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FATIMA con SOPHIE BLANDINIèRES ERO UNA SPOSA BAMBINA Traduzione di PAOLA LANTERNA

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Fatimacon sophiE blandinièrEs

Ero una sposabambina

Traduzione diPaola lanterna

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titolo originale: Esclave à 11 ans © Flammarion 2011

realizzazione editoriale: Conedit Libri Srl - Cormano (MI)

i Edizione 2012

© 2012 - Edizioni piEmmE spa, milano www.edizpiemme.it

anno 2012-2013-2014 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

stampa: mondadori printing spa - stabilimento nsm - Cles (tn)

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CarnE GioVanE

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Tutto è pronto. L’hanno preparata. Ora ha bracciali ai polsi e indossa un abito di un bianco sporco, troppo grande per lei. Si è chiusa nel silenzio. I capelli, lisciati e pettinati all’indietro, le scoprono la fronte ampia e gli occhi nerissimi. Ha già visto sgozzare un vitello, ha udi-to il lamento della bestia, ma quel richiamo disperato è stato vano, perché la mano che gli ha reciso la gola ave-va già deciso che sarebbe morto. Così, lei preferisce ta-cere piuttosto che dire che acconsente o che si oppone. A ogni modo, la sua voce non conta; è sempre stato così, le sue parole non hanno suono.

Il caldo è torrido, ma lei ha freddo. È la paura. Il terrore dell’ignoto, di quello che potrebbe accaderle da lì a poche ore, il terrore di tutte le ore che verranno do-po quel giorno. Davanti a lei, il futuro è incolore, simile a un vasto, profondissimo baratro nero. E lei è lì, sospe-sa su quel buco senza fondo.

Preferirebbe affrontare un branco di leoni affamati o un’orda di coccodrilli piuttosto che l’uomo che sta per arrivare. Di lui non sa niente o quasi, solo che è vecchio. Un vecchio che la prenderà e la trascinerà a forza nel suo paese, in Medio Oriente. Lei non ha idea di dove si

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trovi. Come sarà? Ci saranno montagne fatte di soldi? E i deserti fatti come parcheggi di auto di lusso? Per quanto si sforzi non le riesce di immaginare dove vivrà domani. In fondo, non ha mai lasciato il villaggio e non l’ha mai sfiorata il pensiero di poterlo fare un giorno.

Da una settimana ha notato che la gente la guarda in modo strano. Le donne con invidia, gli uomini con iro-nia. Fino a ieri, non ne capiva il motivo.

Ora sa. Ora sa che deve accettare. Si prepara per que-sto, senza sapere davvero cosa sia bene o male.

In un nugolo di polvere rosa, una grande macchina nera schiaccia i solchi tracciati dai buoi sulla strada ster-rata. Alla gente del villaggio capita di vedere quei bolidi ed evita di trovarsi sulla loro traiettoria. Si domanda che cosa ci vengano a fare gli stranieri in un posto così desolato. Non c’è niente qui. Chi lo abita, per lo più contadini alti ed emaciati, tira avanti come può.

Qualcuno sa e non si stupisce più. Forse perché ieri era per sua figlia, sua sorella o sua nipote... o perché malgrado il silenzio che qui, come la sabbia, ricopre tut-to, hanno sentito le voci.

Da lontano, guarda l’acciaio nero del lampo e le nubi che si addensano. Nel suo abito da sposa, consunto e troppo grande per lei, è scossa da un brivido. Credeva in Dio, ora crede anche nel destino.

sono io la giovane sposa spaventata. ho conservato negli occhi, nella carne e nel cuore, ogni secondo, ogni minuto delle nozze. nozze di sangue e di lacrime

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scure come il fiume niger. ricordo l’istante preciso sulla soglia di casa e il mio desiderio che la grande macchina nera venisse risucchiata via di colpo, che la polvere ricadesse placida al suolo; avrei voluto strap-parmi di dosso il vestito troppo grande, smettere di piangere, di tremare. so bene cosa mi attende. lo av-verto. io, piccolo animale braccato. il mio futuro? un brivido gelido.

sono la giovane sposa, o meglio “la sposa giovane”. ho solo undici anni. una bambina. lui ha trent’anni, più del doppio della mia età; potrebbe essere mio pa-dre. è venuto perché vuole la quarta moglie. io non sono una donna, non ancora, non subito.

mi chiamo Fatima, sono una bambina, e non voglio sposarmi. lui si chiama ahmed e non sorride mai. bruno e con la barba, a me non sembra né bello né brutto. Quando lo vedo, ha l’aria di un uomo che sta per concludere un affare. dicono semplicemente que-sto: «è tuo marito». lo sconosciuto dal viso severo, quello, è mio marito. banale come una frase. Che stra-no, mi sposo con un estraneo. penso che sia assurdo, di certo so che è pericoloso.

Quel mattino, quando le donne mi hanno cosparso di henné, c’era un’altra ragazzina con me, rama. an-che lei sposa un vecchio, un tipo venuto dalla nige-ria. la stessa cerimonia per tutti. ma lei ride, felice. mi ha spiegato che non sarebbe più stata costretta a lavorare, che non sarebbe più stata povera e che solo questo contava. le brillavano gli occhi mentre già si

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immaginava nel lusso e nell’ozio. io l’ascoltavo, incre-dula.

a mio parere, ci sono altre soluzioni. io voglio stu-diare, e grazie a questo essere meno povera. Forse po-trei trovare un lavoro per pagarmi la scuola. ma sono ancora piccola e per ora non posso permettermelo. sono una bambina, non so niente della vita, ma di una cosa sono certa: non sono obbligata a sposare un estraneo per uscire dalla mia condizione. sono certa che sposarmi con lui non significa uscirne ma finire in trappola.

sono abbastanza matura e intuitiva, per afferrare al volo che a partire da oggi vivrò in una gabbia.

C’è stata una cerimonia, una specie di pranzo nu-ziale. non si può parlare di un vero matrimonio, come quelli cui ho assistito fino a oggi al villaggio. siamo in pochi, un parente di rama, una vicina, mio padre e sua sorella. mia zia. è lei che ha combinato tutto, che ha avuto l’idea e ha negoziato il mio prezzo. per colpa sua, mia madre non c’è. si detestano. mia zia ha paura che se ahmed vede mia madre possa alzare i tacchi e an-darsene. E lei non vuole rischiare di far saltare l’affare.

mamma non fa paura. in ogni caso non a me. mi rassicura e a me non importa della grossa cicatrice che ha sulla guancia. per me è bella e tenera. non ce l’ho con lei per quello che mi sta succedendo, intendo il sa-crificio di sua figlia che viene venduta. lei non c’entra.

mia madre non ha nessun potere al villaggio. mia zia saba ne ha molto. E ne abusa impunemente. sa

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come mettere a tacere la gente con la sua posizione e i suoi soldi. saba ha un bordello, è una prostituta. non nasconde la sua professione, non è necessario. a quanto pare, il traffico di donne è facile e redditizio. la povertà e la mancanza di educazione fanno il lavo-ro di reclutamento al suo posto. Guadagna più di quanto lavori. è furba e, qui, il suo commercio non ha concorrenza. i clienti arrivano da lontano. attratti dalla prospettiva di avere una donna docile e bella a un prezzo ragionevole, mercanteggiano con lei.

abbiamo la fama di essere belle, noi ragazze del vil-laggio. Ci somigliamo tutte. siamo Fulane. alte, la pelle chiara, il viso dai lineamenti delicati, siamo mer-ce ricercata. la Fulana è preziosa; e costa poco. Credo che il prezzo di uno zebù sia più alto di quello di una ragazzina della mia etnia. Questi uomini ci sposano ancora bambine, fresche e il più delle volte obbedienti. Ci penseranno loro a farci crescere, a marchiare il no-stro corpo a ferro e a fuoco, a piegarci sotto il giogo delle umiliazioni.

la casa di saba, tipica, in terra rossa seccata, non ha niente di straordinario: due camere, una grande stanza. la conosco bene e la odio. siamo da mia zia, al bordello. è là che mi sposo, che pranziamo. Che pran-zano, perché io ho un nodo che mi serra lo stomaco. le donne si ingozzano, mio padre mi guarda con la sua aria furba e il suo sorriso allusivo. anche ahmed mi fissa, ma in tutt’altro modo. il suo sguardo è arrogan-te, impudico. ora che sono sua moglie mi possiede. ma non gli basta. mi vuole anima e corpo. perché gli ap-

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partenga totalmente, deve consumare il matrimonio. mangiare gli importa poco quanto a me. ha fretta che tutto finisca per passare a cose serie, ciò per cui ha pagato, la sua merce... io.

in seguito, mi è capitato di domandarmi: perché esistono uomini che sposano donne che non li amano? alla fine ho capito che è solo un fatto di possesso, un desiderio di prevaricazione. le donne che hanno comprato sono di loro esclusiva proprietà.

da quando quell’uomo è arrivato al villaggio, sono cambiata. resto Fatima ma non sono più qualcuno, non sono più la figlia dei miei genitori, o l’amica di... ormai, non mi appartengo più. sono la cosa di m. ahmed e credo di dovermi comportare come tale. non muovermi, non dire niente e non interrompere per non finire come uno scarto. non ho più stato ci-vile ora che sono un oggetto. Giusto il diritto di avere un nome, per chiamarmi. mi hanno cancellata, ridot-ta a un numero, messo un guinzaglio invisibile e cor-tissimo.

Quel giorno non so ancora tutto questo. ma quello che so basta a terrorizzarmi. ho paura della notte che avanza, ho paura del momento in cui sarò sola con mio marito. osservo ahmed che sussurra qualcosa all’orecchio di saba. seduto all’altro lato della stanza sui cuscini che fungono da divano, sembra infastidito. mia zia, alla sua destra, reagisce fulminando con lo sguardo le invitate di questo matrimonio farsa. sono donne, vicine, prostitute al soldo di mia zia. ridac-

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chiano sdraiate sui fianchi, contente di beneficiare, una volta tanto, delle prodigalità della casa. per non contrariare ahmed, e rispettare il suo rango di ricco straniero, è stato preparato un banchetto ghiotto e ab-bondante. le donne lo divorano alla mia salute. ap-parentemente, considerano il mio matrimonio un re-galo. per loro e per me. una di loro mi ha mormorato all’orecchio: «sei fortunata, stai per andartene». se potessi le cederei il mio posto.

mia zia fa capire loro che la festa è finita, che è ora di andare a casa. Fuori, la notte nera regna sulla mia paura che si intensifica. Finalmente, ahmed sorride. ma la sua espressione è priva di calore, il sorriso è freddo, quasi maligno, l’esternazione di un intento perfido. impone così la sua vittoria, ottenuta senza dover lottare, no, semplicemente pagando. mio mari-to non è un vincitore. è un vincente. non deve batter-si, si limita a negoziare e, infine, ad approfittare del suo acquisto.

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GioCo al massaCro

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Fuori, le raffiche di vento frustano i rami degli alberi e alzano girandole di polvere. le figure si sono dissol-te nell’oscurità. il marito ha tirato la tenda che funge da séparé. un materasso e una sedia di plastica sono l’unico mobilio di questa camera sordida rischiarata da un vecchio neon rotto, che lampeggia a intermit-tenza. nella casa resta mia zia, la grande coordinatrice. la sento muoversi dietro il divisorio sottile. ahmed si fa avanti, sicuro del fatto suo. tende la mano per po-sarla sul mio seno ancora acerbo. ho solo undici anni e il mio petto ha un timido accenno di crescita. una lieve rotondità, timido preludio all’adolescenza. non sono una donna. si vede.

la sua mano viene verso di me. io non intendo la-sciarlo fare, indietreggio e parlo forte, perché qualcu-no mi senta e corra ad aiutarmi. Gli dico: «non farlo, mia zia non è d’accordo». E tuttavia non mi faccio il-lusioni sul suo conto, ho dovuto ammettere che lei c’entrava. Che tutto è contro di me. ho l’istinto pue-rile di mentire. lo minaccio con: «non farlo, mia zia non è d’accordo», come avrei potuto dire: “attenzio-ne, sono armata” o “mio padre è un poliziotto. è for-

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tissimo.” o “conosco degli spiriti maligni”. la mia frase si perde senza effetto, tranne quello di far ridere ahmed. si diverte e, per tagliar corto, dice: «sei la mia donna».

ha ragione, sono la sua donna, solo che io non sono una donna. sono una ragazzina che detesta il vecchio al quale l’hanno ceduta. una bambina che rifiuta di perdere la sua verginità con la forza. un essere umano, che vorrebbe che il suo parere contasse, una piccola cosa spaventata, pronta a difendersi con i pochi mezzi che possiede, forse risibili. mio padre è uscito dalla casa da tempo e da dove si trova non può sentirmi. E poi, nemmeno lui mi aiuterebbe. è favorevole alle mie nozze: ci guadagna. non ha nulla sulla coscienza: il sacrificio di sua figlia serve per aiutare la sua famiglia. l’argomento soldi da noi vale più che altrove.

ahmed si ostina. io mi dibatto. sono minuta ma alta per la mia età e mossa da un istinto di conservazione che mi dà una forza spropositata. mi afferra una pri-ma volta ma gli sfuggo, salto verso la finestra. ha smesso di ridere, comincia a innervosirsi, il suo viso si contrae e i suoi gesti sono più brutali. prova a tratte-nermi serrandomi i pugni, afferrandomi per i capelli. io non smetto di agitarmi, lui ricorre a metodi più ra-dicali. mi prende a sberle. una pioggia di schiaffi si abbatte sulla mia faccia.

mi ha strappato il vestito. resto in slip e un lembo di tessuto che dalle spalle mi pende sui seni. malgrado i suoi tentativi di controllarmi, la nudità umiliante e i

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colpi ricevuti, non mi arrendo. si mette a sbraitare, chiama mia zia in aiuto.

la sedia vola via, ahmed si è spazientito. da quel momento, si scatena l’inferno. ma mia zia non si è fat-ta viva. né lei, né i vicini. dalla finestra della camera dove tento di sottrarmi al mio triste destino scorgo il vicino che abita di fronte, un vecchio che mi conosce da quando sono nata. non si è mosso. né lui, né gli altri nelle casupole intorno.

Con l’aria scura, gli occhi che inviano lampi, quelli che ha quando mi infila a forza del peperoncino in bocca per farmi rimpiangere di aver parlato troppo o me lo preme sugli occhi per punirmi di aver osato guardarla, mia zia si decide a intervenire. irrompe nel-la camera. tiene in mano un lungo foulard che di so-lito porta in testa.

minaccia di farmi mangiare del peperoncino se non mi decido ad arrendermi.

mi prende le braccia e me le lega dietro la schiena con il foulard in un silenzio carico di significati. devo capirlo: rischio grosso a ostinarmi.

alla parola “peperoncino” smetto all’istante di sal-tellare. ho permesso a mia zia di legarmi i polsi, ho abbassato gli occhi come piace a lei. non mi muovo più. ma è un momento. infatti, ho solamente atteso che uscisse per riprendere le armi.

prima ho messo le mani in modo tale che lei non potesse stringere forte il foulard, non abbastanza, in ogni caso. ahmed ha un ginocchio puntato su di me, mi faccio comunque male ai polsi, fino a farli sangui-

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nare, mentre tento di sciogliere quelle manette di co-tone. Finalmente riesco a liberare una mano e veloce artiglio la faccia del mio aggressore per respingerlo e liberarmi della sua stretta. Faccio un balzo e corro via verso la finestra, la scavalco. mezza nuda attraverso il giardino illuminato dalle case circostanti e mi arram-pico sull’acacia. a cavalcioni di un ramo, squadro ah-med che folle di rabbia grida insulti così forte che mia zia non tarda a riapparire.

mi ordinano di scendere ma io non li ascolto, sono decisa a restarmene appollaiata sul mio albero. a ve-derli dall’alto, che sbraitano minacce e promesse di terrificanti punizioni, preferisco restarmene dove mi trovo. la scena dura dieci minuti. il vicino che abita dall’altra parte del muro è compiaciuto nel vedermi in difficoltà. lo scorgo alla finestra, sotto la sua lanterna, muto e soddisfatto.

lo diverte che venga braccata come un animale. spettatore pago della caccia.

sono consapevole di non avere possibilità di fuga. prima o poi mi toccherà scendere e allora mi agguan-teranno come un pollo, e non potrò più agire. mi ac-contento di rimandare la mia sconfitta, perché sia me-no amara, meno terribile. almeno potrò dire di essermi battuta, di aver corso, piccola lepre accecata dal lam-po improvviso dei fari di una macchina.

la pazienza di amhed è finita. malgrado la tunica ingombrante e i sandali che scivolano, si arrampica a sua volta sull’acacia. non ha bisogno di raggiungermi sul ramo. Gli è sufficiente afferrarmi per le gambe.

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provo a sollevarle e a piegarle ma lui si arrampica sempre più in alto e mi afferra, stavolta per il braccio. io precipito giù.

la caduta mi ha stordita. non c’è un punto del mio corpo che non sia indolenzito. sento un dolore acuto alla spalla, credo che si sia lussata. Gli schiaffi hanno segnato il mio viso che adesso pulsa, caldo. mi dico che non può fare peggio, che non gli conviene esage-rare. deve limitare i colpi per garantire che la merce rimanga intatta. tanto più che non l’ha ancora gustata.

per terra, come spezzata, non ho la forza di rialzarmi. le gambe non riescono a muoversi. Figuriamoci se riescono a sorreggermi fino al mattatoio: la camera è umida e invasa di zanzare che volano, moleste, com-plici di torbidi segreti. dato che resto là, pesta, la fac-cia nella polvere, a pochi centimetri dai piedi di mia zia, ahmed si china. Chiudo gli occhi, non voglio ve-dere la sua faccia sudata, i suoi occhi spiritati. mi sol-leva e mi getta qualcosa di simile a un sacco sulle spalle. il sangue affluisce nella mia testa mentre vedo sfilare il suolo nero, poi il corridoio male illuminato e infine la camera con la sua lampada che si accende a intermit-tenza. il materasso sporco, il lenzuolo macchiato di ogni vizio, le pareti nude sulle quali posare i suoi oc-chi vuoti.

ahmed è nudo e mi disgusta. dice di essere mio marito. io lo vivo come una zappa che scava un solco nella mia terra, una lama che incide un taglio profon-do nella mia intimità. mi separa da me stessa. strazia-

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to, il mio corpo è un lembo di fragile tessuto che si lacera. mio marito mi violenta. mio marito mi deflora, mi guasta, mi sciupa. Vorrei che la mia carne non fos-se la mia carne, che si staccasse da me, soffrisse tutta sola, in un angolo, con le migliaia di frammenti di ve-tro che la feriscono. Vorrei che lui sparisse con l’arma che ha tra le gambe. ma è là e io sotto di lui. un’incu-dine. sono sventrata, svuotata. il mio sangue caldo è un rigagnolo tra le cosce, segue la curva delle gambe. letto di fiume scarlatto.

ha finito. è tornata la calma. i miei occhi restano chiusi, nel timore di incrociare i suoi e le chiazze di sangue sul lenzuolo. lo sento parlare a voce bassa con mia zia. lei gli risponde. Cosa le avrà detto? “è fat-ta?” “adesso è una donna?” “adesso l’ho infangata, non è più vergine.” di sicuro dice a se stesso che mi ha domata. ha imposto la sua forza, il suo potere vi-rile. mi possiede totalmente. è il primo e credo che sarà l’ultimo.

distesa, il mio corpo è diviso, spezzato, ricoperto di lividi. ogni respiro mi tortura. Faccio attenzione a muovermi, rotolo su me stessa per trovare la posizione che mi consentirà di alzarmi senza soffrire troppo. le due voci continuano la loro conversazione nel salone. Finalmente, riesco a uscire dalla mia posizione senza avere la sensazione di perdere i pezzi. sulle dita dei piedi che poso a terra c’è del sangue rappreso. senza far rumore, mi intrufolo nel cortile sul retro, dove ci si lava e si cucina, e riempio d’acqua un mastello per to-gliere dalla mia pelle sporca i resti dell’odore di mio

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marito. mi accingo a lavarmi le parti intime quando compare mia zia. non dice niente ma ferma il mio ge-sto e prende il recipiente. è chiaro che vuole lavarmi.

intinge un tessuto nell’acqua, con il quale comincia a sfregarmi il ventre. le sue mani mi disgustano. non voglio che mi tocchi. lavarmi è solo un pretesto per farmi più male. nella penombra del cortile, mi sento un insetto schiacciato. due volte più sporca perché lei mi ha toccata, mi sfrego le cosce, le braccia. lavo i capelli incrostati della polvere del cortile nel quale so-no caduta due ore fa. il tempo si è fermato sotto la tortura. la mia notte di nozze: un’eternità.

non ho più undici anni.