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Francesco Fimmanò Esercizio provvisorio dell’impresa e riallocazione dell’azienda nella riforma della legge fallimentare Sommario - 1. Il rapporto tra l’azienda ed il fallimento nella riforma della legge fallimentare; 2. L’evoluzione dei principi ispiratori in tema di conservazione dei valori produttivi; 3. Il collegamento funzionale tra gestione endoconcorsuale e liquidazione dell’attivo; 4. L’esercizio provvisorio novellato; 5. Il contratto di affitto: presupposti, natura ed effetti; 6. I rapporti giuridici pendenti; 7. segue: i rapporti di lavoro subordinato; 8. La prelazione convenzionale all’acquisto; 9. La vendita unitaria del complesso aziendale o di singoli rami; 10. L’esercizio della prelazione; 11. Gli effetti della vendita. 1. Con la riforma delle procedure concorsuali irrompe finalmente a pieno titolo nella legge fallimentare l’azienda ed il tema della sua circolazione coattiva in funzione della proficua riallocazione nel mercato. D’altra parte nel fallimento 1 , a differenza di quanto accade nell’esecuzione individuale 2 l’universalità oggettiva e la concentrazione si integrano perfettamente con la considerazione unitaria del complesso aziendale e soprattutto sono del tutto funzionali alla sua gestione e liquidazione in blocco 3 . 1 Cass. 2 aprile 1985, n. 2259, in Giust. civ., 1985, p. 1039; Cass. 22 novembre 1978, n. 5437, in Giust. civ., 1979, I, p. 474; Cass. 27 settembre 1971, n. 3461, in Riv. dir. ind., 1972, II, p. 338 con nota di G.C. RIVOLTA, Locazione immobiliare e vendita dell’azienda del conduttore fallito; Cass. 7 dicembre 1968, n. 3917, in Foro it., 1969, I, p. 1215; App. Lecce 31 dicembre 1980, in Giust. civ., 1981, I, p. 577; Trib. Milano 21 gennaio 1982, in Fallimento, 1983, p. 843. In dottrina cfr. L. MONTESANO, Sulla vendita fallimentare dell’azienda dell’azienda, in Riv. dir. proc., p. 19; F.P. LUISO, Procedure esecutive sulle aziende di telecomunicazione, in Riv. dir. proc., 1985, p. 599; G. LO CASCIO, Rapporto di lavoro subordinato inerente all’esercizio dell’impresa e procedimenti concorsuali, in Il Fallimento, 1981, p. 65; V. GRECO, Il Fallimento da esecuzione collettiva ad espropriazione dell’impresa, Milano, 1984, p. 33 s.; A. COLASURDO, Vendita dell’azienda in sede fallimentare e diritti di credito del prestatore d’opera, in Mass. giur. lav., 1970, p. 166; A. BASSI, Riflessioni sull’affitto d’azienda e sull’affitto di opificio nel fallimento, in Riv. dir. civ., 1982, I, p. 333 s. Contra: S. SATTA, Cose e beni nell’esecuzione forzata, in Riv. dir. comm., 1964, I, p. 356. In particolare A. CANDIAN, Appunti in tema di azienda, in Scritti in onore di Jemolo, Milano 1963, vol. II, p. 162 s., ritiene, invece, percorribile la strada della vendita unitaria forzata dell’azienda, pur nella necessaria ed ineliminabile diversità degli strumenti espropriativi dei suoi singoli elementi. 2 R. PROVINCIALI, Il sequestro d’azienda, Napoli, 1959, p. 83 s.; C. VOCINO, I poteri del sequestratario di azienda nel procedimento per l’avocazione dei profitti di regime, in Riv. dir. proc., 1946, I, p. 143 s.; A. CONIGLIO, Il sequestro giudiziario e conservativo, Milano 1953, p. 80; V. ANDRIOLI, Progresso del diritto e stasi del processo, in Studi in memoria di Piero Calamandrei, Padova, 1958, vol. 5, p. 427; D. PETTITI, Il trasferimento volontario d’azienda, Napoli, 1970, p. 154 s.; F.P. LUISO, Procedure esecutive, sulle aziende di telecomunicazione, in Riv. dir. proc., 1985, p. 599, secondo cui un pignoramento d’azienda in considerazione della mancanza nel nostro ordinamento di un provvedimento strutturale simile alla sentenza dichiarativa di fallimento, si ridurrebbe in realtà al pignoramento dei singoli beni componenti l’azienda e quindi ad una mera sommatoria di pignoramenti singolari. Per “poter pignorare tutti gli elementi attivi dell’azienda con un unico atto, sarebbe necessario che il legislatore prevedesse, anche per l’esecuzione singolare, un atto simile per struttura ed effetti alla sentenza dichiarativa di fallimento: quindi, in sostanza, un provvedimento dichiarativo, i cui effetti rispetto ai terzi prescindano dalle regole di circolazione dei singoli diritti”. In mancanza di un atto di questo tipo, il pignoramento d’azienda nel suo insieme è impossibile. Contra: L. MOSSA, Trattato del nuovo diritto commerciale, I, Milano, 1942, p. 399 s.; S. SATTA, L’esecuzione forzata, in Trattato di diritto civile italiano, IV ed., Torino, 1963, p. 104; A. CANDIAN, Il sequestro conservativo penale, Padova, 1955, p. 168. 3 Epifanica è la considerazione della Suprema Corte (Cass. 3 novembre 1994, n. 9052, in Giust. civ. 1995, I, p. 966) secondo cui “la mancata previsione del pignoramento di azienda si giustifica, del resto, con la considerazione che, quando l’insolvenza dell’imprenditore sia meramente occasionale ed episodica, non vi è necessità di pignorare

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Francesco Fimmanò

Esercizio provvisorio dell’impresa e riallocazione dell’azienda

nella riforma della legge fallimentare

Sommario - 1. Il rapporto tra l’azienda ed il fallimento nella riforma della legge

fallimentare; 2. L’evoluzione dei principi ispiratori in tema di conservazione dei valori

produttivi; 3. Il collegamento funzionale tra gestione endoconcorsuale e liquidazione

dell’attivo; 4. L’esercizio provvisorio novellato; 5. Il contratto di affitto: presupposti,

natura ed effetti; 6. I rapporti giuridici pendenti; 7. segue: i rapporti di lavoro

subordinato; 8. La prelazione convenzionale all’acquisto; 9. La vendita unitaria del

complesso aziendale o di singoli rami; 10. L’esercizio della prelazione; 11. Gli effetti della

vendita. 1. Con la riforma delle procedure concorsuali irrompe finalmente a pieno titolo nella legge

fallimentare l’azienda ed il tema della sua circolazione coattiva in funzione della proficua riallocazione nel mercato. D’altra parte nel fallimento 1, a differenza di quanto accade nell’esecuzione individuale 2 l’universalità oggettiva e la concentrazione si integrano perfettamente con la considerazione unitaria del complesso aziendale e soprattutto sono del tutto funzionali alla sua gestione e liquidazione in blocco 3.

1 Cass. 2 aprile 1985, n. 2259, in Giust. civ., 1985, p. 1039; Cass. 22 novembre 1978, n. 5437, in Giust. civ., 1979, I, p. 474; Cass. 27 settembre 1971, n. 3461, in Riv. dir. ind., 1972, II, p. 338 con nota di G.C. RIVOLTA, Locazione

immobiliare e vendita dell’azienda del conduttore fallito; Cass. 7 dicembre 1968, n. 3917, in Foro it., 1969, I, p. 1215; App. Lecce 31 dicembre 1980, in Giust. civ., 1981, I, p. 577; Trib. Milano 21 gennaio 1982, in Fallimento, 1983, p. 843. In dottrina cfr. L. MONTESANO, Sulla vendita fallimentare dell’azienda dell’azienda, in Riv. dir. proc., p. 19; F.P. LUISO, Procedure esecutive sulle aziende di telecomunicazione, in Riv. dir. proc., 1985, p. 599; G. LO

CASCIO, Rapporto di lavoro subordinato inerente all’esercizio dell’impresa e procedimenti concorsuali, in Il

Fallimento, 1981, p. 65; V. GRECO, Il Fallimento da esecuzione collettiva ad espropriazione dell’impresa, Milano, 1984, p. 33 s.; A. COLASURDO, Vendita dell’azienda in sede fallimentare e diritti di credito del prestatore d’opera, in Mass. giur. lav., 1970, p. 166; A. BASSI, Riflessioni sull’affitto d’azienda e sull’affitto di opificio nel fallimento, in Riv. dir. civ., 1982, I, p. 333 s. Contra: S. SATTA, Cose e beni nell’esecuzione forzata, in Riv. dir. comm., 1964, I, p. 356. In particolare A. CANDIAN, Appunti in tema di azienda, in Scritti in onore di Jemolo, Milano 1963, vol. II, p. 162 s., ritiene, invece, percorribile la strada della vendita unitaria forzata dell’azienda, pur nella necessaria ed ineliminabile diversità degli strumenti espropriativi dei suoi singoli elementi. 2 R. PROVINCIALI, Il sequestro d’azienda, Napoli, 1959, p. 83 s.; C. VOCINO, I poteri del sequestratario di azienda

nel procedimento per l’avocazione dei profitti di regime, in Riv. dir. proc., 1946, I, p. 143 s.; A. CONIGLIO, Il sequestro giudiziario e conservativo, Milano 1953, p. 80; V. ANDRIOLI, Progresso del diritto e stasi del processo, in Studi in memoria di Piero Calamandrei, Padova, 1958, vol. 5, p. 427; D. PETTITI, Il trasferimento volontario

d’azienda, Napoli, 1970, p. 154 s.; F.P. LUISO, Procedure esecutive, sulle aziende di telecomunicazione, in Riv. dir.

proc., 1985, p. 599, secondo cui un pignoramento d’azienda in considerazione della mancanza nel nostro ordinamento di un provvedimento strutturale simile alla sentenza dichiarativa di fallimento, si ridurrebbe in realtà al pignoramento dei singoli beni componenti l’azienda e quindi ad una mera sommatoria di pignoramenti singolari. Per “poter pignorare tutti gli elementi attivi dell’azienda con un unico atto, sarebbe necessario che il legislatore prevedesse, anche per l’esecuzione singolare, un atto simile per struttura ed effetti alla sentenza dichiarativa di fallimento: quindi, in sostanza, un provvedimento dichiarativo, i cui effetti rispetto ai terzi prescindano dalle regole di circolazione dei singoli diritti”. In mancanza di un atto di questo tipo, il pignoramento d’azienda nel suo insieme è impossibile. Contra: L. MOSSA, Trattato del nuovo diritto commerciale, I, Milano, 1942, p. 399 s.; S. SATTA, L’esecuzione forzata, in Trattato di diritto civile italiano, IV ed., Torino, 1963, p. 104; A. CANDIAN, Il sequestro

conservativo penale, Padova, 1955, p. 168. 3 Epifanica è la considerazione della Suprema Corte (Cass. 3 novembre 1994, n. 9052, in Giust. civ. 1995, I, p. 966) secondo cui “la mancata previsione del pignoramento di azienda si giustifica, del resto, con la considerazione che, quando l’insolvenza dell’imprenditore sia meramente occasionale ed episodica, non vi è necessità di pignorare

Un unico magistrato, il giudice delegato, ha la direzione dell’intero procedimento che riguarda tutte le componenti aziendali 4 ed un unico “custode” 5, il curatore del fallimento, ha l’amministrazione e la disponibilità del patrimonio del fallito. Tali considerazioni investono più in generale le ragioni delle scelte di fondo riguardanti la liquidazione fallimentare dell’attivo, del tutto disancorata nella novella dalle forme di conversione dei beni in denaro contemplate dal codice di procedura civile per l’espropriazione individuale (art. 107, l. fall.), e che un tempo ne rappresentavano il paradigma.

Dunque, se da un lato l’azienda è un fenomeno strutturalmente ed intrinsecamente estraneo all’espropriazione individuale, dall’altro si innesta naturalmente ed armoniosamente nel fallimento 6 in quanto il soddisfacimento dei creditori, data la qualità di imprenditore commerciale del fallito, passa attraverso la estinzione dell’impresa e la liquidazione complessiva del suo patrimonio 7.

Nell’esecuzione forzata, il complesso di situazioni soggettive inerenti alla qualità di imprenditore non sono espropriabili. L’impresa come attività di coordinamento di beni, rapporti ed atti, se da un lato non riceve tutela da parte dell’ordinamento di fronte a pignoramenti che incidono su quei rapporti o quei beni, dall’altro lato non viene inibita per effetto dell’espropriazione singolare né tantomeno trasferita agli organi del processo esecutivo.

Anche i meccanismi che mettono in moto il fallimento ed il procedimento esecutivo individuale sono differenti: il secondo presuppone l’inadempimento e l’esistenza di un titolo esecutivo, il primo in linea di principio non esige nè l’uno nè l’altro. E’ sufficiente che vi sia l’insolvenza, la quale può sussistere anche in mancanza dell’inadempimento, ossia quando l’imprenditore si trovi nell’incapacità di far fronte normalmente alle proprie obbligazioni.

L’espropriazione dell’impresa, realizzata mediante il fallimento, è giustificata dalla necessità di sottrarne l’esercizio all’imprenditore che ha commesso errori di previsione o di gestione. Ecco che il procedimento è pervaso dall’officiosità, dalla sommarietà e dalla rapidità, in quanto diretto a spogliare l’imprenditore dell’amministrazione dell’impresa non appena si siano manifestati i sintomi di deterioramento della situazione, per evitare che la patologia degeneri ulteriormente impedendo la ricerca di soluzioni di contenimento del danno sociale. In

l’azienda, essendo sufficiente il pignoramento dei singoli beni di sua proprietà; quando invece gli inadempimenti dell’imprenditore raggiungono le dimensioni dello stato di insolvenza, si ricorre alla dichiarazione di fallimento che investe l’intero patrimonio del debitore e dà ingresso all’esecuzione concorsuale...”. 4 Mentre nella procedure esecutive individuali esistono norme inderogabili sulla competenza, nelle procedure concorsuali la universalità e la concentrazione sono così importanti che la giurisprudenza considera ad esempio inammissibile l’apertura di due distinte procedure fallimentari a carico del socio illimitatamente responsabile di una società di persona dichiarata fallita il quale svolga anche attività di imprenditore individuale in un altro luogo. In tal caso sarà competente per entrambe le fattispecie esclusivamente il Tribunale del luogo della sede della società (Cass. 4 luglio 1985, n. 4024, in Dir. fall., 1985, II, p. 668 e in Fallimento, 1986, p. 402). 5 Nell’espropriazione forzata potranno, invece, aversi più custodi in quanto il codice di procedura civile prevede che i beni immobili sono affidati ad un custode che normalmente è lo stesso debitore (art. 559), che il denaro viene asportato e poi depositato nelle forme del deposito giudiziario (art. 520), che i titoli di credito e gli oggetti preziosi vengono consegnati al cancelliere, per poi provvedersi nei modi che il pretore stabilisce con decreto ( art. 166, disp. att., c.p.c.) e che per le altre cose mobili si può avere il trasporto in luogo di pubblico deposito o l’affidamento ad un custode da parte dell’ufficiale giudiziario (artt. 520 e 521). E comunque, come si è giustamente rilevato, “anche se in concreto si avesse un unico custode per un’azienda costituita soltanto da beni mobili, questi, pur se autorizzato ad utilizzare le cose pignorate, difficilmente potrebbe gestire l’azienda, dalla quale sono stati sottratti - a seguito di pignoramento - i titoli di credito e il danaro” (G. BOZZA, La vendita dell’azienda nelle procedure concorsuali, Milano, 1988, p. 33). 6 Al riguardo mi permetto di rinviare per una disamina delle variegate connessioni tra fallimento e azienda a F. FIMMANÒ, Fallimento e circolazione dell’azienda socialmente rilevante, Milano, 2000 , p. 48 s. 7 E.F. RICCI, Lezioni sul fallimento, I, Milano 1992, p. 4 s.; in tema cfr. anche G. MONTELEONE, Brevi note sulla

natura giuridica del fallimento, in Riv. Dir. Comm., 1995, I.

questo contesto il fallimento deve essere visto come un momento dell’impresa che “non produce la sua estinzione ma solo la sua liquidazione” 8.

Dunque come si ebbe ad osservare, non il legislatore del processo ordinario, ma solo quello del fallimento era rimasto indietro rispetto alla sostanza giuridico-commerciale dell’azienda, quando non ne ha dettata la unitaria liquidazione 9. La procedura, concepita nel 1942 10 in una visione panprocessualista, non contemplava istituti e soluzioni di diritto sostanziale 11 che l’evoluzione del sistema economico ha reso indispensabili 12.

Ed ora il tema della rilevanza endoconcorsuale dell’azienda come entità unitaria 13 è stato espressamente risolto in via generale dall’intervento riformatore che la inserisce nel sistema strutturale del fallimento, cogliendo la sostanziale identità dell’humus in cui affondano le radici i due fenomeni. La novella completa un lungo percorso di interventi settoriali e speciali 14 che

8 In tal senso M. SANDULLI, “Esecuzioni” fallimentari e Terzi, in judicium.it, che evidenzia come la posizione che ha prevalso nell’interpretazione giurisprudenziale è stata quella che ha considerato il fallimento “come una procedura esecutiva collettiva, dove la realizzazione dell’attivo, finalizzata al soddisfacimento dei creditori, è stata individuata come la unica ed assorbente finalità”. Questa impostazione è riduttiva, rispetto alla complessità degli interessi che sono coinvolti nella procedura e dall’altro canto eccessiva rispetto agli altri interessi, di soggetti estranei alla procedura che hanno la ventura di incrociarla, e che con la stessa, quindi, devono confrontarsi e competere. La circostanza che il fallimento “comporti una liquidazione dell’attivo nell’interesse della massa dei creditori non deve necessariamente significare che sia una esecuzione forzata. Innanzi tutto va ricordato che il fallimento può essere dichiarato anche su domanda del debitore e quindi la liquidazione può essere considerata in tal caso volontaria. Già questa possibilità toglie forza alla eventuale qualificazione in termini generali, delle vendite fallimentari come di vendite coattive.”. 9 L. MONTESANO, Sulla vendita fallimentare dell’azienda, cit., p. 23. 10 La legge fallimentare, per alcuni versi, disciplina una espropriazione concorsuale sui beni dell’imprenditore piuttosto che disciplinare la crisi dell’impresa, in linea, d’altra parte, con l’impostazione del codice civile in cui è assegnato un ruolo centrale all’istituto della proprietà, mentre il sistema normativo dell’impresa è diviso con estrema incertezza fra la disciplina soggettiva dell’art. 2082 e quella oggettiva dell’art. 2555, c.c., (al riguardo A. GAMBINO, Profili dell’esercizio dell’impresa nelle procedure concorsuali alla luce dell’amministrazione straordinaria, in Giur. comm., 1980, I, p. 569 s.; A. BONSIGNORI, Il fallimento sempre più inattuale, in Dir. fall., 1996, I, p. 697 s.). 11 G. RAGUSA MAGGIORE, Il Fallimento tra diritto processuale e finalità sostanziale, in Riv. dir. fall., 2003, p. 53; sul tema cfr. pure E. FRASCAROLI SANTI, L’autonomia privata nei progetti di riforma fallimentare in Italia e nei

sistemi concorsuali europei, in Riv. dir. fall., 2003, p. 605 s. 12 Al riguardo mi permetto di rinviare a F. FIMMANÒ, L’informazione e la riallocazione dei fattori produttivi nella

riforma del diritto delle imprese in crisi, in Crisi dell’Impresa e Insolvenza, Quad. giur. comm., Milano, 2005, p.143 s.; Per avere un’idea più precisa dell’incidenza dei mutamenti socio-economici sul diritto con riferimento proprio al problema oggetto della nostra analisi, basta leggere alcune pagine di LUIGI EINAUDI (Intorno al credito industriale,

Appunti, in Riv. Soc. Comm., 1911,, p. 120) in cui si afferma: “Chi è che può comprare uno stabilimento fallito? O un uomo nuovo o un vecchio industriale. Di uomini nuovi disposti ad entrare in una industria in cui si fallisce, non credo ve ne siano. Se ce n’è, deve essere una testa vuota che non potrà tardare a fallire un’altra volta. Che sia un vecchio industriale dubito ancor più. Quale più quale meno, i vecchi industriali hanno tutti da pensare ai fatti propri e non amano impegnarsi in nuove imprese. Se hanno del capitale proprio da parte, vorranno conservarlo e non impegnarlo in un’industria per ora in perdita. Se non hanno capitale proprio non troveranno chi loro l’impresti per rilevare un’azienda fallita. Tutto sommato, ritengo che, se non intervengono aiuti ufficiali, uno stabilimento fallito rimarrà chiuso; o se sarà riaperto, coinvolgerà nella rovina propria l’imprudente che si sarà voluto ostinare. Alla fine, rimarranno in vita soltanto i migliori; il che è appunto desiderabile per rimediare alla crisi”. 13 Si è tuttavia affermato in passato <<che la considerazione unitaria dell’azienda, agli effetti della liquidazione fallimentare, può presentare qualche utilità solo quando l’organizzazione aziendale raggiunga quel grado di spersonalizzazione (di regola impossibile al di sotto di certe dimensioni) che consenta al pubblico di dissociare la valutazione della sua funzionalità dal discredito del suo titolare>> (G.C. RIVOLTA, L’affitto e la vendita

dell’azienda, Milano, 1973, p. 3). In linea generale questa affermazione può essere vera, tuttavia non può escludersi a priori che anche una piccola azienda possa meritare una considerazione unitaria endofallimentare. Esistono piccole aziende, talvolta leaders mondiali in una particolarissima nicchia di mercato, fortemente spersonalizzate a prescindere dalle ridotte dimensioni. 14 Infatti, sia l’art. 3 della legge n. 223 del 1991, sia l’art. 47 della legge n. 428 del 1990, si riferiscono soltanto alla circolazione coattiva di aziende appartenenti ad imprese assoggettate a procedure concorsuali e non alla circolazione di aziende soggette a sequestro giudiziario o comunque oggetto di procedure esecutive individuali. L’art. 14 della legge n. 49 del 1985, ha previsto a favore di cooperative di lavoratori dipendenti da imprese soggette a procedure

hanno riguardato in particolare le aziende socialmente rilevanti 15, in cui veniva attribuito un rilievo del tutto particolare ai rapporti di lavoro. In questi casi era stata congegnata nel tempo, una procedura speciale per imprese individuate in base al parametro occupazionale 16, al preciso scopo di contribuire alla tutela del lavoro quale interesse costituzionalmente tutelato (art. 4 Cost.) 17. Il tutto nel quadro di un nuovo tipo di intervento pubblico nell’economia rappresentato da

una forma evoluta di socializzazione del dissesto, i cui costi non sono scaricati sulla collettività e che tende a favorire l’occupazione reale disincentivando il ricorso agli ammortizzatori sociali in un’ottica evoluta di job creation.

La riforma da questo angolo visuale apre alla vocazione del fallimento alla conservazione

riallocativa dei valori aziendali in funzione non dell’occupazione come la legislazione speciale, ma del più proficuo e rapido soddisfacimento delle ragioni creditorie. L’impostazione complessiva recupera nell’impianto generale anche al giudice quelle funzioni di garanzia e

mediazione degli interessi anche sociali che la procedura tutela e che in passato erano state generalmente sottratte alla giurisdizione nella convinzione che alla stessa fossero esclusivamente riservate funzioni di realizzazione coattiva dei crediti 18.

Tutte le nuove norme riguardanti sia l’esercizio provvisorio, l’affitto e la vendita dell’azienda (artt. 104, 104 bis, 104 ter, 105, l. fall.,19) danno per scontata la sopravvivenza della res azienda all’evento in sè della dichiarazione di insolvenza 20 ed all’uopo precisano (ammesso

concorsuali, ammessi al trattamento della cassa integrazione guadagni e che abbiano in affitto, e più in generale in gestione, anche parziale, le aziende di appartenenza, un diritto di prelazione in caso di vendita coattiva delle stesse. Ma soprattutto l’art. 3 della legge n. 223 del 1991, ha sancito espressamente l’ammissibilità dell’affitto e della vendita unitaria del complesso aziendale nel fallimento di imprese dotate dei requisiti dimensionali per accedere al trattamento di cassa integrazione straordinaria ed ha legato funzionalmente i due istituti utilizzando come giuntura il diritto di prelazione a favore dell’affittuario in funzione della successiva alienazione. 14 Sul “senso” della definizione mi permetto ancora di rinviare a F. FIMMANÒ, Fallimento e circolazione

dell’azienda socialmente rilevante, cit., p. 8 s. E’ come se la legislazione speciale avesse concepito, accanto alla grande impresa assoggettabile all’Amministrazione straordinaria, un tipo di impresa intermedia qualificata dal punto di vista occupazionale ossia con più di quindici lavoratori dipendenti. Questo requisito numerico rappresenta tradizionalmente la linea di confine a partire dalla quale l’impresa è considerata socialmente rilevante. 16 Il parametro dei sedici dipendenti occupati, tradizionalmente rappresenta lo spartiacque a partire dal quale l’impresa è considerata socialmente rilevante. L’espressione più di quindici dipendenti è stata per molti anni la formula magica che separava i lavoratori tutelati da quelli sforniti di protezione contro i licenziamenti ingiustificati. 17 Nello stesso sistema si innesta l’art. 47 della legge n. 428 del 1990, che prevede proprio per il trasferimento di aziende in crisi appartenenti alla stessa tipologia di impresa contemplata dalla legge n. 223, un complesso procedimento di informazione e consultazione sindacale diretto a favorire la continuazione dell’attività economica a tutela del lavoro, pur sacrificando alcune garanzie individuali dei singoli lavoratori. D’altra parte l’art. 47 era originariamente parte dello stesso disegno di legge poi sfociato nella l. 223 del 1991. Infatti il legislatore italiano, dichiarato inadempiente dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee (sentenza del 10 luglio 1986 sulla causa 235\84, in Foro it., IV, c. 12 s.) agli obblighi comunitari per non aver dato attuazione alla direttiva concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, pensò di inserire la materia nel progetto di riforma del mercato del lavoro - poi sfociato nella 223\91 - che conteneva un titolo apposito dedicato alla <<attuazione di direttive delle Comunità europee>>. Tuttavia la evidente difficoltà di arrivare in tempi brevi all’approvazione della riforma, spinse il legislatore a stralciare la parte relativa al trasferimento d’azienda e ad inserirla nella legge c. d comunitaria n. 428 del 1990 (F. FIMMANÒ, Fallimento cit., p. 320). 18 Ed infatti le imprese dove più forti sono gli interessi collettivi connessi alla crisi, sono state storicamente sottratte al giudice fallimentare e assoggettate all’intervento spesso scoordinato dell’Amministrazione, sia per la convinzione che i magistrati per mentalità e cultura fossero inidonei ad affrontare tali problemi e sia perché gli stessi soggetti lesi dal dissesto preferivano scaricare il costo della crisi sulla collettività socializzandola. 19 Introdotte dagli artt. 89 e ss. del d.lgs n. 5 del 9 gennaio 2006, in Gazzetta Ufficiale n. 12 del 16 gennaio 2006, supplemento ordinario n. 13. 20 L’azienda come complesso di beni e persone organizzati mediante l’attività di coordinamento dell’imprenditore deve comunque essere considerata come una realtà che si estingue solo a causa della concreta ed effettiva disgregazione dei fattori della produzione e non certo per effetto dell’evento concorsuale in sé (Cass. 9 giugno 1981, n. 3723, in Giust. civ., 1981, I, p. 2492, secondo cui “poichè l’azienda è un complesso di beni e di servizi, capitale, fisso e circolante, e lavoro unificati dalla unitaria destinazione produttiva, in funzione della quale sono organizzati e

che fosse realmente necessaria la precisazione) che il relativo ambito di applicazione peraltro può non riguardare solo il complesso produttivo unitario come configurato in capo all’imprenditore fallito, ma anche il ramo od i rami dell’azienda.

Il trasferimento potrà riguardare infatti anche un ramo d’azienda 21, ossia una frazione del complesso destinata originariamente all’esercizio di un settore della sua attività, che, integrando autonomamente un idoneo, autonomo e compiuto strumento d’impresa dotato di attitudine alla destinazione imprenditoriale, va trattato, nella dinamica giuridica della circolazione, anche coattiva, sostanzialmente come un’azienda 22. E’ evidente che, per quanto rilevato, il ramo acquisisce rilevanza autonoma solo all’atto del perfezionamento dell’atto dispositivo e fino a quel momento il suo rilievo è meramente concettuale 23.

2. La legge delega all’art. 6 lettera a), n. 10, già sanciva che il decreto delegato dovesse

prevedere “che entro sessanta giorni dalla redazione dell’inventario il curatore predisponga un programma di liquidazione da sottoporre previa approvazione del comitato dei creditori,

all’autorizzazione del giudice delegato contenente le modalità e i termini previsti per la

realizzazione dell’attivo, specificando:… 10.1) se è opportuno disporre l’esercizio provvisorio

dell’impresa o di singoli rami di azienda anche tramite l’affitto a terzi…..10.4) le possibilità di

cessione unitaria dell’azienda, di singoli rami, di beni o di rapporti giuridici individuabili in

blocco…” 24.

Questa impostazione presenta una continuità logica ed ideologica rispetto alla disciplina dell’Amministrazione Straordinaria, riformata nel 1999 proprio con l’idea di agganciarla successivamente alla riforma delle altre procedure concorsuali 25. In questo senso va letta in particolare la previsione del citato strumento del programma di liquidazione contenente

coordinati dall’imprenditore, essa cessa di esistere quando i vari elementi siano stati dispersi, assumendo i singoli beni destinazioni diverse” (sul tema cfr. pure G. RAGUSA MAGGIORE, La cessazione dell’impresa commerciale e il

fallimento (art. 10 L.F.), in Riv. dir. civ., 1977, I, p. 172 s.). Sulla vocazione all’unità oggettiva già prima del codice del 1942 si osservava che “nella pratica, la continuità delle aziende, sorpassanti la vita di chi le ha fondate e dirette; la possibilità che esse passino, nella loro integrità, da un patrimonio ad un altro; lo sforzo stesso con cui il commerciante si industria di dar loro, anche visibilmente, una considerazione obiettiva, producono l’effetto notevole che la persona del proprietario vada, nella considerazione della clientela, gradatamente allontanandosi, per cedere il passo all’affermazione più salda e soprattutto più stabile dell’azienda” (U. NAVARRINI, Trattato elementare di

diritto commerciale, II, Torino, 1935, p. 2). 21 Sull’argomento esaustivamente M.S. SPOLIDORO, Conferimento di ramo d’azienda (considerazioni su fattispecie

e disciplina applicabile), in Giur. comm., 1993, p. 692 s., ed S. DELOGU, Cessione di quota d’azienda, in Contr.

impr., 1994, p. 505 s.. 22 Trib. Brescia 14 giugno 1996, in Foro pad., 1997, I, p. 111. 23 In tal senso P. MASI, Articolazioni dell’iniziativa economica, Napoli, 1985, p. 157. In giurisprudenza tra le altre Cass. 11 agosto 1990, n. 8219, in Giur. it., I, 1, c. 584 s. con nota di SANZO. 24 La Legge 14 maggio 2005, n. 80, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 14 maggio 2005, n. 111, di conversione del DL 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale del Paese (meglio noto come decreto sulla competitività), contempla una delega al

Governo ad adottare nei 180 giorni “uno o più decreti legislativi recanti la riforma organica della disciplina delle

procedure concorsuali di cui al regio decreto 16 marzo 1942 n. 67”. 25 Molte delle soluzioni del nuovo sistema sono infatti mutuate dalla vecchia legislazione in tema di amministrazione straordinaria, a partire dalla stessa possibilità di vendita unitaria dell’azienda. L’art. 3, del d.lgs. n. 835 del 1986, convertito nella legge n. 19 del 1987, esclude, in caso di cessione di azienda appartenente ad impresa soggetta ad amministrazione straordinaria, l’applicazione degli artt. 2112 e 2560, comma 2, c.c., per il personale non contestualmente trasferito. E soluzioni analoghe la legge n. 223 del 1991 adotta anche rispetto a quelle contemplate dalla legge 22 aprile 1985 n. 143 per le imprese soggette ad amministrazione straordinaria, che in caso di cessazione dell’esercizio dell’attività prevedeva il trattamento di integrazione salariale straordinaria per dodici mesi, al fine di consentire il graduale assorbimento di lavoratori da parte delle imprese cessionarie che ex art. 2, legge 212 del 1984, avevano l’obbligo di assumere i lavoratori nei limiti imposti dall’autorità di vigilanza.

eventualmente l’ipotesi di affitto dell’azienda, o di rami, a terzi propedeutico ad una successiva alienazione in blocco.

Il precedente disegno di legge delega c.d. Trevisanato 26 enunciava invece come principio direttivo “l’obiettivo della valorizzazione degli organismi produttivi e dei patrimoni assicurando il miglior soddisfacimento possibile dei creditori” inserendolo in una concezione del sistema complessivo completamente nuova e scollegata dal passato. Nello stesso senso andava lo schema successivo redatto dalla Commissione Trevisanato c.d ristretta, sulla base di un vero e proprio corpo normativo (ci riferiamo in particolare agli artt. 146 e 147).

Il tema della valorizzazione degli organismi produttivi compatibilmente col soddisfacimento dei creditori, risponde d’altra parte al dato oggettivo che nelle fasi di crisi conclamata l’azienda o alcuni suoi rami possono sopravvivere alla diaspora concorsuale. Anzi la procedura deve essere in grado consentire la salvaguardia del complesso organizzato di beni e persone, laddove sia meritevole di essere conservato, evitando distruzioni di ricchezza, purché ciò sia compatibile col migliore soddisfacimento dei creditori. L’interesse dei creditori che rimane la finalità prioritaria se non addirittura unica 27 evolve anche in virtù dell’attribuzione agli stessi di un ruolo più attivo in conformità a quanto accade negli altri ordinamenti.

Il nodo è quello di equilibrare i sacrifici imposti dalla tutela di determinati interessi individuali o di categoria in funzione dei vantaggi che ne possono derivare per il sistema economico nel suo complesso. Si è rilevato che si tratta di un “criterio di composizione di interessi confliggenti cui spesso si è fatto ricorso” nel diritto commerciale, ed in particolare societario e cartolare, ove il sacrificio di un interesse individuale può giustificarsi “in vista di un beneficio per l’intera categoria di appartenenza del soggetto il cui interesse individuale viene sacrificato”. I creditori del fallito sono spesso “anch’essi imprenditori: pertanto, il sacrificio che 26 Sul progetto mi permetto di rinviare a: AA.VV., Crisi dell’impresa e insolvenza, Atti del Convegno. Isernia, 18 ottobre 2003, Quaderni di giur. comm., Milano, 2005 e ai contributi di: L. ABETE, F. AULETTA, A. BASSI, E. BOCCHINI, C. CARDARELLI, M. DESARIO, F. DI GIROLAMO, S. FIORE, F. FIMMANÒ, M. LUBRANO, M. MAROBBIO, C. MIMOLA, A. PENTA, A. PISANI MASSAMORMILE, R. RUBINO DE RITIS, G. SANTONI. Cfr. pure M.FABIANI, Riforma

<<condivisa>> della legge fallimentare: un’impresa possibile, in Foro it., 2004, V, 125. Tale disegno di legge, in tema di salvaguardia dei valori aziendali, prevedeva <<che in caso di accesso alla procedura di composizione concordata il debitore mantenga la gestione dell’impresa (art. 3 lett.f) sotto il controllo dei commissari giudiziali>>. Nel caso in cui il debitore, poi, non fosse ricorso alla procedura di crisi, era contemplata la possibilità di un piano di

regolazione dell’insolvenza alternativo alla liquidazione endoconcorsuale di un gruppo di creditori o terzi

interessati avente ad oggetto la conservazione anche parziale dell’impresa (art.5, comma 4 lett. a). Era previsto altresì l’esercizio provvisorio, anche parziale ossia di un ramo aziendale, se compatibile con la conservazione del valore del patrimonio (art. 13 lett. d, rubrica liquidazione e ripatizione della attività). Veniva poi espressamente contemplato l’affitto endoconcorsuale, anche per rami con determinazione dei casi di possibile concessione all’affittuario della prelazione all’acquisto (lettera f) ed il conferimento in una o più società, anche di nuova costituzione e con procedura semplificata di beni, crediti o complessi aziendali con i rapporti contrattuali in corso, escludendo la responsabilità dell’alienante in base all’art. 2560, c.c.,. Nulla viceversa si diceva sulla fase successiva di vendita dell’azienda, eccezion fatta per il generale riferimento alla semplificazione delle modalità di liquidazione dell’attivo secondo modelli di speditezza, flessibilità e trasparenza (lett. b). Rimanevano aperti, almeno sul piano del diritto positivo, i problemi legati alle procedure di alienazione dei complessi aziendali, specie di quelli comprensivi di beni immobili, del loro coordinamento con le procedure di informazione e consultazione sindacale e con l’eventuale esercizio della prelazione da parte dell’affittuario. Più ampio ed articolato era l’intervento realizzato dalla seconda commissione Trevisanato, con la previsione di un’ampia ed espressa regolamentazione di affitto e vendita dell’azienda nella procedura (pubblicato integralmente in supplemento al Fallimento, 2004, n. 8, con presentazione di M. Fagiani). 27 La Relazione ministeriale al Re, sul r.d. 16 marzo 1942 n. 267, dopo aver affermato che la legge fallimentare rappresenta l’intenzione del legislatore di non compiere solo una riunione formale di istituti tra loro connessi, ma dare un’impronta sostanzialmente unitaria alla disciplina della crisi economica dell’impresa in relazione ai superiori interessi dell’economia generale, al n. 3, evidenzia che <<la nuova legge assume la tutela dei creditori come un altissimo interesse pubblico e pone in essere tutti i mezzi perchè la realizzazione di questa tutela non venga intralciata da alcun interesse particolaristico, sia del debitore sia dei singoli creditori>> (sul punto cfr. N. LONGOBARDI, Crisi dell’impresa e intervento pubblico, Milano, 1985, p. 12 s.; A. MAFFEI ALBERTI, La

conservazione dell’attività di impresa nelle procedure concorsuali vigenti, in Liquidazione o conservazione

dell’impresa nelle procedure concorsuali, Atti del Convegno S.I.S.C.O., 10-11 marzo 1995, Milano, 1996, p. 19).

sopportano nella loro tutela individuale può essere compensato dal beneficio che la disciplina adottata comporta per l’intero sistema delle imprese di cui sono partecipi” 28. Questa dovrebbe essere la nuova frontiera del diritto fallimentare, anche in chiave di analisi economica, come procedura potenzialmente in grado di salvaguardare l’interesse oggettivo dell’impresa in cui convive l’interesse dei creditori, dei lavoratori, degli stakeholders e più in generale dell’economia, riducendo altresì i costi sociali del dissesto.

Al fine di evitare la dispersione dei valori aziendali, la legge fallimentare ante riforma contemplava soltanto l’istituto dell’esercizio provvisorio dell’impresa del fallito, che a sua volta rivestiva funzioni diverse a secondo della fase del procedimento in cui veniva disposto. Già da tempo tuttavia la meritoria opera della prassi giurisprudenziale 29, aveva delineato un

armamentario in grado di realizzare meglio lo stesso fine consentendo al tempo stesso di evitare soluzioni di continuità nell’esercizio dell’attività economica ed oneri ulteriori per il fallimento ovvero l’affitto dell’azienda endoconcorsuale 30, utilizzato in funzione della successiva vendita, nell’ambito di un tipico programma unitario. Anzi lentamente l’affitto ha soppiantato l’esercizio provvisorio che ha mantenuto un ruolo del tutto marginale.

In precedenza, la mancata previsione di tali rimedi in sede normativa aveva suscitato dubbi sulla loro ammissibilità e sulla disciplina eventualmente applicabile 31 in base alla considerazione che non configurando un modo di realizzazione dell’attivo e ritardando anzi la liquidazione, sarebbe stato in contrasto con la funzione della procedura che è quella di soddisfare il più rapidamente possibile le ragioni creditorie. Poi, come detto, il legislatore seppure in modo incidentale e speciale, ha cominciato a dare inquadramento normativo alla fattispecie e si è usciti da quello stato di agnosticismo legislativo che aveva caratterizzato il tema 32. 28 Così V. CALANDRA BUONAURA, Liquidazione dell’attivo fallimentare: profili problematici e prospettive di

riforma, in Riv. dir. fall., 2003, I, p. 161 s., che aggiunge che la valenza di questo criterio può risultare indebolita dalla presenza rilevante di creditori che non rivestono la qualità di imprenditori, per i quali il beneficio non si produce quanto meno in via diretta. Salvo che questi creditori non godano già di una specifica tutela in ragione della debolezza della loro posizione e\o della natura del loro credito (ad es. il privilegio dei crediti di lavoro previsto dall’art. 2751 bis, c.c.). 29 Cfr. Cass. 18 gennaio 1982, n. 324, in Foro it., 1983, I, p. 2263 s.; Trib. Monza 19 aprile 1992 (ord.) in Giur.

comm. 1994 , p. 155 ed in Fallimento, 1993, p.190, (che in particolare afferma <<....in primo luogo, che la vendita o la cessione dell’azienda fallita diventa uno dei mezzi deputati, in modo tipico, a realizzare il patrimonio responsabile; in secondo luogo che a tale esito liquidativo può essere funzionale e preordinato un antecedente affitto dell’azienda o di sue parti, in ragione dell’interesse a non disperdere i valori patrimoniali ed a conservare il carattere produttivo e l’occupazione aziendale...>>); Trib. Napoli 6 maggio 1999, in Giur. nap., 2000, p. 143. Cass. 25 marzo 1961, n. 682, in Giust. civ., 1961, I, p. 969, in Dir. fall., 1961, II, p. 655 e in Foro it., 1961, I, c. 1143; App. Napoli 29 settembre 1959, in Dir. fall., 1959, I, c. 685; Trib. Roma 29 luglio 1959, in Dir. fall., II, p. 692. Ma si veda pure P. PAJARDI, Casi clinici di diritto fallimentare, I, Milano, 1959, p. 69 s.; F. DIMUNDO – E. CRISTIANI, Affitto di

azienda e fallimento, in Fallimento, 2003, p. 5 e La prassi dei Tribunali italiani in materia di fallimento, Milano, 1982, II, p. 64 (ove su un campione di 65 tribunali 38 rispondevano, già 15 anni fa, che generalmente erano propensi ad accogliere la richiesta di affitto di azienda e solo 24 si dichiaravano normalmente contrari). 30 Per riferimenti F. FIMMANÒ, op. ult. cit., p. 71 s. e P.F. CENSONI, La sorte dei rapporti pendenti nel fallimento nel

caso di affitto di azienda, in Giur. Comm., I, 2003, p. 333 s. 31 P. SANDULLI, In tema di affitto d’azienda e di amministrazione del patrimonio del fallito da parte degli organi

del fallimento, in Foro it., 1959, I, c. 685 s.; R. PROVINCIALI, Manuale di diritto fallimentare, II, Milano, 1970 p. 1432; A. BONSIGNORI, Profilo sistematico delle vendite fallimentari, Napoli, 1963, p. 42, 43 n. 3; M. GRANDI, Le

modificazioni del rapporto di lavoro, Milano, 1972, p. 337. Al contrario ammettevano già in passato l’affitto endoconcorsuale: U. AZZOLINA, Il fallimento, 2 ed, Torino, 1961, p. 835; G.C. RIVOLTA, L’affitto e la vendita

dell’azienda nel fallimento, Milano, 1973, p. 13 ss.; A. DE MARTINI, L’usufrutto d’azienda, Milano 1950, p. 416 s. 32 Già il vecchio progetto di riforma della legge fallimentare, elaborato su incarico del Ministero di Grazia e Giustizia dal Centro Interdisciplinare Studi di Lissone ed il successivo disegno di legge delega, portati a termine da due diverse Commissioni presiedute da Piero Pajardi nel 1983 e nel 1984, indicavano tra le linee guida la necessità di agevolare, nella liquidazione fallimentare, la conservazione dell’azienda, nell’interesse dei creditori e dei dipendenti e più ampiamente dell’interesse pubblico collegato alla salvezza delle unità produttive, tenuto anche conto (come si legge nella relazione al disegno di legge) della eventuale economicità dell’operazione, sostenuto dalle necessarie norme di deroga alle disposizioni che sanciscono il subentro dell’acquirente nei contratti di lavoro e

3. La concezione del fallimento quale procedura meramente esecutiva tendente a soddisfare

rapidamente le ragioni creditorie, trova fondamento essenzialmente nella “reazione culturale alla teoria istituzionale dell’impresa, che con l’ideologia corporativa si era tentato di affermare nella codificazione del 1942, piuttosto che in una serena valutazione (anche sotto il profilo storico e sistematico) del dato normativo” 33.

Infatti, la celerità non è perseguita dalla legge in sé ma proprio in funzione della tutela dei creditori, e non sempre la mera rapidità della liquidazione dell’attivo realizza la migliore tutela dei loro interessi. Una procedura impostata in funzione della sola rapidità potrebbe portare gli organi ad alienare a più persone i singoli beni del complesso con un ricavo inferiore a quello raggiungibile mediante una vendita unitaria, oppure a vendere l’azienda ad un prezzo basso, perché ad esempio in quel momento la platea dei soggetti interessati all’acquisto, per motivi di mercato o di informazione, è ridotta.

L’esercizio provvisorio e soprattutto l’affitto non implicano necessariamente ritardi nella liquidazione in quanto non impediscono la tempestiva vendita globale dell’azienda ed anzi possono essere preordinati proprio a tale forma di liquidazione dell’attivo 34 , consentendo di conservare la funzionalità dell’apparato economico-produttivo all’esercizio dell’impresa, l’avviamento, l’aggregazione dei valori patrimoniali e la tutela della professionalità acquisita dai lavoratori. Anzi questo è il modello privilegiato scelto dal legislatore della riforma che all’art. 104 bis, comma 1, prevede l’autorizzazione all’affitto “quando appaia utile al fine della più proficua vendita dell’azienda o di parti di essa” ed all’art. 105, comma 1, preveda la liquidazione frazionata quando “risulta prevedibile che la vendita dell’intero complesso aziendale, di suoi rami…non consenta una maggiore soddisfazione dei creditori”.

Si tratta insomma da un lato di soddisfare le esigenze di conservazione del complesso, evitandone la disgregazione e la perdita di valore come going concern, e dall’altro di consentire la preparazione delle condizioni più favorevoli alla sua alienazione riallocativa. Il collegamento funzionale che può crearsi tra gestione endoconcorsuale e liquidazione in blocco non esclude, peraltro, che gli organi del fallimento possano preferire la vendita dei singoli beni che compongono l’azienda affittata, anche se ciò da regola è divenuta in qualche modo ipotesi residuale.

L’affitto, in particolare, nonostante qualcuno in passato l’abbia considerato una modalità di liquidazione dell’attivo 35, riguarda comunque la fase di amministrazione dei beni del fallito,

la sua responsabilità solidale per i debiti inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta (al riguardo cfr. Il progetto di

riforma della legge fallimentare, Milano, 1985). 33 Così efficacemente M. SANDULLI, Esercizio dell’impresa nelle procedure concorsuali e rapporti pendenti, in Giur. comm. 1995, I, p. 199. 34 Si è rilevato (G.C. RIVOLTA, L’affitto, cit., p. 19) che esistono <<dei casi in cui il titolo di godimento dell’azienda è tale da non consentire comunque la liquidazione di questa: di guisa che - esercizio provvisorio a parte - unica risorsa rimane proprio l’affitto. Basti pensare al fallimento dell’usufruttuario d’azienda, quando il titolo costitutivo vieti la cessione dell’usufrutto (art. 980 cod. civ.). In tal caso si potrà tutt’al più ammettere che l’affitto dell’azienda incida sulla liquidazione di quei soli beni che, in quanto disponibili senza intaccare integrità e funzionalità dell’azienda stessa si ritengano - secondo una tesi autorevole, ma molto contrastata - acquisiti in proprietà dell’usufruttuario. Detta tesi porta però a ritenere, per coerenza, che la proprietà dei beni stessi passi ulteriormente all’affittuario: di guisa che, a ben vedere, la stipulazione del contratto d’affitto non solo non rinvierebbe la loro liquidazione, ma s’identificherebbe con essa>>. 35 A. BONSIGNORI, Liquidazione dell’attivo, in Commentario Scialoja-Branca della legge fallimentare, Bologna Roma, 1976, sub art. 104, p. 33 (che definisce l’affitto d’azienda un modo di liquidazione provvisoria dell’attivo); R. PROVINCIALI, Trattato cit., p. 1598; e prima ancora F. CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile, II ed., Padova, 1931, p. 221 s., che individua nella conversione in danaro dei beni del debitore pignorato lo scopo della vendita forzata, in cui lo scambio beni-danaro si potrebbe ottenere sia con la locazione sia con la vendita, con la sola differenza che la prima realizzerebbe il reddito della cosa concedendone il godimento temporaneo, mentre la

risolvendo sostanzialmente i problemi della organizzazione e della custodia. Amministrazione e liquidazione non sono attività tra loro incompatibili, anzi la seconda presuppone che i beni da alienare siano mantenuti nella piena efficienza e redditività sino a quando non vengono venduti.

E la prima fase, spesso erroneamente sottovalutata nel fallimento, ha una sua autonoma valenza, garantendo la conservazione della vitalità degli aggregati produttivi attraverso cui si possono efficacemente tutelare gli interessi della produzione e con essi quelli creditorii ed occupazionali.

La liquidazione è invece la fase di conversione dei beni in denaro destinato e l’ipotesi che questa funzione possa essere svolta dai canoni di locazione è meramente teorica. Vero è che l’affitto determina il trasferimento della facoltà di disposizione del capitale circolante e che in tal senso può avere un effetto parzialmente liquidatorio, tuttavia questo profilo non può da solo fare dello strumento una modalità di liquidazione e trasformare i canoni pagati dall’affittuario da corrispettivo del godimento dell’azienda in prezzo del trasferimento dei beni aziendali. Peraltro “se viene rispettato anche nel fallimento il meccanismo di conservazione delle normali dotazioni di scorte, nonchè quello di regolare in denaro la differenza tra le consistenze di inventario all’inizio ed al termine dell’affitto (artt. 2562 e 2561 c.c.), nulla viene sottratto alla liquidazione vera e propria ed alle aspettative dei creditori” 36.

In ogni caso, considerato che la finalità principale del fallimento è la liquidazione del patrimonio del debitore assoggettato alla procedura, è evidente che il contratto di affitto può superare i limiti oggettivi rispetto alle caratteristiche strutturali della procedura e le obiezioni sollevate da parte della precedente dottrina sulla sua generalizzata ammissibilità, se è stipulato con caratteri e funzioni strumentali rispetto alla vendita. Non a caso il disposto del nuovo art. 104 bis, comma 1, sancisce come visto che anche prima della presentazione del programma di liquidazione, su proposta del curatore, il giudice delegato, previo parere favorevole del comitato dei creditori, autorizza l’affitto dell’azienda del fallito a terzi, anche limitatamente a specifici rami, quando “appaia utile al fine della più proficua vendita dell’azienda o di parti della

stessa”. L’art. 104 ter, l. fall., contempla a sua volta che “il programma di liquidazione deve indicare le modalità e i termini previsti per la realizzazione dell’attivo, specificando: a) l’opportunità di disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa, o di singoli rami di azienda, ai sensi dell’articolo 104, ovvero di autorizzare l’affitto dell’azienda, o di rami, a terzi ai sensi dell’art. 104 bis…”

D’altra parte queste erano già la linee guida seguite dal legislatore della legge n. 223 del 1991 nell’ideare e disciplinare l’affitto di aziende socialmente rilevanti, in funzione strutturalmente e funzionalmente anticipatoria e propedeutica rispetto alla vendita.

Sono state individuate ed assegnate, insomma, assume le funzioni prodromiche della gestione endoconcorsuale rispetto alle procedure di alienazione 37, quanto meno come cristalizzazione di scelte operate dagli organi fallimentari riguardo al trasferimento in blocco del complesso, consentendo nell’ambito della procedura la realizzazione di una vicenda circolatoria di tipo meramente soggettivo, in cui può funzionare da giuntura la prelazione convenzionale concessa all’affittuario, che è speculare, sul piano strutturale, a quella legale contemplata dal comma 4 dell’art. 3, della legge 223 del 1991 e prima ancora dall’art. 14 della legge n. 49 del 1985.

seconda realizzerebbe in danaro il valore della cosa attribuendone il godimento definitivo. Nello stesso senso Cass. 10 agosto 1992, n. 9429, in Dir. fall., 1993, II, p. 38. 36 A. BASSI, Riflessioni sull’affitto di azienda e sull’affitto di opificio nel fallimento, in Riv. dir. civ., 1982, I, p. 335. 37 In tal senso Trib. Monza, 14 febbraio 1992, in Giur. it., I, 2, 320-321, 1994, I, c. 320 con nota di L. CONFESSORE, Affitto d’azienda, atti di amministrazione e autorizzazione del giudice delegato (anche alla stregua dell’art. 3 legge

n. 223/91).

4. In passato secondo una certa impostazione l’affitto endofallimentare avrebbe dovuto essere considerato una forma particolare di esercizio provvisorio dell’impresa 38, essendo entrambi mezzi di realizzo 39, conservativi del patrimonio, preparatori della liquidazione 40 e di carattere temporaneo 41, con la sola differenza che mentre la gestione provvisoria spetta direttamente al curatore, in caso di affitto la gestione spetta ad un terzo 42.

Al contrario, i due istituti pur avendo finalità talvolta analoghe ossia la conservazione della funzionalità dell’azienda all’esercizio dell’impresa e la tutela dell’avviamento in funzione della più proficua liquidazione possibile (ed è questa la ragione dell’accorpamento nel medesimo Capo), differiscono in modo netto e sostanziale 43anche nel nuovo impianto normativo che pur li vede collocati nel medesimo Capo VI, rubricato “Dell’esercizio provvisorio e della liquidazione

38 In tal senso Cass. 7 aprile 1930, n. 1158, in Dir. fall., 1931, p. 289. 39 R. PROVINCIALI, La continuazione dell’impresa del fallito, in Dir. fall., 1972, I, p. 405 s.; R. BETTINI, Sull’esercizio provvisorio inteso come strumento di economicità dell’azienda dichiarata fallita, in Riv. dott. comm., 1967, p. 457. Già nel vigore del vecchio codice di commercio si era sostenuto sia che la continuazione del

commercio fosse un atto di amministrazione diretto a continuare l’efficienza dell’attività del fallito (A. BRUNETTI, Diritto fallimentare, Roma, 1932, p.541), sia che costituisse un mezzo per una liquidazione più proficua che non arresta la stessa ma la trasforma (U. NAVARRINI, Trattato di diritto fallimentare, Bologna, 1934, II, p. 62). 40 Per G. RAGUSA MAGGIORE, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1994, p. 416, <<deve escludersi che in sè l’affitto dell’azienda del fallito appartenga agli strumenti di liquidazione aziendale; mediante l’affitto, infatti, si vuole recuperare il massimo di utili possibili dall’azienda del fallito. Inoltre, l’affittuario tende a ripristinare la gestione sotto il profilo del profitto, sicchè alla fine di fronte ad un’azienda vitale può anche discutersi di risanamento dell’impresa col risultato che alla liquidazione potrebbe sostituirsi la ripresa stessa dell’attività imprenditoriale, per effetto di un concordato. In tal senso, quindi, non sembra che sussista una ratio differente tra affitto d’azienda ed esercizio provvisorio dell’impresa escludendosi in entrambi i casi un’attività meramente liquidativa. E ciò anche alla luce dell’art. 3, legge 23 luglio 1991, n. 223, che concede all’affittuario il diritto di prelazione sull’azienda concessagli in affitto, in caso di liquidazione>>. 41 Ci si è chiesti, peraltro, se l’ufficio fallimentare possa instaurare rapporti contrattuali di gestione, affini all’affitto dell’azienda, in situazioni particolari in cui risulterebbe difficile chiedere un canone di locazione oppure in cui è opportuno che al canone venga sostituita una partecipazione agli utili. Si tratta evidentemente di casi molto peculiari che sporadicamente potranno porsi all’attenzione dell’interprete ma che tuttavia meritano di essere considerati. La prima ipotesi è quella del comodato endofallimentare (sull’argomento: G.E. COLOMBO, L’azienda e il mercato, in Tratt. Dir. dir. comm. Dir. pubb. Econ., vol. III, Padova, 1979 p. 295; P. BERNARDINI, Comodato d’azienda,

usufrutto d’azienda ed intrasmissibilità dell’autorizzazione di polizia, in Foro pad., 1955, I, c. 1051; M. FRAGALI, Comodato, in Commentario del cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, II ed., Bologna-Roma, 1966, p. 264 s.; N. VISALLI, Locazione d’immobile ed affitto d’azienda, Napoli, 1969, p. 94 n. 2; D. PETTITI, Il trasferimento

volontario, cit., p. 149; G. FERRARI, voce Azienda, in Enc. Dir., Milano, 1959, vol. IV, p. 740; ed in giurisprudenza App. Milano 9 giugno 1952, in Temi, 1964, p. 384; Cass. 14 luglio 1956, n. 2673, in Giust. civ., 1956, I, p. 2045. Con specifico riferimento al fallimento G.C. RIVOLTA, L’affitto, cit., p. 47; App. Napoli 29 settembre 1959, cit, p. 986, che ritiene compatibili col fallimento negozi giuridici di temporanea cessione del godimento - affitto, comodato, - ovvero di trasferimento a terzi della pura detenzione della cosa - deposito, contratto di gestione...). Il comodato d’azienda, nella pratica è stato spesso utilizzato come rapporto temporaneo e provvisorio in attesa della precisa formulazione delle clausole di un contratto di affitto, al fine di consentire al futuro affittuario di iniziare immediatamente la gestione: ciò soprattutto nell’ipotesi in cui il locatore non possa o non voglia gestire direttamente l’attività nemmeno per un tempo limitato, come può accadere nel caso di fallimento.. Altra ipotesi è invece quella della cointeressenza impropria (art. 2554, comma 1, parte I, c.c.) contratto con il quale il curatore potrebbe associarsi agli utili della gestione di una certa attività economica senza partecipazione alle perdite ed in cui l’apporto del fallimento potrebbe essere costituito dalla concessione in godimento dell’azienda del debitore fallito. In verità, ci pare che questa ulteriore forma di gestione indiretta, anche se probabilmente legittima, difficilmente possa soddisfare esigenze talmente peculiari da non poter essere soddisfatte mediante il contratto di affitto. 42 Se ne deduceva che l’affitto presupporebbe l’esercizio provvisorio e sarebbe assoggettato alla disciplina, ricca di cautele, sancita dall’art. 90 della legge fallimentare.P. PAJARDI, Casi clinici di diritto fallimentare, I, Milano, 1959, p. 334; Id., Casi clinici, II, p. 281 s.; Id., Casi clinici, III, p. 358; Trib. Ariano Irpino 20 aprile 1958, cit., p. 691. 43 La continuazione temporanea rimane fase “interna” del procedimento fallimentare sebbene con un contenuto amministrativo e contabile autonomi (VITALE, Fallimento, VIII, «Custodia e amministrazione delle attività

fallimentari», in Enc. Giur. Treccani, vol. XIII, Roma, 1990, § 6).

dell’attivo”, laddove il vecchio art. 90, l. fall., era inserito nel Capo IV, rubricato “Della custodia

e dell’amministrazione delle attività fallimentari”. Innanzitutto l’esercizio provvisorio, anche a seguito della riforma, può essere disposto in

momenti diversi della procedura e per assolvere a funzioni differenti: con la dichiarazione di fallimento oppure successivamente (e non più dopo che sia stato reso esecutivo, con decreto, lo stato passivo), in una complessiva strategia destinata comunque ad essere assorbita dal programma di liquidazione . I primi due commi del nuovo art. 104, l. fall., sanciscono che “con

la sentenza dichiarativa del fallimento, il tribunale può disporre l’esercizio provvisorio

dell’impresa, anche limitatamente a specifici rami dell’azienda, se dalla interruzione può

derivare un danno grave (e non più anche irreparabile), purché non arrechi pregiudizio ai

creditori. Successivamente, su proposta del curatore, il giudice delegato, previo parere

favorevole del comitato dei creditori, autorizza, con decreto motivato, la continuazione

temporanea dell’esercizio dell’impresa, anche limitatamente a specifici rami dell’azienda,

fissandone la durata”. L’impianto nonostante gli interventi normativi rimane analogo al precedente, con una

redistribuzione tra gli organi della procedura dei poteri di iniziativa all’avvio, alla continuazione, al controllo ed alla revoca del rimedio. Rimangono due le fasi in cui la misura può essere disposta (anche se cronologicamente scadenzate in modo innovativo) ma finalizzate ad obiettivi differenti, che in passato avevano portato una parte della dottrina a sostenere che si trattasse addirittura di due istituti distinti: in cui quello previsto dal primo comma del vecchio art. 90, l. fall., poteva essere funzionale ad interessi diversi da quello dei creditori, vista l’assenza di connessioni letterali tra pregiudizio da scongiurare ed interesse del ceto creditorio.

Nella prima fase l’istituto può essere diretto, anche nella nuova disposizione, ad evitare un danno grave (e non più irreparabile) non necessariamente ai creditori ma all’impresa e per l’effetto a tutti i soggetti che possono conseguentemente riceverne pregiudizio44, e quindi è giustificato dalla soddisfazione dell’interesse socio-economico, anche nei casi in cui si concretizza nella gestione in perdita di un’impresa parassitaria 45.

Tuttavia l’art. 104, l. fall., aggiunge, proprio per evitare la dilatazione generata in passato dall’interpretazione riferita, che la sentenza di fallimento può disporre l’esercizio “purché non

arrechi pregiudizio ai creditori”. Valutazione molto difficile da fare per il Tribunale in sede di dichiarazione di insolvenza, a meno che non abbia effettuato una istruttoria prefallimentare “invasiva”, che gli consenta di conoscere concretamente la vicenda di crisi trattata 46.

44 L’impresa costituisce da questo angolo visuale il punto di riferimento e di saldatura in cui confluiscono gli interessi di tutti coloro che si muovono nel suo ambito: l’imprenditore, i lavoratori, i terzi in generale ed i creditori in particolare. Si tratta di interessi diversi, spesso contrastanti, che tuttavia si compongono al fine di perseguire l’interesse oggettivo dell’impresa: il suo fisiologico inserimento nel mercato, interesse idoneo a sua volta ad appagare gli obiettivi individuali. 45 Nella prassi si è spesso dilatata l’utilizzazione dell’istituto oltre i limiti previsti dal legislatore; così si è avviata la procedura di esercizio provvisorio per completare un ciclo produttivo industriale iniziato, con le materie prime già acquistate; per vendere merce deperibile; per assicurare la continuazione di un pubblico servizio in concessione; per completare la costruzione di un immobile, allo scopo di venderlo in condizioni più appetibili dal mercato; per mantenere in vita un’azienda al fine di non disperderne l’avviamento, etc. (al riguardo G. PELLEGRINO, Acquisizione,

custodia ed amministrazione delle attività fallimentari: esercizio provvisorio dell’impresa, in Le procedure

concorsuali, Trattato diretto da Ragusa Maggiore e Costa, II, Torino, 1997, p. 401 s.; G. LO CASCIO, Il fallimento e

le altre procedure concorsuali, Milano, 1991, p. 235). 46 Sul tema dei rapporti tra salvaguardia dei valori e tempestività dell’azione sulla base di una istruttoria fatta anche di CTU ed ispezioni, di tipo quasi commissariale, mi permetto di rinviare a F. FIMMANÒ, Le prospettive di riforma

del diritto delle imprese in crisi tra informazione, mercato ed esigenze di conservazione dei valori aziendali, in Fallimento, n. 4, 2004, p. 459 s. Si tenga conto che peraltro il nuovo art. 15, in tema di istruttoria prefallimentare sancisce ai commi 7,8,9, che “Il Tribunale può delegare al giudice relatore l’audizione delle parti. In tal caso il

giudice delegato provvede, senza indugio e nel rispetto del contraddittorio, all’ammissione ed all’espletamento dei

mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d’ufficio. Le parti possono nominare consulenti tecnici. Il tribunale,

ad istanza di parte, può emettere i provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio o dell’impresa

Nella seconda fase, invece, l’esercizio deve essere assistito dal criterio dell’economicità, tanto è vero che la norma prevede, come nella versione precedente, che il giudice delegato (e non

più il Tribunale) può autorizzare la continuazione solo se c’è il parere favorevole del comitato dei creditori. Orbene, già prima l’attribuzione di un’efficacia vincolante al parere dei creditori evidenziava una chiara volontà legislativa di condizionare l’esercizio provvisorio alla valutazione di coloro che sono interessati solo ad una economica liquidazione e non sono influenzabili da istanze, per così dire, extraimprenditoriali.

In tutti e due i casi la continuazione può avere finalità conservative dell’azienda, ma giammai essere utilizzato in funzione del risanamento dell’impresa appartenente al debitore fallito, obiettivo assolutamente estraneo alla procedura fallimentare in quanto tale 47.

Nel fallimento l’azienda (e non l’impresa) come complesso di beni e persone organizzati mediante l’attività di coordinamento dell’imprenditore può sopravvivere nel senso che si estingue solo a causa della concreta ed effettiva disgregazione dei fattori della produzione e non certo per effetto dell’evento concorsuale in sé 48.

L’impresa, intesa come attività economica dell’imprenditore fallito, può essere continuata dal curatore non per risanarla ma per mantenere in vita quella organizzazione di beni e persone che ne costituisce lo strumento. D’altra parte già nella Relazione del Guardasigilli al codice del ‘42, sull’impresa in generale (n. 34), è chiara la distinzione tra impresa in senso funzionale, come attività professionale organizzata dell’imprenditore, ed impresa in senso strumentale come organizzazione del lavoro e degli altri strumenti produttivi cui dà luogo l’attività professionale dell’imprenditore. Quest’ultima “in fondo è sì ancora una espressione dinamica, cui mette origine l’attività, ma allorché si distacca dal suo autore acquista il carattere più statico dell’azienda 49.

Il sistema disegnato dalla novella è completato, nel quadro redistributivo delle funzioni, dal pregnante potere di controllo che il comitato dei creditori ha anche sulla esecuzione dell’istituto.

L’art. 104, l.fall., stabilisce, che il comitato dei creditori è convocato dal curatore, almeno ogni tre mesi, per essere informato sull’andamento della gestione e per pronunciarsi sull’opportunità di continuare l’esercizio e che se non ravvisa l’opportunità di continuare, il giudice delegato ne ordina la cessazione.

Ogni semestre, o comunque alla conclusione del periodo di esercizio provvisorio, il curatore deve presentare un rendiconto dell’attività mediante deposito in cancelleria. In ogni caso il curatore informa senza indugio il giudice delegato e il comitato dei creditori di circostanze sopravvenute che possono influire sulla prosecuzione dell’esercizio provvisorio. Il tribunale infine può ordinare la cessazione dell’esercizio provvisorio in qualsiasi momento laddove ne ravvisi l’opportunità, con decreto in camera di consiglio non soggetto a reclamo sentiti il curatore e, come sempre il comitato dei creditori 50.

E’ evidente, dunque, che l’esercizio provvisorio ad opera della curatela, nonostante l’apparente ampliamento normativo che ne contempla sostanzialmente le potenzialità di istituto funzionale alla valorizzazione dell’attivo o almeno al contenimento del depauperamento dei

oggetto del provvedimento, che hanno efficacia limitata alla durata del procedimento e vengono confermati o

revocati dalla sentenza che dichiara il fallimento, ovvero revocati con il decreto che rigetta l’istanza”. 47 In tal senso Cass., 9 gennaio 1987, n. 71, in Giur. comm., 1987,II, p. 562, contra: Trib. Messina 8 lglio 1981, in Dir. fall., 1982, II, p. 1257. Sul tema cfr. A. CAVALAGLIO, L’esercizio provvisorio dell’impresa nel fallimento

(Profili funzionali), in Giur. comm., 1986, I, p. 235 s. 48 Cfr. Cass. 9 giugno 1981, n. 3723, in Giust. civ., 1981, I, p. 2492, secondo la quale <<Poichè l’azienda è un complesso di beni e di servizi, capitale, fisso e circolante, e lavoro unificati dalla unitaria destinazione produttiva, in funzione della quale sono organizzati e coordinati dall’imprenditore, essa cessa di esistere quando i vari elementi siano stati dispersi, assumendo i singoli beni destinazioni diverse>>. Al riguardo cfr. pure G. RAGUSA MAGGIORE, La cessazione dell’impresa commerciale e il fallimento (art. 10 L.F.), in Riv. dir. civ., 1977, I, p. 172 s. 49 G. RAGUSA MAGGIORE, Imprenditore Impresa Fallimento, Padova, 1979, p. 253. 50 Si tratta dei commi 2,3,4 e 5 dell’art. 104, l. fall.,.

valori aziendali51, rimane nel suo complesso un fenomeno eccezionale, e meglio ancora residuale (rispetto all’affitto), estraneo per natura alla fisiologia dei compiti dell’ufficio fallimentare, che può essere autorizzato solo in casi particolari 52 e nei limiti 53 e con le garanzie previste dalla legge 54.

In caso di continuazione temporanea non c’è evidentemente circolazione dell’azienda, il curatore si sostituisce coattivamente al fallito in funzione del soddisfacimento dei creditori concorsuali 55; tant’è che si è addirittura sostenuto in passato che la titolarità dell’impresa rimarrebbe nella persona del fallito 56 e da ciò la giurisprudenza, ha tratto la possibilità che quest’ultimo, in veste di coadiutore, possa compiere il reato di bancarotta qualora si appropri di somme che derivano dall’esercizio 57.

In caso di affitto, invece, l’esercizio dell’attività economica va imputata direttamente al terzo affittuario, il fallimento rimane del tutto estraneo alla gestione. La continuazione temporanea dell’impresa del fallito continua a rientrare in una sorta di gestione pubblica

processuale 58 in cui viene sostanzialmente dissociato l’esercizio dell’attività economica dalla

51 Si è osservato che nella vecchia legge fallimentare l’esercizio provvisorio non era interpretabile come “possibilità di accrescere la massa attiva, in ragione di un avviamento e di una predisposizione funzionalizzata dei beni aziendali che il lungo decorso procedimentale avrebbe deprivato, o perlomeno sminuito, di qualsiasi profittabilità economica” (F. LO CICERO, L’affitto endofallimentare dell’azienda e l’esercizio provvisorio dell’impresa, in www.dircomm.it, 2005, n. 10, p. 1). Il legislatore della novella ha concepito tale fattispecie collegandola espressamente alla fase liquidatoria dell’attivo, ritenendo che “la fattispecie possano rappresentare un elemento non trascurabile della produzione dell’attivo e dunque, connotare in senso diverso rispetto al passato almeno una fase della procedura, non più esclusivamente dettata alla liquidazione dello status quo ante ma eventualmente produttiva di un terminus ad

quem, protratto nel tempo procedimentale”. 52 G. BOZZA, op. cit., p. 11; sul punto cfr. anche R. CAVALLO BORGIA, Continuazione dell’esercizio dell’impresa

nell’amministrazione straordinaria e nelle procedure concorsuali: profili funzionali, in Giur. comm., 1982, I, p. 762; I. ANDOLINA, Liquidazione dell’attivo ed esercizio provvisorio dell’impresa nel fallimento, in Dir. fall., 1978, I, p. 181; F. FIMMANÒ, Fallimento e circolazione dell’azienda socialmente rilevante, cit.. p. 89 s.; G.C. RIVOLTA, L’esercizio dell’impresa nel fallimento, Milano, 1969, p. 421. 53 L’art. 104 conferma in particolare il carattere assolutamente provvisorio dell’esercizio dell’impresa del fallito, così come disposto già dal vecchio art. 90 l. fall. Infatti, il quarto comma dell’art. 104 precisa che “se il comitato dei creditori non ravvisa l’opportunità di continuare l’esercizio provvisorio, il giudice delegato ne ordina la cessazione”. Inoltre, il comma settimo dispone che “il tribunale può ordinare la cessazione dell’esercizio provvisorio in qualsiasi momento laddove ne ravvisi l’opportunità, con decreto in camera di consiglio non soggetto a reclamo, sentiti il curatore ed il comitato dei creditori”. 54 V’è chi sulla base della legge delega (n. 80 2005) è di avviso diverso pronosticando che l’istituto dovrebbe assumere i caratteri di ordinaria misura, funzionale ad attuare le finalità conservative in prospettiva della vendita, nell’ambito di un rinnovato concetto di concorso dei creditori (B. MEOLI, La continuazione temporanea

dell’esercizio dell’impresa, in Fallimento, 2005, p. 1043). 55 Cass. 27 ottobre 1966, n. 2637, in Giust. civ., 1967, I, p. 524; Cass. 21 febbraio 1979 n. 1109, in Dir. fall., 1979, II, p. 163; Cass. 4 ottobre 1982, n. 5076, in Dir. fall., 1983, II, p. 117; Cass. 9 gennaio 1987, n. 74, ivi, 1987, II, p. 351. 56 G. Rivolta, L’esercizio dell’impresa nel fallimento, Milano, 1969, p. 218. 57 In tal senso, Cass. pen. 1° dicembre 1970, in Giust. pen., 1971, II, p. 792. Si è spesso, anche in sede di riforma della legge fallimentare, sostenuta da qualche parte la opportunità di prevedere l’affiancabilità al curatore dell’imprenditore-debitore nella gestione dell’impresa. L’impostazione è stata criticata più in generale per l’improbabile proficuità di una collaborazione da parte del fallito, nelle vesti di ausiliario, la cui conduzione degli affari ha comunque provocato esiti negativi. 58 Secondo una certa impostazione, in verità opinabile, un aspetto deteriore della procedura fallimentare nella sua evoluzione storica sarebbe stato proprio la sua lenta “ma graduale processualizzazione, prodromo logicamente inevitabile dell’assurdo odierno, che è costituito dall’affidare l’amministrazione e la liquidazione di una impresa a giudici e ad avvocati, anzichè a managers” (A. BONSIGNORI, Introduzione cit., p. 14). La riforma in questa linea contempla la possibilità di nominare quali curatori anche “coloro che abbiano svolto funzioni di amministrazione, direzione e controllo in società per azioni, dando prova di adeguate capacità imprenditoriali e purché non sia intervenuta nei loro confronti dichiarazione di fallimento” (art. 28, comma 1, lett. c l. fall.).

responsabilità e dal rischio, normalmente concentrati nello stesso soggetto 59. Tuttavia se il legislatore del 1942 aveva essenzialmente concepito l’esercizio provvisorio dell’impresa come strumento amministrativo della procedura, il legislatore della novella ha collegato la fattispecie espressamente alla fase liquidatoria dell’attivo, ritenendola, unitamente all’affitto dell’azienda, uno strumento importante nella massimizzazione dell’attivo.

Nella prima ipotesi, perciò, il fallimento assume tutti i rischi dell’esercizio dell’impresa ed è responsabile per tutte le obbligazioni contratte a tal fine dal curatore, con l’aggiunta che i crediti essendo sorti in costanza di procedura sono in prededuzione 60, come in modo quasi pleonastico l’ultimo comma del nuovo art. 104, l.fall., precisa. In pratica, il c.d. rischio di impresa incombe sulla procedura e quindi in via indiretta sui creditori concorsuali 61. L’esercizio provvisorio potrà essere proficuamente utilizzato solo se il fallimento possiede la necessaria liquidità per far fronte agli impegni che il curatore assume, evitando che i creditori pregressi si trovino irrimediabilmente danneggiati da una certa massa di debiti prededucibili.

Nel secondo caso, invece, è l’affittuario-imprenditore ad assumersi rischi ed obblighi derivanti dalla gestione dell’azienda 62 ed il fallimento rimane del tutto indenne da qualsivoglia responsabilità correndo rischi assai più limitati 63.

E’ chiaro perciò che si tratta di istituti diversi, assoggettati a discipline espressamente diverse, ma non sempre alternativi: la stessa azienda dopo essere stata oggetto di esercizio provvisorio disposto con la sentenza dichiarativa di fallimento può infatti diventare oggetto di affitto endoconcorsuale, anzi il primo strumento può essere funzionale ad una migliore utilizzazione del secondo 64. Può, peraltro, verificarsi che un ramo del complesso aziendale venga affittato e con la parte residuale la curatela continui una gestione provvisoria 65.

Di converso, esistono dei casi in cui l’esercizio provvisorio è inattuabile ed è necessario utilizzare l’affitto, oppure casi in cui è l’affitto ad essere improponibile. Si pensi all’ipotesi

59 Invero una certa dottrina ha collegando strutturalmente l’ipotesi della continuazione dell’esercizio alla salvaguardia dell’integrità del patrimonio aziendale e la sua cessazione alla liquidazione e, dunque, definitiva ripartizione della massa attiva (A. VITALE, Fallimento, VIII, Custodia e amministrazione delle attività fallimentari in Enc. giur., Istituto dell’Enciclopedia italiana, vol. XIII, Roma, 1990, par. 6). Si è sostenuto tuttavia che l’istituto sarebbe disancorato dalla «liquidazione vera e propria» (in tal senso, I. ANDOLINA, Liquidazione dell’attivo cit., p. 181 ss.). 60 Debiti di massa a norma dell’art. 111, l. fall.,. Al pagamento delle spese e dei debiti contratti per la gestione dell’impresa si provvede in prededuzione con le somme ricavate dalla liquidazione, in deroga alla par condicio

creditorum. Ovviamente, relativamente ai beni impiegati nell’esercizio dell’attività economica, la liquidazione resta sospesa, tanto è vero che l’art. 86 n. 1, l. fall., comprende tra i beni non soggetti all’apposizione dei sigilli anche le cose impiegate nella gestione. 61 Non può essere condivisa, infatti, la tesi di chi (L. MOSSA, Trattato del nuovo diritto commerciale, I, Milano, 1942, p. 393 s.) ha sostenuto che in caso di affitto la qualifica di imprenditore commerciale spetta anche al locatore oltre che all’affittuario. Contra: T. ASCARELLI, Corso di diritto commerciale. Milano, 1962, p. 355; M. CASANOVA, Le imprese commerciali, Torino, 1955, p. 151; G. AULETTA, Dell’Azienda, in Comm. Cod. civ. Scialoja-Branca, p. 78; A. PAVONE LA ROSA, Affitto d’azienda e responsabilità per le obbligazioni contratte dall’affittuario

nell’esercizio dell’impresa, in Riv. dir. comm., 1954, II, p. 351 s.; A. DE MARTINI, L’usufrutto cit., p. 301 s.). 62 Già Cass. 18 gennaio 1982, n. 324, in Foro it., 1983, I, p. 2263, ha ritenuto non affetto da nullità il contratto intervenuto tra fallito e terzo, in virtù del quale il terzo ha chiesto ed ottenuto dalla curatela l’affitto dell’azienda del fallito, che a propria volta si è obbligato a rivalere l’altro, una volta tornato in bonis di tutte le obbligazioni assunte a causa della gestione (nella specie era stato accertato che l’attività imprenditoriale era stata realmente esercitata dal terzo affittuario). 63 L’eventuale perdita od affievolimento dell’avviamento, il mancato pagamento dei canoni di affitto, la potenziale dispersione del capitale circolante e la generica possibilità che la liquidazione sia ostacolata. 64 In particolare G. GUGLIELMETTI, Il fallimento come pretesa causa di estinzione del diritto al marchio, in Riv. dir.

ind., 1962, II, p. 278, ritiene ammissibile l’affitto di azienda durante l’esercizio provvisorio. 65 In un’ipotesi del genere il divieto di concorrenza, di cui all’art. 2557 c.c., non si applicherebbe all’ufficio fallimentare, che da una parte affitta un ramo dell’azienda e dall’altra continua l’esercizio di parte dell’attività economica del fallito, in quanto la legge vieta di iniziare una nuova impresa, ma non di continuarne una già esistente.

dell’azienda sopravvenuta al fallito in costanza di procedura o dell’azienda ancora integra appartenente ad un imprenditore cessato, in tal caso è preclusa la possibilità di ricorrere all’esercizio provvisorio dell’impresa del fallito in quanto l’impresa non è più del fallito o non lo è mai stata. Al contrario si pensi all’ipotesi in cui il fallito non era proprietario dell’azienda, ma solo affittuario in virtù di un contratto con divieto di subaffitto (art. 1624 c.c.), ebbene in questo caso sarà possibile ricorrere soltanto all’esercizio provvisorio.

E’ ovvio che in sede di programma di liquidazione, come sancisce espressamente il nuovo art. 104 ter, comma 1 alla lettera a), l. fall., il curatore dovrà pronunciarsi sulla opportunità di disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa, o di singoli rami di azienda, ai sensi dell’art. 104, l. fall., ovvero l’opportunità di autorizzare l’affitto dell’azienda, o di rami, a terzi ai sensi dell’articolo 104 bis, l. fall.,. Si tenga conto che per le aziende, che abbiamo qualificato socialmente rilevanti, scegliendo l’esercizio provvisorio ci si mette automaticamente fuori dal procedimento di liquidazione dettato dal combinato disposto dell’art. 3 della legge 223 del 1991 e dell’art. 47 della legge 428 del 1990. Entrambe le disposizioni riguardano infatti ipotesi in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata.

5. La peculiarità dell’amministrazione dei beni oggetto dell’esecuzione fallimentare sta nel

fatto che il curatore è dotato di poteri negoziali che debbono esplicarsi secondo criteri di utilità economica ed in modo da non contrastare con le esigenze di speditezza ed efficienza. Tali poteri dispositivi non sono circoscritti alla mera attività liquidatoria e si concretizzano nella possibilità di stipulare contratti per conto e nell’interesse della massa, purchè siano indirizzati alla produzione di effetti accrescitivi o comunque non riduttivi della garanzia patrimoniale; effetti dei quali non solo la massa, ma anche lo stesso fallito si gioverà in termini di più favorevole definizione della procedura.

Il curatore fallimentare svolge quindi anche un’attività diretta alla conservazione dei beni che costituiscono la garanzia del soddisfacimento dei creditori e nei limiti del possibile (e dell’economico) al mantenimento in vita delle strutture organizzative economicamente rilevanti al fine di riallocarle nel mercato attraverso l’eventuale trasferimento ad altri imprenditori.

Il limite del possibile è dato dall’esistenza stessa della struttura organizzativa al momento della dichiarazione di fallimento, poichè, considerata la funzione conservativa della procedura, il curatore non potrebbe ricostruire ciò che è stato distrutto, avventurandosi in operazioni di riconversione o ristrutturazione aziendale, ma può recuperare l’economicità di ciò che esiste. Per questa stessa ragione è inammissibile, anche a seguito della novella che l’esercizio provvisorio possa avere funzioni di risanamento. Il limite dell’economico consiste invece nel divieto di de-economicizzare la produzione cercando di mantenere in vita una struttura che abbia perso ogni capacità di economica produzione.

In passato, quando mancava una disciplina espressa dell’affitto, si discuteva della natura dell’atto rispetto alla qualificazione di ordinaria o straordinaria amministrazione, tradizionale bipartizione con la quale si attribuisce rilevanza giuridica ad un fenomeno valutabile solo sul

piano economico 66. Il dibattito era evidentemente finalizzato a stabilire la competenza degli organi nel procedimento di autorizzazione e di stipula del contratto di affitto ed a sostenere la sottrazione alla disciplina rigorosa di cui al vecchio art. 90, l. fall.,. 66 Correttamente osservava G.C. RIVOLTA (L’affitto e la vendita cit., p. 37) che “a dimostrare la natura ordinaria dell’affitto infranovennale d’azienda, stipulato in sede fallimentare, giova ancor meno il richiamo dell’art. 320, cod. civ.. La circostanza che questa norma si limiti a subordinare ad autorizzazione del giudice tutelare le locazioni oltre

il novennio, non è probante, per le stesse ragioni con riguardo all’art. 1572. Senza poi contare che le diversissime finalità specifiche dell’amministrazione fallimentare e di quella del patrimonio d’incapaci inducono ad escludere la possibilità d’inferire la natura ordinaria o straordinaria agli atti inerenti alla prima, direttamente dalla qualifica che la legge assegna loro nell’ambito della seconda. E’ sintomatico, invece, che l’art. 560, comma 2, cod. proc. civ.,- nel vietare, al custode dell’immobile sottoposto ad espropriazione, di locarlo senza autorizzazione del giudice - prescinda da qualsiasi distinzione alla durata del contratto”.

La riforma prevedendo espressamente che il giudice delegato autorizza su proposta del curatore risolve ogni problema di configurazione, rendendo tuttavia meno agevole l’opzione dell’affitto prevedendo (a differenza di quanto si verificava nella prassi) il previo e vincolante

parere del comitato dei creditori 67, come per l’esercizio provvisorio (art. 104, comma 1, l. fall.). L’istituto, tuttavia al di là dell’autorizzazione esige, al fine di evitare che una gestione

fraudolenta, o comunque sciagurata, possa far perdere all’azienda ogni valore di avviamento e deteriorarla nella sua struttura e nella sua funzionalità, che il contratto venga stipulato adottando una serie di altre misure di sicurezza, sia nella scelta dell’affittuario sia nella previsione di clausole, condizioni e regole contrattuali finalizzate ad una corretta e proficua utilizzazione dell’istituto 68.

La necessità di disporre un procedimento di scelta che assicuri trasparenza e pluralità di concorrenti, identiche alla vendita, e di prevedere clausole contrattuali idonee a garantire che l’affitto endofallimentare sia giuridicamente ed economicamente compatibile con le finalità liquidatorie della procedura, discende dal carattere comunque negoziale dell’istituto, che a differenza della vendita fallimentare è pur sempre un contratto, diretto alla conservazione delle attività della procedura cui non si applicano le regole coattive dell’esecuzione.

La giurisprudenza ha infatti avuto modo di affermare, con riferimento ad ipotesi in cui veniva contestata la validità della disciplina pattizia, che “l’affitto di azienda anche nell’ipotesi in cui venga utilizzato un sistema idoneo ad assicurare al fallimento la più ampia possibilità di scelta del contraente, mediante adesione del partecipante alla gara alla proposta del curatore, non può essere inquadrato nell’ambito delle regole dettate per il procedimento espropriativo ed, in particolare, dell’inadempienza ai sensi dell’art. 587, codice di procedura civile, ma resta disciplinato dalle disposizioni dettate in materia contrattuale. Pertanto mentre da un lato, la successiva stipulazione del contratto non incide sul nucleo essenziale dell’accordo raggiunto con l’adesione del miglior offerente e la pattuizione di ulteriori clausole inizialmente non previste, attiene ad aspetti secondari e di garanzia per il fallimento locatore, dall’altro, in caso di inadempimento dell’offerente, l’incameramento della cauzione prestata dall’offerente resta assimilabile agli effetti della caparra confirmatoria e l’indagine del giudice resta ancorata all’accertamento della gravità di tale inadempimento ed alla fondatezza dei rilievi sollevati sulla validità ed efficacia della pattuizione” 69.

Il secondo comma dell’art. 104 bis, l. fall., sancisce che la scelta dell’affittuario è effettuata dal curatore a norma dell’art. 107, l. fall., dettate per la vendita, sulla base di stima, assicurando, con adeguate forme di pubblicità, la massima informazione e partecipazione degli interessati. La scelta deve tenere conto, oltre che dell’ammontare del canone offerto, delle garanzie prestate e della attendibilità del piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali, avuto riguardo alla conservazione dei livelli occupazionali.

67 Nella pratica, già prima, spesso il giudice autorizzava il curatore a stipulare il contratto di affitto dell’azienda del fallito dopo aver sentito anche il parere del comitato dei creditori, in applicazione della disposizione normativa dell’art. 25, n. 3, legge fall., secondo cui il giudice delegato può convocare il comitato dei creditori nei casi previsti dalla legge e quando lo ritiene opportuno (G. PELLEGRINO, La prassi fallimentare, Padova 1989, p. 172), da ultimo Trib. Monza 14 febbraio 1992, cit., p. 521. Peraltro, la vendita di beni che il giudice delegato, con valutazione non sindacabile in sede di legittimità, ha ritenuto deteriorabili o deprezzabili, ha funzione meramente conservativa del valore del bene ed un carattere di urgenza che la sottrae al regime processuale di cui all’art. 104, comma 1, l. fall. (così Cass. 22 aprile 1989, n. 1925, in Giur. cost. e civ., 1989, I, p. 638). 68 I due principali eventi negativi, la dispersione dei beni (mediante cattivo utilizzo degli impianti, storno mascherato della clientela, perdita irreversibile di avviamento) e la mancata ottemperanza degli obblighi adempitivi (pagamento del canone, manutenzione ordinaria e, soprattutto, riconsegna in caso di mancata aggiudicazione, o comunque, non acquisto definitivo) vanno attentamente scongiurati mediante idonee cautele appunto contrattuali che la perizia degli organi concorsuali dovrà saper collocare nel patto con l’affittuario (così M. FERRO, Problemi e casi

nelle vendite mobiliari ed immobiliari, in Dir. fall., 1999, I, p. 462). 69 Così Trib. Roma 5 gennaio 1996, in Fallimento, 1996, p. 402.

Per quanto riguarda l’individuazione dei tratti caratteristici del potenziale affittuario, questa deve essere preceduta da un’accurata ricerca in modo da enucleare un tipo che dia agli organi del fallimento maggiori garanzie di affidabilità in ordine all’osservanza degli obblighi tipicamente connessi al contratto di affitto, alle disponibilità finanziarie ed alle capacità di esercitare la stessa attività economica di cui era titolare il fallito al fine di salvaguardare avviamento, struttura e funzionalità del complesso aziendale 70.

Ci pare rispondente al disegno normativo di propedeuticità alla vendita, pur in assenza di una espressa previsione, che tra le condizioni da imporre nel bando agli eventuali offerenti venga inserito l’obbligo di formulare una proposta irrevocabile di acquisto del complesso aziendale da parte del potenziale affittuario, specie se aspirante prelazionario, con l’indicazione del corrispettivo, delle condizioni offerte determinate in base al valore di stima indicato dai periti, e di una eventuale ipotesi di accordo con i sindacati sul mantenimento anche parziale dei livelli occupazionali 71 visto che la legge vi attribuisce una specifica rilevanza.

Il contratto di affitto deve prevedere la prestazione di idonee garanzie per le tutte le obbligazioni dell’affittuario derivanti dal contratto e dalla legge (art. 104 bis comma 3), al fine di evitare che il fallimento corra il rischio di non percepire i canoni pattuiti, di veder depauperati i valori aziendali, anche immateriali, di veder danneggiate o non adeguatemente manutenute le attrezzature, i macchinari 72, gli eventuali beni immobili 73 e di veder conservate le normali dotazioni di merci e scorte. Anche se laddove è possibile è auspicabile vendere all’affittuario scorte e merci depositate in magazzino (materie prime, semilavorati e prodotti finiti) che avendo un valore di scambio e non un valore d’uso corrono notevoli rischi di dispersione e sottrazione. Anche se l’art. 2561, c.c., ai commi 2 e 4, contempla il meccanismo di conservazione delle normali dotazioni di scorte e di regolamento in danaro ed ai valori correnti della differenza tra

70 Spesso nella pratica il contratto di affitto viene stipulato con imprese concorrenti di quella fallita o con cooperative di lavoratori già dipendenti della stessa, i quali sono in grado di portare a termine cicli produttivi e di far funzionare gli impianti. Il favore del legislatore verso soluzioni di quest’ultimo tipo è evidente nella citata legge 27 febbraio 1985 n. 49 che riconosce, come si è visto, una serie di incentivi, oltre alla prelazione nell’acquisto, alle cooperative di produzione e lavoro, che abbiano determinati requisiti stabiliti dal CIPI, incentivi erogati allo scopo di affittare, gestire anche parzialmente, e acquisire aziende appartenenti ad imprese in crisi o cessate comprese quelle assoggettate a procedure concorsuali. 71 Si è ritenuto che, in sede di stipula del contratto di affitto, il futuro prelazionario fosse tenuto a fare anche una proposta irrevocabile di acquisto del complesso aziendale con l’indicazione del corrispettivo e delle condizioni offerte sulla base del valore di stima indicato dai periti e dell’accordo previamente raggiunto con le rappresentanze sindacali (così Trib. Monza 14 febbraio 1992, cit., p. 525; e nello stesso senso Trib. Milano 8 gennaio 1996, in Dir.

fall., 1996, II, p. 150). 72 Si è osservato che per le macchine, le attrezzature e gli impianti si pone il problema del rispetto della normativa in tema di sicurezza sul lavoro, con particolare riferimento al rispetto degli obblighi introdotti dal D.lgs. n. 626 del 1994 e successive modificazioni ed integrazioni, che vieta la vendita, il noleggio, la concessione in uso e la locazione finanziaria di macchine, attrezzature di lavoro e di impianti non rispondenti alla legislazione vigente. Spesso infatti la procedura si trova ad affittare beni che non sono perfettamente a norma ed in tempi rapidi che non consentono un’accurata verifica delle condizioni dei macchinari e degli impianti. Queste evenienze devono essere regolate sul piano contrattuale, anche se va escluso che possa consentirsi un utilizzo temporaneo da parte dell’affittuario di impianti e macchinari non a norma. Può invece ammettersi che macchinari ed impianti non conformi siano affidati in custodia all’affittuario, con l’incarico di provvedere alla revisione ed alla messa a norma, per essere successivamente reintegrati nell’azienda affittata, ma con espresso divieto di utilizzo ed impiego sino a quel momento (L. PANZANI, Affitto d’azienda e procedure diverse dall’amministrazione straordinaria, in Fallimento, 1998, p. 922). 73 Occorrerà inoltre volturare a nome dell’affittuario i contratti di somministrazione esistenti (gas, acqua, energia elettrica, telefono, etc.) ed imporgli la stipula di un contratto di assicurazione dell’intero complesso per gli eventi furto, incendio, danneggiamento ed atti vandalici. Quanto alle autorizzazioni amministrative, licenze o concessioni, fermo restando che, prima della vendita spettano alla curatela, o rispettivamente all’affittuario tutti gli adempimenti relativi al rinnovo e alla persistenza delle stesse, è noto e condivisibile l’orientamento giurisprudenziale per il quale la cessione di autorizzazioni non può che intendersi come impegno a rinunciare alla titolarità delle stesse e a consentire o a svolgere attività strumentali per far sì che le stesse vengano rilasciate a favore del subentrante.

consistenze d’inventario all’inizio ed al termine del rapporto 74 offre lo spunto per la previsione di una specifica garanzia.

Il legislatore della riforma dopo aver contemplato il diritto di recesso del curatore dal contratto che può essere esercitato, sentito il comitato dei creditori, con la corresponsione all’affittuario di un giusto indennizzo da corrispondere ai sensi dell’articolo 111 n. 1, sancisce genericamente che la durata dell’affitto deve essere compatibile con le esigenze della liquidazione dei beni. Quest’ultimo concetto deve essere inteso nel senso della previsione di un termine non eccessivamente lungo, al fine di evitare che la concessione del diritto di godimento a terzi possa ostacolare la vendita e per l’effetto anche la chiusura del fallimento.

Tuttavia, a nostro avviso, questa formulazione generica che utilizza espressioni quali “giusto indennizzo” e “compatibile con le esigenze della liquidazione” sarà foriera di questioni interpretative e contenziose specie quando è prevista la prelazione legale o convenzionale. Sarebbe stato preferibile contemplare la possibilità di prevedere clausole di scioglimento anticipato in caso vendita o di recesso a favore del fallimento 75 con un congruo termine di preavviso in contratti a tempo indeterminato.76. E’ comunque necessario che la procedura venga garantita per il mancato rilascio con la previsione di penali 77.

Altra clausola da inserire è quella di scioglimento del contratto di affitto in caso di revoca del fallimento al fine di temperarne gli effetti, ed evitare che l’imprenditore tornato in bonis si trovi in pratica nell’impossibilità di disporre della propria azienda 78.

Quanto alla possibilità di prevedere nel contratto il diritto dell’affittuario ad essere rimborsato di tutte le migliorie apportate e dei costi sostenuti per investimenti produttivi durante il periodo di affitto, qualora l’azienda venga acquistata da altri, non ci pare che esistano motivi per escludere una clausola di questo tipo, che anzi può avere la funzione di incentivare l’affittuario ad investire nell’azienda invece di limitarsi alla mera conservazione. Ciò, tuttavia, 74 Quanto meno occorrerà prevedere che l’affittuario debba acquistare scorte e merci entro determinati termini e con prestabilite modalità, assicurando con idonea garanzia l’adempimento dell’obbligazione. Nella prassi del tribunale di Milano si trova spesso inserita nel contratto di affitto una clausola che prevede l’impegno dell’affittuario ad acquisire, a fine locazione, i beni patrimoniali a valori prestabiliti (cfr. C. GOCINI - A. SOLIDORO, Il rilancio

dell’azienda in crisi: le scelte strategiche alternative, in Dir. fall., 1993, I, p. 314). 75 Una clausola di questo tipo è da ritenersi valida ai sensi dell’art. 1625, c.c., purchè le parti non abbiano fissato la durata del contratto. Infatti, l’art. 7 della legge 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui prevede la nullità della clausola di risoluzione del contratto in caso di alienazione, riguarda la locazione di immobile e non certo l’affitto di azienda. Non v’è dubbio quindi che in tal caso possa inserirsi una clausola che dia facoltà al curatore di recedere prima e in funzione della vendita, o all’acquirente di recedere a seguito della vendita (opzione più cara ad una certa giurisprudenza, cfr. al riguardo Trib. Viterbo, 1 febbraio 1963, in Rassegna di giurisprudenza sul cod. civ. diretta da Nicolò - Stella Richter, Milano, 1970, p. 654). Peraltro la Cassazione (Sez. unite, 20 gennaio 1994, n. 459) ha ritenuto che la locazione di immobili concessa dagli organi fallimentari sia consentita dall’art. 560 c.p.c., che prevede l’affitto di beni pignorati e che tuttavia tale facoltà del curatore non può travalicare i limiti temporali propri della procedura esecutiva, nel cui ambito l’affitto è un mezzo di custodia del bene e deve pertanto cessare con la vendita forzata. 76 Cfr. gli articoli 1603 e 1625, c.c.,. Secondo un certo orientamento, invece, (G. PELLEGRINO, La prassi, cit., p. 173) <<sarebbe una palese alterazione dell’economia contrattuale il privilegio riservato ad un contraente, il fallimento, di poter sostituire a sé un altro soggetto in qualunque momento e di risolvere addirittura il vincolo contratto a tempo determinato>>. E’ al contrario da ritenersi inopportuna, se non invalida una clausola d’inalienabilità dell’azienda affittata, soprattutto se non contenuta in limiti temporali ridotti. Cass. 25 marzo 1961, n. 682, cit., ed App. Napoli 29 settembre 1959, cit., hanno, invece, ritenuto valida la clausola d’inalienabilità dell’azienda affittata nel corso del fallimento per ben due anni. La valutazione di una clausola del genere andrebbe in realtà fatta alla stregua di ragioni di opportunità e di convenienza, non di legittimità. 77 Per qualcuno, una volta affittata l’azienda il giudice potrà promuovere l’alienazione globale della stessa e non la vendita separata dei beni di cui si compone, se tale vendita si risolve nella sua disintegrazione: questa darebbe luogo infatti, ad inadempimento del contratto d’affitto con conseguente responsabilità della massa (G.C. RIVOLTA, L’affitto

e la vendita, cit., p. 45). Certamente nel modello speciale di liquidazione, una volta affittata l’azienda si deve necessariamente venderla unitariamente e solo in caso di mancato acquisto, si potrà ipotizzare la parcellizzazione. 78 Salvo evidentemente che l’imprenditore non ritenga vantaggioso od opportuno proseguire il rapporto e subentrare nella posizione del fallimento.

purché l’indennizzo sia ineccepibilmente motivato, analiticamente documentato, determinato in base a meccanismi di valutazione obiettiva stabiliti già in sede contrattuale e portato preventivamente a conoscenza degli interessati all’acquisto 79. In mancanza di pattuizione, gli artt. 1615 e ss., c.c., non prevedono alcun indennizzo per l’affittuario e l’art. 1592, c.c., in tema di locazione esclude ogni compenso.

E’ infine quasi superfluo sottolineare che l’affitto endofallimentare dell’azienda è sottratto a qualsiasi regime vincolistico riguardante durata ed eventuali proroghe del contratto. Ciò innanzitutto perché anche la circolazione volontaria di complessi aziendali non è assoggettata a disposizioni di questo tipo; e, poi, perché essendo il contratto di affitto stipulato dal fallimento, finalizzato al soddisfacimento di pubblicistiche esigenze processuali di amministrazione giudiziaria, temporanee nel sistema stesso della legge, norme speciali di carattere vincolistico sarebbero inapplicabili pur se esistessero 80.

L’art. 104 bis, l. fall., prevede inoltre che il contratto di affitto vada stipulato dal curatore nelle forme previste dall’art. 2556, c.c., per il trasferimento volontario 81. In virtù della legge 12 agosto 1993, n. 310, che sancisce l’obbligo di stipulare a fini probatori i contratti di trasferimento della proprietà di un’azienda o della sua concessione in godimento nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, il contratto di affitto endoconcorsuale stipulato tra il curatore,

79 Al riguardo è interessante rilevare che già la proposta di legge n. 1178 di iniziativa dei deputati Pallanti, Minucci, Bassolino, Ghezzi ed altri, presentata il 22 luglio 1987, poi confluita insieme ad altre nella elaborazione della legge n. 223 del 1991, sotto il titolo <<nuove norme in materia di integrazione salariale, eccedenze di personale e mobilità dei lavoratori>>, prevedeva all’art. 11, che <<L’affittuario dell’azienda di imprenditore fallito, di sue parti o rami, ha diritto di prelazione, a parità di condizioni, nell’acquisto. Ove l’acquisto venga eventualmente realizzato da altri

soggetti, l’affittuario ha comunque diritto di essere da questi ultimi rimborsato della somma impiegata per

investimenti produttivi durante il periodo di affittanza>>. 80 La Suprema Corte, infatti, ha statuito che <<l’affittuario di un fondo rustico (facente parte del patrimonio fallimentare) in virtù di un contratto concluso con il curatore del fallimento, non può opporre al soggetto cui il bene è stato venduto in sede fallimentare la proroga legale del contratto, in quanto tale affitto, essendo finalizzato al soddisfacimento di pubblicistiche esigenze processuali di amministrazione giudiziaria, temporanee nel sistema stesso della legge, non è soggetto alla normativa speciale, di carattere vincolistico sui contratti agrari>> (Cass. 20 ottobre 1994, n. 8589, in Dir. Fall., 1995, II, p. 612 s. ed in Fallimento, 1995, p. 717 s.). La Suprema Corte in sostanza giudica preminenti gli interessi pubblicistici connessi all’attuazione della procedura fallimentare rispetto al regime vincolistico dei contratti di affitto di fondo rustico stipulati dal curatore. La decisione si colloca in quel filone giurisprudenziale secondo cui, laddove siano stati posti in essere rapporti negoziali destinati a perseguire esigenze di amministrazione giudiziaria e quindi, limitati nel tempo, non possono trovare applicazione le regole dettate in via generale per tali rapporti, ma quelle proprie dei procedimenti giudiziari (Cass. 15 marzo 1990, n. 2119, in Giust. civ.

mass., 1990, p. 472; Cass. 21 gennaio 1987, n. 253, in Giur. agr. it., 1989, II, p. 496). Analogamente, in tema di locazione di immobili urbani, la Cassazione ha affermato che <<qualora venga disposto il sequestro giudiziario di un immobile, su istanza di chi ne rivendichi la proprietà, e il custode, su autorizzazione del giudice, dia il bene in locazione al convenuto, l’attore, che veda poi riconoscere il proprio diritto di proprietà, è legittimato ad agire contro il convenuto medesimo, in qualità di conduttore del bene, per ottenere il rilascio, e la relativa domanda è proponibile anche davanti al giudice adito per la rivendicazione e la convalida del sequestro, ove rientri nella sua competenza per valore, tenendo conto che la domanda stessa esula dalla competenza per materia del pretore, di cui all’art. 8, comma 2, n. 3, c.p.c., ed altresì non resta assoggettata alla normativa speciale in tema di locazione di immobili urbani, perchè il contratto stipulato da quel custode, finalizzato ad esigenze pubblicistiche processuali di amministrazione giudiziaria, e non suscettibile di scadenza successiva alla cessazione della misura cautelare, non può rientrare nelle previsioni di detta normativa>> (Cass. 15 marzo 1990, n. 2119). Sempre in tema di prelazione urbana si vedano: Cass. 30 maggio 1984, n. 3298, in Giust. civ., 1985, I, p. 831 con nota di PIERALINI, Brevi

notazioni sul carattere dell’istituto della prelazione, con riferimento alla vendita dell’immobile locato nel

fallimento; Cass. 13 gennaio 1981, n. 295, cit., p. 689; Cass. 14 gennaio 1994, n. 339, cit., p. 811. Con riferimento, invece, al contratto stipulato anteriormente al fallimento, la dottrina ha sostenuto che la pattuizione di un’eventuale clausola di scioglimento del rapporto in conseguenza dell’apertura di una procedura concorsuale non è opponibile alle locazioni disciplinate dalla legge n. 392 del 1978 (L. GUGLIELMUCCI, Effetti sui rapporti giuridici preesistenti, La legge fallimentare, a cura di Bricola, Galgano, Santini, Commentario Scialoja e Branca, Bologna - Roma, 1979, sub art. 80 p. 360 s.). 81 Al riguardo per una disamina più ampia mi permetto di rinviare a F. FIMMANÒ, Atti traslativi di azienda e

pubblicità, in Il registro europeo delle imprese, Padova 2003, p. 125 s.

come espressione del fallimento con la dovuta autorizzazione del giudice delegato, e l’affittuario, va rogato o autenticato da un notaio che deve poi provvedere a curare l’adempimento delle relative formalità pubblicitarie. Il notaio è chiamato a garantire non solo la legalità e l’autenticità del contratto, ma anche l’adempimento di quelle formalità pubblicitarie che rendono conoscibili e quindi trasparenti i contratti stessi, ivi compresa la comunicazione alla Questura competente per territorio dei dati relativi alle parti contraenti o loro rappresentanti, all’individuazione dell’esercizio e al prezzo della cessione.

La forma da osservare per la circolazione dei beni immobili e mobili registrati facenti parte dell’azienda, viene dunque a coincidere con quella richiesta per conseguire l’iscrizione nel registro di qualsiasi contratto sull’azienda anche se costituita di soli beni mobili. Anche se tale coincidenza non comporta che la forma richiesta per l’iscrizione sia ad substantiam o meglio lo sarà solo nei casi in cui essa è prescritta anche per la circolazione dei singoli beni 82.

Qualora l’effetto traslativo venga realizzato, invece, mediante un provvedimento giudiziale (si pensi alla vendita fallimentare) allora riteniamo che la funzione del notaio, ed in particolare quella diretta a conferire all’atto forma pubblica (o autenticata) per le relative formalità pubblicitarie, venga svolta dal decreto di trasferimento possa essere utilizzato ai fini delle formalità pubblicitarie di rito prescritte 83. 82 Pertanto, il contratto di trasferimento concluso in forma di semplice scrittura privata sarà comunque valido tra le parti, mentre risulterà inopponibile ai terzi. Secondo il migliore orientamento la necessità dell’iscrizione nasce per effetto della mera conclusione dell’atto traslativo, fissandosi il relativo obbligo in capo alle parti e la mancata iscrizione determina l’applicazione nei loro confronti della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 2194, c.c., mentre la forma notarile vale a costituire l’obbligo del notaio di procedere all’iscrizione (A.A. DOLMETTA, Sulla forma

notarile della cessione di azienda, in Aa.Vv., Cessione ed affitto d’azienda alla luce della più recente normativa, Milano, 1995, p. 74). 83 Questa era la nostra impostazione anche prima della novella (F. FIMMANÒ, Fallimento e circolazione cit., p.. 132). Di diverso avviso era invece V. SPARANO, Realismo e (preteso) garantismo nella vendita di azienda nel

fallimento, in Dir. fall., 1998, II, p. 624, secondo cui <<l’ordinanza di vendita quando ha per oggetto una azienda commerciale, deve essere coordinata con la normativa introdotta nella modifica dell’art. 2556, c.c., come sostituito dall’art. 6 legge 12 agosto 1993, n. 310. Tale legislazione, fatta per tutte altre finalità, in buona sostanza impone che il trasferimento debba essere effettuato per atto notarile o scrittura privata autenticata e ciò per la successiva iscrizione nel Registro delle Imprese. Escluso che il decreto di trasferimento possa sostituire la forma pubblica o la scrittura privata, che nell’ottica del controllo di legge c.d. sul riciclaggio (norme per la trasparenza, etc.) ha interesse alla precisa determinazione, non certo dell’organo fallimentare, ma soprattutto, se non esclusivamente, della parte acquirente...>>. Peraltro secondo la migliore dottrina anche a seguito della legge 310 del 1993, la forma notarile si palesa solo relativamente necessaria: l’intervento del notaio come pure la stessa sussistenza dell’obbligo di un notaio, non può essere considerato requisito veramente costante e imprescindibile della fattispecie. E la Suprema Corte ha, d’altra parte, rilevato che a norma dell’art. 2556, c.c., è da escludere che per il trasferimento di un’azienda mobiliare sia richiesta la prova scritta a pena di nullità (Cass. civ., 4 giugno 1997, n. 4986). Con riferimento all’iscrizione ad istanza di parte, è consentito ad una parte ottenere una sentenza di accertamento dell’esistenza dell’atto traslativo dell’azienda (e qui opera la regola della forma ad probationem ex art. 2556, comma 1), e questo per analogia con la norma dell’art. 2567 (così testualmente A.A. DOLMETTA, Sulla forma notarile cit., p. 80). E ciò senza considerare che risulta comunque possibile la procedura d’ufficio a norma dell’art. 2190 in caso di discontinuità delle iscrizioni (al riguardo E. BOCCHINI, Registro delle imprese, in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, p. 517). Peraltro, è ritenuta, dalla prevalente dottrina, illegittima quella prassi diffusa che vede il giudice delegato limitarsi all’emissione di un decreto di autorizzazione che contenga tutti gli elementi e condizioni della vendita, con designazione contestuale di un notaio (davanti al quale si rimettono le parti, curatore ed acquirente) per la stipula di un atto pubblico di vendita che riproduca quelle condizioni ed in base al quale procedere poi alle dovute registrazioni e trascrizioni. Nè vale osservare in senso contrario che la vendita si concretizzerebbe in quel decreto, in quanto avente natura, contenuto ed effetti propri del decreto ex art. 574, comma 1, c.p.c., onde la degradazione dell’atto notarile suddetto a mero strumento di attuazione della vendita già perfetta, ad esclusivo scopo formale, fiscale e d’opponibilità a terzi. Pur volendo ammettere che sin dal momento dell’aggiudicazione la vendita possa considerarsi perfetta, occorrerebbe pur sempre tener presente che l’attuazione della vendita ai citati fini è, da quel codice di rito le cui disposizioni in materia abbiamo detto essere inderogabili in sede fallimentare, affidata ad un peculiare strumento, natura prettamente pubblicistica, quale il decreto di trasferimento ex art. 586 e non certo all’atto notarile (così M. MONTANARI, I procedimenti di liquidazione e ripartizione dell’attivo fallimentare, p. 217; A. BONSIGNORI, La liquidazione dell’attivo e il riparto, in Le procedure concorsuali, Trattato diretto da RAGUSA

MAGGIORE e COSTA, vol. III, p. 486).

6. Passando ai rapporti giuridici pendenti deve essere escluso che normalmente l’affittuario

subentri in nei crediti 84 e nei debiti aziendali 85 con l’eccezione di quanto sancito dall’art. 2112, c.c., per quanto concerne quelli scaturenti da rapporti di lavoro subordinato 86. L’art. 2560, comma 2, non è applicabile ai contratti aventi ad oggetto il trasferimento del diritto di godimento dell’azienda, quali usufrutto ed affitto, trattandosi di norma eccezionale e come tale inapplicabile a ipotesi non espressamente previste 87.

Nell’affitto volontario, l’azienda, come in tutti i casi di trasferimento in godimento, resta a far parte dei beni che costituiscono la garanzia patrimoniale del cedente e quindi l’affittuario è esposto all’azione espropriativa da parte dei creditori del locatore. In caso di fallimento, tale responsabilità dell’affittuario nei limiti dell’espropriabilità dell’azienda ceduta, vale a dire la normale possibilità che il creditore del cedente aggredisca l’azienda detenuta dal terzo, non può sussistere. I creditori del cedente - fallito, infatti, non potrebbero aggredire con azioni esecutive rivolte verso l’affittuario quell’azienda, o quei beni aziendali, che essi stessi non hanno potuto aggredire in capo all’originario debitore per il sopravvenuto suo fallimento. La corresponsabilità presuppone la libertà di azioni esecutive individuali di quei creditori verso il cedente 88.

In virtù dell’art. 2558, comma 3, c.c., invece, l’affittuario succede nella posizione di parte dei rapporti contrattuali stipulati per l’esercizio dell’azienda, purchè si tratti di contratti non personali, a prestazioni corrispettive e non completamente eseguiti da entrambe le parti 89. Tale successione deve essere considerata un effetto naturale ed avviene indipendentemente dalla conoscenza effettiva o potenziale che l’affittuario abbia della esistenza e del contenuto di tali

84 L’art. 2559, c.c., non contempla l’affitto ed anzi sancisce che le disposizioni dettate in ordine al trasferimento dei crediti per l’alienazione d’azienda si applicano soltanto all’usufrutto. La mancata previsione dell’affitto (contemplato invece nell’art. 2558) ed il fatto che, anche in caso di usufrutto, l’art. 2559 si applica soltanto se l’usufrutto si estende ai crediti relativi all’azienda, fa sicuramente ritenere che non vi sia trasferimento dei crediti come effetto naturale del contratto e che tutt’al più tale trasferimento può essere oggetto di espressa pattuizione. Invero, parte della dottrina esclude anche il trasferimento convenzionale dei crediti pecuniari (F. FERRARA, La teoria

giuridica dell’azienda, cit., p. 423, G.C. RIVOLTA, op. ult. cit., p. 131; A. BASSI, Riflessioni sull’affitto di azienda

etc., cit., p. 344, quest’ultimo, tuttavia, non esclude il trasferimento endoconcorsuale dei crediti aziendali quando abbiano ad oggetto una obbligazione non pecuniaria, come ad esempio la consegna o la restituzione di macchinari, merci, etc.) 85 Sul tema cfr. ampiamente S. GRAZIOSI, Sulle responsabilità del titolare dell’azienda per i debiti contratti

dall’usufruttuario o dall’affittuario, in Riv. dir. civ., 1970, I, p. 323 s. 86 Ed a certe condizioni per i debiti fiscali concernenti quella specifica attività economica. L’art. 66 del D.p.r. n. 602 del 29 settembre 1973, stabilisce solo una responsabilità oggettiva, sui beni dell’azienda ceduta, per il recupero dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, nonchè relative soprattasse, pene pecuniarie e interessi dovuti, per l’anno o per l’esercizio in cui è avvenuta la cessione e per quello anteriore, da tutti i precedenti titolari se alla formazione dell’imponibile accertato nei loro confronti hanno concorso i redditi derivanti dall’azienda ceduta (RM 15/4369, 27 ottobre 1977, in Direzione Generale Imposte). Tuttavia la disciplina del D.p.r. n. 602, concernente le imposte dirette contempla solo l’ipotesi in cui a seguito del trasferimento d’azienda si producano effetti reali, e non è applicabile all’affitto. Secondo l’orientamento prevalente è invece applicabile l’art. 19 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, che con riferimento alle imposte indirette, prevede una responsabilità solidale a carico del successore a qualsiasi titolo per atto tra vivi in un’azienda commerciale o industriale (F. LONGO, I contratti di cessione e di affitto

di azienda: profili attuali e atteggiamento della prassi, in Giur. merito, 1998, IV, p. 1114). Al riguardo è stato rilevato che l’espressione successore a qualsiasi titolo era già presente nell’art. 197, t.u. imp. dir., d.p.r. 29 gennaio 1958, n. 645 e la migliore dottrina allora affermava che nonostante le espressioni utilizzate, il concetto rimaneva sempre lo stesso già enunciato nell’art. 63 del testo unico per l’imposta sui redditi di ricchezza mobile, r.d. 24 agosto 1877, n. 4021, ai sensi del quale allorquando un esercizio di industria o di commercio passa da un soggetto ad un altro, il nuovo esercente è solidalmente responsabile dell’imposta. 87 In tal senso Cass. 3 luglio 1958, n. 2386, in Giust. civ., 1958, I, p. 1876. 88 A. BASSI, op. cit., p. 346. 89 F. Fimmanò, op. ult. cit., p. 71 s. ove ampi riferimenti, e P.F. Censoni, La sorte dei rapporti pendenti nel

fallimento nel caso di affitto di azienda, in Giur. Comm., I, 2003, p. 333 s.

contratti. Tuttavia proprio in quanto effetto soltanto naturale dell’affitto, salvo che per alcuni contratti funzionalmente inscindibili dall’azienda, sarà legittimo, e specie in sede fallimentare opportuno, inserire una clausola che limiti il subentro soltanto a quei rapporti contrattuali risultanti dalla documentazione comunicata all’affittuario 90.

Durante l’esercizio provvisorio, la novella sancisce che i contratti pendenti proseguono, salvo che il curatore non intenda sospenderne l’esecuzione o scioglierli (art. 104, terz’ultimo comma, l. fall.).

Nell’affitto endoconcorsuale invece non sono evidentemente oggetto di trasferimento i contratti che si sono sciolti automaticamente per effetto del fallimento, o dai quali il curatore ha ritenuto di sciogliersi ovvero che convenzionalmente le parti hanno deciso di escludere. Per quanto riguarda, invece, i contratti sospesi per effetto della procedura, ai sensi dell’art. 72, l. fall. che è una norma ritenuta espressione di un principio generale applicabile a tutti i rapporti per i quali non è previsto espressamente lo scioglimento o la prosecuzione, si deve ritenere che l’affitto e la mancanza di espresse determinazioni in senso contrario costituiscano comportamento concludente del curatore, da cui si può derivare la volontà di subentrare nel contratto che prosegue con l’affittuario.

7. Discorso a parte va fatto per i rapporti di lavoro subordinato e per i debiti derivanti

dagli stessi. Orbene, l’art. 2112, c.c. 91, sancisce che in caso di trasferimento d’azienda il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. Il cedente ed il cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento, salva la liberazione del cedente in caso di ricorso alle procedure di cui agli artt. 410 e 411, c.p.c.,. Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi, anche aziendali, vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario. E fuor di dubbio che la norma si applichi anche all’affitto

endoconcorsuale dell’azienda come a tutte le ipotesi di sostituzione nella titolarità dell’impresa con qualunque modalità giuridica si realizzi 92.

90 Così Cass. 19 giugno 1996, n. 5636, in Notariato, 1997, p. 145 s. 91 Come modificato dall’art. 47, terzo comma, della legge 29 dicembre 1990 n. 428 e successive. 92 Invero già la giurisprudenza aveva fatto rientrare, con una interpretazione estensiva, nella fattispecie, ogni ipotesi di sostituzione nella titolarità dell’impresa sempre che vi fosse un nesso di derivazione, e fermo restando l’organizzazione del complesso dei beni destinati all’esercizio dell’attività e quindi immutati il suo oggetto e la sua attività obiettiva (cfr. Cass. 23 luglio 2002, n. 10761, in Giur. comm., II, 2003, p. 297, con nota particolarmente incisiva ed esaustiva di V. Buonocore, Il <<nuovo>> testo dell’art. 2112 del codice civile e il trasferimento di un

ramo di azienda, in Giur. comm., II, 2003, p. 316; ma per riferimenti alla gran mole di giurisprudenza edita mi permetto di rinviare alla nota 132 di F. Fimmanò, Fallimento e circolazione, cit., p. 47). Poi il d.lgs. 2 febbraio 2001 n. 18, di attuazione della direttiva n. 80\50, all’art. 1, nel riformulare l’art. 2112 (ove non si fa più riferimento, non a caso, alle figure di acquirente e di alienante ma a quelle generiche di cedente e di cessionario), sancisce che “… si intende per trasferimento di azienda qualsiasi operazione che comporti un mutamento nella titolarità di una attività

economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità, a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base dei quali il trasferimento è attuato, ivi compreso l’usufrutto o l’affitto” (sul decreto cfr. V. Buonocore, op. loc. ult. cit.,). La norma nella seconda parte dispone che l’art. 2112 si applica anche “al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata….preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità”. E ciò vale a maggior ragione se si considera che, come è stato autorevolmente affermato in questi anni non v’è stato alcun reale mutamento del concetto di trasferimento d’azienda ed in particolare non si è passati da una nozione di trasferimento incentrata sulla circolazione del complesso aziendale ad una nozione incentrata sul mutamento di titolarità dell’impresa. Nè esiste una diversa nozione di circolazione dell’azienda ai fini laburistici e commercialistici , e al di là di una infedele attuazione della direttiva comunitaria n. 98\50 dovuta ad una disattenzione del legislatore del decreto n. 18 del 2001, il trasferimento del complesso aziendale comporta pure il mutamento nella titolarità dell’impresa, “tant’è che chi tiene alla correttezza espressiva e all’esatta individuazione degli istituti non parlerà mai

L’art. 47 della legge n. 428 del 1990, inoltre, al comma 5, ha stabilito che per le imprese dotate dei requisiti dimensionali per accedere al trattamento di cassa integrazione straordinaria, in caso di trasferimento d’azienda nelle ipotesi di fallimento, qualora nel corso delle consultazioni previste dai primi due commi del medesimo articolo, sia stato raggiunto un accordo relativo al mantenimento anche parziale dell’occupazione, nei confronti dei lavoratori il cui rapporto continua con il cessionario, non trova applicazione l’art. 2112, c.c., salvo che dall’accordo non risultino condizioni di miglior favore 93.

Dunque in caso di affitto endofallimentare, gli organi della procedura devono pervenire alla stipula di un contratto che passa attraverso diverse fasi e cioè: bando, vaglio delle offerte (ed in caso di aziende socialmente rilevanti informativa alle organizzazioni sindacali, consultazione ed eventuale accordo sindacale sul mantenimento anche parziale della forza lavoro), autorizzazione del giudice delegato (che eventualmente recepisce i risultati dell’accordo sindacale), stipula del contratto, effettivo subentro nella gestione dell’affittuario. In mancanza dei requisiti dimensionali o dell’accordo sindacale, la circolazione dell’azienda comporterà l’obbligo di applicazione dei trattamenti economici e normativi vigenti alla data del trasferimento. La stessa procedura di accordo sindacale, nei casi previsti dai requisiti dimensionali o laddove le parti lo ritengano, andrà ripetuta quando il fallimento entrerà nella fase di vendita dell’azienda e laddove l’aggiudicatario dell’azienda sia l’affittuario-prelazionario, l’accordo realizzato in sede di affitto dovrà comunque essere ridiscusso in una nuova fase di consultazione, considerato che le condizioni potrebbero essere nel frattempo mutate.

L’art. 105, comma 3, l. fall., prevede, infatti, anche per le aziende che non abbiano rilievo sociale prevede che nell’ambito delle consultazioni sindacali relative alla cessione, “il curatore, l’acquirente e i rappresentanti dei lavoratori possono convenire il trasferimento solo parziale dei lavoratori alle dipendenze dell’acquirente e le ulteriori modifiche del rapporto di lavoro consentite dalle norme vigenti”.

A questo punto, ci resta da analizzare la sorte dei rapporti e dei debiti contratti dall’affittuario alla scadenza dell’affitto, a seguito della restituzione dell’azienda al fallimento in virtù del mancato acquisto o dell’eventuale recesso indennizzato 94.

Per i debiti va sicuramente esclusa ogni responsabilità del concedente 95 considerato che la normativa, sia generale che speciale (art. 104 bis, ult. comma, l. fall.), esclude nell’ipotesi inversa ogni responsabilità dell’affittuario per i debiti del fallito 96.

di trasferimento dell’impresa, come purtroppo è successo anche in un testo prestigioso come la Costituzione (art. 43) e come ha fatto il nostro legislatore addirittura nel titolo del decreto n. 18 del 2001, ma sempre di trasferimento

dell’azienda e, quando vi sia mutamento della titolatità, di successione nell’impresa” (sempre V. Buonocore,op. loc. ult. cit.). 93 La deroga in esame, e le condizioni alle quali è ammessa, sono compatibili con l’ipotesi di affitto d’azienda endofallimentare, considerato che peraltro l’art. 2112, c.c., riguarda espressamente anche questo tipo di circolazione. E d’altra parte anche la legge 23 luglio 1991, n. 223, ha inteso chiaramente equiparare il trasferimento per affitto al trasferimento per cessione definitiva, considerato che il secondo ed il quarto comma dell’art. 3, fanno espressamente riferimento all’acquisizione della gestione a titolo di affitto. Vero è che l’art. 47, della legge n. 428, rispetto al trasferimento d’azienda, parla sempre di alienante ed acquirente, tuttavia il termine acquirente è usato impropriamente, altrimenti si dovrebbe dedurre che la norma si riferisce solo a casi di pregressa stipulazione di cessioni d’azienda sottoposte a condizione risolutiva. Al contrario la norma va applicata ai casi di trasferimento endofallimentare in genere ed il termine acquirente va inteso nel senso più proprio di offerente. 94 Il passaggio dell’azienda dall’affittuario al proprietario originario integra la fattispecie del trasferimento (Cass. 20 aprile 1985, n. 2644, in Rep. Foro it., 1985 voce Lavoro, n. 1878; Pret. Napoli 12 dicembre 1990, in Riv. giur. lav., 1992, II, p. 245; sul tema cfr. ANGELINI, Sostituzione dell’affittuario di beni aziendali: il concedente è sempre

responsabile ex art. 2112 c.c., in Riv. it. dir. lav., 1993, II, p. 589). La Cassazione ha peraltro configurato un’ipotesi di utilizzazione indiretta del complesso aziendale da parte del proprietario attraverso la concessione dell’azienda a più affittuari che si succedono l’uno all’altro senza soluzione di continuità. In tal caso la Suprema Corte ha riconosciuto la responsabilità del titolare dell’azienda per i debiti relativi ad un rapporto di lavoro instauratosi con il primo affittuario e proseguito con gli altri (Cass. 7 luglio 1992, n. 8252, in Rep. Foro it., 1992, voce Lavoro, n. 1474).

Per i contratti, invece, secondo l’orientamento prevalente, e visto il mancato intervento normativo, la disciplina dettata da artt. 2558 e 2112, c.c., si applica anche nell’ipotesi di retrocessione dell’azienda 97, ancorchè non espressamente disciplinata dal legislatore 98. In particolare per la Suprema Corte si realizza il subentro purchè si tratti di contratti non eccedenti

la potenzialità produttiva dell’azienda valutata al momento della conclusione del contratto di

affitto, o i poteri di gestione attribuiti pattiziamente all’affittuario, e purchè la restituzione dell’azienda si colleghi direttamente alla volontà delle parti ovvero ad un fatto che queste

95 In questo senso si è espressa anche la giurisprudenza che ha affermato che la cessazione dell’affitto dell’azienda e la sua restituzione al proprietario concedente non comportano a carico di quest’ultimo, fuori dalle ipotesi diversamente regolate dalla legge, la responsabilità ex art. 2560, c. c., per i debiti contratti dall’affittuario, non essendo siffatta ipotesi riconducibile ad alcuna delle vicende traslative in relazione alle quali la norma è stata posta (Cass. 8 maggio 1981, n. 3027, in Giur. it., 1982, I, 1, p. 281). 96 La retrocessione al fallimento di aziende, o rami di aziende, non comporta la responsabilità della procedura per i debiti maturati sino alla retrocessione, in deroga a quanto previsto dagli articoli 2112 e 2560 del codice civile. Ai rapporti pendenti al momento della retrocessione si applicano le disposizioni di cui alla Sezione IV del Capo III del Titolo II (art. 104, bis, ultimo comma). 97 Cass. 20 dicembre 1991, n. 13762 (conferma di App. Venezia 30 settembre 1988) in Nuova giur. civ. comm., 1993, I, p. 1 s. con nota di G. VERDIRAME, Successione nei contratti e divieto di concorrenza al termine dell’affitto

di azienda; Cass. 29 gennaio 1979, n. 632, in Riv. dir. comm., 1982, II, p. 145, in Foro it., 1979, I, c. 1818, in Giust.

civ., 1979, I p. 488; Cass. 14 febbraio 1979, n. 969, in Rep. Foro it., 1979 voce azienda; Trib. Milano 19 dicembre 1974, in Giur. comm., 1976, II, p. 123. Per la Cassazione il concetto di trasferimento presente nella normativa di cui agli artt. 2557 ss., c.c., definisce prima ancora che un fenomeno successorio di origine negoziale, la sostituzione di un imprenditore ad un altro nell’esercizio dell’impresa, il cui grado di astrattezza si misura tutto nella indifferenza verso la ragione giustificatrice dell’evento traslativo: in tale ottica, l’affitto costituisce un atto di circolazione, sia pure temporaneo, dell’azienda, così come la retrocessione costituisce il suo esatto contrario, un atto di circolazione invertita dell’azienda medesima (Cass. 20 dicembre 1991 n. 13762, cit.). Da qui l’estensione anche della tutela predisposta dall’art. 2557, c.c., al proprietario dell’azienda retrocessa per l’attività concorrente realizzata dal cessato affittuario e dell’art. 2558 per i contratti (Cass. 20 dicembre 1991 cit.; Trib. Catania 18 settembre 1964 in Giur. it., 1965, I, 2, p. 414; App. Firenze 3 aprile 1965, in Riv. dir. ind., 1966, II, p. 361; in dottrina per tutti FERRARI, Affitto

d’azienda e divieto di concorrenza a carico dell’ex affittuario, in Riv. dir. ind., 1966, II, p. 361). 98 L. PANZANI, Affitto d’azienda e procedure diverse dall’amministrazione straordinaria, in Fallimento, 1988, p. 925; A. CAIAFA, I rapporti di lavoro e le procedure concorsuali, cit., p. 32 s.; A. DE MARTINI, L’usufrutto

d’azienda, cit., p. 440. Secondo A. BASSI, op. cit., p. 349, invece per i contratti stipulati ex novo dall’affittuario è da ipotizzare più che il subentro puro e semplice del fallimento, che potrebbe essere molto gravoso per la massa, un sistema analogo a quello previsto dagli artt. 72 e ss., l. fall., relativi ai rapporti giuridici preesistenti, sistema che consente al curatore di effettuare scelte più opportune e, nei casi non previsti, l’applicazione della regola della sospensione. Retrocedono invece tutti i rapporti contrattuali preesistenti e sopravvissuti al fallimento nei quali l’affittuario è succeduto.

abbiano espressamente previsto 99. Si tratta evidentemente di limiti direttamente connessi agli obblighi legali dell’affittuario di non alterare le caratteristiche fondamentali dell’azienda 100.

Tuttavia, mentre per le fattispecie disciplinate dall’art. 2558, è consentito il patto contrario in modo da escludere convenzionalmente il subentro del fallimento nei contratti in corso, che potrebbero essere onerosi o pregiudizievoli per la procedura, per i rapporti di lavoro subordinato la prosecuzione col concedente, in caso di retrocessione, è indirettamente sancita da una norma imperativa nell’interesse del lavoratore, per cui la pattuizione contraria sarebbe inopponibile al terzo 101. In caso di scadenza, risoluzione del contratto di affitto o recesso dell’affittuario o comunque di mancata acquisizione dell’azienda da parte di quest’ultimo, i rapporti di lavoro, per effetto della retrocessione, si ritrasferiscono al locatore fallimento in quanto inerenti all’azienda 102 e poi eventualmente ad un nuovo affittuario, o all’aggiudicatario.

La fattispecie regolata dall’art. 2112, c.c., infatti, ricorre anche nell’ipotesi di restituzione dell’azienda al concedente purchè rimangano immutati l’organizzazione dei beni aziendali e lo svolgimento della medesima attività 103. 99 Cass. 29 gennaio 1979, n. 632, in Riv. dir. comm., 1982, II, p. 145 e in Foro it., 1979, I, c. 1818 e in Giust. civ., 1979, I, p. 488. Nello stesso senso, seppur con riferimento ai rapporti di lavoro, la Cassazione (Cass. 20 aprile 1985, n. 2644; Cass. 17 aprile 1990 n. 3167; Cass. 13 giugno 1990, n. 5739; In particolare Cass. 7 luglio 1992, n. 8252, in Giur. it., 1993, I, 1 p. 70 s. ed in Dir. prat. lav., 1992, p. 3235), ha rilevato che poichè la disciplina dettata dall’art. 2112 deve essere applicata anche all’ipotesi di restituzione dell’azienda dal concessionario al concedente, purchè quest’ultimo utilizzi i beni in funzione dell’esercizio dell’attività di cui gli stessi sono strumento, l’ipotesi prevista dal suddetto articolo di legge si realizza (ove si accerti che l’organizzazione dei beni, che costituisce l’oggetto dell’attività imprenditoriale rimanga immutata e che venga svolta la medesima attività) anche se il concedente, anzichè proseguire direttamente l’attività già in precedenza esercitata dal concessionario, sostituisca a quest’ultimo, senza soluzione di continuità, un altro soggetto pure in qualità di concessionario, dovendosi in tal caso ritenere una indiretta utilizzazione dei beni da parte del concedente a mezzo del nuovo concessionario, proprio in funzione di quella determinata attività di cui l’azienda è strumento. Già, App. Bologna 8 luglio 1959, in Riv. dir. lav., 1961, II, p. 261 (con nota adesiva di G. COTTINO, Restituzione dell’azienda al locatore nuova concessione in affitto e

responsabilità per i debiti di lavoro), osservava che in generale, il fatto che si contempli espressamente il solo passaggio di proprietà dal venditore all’acquirente, cioè ipotesi normale, non dovrebbe escludere che nella parola trasferimento possa ricomprendersi il caso di un ritorno della proprietà dell’acquirente al venditore per risoluzione ad esempio. La ratio della norma non muta: il silenzio del legislatore non dovrebbe aver altro significato che non sia quello di ottenere la regolamentazione di un’ipotesi anomala, ricavabile però dalla disciplina della legge. 100 I limiti fissati pattiziamente non possono essere invocati con riferimento all’art. 2112, c.c., ed è in verità assai dubbio che possano esserlo quelli derivanti in qualche modo dagli obblighi di legge, considerato il carattere imperativo della norma a tutela del lavoratore. 101) Così giustamente L. PANZANI, Affitto d’azienda cit., p. 925. Sul punto anche R. ROMEI, Il rapporto di lavoro

nel trasferimento d’azienda, in Commentario al codice civile diretto da P. Schlesinger, Milano 1993, p. 45 s. In una fattispecie concreta la Cassazione ha escluso il subentro in virtù di accordi intervenuti tra le parti (cfr. Cass. 26 febbraio 1994, n. 1975, in Mass. giur. lav., 1994, p. 255). 102 Al riguardo A. MINERVINI, Imprese cooperative e trasferimento d’azienda, Milano, 1994, p. 18; R. ROMEI, Il rapporto di lavoro nel trasferimento d’azienda, in Commentario al codice civile diretto da P. Schlesinger, Milano 1993, p. 45 s.; P. LICCARDO, Fallimento e metodologie di acquisizione dell’azienda affittata, cit., p. 663. 103 Cass. 7 luglio 1992, n. 8252, cit., p. 70 s. e in Riv. it. dir. lav., 1993, II, p. 589 con nota di A. ANGELINI, Sostituzione dell’affittuario di beni aziendali: il concedente è sempre responsabile ex art. 2112, cod. civ.; Cass. 19 agosto 1991, n. 8907, in Riv. giur. lav., 1992, p. 502 con nota di M. MC BRITTON. Si è in particolare osservato che la fattispecie del trasferimento d’azienda regolata dall’art. 2112 c.c. ricorre anche nell’ipotesi di restituzione dell’azienda dall’affittuario della stessa al suo concedente, purchè quest’ultimo utilizzi i beni in funzione dell’attività di cui gli stessi sono strumento; la disciplina prevista da detta norma trova pertanto applicazione - ove rimanga immutata l’organizzazione dei beni aziendali, con lo svolgimento della medesima attività - qualora il concedente, anzichè proseguire direttamente l’attività già in precedenza esercitata dall’affittuario, sostituisca a questi senza soluzione di continuità un altro soggetto nella stessa posizione, configurandosi in tal caso un’indiretta utilizzazione del complesso aziendale da parte del concedente a mezzo dell’affittuario - nella fattispecie, in attuazione del disposto dell’art. 2112 c.c., il pretore, mentre ha affermato l’esistenza di una responsabilità solidale tra il precedente affittuario, il concedente e il nuovo affittuario per i crediti maturati dai lavoratori alle dipendenze del primo affittuario, ha ordinato al nuovo affittuario la reintegrazione dei lavoratori nel loro posto di lavoro sul rilievo della continuazione con tale soggetto del rapporto di lavoro intercorso con il precedente affittuario (Pret. Siracusa, 7 agosto 1995, in Riv. Critica Dir. Lav., 1996, p. 447). E ciò ancorchè l’obbligazione retributiva dell’affittuario non

Non può essere perciò condivisa la tesi di chi ha sostenuto che i rapporti di lavoro non potrebbero essere ritrasmessi alla curatela, in quanto nell’ipotesi di retrocessione funzionerebbe la deroga, visto che altrimenti la procedura dovrebbe procedere al licenziamento dei dipendenti con conseguente responsabilità per l’erogazione dell’indennità di preavviso e diverrebbe comunque solidalmente responsabile per i debiti, per retribuzioni maturate in costanza di affitto e per trattamento di fine rapporto 104. In realtà, a parte il fatto che una ipotetica deroga funzionerebbe solo per effetto di un poco probabile nuovo accordo sindacale, il diritto al mantenimento del rapporto di lavoro, anche a seguito del trasferimento dell’azienda, espressamente affermato dall’art. 2112 c.c., ha natura pubblicistica e tende a prevalere sull’interesse, anch’esso pubblicistico, dei creditori 105. Il legislatore ha inteso incentivare, con la deroga di cui all’art. 47 della legge 428 del 1990, la circolazione endoconcorsuale per favorire la conservazione di posti di lavoro, mentre in caso di retrocessione questa motivazione di fondo non c’è, atteso che la conservazione dei posti di lavoro sarà legata esclusivamente alla possibilità di cedere o affittare l’azienda ad un nuovo imprenditore.

Inoltre, vero è che il subentro della procedura potrebbe potenzialmente danneggiare la massa, tuttavia il curatore in concreto dispone di strumenti che impediscono la maturazione di oneri passivi. Infatti, quale successore nel rapporto di lavoro dipendente, potrà provvedere a richiedere l’intervento di integrazione salariale straordinaria, a collocare in mobilità il personale eccedente rispetto alla potenzialità produttiva del complesso o addirittura a licenziare laddove sia impossibile salvaguardare i livelli occupazionali, sempre previo esperimento delle eventuali procedure richieste dalle dimensioni dell’azienda.

La procedura, in tal caso, si troverebbe d’altra parte nella stessa situazione in cui normalmente versa all’apertura del fallimento laddove l’impresa ha dipendenti ancora in carico 106.

8. Al di fuori dell’ipotesi previste dalle leggi speciali per aziende in crisi socialmente

rilevanti, si riteneva in passato inammissibile l’inserimento nel contratto di affitto di una clausola

di prelazione a favore dell’affittuario o di un patto che comunque contemplasse a suo favore una qualche forma di preferenza, quale ad esempio un’opzione 107. Ciò in quanto avrebbe condizionato preventivamente la fase di liquidazione, violato il principio generale in materia di espropriazione forzata della parità di trattamento, ma soprattutto creato a favore dell’affittuario

risulti dalle scritture contabili, posto che, ai sensi dell’art. 2112 c.c., l’obbligazione solidale sorge per il solo fatto del trasferimento dell’azienda (Pret. Milano, 30 aprile 1997, in Lavoro nella Giur., 1997, p. 768, in Orient. Giur. Lav., 1997, p. 416). Sul tema cfr. anche C. BONCI, Ritorno dell’azienda al locatore: successione ope legis nei rapporti di

lavoro e intervento dell’affittuario nel procedimento d’urgenza, in Riv. giur. lav., 1992, p. 254. Contra: R. ROMEI, Il rapporto di lavoro nel trasferimento d’azienda, in Il codice civile, Commentario diretto da P. Shlesinger, Milano, 1993, p. 16 s. 104 A. CAIAFA, I rapporti di lavoro nelle procedure concorsuali, Padova, 1994, p. 40, il quale evidenzia il pericolo che tali oneri gravino sulla massa a prescindere dalla questione se i crediti sorti successivamente all’apertura della procedura, debbano o meno essere considerati prededucibili. Per M. GUERNELLI, La cessione di azienda nel

fallimento, in Dir. fall., 1997, I, p. 1188, invece, in caso di cessazione del rapporto di affitto in corso di procedura con soluzione di continuità rispetto ad una successiva eventuale cessione, il fallimento non risponde dei debiti neppure di lavoro, stipulati dall’affittuario e inerenti l’esercizio dell’impresa, in quanto non si verifica la sostituzione di un imprenditore con un altro, neppure a ritroso. Il terzo acquirente subentra nei contratti in corso dell’affittuario solo qualora vi sia passaggio diretto tra l’una gestione e l’altra. 105 Secondo L. PANZANI, Affitto d’azienda cit., p. 925, nella fattispecie non v’è alcuna norma o principio che consenta di risolvere il conflitto di interessi a favore dei creditori. 106 In tal senso M. MASTROGIACOMO, L’affitto d’azienda nel fallimento, in Fallimento, 1996, p. 946. 107 App. Napoli 29 settembre 1959, cit., p.982, ha ritenuto illegittimo un contratto di affitto in sede fallimentare che contemplasse un patto d’opzione d’acquisto a favore dell’affittuario, in quanto la clausola avrebbe impedito all’ufficio fallimentare di alienare l’azienda per tutto il tempo attribuito all’affittuario per l’esercizio di tale diritto potestativo.

una situazione di privilegio pregiudizievole per gli interessi della massa dei creditori, considerato che la presenza di una prelazione ha il naturale effetto di allontanare potenziali interessati all’acquisizione piuttosto che invogliarli a concorrere nell’aggiudicazione.

Ipotesi completamente diversa era quella prevista per le aziende socialmente rilevanti, ove, come detto, è riconosciuto all’affittuario un diritto di prelazione (art. 3 comma 4, l. 223 del 1991), in quanto la legge ha creato una situazione di privilegio per soggetti dotati di peculiari requisiti di meritevolezza, in presenza di una serie di condizioni. Situazione di privilegio che, al contrario, gli organi del fallimento non avevano motivo di prevedere convenzionalmente ed in assenza di giustificazioni di carattere sociale non essendo legittimati a creare categorie privilegiate 108.

Il legislatore della riforma risolve definitivamente la questione sancendo che “il diritto di

prelazione a favore dell’affittuario può essere concesso convenzionalmente, previa espressa

autorizzazione del giudice delegato e previo parere favorevole del comitato dei creditori. In tal

caso, esaurito il procedimento di determinazione del prezzo di vendita dell’azienda, o del

singolo ramo, il curatore, entro dieci giorni, lo comunica all’affittuario, il quale può esercitare il

diritto di prelazione entro cinque giorni dal ricevimento della comunicazione” (art. 104 bis, comma 5).

E chiaro che l’espresso e specifico parere vincolante favorevole del comitato dei creditori, che si aggiunge a quello generale risolve il problema della tutela dei relativi interessi.

Resta la questione della compatibilità strutturale. In sede fallimentare, infatti, e più in generale in tutte le ipotesi di vendita coattiva, si è sempre posto il problema dell’opponibilità all’aggiudicatario delle diverse figure di prelazione conosciute dalla normativa civilistica e più in generale della compatibilità strutturale e funzionale delle stesse con la procedura 109.

La verità è che non c’è un problema di incompatibilità astratta, di tipo tecnico, tra l’istituto della prelazione e la procedura concorsuale, ma un problema di compatibilità concreta delle singole figure di prelazione e delle situazioni giuridiche cui esse afferiscono con il sistema delle liquidazioni coattive. D’altra parte le prelazioni sono ormai strumenti multiformi non riconducibili, in termini rigorosi, ad un sistema unitario dotato di organicità 110.

L’innesto nel procedimento di vendita del diritto ad essere preferito dà luogo sicuramente a difficoltà, le quali sono tuttavia componibili in molti casi in un quadro armonico. Già l’applicazione dell’art. 3, comma 4, della legge n. 223, ha confermato che ben può immaginarsi che il prezzo di vendita venga determinato secondo le forme proprie dell’alienazione coatta e che soltanto al termine di tale procedimento il titolare della prelazione possa essere chiamato a dichiarare se intende o meno esercitarla.

Piuttosto è la compressione dei diritti dei creditori, che inevitabilmente discende da scelte favorevoli al titolare della prelazione, ad esigere che l’istituto scaturisca da inequivoche disposizioni normative o comunque da una identità di ratio tra le fattispecie dubbie e quelle in

108 Sulle ragioni della prelazione legale mi permetto di rinviare a F. Fimmanò, Fallimento e circolazione cit., p.143 s.). 109 Si è osservato che la prelazione non va intesa come una sorta di punizione dell’autonomia privata, ma come un limite funzionale alla protezione di certi interessi, che incide sul momento della scelta del partner contrattuale: e, sotto questo aspetto, il carattere forzato della vendita, mentre per un verso non esclude la rilevanza di quegli interessi, per altro verso costituisce un fenomeno che, già implicando in se stesso il superamento dell’infungibilità del volere privato nella scelta dell’acquirente, sembra non tanto ostacolare, quanto piuttosto rendere agevole ed indolore l’innesto della prelazione (G. BORRÈ, Vendite forzate e prelazione del conduttore urbano, in Foro it., 1981, I, p. 690). 110 A.M. MARCHIO, Prelazione del conduttore e vendita fallimentare, in Fallimento, 1987, p. 561. Infatti pur essendo l’istituto ontologicamente unitario, l’ordinamento appronta una disciplina non coincidente per le varie figure, talché il panorama legislativo - non solo italiano - autorizza a ritenere che, con riferimento al fenomeno, sia più proprio parlare di <<sistema di prelazioni>> (F.D. BUSNELLI, La prelazione nell’impresa familiare, in Riv. not., 1981, p. 811).

cui la prelazione in ambito coattivo è espressamente contemplata 111. Ciò che infatti interessa alla massa dei creditori non è il soggetto che si rende assegnatario di determinate attività nel fallimento, ma unicamente il risultato delle operazioni di vendita e cioè l’acquisizione del maggior ricavato possibile con cui procedere alla successiva fase di liquidazione dell’attivo 112.

Così nell’affitto di azienda, che è un fenomeno completamente diverso dalla locazione di immobili, il problema resta che l’esistenza della prelazione dell’affittuario-gestore rappresenta normalmente un oggettivo ostacolo al migliore realizzo possibile, in quanto costituisce evidentemente un disincentivo alla partecipazione alla gara o all’asta dei soggetti potenzialmente interessati all’acquisto. E questa è la stessa ragione per la quale il legislatore ha escluso nel fallimento l’operatività della prelazione agraria che comporterebbe per il beneficiario la possibilità addirittura di presentare domanda di mutuo e ritardare fino ad un anno il pagamento, deprimendo così certamente una eventuale pluralità di aspirazioni all’acquisto 113. Si consideri in particolare che l’affitto di una res funzionalmente organizzata per essere produttiva e per produrre reddito, essendo stipulato in relazione all’esercizio dell’attività economica è completamente diverso dalla locazione di un qualsiasi altro bene di agevole valutazione anche dall’esterno. Nel caso specifico, invece, solo l’affittuario è in grado di conoscere l’intrinseco ed effettivo valore aziendale e soprattutto, entro certi limiti, è in grado di comprimerlo rispetto ai valori di perizia al fine di rendere la stessa meno appetibile a potenziali interessati.

E sono proprio questi i veri problemi che dovrà valutare il comitato dei creditori nell’esprimere il proprio parere.

9. Nonostante l’assenza di espliciti riferimenti positivi, la vendita unitaria dell’azienda, per

le ragioni descritte nel primo paragrafo, sempre stata ritenuta ammissibile per la compatibilità logica e sistematica di tale figura, enucleata dalla prassi, con il processo fallimentare ed anche per l’innegabile opportunità che l’operazione permette di cogliere sul piano della efficienza e della funzionalità della procedura, anche in termini di attenuazione degli scompensi prodotti sul sistema socio-economico dal dissesto dell’impresa 114.

Ora però esiste il pieno riferimento normativo. Innanzitutto l’art. 104 ter dispone che il programma di liquidazione “deve indicare le modalità e i termini previsti per la realizzazione dell’attivo, specificando…. d) le possibilità di cessione unitaria dell’azienda, di singoli rami , di beni o di rapporti giuridici individuabili in blocco”. Il nuovo art. 105 (Vendita dell’azienda, di

rami, di beni e rapporti in blocco), sancisce poi che “La liquidazione dei singoli beni ai sensi degli articoli seguenti del presente Capo è disposta quando risulta prevedibile che la vendita dell’intero complesso aziendale, di suoi rami, di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco non consente una maggiore soddisfazione dei creditori”.

Tutto ciò, ovviamente, non significa che nel fallimento la liquidazione unitaria sia sempre la migliore soluzione, nè che essa abbia come unica alternativa l’alienazione parcellizzata delle singole componenti, potendo invece, ad esempio, anche prospettarsi una forma di vendita di taluni beni previamente scorporati con la cessione in blocco del residuo patrimonio aziendale, oppure la vendita di rami autonomi o ancora l’alienazione di uno o più gruppi omogenei di beni

111 M.C. VANZ, Prelazione legale e procedure espropriative: un problema ancora aperto, in Riv. dir. proc., 1995, p. 920. 112 E. CAPUTO, Prelazione legale e vendita fallimentare cit., p. 1787. 113 Art. 8, comma 7, legge n. 590 del 1965. 114 Talora poi la vendita unitaria consente di perseguire obiettivi altrimenti irrangiungibili, come il subentro dell’aggiudicatario nella locazione dell’immobile aziendale, o in altri contratti imprescindibili, rispetto all’attività economica, l’utilizzo di segni distintivi dell’impresa, il mantenimento di licenze, autorizzazioni o concessioni amministrative, la conservazione dei posti di lavoro, etc. (G. SCANZANO, Vendita fallimentare dell’azienda, in Atti del convegno S.I.S.CO. su Gestione e alienazione dell’azienda nelle procedure concorsuali, Milano, 1991, p. 154).

come macchinari, crediti, semilavorati, materie prime. Non a caso l’art. 105, penultimo cpv., prevede che “il curatore può procedere alla liquidazione anche mediante il conferimento in una o più società, eventualmente di nuova costituzione, dell’azienda o di rami della stessa, ovvero di beni o crediti, con i relativi rapporti contrattuali in corso, esclusa la responsabilità dell’alienante ai sensi dell’art. 2560 del codice civile…”.

Il criterio che deve guidare la scelta tra le differenti soluzioni è normalmente quello della convenienza economica, da apprezzare avendo riguardo alla presumibile entità del realizzo al netto delle spese di conservazione e di vendita. Questa regola è attenuata solo nel sistema speciale di liquidazione di aziende socialmente rilevanti, ove il criterio viene temperato dall’esigenza di conservazione dell’azienda in funzione del mantenimento dei livelli occupazionali. Infatti in questo caso la circolazione viene necessariamente condizionata dall’accordo sindacale previsto dalla legge n. 428 del 1990. Nella sostanza, occorre valutare in funzione della maggiore soddisfazione dei creditori, se la cessione dei singoli beni consenta di realizzare un ricavo pari o superiore a quello realizzabile mediante la vendita unitaria del complesso aziendale, ove il collegamento funzionale può determinare un plusvalore rispetto al valore delle singole componenti 115.

E’ chiaro che la convenienza talora non è semplicisticamente identificata in una mera differenza di prezzo ma può accadere che vada considerata nei più ampi termini del contesto in cui la procedura fallimentare si colloca e con essa l’interesse dei creditori concorsuali. Ad esempio, la posizione dei lavoratori, portatori di due diversi interessi, quello al soddisfacimento del proprio credito e quello al mantenimento del posto di lavoro, può assumere particolare importanza nel caso di trasferimento: soprattutto per le aziende socialmente rilevanti in cui i lavoratori, per effetto dell’art. 47 della legge n. 428 del 1990, sono divenuti soggetti attivi dello stesso trasferimento, potendo incidere, in virtù dell’eventuale accordo trilatero assunto con alienante ed acquirente, sul prezzo di vendita 116.

Non a caso il nuovo articolo 105, al terzo comma, l. fall., dispone in modo apparentemente pleonastico che “Nell’ambito delle consultazioni sindacali relative al trasferimento d’azienda, il curatore, l’acquirente e i rappresentanti dei lavoratori possono convenire il trasferimento solo parziale dei lavoratori alle dipendenze dell’acquirente e le ulteriori modifiche del rapporto di lavoro consentite dalle norme vigenti”.

E d’altra parte, già in passato, una certa giurisprudenza ha sostenuto che ai fini della valutazione comparativa delle offerte in sede di vendita di beni dell’impresa fallita, l’impegno ad assumere un certo numero di lavoratori costituiva legittimo elemento di preferenza 117.

In un’altra occasione, poi, la Suprema Corte ha ritenuto che ai fini della valutazione della maggior convenienza, a parità di offerte economiche, ben può essere presa in considerazione l’incertezza circa la situazione giuridica che, per effetto di una delle scelte alternativamente possibili si determinerebbe 118. In sostanza la Cassazione ha ritenuto legittimo il provvedimento

115 Trib. Roma 2 aprile, 1994, in Dir. fall., 1994, II, p. 1204-1205, con riferimento ad un concordato preventivo con cessione, ha affermato che <<l’intero complesso industriale dovrà essere venduto in uno o più lotti privilegiandosi, a parità di condizioni, la preservazione dell’unità della struttura industriale. In alternativa, e ove la vendita dell’azienda si dimostrasse economicamente impraticabile ed il mantenimento dell’attività minima di produzione, necessario per preservare il valore aziendale, importasse oneri negativi sulla procedura, si procederà alla vendita dei singoli beni anche smembrando l'unità aziendale>>. 116 Infatti, l’art. 47, commi 5 e 6, sancisce che per evitare l’accollo dei debiti pregressi derivanti dai rapporti di lavoro ed il trasferimento dei dipendenti all’acquirente o all’affittuario dell’azienda appartenente all’impresa fallita con più di quindici dipendenti, deve essere seguita una procedura di consultazione sindacale che si concluda con un accordo sul mantenimento anche parziale dell’occupazione. 117 Cfr. Trib. Savona 19 ottobre 1978, soc. Artistico Vetraria di Altare, in Giur. comm., 1979, II, p. 250. 118 Cass. 3 marzo 1997, n. 1850, in Fallimento, 1997, p. 1100 s., che, peraltro rileva che il provvedimento del giudice delegato che disponeva la vendita non conteneva riferimento al diritto di prelazione e che solo in sede di aggiudicazione, ed a fini cautelativi, fu inserita questa clausola di salvezza. E tenuto conto che, comunque il diritto

con il quale il giudice delegato ha preferito aggiudicare l’azienda del fallito all’affittuario endoconcorsuale, non per motivi di prelazione, ma perché l’aggiudicazione a chi già ne aveva il possesso eliminava le sicure dispute ed il conseguente contenzioso, garantiva la ottimale custodia e conservazione del complesso dei beni prima del loro definitivo trasferimento e consentiva una migliore identificazione dei beni oggetto della vendita evitando contestazioni in ordine a possibili differenze tra i beni offerti e quelli effettivamente consegnati (ad esempio per dispersioni o danneggiamenti) 119. Ebbene in un caso come questo la convenienza è stata individuata nella più agevole soluzione dei problemi che potenzialmente potevano scaturire dalla liquidazione e nella possibilità di evitare ogni possibile strascico. In ogni caso il legislatore ha sciolto il vecchio nodo delle forme processuali della vendita unitaria del compendio aziendale, eventualmente comprensivo di cespiti immobiliari 120, rispetto alle quali lungamente si era dibattuto e che per quanto ci riguarda ci aveva portato ad individuare nella vendita senza incanto la formula più idonea sul piano interpretativo. Il secondo comma dell’art. 105 dispone che “la vendita del complesso aziendale o di rami dello stesso è effettuata con le modalità di cui all’art. 107, in conformità a quanto disposto dall’articolo 2556 del codice civile”. L’art. 107 a sua volta prevede che “le vendite e gli altri atti di liquidazione sono effettuati dal curatore, tramite procedure competitive anche avvalendosi di soggetti specializzati, sulla base di stime effettuate, salvo il caso di beni di modesto valore, da parte di operatori esperti, assicurando, con adeguate forme di pubblicità, la massima informazione e partecipazione degli interessati. Per i beni immobili, prima del completamento delle operazioni di vendita, è data notizia mediante notificazione da parte del curatore, a ciascuno dei creditori ipotecari o comunque muniti di privilegio”.

Il trasferimento dell’azienda stipulato dal curatore sarà soggetto alle forme di cui all’art. 2556, c.c., ed in virtù della legge 12 agosto 1993, n. 310, a fini probatori, come per l’affitto, dovrà assumere la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, con l’intervento del notaio che deve poi provvedere a curare l’adempimento delle relative formalità pubblicitarie, compresa l’iscrizione nel registro delle imprese.

10. Il nuovo sistema di vendite fallimentari, applicato anche all’azienda rende molto più

agevole il funzionamento procedimentale dell’eventuale diritto di prelazione all’acquisto. Una certa giurisprudenza ha ritenuto in passato che il diritto di prelazione legale per le aziende socialmente rilevanti addirittura incompatibile con alcune forme di vendita, considerato che, in particolare, nell’ipotesi di incanto la possibilità di dilatare i tempi per la formazione del prezzo di aggiudicazione, per effetto dell’aumento del sesto, non era coordinabile “con il meccanismo piuttosto rigido sul piano della consecutio temporum, previsto per l’esercizio della prelazione da parte dell’affittuario”.

di prelazione non spettava all’affittuario, di fronte ad offerte omogenee è legittimo che il giudice delegato abbia preferito la soluzione che comportava meno problemi e che quindi garantiva meglio l’interesse dei creditori. 119 Trib. Aosta 7 febbraio 1994, in Dir. fall., 1995, II, p. 892 s., con nota di D. DI GRAVIO, La vendita fallimentare

dell’azienda con identiche offerte contrapposte. In particolare il tribunale ha ritenuto, senza entrare nel merito della pretesa esistenza del diritto di prelazione ai sensi dell’art. 3 comma 4 legge n. 223 del 1991, che l’aggiudicazione ad una società diversa da quella che aveva in affitto l’azienda avrebbe quasi certamente comportato l’insorgenza di un contenzioso conseguente al probabile reclamo, ex art. 26 legge fallim., da parte della stessa affittuaria; e tale contenzioso avrebbe potuto pregiudicare il tempestivo e regolare pagamento del corrispettivo da parte dell’aggiudicataria che avrebbe potuto lamentare di aver appreso solo in sede di gara o dopo di essa che uno dei concorrenti vantava un diritto di prelazione sui beni. L’aggiudicazione alla società affittuaria, a parità di termini economici, garantisce, sotto ogni profilo, la migliore custodia e conservazione del notevole compendio di beni alienati prima del loro definitivo trasferimento all’acquirente: ciò che ragionevolmente non avrebbe potuto accadere in caso di aggiudicazione a soggetto diverso. 120 Così Cass. 23 aprile 1998, in Fallimento, 1999, p. 177.

Infatti, secondo il precetto legale, speciale (ed adesso anche generale) l’autorità che procede alla liquidazione provvede a comunicare entro dieci giorni il prezzo così stabilito all’imprenditore cui sia riconosciuto il diritto di prelazione. Tale diritto deve essere esercitato entro cinque giorni dal ricevimento della comunicazione. Come è agevole notare la legge introduce in tal modo una ulteriore forma di aggiudicazione provvisoria, tale essendo quella disposta a favore del maggiore offerente, una volta attribuito all’affittuario il potere di caducarla nei quindici giorni successivi attraverso un proprio atto di volontà inteso all’esercizio positivo del diritto di prelazione. Ebbene per la citata giurisprudenza non sarebbe stato ammissibile che ad un’aggiudicazione provvisoria (quella del maggior offerente per il periodo in cui possono pervenire offerte in aumento di sesto) se ne aggiungesse anche un’altra (per tutto il successivo periodo in cui l’affittuario può esprimere la prelazione) 121.

In verità, pur ritenendo che l’esercizio del diritto di prelazione meglio si combinava con la vendita senza incanto, non condividevamo i risultati di questa giurisprudenza, anche perché tutte le argomentazioni venivano comunque superate prevedendo che la comunicazione all’affittuario del prezzo definitivo avvenisse solo dopo la decorrenza del termine per l’aumento del sesto 122.

Nelle ipotesi in cui il fallimento abbia stipulato un contratto di affitto di azienda con prelazione legale o convenzionale, gli organi concorsuali, a nostro avviso, vedranno limitata la propria discrezionalità rispetto alla vendita, nel senso che non potranno scegliere forme di liquidazione che si risolvano nella disgregazione del complesso aziendale e quindi nella vanificazione del diritto di prelazione dell’affittuario. O meglio, potranno porre in vendita i singoli beni in modo frazionato solo dopo aver esperito inutilmente il tentativo di vendere l’azienda in blocco e dopo che quindi l’affittuario abbia perso, per mancato esercizio, il suo diritto di prelazione all’acquisto. Ciò risulta chiaro dalla semplice lettura della norma, ove la speciale previsione di una particolare procedura da seguire, riduce i margini decisionali che la legge normalmente attribuisce agli organi del fallimento. Il contratto di affitto assume in questa ottica funzione liquidatoria ed è la risultante di una scelta definitiva sul trasferimento unitario e complessivo dell’azienda.

A norma dell’art. 104 bis, “esaurito il procedimento di determinazione del prezzo di vendita dell’azienda, o del singolo ramo, il curatore, entro dieci giorni, lo comunica 123

121 Così Trib. Monza 19 aprile 1992, cit., p.156. Inoltre come si è giustamente rilevato (M. MASTROGIACOMO, Vendita all’incanto di azienda nel fallimento, in Giur. comm., 1994, p. 160, nota al provvedimento in esame), nel nostro ordinamento non si può affermare una generale incompatibilità tra diritto di prelazione e vendita all’incanto, infatti tra l’altro, <<il chiaro disposto dell’art. 2480, secondo e terzo comma, prevede che in ipotesi di quote di società a responsabilità limitata, per statuto intrasferibili, acquisite nella massa attiva fallimentare, la relativa vendita debba farsi con incanto, e la società entro dieci giorni dall’aggiudicazione possa proporre un terzo che acquisti le quote allo stesso prezzo, rendendo l’aggiudicazione priva di effetto. Si vede pertanto che un diritto di preferenza è nel nostro sistema compatibile con la vendita all’incanto per specifica disposizione di legge>> (sull’argomento: C. MANDRIOLI, Misure cautelari ed esecutive su quote di società a responsabilità limitata, in Foro it., 1948, I, c. 448; A. BONSIGNORI, Espropriazione su quote di società a responsabilità limitata Milano, 1961; G. VILLANACCI, Sequestro giudiziario di quote di società a responsabilità limitata, Padova, 1995). A prescindere dal tipo di procedura, ci pare opportuno se non addirittura indispensabile che nell’avviso di vendita dell’azienda data in affitto endofallimentare sia espressamente detto che sul bene esiste un diritto di prelazione e che conseguentemente, fino a che non decorre il termine per l’esercizio di questo diritto, l’aggiudicazione è da considerarsi provvisoria (in questo senso anche D. DI GRAVIO, La prelazione degli affittuari nelle vendite fallimentari, in Temi romani, 1991, p. 299). 122 F. FIMMANÒ, op. loc. ult. cit. Era sufficiente che il giudice delegato stabilisse nell’ordinanza di vendita un termine, per il versamento del prezzo da parte dell’aggiudicatario, non superiore ai sessanta giorni come previsto dall’art. 576, n. 7, c.p.c., tale da evitare che maturi prima che sia decorso il minor termine fissato dalla legge a favore dell’affittuario per l’esercizio della prelazione. Laddove l’affittuario eserciti poi la prelazione il giudice delegato ne darà atto e farà luogo alla vendita a favore dell’affittuario 123 La forma della comunicazione deve evidentemente essere quella scritta, tenuto conto che si innesta in un procedimento di vendita forzata. Per la prelazione agraria in sede di alienazione volontaria, la Suprema Corte ha invece ritenuto che il diritto di prelazione previsto dall’art. 8, della legge n. 590 del 1965, diventa attuale e concreto nel momento in cui il proprietario concedente comunica ai soggetti indicati in detto articolo, in qualunque modo (e perciò anche verbalmente), la sua volontà di alienare il fondo a titolo oneroso, non avendo carattere cogente ed

all’affittuario, il quale può esercitare il diritto di prelazione entro cinque giorni dal ricevimento della comunicazione” (penultimo cpv, parte seconda). Tale diritto ad essere preferito può essere esercitato solo dopo che sia completamente terminato il procedimento di aggiudicazione, in quanto condizione essenziale dell’operazione è comunque la vendita al miglior prezzo possibile.

Nell’ordinanza che dispone la vendita deve essere espressamente detto che l’azienda è stata concessa in affitto nel corso della procedura e che quindi è oggetto di prelazione a favore dell’affittuario; ciò al fine soprattutto di dare una corretta informazione agli eventuali interessati e determinarne una giusta formazione della volontà di partecipare alla vendita.

D’altra parte, l’espressa indicazione nell’ordinanza di vendita della presenza della prelazione non ha alcun valore di giudicato né comporta un accertamento incontrovertibile della sua esistenza. Il provvedimento del giudice delegato non è, infatti, espressione di giurisdizione di cognizione ma viene reso nell’ambito della vendita dei beni come espressione di giurisdizione esecutiva e non ha attitudine a divenire cosa giudicata.

La comunicazione del prezzo al prelazionario, secondo un certo orientamento, costituirebbe una proposta contrattuale e la relativa accettazione comporterebbe l’automatica conclusione del contratto 124. Al contrario, in base a una diversa impostazione, la denuntiatio sarebbe un mero atto non negoziale di interpello inserito nell’ambito di quella più ampia vicenda acquisitiva di tipo legale rappresentata dalla prelazione 125. Secondo un ulteriore orientamento, infine, essa costituirebbe solo espressione di adempimento di un obbligo legale di informativa, volto a porre il prelazionario nella condizione di esercitare il proprio diritto potestativo.

Invero, a noi pare, in linea con sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione 126, che la comunicazione al prelazionario abbia natura di “atto di interpello non negoziale, anche se presenta oggettivamente il contenuto di una proposta attraverso l’indicazione delle condizioni del trasferimento e costituisca al tempo stesso, in quanto atto dovuto, oggetto di uno specifico obbligo legale” 127. L’adesione del titolare del diritto di prelazione, oltre a non costituire accettazione di una proposta produttiva come tale di effetti traslativi, non costituisce neppure l’esercizio di un diritto potestativo, ma gli consente solo di acquistare il diritto alla successiva conclusione del contratto. In buona sostanza, a seguito dell’aggiudicazione al terzo, mancando il diritto di riscatto, la facoltà di esercitare la prelazione si tramuta in opzione a vantaggio dell’affittuario.

D’altra parte, la prelazione, è chiaramente una vicenda acquisitiva di tipo legale, non negoziale, caratterizzata da passaggi graduali, scanditi da norme specifiche, operante come limitazione alla libertà negoziale del soggetto tenuto a rispettare l’altrui diritto ad essere preferito ed al cui interno si collocano avvisi e comunicazioni. In particolare tale vicenda è contrassegnata da due dati fortemente caratteristici: un complesso meccanismo preordinato alla determinazione del prezzo, e la natura del soggetto tenuto ad operare la denuntiatio, portatore istituzionali di interessi superindividuali 128.

La denuntiatio all’affittuario, titolare del diritto di prelazione, va fatta soltanto dopo la formulazione di offerte impegnative da parte dei potenziali acquirenti e l’individuazione della maggiore, in quanto la legge parla di “definitiva determinazione del prezzo”, e non potrebbe

inderogabile il procedimento notificatorio previsto dall’art. 8 (Cass. 27 gennaio 1999, n. 723, in Vita not., 1999, p. 89 s. con nota di R. TRIOLA, Osservazioni in tema di prelazione agraria e forma della denuntiatio). 124 In tal senso per tutte cfr. Cass. 24 ottobre 1983, n. 6256, in Foro it., 1983, I,1, c. 3004; Cass. 1 aprile 1987, n. 3124. 125 Cass. 11 marzo 1946, n. 252; Cass. 10 aprile 1986, n. 2521, Cass. 17 aprile 1986, n. 2726. 126 Cass. Sez. unite, 4 dicembre 1989, numeri 5357 e 5359. 127 C. DE MARTINI, La prelazione dell’affittuario di azienda nel corso delle procedure concorsuali, in Dir fall., 1993, I, p. 257. E d’altra parte la configurazione proposta però in via generale da una parte della dottrina, cfr. tra gli altri G. FURGIUELE, Contributo allo studio della struttura delle prelazioni legali, Milano, 1984; G. VETTORI, Efficacia ed opponibilità del patto di preferenza, Milano, 1988. 128 C. DE MARTINI, La prelazione dell’affittuario di azienda nel corso delle procedure concorsuali, cit, p. 259.

essere in nessun caso ritenuto tale il valore indicato dal giudice nel provvedimento che fissa le modalità di vendita basato sulla stima peritale dei beni 129, la quale costituisce soltanto una mera ed astratta valutazione tecnica di quel minimo realizzo che condiziona i poteri liquidativi degli organi del fallimento 130. Peraltro, il provvedimento di nomina dell’esperto è un atto meramente preparatorio della vendita e le osservazioni che il debitore può fare in ordine alle conclusioni dell’esperto sulla stima non danno luogo in alcun caso ad una opposizione in senso tecnico 131.

Il valore di stima è un valore teorico meramente programmatico, laddove il prezzo è invece l’incontro di volontà tra acquirente ed alienante riguardante il valore da attribuire ad una certa cosa e perciò non può essere che il corrispettivo offerto, in modo definitivo, per l’acquisto dell’azienda 132.

Per individuare la definitiva determinazione del prezzo, bisogna evidentemente fare riferimento al procedimento previsto nella ordinanza del giudice delegato che il nuovo art. 107, disciplina in modo abbastanza elastico lasciando le specificazioni procedimentali alla discrezionalità degli organi fallimentari.

C’è da chiedersi se in questo procedimento il giudice possa concepire una ulteriore gara ristretta tra aggiudicatario provvisorio e prelazionario, visto che l’obiettivo principale della procedura fallimentare, essenzialmente liquidatoria, è quello di realizzare il massimo del ricavato possibile dalla vendita dell’attivo, ed in questa ottica l’ulteriore incanto tra aggiudicatario e prelazionario garantirebbe il raggiungimento dell’obiettivo prioritario della procedura.

Tuttavia nel sistema, la massimizzazione di questa finalità sembra cedere il passo alle esigenze della riallocazione dei valori aziendali, sui cui il comitato dei creditori si esprime a monte. Un sistema di questo tipo, è meno virtuoso rispetto ai normali principi dell’offerta e della domanda nella determinazione dei valori di mercato ed agli obiettivi normali del fallimento, tuttavia genera minori distorsioni, dando luogo alla formazione di prezzi forse talvolta inferiori a quelli potenzialmente raggiungibili, ma meno esposti a speculazioni di tipo parassitarie.

Peraltro, macroscopiche distorsioni potrebbero trovare comunque correzione nella generale applicazione dell’art. 108, l. fall., che deve essere tenuto presente dal giudice delegato o dal tribunale in sede di reclamo, anche dopo l’aggiudicazione ed il versamento del prezzo con l’unico limite nel decreto di trasferimento della proprietà del bene 133.

129 In tal senso anche E. NORELLI, La prelazione dell’affittuario nella l. n. 223 del 1991: aspetti processuali, in Dir.

fall., 1993, I, p. 239; A. CAIAFA, L’impresa in crisi: esigenze, cit., p. 232; F. SEVERINI, Il diritto di prelazione

concorsuale, cit., p. 233; M. MASTROGIACOMO, Il diritto di prelazione, cit., p. 268. Il generico riferimento che la norma fa ad una non meglio identificata <<procedura di definitiva determinazione del prezzo>>, è molto probabilmente legato all’esigenza di contemplare anche quelle particolari modalità di liquidazione dei beni previste in procedure diverse dal fallimento, quali ad esempio la vendita senza incanto dei complessi aziendali prevista dall'art. 6 bis, della legge n. 95 del 1979, sull’Amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, o i modi di liquidazione previsti nella sentenza di omologazione del concordato preventivo o rimessi al commissario liquidatore. 130 Nello stesso senso anche Cass. 27 ottobre, 1994, n. 8861, in Fallimento, 1995, p. 616 s., la quale, escludendo la legittimazione al reclamo da parte del prelazionario in ordine al provvedimento del giudice di fissazione delle sole modalità di vendita, nega implicitamente che il prezzo di cui all’art. 3, comma 4, legge 223 del 1991, possa considerarsi determinato sulla base della sola perizia di stima. 131 Cass. 12 aprile 1975, n. 1691, in Giust. civ., 1975, I, p. 1074 s. 132 Si è affermato (M. MASTROGIACOMO, Novità in tema etc., cit., p. 526) che caratteristica tipica della prelazione nel suo significato giuridico, è la presenza di una fase di trattativa svolta con i terzi attraverso la quale viene determinato un prezzo su cui viene successivamente esercitata la prelazione. Vero è che nel caso delle locazioni urbane la denunciatio, secondo la migliore impostazione, può prescindere da offerte di acquisto da parte di terzi e costituire un’autonoma determinazione del proprietario, diretta a segnalare le condizioni alle quali il diritto di prelazione può essere esercitato, tuttavia il trasferimento al terzo contattato dopo la denunciatio è possibile solo alle condizioni in precedenza comunicate al locatario. In questo senso deve essere intesa la presenza del terzo contraente. Ciò significa che pure nell’ipotesi di vendita fallimentare, la trattativa con il terzo, anche a mezzo di incanto, non potrà concludersi a condizioni diverse da quelle comunicate dall’affittuario di azienda. 133 Cfr. per tutte Cass. 18 gennaio 1991 n. 486, in Fallimento, 1991, p. 685; Cass., 31 marzo 1989, n. 1580, ivi, 1989, p. 892; Trib. Milano 8 gennaio 1996, in Dir. fall., 1996, II, p. 344.

E’ opportuno, infine, ricordare che secondo un altro orientamento, formatosi tuttavia con riferimento alla prelazione legale per aziende socialmente rilevanti, il diritto di prelazione, istituito a favore degli affittuari di aziende assoggettate a fallimento, sarebbe un diritto immediato e preclusivo, da consumare, una tantum, appena terminate le procedure per la determinazione del prezzo di vendita. In pratica, l’azienda, prima ancora che ne venga fissata la vendita con incanto o senza incanto o nelle altre forme consentite, andrebbe offerta all’affittuario; il quale, in caso di mancato esercizio del diritto di prelazione, non potrebbe più reclamare, nel corso ulteriore delle operazioni, questa sua posizione privilegiata 134. Secondo tale orientamento, l’interpello di prelazione andrebbe fatto in linea diretta dal curatore all’affittuario ed in caso di rifiuto o silenzio, il curatore dovrebbe senza indugio provvedere alla vendita dell’azienda ad altri, chiedendo che nell’ordinanza di vendita <<il giudice inserisca la nota che c’è stato l’interpello sulla prelazione dell’affittuario, che questi non l’ha esercitata e che dunque l’azienda viene venduta libera, ovviamente con il subentro dell’acquirente nel contratto di affitto>> 135.

Questa impostazione, non condivisibile 136, nell’attribuire un diritto di precedenza e non di mera preferenza all’affittuario, è potenzialmente idonea ad eliminare quella pluralità di aspirazioni che è condizione essenziale per la vendita forzata in quanto funzionale al raggiungimento del migliore risultato economico possibile. Un diritto di prelazione così concepito, non si limiterebbe a sminuire l’ampiezza della gara, ma in pratica finirebbe con l’eliminarla con grave pregiudizio del ceto creditorio. Evidentemente, la tutela dell’interesse 134 In tal senso D. DI GRAVIO, La prelazione degli affittuari, cit., p. 910 s., per il quale <<se così non fosse, l’affittuario verrebbe a polverizzare le possibilità di realizzo dell’attivo fallimentare nel senso che potrebbe, in ogni caso, sovrapporre il suo diritto di prelazione all’offerta dei terzi candidati all’acquisto, venendo così a mettere in atto una specie di sciacallaggio legalizzato, nel senso che proprio in virtù della sua posizione, l’affittuario avrebbe la possibilità di <<rovistare fra le macerie>> e portare a proprio vantaggio una situazione capace di disintegrare e distruggere la possibilità di attribuire e di conservare alla liquidazione concorsuale la finalità dell’osservanza del rispetto della par condicio, secondo le linee fondamentali tracciate dagli artt. 2740 e 2741 cod. civ.>>. Nello stesso senso A. FERRETTI, Prelazione e affitto di azienda con immobili, in Dir. fall., 1993, p. 247 s., secondo cui il giudice delegato ha <<l’obbligo di preventivo interpello dell’affittuario al quale dovrà essere riconosciuto il diritto all’acquisto dell’azienda al valore di stima>>, e ciò concretizzerebbe una deroga all’art. 108 l.fall. in quanto <<la deroga alla vendita con l’incanto consiste nell’adozione della forma di vendita a trattativa privata e non nell’adozione delle forme previste dalla fattispecie di cui agli artt. 570 segg. cod. proc. civ.>>. 135 Analoga posizione assume qualcun altro (così V. SPARANO, Il trasferimento di azienda, affitto e cessione, nelle

procedure concorsuali, in Dir. fall., II, p. 1202, nota a Trib. Roma 2 aprile 1994) secondo cui il giudice delegato dovrebbe in questo caso tener presente non il miglior prezzo realizzabile, cioè quella finalità che entra nel sistema degli incanti con un prezzo base ed eventuali aumenti o diminuzioni, cioè il prezzo del mercato, ma dovrebbe invece individuare un prezzo di vendita dell’azienda in correlazione alla prospettiva di cessione dell’azienda stessa o di sue parti, tenendo conto dei riflessi che tale cessione può avere sull’occupazione aziendale, essendo questo il parametro specifico individuato nel comma 2 dell’art. 3. E che <<una volta che si è aperta l’ipotesi di salvaguardia, anche parziale, dei livelli di occupazione tramite la cessione, cambiano i parametri di riferimento della determinazione del prezzo di vendita e ciò perchè non è tanto l’ipotesi che si realizzi la prelazione e quindi avvenga la cessione su detti presupposti, ma il contrario, che deve essere tenuto in considerazione. Se infatti, l’affittuario esercita il diritto di prelazione, la procedura realizza il valore dell’azienda e la collettività il mantenimento, seppure parziale, dei posti di lavoro. All’inverso, il pericolo da valutare a monte, sta nell’ipotesi che il prezzo sia tanto poco competitivo nell’interesse dell’acquirente eventuale, da non indurlo a tramutare la gestione di affitto in gestione finale con l’acquisto dell’azienda. In tal caso l’affitto avrà il suo esaurimento naturale, opportunamente preordinato, ma la C.I.G. non potrà essere prorogata e secondo l’interpretazione rigoristica, il fallimento, avendo già negato per presupposto la continuazione dell’attività, non può porre più in vendita l’azienda e quindi è costretto al rispetto della liquidazione fallimentare con la vendita dei singoli comparti dell’azienda>>. 136 Del nostro stesso parere è la Cassazione (27 ottobre 1994, n. 8861, cit. , p. 616 - 617) secondo cui <<il titolare di un diritto di prelazione ha motivo di doglianza solo quando venga omessa ogni comunicazione del prezzo di vendita in concreto realizzato con il contestuale invito ad esercitare il suo diritto di rendersi acquirente dell’azienda alle medesime condizioni, ma non ha alcun diritto a dolersi della fissazione delle modalità della vendita, non essendo ipotizzabile un diritto di prelazione che possa esercitarsi prima della determinazione del prezzo, salva restando, in caso di contestazione, ogni questione relativa alla titolarità del diritto di prelazione ed alla sua sopravvivenza dopo la cessazione del rapporto di affitto>>.

oggettivo dell’impresa e del lavoro non può mai giustificare la violazione di un principio chiave del sistema delle vendite fallimentari e della procedura in genere.

Una soluzione diversa sarebbe paradossalmente in grado di generare distorsioni diametralmente opposte. Infatti nei casi in cui il valore di stima fissato nel provvedimento di vendita fosse particolarmente basso, il prelazionario sarebbe messo nella ingiusta condizione di fare un acquisto vantaggiosissimo senza dover subire alcun rilancio ed in violazione dei fondamentali principi economici dell’offerta e della domanda. Al contrario in caso di perizia notevolmente superiore al prezzo di mercato, l’affittuario per esercitare il proprio diritto di prelazione dovrebbe accettare di pagare un inaccettabile prezzo imposto non determinato attraverso l’offerta di terzi, rinunciando altrimenti ad ogni situazione di privilegio rispetto ad altri concorrenti.

Nel termine di cinque giorni dalla comunicazione, dunque, l’affittuario può dunque esercitare il suo diritto di prelazione mediante presentazione nella cancelleria di una dichiarazione contenente l’indicazione del prezzo, del tempo e delle modalità di pagamento come già definitivamente e preventivamente determinate dall’aggiudicatario. Tale dichiarazione di esercizio della prelazione riteniamo debba essere accompagnata dal deposito di una cauzione nella misura fissata nell’ordinanza di vendita dal giudice delegato. In concreto la somma da depositare è più un acconto che una cauzione, considerato che, secondo la nostra impostazione, l’esercizio della prelazione non comporta la partecipazione ad una ulteriore gara ma configura la manifestazione di una definitiva volontà contrattuale che sostanzialmente conclude il procedimento. La dichiarazione di esercizio del diritto di prelazione contiene, infatti, una vera e propria offerta di acquisto, assoggettata alla relativa disciplina legislativa, per cui il prelazionario sarà tenuto a versare il prezzo di acquisto, scomputata la cauzione, nei modi e nei termini fissati dal giudice delegato.

Un problema di non agevole soluzione si pone qualora al prelazionario non venga fatta alcuna denunciatio e la procedura di vendita dell’azienda dia esito positivo, o qualora il giudice delegato proceda all’emanazione del decreto di trasferimento a vantaggio dell’aggiudicatario in pendenza del termine per l’esercizio del diritto di prelazione o addirittura nonostante l’avvenuto e regolare esercizio dello stesso.

Innanzitutto, occorre chiedersi, in tal caso, se l’affittuario abbia quel diritto di riscatto nei confronti del terzo acquirente che spesso segue ed assiste il diritto di prelazione 137 o se al contrario conservi solo la facoltà di agire per danni nei confronti degli organi della procedura, o verso la procedura stessa, per la mancata comunicazione 138.

Normalmente il diritto di sequela accede proprio a quelle prelazioni che, mirano a tutelare interessi generali o comunque superindividuali (prelazione agraria, prelazione c.d. urbana, prelazione dello Stato per l’acquisto di beni di particolare interesse artistico, culturale, storico, ex artt. 31,32 e 61, legge 1 giugno 1939, n. 1089), estendendosi talvolta a ipotesi riguardanti interessi marcatamente privatistici (si pensi al retratto successorio ex art. 732 cod. civ.).

137 Nelle altre ipotesi di prelazione legale (agraria, urbana, successoria, etc.) il legislatore ha sempre previsto il diritto di riscatto salvo casi particolari, quale ad esempio la prelazione del concedente nell’acquisto dei prodotti del fondo mezzadrile ex artt. 2157 c.c. e 4 legge 15 settembre 1964, n. 756, in cui l’esclusione dello ius retractionis è dovuta alla particolare natura del bene oggetto del diritto. Ciò ha portato qualcuno (L. MOSCARINI, voce Prelazione, in Enc. dir., cit., p. 981 s.) a sostenere che il diritto di riscatto sia elemento indefettibile delle prelazioni legali. E così, si è riconosciuto al prelazionario il diritto di riscatto dell’azienda venduta nell’ambito di procedure concorsuali con riferimento alla prelazione ex art. 14 legge 27 febbraio 1985 n. 49 (cfr. A. PANDOLFO, Nuove leggi civili

commentate, cit., p. 522). 138 Non può escludersi, in casi specifici, una responsabilità in proprio del giudice delegato o del curatore qualora se ne ravvisino gli estremi. La Cassazione (13 gennaio 1981, n. 295, in Foro it., 1981, I, p. 689) ha ritenuto ammissibile il ricorso per Cass., ex art. 111 Cost., contro il decreto del tribunale fallimentare di rigetto del reclamo avverso l’ordinanza del giudice delegato che, disponendo la vendita di un immobile, negava al reclamante, conduttore dell’immobile in questione, il diritto alla prelazione nell’acquisto invocato ai sensi dell’art. 38 legge 392 del 1978.

Ciò deve sicuramente farci propendere per l’inapplicabilità di questo rimedio 139. Ciò, in quanto il diritto di prelazione di cui discutiamo è sicuramente un diritto soggettivo, ma farlo accompagnare da un diritto di seguito vorrebbe dire riconoscerne automaticamente la valenza giuridica di diritto reale e cioè di diritto che può essere fatto valere non solo verso la procedura ma erga omnes. Quanto alle prelazioni convenzionali, tende a prevalere la tesi che attribuisce loro un’efficacia obbligatoria 140 a causa dell’impossibilità per il contratto di estendere i suoi effetti oltre la sfera delle parti contraenti, ancorchè non mancano voci che vanno nel senso opposto 141. Al contrario è abbastanza diffusa l’opinione che la prelazione legale abbia sempre effetti reali, anche se a nostro parere tale opinione deriva, non da un’attenta valutazione della struttura e natura della fattispecie, ma proprio dal fatto che alle prelazioni legali è quasi sempre collegato ex lege un diritto di seguito 142. La conferma di questa impressione è data dalla disposizione di cui all’art. 69, legge 27 luglio 1978, n. 392, ove è prevista la prelazione del conduttore per la conclusione di un successivo contratto di locazione. Ebbene in caso di violazione di tale prelazione legale, il conduttore può soltanto chiedere un particolare tipo di risarcimento dei danni rappresentato da un compenso per la perdita dell’avviamento commerciale. La scelta del legislatore di non riconoscere all’affittuario il diritto di riscattare l’azienda in caso di mancata comunicazione, attribuendogli solo una tutela obbligatoria delle proprie ragioni, deriva, a nostro parere, dalla particolarissima natura del soggetto tenuto ad operare la denuntiatio, rappresentato da un ufficio giudiziario portatore di interessi pubblici.

11. Sul piano degli effetti della vendita fallimentare dell’azienda, in passato si è sostenuto

che dando luogo il procedimento concorsuale a trasferimenti di carattere coattivo, non dovrebbe soffrire l’assoggettamento a disposizioni dettate per la circolazione negoziale 143, in quanto solo la cessione volontaria è fondata su un atto di disposizione da parte del titolare del diritto

139 Nello stesso senso M. FERRO, Problemi e casi nelle vendite mobiliari ed immobiliari, in Dir. fall.,1999,I, p. 466. 140 In dottrina A. CATRICALÀ, Funzioni e tecniche della prelazione convenzionale, in Riv. dir. civ., 1978, II, p. 546 s.; SANTORO PASSARELLI, Struttura e funzione della prelazione convenzionale, in Riv. trim dir. proc. civ., 1981, p. 697. Analogamente in giurisprudenza cfr. Cass. 13 maggio 1982, n. 3009; Cass. 30 marzo 1963 n. 794; Cass. 26 aprile 1968 n. 1270. In particolare Cass., 1 aprile 1987, n. 3124 ha affermato, in tema di prelazione convenzionale immobiliare, che a differenza del contratto preliminare, che comporta l’immediata e definitiva assunzione dell’obbligazione di prestare il consenso per il contratto definitivo, il patto di prelazione genera soltanto obbligazioni della controparte: una negativa consistente nel non vendere ad altri se non dopo aver offerto la prelazione, e l’altra positiva di vendere, ove si assuma la decisione in tal senso, al titolare del diritto di prelazione che abbia manifestato intenzione di acquistare a seguito di comunicazione. 141 La Cassazione (26 febbraio 1988, n. 2045; e 30 marzo 1963, n. 794) ha addirittura affermato che al patto convenzionale di prelazione può darsi esecuzione in forma specifica a norma dell’art. 2932 c.c. In un’altra pronuncia (20 giugno 1986, n. 4116), invece, la Suprema Corte, pur sostenendo che il patto di prelazione realizza un contratto preliminare unilaterale sospensivamente condizionato, ha affermato che l’inadempimento da parte del promittente dell’obbligo di preferire un determinato contraente non autorizza il titolare del diritto di prelazione ad ottenere l’esecuzione in forma specifica ai sensi del 2932, c.c.,. Sulla realtà della prelazione convenzionale si veda pure G. COTTINO, Del contratto estimatorio. Della somministrazione, in Commentario del cod. civ. a cura di Scialoja-

Branca, Bologna Roma, 1970. 142 Il carattere della realità nei confronti di terzi e del connesso diritto di retratto può trovare fondamento, secondo una certa impostazione, solo nella legge a causa dell’impossibilità per i contratti di estendere i loro effetti oltre la sfera delle parti contraenti (art. 1372, c.c.) e la differenza tra le due prelazioni andrebbe appunto colta nell’assorbente circostanza che in quella volontaria la tutela è data esclusivamente nei confronti del preferito, mentre in quella legale, l’esercizio del potere di retratto, incide anche sulla posizione del terzo acquirente (G. FURGIUELE, Contributo allo studio delle prelazioni legali, cit., p. 95). 143 In tal senso G. RAGUSA MAGGIORE, Diritto fallimentare, II, Napoli, 1974, p. 662; A. COLASURDO, Vendita

dell’azienda in sede fallimentare e diritto di credito del prestatore d’opera, in Mass. giur. lav., 1970, p. 166. Al contrario, D. PETTITI, op. cit., p. 105, ritiene che la normativa dettata in tema di circolazione volontaria dell’azienda, data la sua generalità e gli interessi che tende a tutelare, deve ritenersi applicabile ad ogni fattispecie, salvo poi accertare caso per caso la specifica compatibilità con la disciplina della procedura concorsuale.

trasmesso 144. Le vendite fallimentari non essendo il risultato di un incontro di due volontà negoziali, ma di una volontà negoziale e di una disposizione coattiva, non hanno natura contrattuale 145, e vanno configurate come vendite coattive giudiziarie, anche quando sono effettuate a trattativa privata 146.

In realtà, in nessun dato positivo è ravvisabile una volontà del legislatore diretta a distinguere il tipo di circolazione dell’azienda ai fini della disciplina applicabile. Nè dalle espressioni in genere utilizzate nelle norme di cui agli artt. 2557-2560, c.c., e delle altre leggi speciali, si ravvisa una discriminazione legislativa tra cessione negoziale e cessione giudiziale, mancando qualsiasi accenno nelle diverse disposizioni all’elemento volontaristico. Peraltro, anche sul piano della natura giuridica, il trasferimento coattivo pur essendo espressione di un potere giurisdizionale, non rompe il nesso che caratterizza l’acquisto a titolo derivativo, traducendosi comunque nella trasmissione dello stesso diritto del fallito 147.

La Cassazione ha giustamente rilevato che nella vendita forzata, pur non essendo ravvisabile un incontro di consensi - tra l’offerente ed il giudice - produttivo dell’effetto traslativo, essendo l’atto di autonomia privata incompatibile con la funzione giurisdizionale, l’offerta di acquisto del partecipante alla gara costituisce pur sempre il presupposto negoziale dell’atto giurisdizionale di vendita. E proprio tale elemento negoziale comporta, secondo i giudici di legittimità, l’applicabilità delle norme del contratto di vendita compatibili con la natura dell’espropriazione forzata 148.

Si tratta dunque di verificare la compatibilità con la liquidazione fallimentare delle norme dettate dal legislatore specie in tema di circolazione dei crediti, debiti e contratti aziendali sinallagmatici, partendo dal presupposto che tali rapporti non possono essere configurati come beni dell’azienda e che il loro contestuale trasferimento è solo un effetto naturale della fattispecie, fatte salve ipotesi eccezionali in cui taluni contratti sono funzionalmente inscindibili dal complesso produttivo.

Innanzitutto, è da ritenere applicabile alla liquidazione concorsuale l’art. 2558, c.c, nei limiti, per le ragioni e con gli effetti già ampiamente descritti per l’affitto.

Passando al tema dei crediti, l’art. 2559, c.c., dispone che “la cessione dei crediti relativi all’azienda ceduta, anche in mancanza di notifica al debitore e di sua accettazione, ha effetto nei confronti dei terzi, dal momento della iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese. Tuttavia il debitore ceduto è liberato se paga in buona fede all’alienante”. La norma, che riguarda i crediti di natura extracontrattuale, ovvero derivanti da contratti a prestazioni corrispettive già eseguite da una delle parti o a prestazioni unilaterali, è compatibile con la disciplina della liquidazione fallimentare, anche per quanto riguarda il regime pubblicitario cui è connessa l’efficacia della cessione nei confronti dei terzi 149. 144 Al riguardo: R. NICOLÒ, Successione nei diritti, in Noviss. dig. Ital., vol. XVIII, Torino, 1971, p.10; S. PUGLIATTI, Teoria dei trasferimenti coattivi, Messina, 1931, p. 152 s.; G.C. RIVOLTA, L’affitto e la vendita

dell’azienda nel fallimento, cit. p. 131 s.; G.E. COLOMBO, L’azienda e il mercato, cit., p. 294; A. FONTANA, La

successione dell’imprenditore nel rapporto di lavoro, cit., p. 133 s., per il quale solo mediante un’interpretazione atecnica e meramente descrittiva delle espressioni acquirente ed alienante si può riferirle sia ai trasferimenti volontari che a quelli coattivi. 145 Cfr. tra gli altri A. BONSIGNORI, Liquidazione dell’attivo, cit., p. 70; ed in giurisprudenza Cass. 5 aprile 1977, n. 1299, in Giust. civ., 1977, I, p. 1169 con nota di ALVINO, Effetto traslativo della vendita forzata e questioni relative. 146 S. SATTA, L’esecuzione forzata, cit., p. 75. 147 In tal senso Cass. 9 novembre 1982, n. 5888, in Fallimento, 1983, p. 485; Cass. 5 aprile 1977, n. 1299, in Giust.

civ., 1977, I, p. 1169; Cass. 21 luglio 1969 n. 2724, in Mass. Giust. civ., 1969, p. 1401. 148 Cass. 17 febbraio 1995, n. 1730, in Fallimento, 1995, p. 1013, con nota di A. PATTI, Effetto traslativo nella

vendita immobiliare ed obbligo di custodia. Al riguardo cfr. A. SILVESTRINI, La liquidazione dell’attivo, in Dir. fall., 1997, I, p. 903 s. 149 D’altra parte è ammissibile anche la vendita fallimentare in massa dei crediti, in quanto se per i mobili, tra cui vanno annoverati i crediti a norma dell’art. 813, c.c., è prevista dalla legge la vendita in massa, la stessa non può non estendersi anche ai crediti, se non negando in ogni caso, e non se ne vede ragione, all’Ufficio fallimentare il potere

In ogni caso, specie in sede fallimentare, si deve ritenere che il passaggio dei crediti all’acquirente dell’azienda non avvenga automaticamente 150, ma solo in virtù di un apposito patto con il quale le parti possono anche limitare la cessione ad alcuni crediti soltanto, singolarmente individuati o per categorie, e precisare se la cessione avviene pro soluto oppure pro solvendo, operando in assenza di specifica previsione l’art. 1267, c.c., 151.

Ed infatti il sesto comma del nuovo art. 105, l. fall., dispone che “la cessione dei crediti relativi alle aziende cedute, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione, ha effetto, nei confronti dei terzi, dal momento dell’iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese. Tuttavia il debitore ceduto è liberato se paga in buona fede al cedente”.

La questione più rilevante, ai fini della liquidazione concorsuale, resta (o meglio restava) però quella della compatibilità dell’art. 2560, c.c., , che regola in via generale 152 la sorte dei di alienare i crediti (G. BOZZA, op. cit., p. 31). Originariamente in senso contrario A. BONSIGNORI (Profilo

sistematico etc., cit., p. 149) che negava l’ammissibilità della vendita in massa sulla base della formulazione dell’art. 799 del vecchio codice di commercio che prevedeva espressamente la fattispecie, e l’ammetteva solo per singoli crediti; successivamente l’autore ha cambiato opinione (La liquidazione dell’attivo, cit., p. 109 nota 2). In realtà, la mancata menzione dei crediti nel secondo comma dell’art. 106, l. fall., a differenza dell’art. 799, del vecchio codice di commercio, è irrilevante, anzi la menzione sarebbe stata superflua, sia perchè la norma di cui all’art. 106, comma 2, fa riferimento alle attività mobiliari, utilizzando una espressione più ampia di beni mobili e, perciò, ancor più significativamente indicativa della comprensione dei crediti, sia perchè l’attuale sistema della vendita in massa, non richiedendo più, come nel vigore del codice di commercio, il preventivo tentativo di esperimenti infruttuosi per l’esazione dei crediti e di vendita singolare per gli altri beni, non ha necessità di menzionare i crediti accanto ai beni mobili (G.C. RIVOLTA, L’affitto e la vendita, cit., p. 64). 150 La giurisprudenza prevalente, invece, sul presupposto non condivisibile, che i crediti fanno parte dell’azienda sostiene che la cessione degli stessi sia automatica con la possibilità di pattuirne l’esclusione (cfr. tra le altre, Cass. 11 luglio 1973, n. 2031, in Giust. civ. mass., 1973, p. 1081; Cass. 22 gennaio 1972, n. 171, in Giur. it., 1973, I, 1, c. 262; Cass. 9 dicembre 1974, n. 4140, in Giust. civ. rep., voce azienda, n. 11; Cass. 4 marzo 1978, n. 707, in Giust.

civ., 1969, I, p. 156 ed in Giur. it., 1969 I, 1, c. 116; Cass. 25 luglio 1978, n. 3723, in Giust. civ. mass., 1978, p. 1534; Cass. 15 febbraio 1979, n. 1001, in Giust. civ. rep., 1979, voce azienda, n. 29; Cass. 5 maggio 1995, n. 4873, in Mass. giur. lav., 1995, p. 731). Nello stesso senso in dottrina (F. FERRARA JR., op. cit., p. 130; G.C. RIVOLTA, op.

cit., p. 30; M. GHIDINI, La disciplina giuridica dell’impresa, cit., p. 182; F. GALGANO, L’imprenditore cit., p. 85) ma sui diversi presupposti della contrapposizione tra il primo e secondo comma dell’art. 2559, dell’equiparazione della notifica della cessione dei crediti all’iscrizione nel registro delle imprese del trasferimento dell’azienda, dell’esigenza di attribuire all’acquirente una contropartita dei debiti aziendali di cui egli diviene corresponsabile e della connessione economica dei crediti all’azienda. A tali argomentazioni altra parte della dottrina ha opposto: che il termine cessione usato nel primo comma dell’art. 2559, c.c., è equivoco in quanto oltre ad indicare la fattispecie causante il trasferimento, può essere riferito anche al trasferimento come effetto giuridico; che la prevista iscrizione del trasferimento, riguardando l’atto traslativo e le sue clausole e non il fatto del trasferimento, richiede per il passaggio dei crediti l’iscrizione di un contratto traslativo con la clausola cessione dei crediti; che la ratio della norma non è costituita dall’esigenza di una contropartita per i debiti aziendali ma dall’esigenza di semplificare le formalità normalmente necessarie per rendere la cessione efficace di fronte a terzi e che la connessione economica dei crediti dell’azienda è meramente eventuale (cfr. tra gli altri D. PETTITI, op. cit., p. 78; A. DE MARTINI, L’usufrutto di azienda cit., p. 113; G.U. TEDESCHI, op. cit., p. 51; G.E. COLOMBO, op. cit., p. 117 s.). 151 G. BOZZA, op. cit., p. 105. In mancanza di pattuizione perciò i crediti rimangono all’alienante, ad eccezione di quelli aventi ad oggetto il godimento futuro di beni, di cui l’alienante abbia già pagato l’intero canone, o ai crediti di consegna di un impianto già pagato, o aventi ad oggetto la prestazione di beni essenziali all’organizzazione aziendale che non avrebbero alcuna utilità per l’alienante. 152 La sorte dei debiti aziendali, a seguito di trasferimento, è regolata oltre che dall’art. 2560 c.c., da disposizioni particolari riguardanti: i debiti di lavoro (art. 2112 c.c.) di cui parleremo diffusamente nei paragrafi successivi, i debiti previdenziali (art. 54 legge 7 marzo 1938) ed i debiti tributari. In particolare per questi ultimi esiste una disciplina, introdotta dall’art.66 del D.p.r. 29 settembre 1973 n. 602 di riforma del sistema tributario, diversa da quella generale. Il legislatore ha infatti escluso, in caso di trasferimento d’azienda, la responsabilità solidale del cessionario, sancendo solo una responsabilità oggettiva sui beni mobili ai fini del recupero dell’Irpef, dell’Irpeg, dell’Ilor etc., e delle relative soprattasse, pene pecuniarie e interessi dovuti, per l’anno o l’esercizio in cui è avvenuta la cessione o per quello anteriore. Evidentemente il contenuto della norma e la sua collocazione, accompagnate alla mancanza di una disposizione che sancisce la responsabilità del cessionario, fanno dedurre che la responsabilità oggettiva si traduce in un diritto di seguito, che quindi viene meno per effetto della purgazione a seguito della vendita fallimentare. Quanto ai debiti IVA, i quali non rientrano nella citata norma, esiste una disciplina sostanzialmente analoga a quella generale prevista dall’art. 2560. Si è affermato in particolare che l’art. 66 del D.p.r.

debiti relativi all’azienda ceduta, in quanto l’applicazione di questa disposizione può incidere in modo decisivo sulla commerciabilità del complesso aziendale in sede fallimentare e sul funzionamento stesso del sistema di liquidazione speciale. Per i debiti derivanti da rapporti di lavoro subordinato, che trova una regolamentazione speciale nell’art. 2112, c.c., e nella disciplina introdotta dalla legge n. 428 del 1990, si è già detto in tema di affitto, visto che la norma si applica indifferentemente ad ogni ipotesi di circolazione 153.

L’art. 2560, c.c., sancisce, come noto, al primo comma, che l’alienante non è liberato dai debiti aziendali anteriori al trasferimento se non risulta che i creditori vi abbiano consentito, ed al secondo comma aggiunge che dei debiti aziendali, risultanti dai libri contabili obbligatori 154, risponde anche l’acquirente dell’azienda 155 creando una fattispecie di accollo ex lege a. In realtài n. 602, non prevede in presenza di circolazione di azienda, una responsabilità solidale del cessionario, ma stabilisce solo una responsabilità oggettiva, sui beni dell’azienda ceduta, per il recupero dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, nonchè relative soprattasse, pene pecuniarie e interessi dovuti, per l’anno o per l’esercizio in cui è avvenuta la cessione e per quello anteriore, da tutti i precedenti titolari se alla formazione dell’imponibile accertato nei loro confronti hanno concorso i redditi derivanti dall’azienda ceduta. L’art. 66 limita detta responsabilità alla sola parte di imposta relativa ai redditi d’impresa con la conseguenza che, per quanto concerne le ritenute d’acconto, non sussiste alcuna possibilità di agire contro il cessionario (R.M. 15/4369, 27 ottobre 1977, in Direzione Generale

Imposte; sul tema si veda G. BOZZA, op. cit., p. 119-120; G. CARAMAZZA, Gli aspetti fiscali delle vendite nelle

procedure concorsuali, in Fallimento, 1987, p. 251 s.). 153 La Corte di Appello di Milano (23 settembre 1969, in Foro it.., 1970, I, c. 2000 s.) ha affermato che il cessionario di azienda, appartenente a impresa fallita, non risponde dei debiti verso i lavoratori ai sensi dell’art. 2112, c.c., poichè altrimenti la natura giurisdizionale e definitiva dello stato passivo verrebbe alterata, visto che si dovrebbe poi riconoscergli il diritto di dedurre dal prezzo l’importo dei debiti passati a suo carico. Peraltro, ciò comporterebbe il sovvertimento del principio della statuizione definitiva del rango di prelazione, in quanto si verrebbe a riconoscere ai prestatori di lavoro un diritto alla prededuzione che le norme della sezione V, del libro VI, espressamente escludono (nello stesso senso Trib. Milano 27 giugno 1974, in Giur. it., 1976, I, 2, c. 86). Si è rilevato che l’affermazione del carattere definitivo dello stato passivo non esclude che il creditore insinuato possa agire nei confronti di un condebitore solidale in bonis, quale verrebbe ad essere l’acquirente dell’azienda. E’ presumibile che questi, in presenza di debiti di cui dovrà rispondere, decurti il prezzo dell’importo corrispondente, ma il principio della par condicio non può essere invocato in contrasto con la sua ratio, che è quella di vietare che un creditore attinga al patrimonio fallimentare in misura più ampia rispetto agli altri, allo scopo di impedire l’adempimento di una obbligazione del fallito da parte di un soggetto diverso dallo stesso. In sostanza, non si può parlare della violazione della par condicio per i creditori - tra cui tutti quelli che risultano dai libri contabili, e non solo dipendenti - che trovano soddisfazione dal terzo acquirente, ma, eventualmente, per gli altri creditori, qualora, per la decurtazione del prezzo dell’azienda, non trovassero capienza; ma questa è una questione di fatto da accertare volta per volta, che non può valere come discriminante per l’inapplicabilità, in via assoluta, dell’art. 2560, c.c., (G. BOZZA, op. cit., p. 108). 154 Pertanto, qualora le scritture non esistano o siano tenute irregolarmente, il cessionario non assume responsabilità per i debiti, visto che la volontà del legislatore è evidentemente quella di dargli certezza (A. GRAZIANI, L’impresa

etc., cit., p. 174; A. DE MARTINO, op. cit., p. 275; G.E. COLOMBO, op. cit., p. 145 s.; D. PETTITI, op. cit., p. 93, per il quale la responsabilità dell’acquirente sussisterebbe solo in caso di dimostrata malafede). La soluzione opposta renderebbe impraticabile il trasferimento, in quanto il cessionario dovrebbe assumersi l’onere di fare l’investigatore

privato col rischio comunque di non venire a conoscenza dell’esistenza di tutti debiti, di cui dovrebbe in ogni caso rispondere (per la responsabilità del cessionario per i debiti aziendali non risultanti dai libri ma dei quali si è venuti a conoscenza in altro modo, propendono: G.C. RIVOLTA, Il trasferimento etc., cit., p. 37; V. PANUCCIO, La natura

giuridica delle registrazioni contabili, Napoli, 1964, p. 98-99; G.U. TEDESCHI, op. cit., p. 831). 155 La risultanza dai libri contabili obbligatori dei debiti aziendali, al momento del trasferimento, è ritenuta dalla giurisprudenza circostanza imprescindibile della responsabilità del cessionario a norma dell’art. 2560, comma 2, c.c.,. Per la Suprema Corte l’iscrizione nei libri contabili obbligatori dell’azienda è un elemento costitutivo essenziale della responsabilità dell’acquirente dell’azienda per i debiti ad essa inerenti. Pertanto chi voglia far valere i corrispondenti crediti contro l’acquirente dell’azienda ha l’onere di provare fra gli elementi costitutivi del proprio diritto anche detta iscrizione, e se il giudice non può effettuare d’ufficio l’indagine sull’esistenza o meno dell’iscrizione medesima ben può l’ufficio rilevare il fatto che quest’ultima, quale elemento essenziale della responsabilità del convenuto, non sia stata provata (cfr. da ultima Cass. 20 giugno 1998, n. 6173, in Gius, 1998, p. 2567 s.; conformi: Cass. 20 maggio 1963, in Mass. Foro it., 1963 c. 386 s.; Cass. 29 maggio 1972, n. 1726, in Dir.

fall., 1973, II, p.80; Cass. 17 maggio 1971, n. 1454, in Giur. it., 1972, I, 1, c. 1971; Cass. 13 gennaio 1975 n. 113, in Giust. civ. mass., p.65; App. Milano 22 gennaio 1980, in Arch. civ., 1980, p. 297; Trib. Roma 26 gennaio 1980, in Giur. merito, 1981, p. 949; Trib. Napoli 29 aprile 1974, in Dir. e giur., 1976, p.769). Recentemente ha in particolare

debiti, come i crediti, non sono elementi costitutivi della res azienda e l’art. 2560, c.c., non contempla una forma di successione automatica dell’acquirente, regolando solamente gli effetti dell’evento traslativo nei confronti dei creditori.

Già prima della riforma si poteva affermare che l’art. 2560, c.c., non fosse applicabile all’alienazione fallimentare, innanzitutto per la evidente incompatibilità con la funzione della procedura ed in particolare con il tipico effetto purgativo che la vendita forzata produce. E’ chiaro che l’obiettivo perseguito dal legislatore nella liquidazione concorsuale è quello di dare all’acquirente un bene libero da ogni peso o gravame, in modo da attribuirgli non solo la disponibilità giuridica della cosa ma anche quella materiale ed effettiva 156. D’altra parte la naturale estinzione dei privilegi gravanti sul bene 157, ivi compreso il diritto di ritenzione o di pegno, conseguente alla vendita fallimentare ed il fatto che il decreto di trasferimento emesso dal giudice delegato da un lato dispone la cancellazione delle ipoteche eventualmente gravanti sull’immobile e dall’altro costituisce, ex art. 586, c.p.c., titolo esecutivo per il rilascio nei confronti del debitore o di chiunque lo occupi 158, evidenziano la chiara scelta legislativa.

In secondo luogo, l’applicazione della norma genererebbe in concreto, più che un’alterazione della par condicio creditorum, un effetto indirettamente e potenzialmente pregiudizievole per la massa. Infatti, vero è che i creditori aziendali si soddisferebbero su un patrimonio diverso da quello su cui si è aperto il concorso, ma è altrettanto certo che verosimilmente l’acquirente pagherebbe l’azienda un prezzo minore, decurtato dell’importo dei debiti trasferiti, con oggettiva alterazione delle pretese satisfattorie dei creditori non aziendali, i quali avrebbero avuto in proporzione possibilità di migliore recupero seppur in concorso con quelli aziendali. Ciò a meno che la decurtazione del prezzo dell’azienda 159 non fosse esattamente pari all’importo presumibilmente distribuibile ai creditori ceduti alla fine della procedura: ipotesi evidentemente inverosimile e concretamente realizzabile solo ex post e non certo in fase di liquidazione dell’attivo 160. Laddove poi esistessero solo creditori aziendali, l’applicazione del 2560, c.c., finirebbe col trasformare l’acquirente in un assuntore del fallimento.

Il legislatore della riforma risolve espressamente la questione sancendo che “salva diversa convenzione, è esclusa la responsabilità dell’acquirente per i debiti relativi all’esercizio delle aziende cedute, sorti prima del trasferimento” e che “il curatore può procedere altresì alla

affermato che in materia di cessione d’azienda, l’esistenza dei libri contabili, dovuta a qualsiasi ragione, compresa la loro non obbligatorietà per lo specifico tipo di impresa, rende impossibile l’elemento costitutivo della responsabilità del cessionario per i debiti relativi all’azienda e conseguentemente preclude il sorgere della medesima responsabilità (Cass. 20 febbraio 1999, n. 1429, in Gius, 1999, p. 1140; nello stesso senso Cass. 29 maggio 1972, n. 1726, in Dir.

fall., 1973, II, p. 80 e in Riv. not., 1973, I, p. 878). La Cassazione ha escluso, poi, ai fini di cui all’art. 2560 c.c., l’equiparazione dei libri e dei Registri I.v.a. ai libri e registri contabili previsti dal codice all’art. 2214, cui l’art. 2560 si riferisce (Cass. 3 marzo 1994, n. 2108, in Fisco, 1994, p. 9126, in Boll. trib. inf., 1995, p. 712). 156 Cass. 25 novembre 1959, n. 3443, in Giust. civ., 1960, I, p. 259 s.; Cass. 10 giugno 1968, n. 1787, in Dir. fall., 1968 II, p. 972 s. 157 Cass. 10 giugno 1968, n. 1787, cit., p. 973. 158 Cass. 6 maggio 1986, n. 3024, in Fallimento, 1986, p. 1207. 159 Secondo una certa impostazione il principio della par condicio verrebbe violato qualora non venisse decurtato il prezzo di acquisto e si riconoscesse all’acquirente il regresso nei confronti del fallimento per quanto sborsato per i debiti aziendali e di lavoro (G. C. RIVOLTA, op. cit., p. 134). Si è opposto che questo credito non grava sulla massa per il solo fatto che trae origine da un rapporto extraconcorsuale. Il debito della massa può sussistere per una responsabilità in ordine all’atto compiuto, ma non per gli effetti legali dello stesso, che consistono, nella fattispecie, nell’obbligo di adempiere debiti concorsuali, per cui l’acquirente che paga tali debiti non fa altro che surrogarsi, a norma dell’art. 1203, n. 3, c.c., nella posizione dell’originario creditore. 160 I pochi precedenti giurisprudenziali come visto riguardano i debiti verso i lavoratori dipendenti, i quali, tuttavia, anche per effetto dell’art. 47 della legge n. 428 del 1990, hanno una regolamentazione specifica completamente diversa. In una vecchia pronuncia della Suprema Corte si legge, però, come affermazione del tutto incidentale, che la responsabilità del cessionario dell’azienda commerciale per i debiti ad essa relativi sussiste solo nel caso di cessione mediante atto negoziale (Cass. 17 aprile 1959, n. 1145, in Dir. fall., 1959, II, p. 197).

cessione delle attività e delle passività dell’azienda o dei suoi rami, nonché di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco, esclusa comunque la responsabilità dell’alienante prevista dall’art. 2560 del codice civile” (art. 105, commi 4 e 5, l. fall.).

Quanto, infine, alla possibilità di un accollo dei debiti aziendali di tipo convenzionale, non vi sono mai state ragioni per escluderlo 161, tuttavia è evidente che si doveva trattare di accollo cumulativo, a meno che tutti i creditori interessati non acconsentano espressamente alla liberazione del fallimento 162, altrimenti si porrebbero problemi analoghi a quelli visti per l’accollo legale in ordine agli effetti per la massa. D’altra parte questa impostazione è confermata dall’art. 508, del codice di procedura civile, secondo cui l’aggiudicatario può concordare col creditore, pignoratizio o ipotecario, l’assunzione del debito con le garanzie ad esso inerenti e dall’art. 61, del R. D. 16 luglio 105, n. 646, per gli immobili gravati da ipoteca a garanzia di un mutuo fondiario, con riferimento all’esecuzione forzata.

Ed infatti l’ultimo comma dell’art. 105, l. fall., contempla espressamente che “il pagamento del prezzo può essere effettuato mediante accollo di debiti da parte dell’acquirente solo se non viene alterata la graduazione dei crediti”.

161 Per qualcuno l’accollo può riguardare solo i debiti di massa perchè solo in questo caso non vi sarebbe violazione della par condicio creditorum (G.C. RIVOLTA, op. cit., p. 137). Tuttavia, si è rilevato che ciò non è sempre vero: secondo la Cassazione infatti nell’ipotesi di concorso di creditori ipotecari e pignoratizi con crediti verso la massa ammessi in prededuzione, i primi debbono essere soddisfatti sul ricavato della vendita dei beni vincolati alla loro garanzia, detratte le spese per la loro conservazione e amministrazione, con precedenza rispetto ai secondi (Cass. 19 ottobre 1977, n. 4474, in Dir. fall., 1978, II, p. 278). Di contro non è sempre vero che si abbia violazione della par

condicio con la cessione dei crediti concorsuali ipotecari o pignoratizi, dato che, per il combinato disposto degli articoli 2748 e 2777, c.c., i primi sono posposti solo ai privilegi speciali sugli immobili ed i secondi solo ai privilegi per spese di giustizia. Per cui la cessione dei debiti, con espressa pattuizione, è possibile ogni qualvolta l’attivo fallimentare faccia, con sicurezza, ritenere che l’accollo da parte dell’acquirente non pregiudichi i diritti dei creditori di grado anteriore (così G. BOZZA, op. cit., p. 113).

(162) Una parte della dottrina sostiene che il consenso dei creditori debba essere riferito al trasferimento dell’azienda e non alla specifica liberazione rispetto a ciascun debito (G.E. COLOMBO, op. cit., p. 156; G.C. RIVOLTA, op. cit., p. 36 s.; G. AULETTA, Azienda cit., p. 66).