ESARE NGELINI ARLO INATIINATI A...

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Numero novantuno Novembre 2013 Mensile di cultura e conversazione civile diretto da Salvatore Veca Direttore responsabile Sisto Capra DISTRIBUZIONE GRATUITA www.socratealcaffe.it la Feltrinelli a Pavia, in via XX Settembre 21. Orari: Lunedì - sabato 9:00-19:30 Domenica 10:00-13:00 / 15:30-19:30 Made in Italy In Bielorussia Scarpe d’artista? GIORGIO FORNI alle pagine 6-7 FONDAZIONE SARTIRANA ARTE GIOCARE per prevenire il declino cognitivo S. PAZZI - V. FALLERI C. TASSORELLI E. CAVALLINI alle pagine 2-3 Patrie e radici di GIANNI BRERA SILVIO BERETTA alle pagine 4-5 uscito in questi giorni un mio libretto che si chiama “Un’idea di laicità”. L’ha pubblicato il Mulino. Al vecchio Socrate ho solo fatto un cenno alla faccenda, perché mi ha subito detto che di questioni come la laicità lui proprio non se ne intende. Ha già avuto i suoi bei problemi con gli déi nella polis. Ora, come tutte le idee importanti di valore politico e morale, l’idea di laicità è vaga ed è esposta a una essenziale varietà di interpretazioni. Un concetto di laicità, più concezioni della stessa. E la vaghezza, anche nel caso dell’idea di laicità, non ne riduce l’importanza. Ma un modo per rendere le nostre idee almeno un po’ più chiare può essere quello di lavorare a una singola interpretazione della nostra idea preziosa ed elusiva. L’interpretazione che propongo nel mio libretto è specificamente politica. Ed è basata sulla connessione fra la virtù della laicità e la forma di vita democratica, le sue istituzioni e le sue procedure. Più precisamente, sulla connessione fra la virtù pubblica della laicità e la natura distintiva della eguale libertà democratica di cittadinanza. Può essere interessante ricordare che, almeno nella mia prospettiva, (Continua a pagina 12) L’EDITORIALE Un’idea “politica” di laicità di Salvatore Veca «Amici di Socrate al Caffè, stateci vicini in un momento di difficoltà economica». Salvatore Veca e Sisto Capra, fondatori del ciclo di incontri che ha compiuto dieci anni di vita e del giornale, lanciano un appello per la salvezza del “Giornale di So- crate al caffè”, il mensile a distribu- zione gratuita da loro diretto, il cui primo numero è uscito nel gennaio del 2003. Nell’incontro di domenica 27 ottobre alla libreria Feltrinelli di Pavia è stata lanciata una sottoscri- zione. Il giornale di Socrate al caffè mira a coprire il budget per il costo della stampa nel 2014. Pubblicare i dieci numeri annui del giornale co- sta complessivamente 5.000 euro, per le sole spese di stampa, poiché collaboratori e direttori non perce- piscono alcun compenso. Il contributo potrà essere versato direttamente in contanti o al conto corrente bancario Iban IT81F0504811302000000044013 intestato a Socrate al Caffè. In questi primi giorni hanno aderito al nostro appello gli amici: Amici dei Musei e dei Monumenti Pavesi, Silvio Beretta, Paola Bernardi, Giuseppe Bernuzzi, Luigi Casali, Giovanni Rodolfo Cassani, Sandro Coda, Paolo Corticelli, Luigi De Carli, Domenico Gorgoglione, Luisa Lavelli, Pier Giuseppe Milanesi, Mario Mocchi, Paolo Piazzardi, Paolo Ramat, Silvano Riva. IN QUESTO NUMERO APPELLO PPELLO PPELLO AGLI AGLI AGLI AMICI AMICI AMICI Sottoscrizione Sottoscrizione Sottoscrizione per il nostro per il nostro per il nostro giornale giornale giornale C ESARE ESARE A NGELINI NGELINI - C ARLO ARLO L INATI INATI CARTEGGIO CARTEGGIO 1918 1918- 1947 1947 Renzo Cremante Nicoletta Trotta DA PAGINA 8 A PAGINA 12

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Numero novantuno – Novembre 2013

Mensile di cultura e conversazione civile diretto da Salvatore Veca

Direttore responsabile Sisto Capra

DISTRIBUZIONE GRATUITA

www.socratealcaffe.it

la Feltrinelli a Pavia,

in via XX Settembre 21.

Orari: Lunedì - sabato 9:00-19:30 Domenica 10:00-13:00 / 15:30-19:30

Made in Italy In Bielorussia

Scarpe d’artista?

GIORGIO FORNI alle pagine 6-7

FONDAZIONE

SARTIRANA

ARTE

GIOCARE per prevenire

il declino cognitivo

S. PAZZI - V. FALLERI

C. TASSORELLI

E. CAVALLINI

alle pagine 2-3

Patrie e radici di

GIANNI BRERA

SILVIO BERETTA

alle pagine 4-5

uscito in questi giorni

un mio

libretto che si

chiama

“Un’idea di laicità”. L’ha

pubblicato il

Mulino. Al

vecchio Socrate ho solo fatto

un cenno alla faccenda,

perché mi ha subito detto che di questioni come la laicità lui

proprio non se ne intende.

Ha già avuto i suoi bei

problemi con gli déi nella

polis. Ora, come tutte le idee

importanti di valore politico e morale, l’idea di laicità è vaga

ed è esposta a una essenziale

varietà di interpretazioni.

Un concetto di laicità, più

concezioni della stessa. E la vaghezza, anche nel caso

dell’idea di laicità, non ne

riduce l’importanza. Ma un

modo per rendere le nostre

idee almeno un po’ più chiare

può essere quello di lavorare a una singola interpretazione

della nostra idea preziosa ed

elusiva. L’interpretazione che

propongo nel mio libretto è

specificamente politica. Ed è

basata sulla connessione fra la virtù della laicità e la forma

di vita democratica, le sue

istituzioni e le sue procedure.

Più precisamente, sulla

connessione fra la virtù pubblica della laicità e la

natura distintiva della eguale

libertà democratica di

cittadinanza. Può essere

interessante ricordare che,

almeno nella mia prospettiva, (Continua a pagina 12)

L’EDITORIALE

Un’idea

“politica”

di laicità

di Salvatore Veca «Amici di Socrate al Caffè, stateci vicini in un momento di difficoltà economica». Salvatore Veca e Sisto Capra, fondatori del ciclo di incontri che ha compiuto dieci anni di vita e del giornale, lanciano un appello per la salvezza del “Giornale di So-crate al caffè”, il mensile a distribu-zione gratuita da loro diretto, il cui primo numero è uscito nel gennaio del 2003. Nell’incontro di domenica 27 ottobre alla libreria Feltrinelli di Pavia è stata lanciata una sottoscri-zione. Il giornale di Socrate al caffè mira a coprire il budget per il costo della stampa nel 2014. Pubblicare i dieci numeri annui del giornale co-sta complessivamente 5.000 euro, per le sole spese di stampa, poiché collaboratori e direttori non perce-piscono alcun compenso.

Il contributo potrà essere versato direttamente

in contanti o al conto corrente bancario Iban

IT81F0504811302000000044013 intestato a Socrate al Caffè.

In questi primi giorni

hanno aderito al nostro appello gli amici:

Amici dei Musei

e dei Monumenti Pavesi, Silvio Beretta, Paola Bernardi,

Giuseppe Bernuzzi, Luigi Casali, Giovanni Rodolfo Cassani,

Sandro Coda, Paolo Corticelli, Luigi De Carli,

Domenico Gorgoglione, Luisa Lavelli,

Pier Giuseppe Milanesi, Mario Mocchi, Paolo Piazzardi,

Paolo Ramat, Silvano Riva.

IN QUESTO NUMERO

AAAPPELLOPPELLOPPELLO AGLIAGLIAGLI AMICIAMICIAMICI Sottoscrizione Sottoscrizione Sottoscrizione per il nostro per il nostro per il nostro

giornalegiornalegiornale

CCESAREESARE AANGELININGELINI -- CCARLOARLO LLINATIINATI

CARTEGGIOCARTEGGIO 19181918--19471947

Renzo Cremante Nicoletta Trotta

DA PAGINA 8 A PAGINA 12

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Pagina 2 Numero novantuno - Novembre 2013

Ecco dove viene distribuito gratuitamente Il giornale di Socrate al caffè

Il giornale di Socrate al caffè Direttore Salvatore Veca

Direttore responsabile Sisto Capra Editore

Associazione “Il giornale di Socrate al caffè” (iscritta nel Registro Provinciale di Pavia delle Associazioni senza scopo di lucro, sezione culturale)

Direzione e redazione via Dossi 10 - 27100 Pavia 0382 571229 - 339 8672071 - 339 8009549 [email protected]

Redazione: Mirella Caponi (editing e videoimpaginazione), Pinca-Manidi Pavia Fotografia Stampa: Tipografia Pime Editrice srl via Vigentina 136a, Pavia

Autorizzazione Tribunale di Pavia n. 576B del Registro delle Stampe Periodiche in data 12 dicembre 2002

I PUNTI SOCRATE

ome può un

gioco essere

definito serio? Noi

tutti alla

parola

“gioco”

tendiamo ad

associare solo la sua

componente

ludica e di

intrattenimento, tralasciando

l’esistenza di un obiettivo più generale e importante.

Riuscire ad apprendere

attraverso il gioco non è

soltanto un sogno, ma

l’obiettivo dichiarato dei Serious Games, altrimenti

noti come giochi seri.

I Serious Games sono giochi

elettronici progettati per scopi

diversi dal puro divertimento,

perché simulano esperienze di vita reale difficilmente

riproducibili in altro modo. Il

fine è quello di guidare il

giocatore (player) all’apprendimento di

determinate competenze o alla modifica dei propri

comportamenti quotidiani

imparando con gli esercizi

(learning by doing). Questa

metodologia fa sì che l’utente

si senta protagonista del percorso formativo,

aumentandone il

coinvolgimento.

D’altro canto, “Serious game is a serious business”, come

affermato da Ben Sawyer, co-fondatore della Serious Game Initiative e considerato il

padre di questa tipologia di

giochi. Da una ricerca GFK

commissionata da AESVI

(Associazione Editori Sviluppatori Videogiochi

Italiani) è emerso che nel

2011 il nostro Paese ha

superato la Spagna,

piazzandosi al quarto posto

tra i mercati europei e avanzando di una posizione

rispetto all’anno precedente.

Il valore del mercato italiano è

pari a 993 milioni di Euro.

Nel 2006, il valore del mercato globale dei

videogiochi era pari a 20

miliardi di euro e all’interno

di questo settore i Serious Games costituivano una

piccola nicchia di valore pari

a 10 milioni di euro. Il rapporto tra valore dei giochi

seri e mercato totale dei

videogiochi risultava un

esiguo 0,05%. Oggi,

nonostante la crisi, il giro

d’affari è notevolmente

cresciuto e si stima che il mercato dei Serious Game valga oltre un miliardo di

euro e costituisca circa il 2%

di tutto il comparto

videogames. L’ipotesi più

verosimile è che questo rapporto cresca fino al 3% nel

2015, per un ammontare in

valore assoluto che tenderà a

superare i due miliardi e

mezzo di euro.

I campi di applicazione dei

Serious Games sono

moltissimi: il primo, anche a

livello storico, è quello

militare. Questi giochi

nascono, infatti, come strumento di addestramento

per i soldati prima delle

missioni, per istruirli sui

pericoli in cui avrebbero

potuto incorrere e insegnare loro come reagire.

Questa particolare tipologia di

giochi può essere usata anche

in ambito scolastico-universitario, così come in

ambito aziendale. A tal scopo,

i Serious Games vengono

utilizzati come strumento di

formazione dei dipendenti per

le competenze più varie: dall’aumento delle vendite

incrociate alla gestione delle

obiezioni a una miglior

comprensione delle esigenze

della clientela. La formazione

aziendale affrontata con questi strumenti presenta

notevoli vantaggi, soprattutto

in termini di costi (di

assunzione del personale che

eroghi la formazione) e di tempo (perché i corsi possono

essere seguiti comodamente

alla propria postazione).

Recentemente, i Serious Games sono stati utilizzati

anche per attività di

marketing: alcune tra le più

famose multinazionali, quali

L’Oréal e Mc Donald’s, li

hanno utilizzati rispettivamente per

selezionare e inserire nel

proprio organico i migliori

talenti e per migliorare la

propria immagine aziendale

attraverso la comprensione dei processi produttivi.

Ultimo ma non ultimo, i

giochi seri vengono utilizzati

anche nel settore salute e benessere. Gli scopi sono

molteplici: dai classici esercizi

di fitness che tutti

conosciamo grazie alla Wii al

miglioramento delle abitudini

alimentari fino ad arrivare a tematiche più complesse. Tra

queste vi è sicuramente la

prevenzione del decadimento

cognitivo lieve (conosciuto

anche come Mild Cognitive Impairment - MCI) e il

trattamento della demenza

nell’anziano.

È proprio in questo contesto

che si inserisce la piattaforma

Smart Aging, sviluppata

nell’ambito di un progetto finanziato dal MIUR dal

Consorzio di Bioingegneria e

Informatica Medica (CBIM) di

Pavia, in collaborazione con

due partner pavesi, ossia l’IRCCS Fondazione Istituto

Neurologico Nazionale C.

Mondino e l’Università degli

Studi di Pavia, Dipartimento

di Scienze del Sistema

Nervoso e del Comportamento, e al CREB -

Centre de Recerca en

Enginyeria Biomédica -

Universidad Politécnica de

Catalunya di Barcellona. Il progetto Smart Aging

contribuisce inoltre alla

European Innovation Partnership on Active and Healthy Ageing (VEDI BOX

NELLA PAGINA ACCANTO). La piattaforma Smart Aging è

stata progettata come un

ambiente di realtà virtuale in

3D basato su Serious Games per la diagnosi precoce e il

self-training di lievi disturbi

cognitivi, in grado di implementare test

neuropsicologici di uso

comune, scientificamente

validati. Il vantaggio è che

rispetto a quelli tradizionali su carta, questi test sono

notevolmente semplificati e

costituiscono uno strumento

di screening più amichevole e

più motivante. In aggiunta,

questo tipo di approccio terapeutico, accessibile per

via telematica, favorisce il

rapido trasferimento nella vita

reale delle competenze

acquisite, permettendo facilità di monitoraggio, controllo e

documentazione degli effetti

del trattamento, ripetizioni

infinite di esercizi,

trasferibilità su larga scala,

contribuendo allo sviluppo di una nuova tipologia di servizi

di e-sanità che rendano

fruibili, via network,

conoscenze ed expertise

cliniche.

Il target del progetto è la

popolazione over 50 che

possa essere considerata a

rischio aumentato di

sviluppare un quadro di demenza franca.

L’ambiente 3D è composto da

un loft, che racchiude in uno

spazio ridotto gli elementi di

base di interazione di un

ambiente domestico: un (Continua a pagina 3)

di Stefania Pazzi, Valentina Falleri - CBIM

Cristina Tassorelli - IRCCS Istituto Mondino Elena Cavallini - Università di Pavia

per prevenire il declino cognitivo

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Novembre 2013 - Numero novantuno Pagina 3

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angolo cottura, una camera

da letto e un angolo soggiorno (FOTO NELL’ALTRA PAGINA).

La navigazione avviene in

prima persona, ossia la

posizione del giocatore

all’interno dell’ambiente è associata a una telecamera,

indirizzata dal mouse.

All’utente viene quindi

richiesto di eseguire compiti

correlati alle attività quotidiane. I compiti (task)

della piattaforma Smart Aging

sono stati progettati per

valutare diverse funzioni

cognitive: funzioni esecutive (ragionamento e

pianificazione), attenzione

(selettiva e visiva), memoria (a

breve e lungo termine,

prospettica), orientamento.

Ad oggi, i task realizzati sono

cinque: nel primo gioco

l’utente deve trovare una serie

di oggetti all’interno della

cucina, al fine di valutarne la memoria, l’orientamento

spaziale e l’attenzione. Gli

stessi oggetti dovranno poi

essere ritrovati in altri due

giochi, per valutarne la

memoria a lungo termine. Un altro gioco prevede che

l’utente accenda la radio,

innaffi i fiori e schiacci la

barra spaziatrice ogni volta

che alla radio sente la parola “sole”. L’obiettivo è quello di

valutare la capacità di

pianificazione e l’attenzione

dell’utente. Infine, all’utente

viene richiesto di comporre

un numero di telefono cercandolo prima nella

rubrica e successivamente di

accendere la TV: l’obiettivo è

quello di valutarne

l’attenzione e la memoria a

breve e lungo termine.

Un Indice di Valutazione

viene calcolato all’esecuzione

del compito, considerando

come parametri il numero di azioni corrette, il numero di

errori, le omissioni, il tempo

necessario per

completare il

compito, il numero

di selezioni con il mouse e infine la

distanza percorsa

con il mouse. Il

punteggio del Serious Game

viene confrontato

con i test

neuropsicologici

tradizionali al fine

di convalidare la piattaforma Smart Aging come

strumento di

screening su larga

scala per la

valutazione pre-

sintomatica e la diagnosi precoce

di disturbi

cognitivi.

La validazione del

sistema è già stata

avviata: 1000 persone di età

compresa tra i 50

e i 60 anni sono in fase di

valutazione per la diagnosi

precoce di un lieve decadimento cognitivo. I

soggetti con decadimento

cognitivo confermato e/o

demenza neurodegenerativa

rappresenteranno il secondo

gruppo target. Una volta convalidata, la piattaforma

Smart Aging costituirà un

potente strumento di

screening per la diagnosi

precoce dei disturbi cognitivi

su larga scala. Del resto, numerosi studi nel

tempo hanno dimostrato che

l’allenamento della memoria

basata sulla realtà virtuale

fornisce risultati promettenti nella prevenzione del declino

della memoria negli anziani.

In particolare, un training

cognitivo basato sui

videogiochi è efficace nel

ridurre il declino cognitivo nei pazienti con Malattia di

Alzheimer. In accordo con il

recente articolo “Games to do you good” comparso sulla

famosa rivista Nature, “i

neuro-scienziati dovrebbero

contribuire a sviluppare

videogiochi interessanti che

stimolino le funzioni cerebrali

e migliorino il benessere”.

Suonano perciò quasi

profetiche le parole di George

Bernard Shaw che in tempi

non sospetti affermò: L’uomo non smette di giocare perché invecchia ma invecchia perché smette di giocare”.

(Continua da pagina 2)

Il Consorzio di Bioingegneria e Informa-tica Medica (CBIM) è un consorzio no-profit di ricerca fondato nel 1992 dall'Università di Pavia e dagli IRCCS pavesi Fondazione Policlinico San Mat-teo, Fondazione S. Maugeri Clinica del Lavoro e della Riabilitazione, Fondazio-ne “Istituto Neurologico Nazionale C. Mondino”, cui partecipano l’IRCCS O-spedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma e l’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia. Il CBIM opera dal

1993 nella progettazione, sperimenta-zione e validazione di sistemi ICT inno-vativi in sanità. CBIM ha partecipato e coordinato Pro-getti Europei relativamente allo svilup-po di servizi e-health nei FP IV-VI M2DM, Homey, MyHeart e nel FP VII COMOESTAS, coordinato dal Mondino. CBIM è partner del Ministero della Sa-lute e del Consortium Garr per la ge-stione del Sistema Informativo Nazio-nale della Ricerca Biomedica.

Il progetto Smart Aging partecipa al-la European Innovation Partnership (EIP) on Active and Healthy Ageing (AHA), un progetto pilota della Com-missione Europea che mira all’obiettivo ambizioso di aumentare di due anni la vita me-dia in buo-na salute degli euro-pei entro il 2020. A tal fine si p r o p o n e di: miglio-rare la sa-lute e la qualità del-la vita (in particolare delle per-sone anziane), garantire la sostenibi-lità ed efficienza dei sistemi sanitari e assistenziali nel lungo periodo e mi-gliorare la competitività del compar-to europeo con attività economiche e un'espansione ai nuovi mercati. La partnership prevede la collabora-zione tra la Commissione europea, i paesi dell'UE, le regioni, le aziende del settore, gli operatori sanitari e so-ciali e le organizzazioni che rappre-

sentano gli anziani e i pazienti. EIP, la prima Alleanza sorta nell’ambito del programma strategico comunitario Horizon 2020, non si pre-figura come un nuovo programma o schema di finanziamento e non cerca

di sostituire o duplicare la funzione dei pro-grammi e delle inizia-tive esisten-ti. Al contra-rio, essa in-tende crea-re sinergie invitando i programmi esistenti a tenere in

considerazione la prospettiva della domanda svi luppata dal la partnership. Smart Aging è inserito in questo pro-getto attraverso due gruppi d’azione: il gruppo d’azione A3 “Prevenzione e diagnosi precoce della fragilità e del declino funzionale, sia fisico che co-gnitivo, nelle persone anziane” e il gruppo d’azione D4 “Innovazione per edifici, città e ambienti age-friendly”.

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Pagina 4 Numero novantuno - Novembre 2013

uando

l’amico e

collega Angelo Stella

mi ha chiesto

di intervenire

alla

presentazione

di questo bel volume su Gianni Brera, e per

giunta di prendervi la parola

in apertura dell’incontro, mi

sono domandato se in lui

prevalesse la ben nota cortesia personale o non,

piuttosto, lo sprezzo del

pericolo. Glielo ho anche

chiesto, seppure in forma

scherzosa. «Ma ti rendi conto

- gli ho domandato - che chiedere a un (quantomeno)

agnostico dello sport come me

di parlare di un giornalista

sportivo è come chiedere a

Marx di intrattenere il pubblico sul mistero

dell’Incarnazione?». E poi ho

io sufficiente familiarità con il

Po, le osterie e la cucina della

Bassa, e con la nebbia che

comunque non posso soffrire? E poi questa mistica delle

radici, simbolismi da

protoleghisti (attribuzione

non del tutto infondata, a

giudicare dal saggio di Sergio Giuntini contenuto nel

volume, ma un po’ contestata

in quello di Andrea Maietti,

un po’ confermata da Brera

stesso quando dice che “La

patria di un uomo è il posto dove è nato”, ma parzialmente

sconfermata sempre da lui

quando proclama che “nello

sport non ci sono stranieri”)?

Non abbiamo proprio alcun rapporto, noi due, e quindi

che posso raccontare? Allo

stadio sono stato due volte in

vita mia cinquanta anni fa, il

ciclismo mi annoia, mi

ricordo a stento di quello che ho mangiato il giorno prima

(mentre “…si conterebbero

meno luoghi dove dormì

Garibaldi di quelli dove cenò

Brera” si legge a p. 96 del

volume) e, come se non bastasse, fra i vini preferisco

lo champagne: e poi cosa

sono questi esoterismi

linguistici (l’ “impasto

linguistico di forte impatto mimetico”, come viene

definita la prosa di Brera a

pag. 262) da Camilleri del

fiume, emulati da schiere di

seguaci, quasi una setta,

comunque una confraternita? Basta, in conclusione, la

circostanza di provenire dalla

stessa Facoltà, seppure a un

bel po’ di anni di distanza, a

giustificare la mia indebita intromissione? Mi rispondevo

di no, naturalmente, né

pensavo sarebbe bastata, a

creare qualche consonanza,

la mia passione, sconfinante

nel fanatismo, per Francesco Guccini, in fondo un Brera di

Bologna e dell’Appennino

emiliano.

Naturalmente mi sbagliavo,

non so se per snobismo mal fondato oppure per ignoranza

dei fatti e ancora più dei testi,

o per entrambi i motivi. Me ne

sono accorto, sempre più

incuriosito, e pentito al trascorrere delle pagine,

leggendo con attenzione (e per

necessità di tempo solo)

alcuni dei saggi raccolti nel

volume, da quello introduttivo

di Angelo Stella, ricco e impegnativo, ai contributi di

Sergio Giuntini che ho già

citato, di Renata Crotti, di

Guido Legnante, di Claudia

Bussolino, di Matteo

Grassano e scorrendo tutti gli altri a cominciare da quello,

piacevolissimo, di Paolo

Brera. Come si intuisce da

questo elenco, non ho

superato, neppure in questa circostanza, proprio tutte le

mie remore idiosincrastiche.

Lo sport, quello esplicito, l’ho

infatti costeggiato senza

praticarlo, l’ho guardato a

distanza, e così i giornali sportivi, e la cucina e il

localismo troppo insistito:

d’altra parte, ogni conversione

che si rispetti è, per la

maggior parte dei convertendi, un processo

graduale e accidentato e solo

a pochi è concessa

l’illuminazione, quando mai la

cercassero.

È nella storia e nella politica, quindi, che ho potuto

individuare qualche canale di

comunicazione, o almeno

qualche punto di tangenza. E

Brera, da uomo di vasta e tutt’altro che superficiale

cultura, la pratica la storia

(“uno storico prestato al

calcio” lo definisce infatti

Giulio Signori), ma a modo suo o, per meglio dire,

seguendo le proprie

inclinazioni, il che gli fa

impastare fatti e personaggi

della storia “ufficiale” con

quelli di qualche sport e di qualche sportivo, e poi con

vicende e figure dei suoi

luoghi, vere o inventate che

fossero, il tutto per il tramite

del suo speciale linguaggio.

Così accade, ad esempio, nella Storia critica del calcio italiano (che è un po’ anche

una storia d’Italia, come nota

Giulia Delogu scrivendo della

Trieste di Brera) dove spicca

la singolare coincidenza fra i moti di Milano di fine secolo e

il primo campionato italiano

di calcio svoltosi proprio l’8

maggio 1898 al Velodromo

Umberto I di Torino (lo mette

in evidenza Matteo Grassano), ma anche nell’Avocatt in bicicletta. Romanzo di cinquant’anni del ciclismo italiano del 1952 (lo ricorda

Alberto Brambilla). E, per

quanto ne ho letto (e ne riferisce con sapiente

diplomazia Renata Crotti, che

si sofferma pure sulle

umanissime pagine di “storia

fantastica” dei Suggerimenti di Francesco Sforza al figlio Galeazzo Maria), accade

anche nelle Storie dei Lombardi, dove Brera si

destreggia per oltre quattrocento pagine fra il

Nume Po, la grandguignolesca

storia di Rosamunda, del

guerriero Almakild, di re

Alboino e dell’esarca Longino, e poi Francesco Sforza e

quindi Manzoni (che “nasce

nel 1785 da amplessi ambigui

e quasi turpi, di cui non ha

verosimile colpa” e che

comunque Brera non ama, come non ama Cesare

Angelini e nemmeno la “forza

arguta e sottilmente maligna”

della sua prosa), e ancora il

“problema storico” della natura umana dei pavesi con

tanto di lode a Maria Teresa e

al Pollack ricostruttore

dell’Università di Pavia e ai

grandi dell’Ateneo, per

arrivare fino ai Cipolla (Carlo e Manlio), a Italo Pietra (“il

Nigra di Enrico Mattei”), a

Cassola e ad Arbasino, per

passare poi a Milano (e alla

sua storia definita “maschile” per contrasto con la “femmina

Italia”) e finire con Carlo

Cattaneo fra gli “altri

lombardi” e con la lunga

carrellata storico-geografica di

“Viaggio nel Nord-est”. Ha ben ragione quindi Renata Crotti

quando ragiona di Brera

storico qualificandolo

“Cantore della Storia”, a

sottolinearne l’intenzione di

occuparsene, della storia, come di un’ “occasione…per

dire che il passato ha un

valore e come tale va

considerato”, cioè per

evocarlo e per fissarlo nel

tempo, ma come trasfigurato

in conformità alle sensibilità

dell’autore, non certo a documenti d’archivio.

Naturalmente di

trasfigurazioni della storia se

ne possono dare tante, e tutte

diverse fra loro per la potenza evocativa che emanano e per

l’emozione che suscitano. Mi

permetto quindi di proporvi, a

caso, qualche esempio

alternativo di narrazione

storica, del genere al quale riservo la mia personale

predilezione. Comincio con il

mio poeta del cuore, il greco

alessandrino Constantinos

Kavafis, vissuto a cavallo fra

Otto e Novecento, e lo faccio richiamando una sua lirica di

ambientazione storica del

1912 intitolata “Re

alessandrini”. Vi si legge fra

l’altro, nella splendida traduzione di Nelo Risi e

Margherita Dalmàti e con

riferimento alla corte di

Cleopatra, allo sfarzo dei suoi

figli e alla pompa dei loro

titoli regali: “Alessandro fu detto re di Armenia di Media e

dei Parti. Tolomeo fu detto re

di Cilicia di Siria e di Fenicia.

Cesarione stava più avanti

agghindato di seta rosa…Di lui dissero più dei cadetti

poiché fu nominato Re dei

Re…Gli alessandrini si

rendevano ben conto ch’era

tutto un frasario da

teatro…Però il giorno era mite e melodioso, il cielo di un

azzurro stemperato…il lusso

dei cortigiani era

finissimo…con tutto che essi

sapevano di certo in quale conto tenere un fatto come

questo e com’erano vani di

senso tutti quei nomi di

regni”. Lo scopo di Kavafis,

che pure ha le proprie fonti

dal momento che si rifà a Plutarco e ad Apollodoro, non

è certo di fare storia

accademica ma di restituire

liricamente la luminosità

esangue di uno spettacolo di corte, e nel contempo la

sensazione quasi visiva della

sua rassegnata insignificanza,

che si accompagna al

presagio del suo imminente

sfacelo. Né fa storia accademica Manzoni nel

trentesimo capitolo de “I

promessi sposi”, con la

straordinaria sequenza delle

truppe imperiali che muovono

all’assedio di Casale, infilata dall’autore fra le ambasce di

(Continua a pagina 5)

Un convegno

e una mostra

all’Università

Patrie e radici

di GIANNI BRERA

di Silvio Beretta

Sabato 28 settembre si è tenuto, nel Salo-

ne Teresiano della Biblioteca Universita-

ria, un breve convegno in ricordo di Gian-ni Brera, fra l’altro laureatosi nel 1943

nella Facoltà di Scienze politiche

dell’Ateneo pavese. L’incontro aveva lo

scopo di presentare un corposo volume

(quasi 400 pagine) dal titolo Il tempo

sperperato. Nel ricordo di Gianni Brera curato, per iniziativa della Fondazione

Maria Corti dell’Università di Pavia, da

Angelo Stella con la collaborazione di

Gianfranca Lavezzi e Giuseppe Polimeni.

Con l’occasione è stata inaugurata una

mostra di scritti e documenti, dal titolo

La (dis)informazione sportiva in ricordo di Gianni Brera (“ritagli cronache immagini

di sport nella storia del Novecento”. La

mostra resterà aperta fino al 31 dicem-

bre.

L’incontro è stato introdotto da Angelo

Stella. Hanno successivamente preso la parola Silvio Beretta, Claudio Gregori e

Renata Crotti. In finale Paolo Brera ha

salutato il pubblico.

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IMPRESA CALISTI PAVIA

1928-2013

TRE GENERAZIONI IMPEGNATE NEL RESTAURO CONSERVATIVOTRE GENERAZIONI IMPEGNATE NEL RESTAURO CONSERVATIVOTRE GENERAZIONI IMPEGNATE NEL RESTAURO CONSERVATIVO DI EDIFICI E MONUMENTI STORICIDI EDIFICI E MONUMENTI STORICIDI EDIFICI E MONUMENTI STORICI

Novembre 2013 - Numero novantuno Pagina 5

don Abbondio e le “piume e

penne delle galline di

Perpetua”: “Passano i cavalli

di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di

Anhalt, passano i fanti di

Brandeburgo, e poi i cavalli di

Montecuccoli, e poi quelli di

Ferrari; passa Altringer;

passa Fürstenberg, passa Colloredo; passano i Croati,

passa Torquato Conti,

passano altri e altri; quando

piacque al cielo, passò anche

Galasso, che fu l’ultimo. Lo squadron volante de’

veneziani finì d’allontanarsi

anche lui; e tutto il paese, a

destra e a sinistra, si trovò

libero”: anche qui

l’accostamento fra quei risonanti nomi di condottieri

e le umili vicende private di

tre esuli, unitamente

all’iterazione “passano …

passano … passano”, evoca con qualche ironia, almeno

nella mia percezione, la

potenza livellatrice dei

drammi della storia e, in

fondo, la vanità del potere dei

potenti. Appunto: “passano … passano … passano”. Non è

certo storia di fatti, infine, la

straordinaria affermazione

autoassolutoria con la quale il

“Gran Ciambellano della Storia”, il principe di

Benevento Charles-Maurice

de Talleyrand, introduce con

supremo, affascinante

cinismo la Dichiarazione di

apertura del primo dei cinque tomi di quel monumento alla

dissimulazione che sono le

sue Memorie: “Dichiaro,

innanzitutto, di morire nella

religione cattolica, apostolica

e romana”. Tanti sono quindi i modi di

filtrare gli eventi (veri o

inventati) per raggiungere uno

scopo che poi non è altro che

la proiezione di sé:

“consolare” con lo sfarzo dei nomi, dei titoli e degli abiti il

tramonto di una civiltà,

intrecciare con ironica

solennità i destini dei grandi e

quelli degli umili, “aggiustare” la propria vicenda a uso dei

posteri per captarne la

benevolenza e attenuarne la

severità del giudizio,

impastare infine - come fa

Brera - luoghi e personaggi

per restituirci, idealizzato con

ruvida nostalgica simpatia,

un mondo intero: il suo.

E veniamo brevemente alla politica, tema affrontato con

completezza da Sergio

Giuntini. Dall’ analisi emerge

un Brera “politico” del tutto

coerente con la narrazione

che il nostro ha sempre fatto di sé. Vitali, anzi vitalistiche e

un poco futuriste, le sue

successive e solo in

apparenza contraddittorie

appartenenze, così come alcuni suoi giudizi. Si veda

per tutti l’importante fondo su

“Il popolo repubblicano” del

20 febbraio 1944, nel quale

coesistono nazionalismo, europeismo à la Mussolini e

scetticismo sulla maturità

politica dei cittadini,

“socialmente attivi” per non

più del 20% e mussoliniani

per il 15%. Ancora in un

articolo del 1968 darà del “magnifico giornalista” e del

“vir … roboante” allo stesso

Mussolini, per il quale “l’Italia

ha straveduto, così

confermando la sua natura di

femmina”, ma dichiarerà, come per un pentimento, di

preferire il “frigido ragioniere”

Giolitti. “Salutate l’Impero di

Roma ritornato sui colli fatali

Alta l’aquila forte e mai doma ancor vola a raggiungere il

sol. Giovinezza di sangue e

pensiero All’Italia ridiè la

vittoria Salutate di Roma

l’Impero La grandezza, la fede,

l’amor”, aveva comunque scritto nel 1938, lo stesso

anno in cui - 27.10.1938 XVI

- aveva fatto domanda di

iscrizione all’Università di

Pavia, Facoltà di Scienze Politiche, firmandosi “Giovani

Luigi Brera non appartenente

alla razza ebraica”. Non si

arruola in sussistenza, e

neppure fra gli alpini o gli

artiglieri, ma fra i paracadutisti della Folgore.

Dopo l’ 8 settembre non

mormora né si nasconde, ma

fugge in Svizzera per tornare

a fare il partigiano in Val d’Ossola; si avvicinerà ai

massimalisti di Menotti

Serrati e poi ai comunisti,

licenziando il primo numero

non clandestino de “L’Unità”,

organo di quel partito nelle

valli ossolane. Si definirà

“nazionalcomunista”, sarà

nazionalista e nel contempo

internazionalista, il che gli costerà la direzione de “La

Gazzetta dello Sport”,

collaborerà a lungo con un

quotidiano, “Il Giorno”,

fondato da un ex partigiano

cattolico (Mattei) e poi diretto da un socialista (Pietra) per

sfiorare nel 1983 il Senato

con i socialisti e candidarsi

poi senza successo con i

radicali. Nel ’68 ammira Che Guevara che assimila a un

Pisacane “… molto più

fortunato agli esordi, ed

egualmente infelice”. Si è già

detto del Brera protoleghista,

antimeridionalista e inventore di una supposta Padania,

nonché sostenitore della

“superiorità padana” nel

calcio. In tutto questo tempo,

e malgrado che le occasioni non gli fossero certo mancate,

non sparerà mai un colpo. Di

Italo Pietra, capo partigiano,

dirà infatti: “Non avere mai

ucciso nessuno di sua mano è

per me un vanto che lo onora come socialista e come

pavese. Neanch’io, per dir

vero, ho mai sparato a un

uomo, e forse per questo sono

indotto ad ammirare Pietra…”. Ci si domanda che

peso dare a quelle che hanno

tutta l’apparenza di essere

contraddizioni di Brera nel

contatto con gli eventi della

politica, ma che sono, forse, soltanto la proiezione esterna

di una prorompente,

vitalissima personalità:

questa, all’occasione (e le

occasioni sono state diverse, e

fra loro antitetiche) non ha

opposto resistenza alle

tentazioni dell’adesione

entusiastica, mai tuttavia trasformandosi in

comportamenti che pure

sarebbero stati, e per molti

sono stati, ben giustificati

dalle circostanze. Altri agì

diversamente. Ci si domanda sempre come ci si sarebbe

comportati al posto di un

altro. Me lo domando anch’io

senza sapermi rispondere.

Tuttavia, quando alzo lo sguardo dalla mia scrivania,

leggo alla mia sinistra,

incorniciato, il numero dell’

”Avanti!” del 29 aprile 1945. Il

titolo, a caratteri cubitali è

“Mussolini giustiziato” e il sottotitolo “Anche Pavolini,

Farinacci, Mezzasoma,

Barracu, la Petacci, Zerbino e

Ruggero Romano hanno

pagato con la vita”. L’editoriale reca il titolo

“Giustizia è fatta”. Leggo il

tutto senza un particolare

compiacimento, ma con

adesione sì.

E vengo infine, anche se brevemente e forse

contravvenendo a quello che

ci si aspettava da me, al

Brera studente di Scienze

politiche. A questo proposito il contributo di Claudia

Bussolino è del tutto

esauriente, ben restituendo

anche l’atmosfera di una

Facoltà di recente istituzione

e che si apprestava di lì a poco (ma Brera ne era già

uscito) ad attraversare

momenti di passeggera

difficoltà, la soppressione con

aggregazione ad altra Facoltà,

documentati anche in questa mostra. Qui troviamo

testimonianza del fatto che

all’onorevolissimo curriculum

universitario di Gianni Brera

contribuirono nomi ben noti della vita culturale

dell’Ateneo, la cui notorietà

aveva per altro già valicato (o

lo avrebbe fatto di lì a poco) i

confini di Pavia. Lo vediamo

già dalle tre tesine che Brera discusse il 27 ottobre 1942-

XX: quella su “L’Egitto nel

passato e nell’avvenire” con

Franco Borlandi, uno dei

maestri di Carlo Cipolla e poi

Prefetto della Liberazione,

allora docente di Storia e

politica coloniale prima di

insegnare Storia economica;

quella su “La Turchia nel Medio Oriente” con Raffaello

Maggi, allora docente di

Politica economica e studioso

non poco eclettico, che a

Pavia si era guadagnato ben

tre lauree, era stato allievo di Camillo Supino, aveva

conseguito la libera docenza

in Economia marittima, si era

occupato di industria

cinematografica e di industria cotoniera (era nipote di Luigi

Candiani, pioniere

dell’industria tessile

lombarda) per passare, sotto

l’influsso di Giovanni

Demaria, all’economia teorica trattando, ad esempio,

dell’indeterminazione in

economia fino a occuparsi di

psicanalisi e scienza

economica, soprattutto nella successiva sede di Modena e

poi in quella, conclusiva, di

Bologna; quella infine su

“Garibaldi e Cavour nel 1860”

con il grande Franco

Valsecchi, con il quale per altro non aveva sostenuto

l’esame di Storia moderna,

essendo Valsecchi arrivato a

Pavia nel 1942 da Palermo, e

dopo avere insegnato a Lipsia e a Vienna, città nella quale

aveva anche diretto l’Istituto

italiano di Cultura. Ma

l’incontro più scoppiettante

deve essere stato senz’altro

quello con Vittorio Beonio-Brocchieri, studioso,

giornalista, scrittore e

intrepido viaggiatore che dal

1939 ricopriva la cattedra di

Storia delle Dottrine politiche

e con il quale Brera discusse una tesi di laurea (orale) su

“L’Utopia di Tommaso Moro”.

Non so quanti di voi sanno

che, a un giovane collega che

rispettosamente gli faceva osservare che, in fondo, un

po’ fascista lo era pure stato,

Beonio domandò di rimando:

“Ma che colpa ne ho io se il

fascismo si è

‘brocchierizzato’?”. Se la cavò così. Con chi altri avrebbe

potuto laurearsi uno come

Brera?

Silvio Beretta

(Continua da pagina 4)

NELLE FOTO

NELL’ALTRA PAGINA

Istantanee di Gianni Brera

IN QUESTA PAGINA

1. Processo alla tappa

con Sergio Zavoli e Bruno Raschi

2. Intervista a Fausto Coppi

3. Con Gianni Rivera

4. Con Alberto Lattuada

5.Con Raimondo Vianello e O-mar Sivori

6. Con Azeglio Vicini ed Enzo Bearzot

1 2 3

4 5 6

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Pagina 6 Pagina 6 Numero novantuno - Novembre 2013 Pagina 6 Numero novantuno - Novembre 2013

FONDAZIONE

SARTIRANA

ARTE

ono ad allestire la nostra collezione di accessori di Moda Italiana nelle bacheche della più bella Biblioteca mai vista (NELLE

FOTO). Dall’esterno, soprattutto la sera, quando è illuminata da migliaia di led che cambiano tinta (come nel famoso grattacielo di Barcellona firmato Jean Nouvel) sembra di vedere un’astronave atterrata nelle steppe e tra i boschi bielorussi. L'interno non è da meno, tutto scale e ballatoi di cristallo, come le coperture che lasciano filtrare la grigia luce naturale di questo Paese. Tavoli di consultazione, ognuno con un computer dotato di stampante. Piante verdi ovunque, a separare isole per gruppi di lavoro, o pronte a ospitare incontri e letture o conferenze. Tanti libri, i luminosi scaffali. Strana cosa in un tempo che pronostica la fine della pagina scritta a favore del libro elettronico. Quasi una bestemmia. Siamo lontani dalle atmosfere tipo “Il nome della rosa”, ma l’effetto è sempre, diversamente stupefacente. Ad annoiati custodi degli accessi si oppone la freschezza dei giovani e anziani utenti. Silenziosi si muovono tra i tavoli, diretti al bar o al ristorante panoramico al settimo piano. Ai bagni più puliti e profumati che io ricordi. O alla sauna/ bagno turco (che domani voglio provare!). Corridoi circolari che ospitano mostre di grafica e di fotografia. Per un mese, quasi una provocazione, nelle bacheche del

terzo piano abiteranno le creazioni di Ferragamo e Gucci, di Roberta di Camerino e Prada, di Pfister, Ken Scott e Sorelle Fontana, Armani, Ferré e Versace. Iniziando, a giustificare il titolo (cento anni di made in Italy) … con la presentazione dei pezzi di inizio XX secolo. La trousse in corno di bue e argento del milanese Ravasco, con le borsettine da sera in maglia d' argento e porta monete/pillole agganciati. Passando a borse di rettile pregiato (coccodrillo o lucertola) anni 30/40 di pelletterie ignote, sino ad arrivare ai pezzi Ferragamo anteguerra. Subito dopo Venezia e Udine (molto tratto dal guardaroba di mia suocera ...), con le piccole borse in seta o broccato di Rubelli e tanti piccoli capolavori di quella donna fantastica che fu Roberta di Camerino. Velluti stampati con cinghiette e bottoni, asole e falsi taschini. Invenzioni di proto-design pre industriale, che lo anticipavano.

Con le mitiche “Bagonghi”, care a Grace Kelly e a Soraya di Persia, Bottega Veneta d'epoca, siamo sempre negli anni 50/60. Poi Pucci e Gucci, con Gherardini e altri marchi dell'eccellenza fiorentina. Salendo in Lombardia con le creazioni di poco successive di Prada, arrivando alla Vigevano di Pfister e Cesare Martinoli. Gloriose fantasie del primo per le dive sue ospiti, ma pure per tante icone dello spettacolo quali Elton John o Rudolf Nureyev, Barbra Streisand e Nancy Sinatra. Sino agli anni 80/90 con le Meduse di Versace, i finti cocco (drillo) di Ferré animalista, le “gipsy bags” D&G tutte cernierine e frange country. Qualcosa di Armani / Borbonese / Trussardi e un nucleo importante di calzature Moreschi, da poco arrivate in collezione. Esempio anch’esse del ben fatto italiano, che riprende l’intreccio prezioso delle pelli e la loro allegra colorazione,

anche per l’uomo. Nel poster che presenta la mostra le icone dell’architettura e dell’arte italiane si sposano con quelle della nostra moda. Accoppiamento quanto mai felice e “azzeccato” (… direbbe Tonino ...), sintesi efficace, corretta e convincente. Un eccellente invito, anche turistico, al nostro Paese, sulla scorta di quello 1951 del marchese G. B. Giorgini. Il gentiluomo inventore della moda italiana. Che invitava alle sue sfilate fiorentine con Alitalia targata Pucci e Sorelle Fontana. In compagnia del David e della cupola di Brunelleschi.

i vivono meno di due milioni di abitanti, ma la città è ricca di verde e di piccoli laghi, molto frequentati con la bella sta-gione. Minsk fu letteralmente rasa al suo-lo dai nazisti in ritirata dalla Russia e rico-struita mattone su mattone da corvée di cittadini, moltissime le donne, come docu-mentato da una ricca, un poco agiografi-ca a tinte eroiche, raccolta di manifesti

che vedo al museo di storia, sede di una nostra mostra anni or sono. Vengo a salutare il direttore e i suoi gentili collaboratori, prima di andare alla Biblioteca Nazionale, fresca di apertura (2009). Magnifico edificio di cui pubblichiamo alcune vedute, lontano dal centro città, cui è ben collegato da mezzi pubblici, sulla strada per l'aeroporto. Arteria grande e maestra, la vec-chia Mosca/Berlino, intorno alla quale la città è stata ricostrui-ta. Con un frullato di stili singolare, in qualche modo disorien-

tante. Moltissimi edifici mimano al meglio l'architettura neo-classica ottocentesca, con un profluvio di colonne doriche, ioniche e corinzie, metope e frontoni da tempio greco/romano, miste a cupole di rame ottomane. Ma pure di sapore francese, alla Barone Hausmann, tanto per confondere il visitatore, che apprezza i colori e la pulizia perfetta di strade e facciate. Viene da pensare, con buona pace di Sgarbi e “Bollito” Oliva, che i writers siano … in campo di lavoro. A col-

tivare patate e barbabietole, o impegnati in altri lavori social-mente utili. La visione da cartolina si interrompe spesso di fronte a possenti edifici razionalisti, di stile sovietico puro, magniloquenti anche quando non celebrativi. Vuoi residenza popolare o blocchi di uffici pubblici, accademie, centri cultura-li. Molto di nuovo però si è costruito e si sta facendo. Molti grattaceli e alberghi, anche lussuosi. A breve si aprirà una sorta di mercato comune tra paesi ricchi di risorse minera-rie e petrolifere, di gas. Con previsione di grande sviluppo e crescita economica, cui la città si prepara per tempo. Cartina di tornasole il traffico, intenso ma ben regolato, di automobili nuove e spesso di lusso. Accanto però agli autobus, spesso elettrici, con cui si spostano, come in ogni parte del mondo, i meno ricchi. Dal mio ultimo viaggio molto è cambiato. Il nu-mero di bar/ristoranti/negozi di moda, tutto a segnare una crescita visibile del tenore di vita dei bielorussi. Di molti di loro, almeno.

MINSK Ritratto di una città che cresce

di Giorgio Forni

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Novembre 2013 - Numero novantuno Pagina 7

FONDAZIONE

SARTIRANA

ARTE

on per feticismo, sia chiaro, ma il soggetto mi ha incuriosito da tempo. Dagli anni del pop, quando Attilio Forgioli ne

aveva fatto un tema/mantra del proprio lavoro, forse ispirato da Iannacci e dalla sua famosa canzone. Poi incontro un maestro del vetro muranese, Angelo Rinaldi, e non posso evitare di acquistare per la nostra collezione di sculture luminose la sua “cinderella”. Un fascinoso blocco di vetro cristallo retro illuminato su cui sono incise al diamante e colorate a smalti … scarpette da “favola”. Ma non ho ancora scarpe di Lodola ... Ho la sua Italia/stivale, donataci per festeggiare insieme i 150 anni dell'Unità del nostro disgraziato/straordinario Paese ... Bene. Proseguiamo. Porto Miss Italia al Ministero degli Esteri per la spedizione a Lima/Perù … e un alto funzionario mi presenta la pittrice romana Nora Nicoletti, di cui ha la “stanza” piena di opere coloratissime. Frutta e verdura e fiori. Scherzando, mi lascio scappare la battuta infelice … “chissà se la signora si dipinge così anche le calzature …”. Il mese successivo mi

arriva a Sartirana un pacco. “Clarabella e nonna papera: due mie scarpe dipinte come pensavi?”. Così recitava il simpatico biglietto dell’autrice/donatrice. Siamo

diventati amici e le sue scarpe, anche se un poco sformate, attirano e divertono i visitatori delle mostre in cui le esponiamo. In compagnia dei prototipi “con posate da tavola” di Franco Moschino e con le crudelissime creazioni (da morir dal ridere l’effetto ragionato ...) di Silvia Levenson. L’artista italo/argentina usa il vetro cristallo o satinato. Ma lo riempie di chiodi e coltelli ... “Bambina cattiva” si chiama il paio di scomode pantofoline! Mentre la bag da autodifesa … porta il titolo “sono una signora!”. “AMOR”, invece, si chiama la borsa in tessere vitree muranesi legate da filo spinato … Tutto uno zucchero! Adoro il lavoro dell’amica Levenson! Devo trovare denari per trasformare il prestito in acquisto. E non fermarmi a questi tre pezzi sublimi! Conosco Silvia a casa Giandelli/Gagliardi e trovo un’altra opera impensata di Pilù. Un paio di suole di corda consumate, ma consegnate ai posteri da una colata di vetro, sicura collaborazione dei “due”! Ricordo di viaggi è il titolo spiritoso, quasi romantico. È un attimo … rubarle per la mostra di Bangkok ..., per la vetrina degli artisti. Arricchita poi da un paio di “scarpescultura” di Stefano Bressani (che veste le sue creazioni di tessuti tecnici). Un nuovo filone si è aperto. La famiglia delle collezioni cresce, con i relativi problemi. Di mantenimento! Anche però con un interesse più vivace e divertito che i visitatori hanno dimostrato pure a Minsk. Per

quanto gli occhi dei più, splendide ragazze o bei giovanotti, fosse polarizzato dalla serie di modelli Moreschi, alcuni storici, altri attuali, che chiudevano, su basi bianche, la

balconata concessaci dalla Biblioteca Nazionale. Nuovissima, 2007, ma fascinoso contenitore di saperi come … quella in cui si muoveva l’abate Connery …

SCARPE D’ARTISTA? CI TOCCANO ANCH’ESSE, PER BACCO!

PIER GAGLIARDI, RICORDO DI VIAGGI 2012

NORA NICOLETTI, NONNA PAPERA

E CLARABELLA

ATTILIO FORGIOLI

SILVIA LEVENSON

ANGELO RINALDI, CINDERELLA

di Giorgio Forni

MOSCHINO Sotto: ANDREA PFISTER, SHOE

BAG

(1980. PER IMELDA MARCOS)

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Pagina 8 Numero novantuno - Novembre 2013

e pagine del

dialogo epistolare che

vede ora la

luce,

illustrato con

cura pari alla competenza

da due

provveduti ed

esperti cultori di cose

angeliniane e linatiane quali

Fabio Maggi e Nicoletta Trotta, hanno, fra altri molti,

il merito di richiamare

l’attenzione su due scrittori

novecenteschi accomunati,

nonché da molteplici affinità e ragioni e convergenze di

poetica e di stile e, insomma,

da una pur discorde

concordia, anche da questa

circostanza: che il trascorrere

dei decenni, se non sottratti del tutto alla tenacia della

memoria locale o alla

devozione immobile e

nostalgica delle piccole patrie,

li ha però inesorabilmente allontanati, come

dall’ordinaria circolazione

libraria, così, fatte salve

numerate eccezioni, dalla

corrente attenzione critica;

ma ai quali è pur doveroso assegnare un posto, quale

che sia, di autonoma

evidenza, di distinta

riconoscibilità, nella storia e

nella geografia letteraria,

specificamente lombarda, della prima metà, in

particolare, del secolo che

abbiamo alle spalle. È lecito

attendersi che questo volume

possa fornire al riguardo qualche utile argomento,

qualche novità documentaria,

magari anche qualche

vantaggiosa indicazione di

ordine più generale.

Per più di due terzi inediti (parte custoditi nel Fondo

Manoscritti dell’Università

di Pavia, parte felicemente

riesumati, non senza

laboriose indagini, nell’archivio privato che

tuttavia conserva le carte

linatiane), il corpus dei

documenti superstiti qui

raccolti, cronologicamente

ordinati e commentati

con puntuale attenzione ma

anche con lodevole misura,

assomma a 66 unità epistolari, fra lettere, cartoline

postali e cartoline illustrate,

distribuite in ugual numero

fra i due corrispondenti: ma

con una bilancia, occorre

subito aggiungere, soltanto casualmente in pareggio, dal

momento che la perdita

capricciosa e accidentale o la

indisponibilità di un numero

imprecisato di elementi, specie di data più alta, spezza

e interrompe in più punti la

continuità e il regolare

contrappunto della trama

epistolare. E se Linati, con la

sua grafia arruffata e disadorna, «a zampa di

gallina», come è stato detto,

sembra prediligere, come

supporto della

comunicazione, la modesta

‘cartolinetta’ postale (in ossequio a un costume

generazionale di discrezione,

di frugalità, di parsimonia,

ma anche di celerità e di

fretta, che caratterizza, com’è noto, tanta parte della

corrispondenza letteraria

novecentesca), la carta da

lettera, quand’anche non si

tratti di «quella bella carta

che schiocca ad ogni voltar di foglio, con uno sgrigiolio

di melograna acerbetta che si

frange sotto i denti» decantata

nel carteggio, meglio si

direbbe convenire alla stilizzata eleganza calligrafica

di Angelini, ad una calligrafia

«che definisce - ha osservato

una volta Gianfranco Contini,

fissando così, come di

sfuggita, le coordinate essenziali di un nitido

paesaggio storico - alcuni

grandi stilisti dei suoi anni, in

ordine cronologico Emilio

Cecchi, Giuseppe De Robertis (per accidente altro serriano,

che travolse Angelini nel

comune trasporto per Serra),

Roberto Longhi».

Completa opportunamente il

volume una corposa, succosa appendice che riunisce i saggi

critici, più o meno dimenticati

e dispersi, che i due

corrispondenti, trasferendo, si

può dire, il dialogo dalla discrezione della

comunicazione privata

all’informazione e alla

circolazione pubblica, si sono

vicendevolmente scambiati

nel corso di quasi mezzo secolo. Più volte nel carteggio

Linati accenna al più giovane

interlocutore come a

«inestimabile, preziosissimo

collaboratore […], così pieno

d’amore, di finezza, di gusto», a «giudice raffinato», fino ad

assegnargli, in una lettera del

1921, il titolo di «mio Chirone

letterario». Spicca dunque in

questa sezione, per quantità, qualità e impegno, la parte di

Angelini, a cominciare dal

saggio più antico e

insolitamente sovrabbondante

e circostanziato, quasi una

compiuta monografia, pubblicato dapprima, nel

1921, in un fascicolo de «Il

Convegno» e poi raccolto,

due anni dopo, nell’opera

prima di Angelini, Il lettore provveduto: un testo che

avrebbe dovuto inaugurare

una Conversazione sui lombardi di respiro più largo e

generale e che bene

rappresenta, con evidenza e

puntiglio persino didascalici e, beninteso, anche nelle sue

manifeste contraddizioni e nei

suoi limiti, il lampeggiante

sperimentalismo frammentistico e l’ardente

apostolato critico della prima

stagione angeliniana. E la

rilettura di saggi che a

distanza anche di molti anni

ripropongono, con eventuali manipolazioni, integrazioni

e varianti, intere pagine,

paragrafi, porzioni testuali o

formule già usati in

precedenza, illumina, oltre tutto, su un aspetto non

secondario dell’officina

letteraria di Angelini, non

ignoto, immagino, ai suoi

lettori. La sua lunga fedeltà al

congeniale conterraneo si afferma, infatti, attraverso

modalità di lavoro

sperimentate con alta

frequenza e che fanno del

riuso uno strumento

peculiare della scrittura

elzeviristica, fra prosa d’arte e giornalismo. È una tecnica di

‘cannibalizzazione’ che lo

scrittore pavese, del resto,

condivide con altri stilisti e

prosatori d’arte del suo tempo: penso, fra le altre, alle

prove tanto più spregiudicate

di Bruno Barilli, portate

qualche decennio fa alla luce

dalla inedita testimonianza dei Taccuini di lavoro. Valga

per tutte, a titolo d’esempio,

questa sola citazione che

estraggo dal «ritratto celere»

pubblicato originariamente,

nel 1943, su «Primato» con il titolo Linati (e ristampato

l’anno seguente da Garzanti,

con uguale intestazione, nel

volume Carta, penna e calamaio). A proposito de I doni della terra scriveva

dunque Angelini:

Pagine monde, battute, tirate a perfezione con l’istinto e il controllo proprii dei lombardi, consapevoli che ogni parola se la devono conquistare con patimento. Brevi, linde costruzioni, in ognuna delle quali s’agita la nuvola d’una querce, canta un motivo d’acqua o indugia un novembre lumeggiando di kaki. Sensazioni scontrose, inedite, con un che di ingrandito da una fantasia inquieta che lo fa spesso dirupare verso un ingenuo mito.

Con significative varianti la

pagina sarà incorporata, a

distanza di quasi un quarto di

secolo, nell’articolo Fedeltà lombarda, apparso sul

«Corriere della Sera» del 24 ottobre 1968 e poi raccolto

nel volume Cronachette di letteratura contemporanea (Bologna, Boni, 1971):

Prosette monde, agghindate, ruminate, tirate a perfezione con la lima e l’istinto di pulizia proprio dei lombardi; nelle quali si agita la nuvola d’una quercia miniata dall’autunno, o indugia un novembre lumeggiando di kaki, o trema un tramonto sospeso in una lustra aria di colli, o una limaccia che fa sua strada, dando tempo al tempo; e, su tutte, che le impreziosisce, una vaga malinconia dell’anima.

La corrispondenza abbraccia

l’arco cronologico di un

trentennio. Risale infatti al 10 marzo 1918 la tessera più

antica del mosaico, una

cartolina postale intestata

«Battaglione Intra» - dislocato,

in quegli ultimi mesi del conflitto, nella Zona di

Guerra, più precisamente

nella Val Braulio, presso le

Cantoniere dello Stelvio - e

indirizzata dal trentunenne

Tenente Cappellano degli Alpini don Cesare Angelini al

più anziano «Avvocato

Tenente Signor Carlo Linati»,

addetto, come ufficiale del

Genio, alla censura telefonica presso il centralino della 39ª

Compagnia Telegrafisti, di

stanza a Bassano.

L’occasione, un «commosso

ringraziamento» per il dono –

che è poi una parola chiave,

(Continua a pagina 9)

Pubblicato da Edizioni

di Storia e Letteratura il volume Cesare Angelini - Carlo Linati

Carteggio 1918-1947

A cura di Fabio Maggi

e Nicoletta Trotta,

con il contributo dell’Associazione Alunni

Almo Collegio Borromeo

Per gentile concessione dell’Editore, pubblichiamo il testo della Prefazione di Renzo Cremante e, a seguire, la Nota al Testo di Nicoletta Trotta

Il libro contiene, oltre al trentennale

carteggio, un’Appendice

dedicata a Scritti del letterato

pavese Cesare

Angelini e dello scrittore comasco

Carlo Linati

di Renzo Cremante

Cesare Angelini (a sinistra) e Carlo Linati (a destra) .

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Novembre 2013 - Numero novantuno Pagina 9

ricca di significati e carica di sfumature e di armoniche,

per entrambi i corrispondenti

- del penultimo libro di Linati,

I doni della terra («così

saporosi e terrosi. Così

grandi»), pubblicato dallo Studio Editoriale Lombardo di

Mino Facchi nel 1915.

Mentre a suggellare l’intero

carteggio, essendo ignota

l’esistenza dell’eventuale

responsiva, è un’altra cartolina postale, spedita da

Rebbio il 9 maggio 1947 e

indirizzata al Rettore

dell’Almo Collegio Borromeo

di Pavia, con la quale Linati discute il progetto di

un’antologia dei propri scritti

da affidare alle cure

maestrevoli dell’amico e ai tipi

di Mondadori, verosimilmente

per la collana «I prosatori dello Specchio». Ma anche il

clima editoriale, nel concitato

trapasso di quel secondo

dopoguerra, stava

rapidamente cambiando. Il progetto, com’è noto, non

venne mai realizzato: la

lettera, del resto, precede di

poco più di due anni la morte che avrebbe colto lo scrittore

lariano, nella solitudine della

fiabesca residenza di famiglia,

a pochi chilometri da Como,

l’11 dicembre 1949. Ma è

bene precisare che la massima parte della

corrispondenza - più dell’80%

del totale - risulta scambiata

nello spazio di soli otto anni,

fra il 1918 e il 1925, e che

circa un terzo dei documenti, senza contare quelli andati

perduti, appartiene al triennio

1918-1920. Su quella

stagione, fra le più intense

e felici per entrambi gli scrittori, converrà soffermarsi

brevemente.

A quarant’anni, Linati ha alle

spalle una carriera letteraria

ventennale e ormai

consolidata, con più volumi all’attivo già passati al vaglio,

se non ancora di un largo

pubblico, però dei critici

nuovi, da Cecchi a

Bontempelli, da Papini a Boine; Angelini, da parte sua,

potendo vantare anch’egli, al

pari del corrispondente, una

collaborazione con la «Voce»

bianca che gli aveva

assicurato qualche notorietà negli ambienti letterari, ha

appena finito di compiere il

suo fruttuoso apprendistato

letterario nel quinquennio

trascorso a Cesena sotto il segno luminoso di Serra. Ed è

proprio la memoria del «primo

critico puro», quale egli l’aveva

appunto delineato con

appassionata

immedesimazione nel numero commemorativo della «Voce»

dell’ottobre 1915, ad orientare

fin dall’inizio, prima ancora

della minuta attenzione

ermeneutica e critica che seguirà, la sua immediata

apertura di credito, la sua

istintiva simpatia e fiducia nei

confronti di «un artista

purissimo tra i puri» e della

strenua ricerca di stile, «su la linea della bellezza autentica

e pura», sottesa, nella

fattispecie, a I doni della terra (quante volte ritornano, in

queste lettere, termini quali

‘purezza’, ‘purità’, ‘purificazione’, ‘mondizia’

ecc., con tutti i relativi

aggettivi):

E penso, con malinconia, alla gioia consolata con la quale li

avrebbe letti e ne avrebbe parlato Serra, che guardava a voi come a custode della poesia; candido. Serra. Mi sovviene di alcune parole piene di chiara fiducia, che un giorno nella Malatest[iana] di Cesena, egli mi disse a vostro riguardo. Se un giorno, dopo la guerra, non mi crederò del tutto indegno, le ripiglierò io, quelle sue parole. Oppure non le ripiglierò mai. Me le terrò chiuse, con dolce egoismo, dentro il cuore profondo: perché mi aiutino a meglio comprendervi e a meglio amarvi. E sarà meglio.

Così, nei disagi della vita

militare, fra un trasferimento

e una sosta («Siamo in marcia da quattro giorni; passando

dalla Valtellina alla

Valcamonica, dove ci aspetta

un paesino su l’Oglio», lettera

del 31 agosto 1918), scorrendo «nella confidenza

d’un manoscritto», che

l’autore gli ha voluto subito

trasmettere per riceverne

suggerimenti e consigli, il

futuro discorso liminare di Nuvole e paesi, il lettore

provveduto vi ritrova «certi

modi di voltar via la frase e di

sciogliere il proprio sospiro

che fan pensare, con piacere,

a Serra - nell’Esame, che ha pure, in qualche pagina una

disamina dei nostri malanni

spirituali italiani» (lettera del

25 settembre 1918). Ma la

lezione perenne di Serra,

tante volte menzionato sia nel carteggio sia nei saggi

dell’Appendice, travalica

naturalmente, per Angelini, i

confini dello spazio letterario.

Né in linea di principio, né in linea di fatto, può già

trattarsi, per lui, di questione

semplicemente di letteratura.

Di là dalle ricognizioni

strettamente formali,

linguistiche, intertestuali, dalle analisi circostanziate e

spesso felici esibite nel suo

esercizio critico, sulla prosa

linatiana - ma lo stesso discorso potrebbe valere

anche per altre applicazioni

critiche angeliniane di quegli

anni, a cominciare da Pascoli

-, sulla «incisività di vocaboli

incorrotti che sorprende e turba e dà l’intorpidimento di

certe contemplazioni: che è

come la morte del corpo per la

prepotente vita dello spirito»

(lettera del 25 settembre 1918), il sacerdote serriano

sembra proiettare la tensione

irrisolta di un’inquietudine

esistenziale tutta personale e

segreta. L’amicizia con Linati

trova forse il suo primo impulso, la propria

problematica motivazione, e

insieme i termini degli

sviluppi futuri, nel solco di

una tormentata ricerca avviata appunto negli anni

cesenati e intesa a realizzare

con salda e ferma

determinazione e ognora più

lucida consapevolezza la

difficile, pericolosa identità di vocazione e devozione

religiosa e vocazione e

devozione letteraria, a

sperimentare con rischioso

ardimento il paradosso o la scommessa per cui soltanto

attraverso un esercizio

assolutamente

incontaminato, libero e

spregiudicato dello stile, cioè

di se stessa, la letteratura può ritrovare i propri

fondamenti etici, «sciogliendo

dalle parti caduche e

transitorie quelle che sono

parole di vita eterna, bastevoli

alla nostra gioia e alla nostra salvezza» (per citare una

pagina del saggio Pascoli e Croce, apparso sulla «Voce»

nel 1915).

Si spiegano, allora, certi

imprevedibili abbandoni confidenziali, certe

confessioni sfiduciate, certi

disincanti, che non

appartengono agli stereotipi

forse più vulgati di Angelini, e

che egli non esita tuttavia a consegnare a un amico di

penna ancora pressoché

sconosciuto, al quale

continua a rivolgersi

con il pronome allocutivo di terza persona (si

incontreranno per la prima

volta a Milano, nelle stanze

del «Convegno», nel 1920,

mentre il Tu non compare nel

carteggio che a partire dal

1942): «perché io sono un

uomo di poche letture e di

molta pigrizia […]. Notizie di

me? Non ho nulla e non faccio nulla o, per essere sincero,

ben poco […]. D’altra parte, io

vivo solo, oggi: solo, senza

fiducia e senza santità»

(lettera del 24 marzo 1918); «Ma io, caro Linati, le sarò

sempre amico: purché lei mi

perdoni, una volta per tutte,

questa mia peccaminosa

indolenza, che mi pesa

addosso come un castigo […]. Progetti veri non ne ho,

né vere ambizioni […].

M’accorgo d’essere un

uomo finito, pur non avendo

mai cominciato» (lettera del

20 maggio 1919). La confidenza può riguardare

altri argomenti, come quando

il Cappellano militare, non

ancora smobilitato, in una

lettera del 14 giugno 1919 scrive:

Non c’è altro che m’interessi. Le donne - francamente - meno di tutto: in omaggio a un voto in grazia d’un temperamento quasi casto. Del resto, non dico che anch’esse non stiano bene nel mondo, come le rose: un ornamento, una fragranza e basta. Ma le rose io non le colgo mai: mi piace di guardarle e lasciarle dove sono. Si sa

mai, sotto, qualche spina che mi spoetizzi sul loro conto. È una timidezza anche questa, come tante altre.

In un’altra occasione (lettera

del 21 febbraio 1921), chi si

definisce un «piccolo timido

uomo» (lettera del 17 giugno 1918), un «povero cristiano

che porta la croce di se

stesso», confida all’amico:

Però è vero che a forza di lasciarcele sfuggir tutte le occasioni, si invecchia e si appare quello che si è: creature disutili. Alla fine, le dirò anche questo, Linati: che il mio vero sogno è un altro: ritirarmi a vivere con spirito un poco riposato entro un chiostro. Il mondo è troppo pieno di peccato e, per un vas figuli quale son io, troppo pericoloso. Soltanto che per ora non ho trovato il modo di staccarmi delicatamente dal mondo, né ritirare tutt’e due gli occhi dalle sue immagini vane. Né vorrei staccarmene con violenza, ché porterei le ferite e il sangue chissà fino a quando. Basta, stiamo a vedere.

Fra la «Voce» di De Robertis,

la fugace esperienza della

«Raccolta» di Raimondi («una

rivistina di buone intenzioni che esce a Bologna, dove pare

che tutto pigli sapore di

eternità. Questo basta perché

la gente ne possa parlar bene

e con una certa sicurezza di non sbagliar troppo»), e la più

lunga e riposata sosta

milanese del «Convegno» di

Ferrieri (per non dire de «La

Festa» dell’Opera Cardinal

Ferrari, per la quale Angelini acquisisce la traduzione

linatiana della Freccia nera di

Stevenson), i percorsi letterari

dei due interlocutori

presentano più punti

d’intersezione e d’incontro. Uno, sopra tutti, che è tema

in diversa guisa centrale per

tanti protagonisti della

stagione post-bellica (dai

rondisti da una parte - dal programma classicistico

dei quali sia Angelini sia

Linati prendono però,

comecchessia, le distanze -

a Montale dall’altra): il

rapporto fra modernità e tradizione, il proposito di

conciliare, ancora una volta,

antico e moderno. Scrive per

esempio Angelini (lettera del

17 giugno 1918):

(Continua da pagina 8)

(Continua a pagina 10)

Cartolina postale autografa di Cesare Angelini del 10 marzo 1918 con intestazione “Battaglione Intra”

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Pagina 10 Numero novantuno - Novembre 2013

l presente carteggio consta di 66 unità epistolari che testimoniano il sodalizio culturale tra il letterato pavese Cesare Angelini (1886-1976) e lo scrittore comasco Carlo Linati (1878-1949). La corrispondenza comprende un ugual

numero di scambi epistolari (33 unità di Angelini a Linati, altrettante di Linati ad Angelini), distribuiti non uniformemente nell’arco temporale di un trentennio, dal 1918 al 1947, con alcuni periodi di silenzio, di cui il più lungo dal maggio 1925 al giugno 1936, interrotto solo da poche missive del 1928. Come noto (cfr. il linatiano Incontro con Angelini, qui ristampato in Appendice), l’esordio del colloquio epistolare tra Linati ed Angelini risale ai tempi di guerra, quando il critico pavese, cappellano militare, nel marzo 1918 alle Cantoniere dello Stelvio assaporava i linatiani Doni della terra (Milano, Studio Editoriale Lombardo, 1915). Il carteggio si apre proprio con una cartolina postale di Angelini del 10 marzo 1918, ma registra evidenti dispersioni: nutrito è infatti il nucleo più antico delle missive del letterato pavese, mentre sono assenti le responsive linatiane, ad eccezione della lunga e rilevante lettera (n. 7) senza data, posteriore al 25 settembre 1918. Fitta e più omogeneamente ripartita la corrispondenza risalente ai primi anni Venti, quando l’amicizia tra Linati e Angelini si rinsaldò in occasione del loro incontro alla redazione del «Convegno», la rivista milanese

fondata nel 1920 da Enzo Ferrieri, della quale Linati fu colonna portante e Angelini collaboratore fino al 1927. Proprio sulle pagine del «Convegno» uscì nel 1921 l’importante saggio del critico pavese intitolato Conversazione sui lombardi. I - Carlo Linati, (anch’esso qui riproposto in Appendice), «penetrante» e dettato da «amorosa intuizione», secondo il parere dello stesso Linati, manifestato nella lettera del 27 maggio 1921 (n. 26). Altra circostanza che favorì lo scambio epistolare fu la collaborazione di entrambi alla rivista milanese promossa dall’Opera Cardinal Ferrari, «La Festa», che uscì a partire dal dicembre 1923 e vide Angelini impegnato nelle cronache di letteratura, su richiesta di Papini, direttore letterario. Dopo un decennio di interruzione, il colloquio riprende nel 1936 quando Linati, ricordando i tempi della loro buona amicizia, si rammarica che gli avvenimenti lo abbiano allontanato dal suo interlocutore. Nel 1942 un invito di Angelini, in qualità di Rettore dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia, per una conferenza linatiana sui lombardi ottocenteschi, sollecita un rinnovato scambio epistolare; così come nel 1946, l’occasione sarà offerta dall’allestimento dell’antologia scolastica La porta d’oro da parte di Angelini e Linati per i tipi di Garzanti. Gli ultimi scambi

risalgono al 1947 e sono incentrati sul progetto, non realizzato, di pubblicare presso Mondadori un volumetto di prose linatiane per le cure del critico pavese. Le missive inviate da Cesare Angelini a Carlo Linati (22 lettere, 3 cartoline postali e 7 cartoline illustrate) provengono da un archivio privato e sono state gentilmente messe a disposizione da Vittoria Bonsignore Vecellio, nipote della moglie di Linati, Anna Silvia Bonsignore. Quest’ultima è destinataria di una breve lettera di Angelini datata 5 luglio 1955, pure compresa nel medesimo corpus epistolare, ma esclusa dal presente carteggio essendo successiva alla morte dello scrittore comasco avvenuta l’11 dicembre 1949. In essa Angelini si rivolge «con antica amicizia» alla signora Bonsignore a proposito di una giacenza, presso il magazzino dell’editore Garzanti, della già citata antologia scolastica

La porta d’oro. Si è inclusa la lettera del 2 gennaio 1947 (n. 65), formalmente indirizzata alla moglie di Linati, ma destinata da Angelini ad entrambi. Di diversa provenienza la cartolina postale del 2 luglio 1923, pure accolta nel presente carteggio (n. 40), indirizzata da Angelini a Linati presso la redazione del «Convegno», rimasta nell’archivio della rivista milanese, quindi reperita all’interno del fondo Ferrieri, acquisito nel 1991 dal Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia (la cartolina si conserva nel corpus delle lettere di Angelini a Enzo Ferrieri). Le missive indirizzate da Carlo Linati a Cesare Angelini (11 lettere, 19 cartoline postali e 3 illustrate) appartengono al fondo Angelini acquisito nel 1992 dal sopracitato Centro

(Continua a pagina 11)

Le dico solo che lei ha ereditato

dai nostri antichi una gola d’oro, che lei non deve, in nessun modo, cambiare con la voce esasperata (penso alla Raccolta del Signor Raimondi) di certi modernisti che vogliono fare Rimbaud senza averlo prima, per troppa impazienza, compreso. Il nuovo è bello, caro Linati, ma l’antico è eterno.

In un’altra lettera (25 settembre 1918), l’amico

indugia ad assaporare nella

«mondizia fantastica», nella

«felicità di suoni e di parole»

del proverbialmente ricco e

«bel tesoro» lessicale linatiano «il sacro e sapido (incantato)

aroma dell’antico e la vivacità

liquida del moderno» (lettera

del 25 settembre 1918). E

Linati, ribattendo su questo

punto (ma la sua lettera è senza data):

Ma perché, a proposito di parole, ella, caro Angelini, ha quasi l’aria di scusarsi quando mi nomina i classici? Ma io li amo, ne derivo, e me ne nutro continuamente. Che vi può esser di bello, di eterno in arte senza l’uso e la coscienza di

quella bellezza antica accumulata dai nostri grandi morti? Tutto sta nell’essere modernam[ente] classici.

Non può non essere un

programma irto di difficoltà,

di ostacoli, di contraddizioni,

soprattutto per Angelini. Non

è facile, per lui, liberarsi – e

forse non se ne libererà mai – da un resistente sostrato di

sensualità e di estetismo di

ascendenza, in parte,

dannunziana (anche se in

una lettera del 9 gennaio 1920 egli dichiara di vivere da

tanto tempo lontano, «con la

persona e l’animo», da

D’Annunzio). In una cartolina

illustrata del 2 luglio 1918,

raffigurante una figura femminile, scrive per

esempio:

Oggi ho baciata l’Adda! Ho baciata l’Adda sulla bocca odorosa di muschio e spumeggiante di sorriso e di freschezza. Bella bocca tutta di macigno. Oggi mi sento così inzuppato di felicità solare, che chiamerei lauri anche i sambuchi. Caro Linati!

Ma ancor più che a

D’Annunzio, egli guarda a

Oscar Wilde:

Perché la bellezza, è peccato di oscenità volerla dispiegare per via di discorso letterario. Si sente - chi la sente - così; come si guarda

la luce, come si beve un profumo […]. Badi, Linati, che in arte io ho molta simpatia per Oscar Wilde – l’Eletto - e credo che nessuno non l’abbia, che sia, nell’animo, artista: e ciò non per estetismo vano, ma per compiuta aristocrazia,

si legge nella lettera già citata del 25 settembre 1918. Ed

ancora, in difesa di un’arte

aristocratica, di un’«arte con

lo stemma», per servirci di un

titolo angeliniano (lettera del

20 maggio 1919): Anzi, a dir la verità, c’è da spaventarsi quando attorno a un nome si fa tanto chiasso. C’è da pensare che ci siano, in quel nome, troppi elementi banali; precisamente quelli che colpiscono il pubblico, il quale, fin’ora, d’arte non ha capito un’acca. E io, per mio conto, son sempre del parere

che, non l’arte al pubblico, ma il pubblico debba accostarsi all’arte, se n’ha i mezzi e le possibilità. Perché il pubblico che cerca d’accostarsi all’arte, si sublima; ma l’arte che vuole avvicinarsi al pubblico, si contamina e prostituisce. Tra Mazzini e Wilde, in giudizi d’arte, credo che abbia sempre più ragione l’ultimo. Non è così, Linati?

Sarà anche a questo

proposito che via via si

accentueranno, nelle

discussioni del «Convegno», le

divergenze con Linati, destinate a sfociare in un

pur temporaneo distacco.

Come non è facile, neppure in

letteratura evitare gli

«sconfinamenti dell’eresia»,

oggi che «la nostra generazione s’è pervertita

per via del mal francese; e

specialmente rimbaudino»

(per spigolare ancora

una volta dalla capitale lettera del 25 settembre

1918). In una lettera del 14

giugno 1919 Angelini ricorda

ancora di aver «messo

insieme certe paginette tra

l’Oscar Wilde e il Rimbaud (pensi che spavento!) le quali

conservano il loro colore

morale di castigo: cioè sono il

frutto di certe mie

discussioncelle antirimbaudine con un

dottore di qua». Con

Rimbaud, «il quale nella

storia della poesia è

certamente un fatto unico e

grande», i conti li chiuderà definitivamente proprio nel

saggio su Linati del 1921:

Rimbaud - e il torto fu quello di averlo più ammirato che capito - è come uno di quei fili sospesi e pieni di corrente, presso i quali si scrive igienicamente: - Pericolo di morte - e van lasciati isolati. E in verità coloro che han voluto accostarsi a quel modello impraticabile, si son trovati nelle mani protese, con gran mortificazione, i frutti della loro arte inseccoliti; o finivan per identificare l’arte con l’assurdo. Pensate ai chimismi lirici che fan rizzare la pelle. Sicché quelli che contan la storia del tempo, arrivati a questo punto, spengono

il lume e, con un sospiro sfiorato di tristezza, dicon che l’arte - questo nostro fragile bene - tacitamente trasmigra.

Ma il carteggio offre molti altri

spunti e motivi d’interesse, in

particolare intorno a

questioni di lingua e di stile.

Penso, per esempio, a certe

strutture

ritmiche, a certe misure prosodiche auscultate con

orecchio finissimo e sicura

perizia tecnica nella prosa

linatiana, da avvicinare per

questo riguardo, alle

sperimentazioni di Boine. Molte delle osservazioni di

Angelini sembrano

accordarsi, insomma, con il

giudizio che sull’arte di Linati

espresse nel 1927 Eugenio Montale,

lodando

il suo senso innato del doigté, inteso non solo come esatta granitura del periodo, ma ancora come sapiente modellatura ottenuta a rapidi colpi di pollice, e facoltà di rendere sensibile alle nocche delle dita ogni punto morto della sua prosa. Nella quale, per simile qualità, quelle zone che il Valéry chiamerebbe le «parti grigie» sono dissimulate abilmente, ma non mai truccate a scapito delle pagine più schiette.

Ed è proprio riguardo a questi

temi che la cooperazione dei

due sodali produce frutti

cospicui. Merita una segnalazione, in particolare,

la precoce messa a punto,

con dovizia di esempi, di

quella linea lombarda che si

diparte

dal semenzaio dossiano e che Contini avrebbe poi fatto

confluire nella categoria

dell’espressionismo e nella

«funzione Gadda». Che i due

compagni in «lombarderia»,

per usare la spiritosa definizione di Boine, possano

essere in qualche modo

annessi a tale funzione, è

argomento che richiederebbe

forse un supplemento di analisi. Anche a questo

proposito l’accuratissimo

indice dei nomi che chiude il

volume, registrando sotto il

lemma dell’autore anche

i titoli delle opere citate, potrà fornire informazioni preziose.

(Continua da pagina 9)

Fotografia di Carlo Li-

nati,

in divisa militare,

con dedica autografa a Cesare Angelini

LE IMMAGINI E LE RIPRODUZIONI DEGLI SCRITTI PRE-

SENTATE IN QUESTE PAGINE SONO CONTENUTE NEL VOLUME CESA-

RE ANGELINI - CARLO LINATI, CARTEGGIO 1918-1947 (A CURA DI FABIO MAGGI E NICOLETTA TROT-

TA, CON PREFAZIO-

NE DI RENZO CREMANTE), EDI-

ZIONI DI STORIA E LETTERATURA, ROMA 2013

Un colloquio lungo trent’anni

di Nicoletta Trotta

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Novembre 2013 - Numero novantuno Pagina 11

Manoscritti dell’Università di Pavia. Allegata al corpus epistolare si conserva inoltre una fotografia formato cartolina di Linati in uniforme militare con dedica autografa all’amico (qui riprodotta nella sezione iconografica). I documenti presentati sono inediti tranne: – Due lettere di Carlo Linati a Cesare Angelini pubblicate a cura di N. Trotta in «Autografo», XIII , n. 34, gennaio-giugno 1997, pp. 97-106. Si tratta della lettera senza data, ma del 1918 (n. 7), e di quella del 17 novembre 1923 (n. 43); – 17 unità indirizzate da Cesare Angelini a Carlo Linati pubblicate in C. Angelini, I doni della vita. Lettere 1913-1976, a cura di A. Stella e A. Modena, Milano, Rusconi, 1985. Si tratta delle missive datate: 10 marzo 1918 (n. 1); 24 marzo 1918 (n. 2); 31 agosto 1918 (n. 5); 25 settembre 1918 (n. 6); 20 maggio 1919 (n. 8); 14 giugno 1919 (n. 9); 6 luglio 1919 (n. 10); 4 settembre 1919 (n. 13); 20 settembre 1919 (n. 14); 9 gennaio 1920 (n. 17); 21 febbraio 1921 (n. 22); 21 luglio 1921 (n. 28); 28 ottobre 1921 (n. 31); 8 novembre 1923 (n. 42); 2 marzo 1925 (n. 52); 20 dicembre 1928

(n. 56); 5 ottobre 1946 (n. 63). Si fa presente che, per quanto riguarda le lettere a Linati, i curatori non poterono disporre degli originali bensì di trascrizioni effettuate dalla vedova dello scrittore: ciò spiega alcune difformità di lezione e qualche discrepanza nella datazione. L e lettere di Angelini del 24 marzo 1918 (n. 2) e del 25 settembre 1918 (n. 6) erano state precedentemente pubblicate in C. Angelini, Trenta lettere, con una nota di A. Comini e A. Stella, Pavia, Almo Collegio Borromeo, 1981. Tre lettere di Linati - senza data ma del 1918 (n. 7), 29 settembre 1920 (n. 20) e 18 giugno 1936 (n. 60) - sono state esposte nella mostra che il Centro Manoscritti dell’Università di Pavia dedicò nel 1996 a Cesare Angelini (cfr. la sezione linatiana del catalogo curata da A. Modena in Cesare Angelini nel ‘tempo’ delle amicizie, Pavia, Edizioni Tipografia Commerciale Pavese, 1996, pp. 193-195). Si segnala inoltre che il presente carteggio è stato oggetto dell’intervento di N. Trotta dal titolo Un maestro a nome Chirone. Il carteggio Angelini-Linati, presentato alla sessione dedicata a Cesare Angelini e la cultura del Novecento in occasione del convegno Umanesimo ecumenico: percorsi interiori della convivenza, Pavia, Almo Collegio Borromeo, 13-14 ottobre 2006. Notizie in merito erano state anticipate nell’articolo di N. Trotta, Voci

lombarde nell’epistolario linatiano. Lettere indirizzate a Ferrieri e ad Angelini, pubblicato nel volume Carlo Linati a 50 anni dalla morte. Atti del Convegno tenutosi a Como 1999, Comune di Como, 2001, pp. 48-58. Si deve a Nicoletta Trotta la trascrizione delle missive di Linati e di quella di Angelini datata 2 luglio 1923, reperita nel fondo Ferrieri; a Fabio Maggi la trascrizione delle restanti missive di Angelini. Le lettere, presentate secondo l’ordine cronologico, sono state numerate progressivamente. Nella trascrizione si sono rispettati fedelmente gli originali, anche nell’uso oscillante di maiuscole / minuscole (ad esempio nei giorni della settimana o nei mesi). Ci si è limitati a correggere casi rari di evidenti sviste grafiche. Sono state rese in corsivo le parole sottolineate dai due corrispondenti, come pure le parole straniere anche quando non sottolineate. Sono altresì stati trascritti in corsivo i titoli di testi e di volumi, così come le

testate di riviste e di giornali, sottolineati sempre da Angelini e in buona parte da Linati (che però talvolta fa uso di virgolette alte e di trattini). Si è pure uniformato l’uso delle virgolette caporali nelle citazioni all’interno delle missive, rispettando nelle lettere di Linati l’utilizzo delle virgolette alte per le citazioni di due parole. Si sono mantenuti gli a capo degli autografi. Le posizioni della data e della firma sono standardizzate, l’una in alto a destra, l’altra in basso a destra, seguendo i criteri della collana. Si è rispettata la forma della data. In mancanza di datazione autografa, si è ricorsi al timbro postale (dandone segnalazione: «t. p.» entro parentesi quadre) per le cartoline postali o illustrate e per le lettere di cui si conservi la busta (le missive di Linati ne sono totalmente prive, mentre quelle di Angelini ne contano dieci); si è racchiusa tra parentesi quadre la datazione ricostruita attraverso riferimenti interni. Le parentesi uncinate sono state introdotte in due soli casi per indicare un’integrazione congetturale di parole che mancano nel testo o per svista dell’autore (‹preso›: lettera n. 17) o per lacuna dovuta a un’abrasione del supporto cartaceo (‹mio›: lettera n. 54). Le abbreviazioni presenti negli autografi (relative a nomi di persona, di luogo, titoli di libri) sono state sciolte ed integrate nel testo

entro parentesi quadre, tranne le abbreviazioni canoniche (come es., vol., pag., ms.). Ogni missiva è fornita, in nota, di una sintetica indicazione archivistica nella quale sono segnalati oltre alla consistenza, l’eventuale presenza di intestazioni della carta, l’indirizzo delle cartoline postali e di quelle illustrate e l’indicazione di mittente e destinatario vergata sulle buste. Le missive sono tutte

manoscritte autografe (indicate con ‘ms.’) tranne una lettera (n. 64) e una cartolina postale (n. 66), entrambe di Linati, dattiloscritte (indicate con ‘ds.’). Ogni missiva è inoltre corredata di annotazioni illustrative dedotte, in primo luogo, da scritti degli autori o da altri carteggi, sia editi sia inediti. Si è cercato di fornire informazioni utili a chiarire il contesto nel quale si sviluppa il dialogo epistolare, evidenziandone i nuclei tematici più rilevanti. Si sono date notizie su

personalità meno note citate nei testi, mentre per i personaggi maggiori ci si è limitati a precisare i loro rapporti con i due corrispondenti. Per le citazioni di volumi, di articoli, di testate di giornali e riviste, si sono seguite le norme tipografiche dell’Editore. Si sono segnalati pure in nota gli sporadici interventi correttorî presenti negli autografi. Nell’ambito di un progetto comune si devono a Nicoletta Trotta le note relative alle missive di Linati (e ad alcune di Angelini), a Fabio Maggi le note relative alla gran parte delle missive angeliniane. In riferimento ai volumi sui quali sono state apposte, si sono riportate in nota anche le dediche autografe vergate da Linati sui libri donati ad Angelini, i quali si conservano nel fondo intestato ad Angelini presso la Biblioteca del Seminario Vescovile di Pavia. Sono rimaste escluse le seguenti dediche, relative a due testi non citati nel carteggio: «All’amico Angelini | fraternamente | Linati | Rebbio | Agosto del ’42» in Aprilante. Soste e cammini, Roma, Tumminelli, 1942 e «All’indimenticabile | Amico | Linati» in Due tempi in provincia. Cupido fra gli alambicchi. Barbogeria, Milano, Ultra, 1944. Per completezza si segnala la presenza nel fondo Angelini di altri volumi di Linati, privi di dedica, ma per lo più postillati dal letterato pavese: Cristabella, Milano, Tipografia Enrico

Zerboni, 1909; Duccio da Bontà, Varese, A. Nicola & C., 1912; I doni della terra, Milano, Studio Editoriale Lombardo, 1915; Nuvole e paesi, Firenze, Vallecchi, 1919; A vento e sole. Pagine di vagabondaggio, Torino, Società Subalpina Editrice, 1939; Passeggiate lariane, Milano, Garzanti, 1939. Non è stato possibile reperire i libri donati da Cesare Angelini a Carlo Linati. A completamento, è parso utile raccogliere in Appendice gli scritti di Angelini su Linati e di Linati su Angelini, in buona parte richiamati da singoli passi delle lettere, come si è segnalato di volta in volta in nota. Le citazioni dei testi linatiani variamente prodotte da Angelini sono state sempre controllate sulle stampe originali. Si forniscono qui di seguito le indicazioni bibliografiche relative ai testi raccolti nell’Appendice. Alla prima sezione appartengono gli scritti di Angelini su Linati: – Carlo Linati in Il lettore provveduto, Milano, Il Convegno Editoriale, 1923, pp. 101-143. Col titolo Conversazione sui lombardi. I - Carlo Linati il testo aveva già visto la luce in rivista, «Il Convegno», II (1921), 4-5, pp. 162- 188;

– Il Proverbio della Lombardia, «Il Convegno», III (1922), 11-12, pp. 674-679. La parte iniziale del testo (fino ai primi asterischi) fu poi riportata da Angelini, con minime varianti, anche nella rivista «La Festa», III (1925), 16, p. 3; – “Le tre pievi” di Carlo Linati, «Il Popolo Veneto», 1° novembre 1922. Questo testo è ricavato dall’articolo precedente, Il Proverbio della Lombardia, sensibilmente modificato nella seconda parte; – A Carlo Linati Cesare Angelini dice salute, «La Festa», III (1925), 18, pp. 7-8; – Linati in Carta, penna e calamaio, Milano, Garzanti, 1944, pp. 293-297. Col titolo Ritratti celeri. Linati il testo aveva già visto la luce in rivista, «Primato», IV (1943), 13, p. 242; – Nuvole e paesi in Vivere coi poeti, Milano, Fabbri, 1956, pp. 72-75. Il testo aveva già visto la luce in rivista, «Saggi di umanismo cristiano. Quaderni dell’Almo Collegio Borromeo», VI (1951), 4, pp. 85-87; – Poeta in Brianza in Quattro lombardi (e la Brianza), Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1961, pp. 47-58. Il testo aveva già visto la luce nel quotidiano «Il Corriere della Sera» del 4 ottobre 1957. Raccolto poi anche in C. Angelini, Uomini della «Voce», a cura di V.

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Cartolina postale autografa di Carlo Linati del 31 luglio 1919

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Scheiwiller, Milano, Libri Scheiwiller, 1986, pp. 71-77; – Fedeltà lombarda in Cronachette di letteratura contemporanea (1919-1971), Bologna, Boni Editore, 1971, pp. 191-199. Il testo aveva già visto la luce nel quotidiano «Il Corriere della Sera» del 24 ottobre 1968. Alla seconda sezione appartengono gli scritti di Linati su Angelini: – Il dono del Manzoni di Cesare Angelini e Il lettore provveduto di Cesare Angelini, «Il Convegno», V (1924), 3, pp. 134-136; – Incontro con Angelini, «Settegiorni», 26 giugno 1943, p. 9, poi raccolto in Il bel Guido e altri ritratti, a cura di G. Lavezzi e A. Modena, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1982, pp. 97-105. Si segnala infine che Linati è presente nelle antologie scolastiche curate da Angelini, con brani, relativi ‘cappelli’ introduttivi e note.

Riportiamo di seguito i riferimenti bibliografici (non presenti nelle antologie): C. Angelini, La vite e i tralci, antologia per le scuole medie, Milano, Casa Editrice Alba, varie edizioni dal 1931 al 1938: – volume classe III , L’airone bianco, pp. 254-261 (da Storie di bestie e di fantasmi, Milano, Treves, 1925, pp. 1-12); – volume classe IV, I doni della terra, pp. 332-334 (Spoglie, Limaccia, da I doni della terra, Milano, Studio Editoriale Lombardo, 1915, pp. 32-33, p. 89). C. Angelini-C. Linati, La porta d’oro, Antologia italiana per la scuola media inferiore, Milano, Garzanti, 1946; 2ª edizione riveduta e largamente accresciuta, ivi, 1949: – Immagini lombarde, pp. 117-119 (Spoglie, Limaccia [ma nell’antologia con titolo Lumaca], da I doni della terra, pp. 32-33, p. 89); – L’airone bianco, pp. 264-269 (da Storie di bestie e di fantasmi, pp. 1-12).

Entrambi riportati anche nella 2ª edizione. C. Angelini, L’allegra vendemmia, Antologia per il Ginnasio superiore e per il primo biennio del Liceo scientifico, Brescia, La Scuola Editrice, 1949: – Autunno pittore, pp. 9-10 (da Aprilante. Soste e cammini, Roma, Tumminelli, 1942, pp. 69-72); – Pagine lombarde, pp. 138-141 (Luglio, da Nuvole e paesi, Firenze, Vallecchi, 1919, pp. 113-114; Orietur Stella, La siesta sulla vasca, da Amori erranti. Figure ed episodi, Milano, Facchi, 1921, pp. 9-10, pp. 123-129; L’esodo, da «Il Resto del Carlino» del 22 novembre 1921); – Studi di mesi e di paesi, pp. 160-164 (Studi d’ulivi, Marzo, Aprile, Maggio,

Novembre, L’Inquieto, Visitazioni da Nuvole e paesi, pp. 25-26, pp. 103- 104, pp. 105-107, pp. 109-110, p. 121, pp. 75-79, pp. 83-85); – Le pianelle del Signore, pp. 203-215 (da Le pianelle del Signore. Racconti e paesi, Lanciano, Carabba, 1932, pp. 329-358).

Nicoletta Trotta

Dedico questo lavoro a mio marito, Franco Mirabelli, troppo presto strappato

alla vita e a tutti noi.

(Continua da pagina 11)

la libertà democratica è

debitrice nei confronti

della mamma di tutte le

libertà moderne, quella

di credenza religiosa. È l’esperienza della

pluralità delle fedi e

delle credenze religiose,

etiche o culturali che

chiede sin dall’origine la

risposta della laicità. In due parole, il mio

teorema sulla laicità

deriva dall’assioma

dell’eguale libertà

democratica di

cittadinanza. Sono consapevole del fatto

che il mio teorema non

esaurisce i molti volti

della vaga e preziosa

idea di laicità. E so

anche quanto importanti possano

essere altri approcci alla

difficile questione. Ma

credo che quando

nell’analisi si può distinguere, allora è

buona cosa distinguere.

Se fosse possibile

raggiungere un accordo

ragionevole sulla

connessione intrinseca fra l’idea di laicità e la

natura della libertà

democratica di

cittadinanza e sulle sue

implicazioni, avremmo

almeno guadagnato

un’area condivisa di accordo per metterci alla

prova nelle circostanze

persistenti e durevoli del

disaccordo, anche nei

casi estremi. Del resto,

come ho più volte

sostenuto nei miei lavori

sulla libertà

democratica, la

persistenza del disaccordo e della

diversità non è un male

congiunturale quanto

piuttosto un tratto

strutturale che

contraddistingue le forme di vita

democratica. Come ci

ha suggerito nel suo

insegnamento un

autorevole maestro di

saggezza quale Carlo

Maria Martini, noi dobbiamo imparare a

convivere nella

diversità. Impresa certo

non facile per i figli della

fragilità di Voltaire. Ma,

al tempo stesso,

impresa sicuramente

resa impossibile e

impraticabile, se il

nesso fra laicità e democrazia fosse

esposto a un destino di

perdita e dissipazione.

Il vecchio Socrate ha

ascoltato perplesso e incuriosito e, alla fine,

mi ha ricordato che in

ogni caso un gallo ad

Esculapio vale la pena

di offrirlo.

Salvatore Veca

(Continua da pagina 1)

NELLE FOTO Cesare Angelini alpino, terzo da sinistra.

A destra: lettera autografa di Carlo Linati del gennaio 1924

Sessantasei unità epistolari

testimoniano il sodalizio culturale

UN’IDEA “POLITICA” DI LAICITÀ

A sinistra: la copertina del libro di Veca

A destra: Carlo Maria Martini (1927-2012)

L’EDITORIALE