esiste ormai in quasi tutto il mondo, compresi diversi Paesi in via di sviluppo, in Africa e in Asia; l’Italia invece è rimasta tra i pochissimi Stati a non averne mai approvata una. I motivi per cui questo accade sono sicuramente diversi e tra di essi c’è la vecchia subcultura dello Stato-padrone che non deve rendere conto al cittadino-suddito; tuttavia non è ignoto che una maggiore trasparenza e un maggior controllo della pubblica amministrazione da parte dei cittadini ridurebbe i margini dentro i quali ingrassano corruzioni, dazioni, mazzette varie: un’“industria” a cui molti sono affezionati in Italia, anche (se non soprattutto) in politica: e che non ha alcun interesse all’approvazione di un Freedom of Information Act. www.piovonorane.it

Non solo cyberchi rallenta la trasparenza DI ALEssAnDRO GILIOLI

Quanti sono i bot su Twitter? Non tutti i tweet sono scritti da esseri umani. In alcuni casi a postarli è un bot. Alcuni di questi possono avere usi utili e legittimi, come gli alert automatici di un account. Ma quasi tutti gli altri servono solo a mandare spam, o ad alimentare pratiche di marketing aggressive e scorrette. Tut-ti sanno della loro esistenza (avete pre-sente quell’account anodino con la fac-cia di ragazzina che vi segue inspiegabil-mente?), ma quello su cui si continua a dibattere è quanti siano. Dopo che la rivista “Quartz” aveva dedotto la rag-guardevole cifra di 23 milioni (pari

all’8,5 per cento degli utenti) dai pro-spetti di Twitter depositati presso gli organi di regolamentazione Usa, l’a-zienda dei cinguettii è intervenuta per chiarire. Gli account falsi o di spam vero e proprio sarebbero solo 13,5 milioni, intorno al 5 per cento, al netto di quelli automatizzati ma “legittimi”. Agli occhi degli investitori però restano 23 milioni gli account che di fatto non corrispondono a utenti in carne e ossa, e quindi non vedono la pubblicità sulla piattaforma. Carola Frediani

l’IcoNA dI TWITTER. IN bASSo: uNA dIScoTEcA

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Economia

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Bce | consegne urBane | siderurgia | personaggi | nyse

Sharing economy? Mica tanto, quando si tratta di pagare le tasse. Airbnb, simbolo della cosiddetta economia della condivisione, è stata fondata nel 2008 a San Francisco dagli allora poco più che ventenni Brian Chesky e Joe Gebbia. La società basa il proprio business su un sito Internet che mette in connessione gente in cerca di alloggio temporaneo con chi questo alloggio lo offre, che sia una stanza o una casa intera poco importa. Il sistema funziona alla grande, soprattutto per chi va in vacanza: l’affittuario paga il padrone di casa e Airbnb si prende una percentuale che va dal 6 al 12 per cento. Invisa a proprietari di alberghi e tradizionali affitta-camere, l’idea piace così tanto a tutti gli altri che Airbnb conta oggi 17 milioni di iscritti in 190 Paesi del mondo. Tra questi l’Italia, dove a fine 2011 è stata aperta una filiale. Come vanno le cose? Benissimo, dice il ventottenne country manager Matteo Stifanelli: «Nel nostro Paese ci sono 77.500 alloggi disponibili, meno solo che in Usa e in Francia». Colpisce tuttavia come, nonostante l’Italia sia il terzo mercato mondiale del gruppo, il fatturato 2013 della Airbnb Italy sia di soli 1,3 milioni di euro. Motivo? «La filiale si occupa solo di marketing e promozione, il nostro unico cliente è la casa-madre americana», spiega Stifanelli. Dunque, nonostante il business vada a gonfie vele in Italia, tutti i proventi finiscono negli Usa, mentre da noi l’anno scorso la società ha registrato solo 14.000 euro di utili netti. Non è certo una novità per le società che basano la propria attività su Internet, ma la perdita per l’Erario italiano è consistente: secondo le stime del “Wall Street Journal”, l’anno scorso a livello globale Airbnb ha infatti fatturato 250 milioni di dollari. Leggendo il bilancio della filiale italiana, colpisce anche la voce «costi»: nel 2013 ammontavano a 1,2 milioni, di cui un milione speso per il personale. Quanti dipendenti avete? «Circa 10, ma non ci sono stipendi da favola: nessuno guadagna 100 mila euro all’anno», assicura Stifanelli. Sarà pur vero, ma allora il bilancio? S. V.

ElusioneNiente tasse per Airbnb

Acciaio, energia e mattone. Sono i cavalli su cui la famiglia di Emma Marcegaglia, ex numero uno di Confindustria, oggi presidente dell’Eni, ha puntato per molti anni. Pur-troppo nessuno dei tre sta dando soddisfazione perché tra i più colpiti dalla lunga fase recessiva. La delusione mag-giore viene dall’azienda madre, la mantovana Marcega-glia che produce i tubi di acciaio. Per via della crisi eco-nomica già il 2012 era andato male, con una perdita netta di 9 milioni, ma il 2013 è andato peggio: 42,5 mi-lioni di rosso. Un record negativo fra le società controlla-te dalla Marfin, la finanziaria dei fratelli Emma e Antonio Marcegaglia, che complessivamente dovrà sborsare 73,7 milioni per riparare i danni del 2013. Sempre nel settore siderurgico non brilla la Marcegaglia Ireland, che ha per-so 14,1 milioni, e anche l’investimento nell’energia alter-nativa stenta a dare buoni frutti. La Euroenergy Group, società che costruisce centrali per la produzione di energia da fonti rinnovabili, ha bruciato in un anno tutti i soldi che la famiglia aveva stanziato per ricostituire il capitale e, prevedendo ulteriori difficoltà all’orizzonte, la Marfin ha accantonato altri 20 milioni nel fondo rischi. Infine, c’è l’immobiliare Gabetti Property Solutions, che ha chiu-so il 2013 con 1,7 milioni di perdite. Gloria Riva

Crisi

2013 da dimenticare per Emma & Antonio

3.500 manager bancari sono quelli che nel 2012, in Europa, avevano un compenso superiore al milione di euro. La stragrande maggioranza (2.700) lavorava nella City di LondraFonte: European banking authority

La cifra della settimana

Emma marcEgaglia. NElla pagiNa a FiaNco: i vigNEti dEl lugaNa

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Vino / 1 Molto meglio della TavNon solo centri sociali. Questa volta a protestare contro i treni ad alta velocità ci sono pure i produttori del Lugana, un bianco doc che nasce tra le province di Brescia e Verona, proprio dove dovrebbe passare la nuova Tav Brescia-Padova, inserita di recente dal governo tra le opere da sbloccare. Nella zona compresa tra Desenzano, Pozzolengo e Peschiera del Garda si producono 11,5 milioni di bottiglie di Lugana all’anno, con ricavi pari a 50 milioni di euro. Se la ferrovia taglierà i vigneti, ci sarà una perdita del 25 per cento del fatturato, e quindi del Pil, equivalente a circa 12,5 milioni di euro all’anno. Lo dice uno studio firmato dall’economista Renato Pugno, commissionato da Legambiente e dai produttori del Lugana. Ok, si dirà, ma in compenso i treni veloci porteranno altri vantaggi economici. Benefici di cui potrà godere tutta l’Italia, non solo la zona del Lugana. La risposta dello studio è negativa: «Il Pil che l’alta velocità sarà in grado di generare nei 9 chilometri dell’attraversamento dell’area del Lugana sarà meno del 6 per cento di quello che già attualmente il suolo su cui passeranno i treni è in grado di produrre». Insomma, pare che con il vino si guadagni molto di più. S. V.

Vino / 2Premiata Cantina ProfumoI senesi non la prenderanno bene quando sapranno che il presidente del Monte dei Paschi, Alessandro Profumo, si è fatto la vigna. Non sui colli di Montalcino e nemmeno su quelli del Chianti Classico. No, il banchiere ha scelto l’uva piacentina. Comprando addirittura un’azienda vitivinicola assai rinomata nella zona, la Mossi di Albareto, a una ventina di chilometri da Piacenza. Vicinissima al quarantacinquesimo parallelo - lo lo stesso che passa a Bordeaux - l’azienda produce diversi tipi di vini bianchi e rossi, oltre agli spumanti. E ha anche il vanto di aver rilanciato l’Ortrugo, antico vitigno autocnono. A giugno i proprietari Luigi Mossi e Rosa Pellizzari hanno venduto le loro quote alla famiglia Profumo: Alessandro e la moglie Sabina Ratti, che oggi controllano il 45 per cento del capitale ciascuno, e il figlio Marco che è diventato azionista con una quota del 10 per cento. In totale i Profumo hanno sborsato circa 300 mila euro pur di conquistare le vigne di questa antica cascina del Cinquecento. Alla faccia del Brunello. E facendo anche concorrenza al Rosso 1472, il vino del Monte prodotto dalla controllata Mps Tenimenti. C. Co.

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Economia dopo il taglio dei tassi

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Nein! Dicono le indiscre-zioni che giovedì 4 set-tembre, durante il Consi-glio direttivo della Banca Centrale Europea, i rap-presentanti tedeschi ab-biano bocciato la propo-

sta del presidente Mario Draghi di ridurre i tassi d’interesse quasi a zero. La mossa del banchiere italiano, passata a maggioranza, dovrebbe dare una boccata d’ossigeno a quei Paesi dell’euro che sprofondano nella crisi: tassi più bassi significa infatti minori interessi sul debito pubblico, una chance di

far ripartire l’economia e un indebolimento della moneta comune, in modo da dare una spinta alle esportazioni.

Gli effetti sui mercati sono stati immedia-ti: su le Borse, giù i tassi, giù pure l’euro, sceso sotto la soglia di 1,30 dollari. Eppure Jens Weidmann, il numero uno della Bun-desbank, durante la riunione del Consiglio direttivo della Bce ha votato no. Per la banca centrale tedesca il taglio non era da fare. Perché un simile ceffone agli alleati? Le spiegazioni più diffuse si basano sui ti-mori - in Germania “Euro-Angst”, l’euro-angoscia al centro del dibattito pubblico - che i Paesi più fragili considerino l’aiuto di Draghi come un’occasione per rilassarsi, scansando le riforme e lasciando correre la spesa pubblica. Timori storicamente ben motivati, non c’è dubbio, che potrebbero però nascondere una seconda verità, poli-ticamente più scomoda per la Germania di Angela Merkel. E cioè il fatto che l’industria tedesca, in questi anni, ha approfittato delle difficoltà degli alleati per sgominare la loro concorrenza sui mercati e fare affari d’oro proprio in quei Paesi - l’Italia e la Spagna prima, a cui oggi si è aggiunta la Francia - costretti all’austerità.

Ma c’è di più: le banche tedesche hanno alimentato l’espansione industriale finan-ziando i clienti e i consumatori dei Paesi più traballanti perché comprassero “made in Germany”, per poi scaricare i rischi di credito sulla Bce, quando dal 2011 la banca centrale ha varato le prime misure di soste-gno all’Eurozona. Una mossa che gli istitu-ti tedeschi tenteranno di replicare ora, grazie all’altro intervento a sorpresa voluto da Draghi: l’acquisto da parte della Bce di crediti bancari cartolarizzati, i cosiddetti “Abs”, e di obbligazioni bancarie assistite da garanzie, chiamate “covered bond”.

Questa lettura dei fatti si basa sui dati raccolti da Marcello Minenna, docente di finanza matematica all’Università Bocconi, presentati nei giorni scorsi a un seminario internazionale che si è tenuto alla Sapienza di Roma. Tutto parte dalla considerazione che il famoso spread, esploso con la crisi dei debiti pubblici in Europa, non ha lasciato indenne l’industria, anzi. A partire dal 2010, ad esempio, le aziende manifatturie-re italiane e spagnole per ottenere dei pre-stiti si sono ritrovate a pagare interessi più alti di quelle tedesche, perdendo in compe-titività. Per il “made in Germany”, già forte di suo, è stato come mettere il turbo.

La Bce prova a sottrarsi ai veti della Merkel per far ripartire l’Eurozona. Ma intanto, dopo i grandi vantaggi avuti nella crisi, la Germania incassa un altro favoreDi luca piana e stefano vergineNgela

Valore cumulato del surplus commerciale tedesco nei confronti dell'Eurozona, suddiviso per Paese, negli ultimi dieci anni (in miliardi di euro)

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Fonte: elaborazione su dati Eurostat, Bundesbank e Bce

Dove finisce l’export tedesco

In alto a sInIstra: marIo draghI e angela merkel In una foto scattata a berlIno

Valore dei crediti concessi dalle banche tedesche alle banche degli altri Paesi dell'Eurozona negli ultimi dieci anni (in miliardi di euro) 350

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* il crollo dei crediti nel 2011 e 2012 è dovuto ai nanziamenti che le banche dell'Eurozonahanno ricevuto dalla Bce con il meccanismo denominato Ltro.

Fonte: elaborazione su dati Eurostat, Bundesbank e Bce

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Come si vede dalla figura a pagina 97, il saldo tra le importazioni e le esportazioni tedesche è andato crescendo sempre più a favore delle seconde: negli ultimi dieci anni il surplus commerciale con l’Eurozona ha raggiunto un valore cumulato vicino agli 800 miliardi di euro, quasi interamente a spese di Francia, Italia, Spagna.

Il tema dello sbilanciamento fra quel che la Germania importa e quello che esporta è argomento caldo. Dal presidente ameri-cano Barack Obama alle autorità di Bru-xelles, in questi mesi su Berlino non sono mancate le pressioni - rimaste inascoltate - perché facesse qualcosa per aumentare i consumi interni, favorendo le importazioni e le economie dei Paesi vicini. Il lavoro di Minenna, però, aggiunge un elemento in più: studiando i dati del sistema di regola-mento dei pagamenti gestito dalla Bce de-nominato Target2, ha rilevato che le banche tedesche hanno espanso in maniera vertigi-nosa i prestiti concessi al sistema bancario dell’Eurozona, che nel 2009, alla vigilia della crisi dello spread, avevano superato il livello di 300 miliardi (vedi ancora pagina 97). A far la parte del leone, naturalmente, i Paesi che assorbivano l’export tedesco, Spagna, Italia, Francia. «Analizzando i dati della bilancia dei pagamenti e quelli di Target2, c’è una sola spiegazione per questi flussi: le banche tedesche hanno fornito li-quidità a quelle spagnole e italiane, mentre i cittadini dei due Paesi si indebitavano per comprare beni tedeschi», spiega Minenna.

Questa ipotesi trova un’ulteriore confer-

ma in altri due dati. Il primo è relativo al 2011, quando la Bce ha varato il più mas-siccio dei suoi interventi per dare liquidità alle banche dell’Eurozona e permettere loro di continuare a operare (chiamato Ltro). A che cosa sono serviti i quattrini che gli isti-tuti italiani e spagnoli hanno avuto da Francoforte? A comprare il debito pubblico dei propri governi, l’Italia per 220 miliardi e la Spagna per 40, alleggerendo da questo fardello i bilanci delle banche tedesche. Ma anche a restituire i prestiti avuti dalla ban-che tedesche stesse: l’Italia lo ha fatto per 40 miliardi, la Spagna per 200, gli altri tre Paesi che i profeti dell’austerità si divertono a bollare come “Pigs” o “Gipsi” (ovvero Irlanda, Portogallo e Grecia) per 30. «Que-sto è un punto importate: in Germania è argomento tabù la possibilità che la Bce acquisti titoli di Stato dei Paesi più deboli, perché non vogliono accollarsi il loro debi-to pubblico. Eppure, con il piano straordi-nario predisposto da Draghi tre anni fa, le banche tedesche hanno trasferito alla Bce il

rischio di credito che si erano accollate per favorire l’espansione dell’industria tedesca proprio nei Paesi più colpiti dalla crisi e hanno potuto agevolmente scaricare dai loro bilanci titoli di Stato a rischio», dice Minenna, autore nel 2013 di un libro sui problemi dell’euro (“La moneta incompiu-ta”, Ediesse). Il secondo dato riguarda, in-vece, la Francia. Negli ultimi due anni i consumi interni dei Paesi periferici sono crollati: Italia, Spagna, Grecia e Portogallo importano meno. E per la prima volta il loro saldo commerciale con la Germania è tornato positivo, perché un po’ di esporta-zioni ci sono. C’è un unico Paese in negati-vo: la Francia, dove i consumi sono un po’ meno tramortiti e dove le importazioni dalla Germania continuano a superare le esportazioni. Ebbene, dove si concentrano oggi i prestiti delle banche tedesche? In Francia, ça va sans dire.

Così com’è stato nel 2011, Minenna è convinto che anche con il nuovo intervento della Bce le banche tedesche troveranno il

Economia

un brodino per il mattone Il calo del costo del denaro è una bella notizia ma non sufficiente a rendere molto più economici i mutui per la casa. Il cui prezzo è determinato infatti da tre costi: del denaro, della produzione e del rischio. Il denaro già costava poco e il differenziale tra il tasso di riferimento (Irs, Euribor) è dato dal costo di produzione (contratto, verifiche, eccetera), di fatto incomprimibile, e dal costo del rischio. Che resterà alto sino a quando l’economia non ripartirà. La percentuale di pagamento delle rate in ritardo di oltre 180 giorni supera il 9 per cento (nell’estate 2010 era del 7 per cento). Sulla spinta della Bce, è probabile che le banche tornino a spingere sui mutui. Nei primi sette mesi dell’anno le erogazioni

sono aumentate del 29 per cento, grazie soprattutto alle surroghe, cioè a chi è passato da un mutuo all’altro perché ha trtovato condizioni migliori. I tassi più bassi in circolazione si aggirano intorno al 2,5 per cento per il variabile e al 4,1 per cento per il fisso. effetto zero per i prestiti Sul credito al consumo, prevede l’Assofin, l’impatto del taglio-Draghi sarà irrilevante. La pratica per effettuare un prestito di mille o 3 mila euro ha quasi gli stessi costi di quella per un corposo mutuo casa. E in Italia, contrariamente a quanto accade nei paesi anglosassoni, c’è una certa propensione a “mutualizzare” il costo del rischio, invece che far pagare nettamente di più a chi si presume essere

un cattivo pagatore. Morale: i prestiti personali (12 mila euro di rogazione media) continueranno a viaggiare intorno a un costo medio del 9 per cento, anche se si trovano offerte sotto il 7 per cento. minimalisti di stato Tre anni fa l’Italia pareva sull’orlo dell’abisso e i Buoni del Tesoro poliennali (Btp) rendevano il 6-7 per cento. La paura è passata ma i rendimenti allettanti sono spariti. I risparmiatori prudenti debbono abituarsi alle mini performance al lumicino. Gli ultimi Bot annuali danno rendimenti netti inferiori allo 0,3 per cento, e il Btp decennale intorno al 2,3 per cento. Ci si può accontentare, consolandosi con il costo della vita in calo. Nel breve, cambierà poco. I tassi prima o poi risaliranno. Però ci vorrà almeno un anno, avverte Angelo Drusiani, ascoltato decano

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Vivere a tasso zero

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Inutile crogiolarsi, come fa il governo di Berlino, nell’euforia: oggi la Ger-mania non è più la locomotiva d’Eu-ropa. Parola di Marcel Fratzscher, presidente del prestigioso istituto di

analisi tedesco Diw e autore di un libro spietato sin dal titolo: “Illusione Germa-nia”. Una radiografia che mette a nudo i difetti del colosso teutonico. E che di certo non piacerà alla cancelliera Angela Merkel. Nonostante il solido mercato del lavoro (la disoccupazione è inferiore al 7 per cento) e i record nelle esportazioni, «la nostra economia soffre infatti di un calo sistema-tico negli investimenti pubblici e privati», esordisce Fratzscher in questa intervista a “l’Espresso”. Un deficit che sta frenando non solo la crescita della Germania, «ma anche la ripresa negli altri paesi del sud Europa», argomenta l’economista. Anche l’Azienda Germania è quindi entrata in crisi?«Sì, all’inizio di quest’anno prevedevamo per il 2014 una crescita del 2 per cento. Ma ora, con un Pil sceso a fine giugno a meno 0,2, arriveremo solo all’1,5».Il Pil però continua ad aumentare, perché allora parla di “Illusione Germania”: non è troppo pessimista?«No, l’illusione è proprio quella che l’e-conomia tedesca sia forte. Qui in Germa-nia il governo e i consumatori s’illudono di vivere un miracolo. Ma l’umore dei manager è negativo, e la curva degli inve-stimenti scende da anni».Da quando Stato e imprese non investono come dovrebbero?«Nei primi anni Novanta la quota degli investimenti in Germania rappresentava il 23 per cento del Pil. Nel 2000 il rappor-to era sceso al 20 per cento e oggi siamo

al 17. Un dato che è tra i più bassi in confronto agli altri maggiori Paesi indu-striali. Ogni anno nelle infrastrutture re-gistriamo un deficit d’investimenti pari a 10 miliardi, cioè lo 0,3 per cento del Pil. Purtroppo, però, il governo Merkel con-tinua a stanziare troppo poco per colmar-lo. E così strade ponti e ferrovie in molte zone sono a pezzi.».Dove porterebbe la cancelliera Merkel per convincerla a spendere di più?«A dare un’occhiata al ponte sul Reno, a Leverkusen, spesso bloccato al transito nei pressi della fabbrica della Bayer. E pensare che quello è il cuore industriale della Germania attuale!».Tutta colpa delle politiche di austerità?«Sì, oggi lo Stato tedesco investe nel set-tore pubblico l’1,5 per cento del Pil, al di sotto della media Ue del 2,5 per cento».Però il governo Merkel ha deciso di destina-re alle infrastrutture altri 5 miliardi entromil 2015.«È troppo poco. Dobbiano recuperare il ri-tardo accumulato in due decenni scarsi inve-stimenti. Servirebbero 10 miliardi l’anno e non il miliardo promesso da Berlino».

Anche ai tedeschi fa male

l’AusteritàLo Stato investe poco. Le aziende non creano posti di lavoro. E il pessimismo cresce. Un saggio smonta il mito di BerlinocolloquIo con MArcel frATzScher DI STefAno vASTAno

modo di alleggerire il loro rischio di credito scaricandolo sull’Eurozona. Un’ipotesi che, fra gli analisti, trova sostenitori. Dra-ghi, infatti, ha sottolineato che gli Abs ac-quistati dalla Bce dovranno essere di quali-tà. «Ma il grande problema delle banche italiane sono i crediti dubbi, che ormai hanno raggiunto i 230 miliardi: e questi alla Bce non potranno essere ceduti», dice l’analista di una banca che preferisce resta-re anonimo, secondo il quale gli istituti te-deschi «hanno in portafoglio diversi titoli cartolarizzati basati su crediti buoni».

Basterà l’aiuto alle sue banche a convin-cere la Merkel a togliere il veto sul riacqui-sto di titoli di Stato da parte della Bce (i tecnici lo chiamano in inglese “quantitative easing”)? Molti sono convinti che, prima o poi, la cancelliera dovrà cedere. Carlo Alto-monte, che insegna Economia dell’integra-zione europea alla Bocconi, è però scettico: «Penso che la misura su Abs e covered bond non sia un’anticipazione del “quantitative easing” ma un suo surrogato: i tedeschi non vogliono che si comprino titoli di Stato». In un lavoro pubblicato in luglio per il think tank Bruegel, a Bruxelles, Altomonte aveva sostenuto che l’acquisto di titoli cartolariz-zati poteva essere efficace solo se riguarda-va anche quelli relativi ai mutui per la casa. La Bce l’ha fatto. Altomonte punta ora l’attenzione sul vertice Ue del 6 ottobre: «Il neo presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, aveva ipotizzato un piano straordinario di infrastrutture da 300 mi-liardi: quello sarebbe un bel segnale». n

del settore obbligazionario. un rIfuGIo chIAMATo DePoSITo I conti di deposito vincolati tengono duro. Si possono trovare sul mercato prodotti che, sui 12 mesi, rendono oltre il 2 per cento. Nonostante la tassazione al 26 per cento, il loro rendimento è superiore a quello dei titoli di Stato di uguale durata. Il fAScIno Del DollAro Chi anela a guadagni significativi, allora che deve fare? «Investire in valuta estera e andare a caccia di dividendi da parte di società solide», suggerisce Arnoldo Valsangiacomo di Ethenea Independent Investors. Una decisa rivalutazione della moneta americana nei confronti dell’euro è ritenuta assai probabile dalle grandi banche d’affari. A fine 2017, per Goldman Sachs si arriverà addirittura alla parità. M.M.

A SINIStrA: lo SkylINE dEl CENtro dI FrANCoFortE, IN GErmANIA

l’ECoNomIStA tEdESCo mArCEl FrAtzSChEr

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Anche le aziende tedesche investono meno in patria?«Le imprese che hanno fatto grande l’ex-port tedesco stanno cambiando pelle: investono sempre più all’estero e sempre meno in Germania. Le 30 maggiori socie-tà quotate alla Borsa di Francoforte han-no creato l’anno scorso 37 mila posti di lavoro all’estero, ma solo 6.700 in Ger-mania. Essere così sbilanciati verso l’este-ro ha creato un dilemma».Quale?«Le imprese tedesche sono attori globali. Le esportazioni, su cui si basa la nostra economia, oggi fanno il 40 per cento del Pil. Ma ciò spinge le aziende ad investire all’estero, e questo meccanismo indebo-lisce il sistema-Germania».Perché l’economia tedesca viene definita duale?«L’Agenda 2010 del governo Schröder ha reso più flessibile il mercato del lavoro tanto che, da cinque milioni di disoccu-pati nel 2005, ora siamo a tre. Al contem-po, però, nel settore dei servizi sono au-mentati i lavori sottopagati e i precari, passati da 1,3 milioni nel 1996 agli attua-li 2,7 milioni».Nel libro lei identifica altri lati negativi...«Puntiamo poco sulla scuola. Gli investi-menti in cultura sono pari al 5,4 per cento del Pil, contro una media del 6,3 nei paesi Ocse. Le carenze si concentrano nelle elementari e negli asili nido».

Quanto inciderà la crisi in Ucraina e Russia sul made in Germany?«La crisi in Russia è già ora un forte freno per la nostra produzione, ma bisogna ri-cordare che il 60 per cento delle nostre esportazioni è diretto verso i Paesi Ue. E qui nasce un altro dei miti sbagliati tanto diffusi in Germania, quello del rapporto con l’Europa».Quello che descrive la Ue come un vampiro e Berlino come la sua vittima preferita?«Esatto. Contrariaramente alle fandonie di nazionalisti e demagoghi anti-euro, non sono solo i Paesi del sud a dover ringraziare la Germania per il suo ruolo guida nell’economia europea. La Germa-nia non può crescere se l’Italia, la Spagna e il resto d’Europa restano insabbiati nella crisi».Il suo consiglio alla cancelliera Merkel?«Coprire il buco da 80 miliardi, equiva-lenti al 3 per cento del Pil, che ogni anno si apre in Germania tra investimenti pubblici e privati. Siamo i campioni mon-diali nei risparmi e ci illudiamo che questa

sia la migliore forma di economia. Ri-sparmiamo molto, certo, ma investiamo poco e male. Teniamo grandi risorse im-mobilizzate in banca ma solo il 14 per cento di noi possiede azioni, e solo il 38 per cento una casa».Per Christine Lagarde, direttrice del Fondo monetario internazionale, i salari troppo bassi in Germania sono la causa dell’attua-le crisi in Europa. Ha ragione?«No, le imprese dell’automotive e della chimica pagano salari e premi tra i più alti al mondo». Ma anche la Bundesbank è ora a favore di salari più alti.«Conosco il presidente Jens Weidmann, una persona integra, in cui è ben riposta la fiducia dei tedeschi. Se lui è a favore di aumenti salariali, vuol dire che in Germa-nia la deflazione è già realtà». Come giudica invece il vangelo dell’austeri-tà predicato dalla Merkel?«Due decenni di investimenti troppo bassi hanno finito per deteriorare la strut-tura del Paese e la competività delle im-prese. Condivido l’esigenza di Renzi e Hollande di trovare nuove strategie per aumentare l’occupazione in Europa. Da sole, infatti, le politiche del risparmio non bastano a generare crescita: questa può venire solo da più investimenti nel settore pubblico e privato».Le riforme realizzate dal governo Merkel sono quelle del minimo salariale e della pensione a 63 anni. È la ricetta giusta per la crescita?«Oggi non si tratta tanto di stimolare i consumi, quanto di porre Stato e imprese in condizioni di investire di più. E di far capire ai tedeschi che Bce e istituzioni europee non sono lì per spillare i loro ri-sparmi. La realtà è un’altra».Quale?«La realtà, ha calcolato la Bundesbank, è che dal 2007 a oggi i bassi tassi di interes-se sul debito pubblico hanno consentito allo Stato tedesco di risparmiare 120 miliardi di euro. È vero che la Germania ha investito molto nei fondi Salva-Stato, ma ha approfittato anche della stabilità dell’euro. Un’Italia fuori dall’euro sareb-be per il vostro paese una catastrofe per i prossimi 10 anni. Ma il conseguente crollo della moneta comune diventerebbe una catastrofe per le imprese tedesche. E getterebbe l’Europa in una profonda depressione». n

Economia

Investimenti statali in Germania dal 1994 al 2012, in % rispetto al Pil

1,5%

1994 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012Fonte: Ocse

1,40

1,55

1,70

1,85

2,00

Se lo Stato tira la cinghia

LE poLitichE rEstrittivE frEnano

La crEscita. iL govErno dEvE

spEndErE di più. E aumEntarE i saLari

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questione di polpacci, nono-stante l’aiutino elettrico. Le bici a pedalata assistita e le cargo bikes , capaci di caricare fino a 170 chilogrammi di

merce da recapitare, sono i veicoli più ecologicamente interessanti di Ecomila-no Express. La società, nata su iniziativa di Milano Express e dai bergamaschi di Orobici, entrambi già attivi nel settore delle consegne urbane, ha iniziato a ope-rare il primo settembre e vuol diventare alla svelta il primo Ucc italiano per volu-me di traffico. Ucc è l’acronimo inglese per Urban consolidation center, cioè il luogo dove i trasportatori consegnano pacchi e pacchetti che poi, con veicoli ecologici, giungono a destinazione nei centri urbani, specie in quelli dove il traf-fico tradizionale è limitato.

Una ricetta caldeggiata e finanziata dall’Unione europea per ridurre inquina-mento e congestione nei centri storici. «Un modello che, se fosse adottato nelle 70 città italiane con un numero di abitan-ti compreso tra 60 mila e 120 mila, o nelle 103 città con una Ztl (Zona a traf-fico limitato), potrebbe dar vita in cinque anni a un giro d’affari di 80-100 milioni, impegnando un parco di mezzi a emissio-ni zero dell valore di oltre 20 milioni di euro», prevede Luca Mortara, fondatore di Elettronlt-Elettroventures. Lo svilup-po della ecologistica avrebbe un impatto positivo sull’ambiente, visto che il tra-sporto urbano con veicoli termici com-porta un’emissione media di 181 grammi di CO2 per ogni chilometro percorso (un’auto ibrida come la Toyota Prius sta a quota 89). Secondo Mortara, una flotta

composta da una trentina tra furgoni, cargo scooter e cargo bikes - acquistati o presi in leasing o a noleggio - adatta a una realtà da 200 mila abitanti, costa 93 mila euro all’anno. Un fresco studio dell’Unione europea afferma che la metà delle merci potrebbe giungere al traguar-do a bordo delle cargo bikes. A proposito: una di quelle professionali usate da Eco-milano costa tra i 4 mila e i 5 mila euro e può trasportare oltre 100 chili di merce al giorno per 250-280 giorni all’anno. Avendo un ciclo di vita di tre anni, l’inci-denza del costo del veicolo per ogni chilo consegnato è inferiore a 6 centesimi. La dotazione dei milanesi comprende anche furgoni Renault Kangoo e Nissan e-NV 200, bici a pedalata assistita Winora Bosch, scooter elettrici Zem Ztl Star e l’auto-moto Twizy Cargo. Ecomilano effettua oggi circa 700 consegne al gior-no; l’obiettivo è quota 2.000 a fine anno.

L’ultimo miglio a emissioni zero entu-siasma l’assessore alla Mobilità mene-ghina, Pier Francesco Maran, che riven-dica il merito di aver spinto molte socie-tà, tra cui Dhl, Tnt e Poste italiane, alle consegne ecologiche con l’introduzione dell’Area C: «In centro i mezzi con i normali motori termici pagano; quelli

elettrici no. E ora pure quelli per il tra-sporto merci parcheggiano gratis». Altri incentivi per chi organizza un hub e consegna a zero emissioni per ora non ne immagina. «Prima vediamo se funziona. Troppo spesso iniziative pubbliche in questo campo si sono tradotte in uno spreco di soldi pubblici», dice Maran. Ma non c’è solo Milano. A Lucca, dove è stato creato da zero un Ucc con 1,5 milioni di euro (stanziati da Commissio-ne europea, Regione Toscana e ministero dell’Ambiente), il bando per la conces-sione ai privati è finalmente in arrivo. E iniziative simili sono sorte a Padova, Verona, Vicenza e altre città.

Ai pedalatori duri e puri potrebbero presto affiancarsi agguerrite flotte inte-grate di veicoli eco-efficienti. «Mezzi con batteria ad alta capacità e ricarica rapida, tricicli a ruote basculanti e con carrelli personalizzabili per dimensioni e mate-riali», spiega Giordano Pezzotti di Huno, distributore delle olandesi Urban Arrow (le cargo bikes più famose). Nell’Euro-pa del Nord le ecoconsegne crescono. A Utrecht, in Olanda, dal locale Ucc parte tre volte al giorno un trenino elettrico (con motrice della veneta Alkè) che ha l’esclusiva delle consegne urbane. n

Economiaecologistica

Una bici carica di pacchiParte da Milano la

sfida delle consegne merci a emissioni zero. Un business

che potrebbe valere cento milioni di euro

Di Maurizio Maggi

Una cargo bike a pedalata assistita della olandese Urban arrow

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Si erano quasi rilassati, i tec-nici del ministero dello Svi-luppo Economico e i sinda-cati, all’idea che il nuovo incarico di Lucia Morselli,

inflessibile amministratore delegato delle Acciaierie di Terni, avesse effetto immediato. Speravano di essersi libe-rati di lei, chiamata venerdì 5 settem-bre alla guida di Trenord, la società pubblica che gestisce i treni lombardi. E invece no. Al ministero dovranno mettersi l’animo in pace, perché do-vranno trattare con questa manager dalla fama di tagliatrice di teste fino a quando l’accordo per la ristruttura-zione sarà firmato e lei lascerà per la nuova poltrona. L’obiettivo, ora, è salvare dalla chiusura l’impianto di Terni, di proprietà dei tedeschi di ThyssenKrupp. Un impianto che ri-schia grosso dopo il piano lacrime e sangue presentato a luglio proprio dalla Morselli e, soprattutto, dopo il pasticcio combinato da Thyssen quando, nel 2011, aveva tentato di vendere tutto alla finlandese Ou-tokumpu.

Le premesse non sono incoraggian-ti. Il primo incontro di giovedì 4 set-tembre è durato 14 ore, fino alle sette del mattino e durante la notte la ma-nager ha dimostrato di saper tenere il punto. La trattativa è stata condotta dal ministro Federica Guidi su due tavoli separati: da una parte l’azien-da; dall’altra i rappresentanti dei la-voratori. All’alba delle quattro la re-sponsabile dello Sviluppo Economico era pronta a discutere con la Morsel-

li, ma lei non c’era. La Guidi ha aspet-tato un po’. Poi ha detto agli uomini di Thyssen di riferire alla signora che, se non si fosse presentata, avrebbe chiamato i carabinieri. E un’ora più tardi, mentre i più non vedevano l’ora di andare a casa, la Morselli ha comin-ciato a fare le pulci alla sintassi del testo. «Non sono qui a prendere lezio-ni di grammatica», le ha risposto il ministro.

Lucia Morselli è un osso duro. Mo-denese, 58 anni, è soprannominata la zarina perché è lo storico braccio destro di Franco Tatò, detto Kaiser

Franz per la durezza dei suoi piani di risanamento. Laurea in matematica alla Normale di Pisa, comincia a lavo-rare in Olivetti. Passa a Telepiù, fa una breve parentesi da Stefano Ricucci, proprio mentre vengono sequestrate le azioni Antonveneta dello scalatore del “Corriere della Sera”. Nel 2007, al seguito di Tatò, arriva al vertice di Ipi, la società immobiliare di Danilo Coppola, altro protagonista della stagione dei cosiddetti furbetti del quartierino. E anche qui deve fare i conti con debiti e perdite. Dura poco. Nella primavera 2008 la coppia si sposta ai Viaggi del Ventaglio, tour operator dichiarato fallito nel 2010 tra polemiche e strascichi giudiziari.

La chiamata di Thyssen arriva nel 2013, quando il gruppo sceglie la Morselli per raddrizzare i conti della controllata ferrarese Berco, partendo dal taglio di 438 posti di lavoro. Un dipendente ci ha scritto un libro, dove lei viene paragonata a Miranda Prie-stley, protagonista de “Il diavolo veste Prada”. Ai tedeschi il lavoro della manager piace così tanto che le affi-dano un’altra patata bollente, le Ac-ciaierie di Terni (Ast). Nel luglio scor-so viene annunciato il licenziamento di 550 tute blu e la chiusura di uno dei due forni. I lavoratori, infuriati, il 31 luglio assediano la palazzina dirigen-ziale con all’interno la manager. Dopo 15 ore di accerchiamento viene fatta uscire di nascosto. «Molto emozio-nante», avrebbe commentato. Oggi, dopo la trattativa, i licenziamenti sono stati congelati. Fra un mese si vedrà.

La vicenda Terni, che il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, definisce «l’emblema del cretinismo della buro-crazia europea», comincia nel 2011, quando Thyssen vende il gruppo ita-liano dell’acciaio inossidabile alla fin-landese Outokumpu per 2,7 miliardi. I nordeuropei presentano un progetto per riportare Terni ai fasti di un tempo. Ma la Commissione Europea stoppa tutto, perché i compratori avrebbero raggiunto una posizione di dominio nel settore. Outokumpu cerca di rimet-tere l’azienda sul mercato, ma nessuno la vuole. Il motivo? I tedeschi avevano venduto l’impianto a una cifra di gran

Economia ristrutturazioni

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Pasticcio d’acciaioLa siderurgia di Terni vive ore buie. Per colpa dei dietrofront del gruppo Thyssen. E la capo-azienda è pronta a lasciareDi gloria riva

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«Tim Brasil non si vende», ripete da mesi Marco Patuano. E, a quanto pare, neppure la recente sconfitta rimediata nel Paese sudamericano ha fatto cambiare idea all’amministratore delegato di Telecom Italia. Persa Gvt, passata (a carissimo prezzo) alla spagnola Telefonica, il campione tricolore delle tlc è costretto a rivedere piani e strategie. «Ma il Brasile non si tocca», ha confermato pochi giorni fa Patuano. Davvero? Questione di prezzo, naturalmente.Da giorni si parla di una possibile offerta comune formulata dai tre concorrenti di Tim Brasil, cioè Claro (del miliardario messicano Carlos Slim), Vivo (gruppo Telefonica) e Oi, in procinto di fondersi con Portugal Telecom. L’asta su Gvt ha spostato verso l’alto l’asticella delle valutazioni. E allora non è escluso che il consiglio di amministrazione di Telecom Italia sia presto chiamato a esaminare una proposta d’acquisto per un importo fino a poco tempo fa neppure ipotizzabile. Tra gli analisti c’è chi parla di una somma compresa tra i 15 e i 20 miliardi per il 100 per cento di Tim Brasil. Difficile rifiutare,

a quel punto. Si perderebbe un incasso sicuro, e forse irripetibile, a fronte di prospettive quantomeno incerte sul mercato sudamericano. Nell’arco dei prossimi anni, infatti, saranno necessari nuovi importanti investimenti sulla rete. Si comincia già a fine mese, quando è in programma un’asta per le frequenze 4G. D’altra parte in Brasile, così come in Italia, gli operatori si stanno facendo una concorrenza spietata a suon di sconti sulle tariffe. In più, il mercato della telefonia ha ormai smesso di crescere con la velocità di un tempo e anche l’economia nel suo complesso ha rallentato il passo. In prospettiva, quindi, i margini di guadagno andranno diminuendo. E il calo dei profitti in Sudamerica rappresenta un’incognita pesante sul futuro del gruppo telefonico. Fin qui, infatti, gli utili di Tim Brasil hanno fatto da salvagente al conto economico di Telecom Italia, che sul mercato domestico arranca da anni.Poi c’è la questione del debito. L’emergenza non è finita. Nonostante il crollo dei tassi d’interesse, l’azienda guidata da Patuano paga oltre 2 miliardi di oneri finanziari l’anno su debiti netti che a fine giugno ammontavano a 27,3 miliardi. La vendita di alcune attività considerate non strategiche potrebbe fruttare incassi importanti (un miliardo per le torri italiane di telefonia forse entro fine anno) ma certo insufficienti per dare un taglio netto ai debiti. Ben altra portata avrebbe invece la cessione di Tim Brasil. A maggior ragione se le cifre in gioco saranno quelle ipotizzate in questi giorni. Il maxi incasso in Brasile potrebbe rilanciare le ambizioni di Telecom nel nostro Paese. Potrebbe per esempio tornare d’attualità un accordo con 3, oggetto di lunghi e infruttuosi negoziati l’anno scorso.Quattro operatori (contando anche Vodafone e Wind) sono troppi per un mercato della telefonia mobile ormai più che maturo come quello italiano. Questo il giudizio pressoché unanime degli analisti. Come dire che a breve potrebbero ripartire fusioni e acquisizioni. E allora farebbe davvero comodo il tesoretto accumulato con la vendita di Tim Brasil.

lunga superiore al suo valore. Così Thyssen si riprende Terni per 1,3 mi-liardi pur di evitare una guerra legale. È il febbraio di quest’anno quando il commissario europeo Joaquin Almu-nia dà il via libera al ri-acquisto: «Thyssen ha assicurato che svilupperà Ast come concorrente forte e credibile di Outokumpu», dice Almunia. Ma i tedeschi non avevano specificato come avrebbero raggiunto l’obiettivo: licen-ziando un dipendente ogni cinque.

«Già ai tempi dell’inchiesta di Al-munia le istituzioni avevano lasciato fare, mentre la diplomazia tedesca aveva giocato d’astuzia, salvaguar-dando la propria siderurgia», ricorda Marco Bentivogli della Cisl. «Aveva-mo fatto notare che non si può parla-re di monopolio di Outokumpu, visto che la concorrenza è globale. Ma i burocrati italiani non sono riusciti a difenderci», continua il sindacalista. E ora ci si ritrova con i tedeschi che fanno la voce grossa, racconta Giam-piero Castano, che per conto del mi-nistero farà da mediatore nella tratta-tiva imbastita dalla Guidi. Missione difficile. Nell’incontro di lunedì 8 la Morselli ha fatto capire che non arre-trerà di un centimetro. n

Vittorio Malagutti Follow the Money

L’ultima tentazionedi Telecom Italia

Utile industriale Utile industriale BrasileRicavi

2013 2014201220111°sem 2°sem 2°sem 2°sem1°sem 1°sem 1°sem

13.032

5.515

948 1.042 987 1.009 919 893 840

5.7895.343 5.401

4.956 4.584 4.345

13.70512.979 12.762 12.434

10.97310.551

Si sgonfia anche il Brasile Ricavi di di Telecom Italia a confronto con i profitti industriali (Ebitda) realizzati a livello di gruppo e in Brasile. I dati (milioni di euro) non considerano Telecom Argentina, in via di cessione da fine 2013

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Salendo sul tetto, centomila metri quadrati di un blu elettrico balu-ginano al sole in mezzo alla verde campagna di Trebaseleghe, nel padovano. Pannelli solari, 33

milioni di euro d’investimento tre anni fa: ma producono tutta l’energia necessaria a stampare 200 milioni di libri l’anno, d’e-state anche ad alimentare la rete di cinque Paesi intorno. Nell’era di Internet e del digitale, escono da qui, sede e stabilimento di Grafica Veneta, più di mezzo milione di volumi al dì, 50 tir carichi di carta stampa-ta diretti in Italia, in Europa fino al Circolo polare, ai porti d’imbarco per l’Africa, per duecento editori di mezzo mondo: Stieg Larsson in dodici lingue, Harry Potter e il Papa, il Corano per l’Arabia Saudita e i manga, le guide telefoniche d’Etiopia e di altre dieci nazioni, Lonely Planet, romanzi rosa profumati al ciclamino e libri biode-

gradabili per l’ecomaniaco mercato scan-dinavo. Fino all’Enciclopedia universale russa, 32 volumi per 40 milioni di copie e altre 25 in vista con l’editore moscovita Ast, e alle collezioni di insetti, veri, che comprano in Cina e vendono in Russia, centomila a settimana.

Dietro questa sfilza di numeri mirabo-lanti (un altro per sovrammercato: quasi un miliardo di volumi allegati ai quotidiani in 13 Paesi, la sua fortuna a metà del decennio scorso) c’è un signore di 45 anni, Fabio Franceschi. Che non sopporta il riso con il latte perché fino ai 6 anni era tutto ciò che in casa c’era da mangiare, oltre a un frutto a mezzogiorno. Che come unici giocattoli aveva le righe di piombo dategli dal padre perché le rifondesse, linotype nella stanza accanto a quella dove lui dormiva. Che a 15 anni si mette in proprio a stampare an-nunci di matrimonio. E a 30, siamo nel

2001, eredita metà, e con soldi a prestito rileva dallo zio l’altra metà, della Grafica Veneta, una sola rotativa, unico cliente il Bollettino della Regione Veneto, pagamen-ti a sei mesi quando va bene. Roba da chiudere e cambiare mestiere. Invece si mette a stampare libri, i primi quasi li rega-la per farsi un nome, e nel giro di dieci anni il suo diventa il terzo gruppo in Europa nel settore, primo per margine operativo lordo, al 32 per cento, 60 milioni di fatturato nel 2013 (carta esclusa, gliela danno gli editori, se no sarebbe tre volte tanto), in crescita in barba alla crisi e alla digitalizzazione. E quotazione in Borsa prevista fra due anni. Chiave del successo: «Io un libro te lo stampo in qualunque tiratura in 24 ore e se sforo i tempi te lo consegno gratis. È suc-cesso un paio di volte; non era colpa nostra ma ho rispettato l’impegno». Reputazione, si chiama: e vale un tesoro. Altri 90 milioni

Che futuro, la cartaRitratto di Fabio Franceschi, terzo stampatore d’Europa. Forte di un’azienda modello e molte idee. Anche politiche. Ora in un libroDi roberto Di caro

Economia personaggiCopia di e06893e7c3ad44328ad32c0a07b4c886

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li fattura sul mercato russo, ma li tiene scorporati perché «il grosso lo stampiamo lì in impianti altrui, quel business oggi c’è domani chissà. Meglio essere una bella azienda con i numeri giusti che una grande azienda con numeri banali».

Più che un’accortezza contabile, è che Franceschi è di quei veneti abituati a ragio-nare col cervello connesso alle mani, il tipo che tra il dire e il fare c’è di mezzo giusto la decisione di procedere, uno che considera davvero suo solo quello che vede e tocca e s’è fatto da sé. Ti fa passare le dita sulle pagine e ti racconta gli inchiostri, piccola spesa perché «quanta ne sporchi di carta con un chilo!», ma per lui che c’è cresciuto in mezzo sono un pezzo di vita: persino la Ferrari se l’è comprata nero inchiostro. E lo stabilimento se l’è disegnato lui: «Prima di rilevare Grafica Veneta ho fatto per un po’ il costruttore, m’è rimasto il gusto del calcestruzzo». Luce naturale, spazi enormi, poca gente. Dove stanno i 300 dipendenti qua al lavoro a turni 24 ore su 24, se l’uni-co gruppo compatto di venti persone è una cooperativa sociale che fa lavoretti tipo infilare segnalibri tra le pagine? «Fanno quasi tutto le macchine: questa lunga 35 metri l’ho progettata io, scarica vibrazioni e rumore nella carta, sembra ferma invece gira a 50 mila copie l’ora». Gli ha fruttato una laurea honoris causa in Ingegneria meccanica all’Università di Padova. Un po’ di operai alla fine li vedi, età media 34 anni, turnover prossimo allo zero, paga base più incentivo dai 150 euro. I sindacati invece non li vedi: «Niente contro, sono una risor-sa, ma se un lavoratore ha un problema viene su da me e una quadra la troviamo, un aiuto, un prestito, quel che gli serve: cosa vuole che siano 50 mila euro in un anno per avere con me gente che lavora più serena?» Profondo Veneto, modernissimo e arcaico, diretto, immediato nel senso proprio, meno mediazioni ci sono, sinda-cato incluso, e più corre veloce, giusto o sbagliato che sia.

Per filo e per segno, la storia di Franeschi la racconta lui stesso nella prima parte del libro-intervista di Stefano Lorenzetto, scrittore ex-vicedirettore vicario al “Gior-nale”, in uscita per Marsilio editore. “L’I-talia che vorrei. Il manifesto civile dell’uo-mo che fa i libri”, s’intitola: perché la se-conda parte è tutto un ragionare senza peli sulla lingua sullo stato comatoso dell’I-talia d’oggi e i rimedi magari urticanti ma

auspicabili (un fior da fiore nel riquadro a fianco). Ossignore, che voglia anche lui scendere in campo? «Ci ho pensato varie volte. Ma ho sempre dovuto amaramente concludere che sareb-be una lotta contro i mulini a vento».

In realtà la storia è un po’ più aggrovi-gliata. Berlusconi (di Silvio e Marina, sua cliente, parla bene tuttora) gli piaceva parecchio, e anche Forza Italia, dove spe-rava di mettere nero su bianco un bel programma di risanamento del Paese. Ma non gli va giù la volta che a tavola, un paio d’anni fa, dice: «Silvio, 60 miliardi l’anno persi per la corruzione, 120 per l’evasione, 150 per il riciclaggio, così il Paese va a fondo. Ci vogliono leggi duris-sime, chi corrompe va in galera e gli seque-strano l’azienda». L’allora Cavaliere nic-chia e fa melina: dai, non è poi così grave. Franceschi capisce che in quel partito non c’è trippa per gatti. Contrappasso, ancor-ché abbastanza casuale perché nasce da un cambio-merce con l’editore Aliberti, da quest’anno lo ritroviamo tra gli azionisti del “Fatto quotidiano”, col 4 per cento. Nient’affatto casuali, invece, i contatti a febbraio per entrare come ministro nel governo Renzi: non è chiaro se non se l’è sentita per sfiducia nel nascituro esecutivo o se, come spiega, in quel periodo aveva qualche guaio di salute. D’altra parte, dietro quel suo viso bonaccione e l’abitua-le sorriso all’insù non è che Franceschi sia uno tanto facile: in Confindustria Veneta è stato per due anni responsabile Innova-zione, voleva cancellare i contribuiti a pioggia alle imprese e dirottarli su Univer-sità e formazione, l’hanno bloccato, lui ha lasciato, ora è probabile che esca dall’as-sociazione degli industriali.

Intanto, piccoli Franceschi crescono. Nicola, 23 anni, ha la sua linea di quader-ni e borse anche col pannellino solare per ricaricare il cellulare. Alberto, 22, produce e vende su internet scarpe a colori inter-cambiabili, buone per l’ufficio e la disco-teca. Gianfranco, 17, è già in azienda come consulente in produzione «e mette il naso dappertutto». Un dubbio: ma la carta stampata non è un prodotto obsoleto, in via di estinzione? «La Rete è uno strumen-to ancora troppo confuso e non regola-mentato. Passeranno decenni prima che la carta muoia». n

Alcuni brani dal libro “L’Italia che vorrei” di Fabio Franceschi, scritto con il giornalista Stefano Lorenzetto.Italia. 60 miliardi di malaffare, 150 di riciclaggio, 180 di Irpef evasa ogni anno e 100 di Iva. E invece di affondare le mani in questa melma che cosa fanno i nostri politici? Perdono mesi ad abolire il Senato.Corruzione. La nostra vergogna, una lebbra dilagante. Quindici anni è la pena, da scontarsi senza se e senza ma, prevista dal Code of laws negli Usa. Più una sanzione pari al triplo delle somme estorte o rubate.Falso in bilancio. Che vergogna quando il governo Berlusconi lo depenalizzò! Io ti sbatto dentro per dieci anni se trucchi la contabilità aziendale!Politici disonesti. Alla prima condanna l’amministratore pubblico deve decadere da qualsiasi carica e in sei mesi bisogna arrivare al terzo grado di giudizio.Tasse. L’aliquota fiscale giusta? Un quarto del tuo ricavo.Evasione fiscale. Dovremmo portare l’Iva al 45 per cento e abolire tutte le altre tasse. La semplicità è controllabile. La complicazione genera corruzione. Denaro. Non è possibile che tanta parte dell’umanità non produca nulla e sia dedito unicamente alla manutenzione del denaro.Burocrazia. La madre di tutte le tangenti. Per sradicarla, alla base di tutto deve esserci il buonsenso, non la normativa.Dipendenti pubblici. Un milione di statali in esubero vengano collocati sul mercato e assunti dall’industria privata, pagati per 4 anni dallo Stato.Giustizia. Una grande civiltà ha pochi giudici e poche leggi.Federalismo. Io non ci credo. Non è che suddividendo l’Italia in 21 conti correnti le spese cambierebbero. Ci vorrebbe solo un po’ di buongoverno.Aiuti alle imprese. Gli incentivi a fondo perduto e i piani di sviluppo, inventati da esperti ben retribuiti che non saprebbero gestire neppure un condominio, sono del tutto inutili.Matteo Renzi. Bravo ragazzo, pulito, glielo leggi in faccia che non ha mai rubato. Uno spaccamontagne che crede di poter governare l’Italia a colpi di tweet. alle 6 di mattina. Ma il sistema Paese è assai più complesso.

“L’Italia che vorrei”

“L’ItALIA ChE vorrEI”, DI FABIo FrANCESChI CoN StEFANo LorENzEtto. A SINIStrA: FABIo FrANCESChI NEL SUo StABILIMENto DI trEBASELEGhE, NEL PADovANo

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Il tempio del capitalismo americano cambia faccia. Via il dedalo di stan-ze con le pareti ricoperte di boiserie e poltrone in pelle, via gli uffici chiu-si dove si lavora senza sapere quello

che accade intorno, via il vecchio “Garage”, come è stato da sempre chiamato il rumo-roso salone delle contrattazioni. E poi rot-tamazione american style, grazie e arrive-derci alla vecchia guardia, a cominciare dai dirigenti, e dentro una nuova generazione di traders con paghe più contenute, voglia di lavorare in gruppo e culturalmente affini all’era dell’elettronica.

Nel palazzo della Borsa di New York, che si trova tra Wall e Broad Street, è davvero cominciata un’altra era. Non si tratta solo dei rifacimenti interni per mettere al passo con i tempi l’istituzione finanziaria per ec-cellenza del capitalismo Usa. Jeffrey Spre-cher, il nuovo presidente e amministratore delegato del New York Stock Exchange, il

58enne senza pedigree, quadri di antenati finanzieri o industriali alle pareti, a novem-bre dell’anno scorso è arrivato al vertice della Borsa di New York dopo averla ac-quistata per 8,2 miliardi di dollari. E ora vuole rivoltare come un calzino questa istituzione che ha 222 anni di attività alle spalle e ha perso nel frattempo non solo charme ma anche potere. Basta una cifra per rendere evidente questa situazione: solo dieci anni fa, nel palazzo il cui ingresso è al numero 11 di Wall Street, venivano trattate l’80 per cento delle operazioni fatte negli Stati Uniti, adesso solo il 20.

Nonostante questa perdita di centralità e soprattutto di potere, Sprecher, originario del Wisconsin, una laurea in ingegneria chimica, fino al 2000 completamente sco-nosciuto al mondo dell’intermediazione finanziaria, ha conquistato l’icona del capi-talismo americano. Che non comprende soltanto la società denominata New York

Stock Exchange, ma contiene, sotto il nome di Nyse Euronext, anche una serie di azien-de europee che controllano i mercati borsi-stici (delle azioni, delle merci o dei derivati) di città come Londra, Parigi, Amsterdam e Bruxelles. È un piccolo impero finanziario finito nelle mani di un uomo nella cui storia c’è anche l’episodio della cacciata, in senso letterale, dalla sala riunioni di una grande istituzione finanziaria nella quale era riusci-to a intrufolarsi per esporre una sua idea di business. Idea rifiutata in modo sgarbato solo perché lui non aveva un pedigree da membro riconosciuto dell’establishment finanziario americano.

Eppure, in quel settore Sprecher aveva individuato una nicchia che nelle sue mani si è rivelata la miniera d’oro che gli ha poi permesso di conquistare Wall Street. Se è vero che i computer fanno velocemente il lavoro di molti uomini, ha pensato il nuo-vo capo di Wall Street, perché non fare

Economia emergenti

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Mi sono comprato wall strEEtUn certo Sprecher, sconosciuto ai più, è il nuovo padrone della Borsa della Grande

Mela. Che vuole rivoluzionare. Ecco come Di antonio carlucci Da new york

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operare contemporaneamente le macchi-ne in tutto il mondo occupandosi di mate-rie prime, derivati e quant’altro si può vendere o comprare? Alla fine il suo piano fu ben visto da Morgan Stanley e JP Mor-gan Chase che lo finanziarono. Nel 2000 fondò la Ice, IntercontinentalExchange, sede ad Atlanta, profondo sud d’America, e da lì dimostrò velocemente di aver visto giusto. I computer, infatti, lavorano me-glio degli uomini vestiti con sgargianti giacche per essere riconosciuti nel floor delle trattative. E, soprattutto, fanno guadagnare di più. La prova? Dopo due anni la Ice comprò la Borsa di Londra, dopo 13 quella di New York.

Adesso Sprecher vuole far ripartire la nobildonna un po’ invecchiata, un po’ malandata, forse troppo attaccata al lustro e alla leggenda dei primi operatori che, dopo aver costruito il palazzo nella parte più a sud di New York, festeggiavano con

ostriche e whiskey di malto i migliori affari nel club interno chia-mato The Oak, la quercia, per ricordare l’albero sotto il quale mosse i primi passi il mercato dei titoli e del-le società negli Stati Uniti. Il piano di Spre-cher, che ha scelto co-me braccio operativo Thomas Farley, 38 anni, carriera quasi tutta dentro l’ICE e una fama di stella del baseball al college, si articola in cinque pun-ti. Tra questi c’è quello relativo alla moderniz-zazione dell’edificio di Wall Street, un gio-chetto da 80 milioni di dollari, che alla fine vedrà rinnovato e de-dicato alla tecnologia il Garage delle contrat-tazioni, mentre una parte del palazzo verrà aperto agli uffici delle società quotate a Wall

Street o a quelle interessate a quotarsi.Sprecher e il suo fidato amministratore

delegato hanno individuato in Washington il luogo dove realizzare un altro momento chiave del loro piano. A deputati e senatori del Congresso, i due, insieme a un nutrito gruppo di avvocati, dedicano ormai molto tempo. Vogliono capire come riuscire a convincere i legislatori della bontà di una serie di norme che ben si sposano con i piani del nuovo comandante del New York Stock Exchange. Sprecher è stato giudicato molto abile nell’utilizzare le legislazioni correnti a suo favore. Oggi, per esempio, la legge Franklyn-Dodd, fortemente voluta dal presidente Barack Obama dopo la crisi del 2008, vieta alle banche di utilizzare i risparmi dei clienti per operazioni di Borsa. Una limitazione che rende di fatto poco remunerativo per queste ultime mantenere in piedi costose strutture per il trading di azioni. Quindi, lo scenario più probabile è

che il nuovo Garage vedrà la presenza mi-noritaria delle banche nelle contrattazioni e l’aumento del volume dell’operatore principale. Nelle scorse settimane, ad anti-cipare una tendenza del futuro prossimo venturo, la Goldman Sachs ha venduto il suo avamposto nel Garage di Wall Street a una società di trading specializzata nelle contrattazioni definite “high frequency”, ovvero un numero spropositato di compra-vendite di un singolo titolo al secondo (sono quelle che hanno già causato seri problemi all’andamento del listino, come il 10,9 per cento perso in pochi minuti duran-te una seduta dell’ottobre 2008).

Altro obiettivo sul quale Sprecher si è mosso è quello di far fruttare al meglio il gruppo di società del Vecchio Continente. Già nei primi mesi della nuova gestione è stata avviata la riorganizzazione delle so-cietà europee di trading. Il Liffe, il mercato delle merci e dei derivati finanziari con sede a Londra, è stato scorporato da Euronext e integrato direttamente nella società capo-gruppo Ice. Allo stesso tempo Euronext è stata quotata alle Borse di Parigi, Amster-dam e Bruxelles attraverso una offerta pubblica di vendita, che ha riguardato oltre il 60 per cento delle azioni della società. L’operazione ha fruttato al Nyse Group un incasso di 845 milioni di dollari.

La ristrutturazione ha portato inevitabil-mente alla riduzione del numero di addetti. In percentuale, la parte più colpita è stata quella dei dirigenti di più alto livello, a co-minciare dall’amministratore delegato di Nyse Euronext, Duncan Niederauer. Dei 22 dirigenti, ne sono rimasti nel palazzo di Wall Street solo tre. Alla fine di questa ope-razione la forza lavoro di 4 mila persone, tra impiegati fissi e contrattisti, si ridurrà a non più di 2 mila, con un taglio importante dei costi. Le sforbiciate sono accompagna-te da una attività frenetica di ricerca di nuovi clienti. Sprecher vuole recuperare società interessate ad affidarsi al Nyse per il loro futuro sul mercato. E un primo colpo lo ha messo a segno convincendo il gigante cinese dell’e-commerce Alibaba a quotarsi sul New York Stock Exchange e non sul Nasdaq. Sarà un’operazione da oltre 20 miliardi di dollari: il debutto, dopo molti rinvii, è stato fissato per il 18 settembre. Quel giorno segnerà di sicuro l’inizio di una nuova era per il Nyse, il tempio del capita-lismo che guarda più all’Oriente e alla Cina che non all’America. n

jeffrey sprecher.nell’altra pagina: la borsa di new york

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Società

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La volevano così: carismatica, femminile, istinto ed eleganza. «Una donna Cavalli, insomma». Eva Maria Düringer, designer e da oltre trent’anni moglie dello stilista Roberto Cavalli, sa che la nuova campagna autunno-inverno della maison si farà nota-re: «Stavolta non volevamo una modella classica ma una donna speciale, che ci rappresentasse. Solo per noi». E l’hanno trovata: la testimonial, nei panni di una Marilyn up-to-date, è Rita Ora, cantante pop e attrice presto al cinema con “Cin-quanta sfumature di grigio”, trasposizione

in pellicola del caso letterario degli ultimi anni. «È una ragazza con una grande per-sonalità: è energica, allegra, conturbante, simpatica, ultra moderna. E poi, sì, è bellis-sima, ma non ha le misure standard delle mannequin: ha belle forme e piccoli mera-vigliosi difetti. Credo che questo possa av-vicinare le nostre clienti: lei è una come lo-ro». Eva Cavalli conosce bene il suo pub-blico: «Sicuramente sono donne che voglio-no sentirsi fuori dall’ordinario, diverse da tutte le altre. Donne che girano il mondo, che hanno una forte carica». La stessa che

ha cercato in Rita Ora: «È stata davvero fantastica. Tra una foto e l’altra si metteva a saltare, si arrampicava, cantava. Voleva divertirsi e farci divertire. Instancabile. Le modelle dopo qualche ora di shooting si lamentano, lei sarebbe andata avanti a ol-tranza. Abbiamo finito di scattare a mezza-notte e Rita aveva ancora il sorriso sulle labbra». Il messaggio è chiaro: positività. «Credo che oggi una delle cose che ci man-ca di più sia un po’ di sano divertimento. Almeno con la moda abbiamo il dovere di regalare svago e allegria. Una donna che si

Idee | stIlI dI vIta | personaggI | Mode | talentI | teMpo lIbero

Moda

È l’Ora di Cavalli

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rita ora per la campagna di roberto cavalli. foto di francesco carrozzini

compra un vestito si deve sentire bella, contenta, capace di dar gioia a sé e al suo uomo». Leggerezza, dunque, la stessa che è nella collezione: «Sono abiti fluidi, sensua-li, senza rigidità». E le immagini di questa campagna riescono a rendere bene l’idea. Merito anche del fotografo, Francesco Carrozzini, italiano con base a New York, figlio di Franca Sozzani (direttore di “Vogue Italia”), cresciuto a pane, moda e celebrities: «Francesco è un caro amico di Rita, aveva-no già lavorato insieme più volte. Questo è stato fondamentale: non ho mai visto un

backstage così rilassato, senza alcuna ten-sione o intoppo. C’è stata una perfetta ar-monia. Abbiamo fatto tutto in un giorno e all’una di notte eravamo al ristorante a ri-dere. È lo spirito che piace a me: easy». Nel frattempo, il marchio fiorentino è sempre al centro dell’attenzione. Secondo l’autorevole “Wwd”, infatti, Roberto Ca-valli avrebbe firmato una lettera di intenti per la cessione di una quota del 60 per cento della società alla russa Vtb Capital, pronta a mettere sul piatto circa 500 mi-lioni di euro. Valeria Vantaggi

parte dall’italia e sconfina nel resto del mondo con accostamenti inediti di sapori, la terza edizione di taste of roma 2014. il food festival, dal 18 al 21 settembre nei giardini pensili dell’auditorium parco della musica (programma completo su tasteofroma.it), vedrà in azione 12 chef di alta cucina, con una formula per tutte le tasche: ogni visitatore potrà scegliere tra le 36 portate e comporre il proprio menu a base dei piatti che più lo ispirano e incuriosiscono, a un prezzo compreso tra i 4 e i 6 euro. con una novità di quest’anno: la cucina sostenibile. tra le portate presentate al pubblico di adulti e bambini (che avranno uno spazio giochi a disposizione con peppa pig), infatti, figurerà un piatto green per metodo di cottura, ingredienti utilizzati, trasporto delle materie prime e preparazione. ecco allora che, scorrendo in anteprima tra le proposte, francesco apreda (imago all’Hassler) si cimenterà in una “caprese tiepida, liquida e affumicata”, il “re di roma” Heinz beck (la pergola - Hotel rome cavalieri) nella “ricciola marinata allo yuzu (agrume giapponese) e lemongrass su guacamole”. e ancora, andrea fusco (giuda ballerino) proporrà il suo “paninetto ai broccoletti con scaloppa di fois, cipolle di tropea caramellate, maionese di fichi e zenzero, tartufo estivo”, mentre l’unica donna cuoca dell’evento, cristina bowerman (glass Hostaria), svelerà il suo piatto green: “tonno scottato, kimchi di rutabaga (rapa svedese), verze e gelsomino, papaya marinata”. last but not least, suona come un omaggio alla città eterna il piatto di riccardo di giacinto (all’oro): “riassunto di carbonara con tartufo nero”.

Emanuele Coen

Tòca a tì, ovvero tocca a te. È il nome del Festival Internazionale dei giochi di strada che si svolge dal 18 al 21 settembre nel centro storico di Verona (www.tocati.it). Un invito a giocare, a tornare indietro nel tempo, che quest’anno propone più di quaranta giochi tra quelli regionali italiani oltre a quelli del Messico, che è il Paese ospite dell’edizione 2014. Un’occasione per ammirare sfide spettacolari, come la Pelota P’urépecha, il lancio di una palla infuocata con mazze lunghe circa due metri, la Pelota mixteca de Hule, una specie di baseball in cui si utilizza un guanto di cuoio che pesa sei chili, e il Trompo, la colorata e imprevedibile trottola centroamericana. La palla, che ha un posto di rilievo anche tra i giochi italiani, si affianca a giochi di tavoliere, come backgammon e dama, e giochi urbani, dal parkour allo streetboulder. Il pubblico potrà guardare, ma anche partecipare gratuitamente, sotto la guida di appassionati pronti a trasmettere la loro esperienza. Agli spettacoli si aggiungono mostre, concerti, laboratori per bambini, aperitivi nelle osterie, stand gastronomici che celebrano sia la cucina messicana che quella locale. Sarà anche possibile visitare Verona navigando sull’Adige.

Luisa Taliento

Giochi di strada al festival retrò

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Dodici chef in versione green

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la donna è morbida

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Sono una ragazza che si rac-conta sul web come se stes-se parlando a un’amica, faccio vedere i miei acquisti, le mie fotografie, do consigli e porto avanti la “mia filo-sofia”, ovvero che amare se

stessi è la prima cosa di cui ognuno di noi ha bisogno». Questa è Angela Trovato, di Curvy World By Angie Found  (http://curvyworldangie.blogspot.it). «“Morbi-da, la vita!” è un blog che parla di curve, di come si portano, di come imparare ad amarle. La moda è un argomento, ma non l’unico: il blog parla anche di autostima e di come imparare ad accettare e valo-rizzare le proprie caratteristiche. Perché ogni donna è un’opera unica». Questa invece è Giorgia Marino (www.morbidala-vita.com/) orgogliosamente curvy. «Sono una psicologa e appassionata di moda. Curvette è una pagina in cui mi piace condividere i miei look, parlare di moda e di body acceptance. Potete chiamarmi, plus size, grassa, morbida, è lo stesso: amo il mio corpo e spero di incoraggiarvi a fare lo stesso». Questa è Cristina Fogo, psicologa e curvy fashion blogger (http://curvetteblog.blogspot.it).

Una parola dopo l’altra, nel frastuono della Rete, il manifesto dell’orgoglio femminile di taglia extra si scrive da solo, tra blog, social e forum. Ma non si tratta soltanto di Curvy Pride. È facile rivendi-care identità e consensi quando sei

Società

Dal web alla moda è il momento delle “curvy”. Simbolo, certo, di un nuovo orgoglio. E di un mercato che era impossibile continuare a ignoraredi roselinA sAleMi

la donna è morbida foto di Matthias Vriens-McGrath, citazione di un celebre scatto di herb ritts

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Candice Huffine, 29 anni, 90 chili distri-buiti su 1,80 di altezza, 96-83-108 già vista su». “Vogue”, la prima venere plus size del Calendario Pirelli 2015. Il proble-ma sono i corpi “normali” che portano i segni della maternità, degli impazzimenti ormonali, dei disordini alimentari, corpi imperfetti rispetto al modello estetico dominante. La spinta a scolpire, modifi-care, ridisegnare quello che non va con strumenti sempre più precisi (aghi, bi-sturi e laser) è forte, il dolore si sentirsi “sbagliate” è spesso vissuto in solitudi-ne. Perciò la seconda rivoluzione curvy non porta i nomi delle dee maggiorate come Marquita Pring, Ashley Graham, Tara Lynn o Robyn Lawley, ma quelli delle blogger che hanno tirato fuori con leggerezza, ironia e sincerità le ansie sul corpo, le diete abortite, la paura di man-giare, vestirsi, essere giudicate dallo sguardo degli altri.

Erin McKelle, studentessa di Cleveland, Ohio, non usa neanche la parola curvy e si definisce «attivista della positività del grasso». Indossa minitop, shorts stretti e corti, bikini, leggings, abitini aderenti (e la guardano malissimo). Si piace. Nel suo blog sull’“Huffington Post” elenca le cinque cose da sapere per interagire con una grassa fashionista, ed è contenta che The #fatkini hashtag sia diventato virale su Twitter.

Ma le sfumature sono tante. C’è la rabbia e la gioiosa accettazione di sé, c’è il diario in pubblico, la capacità di rac-contare un percorso che si scopre condi-viso da molte altre. È successo a Fiamma Sanò, 34 anni, giornalista, diventata un piccolo caso. Il suo blog, ospitato dal “Corriere della Sera”, (http://ricomin-ciodalcavolo.corriere.it/) è curioso è di-vertente, un mix di confessioni personali, ricette, perline di saggezza. «Sono sempre stata rotonda, ma sono ingrassata dopo la gravidanza. La vita ti cambia se sei magra o non lo sei, ed è anche una que-stione di salute», spiega: «Prima ero curvy, poi sono diventata obesa, 90 chili per 1,70, ho avuto il baby blues, ho fatto la “zona”, ho avuto più dietologi che fi-danzati. Ho imparato dopo i trent’anni l’amore e la cura del corpo. Sono dima-grita quando ho cominciato a rispettar-mi, ho capito che il cibo è una medicina. Credi di coccolarti con i dolci e la pizza e invece ti fai del male. Ho conquistato

quella che credo sia la mia forma. Ho i fianchi strettissimi, la ciccia nascondeva un fisico androgino e l’ho tirato fuori. Quando ho raccontato la mia esperienza, sono stata sommersa dalle email e dai post su Facebook. Attraverso il blog, orientato alla cucina buona e sana, mi sono resa conto di una cosa: l’alimenta-zione non è una faccenda privata. Tutti ne parlano. C’è sempre qualcuno che ti fa notare che stai meglio con un paio di chili in più o un paio di meno. Qualcuno che ti dice che dovresti rassodare un po’ l’interno coscia, e le braccia però sono troppo magre. Ti considerano triste e infelice perché non mangi le lasagne ogni giorno, ma quando lo facevi, ti commise-ravano. Mi scrivono donne con una sto-ria simile alla mia, ragazze hanno paura di non piacere perché non sono abbastan-za magre. Invece è tutto nel rapporto con

se stesse. il blog aiuta me e loro. Il senso di solitudine non c’è più».

Chi cerca una “migliore amica” può trovarla anche su thefashioncurves.it di Fabiana Sera, 36 anni, napoletana vulcani-ca, irrequieta speaker di “Radio Kiss Kiss” – voce ufficiale di Miss Italia – doppiatrice e cantante. Le chiedono come fare sesso senza vergognarsi del proprio corpo, come vestirsi fashion. «Ho 1500 follower e le conosco tutte. Alcune hanno un bisogno disperato di essere rassicurate, incoraggia-te. Il corpo è sempre stato un grande tabù per le donne, gli uomini sono più superfi-ciali, se sei bella ti guardano, e non ne fanno una questione di taglia. Io mi sono messa in gioco per prima - sono sempre stata tanta, alta 1,81, ho la quarta di reg-giseno - e mi sono fotografata in palestra, sudata e con la panza fuori, o la mattina, appena alzata dal letto, Ho lanciato l’hashtag “e quindi?” come tormentone per minimizzare le ansie: “Ho il sedere grosso”, “e quindi?”. “Sono sovrappeso”, “e quindi?”. So che si rischia sempre l’e-quivoco, ma sono sincera e si capisce. Se una mi scrive: “Da quando ti leggo, non vomito più”, mi sento ripagata. Penso che il nostro dichiararci non-magre sia un vero coming-out. Dobbiamo uscire dal bozzolo perché siamo farfalle tutte quan-te». Fabiana è andata oltre, partecipando al progetto di Carmine Laudiero “Tra le lenzuola” (vedi box a lato). «All’inizio non volevo saperne di farmi fotografare nuda. Poi, a poco a poco, mi sono sentita a mio agio e mi sono spogliata. Abbiamo accet-tato in 20, tutte non modelle. È stata un’iniezione di autostima».

«Creare un dialogo è importante. Mol-te avranno pensato di essere le uniche, e invece il rapporto problematico con la fisicità c’è sempre, in tutti noi», ricorda la filosofa Michela Marzano, parlamentare del Pd e curatrice del “Dizionario del corpo” (pubblicato in Francia nel 2007 e non ancora tradotto in italiano) un lavo-ro monumentale dalla A di Astinenza alla X di Xenotrapianto, e in mezzo pier-cing e botox: «Parliamo tanto dell’aspet-to, di diete, di andare in palestra, ma sempre in maniera superficiale e aneddo-tica. Non si tratta soltanto di opporsi a un diktat, ma di trovare la strada per una re-alizzazione individuale. Attraverso il cor-po, si cerca di giocare un ruolo, dietro i chili c’è la lotta per il riconoscimento».

Società

Una camera da letto. Lenzuola di lino bianco. Cuscini. Luce naturale. Lo stesso set per 20 donne tra i venti e i quarant’anni, magre e non, una anche incinta. Nessuna è una modella. Sono state chiamate a raccogliere la sfida dal fotografo napoletano Carmine Laudiero per la mostra “Tra le lenzuola”. Il suo lavoro sul corpo parte dall’idea della bellezza non costruita, colta, al risveglio. «Volevo dimostrare che una donna normale può essere sensuale senza orpelli e trucchi», spiega Laudiero: «Mentre scattavo, alcune mi hanno raccontato i loro sogni, e l’imbarazzo iniziale se n’è andato. Spero di essere riuscito a rendere la loro bellezza come la vedo io». Ora Laudiero lancia un nuovo progetto per l’anno prossimo. Mescolerà alle studentesse, alla mamme e alle amiche un gruppo di modelle. Sicuro che nessuno le distinguerà. R.S.

Tra le lenzuola

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Se questo era l’obiettivo, i primi risul-tati si vedono. “Vogue” ha messo in co-pertina la trionfale morbidezza di Kate Upton e inaugurato un canale curvy. La lingerie per le non-magre spopola nel low come nell’high-cost, da Intimissimi, col-lezione Shaping, alle creazioni burlesque firmate Dita von Teese. Senza grande clamore, Jenny Packham ha introdotto le curvy nella sua collezione di abiti da sposa 2015 che arriva alla nostra 56. Forever 21 ed H&M hanno lanciato linee dedicate, e sono apparsi da Zara (ma la

prima a pensarli è stata Laura Biagiotti nel 1995) gli abiti “senza taglia”: a trape-zio, arricciati, “a scatola” che nonostante l’indicazione delle misure sono inclusivi ed ecumenici. Una blusa può vestire una 42 come una 46. È nell’ordine delle cose, se i tubini strizzati restano appesi nei negozi perché le donne normali “non ci entrano”. In Italia una su cinque supera la 48. Oltre il 38 per cento fatica a entra-re nella 44, il che fa un 45 per cento che, per quanto ci provi, non scende sotto la 46. Le modelle sono il 9 per cento più

magre, e il 16 per cento più alte della media. Tra la donna reale e quella imma-ginata c’è un abisso. Urge spostare il busi-ness dallo spigoloso al tondo (il mercato vale almeno 4,6 miliardi di euro secondo Demoskopea). Eppure quanto imbarazzo c’è nel linguaggio: taglie “più”, “morbide”, “comode” o “conformate”. Eufemismi per “grasse” o “ciccione”, come insegna “Il diavolo veste Prada”. Il complimento più grande che si può ricevere a Milano, capi-tale delle XS è ancora: «Come stai bene, quanto sei dimagrita!».

«Eh, sì, il Nord e il Sud hanno una valutazione differente. Me ne sono accor-ta anche personalmente», ride Lorella Zanardo, autrice dello strafamoso docu-mentario sul corpo delle donne, sempre in giro nelle scuole, a parlare ai ragazzi: «Millecinquecento chilometri di distanza cambiano la percezione. Ma gli stereotipi sono potenti e pervasivi. L’amica che mi dice con affetto “sei ingrassata, perché non fai una dieta?”, mi vede fuori dal modello dominante e vorrebbe che ci ri-entrassi per non mettere in discussione se stessa. Senza nulla togliere alla rivoluzio-ne curvy, vorrei ricordare che le attrici e modelle over 46 sono lontane dalla nor-malità. Kim Kardashian ha un grosso sedere, ma non ha la pancia, Kate Win-slett è formosa, ma con le gambe magre. Candice Huffine è divina. Le umane non ingrassano soltanto sul seno o sul sedere. Rischiamo di creare un nuovo recinto, una gabbia (i maschi ne hanno molte meno) perché il corpo è mercato, intero o a pezzi, con la prescrizione della bocca, degli zigomi, del seno che devi avere. Perciò, trovo interessantissime le blogger, e il fatto che siano diventate un punto di riferimento: se parliamo del corpo senza vergogna è liberatorio per tutte. Mi è piaciuta un’iniziativa partita dall’Inghil-terra e arrivata anche in Italia: “Io non sono il mio peso”. Per le donne il peso è discriminatorio. Puoi avere tre master e non essere autorevole perché sei grassa, mentre a un genio informatico non suc-cede. Avrebbe spazio l’equivalente al Fo

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femminile di Giuliano Ferrara?». Ne parla anche il pedagogista Francesco Baggiani in un saggio appena uscito nelle edizioni Clichy: “P(r)eso di mira”, un vero e proprio manifesto contro la “di-scriminazione ponderale”.

“Io non sono il mio peso” rischia di essere il prossimo tormentone, sposato anche dalla nostra ”curvy model” per eccellenza, cioè Elisa d’Ospina (elisadospi-na.com), che ha cominciato la sua batta-glia nel 2007, è approdata su “Detto

fatto” (Rai 2) con la prima rubrica televi-siva per donne fuori misura, e ha pubbli-cato questa primavera “Una vita tutta curve” (Giunti), biografia, saggio e self-help. Elisa riemerge a fatica dalla monta-gna di lettere che le scrivono: «C’è la ra-gazza in conflitto con la madre, l’autole-sionista, la rifatta che non si piace, la vittima degli anoressizzanti. È come leg-gere un romanzo triste. Io ci metto il cuore, offro speranza, sono contro il bu-siness delle diete e l’eccesso di chirurgia, le invito a farsi un regalo invece di spen-dere 5mila euro in liposuzioni, lavoro per introdurre l’educazione alimentare nelle scuole. Non sono una psicologa o un medico, non salgo in cattedra, condivido la mia vita con altre vite, sdrammatizzo, e pur essendo una modella, il mio blog è frequentato soprattutto da donne (forse le mie foto non sono abbastanza sexy?). Ho elaborato una serie di risposte ironi-che per quelle che restano senza parole davanti a un fidanzato insistente sul tema “dimagrisci o ti lascio”. Suggerisco: se qualcuno vuole andare via dalla tua vita, dagli una spinta».

Le blogger non sono la risposta, sono la domanda. Elisa Dal Forno, partita dai suoi 90 chili e dal vizio del caffè (tre mo-ka da sei tazze al giorno) è diventata chef crudista vegana, la prima in Italia. Ha ascoltato i segnali del corpo. Si è “disin-tossicata”. Ha scoperto in altre il suo stesso disagio, l’ ha condiviso e superato: trovate le sue ricette su http://rawathome.com/elenadalforno. Non c’è una soluzio-ne buona per tutte, ma c’è una sofferenza comune, molte volte inespressa.

«Usciamo da trent’anni in cui la nega-zione dell’imperfezione è diventata ideo-logia. Abbiamo l’esigenza di liberarci dal modello della perfezione, che poi è quello del controllo», prosegue spiega Michela Marzano: «La bellezza, l’età, la “linea”:

Società

Quanto vale la moda curvy

“Nessuno di noi può essere ridotto a qualcosa di misurabile con una bilancia. Il problema non è il peso. È darsi peso da soli”

Il business delle taglie comode gode di ottima salute. Negli Stati Uniti, l’industria dell’abbigliamento femminile “plus-size” (dalla misura 18, che corrisponde alla 48 europea) ha fatturato ben 17,5 miliardi di dollari (13,3 miliardi di euro) nei 12 mesi compresi tra maggio 2013 e lo scorso aprile, con un balzo del 5 per cento rispetto all’anno precedente, secondo la ricerca condotta da NPD Group. La fascia di età tra i 18 e i 24 anni registra un vero boom: +27 per cento negli ultimi due anni, da 850 milioni di dollari a un miliardo e 100 milioni. «Il mercato plus-size vede finalmente la luce in fondo al tunnel dopo gli anni duri della recessione. E ora i rivenditori e gli stilisti guardano a questo segmento come opportunità», commenta Marshal Cohen, analista di NPD Group. In Italia alcuni marchi puntano sulle clienti curvy già da diversi lustri: Marina Rinaldi, di Max Mara Fashion Group, e alcuni brand del gruppo Miroglio: Elena Mirò, Fiorella Rubino, Luisa Viola e Per te by Krizia. Su un fatturato consolidato di 829 milioni di euro nel 2013, circa 130 milioni vanno attributi a Elena Mirò (230 negozi monomarca nel mondo, di cui 130 in Italia), stabile rispetto all’anno precedente, l’unico marchio a sfilare a Milano Collezioni con le taglie 46-48 tra il 2005 e il 2010. L’anno scorso, inoltre, Fiorella Rubino (210 monomarca) ha totalizzato 100 milioni, in costante aumento dalla fondazione, nel 2004, e di recente ha ingaggiato per la nuova campagna autunno-inverno la modella americana Candice Huffine (nella foto sotto), taglia 48, un metro e 80 di altezza e 90 chili di curve, tra le protagoniste del Calendario Pirelli 2015.«In Italia oltre il 35 per cento della popolazione femminile veste taglie sopra la 46. È un mercato particolarmente grande, da trent’anni abbiamo deciso di presidiarlo», spiega Mauro Davico, direttore comunicazione di Miroglio: è imminente il varo del portale Web “Curvitaly” (curvitaly.com), che mette insieme tutti i brand del gruppo. Quanto a Marina Rinaldi, nel 2013 ha fatturato 165 milioni di euro. «Nonostante le oggettive difficoltà del mercato italiano, Marina Rinaldi attraverso una vasta rete di negozi monomarca registra un trend sicuramente positivo», dice il managing director Lynne Webber: «Un esempio in tal senso è l’eccellente performance del flagship store di Milano che, a poco meno di un anno dalla sua apertura, ha registrato un +30 per cento». Emanuele Coen

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La prima miss Italia Curvy 2014 (categoria voluta dall’organizzatrice, Patrizia Mirigliani) è Ambra Macchini, 19 anni, di San Giovanni in Marignano (Rimini). È alta 1,79 e porta la 44. È tanta: 93-68-98. Sembrerebbe un ritorno al passato, a Fulvia Franco, reginetta nel 1948. Con le misure ci siamo (98-63-98) ma con l’altezza no: lei si fermava a 1,71. Il rimodellamento delle miss è una marcia tortuosa, ma le costanti ci sono. Il corpo femminile si allunga, le proporzioni cambiano: meno seno, meno fianchi. Nives Zegna, eletta nel 1956 (85-63-87), oggi non supererebbe le selezioni provinciali. Troppo bassa, con 1,63. Beatrice Faccioli, vincitrice nel 1957, segue ancora l’onda delle maggiorate: è alta 1,70 per 97-57-96. Il concorso subisce costantemente l’influenza dei modelli di bellezza che cambiano. Nel ’61 il busto di Franca Cattaneo è 92 e i fianchi 96, nel ’68 Graziella Chiappalone è 90-60-90, misura considerata perfetta. Nel 1982 Federica Moro, la bella di Carate Brianza, modifica gli standard: è alta 1,71 per 79-62-87 ed entra nella top quindici di Miss Universo. Roberta Capua, 1,80, che pesa appena 54 chili (90-64-88) inaugura nel 1986 una lunga stagione di miss modelle. Come Martina Colombari, che conquista il titolo nel ’91, o Anna Valle nel ’95. I nuovi corpi sono più magri. Da dietro le quinte filtrano storie di diete pre-concorso e liposuzioni, volano le polemiche. Alla fine, tornano le morbide: oltre ad Ambra Macchini c’è Valentina Beltrami, miss Curvy Piemonte, alta 1,90, modella per Elena Mirò. R.S.

non si può controllare tutto, è una batta-glia persa in partenza. Non si può vivere di apparenza, essere giudicati prima an-cora di aprire bocca, dalla taglia e dai capelli. Per me contano le parole e non il look, conta quello che dico. Il corpo è ciò che si condivide, ma noi siamo soprattut-to altro. C’è una maggiore percezione in questo senso, c’è qualche segnale positi-vo, ma il rischio che la reale sofferenza sia strumentalizzata a fini commerciali, che le voci della diversità servano a creare altri mercati è sempre piuttosto alto. Il

modello della donna morbida può tra-sformarsi in caricatura o generare un nuovo tipo di conformismo. Da un lato si valorizza la differenza, dall’altro si tende a cancellarla, inglobandola. Il sistema è adattabile, onnivoro, lo spa-zio che produce utili viene subito occu-pato, invaso, l’industria del desiderio non si ferma mai».

Eccolo, il tasto delicato: e se il punto d’arrivo fosse mettere le curvy nell’area del politicamente corretto, fare una mai-ling list e consegnarla al marketing? Fa-

biana Sera taglia corto: «Non accetto sponsorizzazioni», e non è la sola, ma la Rete è già affollata di offerte, proposte, lusinghe che puntano al corpo e lasciano fuori l’anima.

Michela Marzano, che ha raccontato l’anoressia (“Volevo essere una farfalla”) e i sentimenti mettendo in gioco anche la sua storia personale (l’ultimo libro è “L’amore è tutto”), ritorna al cuore della questione: “Il corpo ci definisce, è vero, ma nessuno di noi può essere ridotto a qualcosa di misurabile, con un metro o con una bilancia. Il vero problema non è il peso. È darsi peso da soli». n Fo

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Tutte le miss in centimetri

LIZZIE MILLER. NELL’ALTRA PAGINA: CANDICE hUFFINE

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siamo noi

Società

Gente che non ti aspetti: ne in-contri spesso, nella moda - il che vuol dire che bisognerebbe cominciare ad aspettarsela. I manager italiani, per esempio:

credi che ti diranno di “mission”, di “bre-ak-even”, di performance internazionali del brand, invece ti ritrovi a parlare di Giulio Cesare, di Annibale e di calcio. Della vita di un ragazzo che prendeva la corriera presto tutte le mattine per anda-re al liceo, e ha imparato lì molte delle cose che poi gli sono state utili per guida-re un marchio globale del lusso, e il suo team. Ti ritrovi a parlare del bisogno di tener vive le radici, e le storie; del fatto che mantenere i piedi per terra aiuta a sognare più lontano.

Perlomeno, questo è successo con Pietro Beccari. 46 anni, di Parma, da due ammi-nistratore delegato e presidente di Fendi, uno dei brand italiani più amati al mondo, oggi parte del Gruppo LVMH, una success story da novant’anni. Parla quattro lingue correntemente, è più spesso in viaggio tra i cinque continenti che fermo a Roma, cuore della maison, ma sempre legatissimo ai valori forti della sua Emilia, a partire dall’etica del lavoro. Beccari sta guidando il brand in un momento di grande vivacità tra progetti e cambiamenti: un nuovo spettacolare quartier generale; forte impe-gno nel mecenatismo col progetto Fendi

for Fountains che prevede il restauro della Fontana di Trevi e del complesso delle Quattro Fontane; un anniversario im-portante come i prossimi no-vant’anni di vita di Fendi.Com’è nata l’idea dei due restau-ri romani, operazione da due mi-lioni e mezzo di euro? «Quando abbiamo saputo che il Comune cercava sponsor per i lavori di restauro della Fontana di Trevi ci siamo detti, quale migliore occasione per ringra-ziare la città e comunicare qual-cosa di positivo sull’Italia? Fen-di è Roma. È uno stile di vita, che gli stranieri apprezzano sempre moltissimo. Roma è un vissuto che ci piace legare al nostro no-me. L’industria del lusso, poi, è quella che in questo momento ottiene i migliori risultati econo-mici, e io credo che chi è più fortunato debba restituire di più alla società. Non a caso oggi sono aziende come Fendi, Ferragamo, Tod’s, a impegnarsi in atti concreti di me-cenatismo».L’operazione Tod’s - Colosseo ha suscitato un mare di polemiche, però. A voi è andata meglio?«Per il Comune è stato facile dirci di sì, non

abbiamo chiesto nulla in cambio: avremo solo una targhetta che resterà di fianco alla Fontana per otto anni, 30 centimetri per 20, su cui si leggerà qualcosa come “Si ringrazia Fendi”. È stato tutto facile, con la Sovrintendenza ci siamo capiti subito, persone competenti ci hanno fatto promes-

Fendi si rispecchia completamente nella Città Eterna. Perché ne condivide

l’amore per il bello e il senso della storia. Parola del suo uomo di punta

CoLLoquio Con pieTro beCCAri di vALeriA pALermi

Roma

pietro beccari, ad e presidente fendi. a lato: lavorazione della pelliccia “astuccio”; “the fur atelier”, a pechino

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se precise sui tempi e noi vigileremo sul loro rispetto. Siamo abbastanza fiduciosi che in 18 mesi sarà tutto pronto».Nel 2015. L’anno del vostro novantesimo anniversario.«Il brand sta vivendo un momento di feli-cità e brillantezza. Il Palazzo della Civiltà Italiana all’Eur diventerà il nostro quartier generale, un luogo straordinario per noi per lavorarci. E ospiterà anche il nostro storico atelier di pellicceria, che su richiesta sarà visitabile. Il cuore di Fendi: qui abbia-mo decenni di esperienza, il 70 per cento della nostra produzione è interna, in questo settore stiamo assumendo giovani. Tuttora ha potenzialità enormi di sviluppo: nella pellicceria per uomo per esempio, o nelle pellicce “pieghevoli”, quelle perfette in viaggio. La nostra “travel fur” è talmente leggera da poter essere appunto ripiegata, e diventare piccolissima».Cos’è il lusso, secondo lei? «Narrazione. Fendi ha una complessità preziosa di valori. È moda ma prima anco-ra è tradizione e insieme modernità. Chi compra un prodotto, oggi, non vuole sol-tanto possederlo ma sentirsi parte di qual-cosa. Vuole essere rassicurato che ciò che acquista ha un valore che va molto oltre il prezzo: un valore emotivo, che può essere trasmesso ad altri. Il lusso ha profondità, contiene una moltitudine di storie che vale la pena di raccontare».Lei però ha imparato anche dalla sua prece-dente esperienza nel mass market.«Mi ha reso molto razionale e pragmatico, so quanto contino fatti e numeri, anche se credo di saper parlare con i creativi. In un manager del lusso emisfero destro e sinistro del cervello devono dialogare molto bene... Il mass market mi ha dato il senso del marketing. Lì hai leve limitate: uno sham-

poo è uno shampoo, la differenza la fa la storia che riesci a raccontarci intorno. Il lusso è però più violento, nella sua velocità. È violento come la vita, perché mette in gioco passioni forti. E questo mi piace molto».Beccari, lei è in Fendi da due anni: su cosa ha scelto di lavorare?«Sui suoi valori: la creatività e quel ritene-re che niente è impossibile. Il cuore sempre al di là dell’ostacolo. Come quando dalle sorelle Fendi nel ’65 arrivò Karl Lagerfeld e cominciò a disegnare cose folli, apparen-temente impensabili per delle pellicce, ma loro lo presero sul serio e cocciutamente le realizzarono. Il cuore di Fendi è questo, usare la tradizione come una piattaforma da cui lanciarsi nel futuro. In territori che gli altri non immaginano».

Karl Lagerfeld è con voi da 50 anni. Davvero non pensate a una successione?«Lui è più giovane di tutti noi nello spirito. Il primo a dire, “Bene, questo l’abbiamo fatto, e adesso?”. E conclude sempre: “La lutte continue”. Con noi, ha un contratto a vita».Lei parla quattro lingue, ha lavorato in Fran-cia, Germania, Stati Uniti. Che cosa le ha dato ciascun paese?«La Germania rigore e disciplina, nei rap-porti umani e in azienda. La necessità di avere un obiettivo preciso e andarci incon-tro spediti. Negli Stati Uniti quello che conta è il risultato, e anche questa è una componente importante: non si fa niente per niente. Anche i sogni hanno bisogno di essere finanziati. Dei francesi ammiro l’or-goglio e la capacità di difendere la pro-

Alla vigilia del suo novantesimo compleanno (è nel 1925 che Edoardo e Adele Fendi aprono a Roma, in via del Plebiscito, un negozio di borse con annesso laboratorio di pellicceria), la Maison romana non è mai stata così effervescente di progetti. A giugno è partito “Fendi for fountains”, mirato a restauro e valorizzazione di fontane storiche della capitale con un contributo da 2 milioni e mezzo di euro. Si è cominciato con la Fontana di Trevi, si prosegue con il complesso delle Quattro Fontane: i lavori, realizzati sotto la supervisione tecnico-scientifica della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, saranno completati per marzo 2015 (restaurofontanaditrevi.it). Nel frattempo Fendi cambia casa: prossimo quartier generale, il Palazzo della Civiltà Italiana, quello che i romani chiamano Colosseo Quadrato e che da oltre settant’anni era chiuso. L’edificio monumentale all’Eur, progettato dagli architetti Giovanni Guerrini, Ernesto Bruno La Padula e Mario Romano a fine anni Trenta, diventerà l’anno prossimo la nuova sede della maison grazie a un accordo di 15 anni con Eur SpA, e avrà al pianterreno un’area di mille metri quadri, aperta al pubblico, destinata a mostre su creatività e artigianalità italiana. Il 2015 segnerà anche il 50mo anniversario della collaborazione tra Fendi e Karl Lagerfeld, che ne è direttore artistico dal 1965. Silvia Venturini Fendi regna invece sugli accessori: è lei che nel 1997 inventa una borsa iconica come forse nessun’altra, la Baguette, arrivata a essere oggetto da collezione. Ne esistono più di mille versioni, e con l’app “myBaguette” è possibile crearne di personali, virtuali, da condividere in Rete e su social network. Dal 2001 il gruppo francese LVMH è socio unico di maggioranza di Fendi, che ha oggi più di 210 boutique in oltre 35 paesi del mondo. V.P.

Cinque Fontane

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pria appartenenza, molto superiore a quel-la degli italiani. La capacità di valorizzare il loro patrimonio: lì il lusso è un tesoro nazionale. Noi italiani questa cosa la igno-riamo, eppure l’industria del lusso è una delle più importanti, intessuta nel territorio stesso del nostro paese, nel Lazio, in Emilia e Toscana con le concerie, nelle sartorie napoletane. Dovremmo esserne orgogliosi e difendere queste realtà, che danno anche tanto lavoro. Noi stiamo assumendo mol-

te persone negli atelier delle scarpe di Por-to San Giorgio, in quelli della pellicceria, in quelli della maroquinerie a Firenze. Voglia-mo che i giovani imparino dagli anziani: questi sono mestieri e sono un’arte, ci vo-gliono dieci anni di apprendistato perché un ragazzo impari a tagliare una pelliccia. E così i sarti. Stiamo cercando di garantire ricambio anche nelle sartorie che lavorano da anni con noi. Agli italiani manca la ca-pacità di vendersi. Forse un po’ di visione».

Renzi ha promesso di fare molto per il Made in Italy. Lei che cosa gli suggerirebbe?«Di favorire l’artigianato legato alla moda, e in particolare l’ingresso dei giovani in queste aziende. Bisogna stimolare in loro l’amore per il bello e incentivare le aziende ad assumere».È vero che comincia sempre a lavorare pre-stissimo al mattino?«Per me chi dorme non piglia pesci. E poi chi lavora nel lusso ha a che fare con sessan-ta paesi, a qualunque ora del giorno o della notte c’è qualcuno che ha bisogno di una telefonata del capo che gli chiede come va. È giusto farla, quella telefonata, se si può. La capacità di coinvolgere le persone in un progetto è fondamentale. Io non penso di essere più intelligente di altri, ma probabil-mente lavoro più di altri. Del resto l’etica del lavoro è tipica della zona da cui vengo,

Dall’alto: restauro fontana Di trevi; cara Delenvigne sfila mostranDo il pupazzetto Karlito; il palazzo Della civiltà italiana; la popstar Kiesza nel viDeo per color blocK sunglasses

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Il lusso ha profondità. Contiene una moltitudine di storie, che vale la pena di raccontare. Chi compra vuol farne parte

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Una passione inso-spettabile, quella tra Gino Paoli e Napoli. Ce la svela “Napoli con amore”, un album realizzato con Danilo

Rea al pianoforte. Un viaggio al cuore della musica partenopea da parte di due artisti che sono profondi conoscitori ed estimatori della canzone tradizionale

napoletana. «Napoli è da sempre un centro di grande creatività musicale, di veri e propri talenti strumentali, di gran-dissime melodie e interpreti», dice Paoli. Quattordici classici come “Tutta pe’ mme”, “Core ’ngrato”, “’O sole mio”, “Reginella”, “Torna a Surriento”, rivi-sitati dalla calda voce del cantautore genovese e dal pianismo raffinato di Danilo Rea. Roberto Calabrò

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GINO PAOLI SPECIAL

Apparso per la prima volta nel 1845 su “The Chamber’s Journal”, “The Purloined Letter” (“La lettera rubata”) è un celebre racconto breve di Edgar Allan Poe. Protagonista è il cavaliere Auguste Dupin, investigatore per passione. La lettera rubata, che dà il titolo alla storia, è una missiva compromettente che viene sottratta dal ministro francese D. al vero destinatario. E svela particolari che possono compromettere l’onorabilità di una nobildonna. La polizia brancola nel buio. Alla fine, sarà Dupin a scoprire dove si trova la lettera e a risolvere il caso. Una short avvincente. R. C.

Short Stories - Edgar Allan PoeLA LETTERA RUBATA

Napoli con amore

SULLE TRACCE dEI BANdITITEx GOLd

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In edicola la prossima settimana

Lunedì 15 settembre undicesimo volume a 7,90 euro in più con l’Espresso

NOIR - BETIBÙCLAUdIA PIÑEIRO

l’Emilia Romagna, lì il lavoro è sacro. Poi, certo, è questione di indole. Da ragazzo giocavo a calcio e intanto frequentavo il li-ceo classico. Mi alzavo sempre alle 4 del mattino, per cominciare alle 5 a studiare perché poi alle 7 avevo la corriera per anda-re a scuola a Parma. Mi allenavo dall’una alle 6 di sera, alle 7 arrivavo a casa e man-giavo, a letto alle 8. Alle 4 della mattina dopo, di nuovo la sveglia. È andata avanti per anni. Al lavoro mi sono formato così: con l’idea che per andare avanti bisogna impegnarsi. Cerco di insegnarlo alle mie tre figlie, e mia moglie, Elisabetta, si impegna moltissimo in questo. Se le ragazze stanno venendo su così bene è per merito suo, io non ci sono mai. Ma noi siamo una coppia che si divide bene i compiti, ognuno sa quello che deve fare, e lei è molto razionale, è professoressa di matematica e fisica. Te-niamo entrambi i piedi per terra: siamo di Basilicagoiano, in provincia di Parma, 1200 abitanti. Venire da un piccolo paese ti dà certe radici, quella è terra di contadini, di lavoratori. Io sono legatissimo a quella zo-na, ho la “r” tipica di Parma, i migliori amici sono di lì, lì stanno i nostri genitori, le radici sono quelle. Parma è una città sangui-gna: una certa passionalità e l’amore per il bello mi vengono sicuramente da questo».Lei è laureato in economia aziendale e ha poi studiato Marketing and Advertising alla New York University, ma viene da studi classici. Crede che la formazione umanisti-ca abbia giocato nel suo lavoro?«La passione per il bello di cui parlavo mi viene sicuramente anche da lì. Da giovane maledici il liceo classico, poi scopri che la tua mente ci si è formata. Oggi amo le biografie di personaggi storici, in partico-lare quelle scritte da un tedesco, Gisbert Haefs, autore per esempio di “Alessandro in Asia”, “Annibale” e “Il centurione di Cesare”, su Giulio Cesare. Mi affascina la storia antica, sapere come vivevano certi personaggi. Come hanno fatto a diventare quello che furono».A proposito di narrazione e di storie, anche il mondo del calcio ne è pieno. Per lei, che cos’ha rappresentato?«Io giocavo nella serie B del Parma. Tutto-ra vivo il calcio, lo seguo con passione. Lo sport è una palestra di vita: ti insegna a lavorare in team perché da so li non si va lontano, ti fa capire che bisogna essere organizzati per vincere. Nello sport s’im-para a essere un po’ più uomini. A lottare, perché niente è gratuito». n

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Passionin. 37 - 18 settembre 2014

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Ha una casa quasi vuota, è un guru della meditazione trascendenta-le, ma se è riuscito a trasformare gli spazi esterni in luoghi zen («per non disturbare lo spirito»,

dice), quella che invece continua ad essere affollata è la sua testa. David Lynch, il cine-asta di “Elephant Man” e “Mulholland Drive” è un infaticabile collezionista di vi-sioni oniriche. A volte discendono diretta-mente da un surrealista come Magritte,

altre sono un meraviglioso bricolage di ossessioni fai-da-te. Al regista, classe 1946, il Lucca Film Festival (dal 28 settembre) dedica una retrospettiva. E prima ancora, dal giorno 20, la mostra “David Lynch. Lost Images” (a cura di Alessandro Romanini). Sessanta opere che hanno accompagnato 45 anni di lavoro cinematografico e che prendono due direzioni: “Small Stories”, una sorta di diario in soggettiva, e “Women and Machines”, 16 fotografie scattate

nell’atelier Item di Parigi, che stampava le litografie di Picasso, Matisse e Chagall. Evocative, anche degli incubi dell’infanzia, «sono storie senza parole, ognuna si svolge nella testa dello spettatore», spiega il film-maker pittore. Il quale viene celebrato an-che al Mast di Bologna (dal 17 settembre, a cura di Petra Giloy-Hirtz) come fotogra-fo industriale, con 124 scatti di impianti e ciminiere realizzati tra Stati Uniti, Berlino e Polonia. In bianco e nero, ispirati da una sensibilità spaziale che arriva a sfiorare il labirintico. Arianna Di Genova

Registi artistiAttenti, è un occhio di Lynch

david Lynch aLL’ateLier itemi di parigi. sue opere in mostra a Lucca e aL mast di boLogna

cinemA | spettAcoLi | Arte | musicA | Libri | modA | design | tAvoLA | viAggi | motori

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Passioni Cinema

“Belluscone” di maresco: storia

di un film mai nato. denso di

omBre siciliane

Definitivo, così sarebbe dovuto essere il film di Franco Maresco. Tre anni fa, al principio delle riprese, i tempi sembravano propizi per diradare le ombre

che avvolgevano il berlusconismo in Sici-lia. Giunto all’apice della sua avventura, e della nostra sventura, Silvio Berlusconi era però già prossimo all’inizio della fine. Con l’aiuto della cosceneggiatrice Claudia Uzzo, Maresco s’era messo al lavoro. Con la baldanza intellettuale e l’ottimismo implicito d’ogni vero moralista, l’invento-re (con Daniele Ciprì) di Cinico tivù s’era messo a chiarire questioni non secondarie a proposito del boss Stefano Bontate, e della sua sensibilità culturale per l’impren-ditoria televisiva. Era persino riuscito a mettere davanti alla macchina da presa Marcello Dell’Utri, all’epoca ancora a piede libero. A lui, dagli anni Settanta so-dale dell’oggi ex Cavaliere, aveva fatto domande inequivoche e dirette (funestate, ahinoi, da un guasto al sistema di registra-zione). Ma poi s’era messa per traverso qualcosa, o qualcuno, e il povero Maresco era via via caduto in depressione. Niente più interviste, niente ricostruzioni storico-mafiose, niente più film. Addirittura, nien-te più Maresco, di cui gli amici avevano perso le tracce.

Ed è qui che inizia “Belluscone - Una storia siciliana” (Italia, 2014, 95’). Nei

panni (lievemente sdruciti) di un impro-babile detective, da Milano arriva il cine-filo Tatti Sanguineti. È preoccupato. Che fine ha fatto il suo amico regista? Da storico del cinema qual è, Sanguineti rie-sce a farlo, un po’ d’ordine, nell’intrico del mistero. Basti pensare a tal Ciccio Mira, impresario di cantanti neomelodi-ci napoletani. Nelle piazze palermitane in cui i suoi si esibiscono, tutti si proclama-no “bellusconiani”. Berlusconi si fa i fatti suoi, dicono, e li lascia fare a noi. Senza contare che ha inventato la tivù, quella che a partire da “Drive in” fa so-gnare le masse, e le educa ad applaudire

con entusiasmo. Proprio in mezzo a quel sogno, in un inserto tratto da “Amici”, chissà perché quel cinico di Maresco mostra il presidente Matteo Renzi, pim-pante e a suo agio.

Non c’è molto di più, in questo film-non-film. Ma ci dichiariamo soddisfatti così. Non sapremo mai la verità piena sul berlusconismo. Impossibile, in una storia siciliana. Anzi, in una storia italiana. Come il povero Maresco ha avuto modo di scoprire, dalle nostre parti di definitivo ci son solo le ombre. Quanto al resto, è già molto se non cadiamo in depressione. ★★★✩✩

Film di Roberto Escobar

mizzica, silvio

Senza nessuna pietà di Michele Alhaique, Italia. 2014, 95’ ★★✩✩✩Grande e grosso, il taciturno Mimmo (Pierfrancesco Favino) cura gli interessi dello zio palazzinaro (Ninetto Davoli), quelli legali e anche quelli illegali. Indeciso tra bene e male, l’incontro con una prostituta di buon cuore lo porta a scegliere. Noir d’esordio del trentacinquenne Alhaique. Molto impegno, qualche momento di buon cinema. Bravo e convincente Favino.

I nostri ragazzi di Ivano De Matteo, Italia, 2014, 92’ ★★✩✩✩Uno avvocato di pochi scrupoli, l’altro pediatra di buoni sentimenti, i fratelli Massimo (Alessandro Gassman) e Paolo (Luigi Lo Cascio) hanno un problema. Una telecamera ha ripreso i loro figli mentre commettevano un

crimine odioso, e il filmato è andato in onda su “Chi l’ha visto”. Li denunceranno? Li copriranno? Colmo di ottime intenzioni, e ben recitato. Ma la sceneggiatura vorrebbe “dire” più di quanto il film riesca poi a dimostrare.

AltRi Film

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PassioniSpettacoli

C’è uno strazio intimo e insormontabile, nel programma che Mtv trasmette ogni sabato alle 16.20. Si chiama “Teen Mom 2”, è ambientato nella provincia ameri-cana, e racconta la vita -banale e straor-dinaria assieme- di ragazze diventate madri in età parecchio giovane. L’emit-tente presenta il tutto come un «docure-ality» con «le avventure» di queste ra-gazze. Ed ha ragione, a utilizzare il ter-mine «avventure». Perché le storie espo-ste odorano di precarietà, e incapacità feroce di trasformare in gioia l’arrivo di un figlio. Combattono, invece, queste vittime dell’imprudenza (o, in certi casi, della spregiudicatezza), contro gli osta-coli indotti dalla loro condizione. C’è Kailyn, ad esempio, che a 21 anni si trova con un ex compagno problematico (Joe, padre di Isaac), e l’incognita di un futuro sposo che la porterà a vivere in un nuovo Stato. Cerca, a tentoni, di co-struirsi una serenità, un architrave che la sorregga, ma è uno sforzo fallimenta-re. Come nel caso di Jenelle, che per ra-gioni poco edificanti non ha avuto l’af-fidamento di Jace, e ora lo incontra a casa della nonna. «Coraggio!», viene da urlare al teleschermo. Ma sarebbe co-munque inutile. Rotolando senza tregua

tra immaturità ed egoismi, emergenze finanziarie e incomprensioni familiari, quello a cui si assiste è un incubo senza via d’uscita. Un’odissea in cui i figli e la giovane età sono soltanto dettagli di esistenze già in bilico. Destini che Mtv, va riconosciuto, racconta con la giusta asprezza e delicatezza. Senza abusare come altrove di pietismi da share, e senza aizzare il turbo dei mo-ralismi. Semplicemente, la telecamera inquadra l’inadeguatezza: detestabi-le, per la fatica che impone a Kailyn, Jenelle e le altre. Ma al tempo stesso fonte, per chi segue dal proprio diva-no, di riflessioni degne di esistere. www.gliantennati.it

Team collaudatissimo a teatro e al cinema, in libero scambio tra i due, con un divertente e anomalo “Benur”, prova evidente che si può parlare di argomenti seri senza roteare il coltello nelle coscienze per colpevolizzare gli spettatori ma, caso raro, facendoli ridere e sorridere. Il trio è composto da due attori empatici, Nicola Pistoia e Paolo Triestino, e dal loro fedele drammaturgo Gianni Clemente che su commissione della Festa del Teatro di San Miniato hanno proseguito il discorso sull’immigrazione di “Benur” con “Finis Terrae”, dai risultati meno casalinghi e intimisti, più drammatici, più iconici. La notte di Natale due poveracci - o «sdentati» come li chiamerebbe François Hollande a detta della sua ex compagna - per sopravvivere aspettano su una spiaggia cupa un carico di sigarette di contrabbando. Uno è arrivato da Roma, l’altro è siciliano, faceva il geometra, ormai l’edilizia è in crisi e in nero ma lui è così per bene che paga ancora il canone tv. Confronto disperato e a volte spassoso delle loro vite affidato ai bravi Pistoia e Triestino e ai loro ritmi comici nell’attesa dei contrabbandieri.Dal mare arriva una tribù di africani in costume etnico, strumenti musicali e storie di schiavismo reale. Li frusta un Caronte che parla in versi danteschi, i due rinunciano al dialetto e si mettono a parlare in rima, lo schiavista sta per essere crocifisso come Barabba ma un vagito annuncia la nascita di un bambino e una voce fuori campo recita “Alì dagli occhi azzurri” di Pasolini.Era un loro sogno, la scena tribale, scandita dallo strano frinire delle cicale fuori stagione. Ma l’incontro coi poveri superstiti venuti davvero dal mare è reale e rivelatore. La regia di Antonio Calenda è accurata nel contaminare due mondi così diversi.

Due chiocciole, maschie (trattandosi di gasteropodi ermafroditi credo si debba dire così), milanesi e con la erre moscia, dialogano delle possibilità di connessio-ne fuori casa. Il più aggiornato dei due, spiega all’altro, Piero, che lui si vedrà la partita comodamente in streaming dal parco. Tutto grazie alla nuova possibilità offerta da SuperAdslVodafone che inclu-de, oltre ad altre mirabilie, il modem wi-fi Station 2 che gli consente di uscire dal guscio senza uscire dalla rete. Note-vole l’animazione, buona l’idea. C’era da immaginarlo che la pubblicità, prima o poi, trasformasse il logogramma @ in quel che gli dà il nome e lo umanizzasse e, infatti, piano piano, ci siamo arrivati.

Azienda: VodafoneProdotto: SuperAdslVodafoneAgenzia: Grey United.Direttori creativi: Francesco Poletti e Serena Di BrunoArt director: Filippo Solimena.Copywriter: Riccardo Di Capua Regia e animazione: Unit ImageProduzione: Filmmaster Productions PUNCTUM: “Drizza le antenne”

TeleSpotdi Davide Guadagni

TeleReality di Riccardo Bocca

mammine fragiliTeatroCaronte e i contrabbandieriDi RiTA CiRio

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Passioni Musica

Angela Hewitt è oggi un punto di riferimento per quanto riguarda l’interpretazione pianistica dell’opera di Bach. Un parco uso del pedale, il suono cristallino, la polifonia trasparente nella sovrapposizione delle voci sono i segreti del suo successo. Per non essere confinata al ruolo limitante di “specialista”, ha poi sentito il bisogno di ampliare il suo repertorio, eccellendo nelle trascrizioni di brani scritti per clavicembalo di Rameau e Couperin, e dando buone prove nell’impressionismo francese. È forse nei concerti per piano e orchestra di Mozart che non ha convinto appieno. Peccato, perché possiederebbe tutte le doti necessarie di tocco. Perché

si sente che quando suona non pensa “solo” alle sonorità del piano, ma anche alla voce, agli strumenti a corda, ai fiati e in modo particolare alla danza. Doti perfette per affrontare i concerti giovanili di Mozart. Ma quando si tratta di due capolavori della maturità come il K482 e il K491, appena usciti per la Hyperion con la Canadian Arts Centre Orchestra diretta da Hannu Lintu, non bastano. Il suo è un Mozart lucido, razionale, caratterizzato dall’attenzione al dettaglio. Ma non ci sono, soprattutto nel drammatico Concerto in do minore, la patetica concitazione,

il particolare impegno espressivo di un Barenboim o un Curzon, annunciati e richiesti dall’autore con la scelta della tonalità. E l’introduzione orchestrale, in un ensemble che Mozart rinforzò per la circostanza con oboi e clarinetti, pare un po’ sbrigativa, se paragonata a quelle compatte, marmoree, approntate da direttori come Szell o Kertesz.

Cd jazz di Alberto Dentice

INNO ALLA gIOIA

Dove eravamo rimasti? A seguire la multiforme e infaticabile attività musi-cale di Stefano Bollani - circa 250 con-certi l’anno in solo, in trio, in quintetto, per non parlare delle registrazioni di-scografiche - si è presi da un senso di vertigine. Il jazz, la canzone, la musica brasiliana, la classica: non c’è genere che il pianista 42enne non riesca a pla-

smare in qualcosa di nuovo e inaspet-tato. Virtuosismo e leggerezza, uniti a quella sua esuberante voglia di divertir-si e di divertire, dal vivo si traducono spesso in pirotecnici spettacoli di jazz varietà.

Con “Joy In Spite of Everything”(Ecm), l’album registrato a New York negli Ava-tar Studios, Bollani torna a mettere il suo

talento al servizio delle composizioni con un quintetto inedito: oltre ai fedeli Jesper Boldisen al contrabbasso e Morten Lund alla batteria, si aggiungono il chitarrista Bill Frisell e il sassofonista Mark Turner. Con la classe che li contraddistingue, i due musicisti americani contribuiscono a definire il carattere di un album che fin dal titolo, “Gioia nonostante tutto”, sembra porsi come antidoto all’ombra minacciosa che avvolge il nostro presen-te. Si parte con “Easy Healing”, un friz-zante calypso che consente a Turner di prodigarsi con inconsueto lirismo. “Ted-dy” è un duetto con Frisell che Bollani dice di aver composto pensando a Teddy Wilson. Altre tracce come “Las Horten-sias” e “Ismene” si tingono di colori e ritmi latini nel segno della cantabilità. Mentre l’impressionistico “Vale” (oltre 12 minuti) esalta l’abilità di Frisell di in-serirsi nei silenzi creati da un Bollani lanciato sulle orme di Bill Evans.

Cd classica di Riccardo Lenzi

Esame di Mozart

Per chi non li conosce: sono divertenti. Docenti, manager, ex alunni, i sei della Bocconi Jazz Business Unit si esibiscono il 28 settembre al Blue Note di Milano. Non è folklore, il loro. Il sestetto guidato dall’economista Marco Mariani (tromba, hamonizer), con un prof di Contabilità e bilancio, Nicola Pecchiari, al sax tenore e clarinetto, ha un solido repertorio tra swing e bebop, con fantasiosi incroci di sonorità afro e latine. A Milano presenteranno l’ultima loro incisione, “Jazz & Movies II”. A quando l’arrivo di un, o una, vocalist?

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PassioniArte

Il governo turco e lstanbul hanno deciso di demolire, seppure parzialmente, tre torri di appartamenti diciamo di lusso, l’Onalti Dokuz Residence sito nel quar-tiere di Zeytinburnu nella zona ovest. Un evento straordinario, per la Turchia. L’U-nesco alcuni anni fa aveva seriamente minacciato di escludere la città sul Bosfo-ro dalla lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità per il paesaggio compro-messo dalla crescita caotica, sia sul ver-sante europeo sia su quello asiatico anco-ra ricco di boschi. E il futuro non lascia presagire niente di buono. I tre edifici non

hanno nessuna qualità architettonica, ma il panorama del quale possono godere i benestanti proprietari è incredibile. La Moschea Blu dell’architetto Sedefkar Mehmet Aga (1597-1616), Santa Sofia fatta edificare da Giustiniano, completa-ta nel 537 ad opera di Isidoro di Mileto e Antemio di Tralle, il Palazzo del Topkapi, solo per citare le emergenze. Poi il Corno d’Oro. Le irregolarità, anche per un pae-se complesso per burocrazia e politica, sono state veramente troppe. Un’area a bassa densità dove il piano regolatore consentiva al massimo un’altezza di 5 piani dopo il passaggio da un proprieta-rio a un altro veniva modificato, i para-metri cambiati, il valore aumentato di dieci volte. Ovviamente ne è nato un aspro conflitto tra governativi e anti. Al-cuni affermano che Istanbul deve accet-tare la modernità. Altri ribadiscono che è necessario stabilire meglio i criteri per una città che con la sua regione si avvici-na ai 14 milioni di abitanti. La sfida è ardua. Vedremo, anche qui, se lo sviluppo economico sarà compatibile con la storia.

Polifonia sabaudaConsumption: 11 settembre - 12 ottobre. david ostrowski: 11 settembre -28 febbraio 2015. Re Rebaudengo serpentine Grants: 11 settembre - 28 febbraio 2015. fondazione sandretto. TorinoTre mostre inaugurano l’autunno Sandretto. UNO: i politicamentecorretti finalisti del premio Pictet. Undici artisti (tra cui Laurie Simmons, Rineke Dijkstra, Boris Mikhailov, Allan Sekula) che hanno usato la foto per denunciare e indagare lgli aspetti compulsivi della shopping culture. DUE: è pittore e persino astratto, il 33enne David Ostrowski. Molto controcorrente con il suo ciclo di quadri tutti titolati “F”: ovvero il voto scolastico più basso che c’è e anche l’iniziale della parola tedesca “Fehlermalerei”, pittura sbagliata. TRE: Niko Karamyan & Tierney Finster e Riccardo Paratore a cura di Hans

Ulrich Obrist. Vincitori del premio dedicato ad artisti nati dopo 1989. I primi due lavorano insieme ad opere video tecno-romantiche. Paratore invece (tedesco nonostante il nome) usaqualunque cosa per raccontare la nostra precaria vita quotidiana. Qui: coperte di linee aeree insieme a oggetti e vivande serviti in volo si trasformano in installazioni e assemblage dal titolo “Sleeping in Production”.

ART BOXdi Alessandra Mammì

la magia sta nel fallimento: dipingere senza riuscire a riprodurre il reale per davvero. È il destino inevitabile della mimesi artistica che Michaël borremans (1963) cerca di comunicare attraverso i suoi quadri. il loro aspetto misterioso e indefinito è ottenuto affiancando il disegno e il video alla pittura, come ad attestare l’impossibilità di un unico linguaggio rappresentativo. immagini, ritratti e nature morte hanno un carattere evanescente. sin dal 1996 l’artista belga ha sviluppato una pratica pittorica quasi distaccata, come se tentasse di avvicinarsi a motivi assurdi e inafferrabili. un taglio fotografico sembra collocare le figure in un vuoto teatrale, quasi tese a esprimere il nulla del vivere, con il suo parallelo, la morte. È l’annullamento della presenza, sia umana sia animale, che rende il tutto impalpabile, quasi la pittura non potesse arrivare ad alcuna asserzione se non arbitraria. Tale rappresentazione dell’impossibile (al Tel aviv Museum of art fino al 31 gennaio 2015) genera una straordinaria trasmutazione perché costituisce una premessa per la rinascita magica del dipingere. i media possono essere diversi, ma a contare è la trascendenza del reale. sono la fuga dalla stretta dell’imitazione e l’apertura al suo vuoto a condurre all’enigma dell’arte, che non deve dare risposte ma porre domande sulla sua esistenza come linguaggio. È un processo i disgregazione che sconcerta ma apre alla poesia. l’indefinito documenta la sofferenza di un’arte che non può più offrire risposte: fallendo riesce solo a risultare magica.

ArteFallire per rinasceredi GeRMano CelanT

Architettura di Massimiliano Fuksas

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Passioni Libri

Lei è Simone de Beauvoir, detta il Castoro, la compagna di Sartre. Lui è Nelson Al-gren, scrittore maledetto buon conoscito-re dei bassifondi di Chicago. Due persona-lità lontanissime tra loro. Eppure tra l’al-gida intellettuale parigina e lo sregolato amatore di whisky e boxe la passione fu vera e travolgente. Una storia d’amore tormentata ora al centro di “Beauvoir in love” (traduzione di Elena Cappellini, Mondadori, pp.364, € 19), l’appassionan-

te romanzo “ispirato a fat-ti realmente accaduti”, nel quale Irène Frain ricostru-isce e scandaglia «l’unica vera passione» dell’autrice del “Secondo sesso”.

I due s’incontrarono nel febbraio 1947, a Chicago, dove Simone

era di passaggio per un giro di conferenze. Fu colpo di fulmi-ne. Lei però dovette ripartire subito. E in seguito fu solo una sequenza d’interminabili attese e incontri incandescenti, di viaggi da una parte e dall’altra dell’Atlantico, fino a quando le distanze e le loro vite così diver-se ebbero la meglio sulla passio-ne. Diventati «cacciatori di comete svanite», ai due non rimase che la se-parazione, che Simone visse come una sconfitta terribile.

Tutto scritto al presente, il romanzo racconta gli amanti in presa diretta, il desiderio, le incomprensioni, le illusio-ni, la rottura. E soprattutto i tormenti di Simone, prigioniera della complicata relazione con Sartre. Sfruttando abil-

mente le molte tracce lasciate dai due protagonisti (lettere, romanzi, un tac-cuino scritto a quattro mani), Irène Frain si addentra nei meandri di una relazione tumultuosa, proponendo un inedito ritratto della scrittrice femmini-sta, che, tra le braccia di Nelson, sembra ridiventare un’adolescente. Lontano dal mito, il ritratto forse farà discutere. Il romanzo però si legge di un fiato.

Il romanzo di Fabio Gambaro

Simone e il Suo Segreto

«Un gruppo di uomini delle SA (i paramilitari nazisti; ndr) ha condotto un gruppo di ebrei verso un albero, li ha costretti a salire sui rami e a “fare gli uccellini”. Sotto c’erano uomini armati, sopra uomini adulti e barbuti, giovani donne e ragazzi sedevano sui rami e al grido: “Come fa l’uccellino?” rispondevano: “Pio pio pio!”». La scena si svolge a Vienna nel 1938, pochi mesi dopo l’Anschluss dell’Austria alla Germania. A raccontarla è Milena Jesenská, in un articolo: “In cerca della terra di nessuno”. Jesenská è nota come la donna amata da Franz Kafka, nonché traduttrice dei suoi romanzi in ceco. O come compagna di prigionia a Ravensbrück (dove morì nel 1944) di Margarethe Buber Neumann, intellettuale tedesca, consegnata da Stalin, assieme a un gruppo di comunisti, a Hitler, a suggello del patto tra i due dittatori nel 1939. Ma Milena Jesenská è stata prima di tutto una grande giornalista, capace di unire al racconto dei fatti un’analisi innovativa e profonda. Ora alcuni dei suoi testi più importanti vengono

pubblicati da Castelvecchi in un intenso libro intitolato, appunto, “In cerca delle terra di nessuno” (traduzione di Chiara Rea, postfazione di Marcella Filippa, pp. 89, € 12). Gli articoli, scritti tra il 1938 e il 1939 per la rivista “Pritomnost”, rivelano una donna che anticipa, in forma giornalistica, molti dei temi di cui avrebbero poi scritto la filosofa Hannah Arendt e il filologo Victor Klemperer. Della prima c’è l’analisi degli ebrei come popolo paria, del lento ma inesorabile lavorio dell’ordine totalitario nell’animo degli umani. A Klemperer la accomuna la riflessione sul nuovo e intraducibile linguaggio al servizio del regime. Una riflessione, quella di Jesenská, più attuale che mai.

Riscoperte di Wlodek Goldkorn

non solo la musa di Kafka

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Certe biografie di sinistra fanno impressione. Buona o cattiva? Circolare. Prendete Umberto Ranieri (1947): comunista nel Pci, poi democratico di sinistra, ma migliorista, che in Italia vuol dire riformista, alla Napolitano, diciamo, poi ulivista, ma più dalemiano che prodiano, infine democratico nel senso del Pd, e lettiano nel senso di Enrico. Anni e anni in Parlamento, al Senato, poi alla Camera, tre volte sottosegretario, mai ministro. In vent’anni Ranieri ha scritto qualche libro intorno alla parola “sinistra”: sinistra “difficile” (1990), sinistra “impossibile” (1995), sinistra “alla prova del governo” (1998). Ora “sinistra riformista tra il comunismo e Renzi”, sottotitolo di “Napolitano, Berlinguer e la luna”, in uscita da Marsilio. Però. Giri in tondo, arrivi a Renzi.

ControventoGIRO GIRO TONDO

SIMONE DE BEAUVOIR FOtOGRAFAtA A PARIGI NEL 1951

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PassioniLibri

Ci sono davvero molte buone ragioni per leggere “Quando gli uomini sono via” (Nottetempo, traduzione impec-cabile di Silvia Bre, pp. 260, € 16,50), opera prima di Siobhan Fallon, scrit-trice americana appartenente alla fa-miglia letteraria di Raymond Carver. La prima e la più semplice è che si tratta di una bellissima raccolta di racconti, legati fra loro da una profon-da unità di tema, di luogo e di ispira-zione. La seconda riguarda appunto il tema: le donne di cui scrive Fallon sono mogli e compagne di militari, i quali “sono via” nel mondo a fare la guerra, anche se non di rado le missio-ni per cui lavorano sono dette “di pa-ce”. In altri termini, la scrittrice rac-conta l’universo conchiuso delle basi militari americane (nel suo caso, quel-la di Fort Hood, Texas), la loro vita quotidiana all’ombra di soldati e uffi-ciali al fronte, sempre sul punto di tornare o di partire, lontani, perduti in un labirinto di regole incomprensibili

e vane, e sempre in pericolo di perdere anche la vita o almeno la ragione.

Fallon possiede un talento naturale nell’imbastire le sue storie che hanno una grazia stupefatta, non di rado in bilico sull’orrore, ma capace di restituire un cu-rioso senso di pace e di accettazione non corriva della realtà. L’autrice sembra scri-vere assistita da un respiro regolare, ma-terno, primario. I suoi personaggi - Meg, Natalya, Carla, Josie - ci portano in un luogo senza tempo, astratto, in cui le don-ne aspettano i mariti e fanno da mangiare ai bambini, quasi che l’ultimo secolo non ci sia mai stato. E questo è forse il motivo più misterioso che ci spinge ad amare e consigliare il libro di Siobhan Fallon: perché contiene storie che sem-brano precipitate nel nostro mondo e nel no-stro tempo come un meteorite proveniente da una realtà parallela e forse minacciosa.

Interprete appassionato dell’Illuminismo, di cui è fra gli studiosi più noti, Vincenzo Ferrone ne sottolinea da anni nelle sue ricerche il ruolo di crogiolo della modernità. All’Illuminismo così fa risalire il linguaggio politico moderno, riportando ad esso una delle sue categorie centrali, quella relativa al carattere universale dei diritti dell’uomo, che passa a un minuzioso vaglio analitico nel suo ultimo libro (“Storia dei diritti dell’uomo. L’Illuminismo e la costruzione del linguaggio politico dei moderni”, Laterza, pp. 534, € 45). Attraverso una vastissima rassegna delle

correnti nazionali della cultura illuministica, Ferrone mostra la straordinaria varietà delle elaborazioni intellettuali che confluirono, nella seconda metà del Settecento, in una visione laica e razionale

imperniata sul principio dell’uguaglianza, a prescindere dalle condizioni che accentuavano le disparità sociali, etniche, culturali e di genere. Una concezione destinata però per essere tradita proprio dalla Rivoluzione Francese, pur sorta con la pretesa di inverare nella storia i postulati dell’Illuminismo. Naturalmente, Ferrone non tace le tensioni intercorrenti fra la nascita della cultura dei diritti universali e la contestuale fondazione di una scienza dell’uomo che si proponeva di studiarne lo stato di vita reale. E tuttavia il suo ampio volume si chiude con una serie di interrogativi: perché le basi settecentesche dei diritti dovevano essere poste in discussione e revocate nel corso storico successivo? Che cosa ha condotto al diffondersi di ideologie politiche antitetiche a quella fondata su un’etica universale razionale? Da questo punto di vista, la storia dei diritti dell’uomo resta ancora da scrivere.

Il saggio di Giuseppe Berta

traditi da robespierre

Come dire di Stefano Bartezzaghi

un’estate di secchiate

Da sempre «doccia fredda» è un luogo comune amatissimo da giornalisti, telecronisti, titolisti. La narrazione delle più diverse vicende che alimentano la cronaca spesso offre processi laboriosi che implicano trattative, analisi strategiche, comunicazione persuasiva nei più diversi settori, dalla politica economica al calciomercato. Magari è il processo di pace in Medio Oriente, magari è la politica di riduzione del rapporto deficit/Pil, magari è il percorso parlamentare di una legge che dia diritti alle coppie di fatto. Ma per un giornale un processo non è una notizia, e gli articoli che incominciano con «Continua il dibattito su...» non vanno in prima pagina. La notizia improvvisa capace di interrompere processi simili, o addirittura annullarli (la rottura di una tregua, l’arrivo di dati Istat sconfortanti, un emendamento tombale che passa a causa di franchi tiratori), si chiama appunto «doccia fredda». «Doccia fredda sulle speranze dei precari della scuola!»; «Doccia fredda per le Borse!». Spesso queste metaforiche docce fredde riproducono, di quelle letterali, solo gli effetti della temperatura, della sorpresa e del disagio (con la conseguente corsa al blando rimedio dei «pannicelli caldi»): non i conforti piacevoli e salubri dell’igiene e del sollievo dall’afa. Ma si sa, in quest’estate balorda c’è stato poco bisogno di docce fredde.Strano allora che sia stata proprio l’estate dell’ «ice-bucket challenge», dove le docce fredde sulle teste calde se le sono procurate, volontariamente e a secchiate, molte persone note o meno, con conseguenti offerte per le ricerche contro la gravissima malattia della Sla. «Un modo per mettersi in mostra», nei commenti dei malevoli. Qualcuno ha anche chiesto a Rosario Fiorello di mettere in mostra, piuttosto, l’entità del suo bonifico contro la Sla: Fiorello ha reagito con insulti, comprensibili quanto a lui inconsueti. Clima piovoso, secchiate d’acqua ghiacciata, Fiorello che perde le staffe pubblicamente. Proprio un’estate balorda.

Anagramma: Rosario Fiorello = e l’ira or lo sfiorò

Il libro di Mario Fortunato

mariti in guerra

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Si chiamano beauty device e sono piccoli e maneggevoli elettrodomestici che servono a levigare il viso, combattere le rughe, pulire a fondo la pelle. Al recente congresso romano della Società Italiana di Medicina Estetica, è stato presentato Clarisonic, brand pioniere nella tecnologia sonica che fa capo al gruppo L’Oréal. In particolare, il modello Aria Sonic Cleasing Brush a tre velocità per i vari tipi di pelle: sensibili, normali, impure. La spazzola di detersione Clarisonic si è evoluta e, il timer regolabile, favorisce un’ulteriore personalizzazione della routine di pulizia grazie a cicli da uno o due minuti. Disponibile in tre colori, bianco, rosa o nero e dotato di caricabatteria con cavetto USB, Clarisonic Aria è venduto in esclusiva da Sephora e sul sito www.Clarisonic.it a 199 euro. A. Mat.

Antiage supersonico

PassioniBeauty

Sformatino di verdure, orec-chiette con cavolfiore e mollica di pane, dita degli apostoli (crêpes con ricotta). Per perdere peso. È la scommessa della die-

ta mediterranea intesa non come “ali-mentazione” ma proprio come regime per dimagrire. Ci scommette il team della masseria pugliese San Domenico a Savel-letri. E al centro, ovviamente, l’ulivo. L’olio d’oliva è l’unico grasso previsto nella dieta mediterranea. E l’idea centra-le del programma è quella di usare gli ingredienti più sani declinandoli andan-do a recuperare ricette tipiche, sapori antichi e specialità del Sud. Un regime povero di alimenti trasformati ed elabo-rati, ma ricco di ingredienti semplici, in primis legumi, frutta e verdura di stagione, ricchi di micronutrienti a effetto protettivo, vitamine, fibre, minerali, che rafforzano il sistema immunitario e ritardano l’invecchiamento. I carboidrati restano al cuore del programma dimagrante, ma solo quelli che hanno la risposta insulinica più bassa, quindi che non aumentano il livello degli zuccheri nel sangue, ritardando il senso della fame, come ad esempio pasta e riso integrali, fiocchi d’avena, pane di segale. «Il vantaggio è che non si perdono subito molti chili, come in-vece accade con le diete iperproteiche», spiega Agostino Grassi, nutrizionista e Segretario della Fondazione Dieta Mediterranea Onlus: «Ma ciò è positivo, perché permette di eliminare grasso invece di acqua, quindi mantenere nel tempo il peso forma ri-acquistato». Raimonda Boriani

Arrivano dal Giappone (Kobido) e dalla Cina (Tuina), eliminano le tossine, attenuano le rughe, illuminano il viso, stimolano la produzione di collagene. I lifting manuali più innovativi affondano le radici nel passato. «Il Kobido è una pratica che risale al 1472. La tecnica odierna, messa a punto da Shogo Mochizuchi, combina pressioni superficiali e profonde, percussioni e impastamenti direttamente sui punti dell’agopuntura con lo scopo di ottenere un equilibrio nella cute e nella muscolatura sottostante. Il massaggio accelera il microcircolo, favorisce il turn over cellulare e, aumentando la temperatura cutanea, libera la pelle dalle impurità», spiega Isabella Antro, operatrice Kobido romana. Vero e proprio stretching facciale è invece il Tuina. «Si lavora sulle fasce muscolari per creare un’azione anticedimento ed è particolarmente consigliato nei casi di dimagrimento repentini. Il trattamento riguarda testa, nuca, spalle e viso, dura circa 80 minuti ed è abbinato a un prodotto antiage rimpolpante», sottolinea Costanza Popolano, de Le Terme della Regina Isabella a Ischia. Antonia Matarrese

Lifting sì, ma con le mani

Un unico prodotto, con una doppia applicazione, che moltiplica la durata dello smalto. «Una formula inedita che garantisce 12 giorni di colore intenso e impeccabile, e un risultato che sfida quello professionale della manicure con lampada UV», afferma Tom Bachik, L’Oréal Paris Global Nail Designer. Alla base di Infaillible Gel L’Oréal Paris (7,99 euro), in 15 nuances, pigmenti micronizzati ad alta intensità e una resina concentrata che garantisce la resistenza alle sbeccature. Nel gel-top coat, agenti gelificanti e co-polimeri di cristallo per un finish super brillante. R. Bor.

In ALtO E AL CEntrO, LA SpA DELLA MASSErIA SAn DOMEnICO pArtnEr DELLA fOnDAzIOnE DIEtA MEDItErrAnEA

Sfida long lasting

La dieta mediterranea per perdere peso. Con olio e orecchietteDI RAIMONDA BORIANI

dimagrire all med

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Passioni Moda

Per la prima volta l’Italia ospita un Fashion Film Festival di taglio internazionale con opere di qualità realizzate anche da giovani registi. Si svolgerà dal 14 al 15 settembre al Piccolo Teatro Paolo Grassi di Milano con ingresso gratuito tramite prenotazione (sul sito www.fffmilano.com). L’idea è di Con-stanza Cavalli Etro, origini argentine ma milanese per amore (ha sposato Kean Etro), già creatrice del Festival Latinoamericano de Cine, che ha pensato di organizzare la rassegna durante la Settimana della Moda con il sostegno della Camera nazionale della moda italiana. E che ci racconta il suo progetto.Come nasce il Fashion Film Festival Milano?«Il connubio fra i linguaggi della moda e del cinema mi ha sempre interessato: en-trambi riflettono la cultura di un popolo, il momento storico in cui viviamo. Il risultato

è una formula potente. Questi cortome-traggi di moda rappresentano l’anima arti-stica di un brand attraverso cui lo stilista e il regista possono esprimersi a 360 gradi. Sono la loro poetica».Con quali criteri sono state selezionate le opere in concorso?«Direi sceneggiatura, musica, fotografia, illuminazione, montaggio, narrazione. Ab-biamo visionato oltre 300 lavori prove-nienti da tutto il mondo. Un grande aiuto per le selezioni è arrivato da Gloria Maria Cappelletti, che si occupa della curatela delle proiezioni, e da Riccardo Conti, do-cente di estetica cinematografica all’Istituto europeo di design. Le opere in concorso sono 32». Qualche esempio?«“Calypso” è stato uno dei primi film che abbiamo trovato: si concentra sulla danza

surreale di questa ninfa in un’interpretazio-ne urbana ed è stato realizzato per comuni-care un marchio emergente. Un altro esem-pio, legato più alla fotografia, è il film di Dana Lee in cui spicca l’utilizzo della came-ra posta sempre da metà busto in giù, nel seguire i protagonisti all’interno di un al-bergo. L’estetica retrò si lega benissimo a questo taglio di regia che accompagna lo spettatore alla ricerca di dettagli in uno spazio circoscritto». Antonia Matarrese

Una serie di eventi internazionali organizzati fra Shanghai, New York, Dubai e Milano per presentare la nuova Maserati Quattroporte Zegna Limited Edition, prodotta in soli cento esemplari. In ciascuna tappa, il fotografo Fabrizio Ferri realizzerà istantanee delle mani dei partecipanti che saranno poi raccolte in un libro dal titolo “One of 100”. Ad illustrare il volume, che sarà presentato a Milano nella primavera 2015, anche dettagli interni ed esterni della Quattroporte e del set di valigie disegnato per l’evento.

Maserati chiama Ferri Matteo Manassero e Costantino Rocca, Antonio Hortal e Edoardo Molinari: sono solo alcuni dei campioni di golf che hanno guidato le squadre in gara alla XVI Pro Am della Speranza, il torneo di charity a sostegno della Fondazione piemontese per la ricerca sul cancro appena concluso al Royal Park I Roveri vicino Torino. Fra i sostenitori della manifestazione il brand di orologi Hublot che, per l’occasione, ha presentato un modello limited edition Royal Park: cassa in titanio personalizzata con micro palline da golf e cinturino in pelle nera con logo del circolo impresso tono su tono.

È l’ora dei golfisti

Fashion Film Festival

Se il corto È di moda

ConSTAnzA CAVAllI ETRo, IdEATRICE dEl FASHIon FIlM

FESTIVAl dI MIlAno.

A dESTRA: lEA SEydouX nEl

RECEnTE SPoT dI PRAdA CAndy

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PassioniModa

Blu ardesia per la camicia da notte lunga in seta con inserti di tulle ricamato proposta da Parah (tel. 0331 704200, www.parah.com). Disponibile anche in nero o polvere di rosa, costa 240 euro.

Denim con fioccoPer lei, camicia in denim stampa cachemire con fiocco della collezione Gas (tel. 0445 894000, www.gasjeans.com). In vendita a 139 euro.

Trame in PashmereMaglia in cachemire con

motivo carte da gioco della collezione Pashmere

(tel. 075 5996932, www.pashmere.it).

In vendita a 500 euro.

rapsodia in blu ardesia

Al sole sicuriForma tonda e aste sottili per gli occhiali da sole Polaroid by Safilo (www.polaroideyewear.com): unisex, con lenti specchiate Polaroid UltrasightTM, sono declinati in vari accostamenti cromatici. In vendita a 55 euro.

Abbracci fantasiosi Un mix di cachemire e seta per la stola fantasia Bon Bon proposta da Andreas (tel. 0574 660780, www.19 andreas47.com). Costa 350 euro.

Pelle di PorscheSi chiama CosmoBag la borsa in pelle saffiano di Porsche Design (tel. 02 798790, www.porsche-design.com) cucita a mano da artigiani fiorentini con la tecnica della infustitura: una struttura in microfibra sagomata che conferisce ai fianchi la forma a fisarmonica. Costa 1.390 euro.

Il freddo che verrà L’iconico Arctic Parka Woolrich (tel. 051 4161411, www.wpstore.com) si veste di rosso: declinato in cotone Byrd ha il cappuccio profilato in pelliccia di coyote e l’imbottitura in piuma d’oca. Costa 799 euro.

a cura di Antonia Matarrese

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Difficile capitarci per caso, in bocca alle valli di Comacchio e al Po che le frastaglia. Eppure vale la pena fare rotta verso il Lido di Volano, e non solo per i panorami di sug-

gestiva, quasi surreale pace, quanto perché questa è terra di sapori rodati e mai noiosi, sebbene spesso ignorati o dimenticati. La zona del Delta più che a banchetti e pance piene rimanda a nuvole di zanzare: ma non tutte vengono per pungere. I Bison giocano con l’ambiente e ci si identificano senza ver-gogna, già a partire da un nome, “La Zanza-ra”, portato a generare istintive antipatie in

chi si è confrontato con la ronzante fauna di queste terre bonificate, ma adottato volentie-ri da una famiglia che qui fonda le proprie radici di gusto.

L’atmosfera della sala è di accomodante eleganza, a dispetto della semplicità del caso-lare visto da fuori, ed è curata con garbo e colto entusiasmo da Samuele, dei tre figli quello più formato su vini e distillati. Sauro, il fratello, preferisce trincerarsi dietro i for-nelli con papà Elio, patrono e origine di tutto, canuto Mangiafuoco dall’aria ascetica che rivela la propria intima poesia non appena attacca a parlare di anguille o pescato di

valle e di riviera. E la sua cucina gli somiglia nelle idee come nelle presentazioni, limitate e contenute per non prevaricare i sapori originali dei prodotti, unici protagonisti ammessi.

Dunque il granchio reale finisce accostato a una leggerissima maionese all’aceto di lambrusco, che lo incornicia senza schiac-ciarlo; mentre a riempire i tortelli troviamo ricotta di bufala e burrata, in armonia con l’insalatina di crostacei e molluschi che li condisce. Soavi, croccanti e privi d’unto i fritti; perfetti i pesci arrostiti che non smetto-no di variare, come natura comanda; e poi, sopra a tutto il resto, l’anguilla. Addomesti-cata sulla brace per finire nel piatto asciutta e con pochi grassi senza intaccarne l’intensi-tà. Cantina intelligente predisposta ad accon-tentare clienti diversi (ma con una propen-sione per i “naturali”), e conto sugli 80 euro scegliendo alla carta; esemplare e generoso il menu degustazione da 55, per una tavola nascosta in mezzo alle paludi, che andrebbe raccontata coi bocconi più che con le parole.LA ZANZARACodigoro (Fe)Via per Volano 52, Tel. 0533 355236Chiuso lunedì e martedì[email protected]

CA’ CERFOGLIMontecreto (Mo)Via Montegrappa 6-8Tel. 0536 65052Chiuso lunedì e mercoledìIndirizzo da segnarsi per chi ama funghi e tartufi. Menu raccontato a voce che spazia dai tortelli di ricotta vaccina al filetto di manzo con porcini, per concludersi in dessert più che soddisfacenti. Alta la qualità in cantina e bassi i ricarichi, per un totale intorno ai 35 euro.

LA FINANZIERASiracusaVia Epicarmo 41Tel. 0931 61888 - 0931 463117Chiuso la domenica seraSi comincia con l’ampio buffet di pietanze pronte, per poi accomodarsi e aspettare l’arrivo di gioiellini come le triglie arrosto o la cernia in umido, con proposte che cambiano seguendo le possibilità dettate dal pescato. Alcune buone etichette, servizio pronto e conto appena sopra i 25 euro.

Altre tavole

nel delta del po ci

s’imbatte in un

indirizzo gustoso.

dove anche

l’anguilla ha il suo

perchÉ

La Tavola di Enzo Vizzari

altro che ZanZare

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PassioniViaggi

Arte viva che nasce, cresce e muore tra i boschi. Questa la filosofia di Ledro Land Art, la manifestazione che ogni anno aggiunge nuove opere d’arte nel folto della pineta di Pur, piccolo borgo della Val di Ledro. Sono state realizzate da Giordano Faustini, Leonardo Nava, Giampaolo Osele e Marco Nones, con legno, ferro, pietra, e vanno ad aggiungersi ad altre sedici opere concepite nel tempo da artisti diversi. Si scoprono passeggiando

lentamente lungo il sentiero che segue il torrente Assat e svela, perfettamente integrate nel verde, case sospese sugli alberi, altalene misteriose, travi e trincee di legno che nascondono sorprese. La natura è protagonista anche all’Elda Eco Ambient, albergo di Ledro a basso impatto ambientale e attento anche all’inquinamento luminoso. Un’opportunità per godersi l’impagabile esperienza di

una notte stellata (doppia in b&b da 160 euro, www.hotelelda.com).

Luisa Taliento

Land Art tra i boschi

Un lembo di terra nel Mar Baltico sul confine tra Germania e Polonia con colline, boschi, laghi, lunghe spiagge sabbiose e stabilimenti balneari d’epoca imperiale. Usedom è un luogo dove l’orologio del tempo si è fermato e dove la geografia probabilmente serve ad elaborare una poetica dimenticata. L’occasione per raggiungerlo è data dal Festival delle sculture di sabbia (fino al 9 novembre) che si tiene in un enorme padiglione coperto dove 45 artisti di quindici Paesi realizzano sculture sul tema della Bibbia con 9 mila metri cubi di materia prima. Un singolare itinerario che inizia con la Creazione e, tappa dopo tappa, illustra le antiche scritture e la vita di Gesù fino alla Resurrezione.La piccola cittadina che ha il nome dell’isola è da affrontare in punta di piedi, cercando di abitare luoghi e paesaggi con l’obiettivo di dare un senso singolare al proprio nomadismo. Un atteggiamento da tenere quando si va a visitare la Porta di Anklam, la Marienkirche, la roccaforte con il suo monumento che ricorda la cristianizzazione di Ottone di Bamberga. Atteggiamento consigliabile anche quando si attraversano i bagni di Ahlbeck, Heringsdorf e Bansin. Vi sembrerà di scoprire il tempo delle cose nella visibile storia imperiale. Sarà un gioco con l’architettura e la natura di un luogo che ha radici nel passato di Prussia e Pomerania e nel corso del Novecento è stato drammaticamente conteso tra tedeschi e polacchi. E sarà bello passeggiare sulle striscie di sabbia del Mar Baltico per far correre l’immaginazione, compagna fedele e sempre a portata di mano, quando si viaggia verso nuovi lidi.

Maison di grandi numeri e d’alta qualità ma spesso sottovalutata e mal distribuita in Italia Piper Heidsieck, Champagne per raffinati intenditori Charles Heidsieck: nuova vita e rinnovato slancio per entram-be dall’estate 2011, quando le due marche storiche sono state cedute dal gruppo Rémy-Cointreau a Epi-Européenne de Partecipation Industrielle della famiglia Descours, che possiede tra l’altro i marchi del lusso Weston, Alain Figaret e Bonpoint. Prima e risoluta mossa del quarantunenne Christopher Descours, presidente di Epi, porre a capo di “Piper” e di “Charles”, come confidenzialmente gli addetti ai la-vori chiamano le due maison, Cécile Bon-nefond, manager di caratura mondiale strappata a Lvmh, dove per nove anni aveva guidato Veuve Clicquot Ponsardin.

Cécile ha sottoposto a un poderoso lifting di immagine e di promozione le due maison, che restano separate e mantengono la loro identità, puntando sull’ecce-zionale patrimonio di “vin de réserve” accantonato negli anni dallo chef de cave Régis Camus, figura carismatica della Champagne, eletto per l’ottava volta l’anno scorso “sparkling winemaker of the year” all’International Wine Challenge di Londra. Nelle prossime settimane Philar-

monica di Guido Folonari, distributore per l’Italia di Charles (e solo di Charles, non di Piper), metterà a disposizione degli amanti della casa poche centinaia di bottiglie dell’e-sclusiva Collezione Oenothèque, seleziona-te dallo chef de cave Thierry Roset, suben-trato a Camus, ormai impegnato a tempo pieno su Piper.

Bottiglie di eccellenza, come il Vintage 1981 e 1983 in magnum, il Blanc des Millénaires 1983 e 1985, e il Charlie 1981 e 1985, il raro (e costoso) top della gamma, contrassegnato dal nome del fondatore che, nel 1851, a soli 29 anni volle creare un marchio tutto suo da affiancare al già af-fermato Piper. Un privilegio per pochissi-mi: appassionati, affrettarsi. E. V.

ChamPagne

i privilegi di charlie

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Luoghi da scoprire di giovanni Scipioni

memorie imperiali a Usedom

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Duttile come un centrocampista che attacca e difende, il turbo benzina 1.400 dell’Audi. Ha tenuto a battesimo la A3 Sport-back g-tron, la prima macchi-

na a metano della marca tedesca, e tra un paio di mesi scenderà invece in cam-po al fianco della A3 e-tron, prima ibrida plug-in della casa. Stesso motore ma potenze diverse: i 110 cavalli della ver-

sione a metano salgono a 150 in quella ibrida, che accoppiando al quattro cilin-dri turbo un motore elettrico da 150 kiloWatt porta la cavalleria complessiva a quota 204. A salire però è anche il prezzo, visto che tra le due sorelline verdi ballano circa 15 mila euro di dif-ferenza. Può sembrare chic sbandierare il possesso di una A3 ibrida, capace di viaggiare per una cinquantina di chilo-metri in modalità elettrica. Ma non è male neanche farsi vedere al volante di un’Audi a metano, cosa che fino a qual-che anno fa sarebbe stata un’eresia.

In Italia la compatta a gas della casa di Ingolstadt è stata accolta bene, con mille ordini in pochi mesi. Il segnale è chiaro: si può essere “premium” e al contempo badare al sodo, cioè spendere spendere poco per fare il pieno. L’auto-nomia dichiarata è di 1.300 chilometri, 400 dei quali percorribili sfruttando il gas. A spanne, per fare cento chilometri marciando a metano si spendono 3 euro e mezzo. Impossibile, anche per i più parchi motori a gasolio o a benzina, avvicinare simili livelli di risparmio. In quanto all’altro genere di performance, l’Audi a gas non se la cava male, sia in ripartenza sia lanciata, potendo supera-re di quasi 70 chilometri la velocità

massima prevista sulle autostrade italia-ne. I più ambientalisti tra i clienti posso-no anche, durante una puntata in Ger-mania, provare a rifornirsi con il metano prodotto nell’impianto tedesco che l’Audi ha costruito nel nord del Paese, a Werlte, nella Bassa Sassonia. Un gas re-alizzato sfruttando gli scarti di un pro-duttore di energia e che sarebbero desti-nati all’atmosfera. A regime, il metano sfornato dallo stabilimento può fare il pieno a 1.500 A3 g-tron che macinano 15 mila chilometri all’anno. Un po’ lun-ga da raccontare al bar, ma sicuramente una bella storia.

Auto di Maurizio Maggi

a metano senza complessi

Torino a tutto gas

vendite gennaio/agosto

Fiat Panda 13.632

Fiat Punto 7.353

Fiat 500L 4.433

Lancia Ypsilon 4.226

Volkswagen up! 4.220

Volkswagen Golf 2.198

Fiat Qubo 1.952

Opel Zafira 1.398

Seat Mii 985

Audi A3 729

La Fiat domina tra le auto a doppia alimentazione benzina-metano. nella top 10 è sfida tra italia e germania. Unica intrusa, la spagnola Mii. Fonte: Unrae

Prezzo: 25.650 euroCilindrata: 1.395 centimetri cubiMotore: quattro cilindri benzinaPotenza: 110 cavallivelocità massima: 197 km/oraaccelerazione da 0 a 100 km/ora:10”8 secondiCambio: manuale a sei marceConsumo medio: 30,3 km/litroemissioni di Co2: 92 grammi/kmLunghezza: 4,31 metriBollo annuale: da 208,98 a 230,04 euro

Audi A3 1.4 TFSI g-tron

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PassioniMotori

La tecnologia semplifica la vita? Pare di no, quando si è al volante. A deludere sono soprattutto i sistemi di riconoscimento vocale e il Bluetooth. Lo sostiene il Multimedia Quality and Satisfaction Study 2014, il rapporto redatto da un organismo autorevole e indipendente come J.D. Power. Lo studio valuta la soddisfazione, durante i primi novanta giorni di possesso, da parte di chi ha acquistato una nuova auto. Dalle risposte, si scopre che a volte anche i più moderni dispositivi per l’infotainment

facciano, per così dire, cilecca: in particolare, il primo motivo di insoddisfazione da parte dei clienti sono i sistemi di riconoscimento e attivazione vocale. Ogni cento veicoli in circolazione, su 8,3 (lo scorso anno erano 7,6) sono stati riscontrati malfunzionamenti di vario tipo: nel 63 per cento dei casi il sistema non ha riconosciuto, o mal interpretato, i comandi verbali, nel 44 per cento i nomi e le parole e nel 31 per cento i numeri.Al secondo posto, tra i congegni meno affidabili, si è piazzato il Bluetooth, che ha dato problemi su 5,7 auto ogni cento. Nel 40 per cento dei casi, i tablet e gli smartphone non sono stati “trovati” o riconosciuti dal dispositivo, e per il 30 per cento la connessione non è avvenuta automaticamente all’ingresso in auto. Considerando che l’86 per cento degli automobilisti sondati si vorrebbe collegare in questo modo, non è un problema da sottovalutare. Marco Scafati

Il primo tentativo non andò bene. E infatti la Smart a quattro posti prodotta in Olanda in partnership con Mitusbishi (la tedeschina era, tecnicamente parlando, la sorella della Colt) è uscita di scena senza lasciare rimpianti. Tanto più incuriosisce la nuova Smart forfour, che sarà in vendita da novembre. Anche stavolta la vettura è frutto della collaborazione con un altro costruttore, la Renault. La Smart a quattro posti è costruita nell’impianto Renault di Novo Mesto, in Slovenia, da cui sta per uscire anche la nuova Twingo. Contrariamente alla vecchia, questa forfour ha un look che ricorda quello della classica Smart a due posti, la fortwo. Si potrà anche andare a fare la spesa, con la Smart “familiare”: il bagagliaio ha una capacità di 315 litri (quello della Panda è di 200 litri, per dire) e abbattendo il divano dietro si sale a 975. In pratica, una furgoSmart.

La Smartona ci riprova

Spigolosa e aggressiva, più larga di nove centimetri e più bassa di tre. In attesa di esibirla sulla passerella del salone di Parigi, la Skoda ne ha diffuso le prime immagini. D’acchito, si vede che la terza generazione dell’utilitaria costruita nella Repubblica Ceca ambisce a essere sempre meno considerata un’utilitaria. Fanno capolino i fari a led per le luci diurne e il muso appare più aggressivo rispetto al modelloi destinato alla pensione. Sarà proposta in 15 tinte e con l’opzione Colour Concept, che consente al cliente

di sbizzarrirsi con il colore di tetto, cerchioni e retrovisori esterni. Tutte le Fabia 2015 avranno il dispositivo “Star & Stop” e, a spingerla, saranno soltanto motori Euro 6. Tra i quali un piccolo tre cilindri turbo benzina, una soluzione sempre più gettonata.

NUOVA SKODAIngrassare fa bene alla linea

a SInISTRa: SmaRT FouRFouR. SoPRa: honDa Cb 650F. nElla PagIna a FRonTE: auDI a3 1.4 g-TRon

Tecnologie pro e controE chi ti riconosce?

Dopo quasi vent’anni la hornet va in pensione e la honda la rimpiazza con la Cb650F. Sempre una naked ma più arrembante. normale, visto cheper filosofia e stile è vicina alla sorellona Cb1000. una moto che costa meno della hornet, ha l’abs di serie ed è completamente nuova, a partire dal motore che non ha una vite in comune col precedente 600. la rivoluzione ha l’obiettivo di far sentire immediatamente a proprio agio, in ogni tipo di situazione, chiunque inforchi e guidi questa piacevole “nuda” con l’ala stilizzata sul serbatoio. la ciclistica facile, equilibrata e ben frenata, e il motore lineare fin dalla minima apertura del gas, regalano anche ai cosiddetti rookies, gli esordienti (e pure ai meno talentuosi), la tranquillizzante sensazione di sentirsi bravini in tempi relativamente ridotti. ma anche molti rider più maturi ed esperti apprezzeranno il carattere affabile della Cb650F, che in barba a quel suo aspetto pretenzioso si rivela abbastanza comoda anche per due. Maurizio Tanca

MotoNuda, facile e bene equilibrata

Prezzo: 7.300 euro Cilindrata: 649 centimetri cubiMotore: 4 cilindri in linea, 16 valvolePotenza massima: 87 cavalliVelocità massima: oltre 210 km/oraConsumo medio: 21 km/litroCapacità serbatoio: 17,3 litriPeso col pieno: 208 chilogrammiAltezza sella da terra: 81 centimetriBollo annuale: da 75,66 a 86,38 euro

Honda CB650F Abs

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LettereMille giorni tv dopo tvOra si sono inventati il sito “mille giorni passo dopo passo” perché i cittadini pos-sano controllare l’attuazione del pro-gramma. A Renzi non bastavano più le sette - otto televisioni dove è presente in permanenza. E nemmeno i quotidiani al-lineatisi con la verità renziana. Ha voluto un contatto diretto con i cittadini. Ma chi è questo Goebbels della propaganda ren-ziana? Non sa che gli italiani non sono tedeschi, e che ripetere le stesse cose in continuazione fa nascere la noia? L’espo-sizione mediatica continua alla fine genera disinteresse. Goebbels, gran maestro, cen-tellinava le uscite pubbliche del Führer. Non vedo geni circondare il premier.

francesco degni email

saremo tutti ricchi e feliciHo letto con curiosità e interesse l’articolo di Jeremy Rifkin “Un futuro a costo zero” (“l’Espresso” n. 35), richiamato in coper-tina sotto il titolo “Così torneremo ricchi” (e anche felici, spero...). Vi si parla delle magnifiche sorti e progressive per l’Uma-nità, legate alla imminente (in parte già in atto) Rivoluzione tecnologica del cosid-detto Internet delle cose (Idc, si sentiva proprio la mancanza dell’ennesima sigla). A fine lettura sono rimasto molto deluso. L’unica considerazione che mi viene da fare è che l’uomo ha sempre bisogno delle Utopie, come i bambini delle Favole. E questo, in sé, è un bene per la sopravviven-za della specie; a patto di non prenderle troppo sul serio, le Utopie e le Favole. Tramontata la sciagurata Utopia del Co-munismo, però, vedo che risorge sotto le spoglie del “Commons collaborativo”. Già, già, saremo tutti ricchi (e felici). Qual-cuno (Big Data, per esempio?) magari... un po’ più degli altri. Ad maiora.

paolo Marconi Fermo

chi valuterà i professori?L’annunciatore ha sentenziato che ai professori vengano dati “incentivi eco-nomici basati sulla qualità della didatti-ca, la formazione in servizio, il lavoro svolto per sviluppare e migliorare il progetto formativo della propria scuola.

Gli scatti di stipendio devono essere sulla base del merito e non dell’anziani-tà”. Ohibò, ha anche detto con quali strumenti misurerà questi parametri o si fiderà dell’autocertificazione? Fino ad oggi non mi risulta che il corpo docente abbia accettato di buon grado valutazio-ni basate su parametri prestabiliti.

roberto bellia Vermezzo

eppure la flessibilità si può fareLa flessibilità è un problema della politica europea, non dei trattati europei che ove la politica volesse consentirebbero ampia flessibilità. Il Consiglio europeo può avvia-re, su sollecitazione di qualsiasi Stato membro, del Parlamento o della Commis-

sione europea, la procedura di revisione semplificata delle disposizioni relative a moltissime materie tra le quali la politica economica e monetaria , l’occupazione e l’industria. Sono compatibili con il merca-to interno europeo gli aiuti concessi dagli Stati a carattere sociale purché non discri-minanti rispetto all’origine dei prodotti, e sono compatibili gli aiuti destinati a ovvia-re ai danni causati dalle calamità naturali. Sono solo degli esempi. Basterebbe che la politica europea fosse coerente con il pre-ambolo del Trattato che afferma di voler intensificare la solidarietà tra i popoli dell’Unione e la promozione del loro pro-gresso economico e sociale.

ascanio de sanctis email

Per Posta | Per e-mail | le oPinioni dei nostri lettori | n. 37 - 18 settembre 2014

Cara Rossini, quindi abbiamo finalmente anche in Italia la fecondazione eterologa. Quindi anche io, che finora ho cercato inutilmente di rimanere incinta, potrò avere il mio bambino. La sterilità di mio marito non sarà più un macigno che ci nega la felicità di essere genitori. Con due tentativi falliti alle spalle, 15 mila euro spesi invano all’estero, alcuni embrioni fecondati e congelati in una clinica spagnola che, visti i fallimenti precedenti, voglio dimenticare, ora potrò fare l’inseminazione nel mio ospedale, nella mia lingua, con vicino le persone amate. La nostra felicità è al massimo, con qualche zona d’ombra legata alla figura del donatore che potrebbe essere molto diverso da noi. Le confesso che in passato abbiamo a lungo accarezzato l’idea di fare una fecondazione per così dire “naturale” con un amico di famiglia a cui chiedere un favore, ma l’abbiamo scartata perché c’era il rischio che poi volesse fare davvero il padre. Abbiamo pensato anche a un estraneo di bell’aspetto che non avremmo più rivisto e a cui non dire nulla, ma non è facile gettarsi nelle braccia di un altro uomo quando si ama profondamente il proprio marito: ho tentato ma non ce l’ho fatta. Ora leggo che, se lo richiediamo, il centro garantirà che il bimbo abbia almeno il nostro colore di pelle e di occhi, ma leggo anche che la cosa è contestata, che sarebbe addirittura eugenetica, una pratica di selezione da nazisti. Ho paura che il divieto vinca e che in nome dell’uguaglianza universale, io mi ritrovi a non potermi aspettare un figlio di pelle bianca come quella di tutta la nostra famiglia. Come si fa a dire che questa è eugenetica! Lei che ne pensa? cristina b.

È un crinale scivoloso quello a cui mi chiama questa sofferta lettera di cristina. infatti non posso che risponderle che la scelta del colore della pelle e degli occhi è, sì, eugenetica, termine che fa appunto riferimento a una selezione pilotata di caratteristiche fisiche. però qui il nazismo non c’entra ed è difficile paragonare il desiderio di avere un figlio di pelle bianca con il proposito perverso di costruire un essere umano a proprio piacimento. oggi il mondo è popolato da persone di mille colori, e quasi nessuno ci fa più caso, ma se una donna sente il bisogno cocente di specchiarsi negli occhi di un figlio a sé simile, toglierle d’ufficio questa identificazione potrebbe minare quella delicatissima intesa madre-bambino che è la garanzia più importante per la creatura che viene al mondo, finendo per produrre due infelici. Questo penso oggi, ma in un campo sottoposto a continui sforamenti delle barriere della ricerca e dell’etica, sono pronta a ricredermi.

Vorrei un figlio di pelle bianca

Risponde Stefania [email protected]

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Se le guerre globalirisvegliano Obama

Se ne parla su www.espressonline.it

Sembra quasi di ripercorrere la storia e la leggenda di Alessandro Magno che, partito dall’Epiro con un piccolo esercito e affascinato dal mito della guerra di Troia e dal

mito di Achille, conquistò le terre che arri-vano fino al Caspio e all’Indostan e alle sorgenti del Nilo a sud, alla foce del Tigri e dell’Eufrate e all’Egeo e al deserto libico.

Nessun impero raggiunse quell’estensio-ne, quella varietà di religioni, di linguaggi, di culture; Roma soltanto li raggiunse e in parte li superò ma fu Alessandro ad aprire la strada. L’ellenismo nasce con lui e costituisce una parte intangibile della cultura occidentale.

In tempi moderni qualche cosa di simile fu l’impero inglese che cedette il posto durante la seconda guerra mondiale all’America e di questo oggi dobbiamo occuparci.

Barack Obama ha cambiato la politica estera del suo Paese da qualche mese: è acca-duto con la guerra dell’Ucraina e con le san-guinose imprese di guerra e di terrorismo del Califfato islamico.

È strano che quei due eventi siano avvenu-ti quasi contemporaneamente, pur senza avere tra loro alcuna connessione. Se ad essi aggiungete anche il feroce scontro tra Hamas e Israele, l’emergere in Iran d’un interesse verso l’America e la posizione “double face” della Siria di Assad e della Turchia di Erdogan, avrete un quadro completo dei rivolgimenti in corso nella metà del mondo che sta a sud-ovest del Caspio e ad ovest dell’India.

Gli Stati Uniti da diversi anni, che coin-cidono più o meno con il primo mandato presidenziale di Obama, avevano concentra-to la loro attenzione sullo scacchiere del Pa-cifico. Il mondo ormai è multipolare, l’impe-ro mondiale che gli americani pensavano d’aver realizzato dopo il dissolversi dell’U-nione Sovietica, era durato pochi anni. Era nata come potenza mondiale la nuova Cina e contemporaneamente l’India, l’Indonesia, il Brasile, il Sudafrica.

Il Pacifico continuava ad essere una parte di mondo che richiedeva la presenza ameri-cana, ma gli sconvolgimenti in Mesopota-mia, nell’area mediterranea e nell’Europa collocata tra l’Elba e il Don richiedono una nuova attenzione. Sicché, proprio verso la

fine del suo ultimo mandato, Obama ha ri-lanciato la presenza americana nel nostro continente.

Devo dire che questo fenomeno non mi pare sia stato adeguatamente segnalato: il presidente Usa aveva negli anni del suo se-condo mandato perso gran parte del suo ri-gore politico. Lo smalto dei suoi primi mesi alla Casa Bianca, le speranze che aveva acce-so nell’America povera, nelle donne, nei giovani, nelle minoranze costituite dai nuovi immigrati e in gran parte degli stessi popoli europei e africani era scomparso. Il Partito repubblicano aveva conquistato la maggio-ranza di una delle Camere, la politica interna zoppicava, quella estera non richiamava particolare attenzione nell’opinione pubbli-ca americana. Ma di colpo la situazione è cambiata. Se ci domandiamo le ragioni di questa rinnovata attenzione nei confronti di Obama che l’opinione pubblica americana e mondiale gli sta riservando, probabilmente deriva dal rilancio che egli ha fatto degli inte-ressi e dei valori che le insidie di Putin e le gesta terroristiche militari del Califfato met-tono a serio rischio.

la RUSSia di PUtin è già una grande potenza ma non ha ancora raggiunto la forza politica e ideologica dell’Unione So-vietica staliniana. Quella ideologica è esclu-sa e lo stesso Putin si guarderebbe bene dal riproporla. Ma quella politica ha un senso e una strategia che si fa sentire in particola-re in Ucraina, nella Russia bianca, nei Paesi baltici, in Bulgaria. Gli altri Paesi che un tempo appartenevano all’Urss sono esclusi ma questi che abbiamo indicato in teoria sono aggregabili. Non per fare la guerra ma per partecipare a pieno titolo al novero dei più forti della società globale.

Obama ha proposto che i valori dell’Occi-dente nati e radicati ancora in Europa ed estesi fin dall’inizio all’America democratica non possono rischiare d’essere indeboliti e rimossi ed è per questo che ha rilanciato come strumento indispensabile la Nato che è il punto di unione istituzionale e organizzativa tra gli Usa e le nazioni dell’Europa. Se noi fossimo già allo stadio degli Stati Uniti d’Eu-ropa l’intesa sarebbe ancora più valida e la partnership ancora più solida. Ma per ora dobbiamo accontentarci della situazione di fatto e attraverso la Nato seguire questa po-litica, tesa a contenere e trovare nuovi e posi-tivi equilibri con una Russia che resti nei suoi ormai non valicabili confini.

il caSo del califfato islamico è diverso. Lì c’è la ricerca non solo di una dottrina islamica radicale fino all’orrore ma di un territorio, cioè di uno Stato. Teocratico natu-ralmente, ma che scelga fin dall’inizio e mai abbandoni il metodo della guerra e del terro-rismo. Alle spalle di questo disegno c’è l’in-tenzione di ripetere l’antica ed eroica marcia che gli arabi intrapresero un secolo dopo la scomparsa di Maometto e che li condusse all’occupazione della costa mediterranea fino al Marocco e all’invasione della Spagna an-dalusa con la costituzione degli emirati di Siviglia, Cordova, Granada e Malaga. Qui Obama dovrà agire con la forza, qui purtrop-po lo scontro armato è indispensabile e temo che non possa limitarsi ai droni e ai caccia-bombardieri. Obama certamente ne è consa-pevole e invoca infatti l’intervento delle po-tenze regionali, dalla Turchia all’Iran, dai sauditi ai curdi. Sa bene che non è facile otte-nerlo e che comunque ciascuna di queste potenze ha una serie di secondi fini tutt’altro che coincidenti gli uni con gli altri. È comun-que un rischio da affrontare e che Obama ha pochi mesi per avviare su basi che consentano al suo successore di proseguire. La partita è molto difficile e l’obiettivo è quello di risve-gliare un Islam moderato che difenda i propri valori tra i quali la pace, stando almeno alle pagine del Corano e dei suoi più autorevoli interpreti, è il principale.

Papa Francesco vede anche lui l’Islam da questo punto di vista e la sua azione è sicura-mente di notevole portata.

I conflitti in Ucraina e Medio Oriente

costringono gli Usa a una nuova

attenzione verso i loro alleati europei

Eugenio Scalfari Il vetro soffiatoCopia di e06893e7c3ad44328ad32c0a07b4c886

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