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FEDERICO G. MARTINI ERA IL TEMPO DELLE CARROZZE A CAVALLO MEDIOLANO

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FEDERICO G. MARTINI

ERA IL TEMPO DELLE CARROZZE A CAVALLO

MEDIOLANO

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PARTE PRIMA

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I

luglio 1897

IL PO gli era apparso all'improvviso! Il nonno davanti e lui dietro, avevano percorso un viottolo in pen-denza, puntando i piedi per non scivolare sul fondo impastato di argilla umida, e quando, oltre la cortina degli alberi, il nonno si era fatto da par-te, gli occhi di Luca avevano incontrato il Po. Luca vedeva per la prima volta il grande fiume e di fronte alla sua vastità era rimasto stupefatto. Le acque torbide, a causa del temporale della notte e la loro apparente im-mobilità, davano al fiume l'aspetto di un'immensa strada deserta. Sulla riva opposta, dove il greto sabbioso declinava, un branco di uccelli dalle lunghe zampe si muoveva in circolo, in una sorta di balletto. Oltre, la lu-ce del giorno si andava spegnendo dentro la macchia scura di un pioppe-to dal quale giungeva il verso del cuculo. Nonno Giovanni, con la sua voce profonda, si era messo a parlare, e con il dito teso indicava punti lontani, indefiniti che si perdevano oltre l'orizzonte. Luca, immerso ancora nel suo stupore, non udiva le parole, allora il nonno tacque per un istante e lo scosse per una spalla affinché gli prestasse attenzione. – Vedi, – ripeté il nonno, – se tu scendi da qui con una barca e segui la corrente, puoi arrivare in qualunque parte del mondo. –Luca adesso guardava il nonno con curiosità, per il modo come aveva proposto l'argomento. – Ma prima di arrivare al mare, lungo le rive scoprirai tanti boschi e tan-ti paesi, e poi alla fine attraverserai una città con le case che sembrano galleggiare sull'acqua, dove non esistono strade come da noi, e dove la gente si sposta usando quasi sempre barche e battelli. E poi, quando in-comincerai a vedere soltanto acqua, tanta acqua, allora quello lì sarà il mare. Sempre navigando, potrai così raggiungere l'Africa e persino l'A-merica, se vuoi. –

Nella giovane mente di Luca l'immaginazione si accese di colpo: –Papà mi ha parlato dell'Africa, dove ci sono deserti e foreste più grandi dell'Italia, e la gente non ha la pelle bianca come la nostra, ma scura co-me il carbone. –

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Nonno Giovanni ascoltava Luca, toccandosi ora i baffi spioventi che gli contornavano il mento ora i capelli dal taglio ispido. – Mi piacerebbe partire per un Paese così lontano e tornare tra molti anni, dopo averlo esplorato tutto. –

– Ma daresti un dispiacere a tua mamma e a tuo papà a star via di ca-sa così tanto tempo. –

– Anche ora sono lontano da casa, per le vacanze. –– Sì, ma non sei solo! –– Certo; se però tu nonno venissi con me loro non sarebbero preoc-

cupati. –– Tu Luca hai sei anni, e io ne ho più di sessanta. Tu sei troppo gio-

vane e io troppo vecchio per queste avventure. –La calura del pomeriggio di luglio faceva alzare un vapore trasparen-

te che fluttuava nell'aria come un velo. Un intenso ronzio di insetti si le-vava dall'intrico di arbusti che crescevano lungo l'argine. Luca spingeva lo sguardo fin dove il fiume si piegava, descrivendo una grande ansa prima di sparire. Per lui, dietro a quell'ansa si celavano tutti i misteri del mondo, comprese le paure e le seduzioni che abitano nella mente del bambino. Un'anatra selvatica, d'un tratto, volò via da una macchia poco distan-te e Luca trasalì nell'udire il battito delle ali seguito da un grido stridulo. Il nonno allungò di scatto le braccia in avanti fingendo di sparare, mentre rideva divertito. Poi lisciandosi i baffi, soggiunse convinto: – L'avremmo mangiata arrosto, se davvero avessi avuto il mio fucile. –

Rimasero a lungo in silenzio a scrutare attorno, poi il nonno prese a risalire il viottolo per incamminarsi verso casa, e Luca lo seguì a malin-cuore, gettando un'ultima occhiata sul fiume che scorreva sotto di lui. La piccola cascina dai muri rossi, dove i nonni abitavano, sorgeva duecento metri più avanti. Ci si arrivava lungo una straducola che taglia-va in mezzo ai campi, freschi di mietitura, sullo sfondo dei quali spunta-vano i tetti di altre case coloniche, sparse sulla piana di fronte al fiume. Nel riverbero estivo, man mano che si avvicinavano, due figure di don-na, ferme in lontananza, presero a crescere: nonna Emilia e Adelina li stavano aspettando. Quando furono poco distanti gli uni dagli altri, Ade-lina si staccò dalla nonna e corse loro incontro con rapidi saltelli, tenen-do sollevata leggermente la lunga gonna per non incespicare. Si portò a fianco di Luca e afferrandogli una mano gli chiese: – Ti è piaciuto il Po? Hai visto com'è grande e quanta acqua porta dentro la sua pancia...–Luca le rispose con un sorriso, scrollando la testa in segno affermativo. Assieme raggiunsero la nonna e, passando sotto il portico costellato di nidi di rondini, entrarono nell'ampia cucina immersa nella penombra.

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Nel locale vi era un fresco gradevole che dava un senso di ristoro, specie venendo dall'esterno. Da quel lato, nel pomeriggio il sole non batteva e la tendina di cotone stesa davanti alla finestra aperta impediva alla luce di penetrare. – Come si sta bene qui! – disse nonno Giovanni, mettendosi a sedere e appoggiando un gomito sul tavolo, posto al centro della stanza. – Emi-lia, – proseguì, – prepara, va', un bel bicchiere di vino rosso, ché ho una sete… –E poi guardando Luca e Adelina, domandò: – Avete sete, voi? –

– Sì, anch'io ho sete! – disse Luca alzando il suo faccino già arrossa-to dal sole, malgrado si trovasse dai nonni appena da due giorni. – Vi preparo acqua e tamarindo? – propose nonna Emilia. – Ah, è buona l'acqua con il tamarindo, – disse di rimando Luca. Nonna Emilia si mosse verso la credenza, prese la bottiglia di tamarindo e sparì nella stanza adiacente dove vi era l'acquaio. Dal vano inferiore ti-rò fuori un fiaschetto, colmo per metà di vino e riempì un bicchiere, mentre altri due li riempì con le bibite. Luca ingollò la sua a gran sorsa-te; al contrario, il nonno e Adelina bevvero senza premura, a piccoli sor-si, alzando lievemente la testa. Nonna Emilia invece non aveva mai né caldo né sete, e non essendo capace poi di starsene senza far niente, si era subito rimessa a sfaccendare. Si alzò infine anche il nonno, dicendo a se stesso: – Su, forza, andiamo a lavorare! – Luca lo seguì nella stalla e restò a guardarlo mentre con la forca rimuoveva lo strame da sotto le mucche sonnacchiose, ammucchiandolo vicino all'ingresso. A qualcuna che tardava a spostarsi assestava una pacca sulla groppa, accompagnan-do il gesto con un incitamento gutturale. Poi, senza dar segni di stan-chezza, caricava con una cadenza lenta ma ininterrotta la carriola a fondo piatto, andando a svuotarla sul mucchio di letame, dove la campagna de-clinava per un tratto formando una sorta di valloncello. Luca, volendo imitare il nonno, cercava anche lui di infilare l'attrezzo nello strame, ma la sua forza non era sufficiente per sollevare l'inforcata, e allora fissava sconsolato il nonno, il quale, ridacchiando con bonomia, scrollava la te-sta: – Voi cittadini siete delicati. – e togliendogli la forca dalle mani, ag-giungeva: –Lascia; è meglio che questi lavoracci li facciamo noi conta-dini. – E poi, siccome gli era presa la voglia di parlare, proseguiva: –Anche il tuo papà, che è nato qui in campagna, non sentiva la vocazione per queste fatiche. Gli piaceva, tutt'al più, portare al pascolo il bestiame, perché se ne stava libero in mezzo ai prati; e poi gli piaceva arrampicarsi sugli alberi per cogliere la frutta. Lui diceva che era nato per errore qui in campagna, e che era portato a vivere in città, in una grande città. Bi-sogna ammettere che non gli mancava la convinzione, perché a quindici anni volle andare a Milano, presso lo zio Berto. Te ne ha mai parlato il

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tuo papà dello zio Berto? Quello che faceva l'ambulante di stoffe, e gira-va con un carrettino di cortile in cortile...Tu pensa, Luca, tuo papà prefe-riva un mestiere del genere...Mah, forse aveva ragione, visto che con po-chi soldi è riuscito a mettersi negli affari e avviare il suo bel maglificio. – E finiva commentando: – Comunque è davvero un peccato lasciare la campagna per andare a vivere in città. –

Adelina aiutava la nonna a stendere il bucato. Le corde su cui ap-pendeva i panni erano tese tra la pianta di fico, contorta e nodosa, e la mensola di ferro battuto, su cui si reggeva il secchio del pozzo d'acqua. Adelina era una giovane bella ma sfortunata. I nonni l'avevano presa con sé cinque anni prima, dopo la morte del padre, rimasto schiacciato sotto un carro agricolo, ribaltatosi. Peggio ancora, la madre non aveva avuto nemmeno la gioia di stringere tra le braccia la sua piccola creatura, perché, a causa di una febbre maligna, era volata in cielo due giorni dopo il parto. Il padre, lontano parente del nonno, lavorava come bracciante in una tenuta a pochi chilometri da Lodi, e un po' lui un po' una vicina di casa, cui dava qualche soldo, erano riusciti a far crescere Adelina sino al-l'età di undici anni. Poi la disgrazia. In seguito alcune persone di buon cuore si erano occupate di lei per qualche mese. Tuttavia, a quel tempo, quasi tutte le famiglie erano cariche di figli e di guai, così il prevosto del paese aveva consigliato di affidarla a un istituto di suore, a Pavia, affin-ché se ne prendessero definitivamente cura. I nonni, interpellati, non eb-bero però l'animo di dare il loro consenso e decisero così di tenerla con sé. Alla piccola finirono per attaccarsi presto: forse perché erano ormai soli, forse perché si è inclini ad amare chi nella vita subisce avversità. Pur nel pudore dei sentimenti, comune alla gente di campagna, i nonni usavano molti riguardi nei confronti di Adelina. Non le permettevano di fare lavori pesanti, ma solo quelli di casa e di occuparsi del pollame. In tal modo le sue mani e la sua pelle erano rimaste morbide e delicate. Lo-ro si erano anche interessati della sua educazione, mandandola a prende-re lezioni da una vecchia maestra in pensione che abitava nel vicino pae-se, perché imparasse a leggere e scrivere. La sua insegnante si rammari-cava che la ragazza non potesse seguire una scuola regolare (troppo lon-tana del resto per essere costantemente frequentata), giacché dimostrava di apprendere con facilità. Pur essendo nata in una famiglia di contadini, Adelina aveva un tratto garbato e fine, diverso dalla maggior parte delle giovanette della sua condizione. Per i nonni era davvero una soddisfa-zione accompagnarla a Messa alla domenica, e cogliere occhiate di am-mirazione e bisbigli di complimenti, rivolti alla sua persona.

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Dopo cena, nelle serate afose, tutti si mettevano seduti sotto il porti-co, a godersi il fresco. Dal Po spirava sempre un soffio d'aria che veniva aspirata dall'androne, come attraverso un camino. Un braciere acceso, posto di fianco, emanava un fumo, odoroso di resina, le cui volute tene-vano lontane le zanzare. Nonno Giovanni prendeva allora la sua vecchia chitarra e, appoggiandola sulle gambe accavallate, pizzicava le corde con tocchi gentili e maestri, intonando, con voce melodica, motivi densi di suggestione e venati di dolce malinconia. Intanto nonna Emilia, a quel-l'ora, riusciva finalmente a rimanere seduta. Da qualche misteriosa tasca sotto la gonna, estraeva una scatoletta intarsiata, color argento, sollevava il coperchietto, come se pregustasse un piacere imminente, congiungeva il pollice e l'indice, tenendoli per un attimo sospesi a mezz'aria, quindi, rapida come il becco di un falchetto, ve li tuffava dentro. Lentamente ri-traeva le dita, andando a depositare una bella presa di tabacco sul dorso della mano. Poi se la rimirava con calma e quindi la portava a filo naso, fiutando con decisione, prima da una parte e poi dall’altra. Gli occhi le si velavano di lacrime per il pizzicore causato dal tabacco, ma tale effetto doveva procurarle una sorta di voluttà visto il sorriso che le traspariva dal volto. Adelina, malgrado le penombre della sera invadessero il portico ren-dendo la luce precaria, si ostinava a leggere il libro che teneva aperto da-vanti a sé, da cui, a tratti, alzava gli occhi per guadarsi attorno. Da quan-do però Luca era venuto a trascorrere le vacanze da loro, la ragazza pre-feriva intrattenersi con lui, e con l'atteggiamento un po' da maestrina, ma sempre dolcemente, gli parlava della vita in campagna, della semina e del raccolto, del modo di badare al bestiame; del Po, e di come il fiume fosse differente durante i mesi di pioggia, e come facesse paura vederlo gonfiarsi e strisciare verso i campi. A lei per fortuna non era mai capita-to, ma il nonno si ricordava di una piena che, dopo aver allagato il pode-re, si era rovesciata in casa sin quasi a toccare il soffitto del pianterreno, e sull'intonaco esterno si poteva ancora notare il segno di dove l'acqua era giunta: – Ma quando il Po se ne sta buono dentro il suo letto, allora è bello guardarlo scorrere tranquillo, e pensare quanta strada percorre, dai monti dove nasce sino al mare, – diceva Adelina. Luca seguiva affasci-nato le sue parole, sgranando gli occhi quando il racconto prendeva for-ma e saliva di intensità.

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II

DOPO il periodo della mietitura, alle volte il sabato sera capitavano dai nonni per una visita famiglie dei cascinali vicini. Si udivano allora gli strilli di bimbi vivaci, tenuti a freno dagli adulti, pronti a sgridarli se si agitavano troppo. Ma appena in casa, il nonno, rendendosi conto di quanto fosse per loro difficile reprimere l'irrequietezza, invitava gli ospi-ti a lasciarli sfogare: – Perché, i puledri non possono star troppo fermi. –E i piccoli, ricevuto il permesso, in fretta si toglievano gli zoccoli, e a piedi nudi si rincorrevano a perdifiato lungo il perimetro esterno della cascina. Talvolta facevano parte della compagnia anche ragazzi e ragaz-ze, coetanei di Adelina. I ragazzi generalmente erano timidi, e a malape-na le rivolgevano la parola. Si limitavano a guardarla di sottecchi, disto-gliendo subito lo sguardo se incontravano il suo. Adelina non si sentiva attratta da loro, e di preferenza si appartava (proprio come quella sera di metà luglio) con Libera, un'amica, maggiore un anno di lei. Tenendosi sottobraccio, si inoltravano nei campi lungo un sentiero che si staccava da dietro la stalla, e inclinando la testa una verso l'altra si confidavano i loro piccoli segreti. Libera, cui piacevano molto i vestiti, si faceva ripe-tere da Adelina cosa indossavano le signore eleganti che incontrava quando andava a Piacenza con il nonno, insistendo nel voler sapere ogni più piccolo particolare. Lei, Libera, era stata solo qualche volta a Castel San Giovanni assieme ai genitori, contrari a fermarsi davanti alle vetrine o a passeggiare, cosicché le sue impressioni sui gusti della moda erano piuttosto vaghe. Dai vestiti, le ragazze passavano a parlare di ricamo, al quale entrambe si dedicavano (adesso un po' meno) e poi, quasi con pu-dore, di giovanotti, fidanzati, e anche di matrimonio. Libera sognava di incontrare un giovane di città; non sopportava più di stare in campagna, e nemmeno i genitori sopportava più, sempre pronti a rimproverarla per cose di nessun conto; e poi era stanca di occuparsi dei fratelli più piccoli, petulanti e dispettosi. Venendo lei da una famiglia numerosa, una volta sposata, di bambini non ne voleva troppi; due, massimo tre. – Qui in campagna, – si lamentava Libera, – gli uomini trattano le donne come bestie: solo figli e lavoro; lavoro e figli. Hai presente, Adelina, l'Assunta, la moglie del Bastiani, che abita nella cascina Grande? Ha appena ven-

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tott'anni e ne dimostra almeno cinquanta. Figurati, è già diventata madre quattro volte... – Libera, agitando le mani si lasciava prendere dalla foga: – Si ha più riguardo per le mucche, perché prima del parto viene il vete-rinario, mentre le donne se la cavano con qualche vicina, e il giorno do-po sono già in piedi a rigovernare la casa e la stalla. Io, io, piuttosto che finire così preferisco rimanere zitella o magari diventare suora. –

– Diventare suora? – chiedeva Adelina stupita. – Perché no! Una mia cugina, poco più grande di me, si è fatta suora l'anno scorso e sua madre dice che è contenta. La fanno studiare, e qual-che volta esce dal convento per partecipare a delle feste religiose. –

– No, io suora, no! Però anch'io vorrei sposare uno non di qui, –precisava Adelina, esprimendo il suo pensiero, – ma onestamente non me la sento di abbandonare i nonni. Lo sai quanto voglio loro bene. Ec-co, io vorrei conoscere un giovane, educato e gentile, che fosse disposto a venire ad abitare con noi. A me non dispiacerebbe far crescere una fa-miglia in questa casa; ma come te mi limiterei ad avere un paio di bam-bini, possibilmente maschietti. –

Le due amiche si accorgevano solo in quel momento di essersi allon-tanate parecchio, e dandosi di nuovo il braccio ripercorrevano il sentiero per ricongiungersi ai familiari. Luca se ne stava in disparte a seguire i giochi degli altri ragazzi. Al loro arrivo egli aveva provato a interpellare il più grandicello, ma questi, conoscendo solo il dialetto del posto, era andato in confusione scappan-do via senza dargli una risposta. In cucina, dove erano accomodati gli ospiti, ci si vedeva ormai a ma-lapena. Dal cerchio di donne, raccolte in un angolo, saliva un cicalare fit-to, quasi un brusio per chi stava lontano solo pochi passi. La tabacchiera di nonna Emilia girava di mano in mano e il suo coperchio lucido man-dava tenui riflessi. Intorno al tavolo, gli uomini davano fondo alla se-conda bottiglia di vino, stappata da nonno Giovanni. La loro conversa-zione pareva a un tratto spegnersi e a un tratto animarsi, come in una di-sputa. Poi d'improvviso uno scoppio di risa e l'esclamazione sonora: –Dio te stramaledissa! – mentre i bicchieri si levavano alti. Dopo un ac-cenno di brindisi, si sentiva il risucchio delle lingue, e il vino scorreva fluido nelle gole. Il tempo passava; la lampada, finalmente accesa, ingigantiva le om-bre contro i muri; i più piccoli, rincantucciati a fianco della credenza, pencolavano dal sonno. Adelina mostrava a Libera il lavoro di ricamo portato avanti, dando spiegazioni a bassa voce sui punti eseguiti. Luca, benché non fosse abituato a rimanere sveglio sino a tardi, non provava alcuna stanchezza, e in silenzio osservava a turno i visitatori. Una nube cenerina, densa di odore di toscano, impregnava l'aria della stanza. La

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pendola batteva undici colpi, quando qualcuno disse: – È tardi! – Gli uomini si alzarono, le donne smisero di parlottare, e i bambini, mezzi addormentati, furono scossi. Tutti si avviarono, e i nonni con appresso Adelina e Luca accompagnarono il gruppo per un breve tratto, seguendo-lo poi con lo sguardo, finché le loro figure divennero una macchia on-deggiante dai contorni incerti.

Dalla parte opposta all'ingresso della cucina si impennava una ram-pa di scale stretta e breve, che conduceva alle camere da letto. La camera dei nonni era sulla destra, mentre quella dove dormiva Adelina, e adesso anche Luca, era posta di fronte I letti erano di legno scuro e spesso, squadrati in modo semplice, salvo un intarsio sulla testata. I materassi si incurvavano all'infuori, gonfi di piuma d'oca, e non appena ci si sprofon-dava dentro i bordi si avvolgevano attorno come in un abbraccio. Quella notte, dopo la visita dei vicini, né Adelina né Luca avevano sonno. Nella campagna lo stridio dei grilli si propagava all'infinito. Frammenti di conversazione di poco prima con Libera indugiavano nella mente di Adelina, alimentando altri pensieri e fantasie. D'un tratto sentì il bisogno di parlarne, soffermandosi tuttavia a chiedersi se Luca fosse in grado di comprendere certi argomenti. Il buio la incoraggiò, e sottovoce provò a chiamarlo: – Luca. –

– Cosa c'è? –– Dormi? –– Non ancora. –– Volevo domandarti, Luca: dove abiti tu, a Milano, ci sono molte

ragazze? –– Ragazze? – ripeté Luca, senza stupore. – Certo che ci sono ragaz-

ze! –– E come sono? Belle? –– Io conosco le amiche di mia sorella, Liliana. Qualcuna è bella, altre

invece no. –– E di che cosa parlano di solito, quando si incontrano? –– Di cose noiose. Parlano quasi sempre di giovanotti e fidanzati. Lo-

ro credono che io non capisca, mentre io so tutto. –– Tua sorella è fidanzata? –– Una volta la mamma glielo ha chiesto, e lei ha risposto di no. Inve-

ce io ho visto diverse volte un compagno di ginnasio, dove va lei, che le portava i libri. –

– Sì, ma non vuol dire che sia fidanzata. –– Allora, perché lui le porta i libri? –– Forse per essere gentile. –

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– Mio papà ripete sempre che nessuno fa niente per niente; perciò vuol dire che se lui le porta i libri è il suo fidanzato. –

– Tu vorresti che lei prima o poi si sposasse? –– Se vuole anche subito, così avrei tutta la camera libera per me! –– E tu…Luca, un giorno, quando sarai grande, ti sposerai? –– Sicuro che mi sposerò! –– E con chi ti vorrai sposare? –– Con una ragazza, bella; bella come te! – disse Luca spontaneamen-

te. Il paragone colpì Adelina, ma nello stesso tempo lusingò la sua natura femminile. – Come me? – ripeté lei, incuriosita. – Sì, come te. E se tu mi aspetti, quando sarò grande io verrò a pren-derti e ti sposerò. –

– Ma a quel tempo, io sarò vecchia. –– No, tu Adelina non diventerai mai vecchia! –

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III

NEL TARDO pomeriggio le nubi si erano schierate all'orizzonte, lonta-no, oltre il Po. Tutta la giornata era stata bruciata dal sole; un sole che ar-roventava ogni cosa. Non si poteva nemmeno camminare scalzi sull'aia o sull'ammattonato steso tra la casa e la stalla. Per il caldo torrido, i campi esalavano vapori opachi, simili a caligine. Solo nonna Emilia si avventu-rava all'aperto, incurante della temperatura di fuoco. Finalmente venne la sera, e tutti si radunarono sotto il portico, ma l'aria era di piombo, e il leggero alito portato su dal Po si spegneva prima di infilarsi nell'imbuto dell'androne. Nonno Giovanni scrutava il cumulo di nubi sopra la cresta dei pioppeti e, dopo aver annusato in giro, sentenziò: – Stanotte ci sarà un bel temporale! – Intercalò una pausa e come se volesse convincere i presenti, ripeté: – Eh, sì, c'è proprio un bel temporale in vista! –

Si erano ritirati tutti nelle proprie camere da non più di mezz'ora, quando il cielo divenuto in breve scuro fu tagliato da un lampo bianchis-simo, e di lì a poco altri ancora ne balenarono, senza però esplosioni di tuoni. D'improvviso, attraverso il soffitto, si udì il tambureggiare sulle tegole delle prime gocce di pioggia, e in quell'istante il boato di un tuono fece sobbalzare Luca, che si affrettò a infilare la testa sotto il lenzuolo. La pioggia si era rapidamente infittita, e un rumore sordo, ininterrotto, penetrava nella stanza. Il temporale si scatenò con furia: bagliori di luce, scoppi, scrosci, folate di vento; sembrava il finimondo. Luca chiuse gli occhi e trattenne il respiro, ma piano piano si ritrovò la paura addosso. Adelina nel letto accanto intuì la sua emozione di fanciullo e, appena il fragore glielo permise, chiamò Luca con tono sommesso, ma Luca, preso com'era dall'agitazione, non la intese, allora Adelina alzò il busto, pun-tando il gomito sul cuscino: – Luca! – ripeté ad alta voce. Luca si ri-scosse e buttò indietro parte del lenzuolo che lo copriva, volgendosi ver-so di lei. I riflessi dei lampi illuminavano a tratti la stanza buia. – Se hai paura, vieni pure nel mio letto. –

Doveva essere una gran paura, perché senza pronunciare parola si slanciò nel letto di Adelina. Dio com'era tenera, com'era materna e pro-tettiva, Adelina! Tenne stretto Luca fra le braccia, e lui, attraverso la stoffa di cotone della camicia da notte, colse i palpiti, il respiro del suo petto, sentì il calore della sua pelle trasferirsi nel suo corpo. Senza accor-

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gersene Luca si acquietò e, malgrado l'incessante imperversare del tem-porale, lentamente scivolò nel sonno.

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IV

L'AMMIRAZIONE di Luca per nonno Giovanni era di colpo cresciuta, da quando aveva scoperto che egli sapeva leggere e scrivere speditamen-te, mostrando anche di conoscere un'infinità di cose, al pari di chi nella vita ha viaggiato molto. Un altro aspetto misterioso del nonno, che susci-tava l'interesse di Luca, era di notare come talvolta venissero da lui con-tadini del circondario, ma anche dei forestieri, vestiti con cura, il cappel-lo non unto di sudore, l'orologio infilato nel taschino del panciotto, ag-ganciato alla catenella che pendeva sulla cintura. Egli accoglieva i visita-tori con espressione seria, in una specie di ufficio (usato solo in queste circostanze), al quale si accedeva girando sul lato nord della casa. Trala-sciando i convenevoli, offriva un bicchiere di vino, versandone uno an-che per sé. Tra un sorso e l'altro si intrecciava una conversazione fitta fit-ta. Alle volte l'ospite porgeva al nonno una lettera, e il nonno dopo esser-si tastato le tasche alla ricerca degli occhiali (al solito, dimenticati) si di-sponeva a leggere lo scritto, dopo averlo messo a fuoco regolando la piega dei gomiti. Sempre senza togliere gli occhi dal foglio, beveva un goccio, si dava una lisciatina ai baffi, e riprendeva la lettura con l'atten-zione di chi è avvezzo a impegni del genere. All'atto del congedo, il visi-tatore lo ringraziava ripetutamente, salutandolo infine con lievi tocchi sulla tesa del cappello. Luca, incuriosito da questi incontri, si decise a chiedere ad Adelina perché mai il nonno ricevesse tali persone, e Adelina, una sera, seduti di fronte, ognuno sul proprio letto, prese a raccontargli quanto sapeva della vita di nonno Giovanni: –Da piccolo, nonno Giovanni, abitava con i genitori e altri sei tra fra-telli e sorelle, in un paese vicino ad Alessandria. Per aiutare la povera famiglia, incominciò a lavorare quando ancora non aveva dieci anni, dapprima nei campi, poi in una filanda, dove rimaneva anche a dormire, insieme ad altri ragazzi. Alla fine però non riuscendo più a sopportare quel posto simile a una prigione, si mise al servizio di un'impresa che si occupava di trasporto merci. Il lavoro non poteva essere più faticoso, perché per buona parte della giornata egli doveva caricare e scaricare

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sacchi. Ma benché alla sera non si reggesse più in piedi, tanta era la stan-chezza, non provò nessun rimpianto per i mesi trascorsi nella filanda. Finché un giorno ricevette l'ordine di fare una consegna al porto di Ge-nova, dove non era mai stato prima. Assieme al conducente del carro, partì una mattina all'alba e a notte fonda giunse a destinazione. Dopo a-ver dormito sul carro, l'indomani appena sveglio ebbe la sorpresa di ve-dere davanti agli occhi una nave enorme, ormeggiata a pochi passi, pro-prio a ridosso della banchina. Nonno Giovanni vedeva per la prima volta il mare, e ne fu subito affascinato. Lì, sui due piedi, decise di voler di-ventare marinaio. Nel giro di qualche settimana riuscì, in tal modo, a im-barcarsi su un piroscafo, come aiutante. Quel viaggio lo portò lontano, in terre di cui nemmeno conosceva il nome. Rimase via per otto anni, e du-rante quel periodo visitò l'America del Nord, il Messico e poi si fermò a lungo in Argentina. In questi Paesi egli lavorò in grosse fattorie, dove si allevavano migliaia di capi di bestiame. Insomma con il tempo divenne un esperto di buoi, mucche e cavalli, e una volta tornato in Italia si com-prò questo piccolo podere, che il defunto proprietario aveva lasciato a dei parenti in città. In seguito, dopo aver trovato casa, trovò anche mo-glie sposando nonna Emilia. Nel frattempo la gente dei dintorni si anda-va accorgendo che quando lui sceglieva del bestiame non sbagliava mai, e nessuno riusciva a imbrogliarlo. Così, giorno dopo giorno, alla fine si è ritrovato a essere l'uomo di fiducia, il mediatore di piccoli proprietari e allevatori della zona, ma anche di gente che abita più lontano. A causa di questo incarico, una o due volte al mese egli si reca al mercato di Pia-cenza per trattare l'acquisto o la vendita di animali, e naturalmente prima di ciò gli interessati vengono da lui a prendere accordi. –

Le sorprese per Luca non erano finite, perché, qualche giorno più tardi, nonno Giovanni lo invitò ad accompagnarlo in uno di questi suoi viaggi, al mercato di Piacenza. La notte precedente l'avvenimento, Luca si destò più volte a causa del-l'agitazione, e quando finalmente le prime luci dell'alba scivolarono at-traverso le imposte lungo le pareti della camera, egli si alzò senza distur-bare Adelina, prese vestiti e scarpe, così in punta di piedi scese giù a pianterreno. Di lì a poco sopraggiunse il nonno che nel vederlo già in at-tesa, gli chiese scherzosamente: – Oh, ti sei dimenticato di andare a dor-mire? – Anche nonna Emilia non tardò ad affacciarsi, dandosi subito da fare per mettere in tavola la colazione. Il latte colmo di schiuma, le fette di pane dalla mollica ruvida, la marmellata e il burro fatti in casa: tutto era buono e saporito. Terminato di mangiare, il nonno uscì e andò sotto la tettoia dove teneva i carri. Si accostò al calesse dal mantice ripiegato e dalle ruote ricoperte di gomma e manovrando le stanghe, lo spinse sullo

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spiazzetto adiacente al portico, poi scomparve nella stalla da dove tornò fuori tenendo per la cavezza un cavallino dal mantello scuro, cui fece in-dossare i finimenti. Sempre guidandolo per la cavezza, lo obbligò a rin-culare tra le stanghe, alle quali, con gesti sicuri, lo attaccò. Era giunto il momento della partenza! Luca, tutto preso dall'eccita-zione, sgambettava impaziente avanti e indietro, e quando il nonno gli disse di montare, egli inciampò persino nel predellino. Alla fine si acco-modò sul sedile di cuoio, rimanendo tuttavia chino in avanti, alquanto te-so, come se fosse la prima volta che provasse a viaggiare su un veicolo del genere. Nel frattempo era scesa anche Adelina che si unì ai saluti di nonna Emilia, mentre il cavallino si mosse, spronato dalla voce del con-ducente. Un chiarore tenue spingeva via le ultime ombre della notte. Sul-la piana attorno, i preludi del risveglio incalzavano. In apparenza tutto sembrava inanimato, ma la sensazione di vita, di misterioso fermento, era prepotente. Da un declivio a ridosso del Po, un volo chiassoso e im-provviso di cornacchie richiamò l'attenzione di Luca. Passando vicino a un cascinale, si udì il rumore di un secchio sbattuto e la voce roca di un uomo, probabilmente intento alla mungitura. La strada si fece accidenta-ta, e le ruote urtando contro le buche sballottavano il calesse. In fondo, al bivio, il nonno tirò leggermente le redini e il cavallino svoltò a destra, per immettersi su un viale, segnato ai lati da due filari di frassini dalle cime ardite. Dietro gli alberi spuntò una casa ancora addormentata, con i roseti arrampicati sui muri e il piccolo orto che si intravedeva sul retro. Intanto la luce del giorno andava facendosi sempre più intensa, e quando la strada sboccò sulla provinciale, il cielo a levante si accese di rosso. –Ecco, adesso, un'oretta e siamo a Piacenza, – disse il nonno senza girare la testa. Il calesse correva via liscio, senza più scosse, e il cavallino ave-va preso un'andatura regolare. Sulla parte opposta della carreggiata, a in-tervalli regolari, venivano incontro carri, barroccini e anche eleganti car-rozze. I conducenti cercavano lo sguardo del nonno, e non appena incro-ciato, alzavano la mano libera dalla guida per salutare. I campi, ora si stendevano senza più ostacoli a perdita d'occhio, e i colori del terreno si alternavano: giallo, bruno, verde, secondo il tipo di coltivazione. Un pic-colo cane randagio, sbucato fuori da qualche cespuglio, si era accodato al calesse e ne seguiva la corsa, ciondolando senza posa le orecchie. Lu-ca, incuriosito, si era voltato sporgendosi indietro per sorvegliare le sue mosse. Nonno Giovanni aveva abbandonato le redini sulle ginocchia e si stava accendendo un mezzo toscano, tirando boccate decise per farlo at-taccare a dovere. Percorso un altro tratto, la strada si restringeva, incas-sandosi tra le case di un paese. Gli zoccoli battendo sul fondo lastricato rimandavano un suono metallico. Il cane zampettava sempre dietro, anzi

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con il corpo si era infilato sotto la vettura, da cui sbandierava il pennac-chio della sua coda in movimento. La giornata prendeva vita: volti di donna si affacciavano nel riquadro delle finestre; da un balcone pendevano lenzuola e cuscini, stesi a pren-dere aria. I primi passanti sbucavano dai vicoli laterali, incamminandosi lungo gli stretti marciapiedi della via principale. Appena fuori dall'abita-to, il cavallino, senza bisogno di sentire il morso, rallentò, arrestandosi di fronte a una locanda. Il nonno mise piede a terra, mollò una pacca sul fianco dell'animale, e disse: – Facciamolo riposare qualche minuto, in-tanto io saluto un amico. – Lanciò una strizzatina d'occhi a Luca e si ac-carezzò a più riprese i baffi. Spingendo la porta della locanda, il tintinnio di una campanella annunciò il loro ingresso. All'interno la vista doveva abituarsi alla penombra. Dietro un tramezzo erano disposti dei tavoli, e sulle pareti intonacate risaltavano le cornici dorate di alcuni quadri. Un passo pesante rimbombò su un'invisibile scala di legno in fondo alla qua-le apparve il padrone, un tipo corpulento, anche lui ornato di baffi. Salu-tò cordialmente nonno Giovanni, mettendogli un braccio intorno alle spalle, poi si scostò per guardare Luca. Il nonno spiegò chi fosse, e allora l'uomo gli si rivolse con dei complimenti. Poi, come se sapesse a memo-ria cosa fare, girò dietro il banco di mescita e, sempre parlando del più e del meno, riempì un bicchiere di vino rosso. Ne voleva servire uno anche a Luca, ma il nonno disse di no. Tenendo sempre la bottiglia in mano, l’oste si interessò del raccolto, delle bestie e della giornata di mercato. Mentre il nonno finiva di bere, egli già si disponeva a versare un secondo bicchiere, come se il gesto gli fosse abituale. Nel frattempo il discorso si era spostato su un conoscente comune, morto una settimana prima, dopo essere stato per un mese all'ospedale, senza che i dottori capissero la ma-lattia di cui soffriva. – Poveretto, – commentò l'oste, non era vecchio: era solo del '40! Fortuna che i figli sono tutti sposati. –

– Cosa ci vuoi fare! – sentenziò filosoficamente il nonno, reggendo il bicchiere, – oggi ci siamo, e domani... Bah, così va il mondo! – E come per scacciare brutti pensieri, ci bevve sopra. All'uscita, Luca rimase male notando che il cane durante la loro as-senza era sparito. Ripreso il cammino, nonno Giovanni nel vederlo un po' mogio si provò a consolarlo: – Tanti cani, come tanti uomini, non sopportano di avere un padrone, e così preferiscono saltare qualche pasto piuttosto che rimanere al servizio di qualcuno. Lui, il cane, probabilmen-te aveva soltanto fame, e magari intorno alla locanda ha trovato un bel-l'osso, e adesso sarà rintanato in qualche angolo a mangiarselo in santa pace. D'altronde, se voleva rimanere con noi non si sarebbe mosso. Non ti pare? –

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Sulla piazza, dove si teneva il mercato, era già raccolta della gente, divisa in capannelli, mentre altra ne stava affluendo. In un recinto coper-to erano radunati i capi di bestiame, divisi per razza. Il nonno posteggiò il calesse, slegò il cavallino, assicurandolo con la cinghia di un finimento a un anello fissato nel muro di fronte, allo stesso modo di come alcuni conducenti avevano fatto prima di lui. Raccomandò quindi a Luca di non allontanarsi e gli diede cinquanta centesimi per andare a prendere qual-cosa da mangiare o bere, semmai gliene fosse venuta voglia, nel negozio di commestibili che si affacciava a poca distanza da loro; e comunque di non preoccuparsi che si sarebbe sbrigato al più presto. I crocchi degli a-stanti si erano ingrossati, sino quasi a formare una piccola folla, dentro cui il nonno sparì. Poi la gente, lentamente prese a sparpagliarsi, per ri-comporre altri gruppetti, alcuni dei quali si diressero verso il recinto del bestiame, incominciando a esaminare i capi di loro interesse. Per un po' Luca stette a guardare come si svolgevano le contrattazio-ni tra venditori e compratori, ma poi si lasciò distrarre dalla vetrina di una pasticceria, pochi passi più in là della bottega di commestibili. Vi si accostò, e vincendo l'esitazione varcò la soglia, subito attratto dai vassoi colmi di cialde e di cannoli. La commessa gli andò incontro, e Luca e-strasse dalla tasca i soldi ricevuti dal nonno, mettendoli nella mano della donna. Indicò i dolci di sua preferenza e attese di essere servito. La commessa porse un cartoccio a Luca, il quale rimase alquanto deluso dal contenuto ridotto. Appena fuori, lo disfece immediatamente e si cacciò in bocca un cannolo intero, rischiando di soffocare. Luca, al pari di molti golosi, mangiava senza quasi masticare, voracemente, e nel volgere di un paio di minuti non gli rimase in mano altro che la carta dell'involucro. Non sapendo come passare il tempo, si mise a gironzolare, fermandosi nel vano di un portone a osservare un robusto fabbro che forgiava un'asta di ferro incandescente. Il ferro, sotto i pesanti colpi di martello, si in-curvava sprizzando scintille, prendendo su un'estremità la forma di se-micerchio. Il fabbro sollevava il pezzo, ne esaminava il risultato, e poi, non soddisfatto, assestava altri piccoli colpi di rifinitura. Guardava di nuovo il lavoro e riponeva infine il ferro a terra assieme ad altri. Passava quindi a estrarre l'asta successiva da una fucina accesa, apprestandosi al-la battitura, non prima però di averne infilata un'altra nella stessa fucina, per arroventarla. Luca si era incantato nel seguire l'opera del fabbro, e solo il grido di un pescivendolo ambulante lo riscosse. L'uomo portava, appoggiata alla vita, una cassetta di legno. Per lasciare libere le mani, la cassetta era tenuta sospesa da una cinghia di cuoio che girava intorno al collo. Egli percorreva la via a passi lenti, fermandosi davanti a ogni ca-seggiato per emettere il suo grido di richiamo. Talvolta qualche donna lo avvicinava, alzava il telo che ricopriva il pesce, mantenuto fresco da

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pezzetti di ghiaccio, chiedeva i prezzi, mercanteggiava, e alla fine si de-cideva a comperare qualcosa. Di colpo, il vicolo dove Luca era capitato, si riempì di uno scalpitare di zoccoli ferrati. Due carabinieri, alti sui ca-valli, le divise scure con le bande rosse, i cappelli a lucerna, le sciabole luccicanti, il portamento marziale, rapirono la sua attenzione. Avanzando appaiati, la mole dei cavalli ingombrava quasi per intero la carreggiata. Al loro passaggio, Luca istintivamente si schiacciò contro il muro, ma ne fu ugualmente sfiorato. Le figure dei militi gli parvero immense, grandi come le statue sulle piazze di Milano. Alquanto intimidito, ma nello stesso tempo incantato da quella vista, prese a seguirli. Sempre avanzan-do al passo, in cima al vicolo, essi tagliarono per una piazzetta e si ad-dentrarono in altre straducole. Solo dopo un buon tratto, quando i due ca-rabinieri sparirono dietro il cancello di una caserma, Luca si accorse di essersi allontanato troppo, e di non raccapezzarsi su quale via prendere per tornare indietro. Senza scoraggiarsi, a intuito si infilò tra due file di caseggiati, ma con il risultato di ritrovarsi un paio di volte sempre nello stesso punto. Avrebbe potuto chiedere a qualche passante come arrivare alla piazza del mercato, ma per un moto di orgoglio voleva dimostrare a se stesso di essere in grado di trarsi d'impiccio da solo. Tuttavia, dopo aver camminato a lungo, finì col rendersi conto di seguitare a girare a vuoto. La mattina volgeva al termine, ed egli pensò che probabilmente nonno Giovanni, dopo aver sbrigato i suoi affari, lo stesse adesso cer-cando. Proprio quando pareva rassegnato a ricorrere all'aiuto di qualcu-no, una ragazza dell'età di Adelina gli rivolse la parola: – Ti ho già visto prima; ti sei forse perso? – e senza che Luca avesse il tempo di risponde-re, aggiunse sicura: – Tu non sei di qui. Io abito nella zona, ma la tua faccia mi è del tutto sconosciuta. – La ragazza era gentile; il tono morbi-do, carezzevole invitava ad aprirsi. – No, non abito qui, – confermò Luca. – Sono arrivato in città con il nonno, poi lui si è fermato al mercato, e a me è venuta la voglia di fare una passeggiata.–

– Quale mercato? Quello del bestiame che sta sulla piazza? – Luca annuì. – E adesso non sai più come tornarci, vero? – – No, lo so, ma ... –

– Dai, vieni che ti ci accompagno, – lo interruppe la ragazza, offren-dogli la mano. S'incamminarono lungo vicoli battuti in parte dal sole alto. In alcuni di questi, i tetti delle case parevano toccarsi, talmente erano vicini, in al-tri, invece, dove si aprivano file di negozi, la luce riusciva con minor fa-tica a penetrare dando il senso del giorno pieno

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La ragazza, spinta dalla propria vivacità, si lanciava in piccole corse, incitando Luca a seguirla; poi si rimetteva tranquilla e lo scrutava con occhi sorridenti. – Come ti chiami? – gli domandò all'improvviso, mentre procedevano affiancati. – Luca. –

– Io mi chiamo Giannina. –– E di dove sei? – volle ancora sapere la ragazza dopo una pausa.

– Abito a Milano, ma adesso sono qui dai nonni, in vacanza. –– E quando ritorni a casa? –– A metà settembre, perché poi dovrò incominciare ad andare a scuo-

la. –– Per fare la prima? –– Sì. –– Io sono andata a scuola sino alla terza elementare, però non mi pia-

ceva. Preferisco adesso che lavoro. Faccio la sarta, in un laboratorio su-bito dietro la caserma dei carabinieri, dove ti ho incontrato. Ogni tanto mi capita di uscire per fare delle consegne. Anche questo mi piace, così non mi annoio a restare sempre al chiuso. Quando esco, poi, mi fermo a guardare le vetrine e a vedere passeggiare le signore sotto i portici. Alle volte mi diverto a indossare i vestiti che facciamo per le clienti, e mi pa-re di essere più elegante e bella di loro. – La ragazza aveva parlato tutto d'un fiato, come in uno sfogo, invece era solo spinta dalla sua indole e-spansiva, dal suo modo di sentirsi allegra e vivace. Sbucando sulla piaz-za del mercato, Luca scorse subito il nonno, poco distante, che si aggira-va affannato, ovviamente alla sua ricerca. Gli corse incontro, trascinando per mano Giannina. Prima ancora che il nonno lo vedesse, egli colse immediatamente l'espressione di turbamento marcata sulla sua faccia, in-tuendo di avergli causato preoccupazione con il suo comportamento sventato. Il nonno non lo sgridò come avrebbe fatto suo padre, ma in un gesto di tenerezza, per lui insolito, lo sollevò e in silenzio lo strinse tra le braccia. Luca spiegò ciò che era successo, e come Giannina, notandolo, si fosse offerta di riaccompagnarlo. Allora il nonno volse la testa verso Giannina, che in quel momento si teneva in disparte, e i suoi occhi sorri-sero, pieni di gratitudine e simpatia. Cavò di tasca il portamonete e fece l'atto di prendere qualche soldo per darglielo, quale ricompensa, ma Giannina allungò il braccio e pose la mano sul portamonete, facendo in-tendere che non voleva nulla. Il nonno si provò a insistere, ma lei, ferma nel suo proposito, anziché ripetersi nel rifiuto, guardò Luca e disse: – La prossima volta che torni in città, mi vieni a trovare? Anche là, nella sar-toria dove ti ho spiegato che lavoro, proprio dietro la caserma. –

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– Certo che verrò; e magari andiamo insieme in pasticceria a mangia-re dei dolci. –

La ragazza si allontanò con dei brevi saltelli, mentre il nonno e Luca restarono a guardarla finché sparì mescolandosi alla gente che ancora popolava la piazza. Più tardi, consumato il pasto di mezzogiorno in una trattoria appena fuori città, il nonno riprese il suo giro d'affari, dovendo ancora sbrigare un impegno. Guidando il calesse, percorse un paio di chilometri e infine, dopo aver deviato per una straducola di campagna, si fermò in fondo nel cortile di un cascinale. Al rumore della vettura, un uomo si era affacciato alla porta di casa come se fosse in attesa, e chiamando il nonno per nome gli porse il benvenuto, facendo accomodare lui e Luca in cucina. Davanti a un bicchiere di vino, la conversazione appena avviata si interruppe per l'arrivo di una giovane donna, formosa e dai bei lineamenti. La donna portava in testa un cappello di paglia a tesa larga, che subito tolse, mo-strando una pettinatura ordinata. La lunga treccia era avvolta sulla nuca a forma di doppia spira. Si aprì in un sorriso spontaneo, lasciando intrave-dere la luce bianca dei denti. Dalle poche parole pronunciate, Luca com-prese che era la moglie dell'uomo che li aveva accolti, pur essendo molto più giovane di lui, al punto di averla, a prima vista, scambiata per la fi-glia. Come a non voler arrecare disturbo, la donna si scusò ritirandosi nella stanza accanto, e dal tintinnio delle stoviglie si capì che si era mes-sa a rigovernare. Gli uomini avevano ripreso a discorrere di bestiame e di prezzi. Finito di bere, si alzarono e il nonno avvertì Luca che essi an-davano nella stalla a vedere alcuni vitelli. Rimasto solo, Luca non sa-pendo cosa fare, si accostò a una parete, dov'era appeso un grande qua-dro che rappresentava una battaglia campale. Una voce femminile però lo distrasse subito dalla visione: era la giovane donna di poco prima che lo invitava a spostarsi nell'altra stanza. – Così, – disse, – ci teniamo compagnia. – Luca aderì all'invito, e si mise seduto su una panca, sotto la finestra. Sul tavolo, posto nel centro, la donna stirava della biancheria con un ferro riscaldato dalla brace. Lei prese a interrogarlo, senza però particolare curiosità, ma giusto per rompere il silenzio. Quando seppe che Luca abitava a Milano, si affrettò a riferire di una sorella maggiore, sposata con un operaio della Pirelli, la quale abitava anche lei a Milano, in fondo a corso Loreto. – Sai dove si trova corso Loreto? – Luca si rammentò di quando suo padre, accompagnando la famiglia in gita in Brianza, era passato appunto per tale strada. – Sì, lo so dov'è, – rispose Luca. – Io sono venuta una sola volta a Milano, ma mi e rimasta un'impres-sione di confusione e di baccano. Giuro: anche se mi offrissero un bel-

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l'appartamento in un bel palazzo, mai accetterei di vivere in una città co-sì grande e piena di gente. –

Il pianto improvviso di un neonato richiamò l'attenzione di entram-bi. In un angolo, da una culla nascosta nella penombra, sporgevano due braccine candide. La donna, continuando a stirare, accennò a canticchia-re una ninna nanna, ma il pianto anziché acquietarsi si trasformò in uno strillo, e le braccine si agitarono convulsamente nell'aria. – Il signorino vuol mangiare, – disse la donna, riponendo il ferro bollente su una men-sola, a lato. Si avvicinò alla culla e sollevando il pargolo sopra il capo, lo scosse dolcemente facendogli delle moine. Poi, sorreggendolo su un braccio, si sedette proprio di fronte a Luca, e con la mano libera si sbot-tonò la camicetta. Una mammella bianca, turgida, sopra la quale emer-geva un capezzolo simile a una mora, proruppe all'infuori. Luca ebbe un brivido, come se nel suo intimo scattasse una sensazione nuova, mai provata. I gesti della giovane madre erano naturali, e dal volto traspariva una profonda tenerezza verso la sua creatura. Guidato dall'istinto, il pic-colo si era attaccato con le mani al seno e la bocca morbida si era chiusa intorno al capezzolo, succhiandolo avidamente. Gonfio di latte, si era in-fine assopito, restando però nella medesima posizione. Sempre con deli-catezza, la madre si ritrasse e il bimbo emise un vagito, spalancò per un attimo gli occhi scuri, ma vinto dal torpore li richiuse subito piombando in un sonno beato. – Hai visto che mangione? – domandò la madre a Luca mentre si riabbottonava la camicetta. – Sembra un porcellino, tanto è grasso! – ag-giunse, e dalla sua voce si coglieva una nota di fierezza. Si levò in piedi e morbidamente adagiò il piccolo nella culla. Anche Luca andò a veder-lo. Il pargolo giaceva di traverso e sull'angolo della bocca restava ancora una traccia di latte materno; l'espressione dell'essere più felice del mon-do, i pugnetti pressati sulle guance, il respiro cadenzato. Di nuovo la madre se lo contemplò, e benché non ce ne fosse bisogno, gli rimboccò il lenzuolino ornato di pizzi. Nel tardo pomeriggio, nonno Giovanni e Luca si congedarono dagli ospiti. La giornata non era stata caldissima come le precedenti, e viaggiando in calesse una leggera brezza alitava sul volto. Uno stormo di rondoni sfrecciava radente, frustando l'aria con colpi secchi d'ala. La vettura si era immessa sulla provinciale, per rifare nel senso opposto il tragitto ver-so casa. Il nonno teneva mollemente le redini, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, e Luca, un po' stanco per i tanti spostamenti, si abbandonava leggermente contro il suo fianco. Anche il cavallino sembrava accusare la fatica, e il suo trotto appariva alquanto scomposto. In prossimità della locanda dove si erano fermati al mattino, Luca allungò il collo nella spe-

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ranza di scoprire accovacciato in qualche angolo il cane che li aveva se-guiti per un tratto. Più avanti, nel superare il paese attraversato durante l'andata, li raggiunse l'eco dello schiamazzo di giochi infantili. Mancava ormai poco per lasciare la provinciale e prendere la strada di casa, quando nonno Giovanni per dare modo a tutti di riposare, decise di fare una sosta, arrestando il calesse davanti a un'osteria isolata, che sorgeva ai margini di uno spiazzo, cinto da una siepe, in parte già occu-pato da un paio di carri. Smontarono, mentre il cavallino si mise a strap-pare gli steli d'erba che crescevano alti, lì accanto. All'interno del locale il fumo dei sigari avvolgeva la testa degli avventori, abbastanza numero-si considerando il posto fuori mano. Subito alcune voci si levarono a sa-lutare calorosamente il nonno, e Luca fu portato a pensare quanto egli fosse conosciuto nei dintorni. Ai tavoli accostati alle pareti sedeva della gente, intenta a discutere. A tratti qualcuno si interrompeva per riempirsi il bicchiere di vino, e mentre alzava la bottiglia, sul piano del tavolo luc-cicava l'impronta lasciata dal fondo bagnato. Gli amici che avevano salutato il nonno all'ingresso gli si erano fatti attorno, e adesso, dopo averlo preso sottobraccio, lo stavano trascinando amichevolmente fuori, verso il pergolato. Uno di loro teneva in mano un mazzo di carte e lo agitava in alto, come se fosse un trofeo. Il nonno fa-ceva un po' di resistenza, ma si capiva dalla maniera confidenziale con cui gli altri lo trattavano che per lui la partitina era qualcosa di familiare. Infine egli si lasciò convincere e prese posto assieme al gruppetto. Si formarono due coppie di giocatori, e uno incominciò a distribuire le car-te. Quasi seguendo un preciso rituale, l'oste aveva portato una bottiglia di vino, stappandola lì di fronte a loro, e mentre la posava sul tavolo, al di fuori però dello spazio di gioco, il suo vocione rintronò: – Questo lo be-vono soltanto i signori e i preti! – disse riferendosi al tipo di vino servito. Luca se ne stava alle spalle del nonno, sforzandosi di capire le regole della partita. Attraverso una mimica facciale, i giocatori, non visti dagli avversari, tentavano di comunicarsi a vicenda le carte che avevano in mano, e quando uno di loro non interpretava nel modo giusto l'ammic-camento o peggio sbagliava a scartare, l'altro sbottava in imprecazioni, tra cui – Dio te stramaledissa! – la stessa che Luca ricordava d'aver sen-tito durante le visite dei vicini in casa dei nonni. Alla fine, il buio convinse i presenti a sospendere il gioco, e di lì a un po', dopo uno scambio di battute, la compagnia si sciolse. Il nonno inve-ce si attardò al banco di mescita, ordinando una bottiglia da portare a ca-sa, dello stesso vino bevuto durante la partita, avendolo trovato partico-larmente di suo gusto. Sullo spiazzo, dove era rimasto parcheggiato solo il loro calesse, i contorni del paesaggio si stavano mescolando con le tinte cupe della not-

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te ormai prossima. Il cavallino, sazio d'erba, si riposava, tenendo flessa una zampa posteriore e le palpebre mezze abbassate. Il nonno gli aveva già dato la voce affinché si riscuotesse, e si apprestava a montare al po-sto di guida, quando d'improvviso da un varco aperto nella siepe sbucò fuori un individuo dalla figura tozza, con il volto coperto fin sotto gli oc-chi da un fazzoletto a quadri, che si parò davanti a lui. Luca scorse niti-damente la lama lucida di un coltello balenare sotto la gola del nonno, e un fremito di paura lo fece rabbrividire. – Cosa vuoi da me? – la voce del nonno era calma, come quella di sempre; solo dal fondo trapelava un velo di collera. – Dai, vecchio, dammi i soldi che hai, o domani ti troveranno in un fosso sgozzato come una capra! – intimò il malvivente, e intanto agitava il coltello per rendere più convincente la minaccia. – Tu mi hai scambiato per un banchiere! – replicò il nonno, per nulla intimidito. – Tira fuori i soldi! – ripeté perentorio l'altro, e bestemmiò, dime-nandosi quasi fosse ubriaco. Allora il nonno, prendendolo alla sprovvista, fece un passo indietro, levò in alto la bottiglia di vino che ancora reggeva in mano, e con una mossa rapidissima (per uno della sua età) la calò con forza sulla testa dell'uomo, il quale, dopo aver barcollato, stramazzò a terra privo di sen-si. La bottiglia nell'urto si era frantumata e il vino colava, forse insieme al sangue, sulla faccia e sulle spalle dell'aggressore. Il tentativo di rapina e la successiva reazione da parte del nonno si e-rano svolti secondo una sequenza talmente veloce che l'accaduto parve a Luca, in quell'istante, una visione generata dalla sua immaginazione. In-vece il nonno, dopo avere scagliato il coltello oltre la siepe, si inginoc-chiò, scoprì il volto del malfattore e rimase a scrutarlo. Poi, senza scom-porsi, disse: – Non l'ho mai visto prima, ma credo sia uno di quei vaga-bondi, scansafatiche, che alle volte capita di incontrare. – Si rialzò e sempre come parlando tra sé, aggiunse: – Questo farabutto prima di an-dare a derubare qualcun altro ci penserà due volte. – Si avvicinò a Luca e gli cinse le spalle con un braccio. – Ti sei forse spaventato? – gli chiese premuroso. – Eh, sì, un po' sì, ma ho anche avuto paura per te, nonno, – disse Luca ancora abbastanza scosso. – Non badare a me; da giovane ne ho viste talmente tante che un fat-to del genere non mi può certo impressionare. – Il nonno lanciò un'ulti-ma occhiata allo sconosciuto steso a terra e quindi si rivolse di nuovo a Luca: – Rimettiamoci in strada se non vogliamo arrivare troppo tardi. –

Per qualche momento nessuno parlò, poi quando il calesse (con la lanterna accesa) correva sull'ultimo tratto di provinciale, il nonno come

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colto da un improvviso pensiero disse: – A proposito, a casa è meglio non dire niente di ciò che è successo, se no le donne si preoccupano... Lo sai come sono le donne...– e in un gesto d'intesa gli diede di gomito. Luca non tradì il segreto, anche se qualche volta al buio prima di ad-dormentarsi, la tentazione di raccontare ad Adelina quanto fosse stato coraggioso il nonno diventava quasi irrefrenabile.

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V

agosto 1897

ALL'INIZIO del mese, la tranquillità dei luoghi una mattina venne scon-volta dal frastuono di una interminabile colonna di truppe, cavalli e car-riaggi. Gli accessi alla strada furono bloccati per lasciare scorrere questo traffico del tutto insolito. Nel primo pomeriggio il transito dei reparti non si era ancora arrestato, ma intanto sulla piana a ridosso del Po andavano sorgendo accampamenti, tra i quali si aggiravano frotte di militari. Adulti e ragazzi, delle cascine e del paese accanto, si erano riversati ai margini della piana e seguivano seri e colmi di interesse le varie ope-razioni di approntamento del campo. Più timidamente si accostarono an-che delle giovanette, le quali rimasero tuttavia a una certa distanza dagli altri. Bastarono queste presenze femminili perché i soldati più vicini so-spendessero il lavoro cui erano intenti, per cercare con lo sguardo lo sguardo delle ragazze. E non appena esse si chiusero in cerchio per di-fendersi dalle occhiate provocatorie, al loro indirizzo partirono alcuni fi-schi sommessi accompagnati da un paio di spiritosaggini. Allora altri soldati si unirono ai primi, e in breve si levò uno strepito diffuso tanto che per sedarlo dovettero intervenire alcuni sottufficiali. La luce dell'alba seguente si spalancò su una visione davvero sbalor-ditiva: una distesa di tende da campo tappezzava la campagna; numerosi carri carichi di casse e materiale sostavano affiancati, e sempre allineati come in una parata risplendevano le bocche dei cannoni. I cavalli da tiro erano stati raccolti in alcuni recinti, mentre quelli da sella, che si distin-guevano per la lucidità del mantello e per la linea più agile, riposavano a gruppi di quattro o cinque, in prossimità delle tende. Il silenzio della not-te ancora non era stato infranto, ed era suggestivo ammirare l'accampa-mento addormentato, senza che si levasse il più piccolo rumore. D'improvviso tutto mutò: squilli di tromba rimbalzarono nell'aria, e dalle tende si precipitarono fuori stuoli di soldati. Ci fu per un po' un'a-nimazione confusa, tale da parere una gazzarra generale, nella quale o-gnuno si comportava in maniera incomprensibile e sciatta, ma non appe-na si udì di nuovo la tromba, ecco la sorpresa: i soldati si adunarono nel volgere di cinque minuti, la divisa impeccabile, il berretto ben aggiustato

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sulla testa e l'espressione di chi attende ordini. Venne eseguito l'appello, e poi incolonnati tutti si diressero verso le cucine dove avveniva la di-stribuzione del caffè. Al ritorno, i reparti si schierarono su uno spiazzo per essere presentati ai comandanti, secondo i corpi di appartenenza: i fanti appiedati, i lancieri a cavallo, gli artiglieri accanto ai pezzi e i ge-nieri serrati intorno alle attrezzature in loro dotazione. Stavano per iniziare le Manovre estive! Per tutta la giornata la piana fu battuta in lungo e in largo dai soldati e dai carri. La polvere sollevata dai mezzi non riusciva a depositarsi, e galleggiava nell'aria formando un nuvolone denso e irrespirabile. Al crepuscolo, un drappello di alti ufficiali, tra cui il generale Pascut-ti, comandante i reparti impegnati nelle esercitazioni, stava ispezionando il terreno dove queste appunto si svolgevano, quando, dopo aver costeg-giato le sponde del Po, frenò le cavalcature proprio davanti alla casa dei nonni. Tutta la famiglia allora si fece sulla soglia, e a quella vista, Luca strabuzzò gli occhi per la sorpresa, mentre Adelina fu subito attratta dal luccichio dei fregi e dai colori sgargianti delle uniformi. Anche nonna Emilia, le dita appese alla bocca si irrigidì a guardare. Solo nonno Gio-vanni pareva indifferente per l'insolita visita. Egli teneva un pollice infi-lato nel taschino del panciotto e con la mano libera si stuzzicava i baffi, ma nell'espressione appariva distratto. Il generale stava ritto sulla sella, attorniato dagli altri ufficiali. Il suo volto era austero, solcato da due ru-ghe profonde. I baffi coprivano solo il labbro superiore e terminavano con due codini rigidi rivolti all'insù. Lo sguardo tagliente, proiettato in avanti come chi è abituato a scrutare posizioni nemiche. Stese la mano senza rivolgersi a nessuno in particolare e immediatamente l'aiutante gli porse una carta topografica, arrotolata. Egli la prese, evitando di muove-re il busto, quasi avesse un impedimento. Svolse la carta e la consultò per pochi istanti, poi fece scorrere gli occhi in un raggio appena suffi-ciente affinché il collo non avesse necessità di ruotare. Finalmente piegò un braccio e subito gli ufficiali al suo seguito si appressarono il più pos-sibile per essere pronti a coglierne le parole. Egli dette alcune disposi-zioni telegrafiche e attorno si affrettarono ad assentire, ripetendo a fior di labbra ciò che veniva loro riferito, per imprimerselo alla perfezione nella memoria. Il generale intercalò una pausa, poi lasciò cadere lo sguardo un attimo su nonno Giovanni. – Ebbene padrone, – chiese, – come va il lavoro nei campi? – Il tono non era più secco come quello usato verso i subalterni, ma benevolo e af-fabile. – Qui, in campagna, il lavoro è sempre troppo, – rispose nonno Gio-vanni senza nessuna soggezione, anzi quasi in maniera distaccata.

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– Certo, la vostra opera è faticosa e non conosce soste, ma il contribu-to che la categoria degli agricoltori dà alla nazione è indispensabile. Bi-sogna però ammettere che il lavoro nei campi offre anche dei vantaggi; esempio, quello di vivere all'aria aperta e di rimanere sani e forti. – Men-tre parlava, il generale continuava a fissare davanti a sé. – Anche il bim-bo qui con voi, – proseguì alludendo a Luca, si vede che è diverso dai coetanei cresciuti in città: è vigoroso e ben sviluppato: una sicura garan-zia per i raccolti degli anni a venire. – Del suo corpo, solo le labbra fre-mevano il resto era di un'immobilità sconcertante. Gli altri ufficiali sor-ridevano deferenti, e tutti i loro occhi convergevano sul volto del supe-riore, tranne quelli di un giovane capitano che, essendo di grado inferiore rispetto agli altri, se ne stava più arretrato, e ciò gli permetteva di rimira-re la bellezza di Adelina, senza il rischio di farsi cogliere disattento. – Ah, un'ultima cosa, buon uomo. – Nonno Giovanni adesso era di-ventato tale per il generale. – Se nei prossimi giorni sentirete sparare, non spaventatevi: sono i miei soldati che si addestrano. –

– A che cosa si addestrano? – domandò con una sfumatura di imper-tinenza nonno Giovanni, come a volere pungere la prosopopea del per-sonaggio un po' teatrale che gli stava di fronte. – Ma a che cosa si può addestrare un soldato? Alla guerra, no? – ta-gliò corto il generale, infastidito per il chiarimento richiestogli, e nella voce la cordialità di poco prima era svanita. Con un lieve colpo di spero-ni pungolò il cavallo, che partì di scatto, sorprendendo gli ufficiali del seguito, ai quali non rimase che rincorrerlo per non farsi distanziare.

– C'è un ponte sul Po! C'è un ponte sul Po! – L'incredibile notizia si

propagò con la rapidità del fulmine, sulla spinta dell'eccitazione che un avvenimento simile poteva suscitare negli abitanti del luogo. In un tratto dove il fiume si restringeva, una notte, il genio pontieri aveva gettato sul Po un ponte di barche. Anche sostando sull'argine, di fronte alla casa dei nonni, si riusciva a scorgere sulla destra, in lontanan-za, l'opera dei militari. Ma la curiosità era troppo forte per accontentarsi di intravederne solo la sagoma, cosicché tutta la famiglia decise di recar-si proprio dove i pontoni, in parte appoggiando sulle secche, in parte gal-leggiando sulle acque, formavano un passaggio largo quanto una strada che permetteva di attraversare il fiume. Una piccola folla si era ammas-sata nei pressi a commentare il prodigio, mentre file di soldati percorre-vano il ponte per portarsi sulla riva opposta. Passarono dei carri carichi di salmerie e poi, distanziati tra loro, alcuni cannoni trainati da possenti cavalli; poi sfilò uno squadrone di lancieri al comando di un capitano: statuari sugli arcioni, lo sguardo fiero sotto il colbacco. Arrivò un giova-ne ufficiale dal cipiglio scuro su un cavallo irrequieto e con fare brusco

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invitò i civili, intenti a osservare i movimenti dei soldati, a disperdersi per non intralciare il passo. La gente accennò a sciogliersi, ma non appe-na egli si fu allontanato, si ricompose, riprendendo a scambiarsi impres-sioni come se nulla fosse. Al di là del Po, in una zona disabitata, era stato allestito il poligono di tiro, e nel pomeriggio l'aria si riempì di scoppi di fucilerie, cui fecero seguito i rimbombi dei tiri di artiglieria. Sul ponte, la processione dei carri e dei soldati continuò anche duran-te la notte, e l'eco del convoglio sul tavolato delle chiatte si spense solo verso l'alba.

– Com'è fresca l'acqua del vostro pozzo! – Era già il secondo giorno

consecutivo che il sergente dei lancieri si fermava presso la casa dei nonni, per dissetarsi. La prima volta, Adelina, finito di distribuire il bec-chime al pollame, stava rientrando in cucina e se lo trovò davanti, mentre in compagnia di altri soldati superava il portico alla ricerca di un angolo ombroso dove far riposare uomini e bestie. Lui nel vederla sembrò molto imbarazzato e titubò nel salutarla. Finalmente parve rinfrancarsi e schia-rendosi la voce disse educatamente: – Scusi signorina, potremmo fer-marci un po' qui sotto la tettoia, per una sosta? E tutto i1 giorno che stiamo cavalcando, e con questo caldo in giro si muore. – Il suo volto era illuminato da una luce di simpatia, e se non fosse stato per la leggera ti-midezza che lo aveva preso nell'imbattersi in lei, lo si sarebbe detto, in-contrandolo, un tipo spavaldo. Alla stessa maniera, anche Adelina avver-tì un certo disagio nel soffermarsi a guardarlo. Per darsi un contegno si pulì le mani nel grembiule, poi senza nemmeno accorgersene se lo tolse. – Accomodatevi pure, – disse infine. – Se volete c'è anche della biada per i cavalli, lì sul fienile. – e alzò il mento verso l'alto. – Se poi avete sete, nel cortile c'è il pozzo dell'acqua. –

Il giovane sergente ringraziò, e senza staccarle gli occhi di dosso smontò da cavallo, imitato dai suoi lancieri, in attesa. I nonni erano nei campi assieme a Luca, che li aveva seguiti per an-dare alla ricerca di nidi sugli alberi. Mentre un soldato saliva sul fienile a prendere una bracciata di fo-raggio, gli altri si occuparono dei cavalli, slacciando loro la cinghia del sottopancia e asciugando il sudore sul collo e sui pettorali. Adelina dopo qualche esitazione si scusò, ritirandosi in casa, ma subito si affrettò nel locale attiguo alla cucina, dove sopra l'acquaio c'era un piccolo specchio di cui si serviva alle volte il nonno per farsi la barba. Dopo essersi lavata le mani, guardò l'immagine del proprio viso, si pettinò, e si passò i pol-pastrelli sulle sopracciglia e sotto gli occhi. Non poté terminare di spec-

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chiarsi, perché la stessa voce maschile di qualche istante prima risuonò al di là della parete. – Permesso, – disse. – Scusi ancora; potrei avere un mestolo per bere? – Il giovane sottufficiale teneva un tono elevato per farsi sentire e per annunciarsi nello stesso tempo. Adelina gli andò incontro. La luce della soglia era quasi oscurata dalla sua figura e lei non poté fare a meno di notare la sua altezza, che lo obbligava a piegare leggermente il collo per non toccare con la testa la traversina della porta. Tolse un mestolo dalla rastrelliera sul muro e glielo porse, ma lui si limitò a impugnarne l'e-stremità senza decidersi a ritirare il braccio. Restarono in questa goffa posizione, immobili, quasi sfiorandosi, vittime di nuovo, al pari di prima, di una sorta di timidezza. Adelina si decise infine a ritirare la mano, e fa-cendo un passo indietro ristabilì una distanza normale. Lui andò verso il pozzo e con piglio risoluto calò il secchio sul fondo e dopo averlo tirato su, vi immerse il mestolo. Bevve in un'unica sorsata e, mentre si asciu-gava la bocca sospirando di piacere, esclamò in direzione di Adelina ferma nel vano della porta: – Com'è fresca l'acqua del vostro pozzo! –

Egli ricomparve assieme allo stesso drappello il giorno seguente, e con il pretesto di trovarsi di nuovo nei paraggi, ancora si dissetò, ripe-tendo l'apprezzamento sull'acqua. In quella occasione conobbe anche i nonni, e issò Luca sul suo cavallo, accompagnandolo (lui tenendo la ca-vezza) a fare un giretto. Prima di accomiatarsi disse (ma intanto guarda-va Adelina): – Grazie per l'ospitalità, e arrivederci a domani. – Il suo imbarazzo iniziale era scomparso e il volto lasciava trasparire un sorriso schietto. Non mancò di parola, presentandosi però tutto solo verso sera, la di-visa impeccabile, gli stivali lucidi, l'atteggiamento già predisposto alla cordialità. Adelina, dal canto suo, aveva trascorso un bel po' di tempo davanti allo specchio del comò, in camera da letto. Gonne e camicette che tirò fuori dai cassetti le parvero non abbastanza appariscenti, e allora scelse il vestito di taffettà, indossato una sola volta la Pasqua precedente. Si mise anche una collanina e si pettinò gonfiando i capelli sui lati e fis-sando meglio lo chignon al centro. Tuttavia non si fece trovare in attesa, scendendo a pianterreno solo un minuto dopo aver udito gli zoccoli del suo cavallo battere sotto il portico. Quando Adelina apparve, lui, il ser-gentino, rimase senza fiato tanto lei era bella. Colto da un attacco di ti-midezza, diventò rosso, e gli si ingarbugliò la lingua, ma Adelina lo tras-se d'impaccio invitandolo ad accomodarsi. Poi tutto fu più facile, e i nonni, intuendo la simpatia che correva tra i due, gli proposero di restare per cena. A tavola, il giovane parlò di sé. Si chiamava Guglielmo e si era arruolato quattro anni prima, perché gli piaceva la carriera militare. Il padre aveva prestato servizio per cinque anni nell'esercito piemontese, e

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forse anche per questa ragione sentiva nel sangue il richiamo per la divi-sa. La sua famiglia abitava nei pressi di Cremona, così nei pomeriggi d'estate, da ragazzo, andava a bagnarsi nel Po (questo lo disse per far no-tare la somiglianza dei luoghi). Ogni giorno, per tutta la durata delle Manovre, Guglielmo andò a trovare Adelina, e in capo a un paio di settimane le dichiarò di amarla. Lei invece preferì farglielo capire. Ai nonni, Guglielmo piaceva perché era semplice e sincero; nel medesimo tempo lo giudicavano maturo pur avendo solo ventiquattro anni. Luca dapprincipio provò gelosia nei suoi confronti, ma poi essi divennero amici e Guglielmo gli insegnò persino a cavalcare.

Alla fine di agosto il generale Pascutti radunò gli ufficiali superiori

che avevano partecipato alle esercitazioni e tenne il discorso di chiusura. Tra l'altro disse: – Signori, sono pienamente soddisfatto di come si sono svolte le Ma-novre quest'anno, e anche a nome del re, Sua Maestà Umberto I, il quale avrebbe voluto essere nostro ospite almeno per un giorno, io vi ringrazio. Ho notato la bravura dei vostri reparti e l'intesa tra i vari Corpi. Tuttavia mi duole rimarcare che l'artiglieria non mi è parsa all'altezza del proprio compito. Quindici colpi per centrare un enorme bersaglio, a duemilacin-quecento metri mi sembrano eccessivi. Vero, tenente colonnello Azzali? – e squadrò un ufficiale anziano sulla sua destra, il quale si sentì gelare il sangue, prevedendo che in pensione con il grado di colonnello non ci sa-rebbe mai arrivato. Il generale, sempre impettito, le gambe divaricate, proseguì: – E se si vuole essere obiettivi sino in fondo, dobbiamo am-mettere che la fanteria è mancata alquanto alle aspettative. Ho visto for-mazioni muoversi con la stessa lentezza delle truppe di cento anni fa. Nessuno dei vostri uomini, maggiore Pellegatta, – e qui ci fu un'occhiata di fuoco per un ufficiale, estremamente attento, sulla sua sinistra, –sarebbe giunto alle linee nemiche, se davvero noi si fosse dovuti andare all'assalto di un nemico. Ovviamente, lei, maggiore Pellegatta, replicherà dicendo che tra i suoi fanti ha avuto un morto e alcuni feriti, dimostrando con ciò l'impegno profuso durante le esercitazioni. D'accordo, ma che cos'è un morto se vogliamo prepararci, come Dio comanda, alla guerra? –

L'atteggiamento del generale Pascutti nelle riunioni era ormai risapu-to: esordiva con ringraziamenti ed elogi, per terminare con note di bia-simo e rimbrotti.

L'indomani fu dato l'ordine di smontare il campo.

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La sera prima della partenza, a stento tra Guglielmo e Adelina non corsero le lacrime, ma Guglielmo distaccato con la sua compagnia a Piacenza, la domenica successiva si precipitò di nuovo a trovarla.

A metà settembre, toccò invece a Luca dover partire per rientrare a Milano, e il padre, venuto su a prenderlo, durò fatica a convincerlo a non far storie, giacché Luca non ne voleva sapere di lasciare la casa dei non-ni.

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VI

marzo 1898

– NO, no, e no! Signorina Liliana, così non va bene! Non dimentichi che stiamo provando il valzer in do diesis minore opera 64 di Chopin, e quando lei suona questo brano, le mani devono essere leggere, legge-rissime come due piume. Dalle note bisogna cogliere tutta la malinconia, tutta la dolcezza e i sentimenti che Chopin vuole trasfondere in colui che si avvicina alla sua musica. Signorina Liliana, lei tiene le dita troppo ri-gide; la pelle sulle nocche è troppo tesa; il busto troppo inclinato in a-vanti e quindi le braccia si caricano in eccesso. Inoltre per interpretare Chopin, deve trovare la necessaria ispirazione e passionalità, altrimenti scegliamo Liszt o Schubert o qualcun altro. La contessa Bukowsky dava lezioni di pianoforte a Liliana, sorella di Luca, con competenza. Abitualmente il suo insegnamento non era improntato a particolare severità, tranne quando proponeva musiche di Chopin, suo conterraneo e autore prediletto. Allora esigeva la perfezio-ne. La sua sensibilità veniva ferita se l'esecuzione non risultava sorretta dal necessario virtuosismo. Era stata la signora Annalisa, madre di Li-liana e Luca, cresciuta da genitori amanti delle arti e delle lettere, a ini-ziare la figlia allo studio del pianoforte, ma solo la contessa Bukowsky invitata in seguito a darle lezioni, aveva acceso in lei una vera passione, incitandola a impegnarsi per diventare concertista. La contessa viveva con la madre, in un'elegante abitazione nei pressi di corso Venezia, da dove partiva a metà pomeriggio, tre volte la settimana, con una carrozza pubblica, guidata sempre dallo stesso vetturino, molto rispettoso nei suoi confronti. Percorreva il tratto di strada che la separava da via Torino, nella quale risiedeva la famiglia Aliprandi (la famiglia di Luca) con le tendine tirate. Solo all'arrivo ne scostava un lembo, gettava uno sguardo all'esterno, scendeva, e con incedere aristocratico varcava il vestibolo d'ingresso del palazzo, senza mai scordarsi di fare un cenno di saluto al-la portinaia, che ricambiava ossequiosa, salendo poi sino al secondo pia-no. Non appena squillava il campanello, Marta, la donna di servizio, si affrettava a introdurla, rimanendo in attesa per ritirare il cappello, e nella stagione fredda, anche la cappa e il manicotto di pelliccia. Conclusa la lezione di piano con Liliana, ella si intratteneva con la signora Annalisa, e non appena accomodate, la Marta serviva una tazza di cioccolata, dei

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crostini di pane e delle ciliegie sotto spirito, di cui la contessa era golo-sa. Finito lo spuntino, la Marta sparecchiava, però senza premura, in modo da avere il tempo per ricevere un ringraziamento. Quindi la con-tessa si accendeva una sigaretta (scandalizzando le prime volte la padro-na di casa) tenendola sospesa tra le dita tese con un gesto elegante, e li-berando il fumo sempre di lato per non infastidire la persona che le stava di fronte. Vestiva preferibilmente di nero, contro cui risaltava il candore della pelle, liscia e morbida. Durante la conversazione, i tratti del volto fine e avvenente, assumevano espressioni diverse, senza però mai alte-rarsi, mentre dagli occhi verde intenso filtrava la luce della nostalgia se solo venivano sfiorati i ricordi d'infanzia o del tempo andato. Per quale motivo la contessa avesse eletto Milano a domicilio, rimaneva un miste-ro. Tra la piccola cerchia di conoscenti qualcuno sosteneva perché ri-chiamata dalla rinomanza della città per la musica; secondo altri invece ella avendo dovuto abbandonare il proprio Paese per motivi politici, si era stabilita a Milano su suggerimento di un conoscente. Ma al di là del-le congetture non ci si poteva addentrare, e da parte sua non era mai tra-pelato nulla che svelasse la verità. Pur non essendo ricca, mostrava una tranquilla agiatezza, rifiutando di accettare compensi per le lezioni im-partite, affermando che se l'arte diventa prezzolata perde l'essenza spiri-tuale, si svilisce e scade su un piano di puro commercio. Probabilmente anche a causa del suo titolo nobiliare, riceveva numerosi inviti, ma pri-vilegiava la famiglia Aliprandi, dove si sentiva a suo agio e presso la quale molte volte acconsentiva a restare a cena, e quando faceva tardi, persino a trascorrere la notte. Con la signora Annalisa, la contessa aveva inoltre in comune l'interesse per la cartomanzia. A sera inoltrata, quando i figli erano già ritirati a dormire (il marito difficilmente rincasava prima delle undici dalla sua fabbrica di corso Lodi), la signora Annalisa e la contessa si appartavano nel salottino a fianco della libreria, dove rima-nevano per ore a interrogare le carte. Altre volte si dedicavano alla lettu-ra o a discussioni sulla musica e sulle opere rappresentate alla Scala. Ri-guardo tali argomenti la contessa dimostrava una conoscenza prodi-giosa, e la signora Annalisa di sovente la ascoltava ammirata La domenica, tutta la famiglia Aliprandi si recava a Messa in Duo-mo. Ma prima di uscire in casa c'era di frequente un gran trambusto. La Marta si alzava presto per stirare i vestiti che avrebbero dovuto indossa-re. Capitava però che madre e figlia decidessero dopo colazione che il vestito preparato non andasse più bene, e allora veniva fatto un consulto a tre, perché la Marta considerandosi per anzianità un membro della fa-miglia, voleva dire la sua, e quando i dubbi erano sciolti, ci si accorgeva che il tempo a disposizione era pochissimo. Le corse nel corridoio e da una stanza all'altra, per evitare di far tardi, accrescevano la confusione.

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Anche il signor Teresio, il padre di Luca, contribuiva a complicare la si-tuazione restando a lungo in bagno, prima, e poi, non trovando o le scar-pe o la cravatta, si aggirava per la casa, chiedendo ad alta voce dove le avessero cacciate. Già il fatto che fosse domenica era per lui un motivo di nervosismo. Lo obbligavano a vestirsi come "Sua Eccellenza", così diceva; inoltre non poteva occuparsi della fabbrica, e ciò gli procurava un senso di malessere, anche se il sabato si portava a casa alcuni capi di maglieria sui quali, nei ritagli di tempo libero, si buttava per avere sem-pre un punto di contatto con il lavoro. Finalmente scendevano accodati le scale, sfilando di fronte alla portinaia, messasi quasi al centro del ve-stibolo per riverire gli inquilini del palazzo, che a quell'ora della dome-nica uscivano per andare alle funzioni religiose. Le navate del Duomo erano sempre gremite di fedeli. Popolani e contadini vestiti in maniera semplice ma pulita; la camicia ancora odo-rosa di bucato; i capelli umidi per essere tenuti in ordine. Borghesi im-pettiti, raggruppati tra loro come a formare una classe ben distinta. Si-gnore eleganti, più propense a spiare l'abito nuovo della vicina che a te-nere gli occhi sul libretto delle preghiere. Dall'altare maggiore il ce-lebrante impartiva la benedizione e i chierichetti dondolando i turiboli impregnavano l'aria d'incenso. A Messa finita, la gente si riversava chiassosa sul sagrato, formando capannelli tra amici e conoscenti. Gli uomini si toccavano le infossature della lobbia prima di separarsi, le donne limitandosi a fare dei cenni con la mano in segno di saluto. La folla poi andava sciamando verso la Gal-leria e il parlottare diffuso rimbalzava sotto i grandi lucernari, provo-cando sottili giochi sonori. Lunghe teorie di cocchi e carrozze sostavano a fianco del Duomo, in attesa dei passeggeri. I tramways elettrici circo-lavano veloci, scampanellando per sollecitare i pedoni distratti, troppo vicini ai binari, a scansarsi. Il signor Teresio, anche quella domenica di marzo, come sua abitu-dine, si era accompagnato ad alcuni amici, piccoli industriali al pari di lui, per andare a prendere l'aperitivo al Biffi, mentre la signora Annalisa, come quasi tutte le domeniche, cedendo alle insistenze di Luca, si diri-geva assieme ai figli verso la confetteria sotto i portici a comperare dei dolci. Sorseggiando il bitter, il gruppetto di uomini si era messo a com-mentare l'avvenimento di quei giorni: la morte in duello di Felice Caval-lotti. – La fortuna gli ha proprio girato le spalle! – esclamò con finto rammarico uno di loro, a discussione avviata. – Non poteva mica andargli bene per tutta la vita! – rincalzò un altro, con un tono però più marcato.– Si è battuto per ben trentatrè volte, sem-

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pre arrabbiato come un cane, e adesso gli era capitato questo deputato, Macola, più infuriato di lui, che lo ha spedito diritto al Creatore. – – Il Crispi avrà mandato un biglietto di congratulazioni a Macola, vi-sto che quando era capo del governo il Cavallotti lo ha perseguitato in tutti i modi. – – L'aspetto più serio della faccenda è che durante i funerali del Ca-vallotti troppa gente si è mostrata pronta a fare la rivoluzione, – disse uno dei presenti che sino allora si era limitato ad ascoltare. – Qui le cose si mettono male. In fabbrica ne ho un paio di queste teste calde, che pri-ma o dopo dovrò mettere alla porta. – – A me sembra che la forza dei proletari stia crescendo troppo. Se non altro quando comandava Crispi, le organizzazioni sindacali e il par-tito socialista non avevano molto da fare gli spavaldi, – osservò il prece-dente. – Però non dovremmo dimenticarci che noi tutti abbiamo iniziato come operai, – interferì pacatamente il signor Teresio, non condividendo l'intransigenza degli altri. – E forse con un po' di comprensione nei ri-guardi dei nostri dipendenti, potremmo ottenere di più che non con le maniere dure. – – Se i nostri operai si mettessero a fare i padroni al nostro posto, sa-rebbero peggio di noi, – replicò il primo interlocutore. – Ci vorrebbe una controprova. Io dal canto mio, senza danneggiare i miei interessi, cerco di andare d'accordo con loro, e sino ad oggi posso dire di non avere rimpianti, – ribatté il signor Teresio.

– Ragionando così, caro Aliprandi, prima o dopo dovrai chiudere bottega. – – Mah, forse mi succederà per altri motivi, ma non penso che per es-sere giusti ed equi si debba fallire, – concluse il signor Teresio.

A tavola, di domenica, veniva servito il pranzo con tante portate.

Mentre la famiglia assisteva alla Messa, la Marta se ne stava ritirata a cucinare, senza però dire in anticipo cosa, perché ci teneva a fare delle sorprese e sentirsi al centro dell'attenzione. Al ritorno, appena seduti, tutti la tempestavano di domande: – Marta che hai preparato di buono, oggi? ...C'è anche il ripieno?...E le patate ar-rosto, ci sono?... – Lei faceva l'indifferente, intanto che finiva di dispor-re sulla destra di ciascuno posate e tovagliolo. – Calma, calma, – diceva infine. – Adesso arrivo, – e gongolava tutta nel sentirsi così importante. Poi spariva in cucina e riappariva con il vas-soio degli antipasti, cui seguivano, con i necessari stacchi, le altre porta-te. Il suo ingresso in sala da pranzo era sempre scherzosamente solenne. Per Luca, la Marta riservava di sovente i bocconi più saporiti, e talvolta

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gli preparava di nascosto (perché la madre non voleva viziarlo) delle squisite frittelle.

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VII

A LUCA, ancora dopo mesi di frequenza, l'andare a scuola costava fatica. Non riusciva a capacitarsi perché si dovesse restare tanto tempo inchiodati a un misero banco per imparare a leggere e a scrivere, quando nonno Giovanni, senza avere mai messo piede in un posto simile, sapeva far tutto ciò alla perfezione; concetto questo che aveva espresso aper-tamente al suo maestro, dopo essere stato richiamato per le ripetute di-sattenzioni. C'erano poi delle regole assurde: la mattina, guai a non esse-re puntuali, e una volta in classe, bisognava rimanere immobili per delle ore ad ascoltare le manfrine del maestro Liguori, il quale assumeva inol-tre pose truci, al solo scopo di mettere soggezione. Incomprensibile era anche il dover ripetere un esercizio, quando qualcuno non lo capiva o lo sbagliava. Ma perché tutti lo dovevano ripetere? Anche questo Luca a-veva fatto osservare al maestro. Figurarsi se quello cambiava idea! – Avanti, rifate l'esercizio altre dieci volte! – intimava, camminando tra i banchi, il maestro Liguori. E come se non bastasse assegnava anche i compiti a casa. Tutti questi obblighi gli avevano reso odiosa la scuola. Un paio di volte, Luca durante l'intervallo aveva tentato di svignarsela alla chetichella, insieme al suo compagno di classe, Spiro Lovati. In una occasione, al momento di varcare il portone, il bidello li aveva fermati, e dopo un rimprovero si erano presi anche una nota sul diario da parte del maestro. La seconda volta, sempre loro due, stavano scavalcando la finestra dell'aula a pianterreno, quando Gigi lo spione (così chiamavano un compagno di classe, piccolo e dalla pelle untuosa) era corso ad av-vertire il maestro, facendo fallire la fuga. Portati in direzione, erano stati severamente redarguiti e minacciati di essere sospesi. L'indomani co-munque sarebbero dovuti venire a scuola accompagnati da un genitore.

A casa, Luca lasciò passare l'intero pomeriggio prima di confes-sare alla madre l'accaduto, cercando tuttavia di ridimensionare il fatto, sostenendo che non era sua intenzione scappare di scuola ma solo calarsi nel giardino. Purtroppo il tentativo precedente, rese poco credibile la bugia, e le cose si sarebbero davvero messe male per lui se non fossero

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intervenute la contessa Bukowsky e la Marta, nel convincere la madre ad essere ancora una volta clemente.

La mattina dopo la sala riunioni degli insegnanti pareva un'aula del tribunale. Dietro il lungo tavolo, sedeva il direttore. Costui aveva la faccia a rombo per via delle guance appuntite, guarnita di due larghe fe-dine per nascondere le sporgenze dei tratti, mentre una striscia di capelli gli correva in mezzo al cranio pelato. Essendo corto di gambe, i piedi non toccavano terra, e ogni tanto, come preso da un convulso, le dime-nava freneticamente. Alla sua destra, troneggiava il maestro Liguori, più arcigno del solito, e alla sua sinistra c'era una maestra della terza B, dai lineamenti mascolini. Di fronte, sedevano la signora Annalisa e il signor Lovati, mentre i rispettivi figlioli stavano alle loro spalle, in piedi. Spiro, appena scorto Luca, gli aveva fatto capire, agitando la mano a palmo in-sù, di averle buscate, ma con un sorrisino d'intesa e lampeggiando gli occhi gli comunicava che la novità lo divertiva. Luca invece si era mes-so una mano sul petto, mimando di essere stato ferito al cuore.

Nell'ufficio, per un po' si udì solo lo scartabellare di alcuni fogli, come se il collegio giudicante stesse esaminando gli atti di un processo. L'atmosfera si andava facendo grave. Infine il direttore assunse un'aria austera, si schiarì la gola e iniziò a parlare:

– Tutti sappiamo che la scuola è un'istituzione istituita allo scopo di prendersi cura dei fanciulli, per forgiare la loro mente. – Il direttore non si accorse del bisticcio lessicale, poiché non tentò nessuna correzio-ne. – Senza la scuola, – proseguì, – l'uomo non sarebbe dissimile dall'a-nimale, in quanto si limiterebbe a nutrirsi e a riprodursi. Senza lo studio, la storia non avrebbe avuto i grandi geni, e il mondo sarebbe privo di quel progresso che noi tutti ammiriamo. Come si potevano scoprire la locomotiva, le macchine industriali, l'energia elettrica, se la scuola non avesse dato il suo contributo a sviluppare la mente umana? I vestiti che indossiamo, questo tavolo, questo edificio, tutto è opera del progresso e quindi dello studio. Studio è sinonimo di scuola, e la nostra missione di educatori è proprio quella di preparare con lo studio il futuro dei giova-ni. – Il suo tono di voce andava vieppiù crescendo, e le mani, dapprima ferme sul piano del tavolo adesso sfarfallavano nell'aria. – La nazione deve gratitudine agli insegnanti, di ogni ordine e grado, che con sa-crificio e abnegazione consegnano alla società le nuove leve, pronte a entrare nel mondo del lavoro, dando così il cambio alle vecchie e perpe-tuando l’impegno richiesto dalla nostra società volta al progresso. – Il direttore si guardò attorno in cerca di consensi e ammirazione. La mae-stra di terza B spremette gli occhi e disse: – Le parole del signor diretto-re scaturiscono da una sensibilità pedagogica profonda, ed egli, con mente illuminata… – Si fermò un istante, cercando con lo sguardo gli

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occhi del superiore come per chiederne un assenso, ma qualcuno bussò alla porta e lei rimase con la frase in sospeso. Entrò il bidello e senza nessuna discrezione informò il signor direttore che il signor ispettore, giunto all'improvviso, desiderava conferire con lui. Il signor direttore come spinto da una molla balzò in piedi.– L'ispettore? – ripeté incredu-lo, e scostando la sedia si lanciò verso l'uscita, trascurando persino di scusarsi e di salutare. Per cinque minuti il silenzio fu padrone della sala, poi anche i due maestri decisero che lo loro presenza fosse più importan-te altrove. Il signor direttore rimase occupato con l'ispettore l'intera mat-tina, e non ebbe più tempo di soffermarsi sulla birichinata di due alunni (così venne definita qualche giorno dopo). Da par suo, il maestro Liguo-ri si guardò bene dal riprendere la questione, per non interferire sugli in-tendimenti di chi in un primo momento aveva manifestato il proposito di trattare l'infrazione personalmente e con rigore.

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VIII

maggio 1898

DA TEMPO a Milano e in altre città la gente era esasperata dal carovita. I sempre più gravosi dazi sulla farina impedivano alle famiglie più pove-re di comperare il pane in misura sufficiente per sfamarsi. Il deputato socialista Filippo Turati firmava un manifesto di violente accuse contro il governo, il militarismo e i privilegi di casta. Nei primi giorni di mag-gio la collera travasò dalle fabbriche sulle strade, coinvolgendo gran parte della popolazione. Le forze dell'ordine sorvegliavano gli assem-bramenti e le leghe operaie, ma, come spesso succede in simili circo-stanze, dalle provocazioni reciproche si passò agli scontri. Il giorno 6 maggio viene arrestato un giovane dimostrante, chiamato el pompierin, intento a distribuire volantini di protesta. Il grido – Sciopero! Sciopero! – corre di bocca in bocca, e la forza che scaturisce dall'adesione fa di-vampare l'istinto della violenza. La polizia asserragliata nelle proprie ca-serme è presa d'assalto e per tale ragione vengono mandati dei rinforzi. Intervengono i soldati e durante i tumulti perdono la vita un operaio e una guardia. La sommossa si allarga. Alla calca inferocita che si assiepa intorno al Duomo si uniscono molte giovani donne. Dai balconi che si affacciano sulle strade persino madri di famiglia urlano contro le istitu-zioni. Solo verso sera un acquazzone disperde i dimostranti. Ma la rab-bia, anziché placarsi, esplode il mattino del 7, in uno sciopero generale. In corso Venezia preme una colonna di manifestanti nella quale le donne sono ancora in prima fila. Da via Senato, prendendo la colonna d'infila-ta, irrompe uno squadrone di cavalleria. Gli scontri sono ancora più duri del giorno precedente. Gruppi di insorti alzano le prime barricate, con tram, carri e ogni genere di materiale a disposizione. È battaglia aperta. Da un lato, il popolo, dall'altro, soldati e forze dell'ordine. A mezzogiorno si accampano in piazza del Duomo le truppe del ge-nerale Bava Beccaris. Il generale ha ricevuto carta bianca da Roma, do-ve si ritiene la sommossa un atto inammissibile, da stroncare a qualsiasi costo.

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All'arrivo, egli convoca immediatamente gli ufficiali al suo seguito e tiene loro rapporto. Conoscendo il carattere autoritario del superiore, es-si ascoltano remissivi. Solo al termine della riunione, quando gli altri colleghi si sono ritirati, il colonnello Franzelli, uomo di fermezza mora-le, osa riprendere l'argomento e sollevare delle obiezioni: – Ma scusi, generale, il malcontento che regna ovunque, il disagio economico che la povera gente deve sopportare, il prezzo scandaloso del pane, non sono giustificazioni di cui bisognerebbe tener conto? – – In primis, si deve ripristinare l'ordine pubblico, poi si vaglieranno le ragioni che hanno condotto alla rivolta. Inoltre un soldato, benché ge-nerale, non è tenuto a discutere le disposizioni impartite dal governo. – – Ma proprio il governo doveva intervenire per tempo, non le sem-bra, generale? – – Non sono affari nostri. Adesso noi dobbiamo reprimere la som-mossa, nel più breve tempo possibile. Più questa si protrae più diventa difficile da domare, considerando che alla base vi sono molti sobillatori. –

–Tuttavia, non possiamo sparare addosso a dei connazionali. Questa non è una battaglia coloniale. – – Può sembrare assurdo, ma nelle attuali circostanze è indispensabile essere estremamente risoluti. – – Secondo lei, generale, come bisogna dunque agire? – – I rivoltosi hanno eretto delle barricate e noi dobbiamo spazzarle via, poi sarà facile disperdere questi eroi da operetta. – – Volendo, li possiamo aggirare e con la sola presenza...– – Nessun aggiramento; useremo invece i cannoni, se entro stasera non ci sarà la resa. – – Come, scusi? – – Ho detto cannoni, non archibugi! Sono stati loro a incominciare la ribellione e noi abbiamo il dovere di soffocarla senza titubanze. – Nel pomeriggio dello stesso giorno, Luca era sgattaiolato fuori di ca-sa, senza farsi notare, per incontrarsi con Spiro, con cui si era dato ap-puntamento, giù in strada, sapendo dell'arrivo di questi soldati. La Marta rigovernava in cucina; la signora Annalisa si disponeva a trascorrere qualche ora cercando di scoprire attraverso le carte cosa ri-servava l'immediato futuro, mentre Liliana si era messa a esercitarsi al pianoforte. La contessa Bukowsky, a causa dei disordini, non avrebbe fatto loro visita, così come non sarebbe rientrato il signor Teresio, che in quei giorni non lasciava mai la fabbrica per timore che qualche malin-tenzionato approfittasse dei tumulti per introdursi nei locali a rubare, com'era capitato altrove. Il padre di Spiro, che gestiva un negozio di cal-zature in via Olmetto (senza però trascurare il vecchio mestiere di cia-

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battino) si era allontanato di casa per partecipare alle barricate, affidan-do il figlio alla vecchia madre. I due ragazzi, quasi la sommossa fosse per loro un gioco cui assiste-re, avevano deciso, eludendo la sorveglianza dei familiari, di andare a curiosare nei paraggi, magari sino a piazza del Duomo dov'erano ac-campati i militari. Luca discese le scale e attraversò il vestibolo solo nel momento in cui la portinaia gli dava di schiena. Infilò l'uscita e subito scorse Spiro addossato alla facciata del palazzo, in sua attesa. La via Torino, di solito animata da un via vai continuo, appariva completamente deserta. Nego-zi. portoni, finestre: tutto sbarrato. Luca si avvicinò a Spiro e lo salutò. Si erano appena spostati sul lato opposto, per osservare le tende rizzate dai militari in piazza del Duomo, quando da via Piatti un gruppo di cin-que giovani, in corsa affannosa, li superò di slancio. Un istante e un drappello di cavalleggeri invase la carreggiata al loro inseguimento. Con una manovra a cuneo obbligarono i fuggitivi a staccarsi dal muro che ra-sentavano, e a portarsi al centro della strada, facendoli sbandare. I due in coda furono affiancati da altrettanti soldati, i quali brandendo le sciabole menarono un terribile fendente, quasi all'unisono. Gli uomini colpiti stramazzarono al suolo, dando l'impressione di avere solo inciampato. I compagni di fuga, spinti dal terrore, continuarono a correre disperata-mente in avanti. Giunti all'altezza di via San Sisto, due di essi svoltarono d'improvviso nel vicolo scomparendo nei cortili delle prime case, men-tre il terzo, forse colto di sorpresa, tirò dritto, ma fu subito attaccato da un altro cavalleggero che gli sferrò sulla testa un rabbioso colpo con il calcio del fucile, usato come clava. Egli crollò a terra restandovi immo-bile; intanto sui capelli neri e ricci apparve una larga macchia di sangue. Il drappello di cavalleggeri si ricompose e galoppò ordinatamente verso piazza del Duomo, alla ricerca di altri dimostranti isolati. Luca e Spiro avevano seguito la scena appiattiti contro un muro. Quando la strada fu di nuovo sgombra, due uomini anziani si affacciaro-no al portone della casa di fronte, e cautamente mossero verso i primi due sventurati, uno dei quali tentava, con una smorfia di dolore, di rad-drizzarsi, appoggiandosi su un gomito. Senza dire una parola, i due soc-corritori lo aiutarono a sollevarsi e sorreggendolo per la vita lo condus-sero nel medesimo androne da dove erano usciti. Riapparvero subito do-po e si portarono accanto al secondo ferito, che giaceva inanimato su un fianco. Lo scossero un paio di volte e, resisi conto che non riprendeva conoscenza, lo afferrarono, uno per le spalle e l'altro per i piedi, traspor-tandolo, non senza una certa difficoltà, anche lui al riparo. Superato lo sbigottimento, Luca e Spiro si erano accostati e adesso fissavano la grossa chiazza di sangue che spiccava sul fondo del selciato. Poco di-

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stante notarono un borsellino di cuoio, perso durante la caduta da uno dei due fuggitivi. Lo raccolsero, e senza titubanze decisero immediata-mente di riconsegnarlo al legittimo proprietario. Varcarono svelti il por-tone, raggiungendo i soccorritori proprio nell'istante in cui adagiavano il ferito nel giardinetto interno della casa. Il suo compagno sedeva ripiega-to in avanti e si toccava con la mano destra la spalla opposta. La manica del camiciotto che portava era strappata e sporca di sangue intorno all'at-taccatura. In piedi, di fronte a lui, una donna vestita dimessamente, si tormentava le dita, ripetendo con voce spezzata: – Oh Signore, Signore, che disgrazia! – – No, non è niente, – replicò il giovane, provando a muovere lenta-mente l'arto colpito. – Sono intontito e mi sento debole, ma non è niente, – aggiunse mentre tirava giù la manica del camiciotto per cercare di sco-prire la spalla ferita. Allora la donna si fece coraggio e l'aiutò delicata-mente a togliere l'indumento. Un taglio netto, del tutto simile a un'inci-sione, si allungava appena sotto la clavicola. Il sangue era travasato ab-bondante, colando sul petto, sulla schiena e giù fino al polso. Intanto la donna si era sfilata il grembiule e lo usava per ripulirlo alla meglio, sen-za osare avvicinarsi troppo alla ferita. Il conforto di queste premure par-ve rinfrancare il giovane. Lentamente, per evitare trafitture al braccio, egli si voltò in direzione del compagno, attorno al quale gli uomini che lo avevano rimosso dalla strada, tentavano di prestargli delle cure. Uno di loro diceva però sconsolato all'altro: – Ah, ho paura che questo pove-retto non ce la faccia a salvarsi! Ha perso tanto di quel sangue...– Il feri-to disteso sull'erba mostrava un pallore mortale. Il respiro a stento solle-vava il petto gracile. La faccia era quella di un ragazzo, senza neppure la peluria dell'adolescente. I capelli castani, lisci, cadevano a ricoprire la fronte e parte delle orecchie. Luca e Spiro, dopo una prima titubanza si erano messi in una posi-zione da poter osservare entrambi i feriti. Quello a terra, in apparenza sembrava solo svenuto, ma quando uno dei due uomini gli spostò la te-sta, essi inorridirono nello scorgere sulla base del collo una lunga ferita con i labbri sporgenti. La donna si era allontanata per andare a prendere delle bende, e il giovane seduto continuava a fissare l'altro con strana curiosità. Final-mente parlò, quasi a volersi interrogare: – Chissà chi può essere? Io e i miei amici ce lo siamo ritrovato die-tro d'improvviso, e quando i soldati hanno preso a inseguirci, lui è scap-pato con noi. – Il giovane si fece pensieroso, come per tentare di intuire perché mai quel ragazzo aveva voluto unirsi al suo gruppo – Dall'età e dai vestiti sembrerebbe il garzone di qualche bottegaio, – proseguì. – O forse lavora da qualche artigiano, nei dintorni, e preso dalla smania di

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partecipare anche lui alla rivolta, ha provato a seguirci...– Intercalò an-cora una pausa. – Certo che peggio di così non poteva andargli! – e nella sua voce si coglieva il tono di una sincera pietà. La donna era ritornata portando alcune strisce di stoffa gialla. Ne porse una all'uomo chino sul giovane ferito, e lei si mise ad avvolgere la spalla dell'altro che non staccava lo sguardo sul compagno di sventura. – Sapete nulla degli altri che erano con me? – domandò senza rivol-gersi a nessuno in particolare. – Due hanno infilato la via San Sisto, qui avanti, e credo che se la siano scampata, – lo informò l'uomo che stava in piedi – l'altro invece è stato colpito in via Carrobbio. – Ma vedendo l'espressione addolorata del giovane, aggiunse in fretta: – Però probabilmente a quest'ora qualcun altro avrà soccorso pure lui. – La donna intanto finì di annodare la fasciatura, e il giovane con un sorriso dolce la ringraziò. Anche l'uomo nel frattempo aveva terminato di bendare il collo del ragazzo steso a terra. – Vicino a voi abbiamo trovato questo borsellino, – disse d'un tratto Spiro, mostrando al giovane l'oggetto di cuoio raccolto poco prima per strada. Il giovane considerò i due piccoli amici e lo stesso fecero gli al-tri. Pareva che solo in quell'istante si accorgessero della loro presenza. – No, non è mio, – disse il giovane. L'uomo accanto al ragazzo ferito tese la mano verso Spiro e senza dire nulla prese il borsellino; lo aprì e lo scosse: tre monete da un cente-simo e una medaglietta della Madonna scivolarono fuori dal taschino in-terno. Sempre in silenzio, egli lo ripiegò e lo pose a fianco del ragazzo. Uno, due, tre ... quattro. Quattro spari secchi sibilarono nella via, se-guiti da un sordo strepito. Tutti gli sguardi si appuntarono sul portone socchiuso, per tentare di capire cosa stesse succedendo là fuori. Spinto dall'impulso, il giovane ferito al braccio, scattò in piedi. – Ci sarà ancora battaglia! – disse convinto; e pareva aver ritrovato tutte le sue forze. – Io devo assolutamente andare, – continuò come se qualcuno lo aspettasse. Si abbassò a raccattare il camiciotto e nel raddrizzarsi incontrò gli occhi di Luca e Spiro. – Voi, dove abitate? – domandò. – Qui vicino, – disse Luca. – Allora sarà meglio che rientriate subito a casa, prima di trovarvi in mezzo a qualche guaio, – li sollecitò mentre si infilava l'indumento. – E al ragazzo qui ferito, ci pensate voi? – chiese ai due uomini. Più di una richiesta, il suono era di un ordine, come di chi è abituato al comando. – Vedremo di chiamare un dottore, anche se in questo momento non è facile, – rispose quello che aveva provveduto alla fasciatura. Il giovane si girò verso la donna e in silenzio l'abbracciò, come se abbracciasse la

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madre; quindi percorse, un po' malfermo, l'androne e scomparve alla lo-ro vista.

In queste ore la città è messa a soqquadro. Tram rovesciati, tetti sco-

perchiati, muri demoliti, selciati rimossi, pali e lampioni sradicati: la fu-ria degli insorti non si arresta davanti a niente. Gruppi di militari, per paura di essere sopraffatti, caricano e sparano. Altrove tentano di sfon-dare i capisaldi, ma devono ripiegare. Gli scontri più sanguinosi avven-gono nei dintorni di via Torino e a porta Garibaldi. Il generale Bava Beccaris urla e strepita, deluso per la mancata resa e l'incapacità dei suoi soldati di sgominare i ribelli. Giorno 8 maggio: ordine di fare uso dei cannoni. Com'è facile, com'è divertente prendere di mira le barricate! Alzo zero e fuoco. Uomini e masserizie volano come birilli. Toh, basta un botto più forte degli altri e il popolo si spaventa e fugge! In piazza San Eustorgio i tiri di artiglieria provocano morti e feriti tra i civili. Giorno 9 maggio: il saggio di ieri evidentemente non è stato abba-stanza persuasivo, perché a porta Venezia i rivoltosi provano ancora a contrastare i militari. Peggio per loro! Si replica. Ormai prendere di mira le barricate è divenuto un gioco, tanto da far confusione e bersagliare, in corso Monforte, un convento di frati, scambiandolo per un covo di ribel-li. Giorno 10 maggio: l'insurrezione è domata. Bilancio: 83 morti, di cui 13 donne e centinaia di feriti tra i dimostranti. Vengono inoltre effet-tuati 800 arresti, inclusi Filippo Turati, Anna Kuliscioff, Leonida Bisso-lati, direttore de l'Avanti! e don Albertario, direttore de l'Osservatorio Cattolico. Il generale Bava Beccaris raduna i suoi ufficiali. La luce degli occhi del vecchio comandante tradisce soddisfazione. Egli sa anche essere gioviale e simpatico quando gli eventi gli sono favorevoli. Brinda alla vittoria con tutti, compreso il colonnello Franzelli, malgrado questi non sia stato abbastanza sbrigativo durante l'azione. Il generale lo definisce un cuore tenero, ma sa che in altre occasioni si è dimostrato valoroso e quindi non infierisce, ammonendolo tuttavia a non lasciarsi trasportare troppo dai sentimenti, se ci tiene alla carriera. A Roma si congratulano con il generale dal pugno di ferro, e Umber-to I, per non smentire la sua fama di re buono e generoso, lo premia con un'alta onorificenza, senza dimenticarsi di decorare il gonfalone di Mi-lano con la medaglia d'oro, per la ricorrenza del cinquantenario delle storiche "Cinque giornate" e la conseguente liberazione dall'oppressore straniero.

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I X

dicembre 1899

LA MATTINATA a scuola non finiva più. Luca si sentiva la testa pesante, gli occhi a tratti gli si appannavano e la voce del maestro Li-guori si allontanava e diveniva fievole. Poco prima del suono della cam-panella, mentre alcuni compagni di classe facevano scivolare nelle car-telle quaderni e matite per essere pronti a uscire, egli fu percorso da un lungo brivido di febbre. Al momento di lasciare l'aula un senso diffuso di debolezza gli impedì di alzarsi come tutti gli altri. Spiro, che per abi-tudine ogni giorno faceva con lui un pezzo di strada verso casa, dopo averlo guardato in faccia gli chiese se non si sentisse bene. Dalla rispo-sta farfugliata e incomprensibile, intuì il suo stato, allora in silenzio gli riordinò la cartella, l'afferrò, invitandolo con tono di incoraggiamento a seguirlo. Luca a fatica riuscì a tirarsi in piedi e a muovergli dietro. Fuori, l'aria pungente annunciava l'inverno vicino. Egli incassò la testa nelle spalle e si fece più piccolo per difendere quel po’ di calore che gli resta-va in corpo. L'amico, camminandogli a fianco, a tratti lo scrutava cer-cando di cogliere i segni del suo malessere. Per Luca la strada fu molto più lunga del solito, e quando finalmente la porta di casa si aprì, la Marta sussultò nel vedere la sua faccia così ce-rea e sbattuta. Richiamata dalle sue domande preoccupate, arrivò anche la signora Annalisa e ambedue si presero cura di lui, accompagnandolo per prima cosa in camera sua. Spiro, continuando a reggere le due car-telle, restò senza muoversi nel corridoio a seguire l'affaccendarsi delle donne. La calma sembrò tornare per qualche attimo, allora Spiro si af-facciò alla camera di Luca, ma ebbe solo il tempo di gettare un'occhiata all'amico, a letto, sepolto sotto una pesante trapunta, perché entrò la Marta trafelata con la borsa dell'acqua calda che infilò sotto il lenzuolo, a contatto delle membra intirizzite di Luca. Di lì a un paio di minuti, riapparve anche la madre tenendo in mano un astuccio azzurro, dal quale tolse il termometro. Dopo avergli misurato la temperatura però il suo volto si fece cupo: la febbre era alta. La signora Annalisa e la Marta si scambiarono uno sguardo inquieto, e per decidere se chiamare subito il dottor Brambani, il medico di famiglia, si appartarono per parlare. Spiro

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si ritrovò solo, e un po' titubante si accostò al letto, scosse il bordo della trapunta e il ciuffo bruno dei capelli di Luca emerse lentamente da sotto lo strato morbido delle coltri. Vedendo l'amico chino su di lui, Luca si sforzò di sorridere, ma il volto affaticato rimase privo di espressione, eccetto gli occhi, attraverso i quali trapelò una tenue luce di simpatia. Spiro disse che lo invidiava per via della febbre che gli avrebbe permes-so di scansare la scuola, e magari, disse ancora, con un po' di fortuna po-teva fare una vacanza unica con quella di Natale. Egli voleva aggiungere dell'altro ma gli rimase solo il tempo di fare un cenno di saluto, perché la signora Annalisa gli si affiancò e, mettendogli un braccio intorno alle spalle, lo sospinse gentilmente nel corridoio, sussurrandogli all'orecchio che conveniva lasciare riposare Luca. La Marta si avvolse nel pesante scialle di lana, e con passo breve ma rapido uscì per andare a chiamare il dottore che abitava dietro piazza Cordusio. Nell'appartamento intanto era calato un silenzio improvviso, e quel silenzio creava imbarazzo a Spiro, incerto se rimanere ancora o congedarsi per non essere d'impic-cio. Ma quando la signora Annalisa gli scivolò accanto chiedendogli se voleva qualcosa da mangiare, lui si mosse verso la porta d'ingresso, si scusò e disse di dover andare via, altrimenti suo padre si sarebbe impen-sierito per il ritardo. La signora Annalisa lo accompagnò sul pianerottolo e mentre il ragazzo scendeva la prima rampa di scale, lo raggiunse con la voce invitandolo a venire a trovare Luca nei giorni successivi. La Marta camminava con il pugno chiuso sui lembi dello scialle, ma sembrandole di non essere abbastanza lesta, affrettò ancor di più il pas-so. Varcò il portone del palazzo dove abitava il dottore con il respiro che le batteva in gola, e rimase davvero male nell'apprendere dalla vecchia governante che questi si trovava a Modena, presso una sorella ammalata. Alle sue insistenze per sapere del ritorno, ebbe solo risposte vaghe. Non poté quindi far altro che lasciare un'ambasciata, sollecitando una visita a domicilio. Poi, seccata per il contrattempo, rifece la strada percorsa, mugugnando tra sé sulla poca considerazione del dottore nei riguardi dei suoi pazienti. Nello stesso giorno Liliana, al termine delle lezioni a scuola, rientrò a casa raggiante per avere ottenuto il massimo dei voti nell'interrogazio-ne di latino. La professoressa si era inoltre congratulata con lei, additan-dola quale esempio di perfezione alle compagne di classe. Ma Liliana dopo un accenno di esultanza si era subito ammutolita nel sentire di Lu-ca, e mentre ascoltava la madre, stando appoggiata con il gomito al pia-noforte, aveva sollevato il coperchio della tastiera e con l'indice distrat-tamente cavava alcune note tristi, quasi in armonia con l'atmosfera del momento.

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A metà pomeriggio, salì da loro la contessa Bukowsky, e anche lei, alla notizia di Luca ammalato, spense il sorriso dalle labbra; gli occhi verdi si caricarono di ombre, e leggera per non disturbare, si recò subito nella sua camera. Luca in quelle ore cadde in una sorta di deliquio, dal quale si ridestava a tratti. Tutto il corpo era bagnato di sudore e anche i capelli ne erano molli. Con sentimento materno, la Marta provvedeva ad accudirlo e a vegliarlo. Tra le donne tuttavia si andava diffondendo un senso crescente di apprensione, così dopo essersi riunite in salotto, furo-no tutte d'accordo che occorreva l'intervento di un medico, e che nel frattempo bisognava tenere a bada la febbre con qualche medicina. La Marta ancora una volta si incaricò di scendere per chiedere consiglio, su entrambe le cose, alla farmacia vicina, affacciata sulla stessa via Torino. Qui le diedero un febbrifugo e annotarono su un biglietto il nome di un professore, specialista in malattie dei bambini, il cui studio si trovava in via Brera. Le strade erano già rischiarate dai lampioni accesi, quando la Marta e Liliana, che si offrì di accompagnarla, presero posto su una carrozza pubblica, per recarsi all'indirizzo segnato. L'infermiera dello studio le in-trodusse nella sala d'aspetto, dicendo che purtroppo il professor Rai-mondi (così si chiamava il dottore) era fuori per un giro di visite. Liliana spiegò di Luca e fece presente l'urgenza del caso, raccomandandosi af-finché il professore venisse al più presto. Come guidato da un presentimento, quella sera il padre di Luca rin-casò verso le sette, sorprendendo i familiari abituati a vederlo rientrare non prima delle dieci o delle undici. Alla vista del figlio malato egli si rinchiuse in se stesso, e per padroneggiare pena e agitazione, prese a passeggiare su e giù per le stanze, le mani affondate nelle tasche, la testa reclinata sul petto. I tocchi smorzati del pendolo in fondo al corridoio scandivano le in-terminabili ore durante le quali Luca peggiorò. Il febbrifugo aveva sol-tanto portato un'illusione di miglioramento, poi la temperatura era balza-ta oltre i quaranta. Nel mezzo della notte, Luca cominciò a vaneggiare e a un certo punto scattò in piedi sul letto, gli occhi sgranati fissi nel vuo-to. Lo rimisero disteso, ma quel breve delirio febbrile suscitò in tutti una viva inquietudine. Poco dopo l'alba i suoi gemiti e il respiro affannoso fecero davvero temere l'irreparabile. Erano tutti sconvolti, e la Marta non trattenendo le lacrime, scappò in cucina dove ruppe in un pianto di-sperato. Alle nove precise, giunse il professor Raimondi. Aveva un aspetto florido, il professor Raimondi: alto, la faccia liscia e riposata, molto cu-rato nel vestire, il gesto sicuro e autorevole. Si annunciò con tono confi-denziale, quasi giulivo. – Dov'è allora il nostro piccolo infermo? – chie-

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se, concedendo un sorriso ai presenti. Il suo alito sapeva ancora di cola-zione. Si informò brevemente sui sintomi della malattia, e quindi si fece condurre nella camera di Luca. Mentre apriva la bella borsa di cuoio bulgaro, per prendere alcuni strumenti medici, il suo sguardo corse alla faccia esangue del piccolo paziente. Allora divenne a un tratto serio e una ruga netta gli si scolpì sulla fronte. Estrasse rapidamente lo steto-scopio e rovesciò indietro le coperte, il tanto necessario per procedere nella visita. Luca era immerso in un profondo sopore. Il medico si curvò su di lui, gli appoggiò lo stetoscopio sullo sterno; spostò lo stesso su di-versi punti del petto e poi di nuovo nella zona del cuore. Sempre più se-vero ripeté lentamente gli stessi gesti. Tastò la gola, provò a piegare la testa del malato, e infine gli alzò una palpebra sotto la quale spuntò la macchia bianca del globo oculare. Esitò a rimettersi dritto quasi si faces-se scrupolo nel pronunciare la diagnosi, ma sentì gli sguardi ansiosi de-gli astanti premere su di lui, allora si volse verso di loro. – Con tutta o-nestà, – disse congiungendo le mani davanti alla bocca, in atteggiamento simile a una preghiera, – devo dire che la situazione è molto grave, per non dire disperata. Il ragazzo è affetto da una influenza virale con com-plicazioni polmonari, di origine finora sconosciuta, la quale produce questa febbre altissima... Il cuore è debole; molto debole. – I genitori di Luca impietrirono, e anche la contessa Bukovsky, Liliana e la Marta fu-rono colpite dalla terribile sentenza. Il professor Raimondi tirò fuori dal-la borsa una scatoletta di metallo lucido e un astuccio di farmaci: l'oc-corrente per un'iniezione. – In città sono stati già segnalati casi identici che colpiscono i bambini, – aggiunse. – Purtroppo alcuni di questi casi hanno avuto esito letale. – Si interruppe un istante e poi riprese: – La scienza, alle volte, è impotente di fronte a episodi del genere; solo l'in-tervento di Dio potrebbe compiere il miracolo. – Chiese quindi di far bollire la siringa, ma nessuno si mosse. – Capisco il vostro dolore. Dal canto mio devo tentare quanto mi è possibile.– Stese il braccio mostran-do la scatoletta con la siringa affinché qualcuno provvedesse a soddisfa-re la sua richiesta. Un infinito senso di gelo e di incredulità impediva a ciascuno di muoversi. Fu la contessa Bukowsky la prima a trovare la forza per scuotersi: attraversò la stanza, prese la siringa dalle mani del professore e andò in cucina a prepararla. Il professor Raimondi, prima di praticare l'iniezione, rispettoso delle norme igieniche, volle lavarsi le mani, poi si accostò al malato e con un colpo sicuro piantò l'ago nella natica. Ripose la siringa nella scatoletta e senza premura riordinò la sua bella borsa; assunse un'aria di dolorosa partecipazione, e dopo aver ri-scosso il compenso per la visita, promise di tornare per seguire l'evol-versi della malattia. – Se disgraziatamente, – disse con quel tono pro-

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fessionale che suonava di circostanza, – le condizioni dovessero precipi-tare, non abbiate indugi a chiamarmi subito. – Nei due giorni successivi, la giovane vita di Luca lottò disperata-mente per non soccombere, nonostante le cure ripetute del professore. Al terzo giorno, avvertito dalla governante, si presentò il dottor Bram-bani, il medico di famiglia. Egli era l'opposto del professor Raimondi: mingherlino, alquanto sciatto nel vestire, i gomiti della giacca lisi, la faccia mal rasata, lo sguardo in apparenza assonnato, poiché le palpebre si abbassavano e rialzarle pareva costargli fatica. Prestò poca attenzione a quanto la signora Annalisa gli andava riferendo: delle visite del pro-fessor Raimondi, della febbre persistente e delle cure prestate. Pendolò da una sponda all'altra del letto, esaminando Luca prima visivamente, poi palpeggiandolo su alcuni punti del corpo, dando però l'impressione di superficialità. Bofonchiò non si sa cosa, frugò con le dita nel taschino del panciotto, roteò su se stesso, quindi grattandosi il mento, prese a mi-surare su e giù la stanza a piccoli passi: il tutto come seguendo un ritua-le, infine chiese carta e matita, scarabocchiando delle parole illeggibili, salvo in calce dove segnò l'indirizzo chiaro di una farmacia di Porta Ti-cinese. Porse il biglietto nella direzione dei familiari, e il signor Teresio (che in quei giorni era andato in fabbrica solo per dare disposizioni) si slanciò in avanti, afferrandolo. Il dottor Brambani disse: – Sono delle erbe medicinali; bisogna provare con queste, ma subito subito, giacché non vi è un istante da perdere. – Il signor Teresio scese le scale a precipizio, fermò la prima carrozza pubblica di passaggio, e ordinò al vetturino di portarlo in tutta fretta al-l'indirizzo indicato. Le erbe fecero il miracolo (o forse la fase acuta della malattia era stata spontaneamente superata). Comunque fosse, il settimo giorno Luca si destò di buon mattino, come se si risvegliasse da un so-gno, fisicamente prostrato, ma privo di febbre e con una gran fame, riempiendo di gioia e commozione l'intera famiglia. Il dottor Brambani si sottrasse ai ringraziamenti, affermando di non aver fatto nulla di pro-digioso, ma di essersi servito di ciò che la natura mette a disposizione dell'uomo. Spiro, che nella settimana della malattia era salito più volte sin da-vanti all'uscio degli Aliprandi, senza però mai osare annunciarsi, sapen-do per bocca della portinaia quanto fossero allarmanti le condizioni del-l'amico, finalmente trovò il coraggio di premere il campanello. Lo ac-colsero tutti festanti, immaginando quale piacere avrebbe fatto a Luca, rivederlo. Durante la convalescenza, le premure intorno a Luca non cessarono. Al mattino, spesso la madre o la Marta andavano e venivano dalla sua camera, pronte a esaudire ogni suo più piccolo desiderio. Talvolta inve-

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ce la grande casa sembrava vuota, tanto era silenziosa. Allora Luca, di-steso a letto, guardava attraverso la finestra i tetti dei palazzi di fronte ri-coperti da un velo di brina. Dai tetti spuntavano gli abbaini, mentre ac-canto, i comignoli sbuffavano fumo grigio e denso. Appena sotto la li-nea delle grondaie si aprivano le cornici delle finestre di altre abitazioni, e dietro i vetri smerigliati dal gelo, si indovinavano figure di donne af-faccendate. D'improvviso, il battere di una pentola o la cadenza di un passo, ridavano vita al pulsare domestico. Nel pomeriggio la casa invece si animava. Liliana aveva ripreso i suoi esercizi al pianoforte sotto la guida della contessa Bukowsky, la quale contribuiva a viziare Luca con piccoli regali, ma anche, conoscendo la sua golosità, con graditissimi dolci. A salire su da lui era poi la volta di Spiro che, oltre a tenergli compagnia, si dimostrava impareggiabile nel fare l'imitazione del mae-stro Liguori, specie nell'atto di sgridare uno scolaro o di assegnare un compito di punizione. Le scenette suscitavano in Luca un'ilarità tale da non riuscire a contenere le lacrime per il gran ridere. Quindi si dilunga-vano a parlare dei compagni di scuola e delle Feste ormai prossime. Della malattia egli scoprì anche i vantaggi: un gradito ozio, attenzio-ni a non finire, bocconcini saporiti (cucinati apposta per lui dalla Marta), regali, tanti regali, e per Natale ebbe la più bella delle sorprese: la visita dei nonni e di Adelina, che mai prima d’allora ricordava fossero venuti a trovarlo. Essi arrivarono al mattino della vigilia. Luca, impreparato co-m'era a vederli, avvertì una vampa di emozione, e benché fosse in piedi già da un paio di giorni, le gambe cedettero un po'. Nonno Giovanni gli strofinò i baffi ruvidi sulle guance; nonna Emilia lo strinse a sé, bacian-dolo sui capelli, mentre negli occhi di Adelina spuntarono lacrime di commozione. Proprio da quell'incontro, Luca comprese quanto fosse stato grave il pericolo corso, e quanto affetto ci fosse verso di lui. In casa, intanto, andava crescendo l'eccitazione che solitamente pre-cede il Natale. Nel pomeriggio si levò un coro di proposte da parte dei giovani, per scendere a passeggiare lungo la Galleria e sotto i Portici di corso Vittorio Emanuele. Spiro (ormai era ospite fisso) e Liliana accese-ro ancor di più la curiosità, raccontando dei negozi decorati e illuminati, della gente che li affollava, degli zampognari, e dei cento venditori am-bulanti che riempivano di grida le vie attorno al Duomo. Vinte le titu-banze della signora Annalisa, per timore che Luca prendesse freddo, e visto l'assenso del padre e dei nonni, tutti si prepararono per uscire. La signora Annalisa pretese tuttavia che Luca si coprisse il più possibile, e alla fine egli era talmente infagottato che i movimenti ne pativano. Giù, nelle strade, a quell'ora l'animazione raggiungeva il suo apice. Le vetrine traboccavano di merce e i negozianti avevano fatto a gara nel mostrarsi ingegnosi per richiamare l'attenzione del passante. Luca e Spi-

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ro precedevano tutti gli altri. Spiro ogni tanto si lanciava in avanti per anticipare le novità delle vetrine non ancora ammirate. La Marta li se-guiva a ridosso, tenendo d'occhio Luca affinché si limitasse a passeggia-re, senza agitarsi come faceva l'amico. Poi venivano Liliana e Adelina, le quali, pur vedendosi quel giorno per la prima volta, avevano subito legato tra loro. Adelina benché non fosse cresciuta in città, non sfigura-va per nulla accanto a Liliana. Ambedue sostavano di preferenza davanti ai negozi di mode, a commentare sottovoce come vecchie amiche. Die-tro, la contessa Bukowsky e la signora Annalisa si erano date il braccio e camminavano quietamente, mentre chiudevano la fila i nonni con il fi-glio Teresio. L'unica a trovarsi a disagio in quel clima di festa pareva es-sere nonna Emilia, la quale si guardava in giro, frastornata dalle luci e dalla gente che le sfilava di fianco Un grande orologio stradale segnava le cinque, quando il chiarore pallido del giorno si spense di colpo, come accade spesso in dicembre. Con il buio, una nebbia, dapprima rada, si alzò attenuando il bagliore che le vetrine illuminate spandevano all'esterno, poi diventò sempre più fitta sino a inghiottire edifici e passanti. Nel mezzo di questa coltre spuntavano i fanali accesi, intorno ai quali tremolava un alone sbiadito. Anche i rumori della strada e le voci venivano filtrati, giungendo all'o-recchio in maniera deformata. Il gruppo percorreva corso Vittorio Emanuele e d'improvviso dalla nebbia affiorò l'insegna di un negozio di fotografia. La contessa Bu-kowsky, come colta da un'ispirazione, si arrestò. Attese che gli altri si disponessero in circolo attorno a lei, quindi, con un tono di voce più alto rispetto a quello suo abituale, disse: – Visto che stasera è la vigilia di Natale e siamo tutti assieme, perché non entriamo a fare una fotografia? Così ognuno di noi avrà un ricordo dell'altro...–. Nella sua mente forse scorrevano immagini lontane, volti dai tratti sfumati, veglie trascorse con persone care...La nostalgia, come a volte le capitava, si era rifatta viva in lei. – Mi piacerebbe!...– soggiunse con voce invitante. Ma dav-vero non c'era bisogno di convincere nessuno, poiché il consenso fu immediato, specie tra le giovani e i ragazzi. L'interno del negozio era spazioso. Si componeva di un salottino ben arredato, in un angolo del quale una pianta sempreverde si allungava sulla parete. Attiguo si trova-va uno spogliatoio dove, oltre poter depositare mantelli e cappelli, ci si specchiava per essere in ordine prima della fotografia Le donne richiese-ro un po' di tempo per ritoccare le pettinature e dare le necessarie aggiu-statine ai vestiti, ma alla fine il gruppo si mise in posa. Luca e Spiro, es-sendo i più piccoli, in prima fila; in seconda, Adelina, Liliana, la signora Annalisa e la Marta (stranamente vergognosa nel farsi ritrarre), mentre la contessa Bukowsky si mise al centro, così come tutti pretesero, forse

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per una forma di riguardo. Dietro, in piedi su una pedana per sporgere con il busto, i nonni col figlio Teresio. Il fotografo fece la spola alcune volte tra loro e l'obiettivo, per suggerire espressioni e posizioni adatte; da ultimo infilò la testa sotto il panno nero che ricopriva in parte la mac-china, pregò di fissare il suo dito tenuto a mezz'aria e di sorridere. Un lampo accecante inondò la stanza: la loro immagine era impressa sulla lastra, per sempre. Il giorno seguente, il pranzo di Natale tenne impegnata la Marta sin dal primo mattino. Di ritorno dalla Messa in Duomo, dove la famiglia si era recata, si dovette appaiare il tavolo della sala con quello della libre-ria per far posto a tutti. Oltre ai nonni ed Adelina, tra gli invitati c'erano la contessa Bukowsky e la madre (la signora Annalisa aveva insistito perché fosse presente anche l'anziana signora), e all'ultimo momento si era aggiunto anche Spiro, dopo che il signor Teresio, incontrandone il padre per strada ed essersi scambiati gli auguri, lo aveva persuaso affin-ché i due piccoli amici avessero l'opportunità di trascorrere il Natale in-sieme. La Marta, terminato di apparecchiare, per dare un tocco di distinzio-ne alla tavola, aveva posato nel mezzo un candelabro d'argento, che però di lì a poco dovette essere rimosso per lasciare posto a piatti e vassoi che ingombravano ogni più piccolo spazio. Il succedersi delle portate prolungò il pranzo per molte ore, durante le quali la Marta fu premiata con numerosi complimenti per come aveva cucinato. Tra una portata e l'altra le conversazioni si intrecciavano tran-quille, mentre Luca ne approfittava per trascinare Spiro nella sua camera e impegnarlo in giochi nuovi, con i regali ricevuti. Anche nonna Emilia sentiva il bisogno di muoversi; di tanto in tanto si offriva di dare una mano alla Marta, ma interveniva il figlio obbligandola a rimanere sedu-ta, dicendo di godersi il Natale in santa pace. La madre della contessa Bukowsky era di lineamenti fini, al pari della figlia. Pur essendo in là con gli anni, la pelle del volto si manteneva tesa e liscia; le mani lunghe disegnavano nell'aria figure astratte, mentre discorreva pacatamente, marcando le vocali con un leggero accento straniero. Liliana e Adelina, che avevano scelto di rimanere vicine, non smettevano di cinguettare, ma il loro comportamento non infastidiva alcuno. Fuori faceva già buio quando il pranzo fu ultimato. I commensali abbandonarono la tavola, sparpagliandosi in varie stanze. Le due giovani si ritirarono là dove c'era il pianoforte, e Liliana si apprestò a suonare una mazurka, sotto lo sguardo attento di Adelina. Nonna Emilia poté fi-nalmente aiutare la Marta a rigovernare, e i ragazzi ripresero i giochi in-terrotti. La contessa, la madre e la signora Annalisa occuparono il salot-to, avviando una conversazione sulle usanze natalizie della gente; men-

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tre nonno Giovanni e il figlio Teresio si trasferirono nello studio, inta-sandolo ben presto col fumo denso dei loro sigari.

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luglio 1900

NELLA sua calzoleria, in via Olmetto, il signor Lovati (il padre di Spiro) ormai non ci rimaneva più molto. Dapprincipio, dopo l'apertura, aveva provato a passarvi la giornata, ma il rapporto con i clienti gli riu-sciva stentato, specie con le clienti troppo esigenti. La vista poi delle scarpe fabbricate da altri lo indispettiva, tanto da indurlo a trovare dei difetti anche su particolari di nessun conto. In capo a qualche mese gli venne, come diceva agli amici, persino la nausea, così alla fine aveva deciso di assumere un giovane commesso, pieno di premure nei riguardi della gente, e lui aveva ripreso il suo vecchio mestiere del bagatt.

Era ben diverso l'umore quando si metteva al deschetto a preparare un bel paio di scarpe su misura. La scelta della pelle, il tastarla per sco-prirne la morbidezza, l'odore intenso della concia, il disporre ben alline-ati, lesina, pinza, trincetto, raspa: quello sì gli procurava il piacere del lavoro; un lavoro che sentiva suo per averlo appreso giorno dopo giorno, anno dopo anno, da essere parte irrinunciabile della sua vita. E poi anco-ra, veder la scarpa prendere forma tra le sue mani; immaginare le mille volte che avrebbe toccato un selciato duro, un viottolo polveroso, e la pioggia o la neve pronte ad aggredirla, ma lei, la sua scarpa, sempre là sicura nel proteggere il piede indifeso. Nella bottega sprofondata in fondo all'androne della casa in via Ol-metto, non c'era bisogno di scendere ben vestiti. D'inverno, egli accen-deva il fuoco nella stufa di ghisa, e subito volute di tepore gradevole mi-tigavano il freddo pungente del locale. A metà mattino, senza togliersi il grembiule di tela chiazzato di pece, si concedeva una pausa, facendo una capatina nella bottiglieria all'angolo, dove il padrone, servendogli un bicchiere, lo tentava con accenni di conversazione. Al ritorno, talvolta trovava ad aspettarlo qualche vecchia cliente, abitante nel rione, con un paio di scarpe logore, da risuolare. Conciate com'erano sarebbero state da buttar via, ma il signor Lovati dopo un'occhiata esperta, torceva la bocca, lanciava un'occhiata alla donna e, conoscendo le sue condizioni

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disagiate, se ne usciva con un motto di spirito: – Su, va' là! Tentiamo di far resuscitare i morti! – diceva, alludendo allo stato pietoso di quelle scarpe, troppo a lungo usate. La faceva anzi accomodare, la donna, men-tre lui con gesti abili e svelti si sbrigava a sostituire le suole, rifiutando alla fine di essere pagato. D'estate, nelle giornate afose teneva spalancati i battenti dell'uscio, lasciando cadere una tenda davanti al vano. I gatti del cortile sgusciando sotto, venivano a fargli visita, strofinandoglisi addosso. Durante tali giornate alle volte gli capitava di ascoltare voci femminili dal tono alle-gro, che fluivano verso di lui dalle finestre aperte delle abitazioni vicine; e queste voci gli ricordavano la gioia di vivere della moglie, morta quando Spiro aveva solo tre anni. Ma se i pensieri tristi si soffermavano troppo nella mente, egli si obbligava a scacciarli riprendendo il lavoro interrotto. Di solito la sera non si muoveva di casa, salvo in occasioni di riunioni clandestine di partito. Lui era socialista, e lo ribadiva senza ten-tennare all'interlocutore, fosse anche cliente, se il discorso scivolava ap-pena sulla politica. Nei moti del '98 lo avevano arrestato, mentre con altri compagni e-rigeva una barricata per bloccare l'accesso di una strada. Preso e maltrat-tato, fu spedito a San Vittore, dove lo tennero rinchiuso per un paio di settimane. Prima di essere rilasciato lo minacciarono di togliergli la li-cenza del negozio se avesse infranto ancora la legge. Uscito dall'espe-rienza per niente intimidito, si convinse di poter aggiungere altra forza agli ideali di sempre. Nel suo lavoro aveva pochi rivali: per tale motivo si rivolgevano a lui clienti, non solo di Milano, ma anche provenienti dalla provincia. Proprio uno di questi ultimi, verso la metà di giugno di quell'anno (1900) bussò alla porta della sua bottega. Egli era un ricco commercian-te di Monza, venuto giù apposta per ordinargli un paio di scarpe, da fare su misura e con tutto il riguardo possibile, giacché lamentava una mal-formazione dei piedi che lo faceva soffrire calzando scarpe normali. Il cliente fece al signor Lovati mille raccomandazioni, senza badare al prezzo; volle anzi lasciare un buon anticipo, chiedendo in cambio che la consegna avvenisse entro la fine di luglio, a casa sua, dovendo egli par-tire per la villeggiatura ai primi di agosto

Domenica 29 luglio. Il signor Lovati aveva rispettato l'impegno, e adesso rimirava le scarpe pronte. Passò una mano sulla tomaia, premette in più punti insistendo sulla fascia intorno alla cucitura, e fu soddisfatto nel constatarne la giusta flessibilità. Le contemplò ancora, tenendole so-spese davanti a sé, quindi le rigirò per coglierne gli effetti estetici: me-

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glio di così il lavoro non poteva riuscirgli. Mise le scarpe in una scatola di cartone litografato che avvolse in un foglio di carta lucida. Per la con-segna, un paio di giorni prima, gli era balzata in testa l'idea di approfitta-re del viaggio a Monza per fare una gita con il figlio. Spiro quando si trattava di uscire dal suo ambiente familiare non rifiutava mai; però, nel-la circostanza, lasciò intendere che se fosse venuto anche Luca si sareb-be divertito di più. Naturalmente non c'era ragione perché Luca non po-tesse unirsi a loro. Gli Aliprandi conoscevano il signor Lovati come per-sona di cui ci si poteva fidare, ma la Marta, prima di associarsi nel dare il permesso, con inutile pignoleria si recò presso la bottega di via Olmet-to per saperne di più. Quella domenica mattina di fine luglio, verso le nove, Spiro e il pa-dre passarono da Luca, in attesa nell'atrio di casa. Per il caldo già inten-so, i passanti rasentavano i muri in cerca dei ritagli d'ombra proiettati sul selciato. Facendo altrettanto, loro tre si avviarono a prendere il tram per montare di lì a poco su quello della linea Milano-Monza. Mentre la vettura corre tra i prati della periferia, il profilo della città si allontana sempre di più. Le ruote battono forte sulle rotaie, e i passeg-geri, per intendersi, alzano la voce. Lungo la strada sfilano immagini da acquerello: uomini in canottiera, carrettini spinti a mano, famigliole di-rette fuori porta per la scampagnata domenicale, figure evanescenti per-se nella campagna arida…Alcuni ciclisti, con indosso magliette colorate, superati dal tram, adesso piegano la schiena e pigiano con forza sui pe-dali per non farsi distaccare. Alla fermata di Sesto San Giovanni le car-rozze si affollano, e persino il rumore del mezzo che riprende la sua marcia è sovrastato dall'onda sonora delle voci. Non fu facile per il signor Lovati, una volta giunto a Monza, orien-tarsi tra case e ville per cercare di arrivare a destinazione, senza perdere il resto della mattinata. Luca e Spiro trovavano invece divertente sba-gliare strada, tornare indietro, chiedere di nuovo, magari a un passante che ha l'aria di saperne meno di loro. A onor del vero, il signor Lovati alcune indicazioni le aveva ricevute a suo tempo dal cliente, ma ora la prima via a sinistra diventa la prima a destra, la piazza. piccola diventa grande… Era bella però Monza, distesa nel verde, tagliata da un'infinità di straducole che si perdevano nella campagna, le cappellette votive e-rette ai crocicchi, le osterie con la facciata ricoperta di glicine... E mentre loro proseguivano nel tentativo di imboccare la via giusta, da un'altra parte di Monza un giovane di bell'aspetto, dal volto mite, camminava solo, indifferente al paesaggio e alla calura. Per essere lì quel giorno il giovane aveva attraversato l'Atlantico, partendo da New York a metà maggio, diretto come luogo di sbarco a Le Havre, in Fran-cia. A bordo della nave il suo temperamento sensuale lo aveva portato

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ad avvicinare una ragazza, la quale mostrò subito di gradire quelle atten-zioni. Al termine del viaggio la coppia puntò su Parigi, prendendovi al-loggio per alcuni giorni. La vita di Parigi a lui piaceva: la gente era sempre allegra, i locali non chiudevano mai, e nessuno si sentiva stranie-ro in quella città così ospitale. Lui non toccava i trent'anni e la voglia di vivere gli prorompeva dentro. Ma a Parigi egli non poteva trattenersi ol-tre. Il tempo premeva, costringendolo a muoversi. Il 5 giugno mise piede a Genova, dove però la nostalgia della famiglia lo spinse verso il suo pa-ese natio, in provincia di Pistoia; paese dal quale era partito tre anni ad-dietro per emigrare in America, al pari di molti altri in cerca di lavoro. Il ricordo della famiglia, prima ancora di incontrarla, emergeva dalla sua mente in maniera quasi violenta. Man mano che si avvicinava a casa, i volti dei vecchi amici e i luoghi legati all'adolescenza, gli scorrevano davanti agli occhi, nitidi come in un album di fotografie. Finalmente la fortuna diede una mano al signor Lovati. Un carrettie-re di passaggio, interpellato, oltre a conoscere la via che stavano cercan-do si offrì di accompagnarli sino nei pressi, dovendo, egli disse, recarsi colà per i suoi affari. Solo quando smontarono dal carro si resero conto di come fosse stata lontana la loro meta, e di come, senza quell'incontro provvidenziale, avrebbero vagato ancora a lungo. Seguendo le indica-zioni ricevute, avanzarono su un viale alberato, sulla destra del quale e-rano allineate alcune ville chiuse da muri di cinta. Di fronte a una delle ville scorsero un giardiniere intento a potare una siepe di alloro. Il clien-te del signor Lovati abitava proprio in quella villa, anzi fu lo stesso giar-diniere a far loro strada lungo un vialetto e ad annunciarli. Il padrone di casa li accolse con molta cordialità.: – Vero che è stato facile trovarmi? – chiese convinto; ma subito fissò con lo stesso desiderio di un bambino la scatola che il signor Lovati teneva sottobraccio. Non attese risposta. – Però con la consegna mi ha fatto sospirare, – aggiunse in tono bonario, e nello stesso momento allungò le mani sulla scatola. Il signor Lovati se la lasciò sfilare via, poi assieme a Luca e Spiro rimase a seguire i gesti del-l'uomo che, dopo aver disfatto il pacco, alla vista delle scarpe si accese di emozione: – Ah, come sono belle! Le voglio provare subito! – Sem-brava davvero un bambino alle prese con un regalo. Si buttò seduto, si tolse le ciabatte e calzò le scarpe nuove. Poi si rimise dritto, pestò i piedi per terra, mosse alcuni passi, prima prudentemente, poi con sicurezza, facendo il giro della stanza. Il volto gli si illuminò. – Signor Lovati, m'ha fatto un capolavoro! – esclamò, mentre fissava estasiato le scarpe morbide come guanti. Il signor Lovati si sentiva piuttosto imbarazzato e non sapeva cosa dire, perché in definitiva per lui si era trattato di un la-voro che gli aveva richiesto solo un poco più di impegno rispetto al soli-

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to. – Sapesse signor Lovati questi miei piedi quanto mi fanno tribolare, specie con le scarpe che si trovano in commercio. – Mezzogiorno era trascorso da un pezzo, e il padrone di casa, esaurito l'argomento delle calzature, propose ai tre visitatori di fermarsi a pranzo. – Così mi tenete un po' di compagnia, – disse.– La moglie è andata a Como dalla madre, e a mangiare da solo poi non digerisco bene. Da solo mangio troppo in fretta. – Ci provò il signor Lovati a schermirsi un po', ma la parvenza di rifiuto non suonava abbastanza convinta, così il pa-drone di casa chiamò la domestica e in brianzolo le ordinò di apparec-chiare per quattro. Terminato di pranzare, i due uomini si trattennero a discorrere per un'oretta in salotto, dove una leggera corrente d'aria por-tava un soffio di refrigerio. Luca e Spiro, avuto il permesso dal loro o-spite, uscirono a esplorare il vasto giardino. Rientrando, sorpresero i due ancora a chiacchierare; o meglio, il signor Lovati prestava ascolto all'al-tro assentendo con la testa, come chi è d'accordo su quanto l'interlocuto-re va dicendo: – Creda a me, non vi conviene tornare a casa adesso con questo caldo. E poi oggi, qui da noi, c'è l'occasione di vedere il re che assiste a una manifestazione di ginnastica. Forse lei non sa, ma noi a Monza abbiamo la palestra "Forti e Liberi", famosa per essere frequen-tata da atleti che a Milano voi ve li sognate... E senza dubbio ai ragazzi piacerà... Poi, sul tardi, quando viene giù il fresco, piano piano prendete il vostro tram...e domani potrete dire di aver passato una bella giornata in Brianza. – Al padrone di casa non mancavano né i modi né le parole per per-suadere la gente. A metà pomeriggio, egli fece tirar fuori la carrozza dal vetturino (che era poi sempre il giardiniere incontrato all'arrivo) e, pur non potendosi trattenere ancora molto, dovendo prima recarsi a un ap-puntamento d'affari e più tardi trovarsi alla stazione per riprendere la moglie, volle accompagnarli sino sul luogo dove era prevista la manife-stazione. Strada facendo tornò a complimentarsi per le scarpe (che non si era più tolto) e prima di proseguire, eccedendo in cortesia, prese a da-re informazioni sulla maniera più sicura per arrivare alla fermata del tram diretto a Milano. Per buona fortuna del signor Lovati, il cavallo, forse infastidito dal caldo e dai tafani, diede uno scossone e partì di scat-to, troncando la spiegazione a metà. Là, dove il re doveva prendere posto, era stato eretto un palco. Anti-stante si trovava lo spiazzo su cui si sarebbe svolta l'esibizione dei gin-nasti; a ridosso erano state disposte parecchie file di sedie per il pubbli-co. Le sedie erano ancora tutte vuote, ma nelle vicinanze, richiamati da una pittoresca presenza di venditori ambulanti, si muovevano fitti gruppi di visitatori. Ogni venditore, che si riparava dentro un riquadro d'ombra, aveva un suo modo personale per vantare i propri prodotti, e ognuno, a

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turno, lanciava grida in falsetto per attirare clienti. Più discosto, ma in pieno sole, un saltimbanco non più giovane faceva capriole davanti a un bambino solitario, che lo osservava incantato. Il riverbero intenso del pomeriggio si andava smorzando, e benché fosse ancora presto per l'arrivo del re, via via le sedie si andavano occu-pando. Vicino al palco una banda militare accordava gli strumenti con accenni musicali. Sullo spiazzo riservato ai ginnasti stavano finendo di montare degli attrezzi, mentre alcuni di questi ginnasti, in disparte, ese-guivano esercizi preparatori. Il giovane venuto dall'America aveva camminato per molto tempo, senza però, per timore di perdersi, allontanarsi mai troppo dal luogo del-la manifestazione. Con lo sguardo sfuggiva la gente, e anche per le ra-gazze sembrava non avesse più interesse. Nel tardo pomeriggio, si sedet-te appoggiandosi al tronco di un platano. Era stanco, frastornato, le tem-pie gonfie per la tensione. Più tardi, accodandosi agli altri spettatori (tra i quali si mescolavano il signor Lovati e i ragazzi) si mosse e prese posto nella terza fila, di fronte al palco del sovrano. A quell'ora le ombre della sera si stavano addensando, tuttavia l'afa non dava ancora tregua e l'aria era greve e carica di umidità. L'attesa si prolungava, ma finalmente un battimani prolungato e l'at-tacco in crescendo della banda militare, salutarono l'arrivo del corteo re-ale. Umberto I salì sul palco, circondato dal seguito, e appena fu seduto, il candore dei lunghi baffi, rese facile ai presenti riconoscerlo. Anche il giovane venuto da lontano, pur vedendolo per la prima volta, lo inqua-drò immediatamente. I ginnasti intanto compivano i loro esercizi dimostrando forza e de-strezza. Il re tuttavia pareva seguire distrattamente la manifestazione, e a tratti si piegava di lato per bisbigliare una parola o una frase all'orecchio del generale Avogadro, suo consigliere. Forse si lamentava per il caldo, o forse il pensiero per gli impegni dell'indomani spingeva altrove la sua mente. Al saggio ginnico seguì la premiazione degli atleti, mentre il pubblico esprimeva la propria ammirazione con applausi calorosi. Ci fu una pausa e un silenzio imbarazzante, come se qualcosa si fosse incep-pato nel cerimoniale. Mentre le prime ombre della notte stavano calan-do, un ufficiale addetto al protocollo si accostò al re per informarlo sot-tovoce che la manifestazione era conclusa. Umberto I si alzò, e tutti, spettatori e ginnasti gli resero reverente omaggio con un'ovazione. Egli, con un'espressione paterna, rispose al saluto della folla, agitando una mano e aprendosi in un sorriso di circostanza. Il giovane in terza fila sentì il fiato farsi sempre più rapido, e le gambe indurirsi per l'emozione. Il re mise il piede sul primo scalino, apprestandosi a scendere. Nello stesso istante il giovane, soffocando gli impulsi di paura che stavano per

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sopraffarlo, si staccò dalla sedia portandosi al limitare dello spiazzo ri-servato ai ginnasti. La carrozza scoperta attendeva il re ai bordi del pal-co. Umberto I scese e andò ad accomodarsi sul divanetto della carrozza, cercando di mascherare con un sorriso i segni della stanchezza sul volto. I due ufficiali che lo accompagnavano, il generale Avogadro e il ge-nerale Ponzio, si sedettero, il primo di fronte e l'altro spalla a spalla. Il cocchiere tese le redini, pronto a partire. Il giovane era ormai a un passo dalla vettura. Fissò per un solo istante il profilo del sovrano, poi estrasse dalla tasca una pistola e scaricò contro di lui tre colpi. Il re si portò una mano al petto, il volto impallidì e senza neppure un gemito si accasciò sulle ginocchia del generale Avogadro e non si risollevò più.

Il giovane regicida si chiamava Gaetano Bresci e faceva parte di un circolo di anarchici di Paterson, negli Stati Uniti. Gaetano Bresci con quel gesto intendeva vendicare le vittime della rivolta di Milano del '98. Preso subito dopo l'attentato, morirà un anno più tardi, suicida in carcere (questo secondo la versione ufficiale).

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Parte seconda

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I

1905

IN QUELL'ANNO si sposarono Liliana e Adelina. Per l'emozione Liliana la notte precedente il matrimonio ebbe un at-tacco di febbre. Non poteva essere altro che emozione, perché al risve-glio le vampate erano scomparse, lasciando sulle guance un colorito rosa da sembrare belletto. In casa, comunque, tutti, salvo forse l’adolescente Luca, sentivano gli influssi dell'avvenimento. Il malessere di Liliana a-veva poi contribuito a dilatare la concitazione. Il più sorprendente era il padre. Lui, solitamente schivo, quieto, per nulla loquace, si metteva a rincorrere la moglie per esprimere dubbi sul passo che la figlia si appre-stava a compiere di lì a poche ore. – A ventidue anni una ragazza non è ancora abbastanza matura per pretendere di mettere su famiglia; non ti sembra? – In tale forma mani-festava le sue perplessità. E poi proseguiva spezzando i pensieri, quasi volesse muovere dei rimproveri. – Poteva benissimo aspettare, no?...Io mi chiedo: le è mai mancato qualcosa?...Tu, come madre, che l'hai vista crescere e la conosci forse meglio di me, trovi che sia arrivata a una si-mile decisione perché stanca di rimanere con noi? – Sarebbe stato facile per la signora Annalisa ribattere che loro si era-no sposati quando lei aveva appena compiuto ventun anni, ed era stato proprio lui a voler stringere i tempi, malgrado il suo lavoro incerto e le scarse possibilità economiche. La signora Annalisa si sentiva tentata di ricordargli che nella stragrande maggioranza sono i sentimenti a spinge-re i giovani a conoscersi, ad amarsi e a vivere insieme, ma ebbe il timore di essere, in quel momento, fraintesa. Allora restò ad ascoltarlo per dar-gli modo, parlando, di sfogare la sua amarezza di padre. La Marta invece sembrava stizzita: pestava i piedi muovendosi da un locale all'altro; in cucina sbatteva sonoramente, di proposito, le stoviglie e brontolava frasi comprensibili solo a lei. Era la sua reazione un po' in-fantile nel vedere Liliana andarsene via. C'era da capirla. L'aveva vista nascere, le era stata vicina al pari della madre, l'aveva consolata negli at-timi di tristezza, protetta, coccolata, e adesso tra poche ore l'ultimo arri-vato (così definiva nella circostanza lo sposo) l'avrebbe condotta via. – Quello lì non abita nemmeno a Milano, – bofonchiava nel suo angolo, la

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Marta. – Abita a Legnano; figurarsi! Ci vorrà, scommetto, una giornata per arrivarci! – E finiva prendendosela con il pianoforte di casa sul quale Liliana si era esercitata per anni. Infatti, proprio la passione per il pianoforte aveva determinato la svolta nella vita di Liliana. Due anni prima, mentre partecipava a un pomeriggio musicale dedicato a giovani pianisti, Liliana in attesa del suo turno per suonare un brano di Schubert, si ritrovò accanto un giova-ne dalla figura slanciata, gli occhi chiari, l'espressione ferma. Dicendo solo: – Scusi, – il giovane tolse di mano a Liliana lo spartito, mettendosi a sfogliarlo e soffermandosi su questo o quel rigo. Lei lo fissò un po' in-dispettita, ma nello stesso tempo con curiosità. Il giovane si aperse in un sorriso arguto, poi tese il proprio spartito, posato sul tavolino di fianco. Liliana, senza rompere il silenzio, lo scorse ma subito spalancò gli oc-chi: il pezzo prescelto dal giovane era identico al suo. Un imbarazzo fu-gace la costrinse a chinare la testa, e nel risollevarla i loro sguardi si in-crontrarono. Scoppiarono a ridere. Dopo essersi presentati, inevitabil-mente iniziarono a discorrere di musica, di colpo estranei all'ambiente attorno. Liliana si accorse che tutto le piaceva di lui, anche il nome: Eu-sebio. In quella circostanza, Liliana, durante l'esecuzione del saggio musi-cale, non fu perfetta come altre volte, pur meritandosi gli applausi finali. Eusebio al pianoforte si dimostrò un po' meno bravo di lei, ma forse a-veva troppa fretta di terminare il brano proposto, per riprendere la con-versazione lasciata a metà.. Nel giro di qualche mese si fidanzarono. La famiglia di Eusebio abitava in una grande villa, di fronte a una vasta tenuta, nei pressi di Legnano; e benché il viaggio per venirla a tro-vare fosse piuttosto disagevole, lui le dava appuntamento tre volte la set-timana. Quella mattina di fine maggio, mentre Liliana terminava di indossare il suo abito da sposa, fuori una spruzzata di pioggia rinfrescò l'aria, ma poi riapparve un sole splendente che illuminò tutta la città. Al momento di scendere le scale, molti inquilini del palazzo di via Torino, che la conoscevano fin da bambina, si affacciarono sui pianerot-toli per vederla passare e farle gli auguri. Prima di attraversare l'atrio la portinaia le andò incontro e l'abbracciò, ma poi si commosse e scappò via subito. Di fronte all'ingresso una carrozza addobbata attendeva la sposa; dietro a questa prima, se ne accodavano numerose altre. Tra i molti invitati c'erano anche Adelina e il suo fidanzato, Gu-glielmo, il sergente dei lancieri, oltre a Spiro accompagnato dal padre.

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Solo i nonni mancavano. Il signor Teresio li giustificò, conoscendo la loro riluttanza nell'affrontare viaggi e nel mischiarsi con la gente. Dopo la breve pioggia il sole tornava a illuminare la giornata, quan-do lentamente la fila delle carrozze che formavano il corteo si distese lungo la via Torino per recarsi in una chiesa non molto lontana, al Car-robbio.

Adelina invece scelse di andare all'altare a metà ottobre dello stesso

anno. Per conciliare gli impegni di lavoro con quelli di casa, ed essere tra gli invitati, quel sabato, giorno del suo matrimonio, gli Aliprandi decise-ro di partire separatamente. Il signor Teresio, il giovedì precedente, in compagnia di Luca e Spiro (amici ormai inseparabili). Il signor Teresio avrebbe fatto il viaggio in treno sino a Piacenza con i ragazzi, prose-guendo poi alla volta, prima di Reggio Emilia e quindi di Bologna, dove lo attendevano alcuni grossisti di maglieria, suoi clienti. A Piacenza, Luca e Spiro avrebbero preso il treno diretto a Castel San Giovanni, scendendo alla stazione di Rottofreno, per raggiungere a piedi la casa dei nonni. Dal canto suo, la signora Annalisa propose a Liliana di ospita-re lei e il marito venerdì notte, per partire di buonora il giorno successi-vo. In tal modo calcolava di arrivare con sicuro anticipo sull'ora della cerimonia. Anche il signor Teresio, sbrigati gli affari, contava di ricon-giungersi alla famiglia verso le dieci di quella stessa mattina. La Marta somigliava ai nonni: si sentiva a disagio lontana da casa, così preferì non muoversi. La fiducia accordatagli dal padre, per compiere l'ultimo tratto del viaggio senza di lui, riempì Luca di baldanza. Corse subito ad avvertire Spiro e, dopo lo scontato assenso del signor Lovati (per nulla contrario a esperienze del genere), essi si misero a fare progetti su come passare tut-to quel tempo lontano dai genitori. Fu davvero un giorno di piena libertà, quel giovedì di ottobre, perché scesi a Piacenza presero la coincidenza per Castel San Giovanni. Così adesso, sulla banchina della stazione di Rottofreno, Luca e Spiro sosta-vano tenendo la testa rivolta verso la nube di foschia dentro la quale il treno era scomparso. Reggendo la piccola valigia in cui c'erano i vestiti da indossare il giorno del matrimonio, Luca s'incamminò, guidando l'a-mico senza titubanze, prima lungo la via maestra e poi imboccando una strada che si perde in lontananza. In quell'ora del pomeriggio, il cielo era schermato da una cortina spessa e grigia, dietro la quale si stampava il disco solare. Il sole così coperto, era di color rosso cupo e lo si poteva fissare senza provarne fa-stidio.

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La strada adesso serpeggia nella campagna e, man mano che essi vi si inoltrano nella mente di Luca si risvegliano immagini, frammenti di ricordi dei periodi di vacanza trascorsi in quei posti. Tornano alla mente le passeggiate in calesse col nonno; le divise dei soldati impegnati nelle Manovre; le torride giornate d'estate, e il Po...Luca ne avverte la pre-senza oltre il fronte degli alberi, solo in parte spogliati del fogliame. Ec-co, ora, alla svolta apparirà la casa con i roseti arrampicati sui muri. Ci saranno ancora i roseti? E le imposte sempre accostate, saranno ancora così? Ma l'occhio fugge via, distratto da altre visioni. A sinistra si sten-dono campi ricoperti di stoppie di granoturco, mentre di qua, sul terreno già rivoltato dall'aratro, corrono strisce di zolle brune e lucide. Disturba-to dalla loro presenza, uno stormo di passeri esce improvvisamente dalla bruma autunnale per rifugiarsi nell'intrico dei cespugli, fitti lungo i fossi.

Nonna Emilia sulle prime non riconobbe Luca, tanto egli era cre-

sciuto dall'ultima volta che l'aveva visto, tre anni addietro. Nonna Emi-lia, intenta a impastare il pane sul tavolo della grande cucina, restò im-palata a fissarlo, poi finalmente tolse le mani dalla forma che stava lavo-rando: – Oh, ma sei proprio tu, Luca? – chiese incerta. Luca le rispose con cenni del capo, allora lei gli si accostò e fece il gesto di abbracciarlo, ma si trattenne, guardandosi le mani appiccicose di pasta. Richiamata dalle voci, Adelina smise di occuparsi del suo corredo da sposa e scese a salutare. Anche lei, vedendolo, dimostrò imbarazzo, co-me se si trovasse di fronte a uno sconosciuto (se lo ricordava diverso al-le nozze della sorella). Ma fu solo questione di attimi; e appena Luca presentò l'amico il lieve disagio svanì. Nonna Emilia si staccò da loro scivolando leggera verso la credenza, dalla quale prese una bottiglia di grappa e una di vino. Adelina, nel se-guire i suoi gesti, le fece notare che probabilmente essi non erano abi-tuati a bevande così forti. Allora nonna Emilia offrì ai ragazzi pane e sa-lame. Non ricevendo alcun rifiuto andò nel locale attiguo, e dalla cucina si udì uno sbattere di antine, seguito dai colpi sordi di un coltello su un tagliere. Luca e Spiro addentarono le grosse fette di pane casereccio, dalle quali spuntava il salame color sangue di bue. Senza aprir bocca, nonna Emilia scomparve ancora una volta e ritornò con due scodelle di latte, che pose sul tavolo, vicino all'impasto. Mentre mangiavano, Luca confermò l'arrivo dei genitori, di Liliana e del marito per il sabato se-guente, in mattinata. Parlando, la mollica tendeva a ostruirgli la gola, al-lora bevve una lunga sorsata, imitato da Spiro, pieno di curiosità per l'ambiente a lui insolito. Ma Luca aveva premura di rivedere nonno Gio-vanni, – che stava – così disse Adelina – rigovernando la stalla.– Attese

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una pausa della conversazione per scusarsi e andarlo a trovare. Seguito da Spiro, percorse l'ammattonato umido che conduceva al fabbricato di fronte alla casa. Aprendo la porta, subito lo colpì un buon odore di stal-latico. Nonno Giovanni, seduto su uno sgabello, mungeva una mucca dalle mammelle bianche e gonfie. Si alzò in piedi, lisciandosi i baffi. Luca lo vide un po' invecchiato, ma sempre vigoroso, lo sguardo pene-trante. Sentendo la sua voce, riprovò la stessa ammirazione di quando lo ascoltava da bambino, di quando lo aveva accompagnato al mercato di Piacenza, e di quando al ritorno si era sbarazzato del malvivente che vo-leva derubarlo, con una bottigliata in testa. Fu preso dalla voglia di get-targli le braccia al collo, però si accorse che nonno Giovanni lo stava trattando non più come a quel tempo, ma da grande. Allora egli si ade-guò e assunse un atteggiamento privo di sfumature infantili o banali. Si cenava presto in casa dei nonni. Verso le cinque, il fuoco nel ca-mino venne attizzato smuovendo le braci addormentate, poi si alimentò la fiamma con della legna sottile che si levò torcendosi dentro la canna fumaria nera di una caligine antica. Quando il fuoco attaccò bene, mise-ro alcuni ceppi nodosi, lunghi da ardere, che scagliavano scintille in mezzo al locale. Adelina si alzò e con un gesto che le era familiare, ab-bassò la lampada a petrolio e l'accese, regolando il lume con il beccuc-cio posto di fianco. Fu servita una grossa fondina di minestra, preparata con verdura, fa-gioli, riso e pezzetti di lardo. Era saporita, la minestra di nonna Emilia! I ragazzi mangiarono, una cucchiaiata dietro l'altra, rispondendo con la bocca piena quando chiesero loro se fosse buona. Come secondo, porta-rono in tavola un piatto di salame, uguale a quello già gustato, e alla fine anche della frutta secca. I nonni sbocconcellavano qualcosa, mentre A-delina non andò oltre la minestra. Al contrario, nonna Emilia sollecitava di continuo i ragazzi a servirsi, a non fare complimenti. Nonno Giovanni insisteva affinché assaggiassero almeno mezzo bicchiere di vino, che lui sembrava preferire al cibo. Anche il vino era buono, e poi metteva ad-dosso, a loro che non ci erano abituati, un calore diffuso, senza però far girare la testa. Sparecchiata la tavola, Luca e Spiro si disposero davanti al camino. Nonno Giovanni fece altrettanto spingendo vicino al fuoco una sedia a dondolo, rivestita di paglia. Accese un toscano, tenendo a lungo il fumo in bocca e soffiandolo fuori attraverso sbuffi che si disperdevano nella stanza già velata dalla penombra. Spiro stava piegato in avanti, quasi a lambire le fiamme; la sua faccia si arroventava, ma lui sembrava non soffrirne. Sedeva per la prima volta davanti a un camino e il calore ema-nato gli procurava un piacere del tutto nuovo. Adelina in disparte teneva sulle ginocchia un libro aperto, però sempre alla stessa pagina: pensava

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sicuramente al matrimonio. Nonna Emilia percorreva la casa in lungo e in largo senza mai concedersi una sosta, quantunque a un certo punto si udisse il suo inconfondibile starnuto provocato da una presa di tabacco. Subito però la cadenza del suo passo riprendeva. A volte attraversava la cucina, allora la sua ombra scorreva sui muri, ora breve ora allungata. Più tardi, per i ragazzi furono preparati due letti di fortuna, con il materasso imbottito di foglie di granoturco, lì proprio davanti al camino. Non erano ancora le nove, e i nonni, riempiti di brace due scaldini per il letto, si ritirarono nella loro camera, al piano di sopra, mentre Ade-lina rimase a parlare con loro, confidando la sua emozione nel compiere il passo più importante della sua vita. Quando anche lei si congedò, Lu-ca e Spiro tornarono a sedersi di fronte al fuoco. Più tardi presero a sve-stirsi, appoggiando gli abiti sulla spalliera delle sedie. Nel piegarsi, Spi-ro scoprì sotto il letto un vaso da notte, messo furtivamente da nonna Emilia, e quella scoperta suscitò in loro un’ incontenibile ilarità. Spento il lume, la brace nel camino sprigionava un'incandescenza sufficiente a rischiarare in parte la cucina. Sdraiati sui letti, che croc-chiavano a causa delle foglie di granoturco, Luca e l'amico restarono in silenzio, inseguendo ognuno i propri pensieri. – Sai, Luca, che se potessi decidere, io vorrei vivere in un posto simile a questo! – disse all'improv-viso Spiro, come concludendo una sua riflessione. – Già; è molto più bello qui che da noi, a Milano, – fece di rimando Luca. – E tutto così diverso! Anche il modo di vivere dei nonni e di A-delina, trovo che non assomigli per nulla a quello della gente di città. Forse, senza volerlo, loro si adeguano ai ritmi della natura. Hai notato a che ora vanno a dormire? Noi, a casa nostra, a quell'ora ci mettiamo a tavola per cenare. – – Però, Adelina, – osservò Spiro, – dall'aspetto non sembra nemme-no una ragazza di campagna. È così bella e ha certi occhi... che quando ti guardano ti mettono addosso i brividi. – – Forse non te l'ho mai detto, ma io da piccolo mi innamorai di lei. Figurati che ero geloso di Guglielmo, il suo fidanzato. Una volta, duran-te un temporale, mi prese con sé, nel suo letto, e io avvertii come uno stordimento, ed ebbi la sensazione che la felicità significasse stare ac-canto a una donna. E pensa: a quel tempo non avevo ancora sette anni. – – Tu sei convinto che per essere felici ci voglia la vicinanza di una donna? – – Può darsi che lo si possa essere anche in un modo differente; ma così a istinto, ritengo che un uomo sia ben poca cosa senza una donna che gli stia accanto. – – Visto che stiamo parlando di donne, tu Luca, non le sogni mai? Negli ultimi tempi io mi sveglio spesso al mattino con la mente ancora

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sotto l'impressione di una loro presenza. Si tratta di una presenza confu-sa ma piacevole. Anzi, prima di addormentarmi, spero sempre nel ripe-tersi di queste visioni. – – Anche a me capita di sognare di loro. Tuttavia, non so come dire, esse mi appaiono e poi scompaiono senza che io abbia la possibilità di incontrarne qualcuna con cui iniziare un discorso. – Una brace scoppiò, lanciando scintille sul pavimento. Ci fu un breve silenzio, come a non sciupare i pensieri che attraversavano le loro gio-vani menti. -– Tu credi, Luca, che prima o poi noi ci innamoreremo? – – Tutti gli uomini, prima o poi, si innamorano. – Da un albero vicino alla casa una civetta emise il suo verso malinco-nico. Tacque e poi riprese a intervalli, ma non c'era nulla di lugubre in quel canto; era solamente un richiamo, perché nella notte, un'altra, più lontana, rispose. L'indomani mattina, consumata la colazione con il latte ancora caldo di mungitura, Luca propose all'amico di fare un giro sul Po. Nonno Gio-vanni, rimasto sprovvisto di sigari, li pregò, intanto che erano già fuori, di allungare la strada sino al paese per prenderne due pacchetti. Usciti di casa, mentre costeggiavano il fiume, videro che le acque lambivano gli argini. La corrente, pur non apparendo impetuosa, dava il senso della forza, il senso di potere travolgere qualsiasi ostacolo, ma nello stesso tempo si notava in quel possente fluire un che di placido e maestoso. Soffermandosi a tratti lungo la sponda, Luca raccontava storie del grande fiume, ascoltate in passato e Spiro di quando in quando lo in-terrompeva per sapere, per approfondire ciò che lo incuriosiva di più. In paese non scorsero anima viva; solo uscendo dalla bottega dove vendevano anche i tabacchi si accorsero della presenza di un gruppetto di ragazzi, più o meno della loro età. I ragazzi lanciarono ripetute oc-chiate nella loro direzione, quindi si raccolsero in circolo, confabulando come se stessero architettando qualcosa. Luca e Spiro li ignorarono, mettendosi a gironzolare per le viuzze intorno alla piazza della chiesa. Stanchi alla fine del senso di abbandono del luogo, ripresero la strada che portava sul Po, da dove attraverso un sentiero avrebbero fatto ritorno a casa. Passando di fianco a una cascina si fermarono a guardare un branco di anatre sguazzare in uno slargo di fosso, che correva lungo il limitare dei campi. Si erano di nuovo incamminati, quando a un tratto si trovarono la strada sbarrata dal gruppetto di ragazzi, visto poco prima in paese. In silenzio uno di loro si slegò la funicella con cui reggeva i cal-zoni cenciosi, lasciandoli scivolare sulle ginocchia. Sotto non portava mutande. Con un sorriso di burla prese a orinare, privo di alcun pudore. Luca e Spiro dovettero arrestarsi per evitare lo zampillo che tagliava lo-

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ro la strada. Il ragazzo orinando contraeva i muscoli per allungare il più possibile il getto. Quando ebbe finito, mentre si riallacciava i calzoni, un suo compagno che superava gli altri in altezza, avanzò con la faccia dura di chi voglia affrontare un avversario. –Voi cittadini sapete pisciare così lungo come facciamo noi cam-pagnoli? – Parlava pulito; solo una leggera distorsione dialettale si nota-va nella sua pronuncia. Luca e Spiro restarono per un attimo interdetti, interpretando la domanda come una sfida. – O forse voi damerini vi vergognate di far vedere il vostro uccellino? – incalzò ancora l'altro, sempre con l'atteggiamento da sbruffoncello che doveva servire a im-pressionarli. Luca replicò: – Alle volte noi di città sappiamo pisciare molto più lontano di altri! – – Bene; non vi resta che dimostrarlo! – intimò il ragazzo, sempre con tono arrogante. – E se non vi siete già bagnati sotto per la paura, possiamo provarci adesso. – Fece alcuni passi in avanti, fermandosi a poca distanza da un pioppo. Quindi riprese: – Facciamo una gara: io contro voi due. Vince chi riesce, pisciando, a toccarlo, – e puntò l'indice contro l'albero. – Chi perde se ne torna a casa con la coda fra le gambe. –

Luca e Spiro si guardarono negli occhi, trovandosi subito d'accordo. – Intesi! – ribatté Luca. Gli altri quattro componenti il gruppo si schiera-rono a fianco dello sfidante, che dal tono doveva esserne il capo. Questi dopo aver stabilito la distanza precisa da mantenere rispetto all'albero, si sbottonò lentamente i pantaloni. Quando fu pronto, allargò le gambe e cominciò a orinare. Ma, benché fosse incitato dagli altri e malgrado gon-fiasse le vene del collo per lo sforzo, il suo getto non toccò la pianta; la sfiorò ma non la toccò. Sulle facce dei compagni si stampò chiara la de-lusione. Fu la volta di Spiro. Egli prese fiato e con determinazione spin-se lo zampillo. Forse qualche goccia bagnò il tronco, ma non così netta-mente da convincere gli avversari. Era il turno di Luca. Si spostò un po-co di traverso, e quasi con furia, sino a farsi dolere la vescica, sparò il suo getto. La parabola colpì in pieno l'albero e la corteccia si rigò di goccioline ben visibili. Nessuno commentò. A testa bassa, i quattro del gruppetto si avviarono verso il paese, lasciando solo il loro capo, che se ne stava lì di sasso, incredulo per lo smacco patito. Evitando di infierire contro di lui, i due amici gli voltarono le spalle e si allontanarono. Giunti sulla riva del Po, dove sotto si apriva un ormeggio per le bar-che, si fermarono a guardare alcuni pescatori stendere sul prato una lun-ga rete, nella quale vi erano impigliati una quantità incredibile di pesci.

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Ormai si stava appressando mezzogiorno, e i pescatori, ritirati i loro attrezzi, li caricarono su un carro leggero, in attesa. Lentamente Luca e Spiro si avviarono lungo il sentiero che conduceva verso casa.

Il giorno del matrimonio, Adelina e Guglielmo non potevano appari-

re più splendidi e felici. Fuori dalla chiesa, si affollavano molti abitanti del paese e delle ca-scine dei dintorni. Tra gli invitati, oltre ai parenti, c'erano: Libera, l'ami-ca del cuore di Adelina e diversi commilitoni di Guglielmo, che sfog-giavano le loro belle divise di lancieri. Nonno Giovanni non smetteva di tormentarsi i baffi, mentre nonna Emilia si guardava attorno con aria smarrita. L'indomani la coppia partì per il viaggio di nozze.

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II

1908

IL PRIMO approccio con una ragazza, Luca lo ebbe alla riapertura della scuola, proprio dopo le feste natalizie che aveva trascorso senza nemmeno toccare un libro. Tuttavia la realtà gli apparve subito ben diversa rispetto a quanto si raccontava in giro sulle coetanee. Per arrivare a ottenere un bacio dalla compagna di liceo, per la quale sospirava, dovette dar prova di vera de-vozione e tenacia. Si rese conto che non era sufficiente essere affabili, ma bisognava mostrarsi premurosi: portarle i libri di scuola, tradurle brani dall'Odissea (malgrado non sopportasse il greco), tollerare i suoi ritardi aspettando al freddo sotto il portone di casa e, per ultimo, rischia-re lo scherno per questo suo correre appresso alle sottane con troppa in-sistenza. Un bacio alla fine era riuscito a strapparlo. Ma che fatica! La ragaz-za per cui si agitava tanto si chiamava Virginia. Di lei, colpivano il viso dalla carnagione pallida su cui spiccavano gli occhi neri, le labbra che nello schiudersi sollevavano profili morbidi, e i capelli che cadevano a forma di boccoli. Tutti questi attribuiti ovviamente attiravano anche altri giovani corteggiatori, che con insistenza le rivolgevano le loro attenzio-ni. Virginia non perdeva occasione per farlo notare, e questa sua civette-ria alla fine irritò Luca. Curiosamente Spiro si trovava in un'identica situazione. Anche lui doveva sottoporsi a una serie di cimenti nel tentativo di conquistare una compagna di classe di Virginia. Nei comportamenti delle giovani c'era comunque una somiglianza che a lungo andare fece nascere dei sospetti. – Possibile che tutti e due si debba fare le medesime cose? – si chie-sero, – come, portare libri, occuparci di traduzioni, sbrigare piccole commissioni e sopportare intenzionali ritardi? – Dapprima non seppero darsi una risposta, finché arrivarono alla conclusione che le ragazze si servissero di loro per un gioco di vanità femminile. Meglio allora correr dietro alle sartine di via Gian Giacomo Mora; se non altro con loro il

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rapporto è aperto, privo di sotterfugi. Tu ci provi, se vedi che ti sorrido-no ci sono buone speranze, se no, via, scarliga. E le sartine senza far le smorfiose, ricambiavano i sorrisi e si comportavano con quella sponta-neità comune a molte ragazze del popolo. Virginia e l'amica dapprima si piccarono per questa caduta di inte-resse nei loro confronti; poi, così d'improvviso, divennero premurose e gentili. Ma per Luca e Spiro, le sartine restavano tuttavia una bella ten-tazione! Bastava aspettarle all'uscita dal lavoro, se ne abbordavano un paio di graziose e la sera successiva ti prendevano subito sottobraccio, senza mai ostentare sussiego. Esse apparivano sempre allegre, con la voglia di divertirsi. Se poi le si accompagnava in un caffè a prendere una cioccolata calda con un cornetto, era facile entrare in confidenza. L'uni-ca preoccupazione di Luca e Spiro era il loro aspetto di studentelli. A Spiro qualche pelo ispido era spuntato; Luca invece si disperava davanti allo specchio scrutando la peluria sotto il naso, ansioso di vederla tra-sformarsi in un paio di baffetti virili. Per fortuna la solida corporatura compensava i tratti acerbi del volto. Poi, però, tornava a guardarsi allo specchio e i dubbi si riaffacciavano: – Ma cosa posso fare per non sem-brare un ragazzino? – si interrogava durante tali ispezioni. Un giorno, Luca comperò di nascosto un pacchetto di sigarette e prendendo la scusa dei compiti si chiuse in camera, assieme a Spiro, per provare a fumare. Ma prima di fare ciò era necessario saper tenere la si-garetta tra le labbra, senza dar l'impressione di essere un novellino. Fece allora diversi tentativi: al centro, la sigaretta tendeva a cadere, e per sor-reggerla il labbro inferiore sporgeva esageratamente. Andava meglio spostandola nell'angolo della bocca, anche se il gesto gli ricordava certi tipi della teppa che bazzicavano intorno ai Navigli. Trovò dunque una posizione intermedia e secondo Spiro questa era ideale per assumere una espressione disinvolta. Doveva tuttavia non parlare con la sigaretta in bocca, altrimenti la bagnava di saliva. Occorreva inoltre maggior indif-ferenza nel riportarla fra le labbra. Si ricordò di come gli piacesse la maniera di fumare della contessa Bukowsky; di come lei soffiasse il fu-mo di lato e della sua eleganza nel tenere la sigaretta tra le dita. Luca ne tentò l'imitazione, ma Spiro gli disse che la posa appariva eccessivamen-te languida. Convennero che fosse preferibile scegliere un gesto più viri-le. Finalmente, con mosse studiate, ognuno prese una sigaretta dal pac-chetto e l’accese. Aspirando adagio la bocca si riempì di fumo. Il palato bruciava e le gengive pizzicavano. Dopo qualche boccata avvertirono un lieve senso di nausea: – Ma che gusto ci prova la gente a fumare?– si domandarono. Ciò nonostante vollero proseguire. A un tratto alcuni toc-chi alla porta li fecero sobbalzare. Furono presi da agitazione e Luca corse a spalancare la finestra, trascurando di rispondere. I tocchi si ripe-

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terono. Era la Marta che portava loro una merenda, malgrado Luca le ri-cordasse di frequente di non avere più l'età per cose del genere. Ma l'o-stinazione della Marta non cessava: – Un momento che sono impegnato! – gridò Luca, e tutti e due si misero a sventolare un foglio di carta per dissipare il fumo che stagnava nella stanza. Ci sarebbe voluto un po' di tempo per cambiare completamente l'aria. Luca esitò, poi girò la chiave della porta e aprì uno spiraglio. Con il vassoio che reggeva, la Marta spinse per entrare, ma Luca la tenne fuori, dicendo di non avere assolu-tamente fame. Lei insisteva e l'odore pungente che filtrava attraverso la fessura dovette colpirla, perché sospettosa domandò: – Non starete mica fumando? – – Chi, noi? Nemmeno per sogno, – mentì pronto Luca. Brontolando, la Marta tornò in cucina.

Luca si incontrava da quasi una settimana con una ragazza che la-

vorava in un laboratorio di mode, a metà di via Gian Giacomo Mora; lì vicino dove erano incominciate le prime poste alle sartine. Il nome della ragazza, Luca se l'era fatto ripetere due volte, tanto gli suonava insolito. Si chiamava Ricciardina, perché, come gli spiegò, il padre, operaio pres-so lo stabilimento di ceramica Richard, quando lei nacque trovò origina-le ispirarsi al nome della fabbrica. Da come non rifiutava mai cioccolata, gelati, dolci, si capiva che Ricciardina era di famiglia povera. Ma l'accettare gli inviti, per lei non significava rinunciare al suo carattere orgoglioso. Ricciardina era di li-neamenti graziosi e il suo viso non richiedeva trucco. Sorridendo, sco-priva una fila di denti bianchi e regolari. L'età, Luca non osava chieder-gliela per timore di dover poi rivelare la propria, ma all'incirca poteva essere sui diciotto, diciannove anni. Fu la malizia delle ragazze a far capire ai due amici, completamente inesperti di schermaglie amorose, di dividersi in coppie. Fosse stato per loro maschi, avrebbero continuato a frequentare tutti insieme il caffè e a discorrere senza combinare nulla. Invece Ricciardina, una sera, mentre loro aspettavano fuori dal laboratorio, scese, dicendo che l'amica avreb-be ritardato di un quarto d'ora perché impegnata a cucire un vestito. Ric-ciardina non volle andare al caffè; voleva rimanere sola con Luca, cam-minare per i vicoli, dove l'acciottolato faceva risuonare i passi e dove si incontravano anche dei balordi dall’aspetto poco rassicurante. Allora lei gli si stringeva al braccio, certa della sua protezione di uomo. Interpre-tando la parte dell'adulto, Luca, alto e ben piantato com'era, faceva ab-bassare lo sguardo a chi insisteva troppo nel guardarla. Anche negli appuntamenti successivi, Ricciardina ripeté che non le interessava passeggiare in piazza del Duomo o sotto la Galleria. Preferi-

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va inoltrarsi nel dedalo di stradine, alle spalle del Cordusio, dove il chia-rore del giorno si dissolveva presto. Qui, davanti alle botteghe si poteva rimanere a curiosare tranquillamente, senza il pericolo di essere urtati dal pigia pigia dei passanti. Una sera, mentre il buio era già calato, Ricciardina, nella completa solitudine di uno di questi vicoli, si arrestò, addossandosi a una nicchia formata dalla rientranza di un muro. Nell'oscurità, Luca intravide il lam-po del suo sguardo, bianco al pari dei denti. Intuì che Ricciardina, im-provvisamente ammutolita, avrebbe destato in lui sensazioni sconosciu-te. Sempre in silenzio, lei gli cinse il collo. Lui avvertì le tempie battere con violenza, e quando la bocca aperta aderì alla sua, per darsi forza le avvolse le braccia attorno alla vita. L'intensità del bacio gli andava offu-scando la vista. Un lungo fremito lo obbligò a stringerla ancora più for-te, mentre lei gli accarezzava i capelli, la faccia e il collo. Emise un la-mento e lui credendo di farle male allentò l'abbraccio, ma lei invitante, implorò dolcemente: – Stringimi. Stringimi forte! –. A un tratto si sbot-tonò la camicetta, gli afferrò una mano e se la guidò sul seno. Luca si mise ad accarezzarlo, soffermandosi con la punta delle dita intorno al capezzolo; e sotto questo stimolo lei tornò a gemere. Reso intraprenden-te dal gesto, Luca le sollevò la gonna e con la stessa mano cercò un var-co tra le cosce serrate. Dopo un accenno di resistenza, sentì che lei si abbandonava, e allora risalì, insinuandosi tra pelle e indumenti. Lei te-neva la testa rovesciata indietro, mormorando frasi indistinte. Ma la sua voce divenne chiara e marcata quando disse: – Dio come ti sento! – A sua volta Ricciardina si fece ardita. Le sue mani corsero all'abbottonatu-ra della camicia di Luca e, con movimenti nervosi, l'aprirono. Le dita ca-riche di eccitazione si mossero a tastare la pelle e quando fu sazia di questo contatto, quasi convulsamente mise a nudo il seno; un seno dal capezzolo duro per lo spasmo, che spinse contro il petto di Luca. Si stro-finò lentamente su e giù. La sua gola era piena come di un gorgoglìo, che a ondate si mutava in piccole grida. Allargò le gambe per invitare la mano di Luca, di nuovo sotto la gonna, a frugarla intimamente. Egli si ritrovò le dita intrise di un umore fluido. Indugiò sul ciuffo di peli mor-bidi e poi fece scivolare la mano lungo l'attaccatura delle cosce, ferman-dosi sulle rotondità posteriori. Questa scoperta del corpo femminile gli metteva addosso un'eccitazione incontenibile. Tornò a toccarla ma, non ancora del tutto pago, violando oltre la sua intimità, puntò un dito contro la calda fessura del grembo e dolcemente penetrò nella carne. Subito i lombi di lei si scossero, mentre il suo respiro cresceva, cresceva sino a diventare affanno. L'affanno crebbe ancora e proruppe in un gemito in-tenso e di abbandono. Ricciardina, quasi a voler ricambiare il godimento ricevuto, dopo avergli slacciato i pantaloni, incominciò a flettersi, so-

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stando a baciarlo lungo il petto. Infine si inginocchiò di fronte e la sua giovane bocca si dischiuse, pronta a offrirgli quel piacere che mai prima di allora egli aveva provato. Una sera di maggio, piena di luce, camminavano verso la periferia, seguendo l'Alzaia del Naviglio. Sul volto di Ricciardina non c'era l'abi-tuale sorriso, e le parole le uscivano a fatica di bocca. Era triste. Guar-dava i passanti affrettarsi verso casa per l'ora di cena. In lontananza, si levò insistente il fischio di una locomotiva. Proprio in quell'attimo Ric-ciardina si mise a parlare, quasi volesse nascondere la voce sotto il sibilo che riempiva l'aria. Tenendo gli occhi bassi confessò di avere già un le-game con un altro giovane. Spiegò di aver litigato con lui due mesi pri-ma. Per tale motivo si era decisa a lasciarlo. Ora però le chiedeva perdo-no, pregandola di rimettersi insieme. Lei lo conosceva da quando era bambino e gli voleva ancora bene. Non voleva farlo soffrire oltre. La sera successiva, nel ritrovarsi per l'addio, Ricciardina pianse la-crime di pena. Ammise di essere stata felice con lui. – In fondo, – disse, – è meglio non rivederci più, altrimenti finirei per innamorarmi comple-tamente di te. E questo, – concluse, – non è giusto. Io sono povera e il mio destino è di rimanere tra i poveri, mentre tu un giorno incontrerai una ragazza, di famiglia ricca come la tua e vi sposerete. – Ricciardina, con gli occhi lucidi, accettò il regalo che Luca le porse per ricordo. Ancora più commossa lo baciò timidamente sulla guancia. Poi, per non cedere di nuovo al pianto, corse via. Luca restò a guardarla, finché non sparì dietro l'angolo di un caseggiato.

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III

1914

LUCA non ci sarebbe voluto andare al ricevimento dei signori Ferrati, ma il padre costretto a letto da una delle sue coliche, lo aveva pregato di sostituirlo e di portare, allo stesso tempo, le sue scuse. Il signor Ferrati, proprietario di due grossi lanifici, aveva rapporti di affari con il signor Teresio. Ignorare l'invito poteva sembrare un atto di scortesia, pertanto qualcuno doveva rappresentare la famiglia, e Luca con i suoi ventitré anni era abbastanza grande per farlo. Certo, per lui sa-rebbe stato tutto più semplice se proprio quel sabato sera di fine marzo non avesse già avuto l'impegno di ritrovarsi con Spiro, in casa di un compagno di università. Lì sarebbero stati raggiunti da alcune ragazze, con una delle quali aveva un mezzo appuntamento. Si preannunciava u-n'allegra serata e l'idea di rinunciarvi, per partecipare a un ricevimento prevedibilmente noioso, quale la festa per le nozze d'argento di una cop-pia che nemmeno conosceva, lo mise di cattivo umore. D'altronde, con che animo poteva fare un torto a suo padre? sempre così tollerante e ge-neroso nei suoi riguardi. Per giunta, il povero uomo se ne stava a letto ancora sofferente...No, assolutamente non si meritava quel genere di sgarbo! I signori Ferrati abitavano in una villa a due piani, nelle vicinanze di corso Vercelli. Lungo i marciapiedi antistanti sostavano numerose car-rozze e alcune automobili. Ad accogliere gli ospiti c'era all'ingresso un maggiordomo, incaricato anche di ritirare il cartoncino d'invito. I padro-ni di casa vennero a dare a Luca il benvenuto, interessandosi premuro-samente della salute del signor Teresio. Gli fecero quindi strada nel sa-lone, dove si svolgeva la festa. Esauriti i convenevoli, lo lasciarono per-ché richiamati altrove. In maggioranza la gente presente era di mezza e-tà, ma non mancavano coppie in là con gli anni. Giovani egli non ne vi-de. Con lo sguardo passò rapidamente in rassegna le donne, ma benché ce ne fossero alcune piacenti, non bastarono per interessarlo a sufficien-za. In cuor suo sperò di potersela filare alla chetichella, al più presto; e

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magari con un po' di fortuna riuscire a salvare la serata raggiungendo gli amici. Questa prospettiva lo rinfrancò. In attesa, per ingannare il tempo, si scelse un angolo riparato del salone e prese a osservare gli invitati. In-dubbiamente essi facevano parte della buona società. Le signore, oltre a vestire con eleganza, sfoggiavano collane e altri gioielli vistosi. Alcuni uomini, riuniti tra loro, discutevano di affari. Due cameriere in grembiu-le nero e crestina in testa, giravano offrendo rinfreschi. Luca cercò di immaginare la Marta così addobbata e gli venne da ridere. I padroni di casa avevano previsto di fare le cose in grande, affidando a un quartetto di orchestrali il compito di rendere piacevole il ricevimento. Sulle prime, Luca pensò che avrebbero suonato solo musica classica, ma dovette ri-credersi non appena essi attaccarono un valzer viennese. Allora diverse coppie interruppero la conversazione e aprirono le danze. Benché Luca se ne stesse nella penombra, si accorse che qualche signora, incurante del rispettivo marito, gli lanciava ripetute occhiate, forse desiderosa di essere invitata a ballare. Ma egli, dopo aver preso dal buffet un bicchiere di champagne, si defilò ancora di più scegliendo un angolo appartato. Incominciava però ad annoiarsi a starsene lì immobile. Notando una sca-la che portava al piano inferiore, si decise a imboccarla, giusto per cu-riosare un po' in giro e perdere tempo. Due brevi rampe di gradini termi-navano su un locale di disimpegno, ai lati del quale si affacciavano al-cune porte chiuse. Una tenue luce spioveva sul pavimento, lasciando nel buio i punti più remoti. La musica arrivava a fatica laggiù, quasi fosse trattenuta da un muro invisibile. Poi a un tratto calò un silenzio assoluto. Si volse per tornare su, ma mosso il primo passo si arrestò e tese l'orec-chio. Un colpo sordo, vago, richiamò la sua attenzione. Lo stesso rumo-re soffocato si ripeté. Attese un momento, e quando udì il colpo suc-cessivo si diresse verso la stanza da cui era filtrato. Abbassò la maniglia e cautamente spinse l'uscio. Davanti gli si presentò una sala da biliardo. Qualcuno stava giocando in solitudine. Una lampada col paralume sva-sato pendeva bassa, rischiarando esclusivamente il piano del tavolo, sino a impedire di scorgere il giocatore dalla parte opposta. Ancora fermo nel vano della porta, Luca indovinò i contorni della sua figura, mentre curvo sulla sponda faceva scorrere la stecca lungo la mano appoggiata al tap-peto verde. Riudì il colpo secco che aveva richiamato dal fuori la sua at-tenzione. La palla d'avorio rimbalzò contro il bordo del tavolo e corse obliquamente verso il castello dei birilli, abbattendone alcuni, di preci-sione. Un braccio si protese dalla semioscurità, e una mano sottile rac-colse i birilli caduti, rimettendoli diritti. Solo allora Luca si avvide, dalla manica del vestito entrata nel rettangolo di luce, che il solitario giocatore era una donna. Spinto dalla curiosità, improvvisamente intensa, egli si fece oltremodo attento, anche per cercare di interpretare quell'atteggia-

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mento di completa indifferenza nei suoi confronti. Era impossibile non vederlo: la sua figura prestante sostava nel riquadro della porta, e la luce proveniente dall'esterno lo poneva fuor di dubbio in evidenza. Eppure la giocatrice continuava a muoversi attorno al biliardo, ignorandolo come se l'arrivo di un estraneo fosse per lei un fatto del tutto trascurabile. Luca si sentì punto nel vivo, sicuro com'era sempre stato di far colpo a prima vista sull'altro sesso. Il volto di lei non si era ancora esposto al chiarore della lampada. Due particolari però Luca aveva notato: l'eleganza del vestire e il fatto che fosse mancina, poiché impugnava la stecca con la mano sinistra. Attese ancora ma la situazione non cambiava. In altre cir-costanze non avrebbe esitato a venirsene via, ma in quel momento un'in-spiegabile forza lo tratteneva nella sala. – Vuol fare una partita? – La voce morbida gli giunse inaspettata-mente, considerando che la donna gli si rivolgeva restando china, intenta a calcolare con l'occhio il tiro da effettuare. Luca, colto alla sprovvista, impiegò qualche attimo prima di rispondere: – A dire il vero non è che sia proprio un campione, – disse alludendo alla sua poca dimestichezza con il biliardo. – E dopo averla vista gioca-re, – proseguì, – mi dovrebbe concedere cinquanta punti su cento per sperare di batterla. – Mentre completava la frase, Luca le si mosse in-contro. Finalmente la vide in tutta la sua persona. Dimostrava venti, ven-tidue anni, ma possedeva di già il fascino di cui sono naturalmente dota-te certe donne. Gli occhi velati dalla penombra gettavano lame di luce nel movimento delle palpebre. I tratti fini del volto tendevano a indurirsi un poco per il suo modo di stringere le labbra. Portava un largo berretto di velluto, tirato giù da una parte, sul quale era appuntata una spilla a foggia di aquila dalle ali spiegate. Due bande di capelli castani cadevano sulle guance sino all'altezza del mento. – D'accordo per i cinquanta punti, – disse la giovane, semplicemente come se fosse la conclusione di una trattativa. Probabilmente anche un giocatore più abile di Luca avrebbe avuto difficoltà a misurarsi con lei, perché faceva punti a ogni tiro, ma il guaio era che nascondeva la biglia dietro il castello dei birilli per mettere in difficoltà l’avversario. Se si fosse trattato di una partita normale egli non avrebbe rischiato di perdere, ma cosi, costretto a colpire di rinterzo o con l'effetto, si esponeva al ridicolo. Luca si sforzava anche di capire che genere di donna avesse di fronte. La esaminò un paio di volte di sot-tecchi, mentre guadagnava tempo passando il gesso sul puntale della stecca, ma non riuscì a cogliere né un'espressione né un gesto che rive-lassero qualcosa del suo carattere. Verso la fine, il gioco divenne per lui improvvisamente facile. Si accorse allora che lei non voleva superarlo. Strano a dirsi, egli non si sentì offeso dalla sua generosità; anzi, appena

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segnato l'ultimo punto che gli dava la vittoria, ne apprezzò la signorilità mentre si congratulava con lui. – Con un po' di impegno, lei potrebbe comunque migliorare, – os-servò la giovane, mentre girava l'interruttore per accendere le lampade a muro della sala. Luca la guardò. In piena luce era ancora più bella. E con la luce egli avvertì una sensazione che lì per lì non riusciva a defi-nire, ma che gli procurava un senso di timidezza, fino a togliergli parte della sua abituale disinvoltura. Pensò che sarebbe stato preferibile rima-nere nella penombra, dove l'emozione si mascherava più facilmente. – Sì, basta un po' di impegno, – ripeté, – per imparare il gioco sulle spon-de. D'altronde il segreto è tutto qui: sapere sfruttare certi tiri e mettere di conseguenza in difficoltà l'avversario. – – Ma lei, quando ha incominciato a giocare, per essere così brava? – – Da piccola, anziché farmi regalare le solite bambole, ho chiesto un biliardo per un mio compleanno. – – Non capita tutti i giorni però di vedere una donna alle prese con un gioco del genere. – – Si tratta di mentalità. Per educazione e tradizione, la donna si oc-cupa della casa, ma chi decide cosa le convenga fare? Nella maggioran-za dei casi è l'uomo che decide per lei. Invece, bisognerebbe che ognuna fosse in grado di fare da sola le proprie scelte. – Il tono della sua voce variava, assumendo intonazioni diverse. – Volendo giocare a biliar-do fin da piccola, io non ho fatto altro che assecondare una mia inclina-zione personale, senza subire l'influenza di chicchessia. – – Mi farebbe comodo essere bravo come lei! Se non altro per la sod-disfazione di battere gli amici. – – Perché non viene da me la settimana ventura? Potremmo fare qualche altra partita. – La proposta suonò gentile ma abbastanza distac-cata.

– Volentieri! – rispose Luca senza esitare. Ormai non pensava più di andarsene, come si era detto all'inizio del ricevimento; ora deside-rava unicamente prolungare la conversazione e passare del tempo con lei. Purtroppo in quel momento entrò una cameriera, per riferire alla giovane che la madre le chiedeva cortesemente di salire per tenere com-pagnia agli zii, venuti da fuori Milano. Lei alzò lo sguardo verso il sof-fitto, sbuffando in segno di insofferenza. Si scusò con Luca e si allonta-nò, seguita dalla cameriera. Rimasto solo nella sala, si rese conto che nemmeno si erano presentati, e di non conoscere neppure il suo nome. Considerò ovvio, dalle poche parole scambiate, che fosse la figlia dei si-gnori Ferrati, rammaricandosi di non saperne di più. Quel che era peg-gio, pensò di aver perso l'opportunità di ritornare da lei la settimana suc-cessiva. Per quella sera Luca non ebbe più l'occasione di avvicinarla. La

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intravide da lontano, circondata da un gruppo di invitati. Distrattosi per qualche attimo, quando la cercò di nuovo con gli occhi, lei era scompar-sa. Indugiò a lungo, ma invano. Stanco di attendere, poco prima di mez-zanotte si rassegnò a lasciare la casa. Non poteva negare di essere stato colpito dall'incontro. Nei giorni seguenti, si interrogò più volte su come comportarsi. Prendere a pretesto l'invito per una partita di biliardo, in modo da rivederla? Però a guardar bene l'invito era stato buttato lì forse anche non troppo seriamente. E se presentandosi a casa sua lei fosse caduta dalle nuvole? O magari avreb-be tergiversato, dicendo: – Ah, sì, ricordo; però non credevo...– Già, po-teva anche capitare! Meglio allora lasciar perdere, piuttosto di rischiare una figura meschina. Ma, una volta messo a tacere l'affanno, ecco dopo un po' riaffacciarsi alla mente l'immagine di lei, farsi viva la sua voce. "Oh, Luca, che ti succede?" si chiedeva. "Non vorrai mica dirmi...Ah, no, questo poi no! E le altre ragazze conosciute a che cosa ti sono servi-te? Suvvia, vediamo di essere seri!". Così si rimproverava nel tentativo di scacciare il pensiero insistente della sua immagine. Questa lotta interiore tuttavia non gli giovò affatto, e giusto una set-timana più tardi dal ricevimento, tornò alla villa dei Ferrati. Venne ad aprirgli una cameriera, facendolo accomodare nell'ingresso. Egli si stupì nell'essere riconosciuto per uno degli ospiti della festa. E lo stupore crebbe ancora quando si sentì chiamare "signor Aliprandi". Evitò di ap-purare come mai fosse noto il suo nome, limitandosi a chiedere della si-gnorina. – Quale signorina? – volle sapere la cameriera. – La signorina Donata o la signorina Camilla? – Sul volto di Luca si disegnò un moto di sorpresa, convinto com'era che "lei" fosse figlia unica. Cercò di rime-diare all'errore accennando una descrizione approssimativa: – Giovane, graziosa, piuttosto alta, capelli castani...– Si interruppe, ma capì dall'e-spressione della donna che quei particolari non bastavano. –Sa, la signo-rina cui piace giocare a biliardo. – – Ah, sì; lei allora cerca la signorina Camilla, – precisò la cameriera felice di rendersi utile. – Purtroppo, – aggiunse, cambiando subito tono come se le dispiacesse far seguire una delusione, – la signorina si trova a Parigi. Dovrebbe essere di ritorno fra cinque, sei giorni. – Lui si fece pensieroso. – Vuol lasciare un messaggio? Così appena la vedo le riferi-sco. – Tentennò. – No no, non ha importanza. Mi farò vivo io di nuovo, – concluse, e si diresse verso l'uscita. Luca si convinse di avere il destino contro. Invece di ritorno da Pari-gi, Camilla, saputo della sua visita, lo chiamò al telefono. Nel riudirla, fu preso dalla stessa emozione di quando due settimane prima, finita la partita di biliardo, l'aveva vista in piena luce. Lei parlava con trasporto,

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senza tuttavia accennare al mancato appuntamento né alla sua assenza da casa. Lo trattò subito confidenzialmente, mettendolo a suo agio. Inco-raggiato da quella spontaneità, Luca ritrovò la sua spigliatezza. Ne ven-ne fuori una conversazione scorrevole, punteggiata di battute spiritose. E quando avanzò la proposta di rivederla, lei accettò senza porre esitazioni in mezzo, invitandolo a venirla a trovare l'indomani pomeriggio. E l'indomani fu la stessa Camilla a riceverlo, guidandolo tra le belle stanze della villa, da una delle quali si affacciò Donata, la sorella mag-giore. Mentre si presentavano, Luca ne approfittò per confrontarle. Si assomigliavano abbastanza nell'aspetto ma non nel carattere. Camilla era estroversa, ironica, incline a mantenere l'iniziativa. La sorella appariva riservata, quasi in soggezione con la persona sconosciuta. Si accomoda-rono in un salottino e appena seduti una cameriera si affrettò a chiedere cosa dovesse servire. Camilla disse che un goccio di cognac era da pre-ferire a una tazza di tè o caffè. Rivolse attorno lo sguardo con l'aria di at-tendersi non un assenso sulla scelta, bensì per cogliere delle complicità. Luca, solo in quel preciso momento, avendola di fronte poté guardarla con attenzione. Portava una gonna più corta rispetto alle ragazze della sua età e una camicetta traforata, chiusa sotto il collo da un cammeo. Il viso, alla luce del giorno, mostrava per intero quella bellezza misteriosa che lo aveva colpito subito al primo incontro. Quando lei si accorse di essere scrutata, tacque un istante, sorpresa; strinse le labbra tradendo un lieve imbarazzo, abbassò gli occhi, poi li rialzò, ricambiando con dol-cezza lo sguardo. La cameriera si frappose tra loro, posando i tre bic-chierini di liquore sul tavolino. Camilla sollevò il suo con la mano sini-stra, bevendo un sorso. – Vogliamo ascoltare della musica? – domandò a un tratto. Interpose una pausa e aggiunse: – Va bene un brano di Wagner? – Luca ammiccò con la testa; altrettanto fece la sorella. Lei andò ad armeggiare intorno a un grammofono posto nel vano di un armadietto, e subito dopo le note del Vascello fantasma si diffusero nella stanza. Il volume mantenuto alto impediva di discorrere, così ognuno si concentrò nell'ascolto. Donata, socchiudendo gli occhi, si lasciò trasportare dalla musica; ed era facile intuirne l'animo romantico. Camilla, tenendo le gambe compostamente accavallate, batteva il tempo con la punta del piede; mentre il forzato si-lenzio permetteva a Luca di indugiare ancora sulla sua figura. Non ap-pena il disco smise di girare, Camilla saltò su a dire che con quel bel tempo primaverile era un peccato rimanersene in casa. Alternava mo-menti di quiete a slanci giovanili che disorientavano. Donata invece non si scompose, e ciò metteva ancora più in risalto la diversità dei tempe-ramenti. Si rannicchiò sul divano e con voce malinconica ripeté le stesse parole sul tempo, invitando la sorella a uscire con Luca per una passeg-

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giata. Lei preferiva ascoltare un altro disco, poi si sarebbe ritirata in ca-mera sua a studiare, perché voleva prepararsi per il prossimo esame di filosofia. Camilla, camminando, non si poneva una meta. S'infilò in un nego-zio a provare un cappellino; si specchiò facendo anche delle smorfie, quindi chiese come le stesse. Le stava bene un po' tutto, ma il confer-marglielo la lasciava abbastanza indifferente. Trascinò Luca, che la se-guiva sbigottito ma affascinato da quella sua stravaganza, nello studio di un vecchio pittore, intento a lavorare su un ritratto. Il pittore le fece un cenno di saluto, domandò il suo parere sulla tela e ritornò tranquillo al cavalletto. In corso Magenta, Camilla propose un'altra sosta in un caffè frequentato da gente del popolo. La padrona mostrò di conoscerla, scambiando con lei qualche parola, mentre gli avventori, con il bicchiere a mezz'aria, la guardavano come se fosse un'apparizione. Ordinò due vermut (lei bevve solo un piccolo sorso), facendo notare a Luca la sin-golarità del locale. Più avanti, vicino a via Meravigli, entrò in un palaz-zo, salendo all'ultimo piano dove c'era una scuola di danza classica. Nel-la scuola vi rimase un'oretta, parlando in francese con un'insegnante e provando davanti a lei alcuni passi di ballo. Per accontentare l'insegnan-te, ripeté gli stessi passi un'altra volta; e dall'attenzione prestata doveva trattarsi, per quest'ultima, di una novità. Quel suo comportamento eclet-tico, del tutto diverso rispetto a quello delle ragazze fin lì conosciute, fu per Luca un altro motivo per sentirsi attratto da lei.

Da quel giorno essi presero a frequentarsi. Coinvolto nel suo modo

di vivere imprevedibile, Luca iniziò un periodo pazzo e felice. Senza rimpianti, Camilla allontanò i corteggiatori di cui era circondata, per spartire con lui ciò che di meglio offre la giovinezza. In lei, tuttavia, c'era sempre una frenesia che le impediva di conce-dersi pause. Doveva fare cento, mille cose. Doveva correre ora a Roma per incontrare un'amica, ora in Francia per sbrigare un affare affidatole dal padre (che l'aveva in grande considerazione) o semplicemente com-piere un breve viaggio, così, per diporto. E naturalmente chiedeva il più delle volte a Luca di accompagnarla. Cosicché anche lui imparò a sop-portare i disagi di questo vagabondare, come aspettare il treno in qual-che località sperduta e magari nell'attesa mangiare un boccone in una decrepita osteria nelle vicinanze; oppure, durante un viaggio, poteva ca-pitare che lei, alla fermata di una stazione di campagna, mossa da un impulso improvviso, volesse scendere per visitare un paese addossato al-l'orizzonte, semplicemente perché le piaceva la disposizione delle case sovrastate da un vecchio campanile. Nel percorrere le strade polverose e deserte, i contadini li guardavano, sorpresi dal loro aspetto forestiero e

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dal loro modo di vestire elegante. Camilla arrivava a scomodare il cura-to, per sapere di chi fossero quegli affreschi sulle pareti della chiesa. Tormentava il povero uomo per conoscere la data di fabbricazione del vecchio organo, collocato su nella balconata a fianco del pulpito. Il po-verino, a corto di notizie, farfugliava, un po' in soggezione di fronte alla giovane così colta e piena di interessi. Ma non era finita! Se nell'uscire dal paese adocchiava una straducola assolata che conduceva al cimitero, lei vi si incamminava, seguita da Luca ormai contagiato da questa curio-sità mistica. Sospingeva il cancello arrugginito, indugiando sulla soglia a contemplare le lapidi stinte dalle intemperie, parte delle quali coperte dalle erbacce che strisciavano un po' ovunque. Poi si aggirava tra i via-letti ricoperti di ghiaia; leggeva le epigrafi, commentando le età dei de-funti; e quando scopriva qualcuno morto giovane, gli occhi le si riempi-vano di luce, e si sarebbe detto per una sorta di partecipazione. Poi, fuo-ri, voleva sdraiarsi tra le spighe di un campo, all'ombra, e farsi baciare e toccare, come se la presenza della morte suscitasse in lei un bisogno ur-gente di sentirsi viva. Da qualche settimana, Luca aveva a sua disposizione una splendida automobile adorna di fregi e cromature: una Fiat modello Booklands, comperata dal signor Teresio per essere al passo coi tempi, salvo poi ce-derla al figlio, dopo essersi accorto di preferire ancora per i suoi sposta-menti le carrozze a cavallo o la bicicletta. Luca aveva fatto pratica gui-dando per le vie della città, e non appena si sentì sicuro propose a Ca-milla di fare una gita sul lago di Como.

Partirono così una mattina piena di sole. Superata l'estrema peri-feria, imboccarono la strada maestra che si snodava lungo una fila di pa-esi: Palazzolo, Barlassina, Carimate. L'aria batteva sulla fronte, specie nei momenti in cui la velocità sui rettilinei superava i settanta all’ora. Poco prima di Fino Mornasco, Camilla benché avesse guidato solo po-che volte la macchina del padre, pretese di mettersi al volante e di con-durla per un tratto. Luca, non troppo convinto, le cedette il posto, ma nemmeno a farlo apposta, in prossimità di Como, un ragazzetto sbucato da dietro una siepe, si parò davanti alla macchina. Camilla, per non in-vestirlo, sterzò bruscamente finendo con le ruote anteriori nella cunetta che correva a lato della strada. Il ragazzetto preso dalla paura scappò a gambe levate, mentre loro due scesero fortunatamente illesi. Le ruote si erano incastrate nell'avvallamento, e malgrado i vari tentativi non ci fu verso di smuovere il mezzo da quella posizione. Per decidere cosa fare, si sedettero su uno spiazzo d'erba, fumando tranquillamente una sigaret-ta. Avrebbero potuto aspettare un carro di passaggio, ma alla fine con-vennero di rivolgersi a qualche contadino della cascina più vicina, affin-ché con un paio di buoi venisse a liberarli. Ci volle il resto della mattina-

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ta per trovare qualcuno disponibile, agganciare l'automobile e finalmen-te rimetterla sulla carreggiata. Considerando che la stessa non aveva su-bito danni, Camilla volle ritornare al posto di guida e percorrere il pezzo di strada per arrivare sul lago. Le acque del lago erano leggermente in-crespate e nel mezzo dondolavano alcune imbarcazioni di pescatori. Barbagli di luce accecanti costringevano a farsi schermo con la mano per scrutare la riva opposta. Non molto distante da loro, alcuni muratori mangiavano addentando del pane dalla crosta scura. Un fiasco di vino passava di mano in mano. Sulla strada adiacente una fila di pesanti carri avanzava adagio, e a tratti, dai carri si levava la voce robusta di un con-ducente a sostenere l'andatura dei cavalli. Luca e Camilla avevano intenzione di salire su verso Bellagio, ma fatti alcuni chilometri, la vista di una piccola darsena che si apriva su un ritaglio incantevole di lago, li persuase a fermarsi. Sulla murata della darsena vi era infisso un paletto di ferro piegato a gomito, dal quale pendeva un cartello con la scritta "Barche a nolo". Allora Luca propose di mangiare un boccone alla svelta e poi di fare un giro in barca. Camilla accettò con entusiasmo. Dopo una decina di minuti, si staccarono dalla riva sulla barca noleggiata. In quel tratto non spirava neppure una bava di vento, e la superficie del lago era perfettamente liscia, così con robu-sti colpi di remo Luca si portò verso il centro. Camilla stava sdraiata sul fondo con il busto leggermente rialzato. Proteggendosi gli occhi dal sole con la visiera del cappello, fissava ora lo specchio d'acqua ora il volto di Luca. Pareva riflettere. Intorno vi era quella calma assoluta che tende a rendere leggero lo spirito. Tutto era così lontano: la gente, i rumori, il tempo.

– Tu non sai, – incominciò a dire Camilla, dando voce ai propri pensieri, – ma da sempre io ho il presentimento di non vivere a lungo. – Le parole erano velate di tristezza al pari della sua espressione. Luca smise di remare e la fissò. – In questo momento, per esempio, io mi vedo distesa sul fondo del lago mentre guardo in alto, e vedo te, il so-le, il cielo. –

– Com'è possibile che una giovane della tua età sia già ossessio-nata dal pensiero della morte? – Il tono di Luca era di rimprovero. – Tu hai tutto: bellezza, intelligenza, ricchezza, e nonostante ciò ti lasci vin-cere da una visione così piena di angoscia? –

–In tutta onestà, io non mi considero incline all’angoscia, ma ciò non toglie che non possa percepire sensazioni legate al mio destino. –

– Talvolta i presentimenti sono forme di paura, proiettate ester-namente dalla mente, così per scaramanzia, affinché nulla turbi la nostra tranquillità. –

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– Per me il pensiero della morte non è associato alla paura, anzi è come una condizione direi quasi di piacere spirituale. –

– Cosa significa? Che nella vita non esistono condizioni del ge-nere? E allora i sentimenti come li definisci? Il fatto che io sia qui con te; il fatto che io ti ami, non è una ragione sufficiente per trovare interes-se nella realtà quotidiana? – La voce di Luca vibrava sotto la spinta di una leggera collera, come se le sue parole lo indisponessero. Lei lo guardò sorpresa per la foga con cui si esprimeva. Allora si mi-se seduta, si tolse il cappello, portandosi con il viso il più possibile ac-canto a lui. – Non sempre i presentimenti devono essere funesti. Vuoi che ti confessi una cosa? Ebbene, quando tu venisti giù quella prima se-ra nella sala da biliardo, io già da un paio di giorni avvertivo in me u-n'impressione come di qualcosa che si sarebbe verificato, modificando la mia vita. Ecco, e poi sei apparso tu, così d'improvviso. E quando sei en-trato in quella sala, stavi controluce e per tale ragione vedevo solo i tuoi contorni, ma io intuii che l'avvenimento da me atteso eri proprio tu. Per dominare l'emozione, continuai a giocare fingendo di ignorarti. In se-guito, se tu non mi avessi cercata, lo avrei fatto io. –

– La medesima emozione l’ho provata dopo averti vista laggiù, mentre giocavi da sola. In quel momento ho sentito accendersi nel mio animo una sensazione che non sono stato più in grado di contenere. –

– Ti amo, Luca! – – Anch'io ti amo, Camilla! –

I loro sguardi si sfioravano; le loro mani si toccarono e si strinse-ro con forza, prima di abbracciarsi, lasciandosi scivolare sul fondo della barca.

Il sole del primo pomeriggio riempiva il lago di riflessi d'argen-

to.

IV

maggio 1915

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A MILANO, piazza del Duomo non è più popolata di gente a passeggio. Piazza del Duomo è ormai luogo di raduni, comizi improvvisati, tumulti. Padroni del campo sono gli interventisti, intenzionati a trascinare l'Italia nella guerra che già insanguina buona parte dell'Europa. Capi indiscussi di questo movimento sono: Filippo Corridoni e Benito Mussolini. Ma mentre il primo, giovane sindacalista, è un puro, spinto unicamente da ideali risorgimentali, il secondo, direttore de Il Popolo d'Italia, guidato dal suo intuito, cerca solo di procurarsi i favori della folla, rinnegando gli atteggiamenti neutralisti fin qui sostenuti. Schierato apertamente con-tro queste idee è il deputato socialista, Filippo Turati, lo stesso che nella sommossa del '98 prese le difese dei più deboli. Ad alimentare la retori-ca dell'eroismo ci si mette anche Gabriele D'Annunzio, forte del fascino esercitato sui giovani.

L'Italia è ancora ufficialmente legata a Germania e Austria da un ac-cordo, chiamato Triplice Alleanza. Il giorno 4 del mese di maggio sce-glie però di rompere questo patto. A Roma, il capo del governo, Salan-dra, è talmente indeciso se entrare o no in guerra che preferisce rasse-gnare le dimissioni, lasciando la nazione in balia degli eventi. Nel frat-tempo, il ministro degli esteri, Sonnino, cerca a Londra nuove alleanze per poter contare su degli appoggi, nel caso che il Paese debba prendere parte al conflitto. Il re, Vittorio Emanuele III, convince Salandra a ritira-re le dimissioni, ma anche ad assumere una posizione a favore della guerra, pur sapendo che il Parlamento è nella maggioranza contrario, co-sì come lo è papa Benedetto XV.

Terminati gli studi, Luca era stato chiamato alle armi e subito desti-

nato a Torino. Iscritto a un corso per allievi ufficiali di complemento (al pari di Spiro), proprio in quei giorni gli veniva concessa una breve li-cenza, dopo i lunghi mesi lontano da casa. Pur vivendo in quel clima di particolare esaltazione, egli era riuscito a non lasciarsi influenzare, non trovando persuasivi i discorsi dei supe-riori che parlavano di guerra, quasi non attendessero altro. Quando il treno entrò sotto le volte della stazione, Luca si sporse dal finestrino e sul marciapiede, confusa tra la gente, scorse Camilla. Camil-la! Quante volte il pensiero era corso a lei mentre riposava coricato sulla branda, alla fine di una faticosa giornata di esercitazioni, o nei momenti

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in cui la solitudine era la sua unica compagna! Forse per la lontananza, forse per il modo ripetuto di richiamarla alla memoria, si era ritrovato talvolta a domandarsi se davvero lei esistesse, o se fosse semplicemente un'immagine tracciata dalla fantasia. Invece, adesso era lì a portata di mano, e tra qualche istante, toccandola e baciandola, le avrebbe ridato il giusto posto nella realtà.

Il treno percorreva gli ultimi metri con incredibile lentezza, co-me a voler esasperare l'attesa. Finalmente con uno scossone si arrestò. Luca aveva sgomitato per farsi largo tra gli altri passeggeri, ed essere il primo della sua carrozza a scendere. Il tempo per fissarsi un attimo e poi in silenzio si abbracciarono, cercando con la forza della stretta di tra-smettersi a vicenda l'intensità dei loro sentimenti. Lei lo accompagnò a casa in automobile. Lungo il tragitto, sostarono più volte a baciarsi, incuranti della gente. A casa, l'attendevano i genitori e la Marta, tutti emozionati. La madre e la Marta, presero subito a girar-gli attorno, avvicendandosi nel colmarlo di premure. Infine gli propose-ro di mettersi a tavola, non importa se fosse metà pomeriggio, perché era pronto un pranzetto cucinato apposta per lui. Luca rispose di non aver fame. Allora cercarono di persuaderlo a riposare un paio d'ore. E di fron-te a un altro rifiuto, ripiegarono consigliandogli un bagno caldo, che si-curamente, a detta loro, avrebbe tolto la stanchezza del viaggio. Camilla se ne stava in disparte per non turbare l'atmosfera familiare, però abba-stanza divertita da quell'insistere nel trattare Luca come se fosse un ra-gazzino e non un giovane di ventiquattro anni. A porre fine a tutte quelle attenzioni, ci pensò involontariamente la contessa Bukowsky, la quale al corrente del suo arrivo in licenza, si annunciò per fargli visita. Salvo qualche venatura di grigio nei capelli, la contessa non era per nulla cam-biata, e Luca non poté fare a meno di ritornare con la memoria agli anni dell'infanzia e alle sue abituali presenze pomeridiane. Continuavano a rimanere in piedi, finché la signora Annalisa invitò tutti ad accomodarsi in salotto. Luca dovette ripetere cose in parte già dette: su come si vive-va al corso ufficiali, su come erano i compagni e i superiori. Il signor Teresio a un certo punto volle sapere dal figlio qual era il pensiero sulla guerra, là presso di loro. Luca riferì la verità: la maggioranza propende-va per il conflitto. Aggiunse (immaginando che il padre se lo aspettasse) che lui era di diverso avviso. – Indossare una divisa, – disse con voce se-ria, – non significa per forza dover combattere. Se l'Italia fosse aggredi-ta, allora sì, avrebbe senso un intervento armato, altrimenti gli scopi re-stano solo politici e il popolo non ne capirebbe affatto i motivi. –

– A Milano molti sembrano impazziti. Non passa giorno che non ci siano dimostrazioni di interventisti, specie qui intorno; e tutti voglio-no la guerra, – lo informò il padre. – Anche diversi industriali, miei co-

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noscenti, la pensano così Ma ciò che è peggio è che più nessuno intende ragione. Io stesso ho visto gruppi di scalmanati menar le mani, e addirit-tura usare i bastoni contro chi non la pensa come loro. –

– Dal canto mio sono convinto che chi scende in piazza, chi ma-nifesta, lo faccia per se stesso, senza rappresentare nessuno, – obiettò Luca. – Alle masse di contadini e di operai come può interessare la guer-ra? La maggior parte non conosce né Trento né Trieste, e per giunta non sa nulla di contrasti internazionali. L'unica preoccupazione per loro è di riuscire a risolvere i problemi quotidiani, e proprio non li vedo venire qui in centro a urlare: "Vogliamo la guerra; mandateci in guerra, che poi staremo tutti meglio". Sarebbe assurdo! Il popolo si mosse, sì, nel '98 ma per motivi plausibili. Allora la gente più povera era alla fame; la situa-zione non aveva paragoni con quella di oggi.– Luca appariva infervorato e gesticolava per dare maggior convinzione alle parole.

– Quasi tutta l'Europa è ormai coinvolta in questa follia, – prese a dire la contessa Bukowsky. – Di recente mi sono giunte dalla Polonia notizie di massacri inauditi, di gente che deve scappare di casa, di gente sconvolta e terrorizzata. – Fece una pausa guardando i presenti. – Chi governa non può ignorare tali fatti, e parteciparvi equivale a dire: "Sia-mo d'accordo che succeda qui ciò che è capitato altrove". – Anche Camilla espresse la sua opinione: – Se noi consideriamo la storia, notiamo purtroppo che gli uomini da sempre cercano di sopraf-farsi a vicenda. E per far ciò usano buona parte della loro intelligenza per costruire strumenti di morte. La mente poi di chi detiene il potere è immancabilmente rivolta alle conquiste. Re, governanti, politici intriga-no per arrivare alla fine a invadere questa o quella nazione che abbia un esercito più debole del loro, per essere ovviamente sicuri della vittoria. E una volta raggiunto tale traguardo, chi ne trae vantaggio? Non certo i sudditi superstiti che continuano la vita di sempre, ma solo una classe privilegiata. Disgraziatamente, la guerra in Europa non è altro che un ri-petersi di eventi già accaduti. La differenza è che i mezzi di distruzione sono di gran lunga più terribili rispetto al passato. –

– Tutti i giorni io prego Dio perché l'Italia possa restarsene fuori, – disse la signora Annalisa con voce trepidante, e guardò il figlio come a volerlo proteggere dai pericoli incombenti con il suo affetto di madre che non mutava con il mutare degli anni. Più tardi Luca poté finalmente cambiarsi, indossando i suoi vecchi abiti borghesi. Si accorse dai pantaloni, che gli andavano larghi, di esse-re un po' dimagrito. E non appena lo fece notare, le donne di casa cerca-rono di nuovo di convincerlo affinché si mettesse a tavola a mangiare. Ma lui aveva in mente di uscire e passare la serata con Camilla. La si-gnora Annalisa in cuor suo aveva sperato di potersi tenere vicino il fi-

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gliolo, dopo tanta lontananza; ma facendo prevalere la comprensione ar-rivò a proporre a Camilla di restare loro ospite per la notte. Camilla, senza esitare, accettò e nei suoi occhi si accese la luce dell'entusiasmo, come le succedeva di fronte a un'esperienza del tutto nuova. Luca baciò la madre sui capelli, intuendo che l'invito era stato rivolto per permetter-gli di non separarsi nemmeno per poche ore dalla giovane che amava e assaporare così quelle sensazioni capaci di inebriare anima e corpo. Usciti, Camilla condusse Luca a casa sua. I genitori e la sorella Do-nata lo accolsero con molta cordialità. Poi essi ripresero l'automobile e corsero felici nella sera, verso la periferia nei paraggi dell'ippodromo. Da quelle parti Luca ricordava un piccolo ristorante, e lì si fermarono per cena. Nel locale c'erano già alcune coppie sedute ai tavoli. Una cop-pia assomigliava molto a loro, e appena ebbero preso posto, Luca disse che era pronto a scommettere che il giovane accanto era un militare in licenza come lui. Poi di colpo, vinti dalla tenerezza, si isolarono in un dialogo fatto di sussurri. Il cameriere incaricato del servizio, notando il loro sguardo trasogna-to, parve farsi scrupolo di disturbarli, per prendere le ordinazioni. Verso la fine, lo stesso cameriere domandò se c'era qualcosa che non andava nella cucina, visto come lasciavano i piatti a metà. Loro due si avvidero dell'ora tarda perché il locale era ormai vuoto, e qualcuno capovolgeva le seggiole mettendole sui tavoli per far pulizia. Fuori, l'aria era tiepida e un chiarore diffuso, estivo, impediva alla notte di oscurare il cielo. Non avevano per nulla sonno. E poi perché sprecare quelle ore irripetibili per dormire? Tutti i desideri della giovi-nezza, tutti i desideri della lontananza pulsavano dentro di loro, e fu per loro naturale fare a lungo l'amore su un prato nei dintorni, più intimo di qualsiasi letto. Poi, allo spuntare dell’alba, quando l'erba era ormai intri-sa di guazza, ripresero la via di casa, attraversando la città deserta, anco-ra avvolta nel silenzio.

L'indomani si ritrovarono a camminare tra gruppi di interventisti, padroni delle strade intorno al Duomo. Urla e schiamazzi rimbalzavano sulle facciate degli edifici, riempiendo l'aria di suoni aspri. Per Luca la licenza volgeva purtroppo al termine. Tutte le ore rima-nenti voleva comunque trascorrerle con Camilla; voleva sentirla vicina. Aveva ancora voglia di baciarla, ma in quel momento, con tutta quella gente in giro, si limitava a darle il braccio e a tratti a stringerlo con for-za. Imboccata via Manzoni, per recarsi in una libreria poco lontana, im-provvisamente in corrispondenza di una traversa, la loro attenzione fu attratta dalle grida di aiuto di una vecchia signora, e da un movimento convulso di mani di alcune persone poco discoste. Luca capì che stavano

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picchiando qualcuno. Liberò il braccio da quello di Camilla, e dopo es-sersi scambiati un'occhiata essi corsero in quella direzione. La vecchia signora, vedendoli arrivare, mosse alcuni passi, andando loro incontro. – Stanno picchiando mio nipote. Per favore, signore, lo aiuti! – implorò, rivolgendosi a Luca. Senza rispondere, egli si gettò sul gruppetto com-posto di tre individui sotto la ventina e incominciò a menare pugni e cal-ci. Solido com'era, le sue mani e i suoi piedi facevano male. La resisten-za dei tre fu di breve durata, convinti a scappare anche dal sopraggiun-gere di alcuni passanti. Curvo a terra, rimase un adolescente sui quindici anni. Vestito con cura, il ragazzo puntava un ginocchio e le mani sul selciato cercando di rimettersi diritto. La vecchia signora che aveva chiesto aiuto, per lo spavento non riusciva a muoversi e guardava inebe-tita il nipote. Luca prese il ragazzo sotto le ascelle, sollevandolo quasi di peso. Questi perdeva sangue dalla bocca e il volto era contratto per le percosse ricevute. Sembrava non rendersi conto di cosa gli fosse succes-so. Attorno si era radunata una piccola folla. Dalla piccola folla si alzò una voce d'uomo: – Lo conosco, – disse riferendosi al ragazzo. – È il fi-glio del signor Müller, titolare di una ditta di rappresentanze, con gli uf-fici qui vicino. – L'uomo si distrasse a commentare l'accaduto, bisbi-gliando. Poi riprese ad alta voce: – L'hanno pestato perché porta un no-me tedesco ed è figlio di tedeschi. – Un altro d'improvviso gli tolse la parola: – Conosco anch'io la fami-glia Müller; ma sono tedeschi soltanto di nome; abitano a Milano da più di vent'anni ed è gente perbene che non ha mai fatto politica. –. Un altro ancora, prendendo lo spunto da queste affermazioni, prese a fornire notizie dello stesso genere, ai presenti: – Nei giorni scorsi gli in-terventisti hanno assalito persino alcune ditte che portano nomi tedeschi: la Zeiss, la Siemens, e non soddisfatti hanno pure spaccato le vetrine della libreria Sperling e Kupfer! – Intanto la vecchia signora si era ripresa e non cessava di ringraziare Luca, guardandolo con gli occhi rossi di pianto. Anche il nipote guarda-va Luca; lo guardava pieno di ammirazione, mentre con il fazzoletto bianco tamponava la bocca insanguinata. Un uomo anziano, dall'espres-sione severa che aveva assistito alla scena, si staccò dagli altri e gli fece i complimenti per come aveva difeso il ragazzo. Camilla si sentì orgo-gliosa di Luca, e mentre tornavano in via Manzoni, gli afferrò una mano intrecciando con forza le dita.

L'Austria nel tentativo di non aprire un altro pericoloso fronte, avan-za l'offerta di cedere Trento e di proclamare Trieste città libera. Il re, Sa-landra e Sonnino non la prendono in considerazione.

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Gli interventisti esultano: lunedì 24 maggio l'Italia dichiara guerra all'Austria.

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Parte terza

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I

luglio 1915

LASCIATA Asiago alle spalle, la strada, superata una breve rampa, si rimette a scorrere apparentemente in piano, addentrandosi tra boschi di abeti. Arrampicati sui declivi, reparti di soldati a riposo se ne stanno in buona parte sdraiati, così, senza far niente, guardando gli squarci di cie-lo azzurro attraverso la cortina degli alberi. L'autocarro su cui viaggia il sottotenente Luca Aliprandi trasporta vettovaglie per le truppe dislocate nella zona. L'autista vorrebbe scam-biare quattro chiacchiere, ma vedendo il passeggero intento a guardare fuori si limita a imprecare sottovoce quando il fondo della rotabile, a tratti sconnesso, scuote sonoramente il carico. La strada è d'improvviso ingombra di muli sbandati, carichi di salmerie. I conducenti si affannano a rimetterli in ordine, ma impiegano più di un quarto d'ora per riuscire a tirarli in disparte e a permettere agli automezzi ormai numerosi di ri-prendere la marcia nei due sensi. Di quando in quando sulla destra si a-prono sentieri in terra battuta, che portano su in alto, verso le cime dei costoni sovrastanti. L'occhio di Luca è teso a cogliere i segni di dove si combatte la guerra, ma è tutto così intatto, ordinato e pulito che stenta a credere di trovarsi in prossimità del fronte. Anche la giornata assolata, il paesaggio suggestivo e le cince che volano lungo il limitare del bosco, contribuiscono a offrire un senso di pace che lo portano a dubitare di tro-varsi in un territorio dove sono già avvenuti combattimenti. Più avanti però alcuni soldati fermi sul ciglio della strada che discutono, lo riporta-no a una realtà che lentamente va mutando. L'autocarro termina proprio lì la sua corsa, davanti alla locanda Gher-tele, presso cui è installata una postazione di artiglieria. L'autista, prima di occuparsi dello scarico della merce, lo informa che per arrivare a Vez-zena, dov'è attestato il fronte (e dove Luca è destinato) mancano ancora circa dieci chilometri. Gli consiglia di attendere il passaggio di un altro mezzo, ma Luca preferisce proseguire a piedi. Sulla sinistra il letto a-sciutto del torrente Assa segue il tracciato della strada. Il sole di metà

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mattino batte forte, ma la calura è mitigata dalla brezza che spira dalle sconfinate abetaie che si stendono intorno a perdita d'occhio. Il silenzio è spezzato, a un tratto, dal canto degli uccelli che nidificano nel sottobo-sco. Un cartello stradale alquanto arrugginito indica l'approssimarsi della vecchia frontiera italo-austriaca, superata la quale, appena qualche mese prima, si procedeva alla volta di Trento. Il cartello segnala anche l'altitu-dine: 1250 metri sopra il livello del mare. “Questo non è un posto dove fare la guerra; questo è un posto per gite e villeggiature.” Pensieri spon-tanei, pensieri confusi si affollano nella mente di Luca: "No; non andava bene continuare ad attraversare la frontiera in pace, come si è fatto per tanto tempo. Un giorno qualcuno decide di scombinare tutto, proclaman-do che a Trento non ci si va più! A Trento ci si andrà dopo aver abbattu-to la sbarra di confine. E per far ciò si ammassano due brigate: l'Ivrea e la Treviso, vale a dire dodicimila uomini; dodicimila uomini mandati se necessario a morire, per assecondare le ambizioni di qualcuno che se ne sta al sicuro, lontano, e che probabilmente della zona ha solo una vaga idea per aver consultato delle carte geografiche, o per aver letto relazioni di gente che ritiene di conoscere ogni particolare dopo una ricognizione sbrigativa dei dintorni. E questo qualcuno, per ottenere ciò che si prefig-ge, rifiuta persino le trattative diplomatiche, troppo fredde e per nulla gloriose, ma sceglie invece di far uso delle armi, sicuramente più virili ed eroiche. E questo qualcuno decide anche per me e per tutti gli altri". Luca si sente pervaso da un senso di rabbia. "Io non ho nessuna voglia di fare la guerra; di rischiare la pelle per dei governanti folli. Io ho voglia di togliermi la divisa di dosso, stendermi sotto un albero e lasciare galoppa-re la fantasia". Purtroppo questi sono solo pensieri. Più tardi, quando ar-riva all'osteria dell'Antico Termine, le scarpe sono bianche di polvere. I boschi contornano ancora il paesaggio, ma la quiete è scomparsa. Barac-camenti infossati per metà nel terreno spuntano nel mezzo delle radure. Un formicolare di muli e soldati rivela l'avvicinarsi di un mondo scono-sciuto. Poche curve più in là si stende la piana di Vezzena: il fronte. Un furiere lo condusse al comando del 161° reggimento della brigata Ivrea, presso il quale era stato assegnato. Il comandante, colonnello Pirri, lo intrattenne familiarmente, e quando seppe che abitava a Milano, si di-lungò a parlare della città, facendo notare (benché Luca lo sapesse) che il generale Brusati, capo della prima armata, da cui dipendeva il loro setto-re, era anche lui milanese. – Lei, tenente, va d'accordo con i piemontesi? – chiese a bruciapelo il comandante, cambiando argomento e assumendo una posa severa che ri-badiva la differenza di grado. – Sì, signor colonnello. Ho fatto il corso ufficiali a Torino e mi sono trovato bene. –

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– La nostra brigata è composta in prevalenza di piemontesi che par-lano il loro dialetto, e a malapena intendono la lingua che dovrebbe esse-re quella che accomuna tutti gli italiani…Lei capisce bene il dialetto piemontese? – – Quello parlato a Torino, sicuramente. Forse quello di montagna sa-rà un po' più difficile, ma non penso che ci sia una grande differenza tra i due. – – Le dico questo perché ho avuto nel mio reggimento degli ufficiali di regioni diverse, e alcuni hanno avuto problemi a inserirsi. Non capi-vano il dialetto e i soldati riuscivano a prenderli in giro. Lei, tenen-te...come ha detto di chiamarsi?...ah, sì, Aliprandi. Per farsi obbedire, te-nente Aliprandi, è indispensabile guadagnarsi il rispetto dei sottoposti; e ciò non è immaginabile se due non si comprendono. – Il comandante di battaglione, da cui venne successivamente accom-pagnato, alloggiava in un ricovero riparato dietro uno spalto di roccia. L'interno del ricovero era arredato quasi con ricercatezza, come per im-pressionare favorevolmente l'ospite. Ma ciò che colpiva di più era una poltrona ricoperta di stoffa damascata. Il fusto della poltrona era tutto in-tarsiato e la stoffa aveva dei bei disegni floreali. – Le piace la mia poltrona? – domandò il maggiore sorprendendo Luca a osservarla; e sembrò compiaciuto che il pezzo d'arredamento fos-se oggetto di ammirazione. Aveva un aspetto placido, il maggiore. Rubi-condo, i baffi ispidi tagliati a filo labbro, gli zigomi venati di rosso, l'oc-chio meditabondo, il gesto cordiale. Nel portamento non si notava quel-l'aria marziale comune a molti ufficiali superiori, e anche la divisa, che gli cadeva abbondante, contribuiva a dargli un aspetto borghese. Guar-dandolo, lo si poteva facilmente immaginare vestito di grigio, intento a evadere pratiche in qualche ufficio, dove la quotidianità non procurasse trepidazioni al suo animo mite. A tratti il maggiore posava l'occhio sul suo aiutante (un ufficiale che nella persona tradiva un malcelato sussie-go), lasciando intuire l'abitudine di cercare delle conferme prima di prendere decisioni. E fu proprio l'aiutante a suggerire al superiore di mandare il sottotenente Aliprandi nella seconda compagnia, a rimpiazza-re un pari grado ricoverato in ospedale per una febbre persistente. – Vedrà che si troverà senz'altro bene nella seconda compagnia,– disse il maggiore con tono paterno.– Nella seconda compagnia ci sono quasi tutti ufficiali di complemento, come lei. – Si rivolse quindi all'aiu-tante che se ne stava rigido, sempre in un atteggiamento altero: – Vero che sono quasi tutti di complemento? – – Sì, certo, – confermò quest'ultimo. –Uno è arrivato la settimana scorsa, – e prese a esporre la situazione della seconda compagnia, con note circostanziate. Si dimostrava molto scrupoloso l'aiutante a fornire

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notizie riguardo l'organico di quel reparto. – Ecco, – disse infine ruotan-do il braccio per scoprire l'orologio da polso, – è quasi l'ora della mensa ufficiali; se ci sbrighiamo la presenterò prima al capitano Bauchiero, così poi mentre mangia, avrà modo di conoscere i suoi colleghi. – Il capitano Bauchiero si presentò a Luca con le maniche della cami-cia rimboccate, la pipa tra i denti. Stava seduto, tenendo sollevato un piede scalzo, mentre un infermiere inginocchiato davanti a lui si dispo-neva a fasciarglielo. Il capitano tralasciò i preamboli e incominciò a par-lare quasi si rivolgesse a un vecchio conoscente: – Non mi posso nem-meno vantare di essermi ferito in battaglia, – disse dimenando il piede per far intendere che era proprio quell'estremità l'oggetto dei suoi com-menti. –Macché! Stavo semplicemente ispezionando un settore, dove un reparto di zappatori è impegnato a rafforzare le nostre linee, quando sono andato a infilzarmi su un bel chiodo sporgente da una tavola. – L'infermiere richiuse la cassetta del pronto soccorso e rimase a guar-dare il capitano che puntava il tallone per terra cercando di rimettersi in piedi. – Da civile mi sarei preso alcuni giorni di riposo, ma qui…– disse il capitano, e mosse alcuni passi per saggiare la propria stabilità. Luca non capiva se tutti evitassero di parlare della guerra di proposi-to o semplicemente volevano che la scoprisse da sé. Ma forse egli aveva esagerato nell'immaginarsela catastrofica. Forse quella guerra era sola-mente un fronteggiarsi di eserciti con atteggiamenti bellicosi, dove si sparava qualche colpo di cannone, qualche fucilata, così a scopo di-mostrativo, e poi alla fine il buon senso sarebbe prevalso, e via, tutti a casa. Se la situazione fosse stata sul punto di precipitare avrebbe certa-mente notato ansia, preoccupazione sui volti dei comandanti. Invece, pur trovandosi in prima linea, quell'atmosfera gli ricordava tutt'al più il pe-riodo delle Manovre, durante il corso ufficiali. Come aveva accennato l'aiutante del maggiore, tra gli organici della compagnia bisognava sostituire un sottotenente ricoverato in ospedale, ma il capitano Bauchiero prima di affidargli il comando di un plotone, ri-tenne opportuno che Luca si impratichisse un po', rimanendo a fianco di un pari grado esperto, almeno per qualche giorno. Per tale ragione man-dò a chiamare l'ufficiale che si sarebbe preso cura di lui. – Ecco, le presento il sottotenente Marchi, – disse il capitano rivolto a Luca, non appena il nuovo arrivato fu introdotto da un attendente. Marchi era giovane: dall'aspetto forse più giovane di Luca. Anche lui al-to, ma di corporatura snella. Scopriva una fila di denti bianchi in un sor-riso spontaneo. La sua pelle era liscia, segnata da una venatura rosea, ti-pica di chi vive in montagna all'aria aperta. Sempre con tono amabile il capitano invitò Marchi a far conoscere a Luca gli altri ufficiali della compagnia, e poi di accompagnarlo in giro nel loro settore, in modo da

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permettergli di prendere visione di tutto ciò che poteva tornargli utile prima di assumere il comando di un plotone. Il locale mensa era gremito di ufficiali. Il brusio esteso richiamava alla mente certi piccoli caffè, in cui il discorrere degli astanti si diffonde in modo uniforme ma indistinto. Luca, essendo appena arrivato, fu im-provvisamente al centro dell'attenzione di quanti volevano conoscerlo. Alcuni ne approfittarono per chiedergli se vi erano novità “laggiù in pia-nura”, al di là di quello che riportavano i giornali. Un tenentino imberbe volle sapere se era vero che adesso molte donne lavoravano nelle fabbri-che e nei servizi pubblici al posto degli uomini. Di fronte alla conferma di Luca, si grattò il mento, perplesso, e poi scosse il capo in segno di di-sapprovazione. Esaurita la curiosità, piano piano il cerchio intorno si sciolse, allora Luca seguendo il suo accompagnatore, si diresse verso un tavolo lasciato da poco libero e ancora ingombro di piatti e bicchieri. Prima di sedersi Marchi si guardò in giro e dopo aver agganciato lo sguardo di un soldato d'ordinanza, lo chiamò con un cenno, quindi con un gesto della mano aperta fece intendere che c'era bisogno di dare una ripulita. Il soldato si affrettò verso di loro; rapidamente sparecchiò, poi prese a fare la spola dal bancone del cuciniere al loro tavolo, portando un fiasco di vino rosso, del pane, un piatto di pasta per ciascuno e infine della carne con un sugo scuro, immerso nel quale affiorava un pezzetto di formaggio. Marchi riempì i bicchieri e bevve un sorso. La pasta non scotta, la carne insaporita con il rosmarino e il formaggio piccante non erano male. Mentre finivano di mangiare, all'esterno risuonarono alcuni colpi di fucile. Luca sollevò la testa, attento: questo era il suo primo vero contatto con la guerra. Marchi lo guardò alquanto divertito. – Ogni gior-no le nostre sentinelle e quelle austriache si sparano addosso a vicenda, tanto per tenersi in esercizio, – disse con indifferenza, mentre versava dell'altro vino. – Che idea hai tu, Aliprandi, di questo conflitto con l’Austria? – chiese a un tratto, rimettendo sul tavolo il suo bicchiere qua-si vuoto.

– Un'idea priva di entusiasmo, – rispose senza incertezze Luca. – Allora tu non sei mai sceso in piazza a invocare l'entrata in

guerra dell'Italia. – – In quel periodo io ero a Torino per il corso ufficiali, però, con

tutta sincerità, devo dire che non condividevo per nulla quelle manifesta-zioni. –

– E come mai hai scelto di fare l'ufficiale se sei contrario allo scontro armato? –

– Visto che avevo l'obbligo di prestare servizio militare, mi è sembrato opportuno crearmi più ampi interessi. –

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– Eppure buona parte dei giovani, aspiranti ufficiali, studenti, borghesi, erano tutti propensi a battersi contro l'Austria. –

– Mi dispiace deluderti, ma se dipendesse da me riprenderei la strada di casa subito all'istante, e non certo per vigliaccheria. – Marchi puntò i gomiti sul tavolo, appoggiò il mento sulle dita intrec-ciate e restò in silenzio per qualche istante, lo sguardo perso in lontanan-za come se rincorresse un suo preciso pensiero. – Non mi deludi affatto, perché anch'io sono della tua stessa opinione, – disse infine, e protese il braccio per scambiare una stretta di mano. – Mi piace la tua franchezza. Era molto più facile e comodo sostenere il contrario, considerando che ti trovi in un ambiente dove il senso della guerra dovrebbe prevalere su ogni altro. – La mensa si era ormai svuotata e un paio di soldati addetti alle puli-zie avevano incominciato a rigovernare il locale. Marchi si alzò in piedi. – Andiamo, – disse in tono semiserio, – così ti mostro il panorama che si gode dalla prima linea. – Un sentiero calpestato da mille impronte serpeggiava lungo una spia-nata su cui cresceva un'erba ispida, punteggiata di fiori colorati. Vecchi steccati parzialmente abbattuti, lasciavano intuire che in tempo di pace vi si rinchiudevano le mandrie durante l'alpeggio. Al riparo di alcuni terra-pieni spuntavano i tetti di lamiera degli alloggiamenti. Il sentiero scivo-lava a fianco di un valloncello, si inerpicava quindi per un pezzo poi pro-seguiva in piano, fin quando si confondeva con altri sentieri. Non molto più avanti, una breve rampa di gradini, fatti con masselli di roccia, porta-va sotto il livello del terreno innestandosi con l'accesso alla trincea. La trincea avanzava non in linea retta, ma piegandosi in modo da impedire, a chi stava su un tratto diritto, di vedere chi si trovava su quello succes-sivo. Un uomo, anche alto, poteva camminare eretto senza timore di es-sere colpito; solo in alcuni punti ci si doveva abbassare per non esporsi con la testa. Di quando in quando si aprivano delle feritoie attraverso i sacchetti di sabbia, impilati lungo il bordo. Per osservare il terreno anti-stante, e spingersi con lo sguardo sino alle posizioni nemiche, bisognava salire su delle pedane di cemento. La larghezza dello scavo era piuttosto ridotta, e nell'incrociare qualcuno talvolta ci si doveva appiattire contro la parete. La trincea era divisa in settori, secondo l'ordine di appartenen-za alle varie unità combattenti. Marchi si arrestò su una piazzuola semi-circolare, dove era collocata una mitragliatrice. La piazzuola, dal fondo rivestito in cemento, poteva ospitare comodamente più persone, e tro-vandosi su una posizione sopraelevata, lo sguardo abbracciava una vasta zona su cui erano attestati gli austriaci. Marchi trasse dalla giubba una carta topografica e la spiegò.

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– Ecco, noi siamo qui! – disse indicando il punto di una linea con-trassegnata da una serie di crocette. – Lassù in alto, a quota 1900, – pro-seguì segnando a dito una rupe a forma di triangolo che dominava la val-lata, – c'è il forte Cima Vezzena, che oltre a spararci addosso è per gli austriaci un osservatorio di primaria importanza. Qui, sul lato destro, ab-biamo il bosco Varagna, in parte occupato da noi e in parte da loro. – Marchi tirò fuori un pacchetto di sigarette; ne offri una a Luca e una la prese per sé. Poi da un accendino fece guizzare una fiammella lunga e tremula e le accese. Per alcune boccate nessuno dei due parlò; infine Marchi riprese la sua descrizione. – Laggiù, dirimpetto a noi, dietro la cortina di abeti, si erge il forte Verle. Questo forte è una brutta bestia: ha un armamento considerevole, e per giunta sembra indistruttibile e im-prendibile. Nei primi giorni di guerra, dopo avergli scaricato addosso un diluvio di granate, il battaglione Bassano, che fa parte della nostra divi-sione, ha tentato un assalto ma ha dovuto ripiegare lasciando sul terreno un mucchio di morti.– Marchi batté con l'indice la sigaretta e la cenere cadde a terra. La sua espressione appariva distaccata, quasi stesse nar-rando avvenimenti accaduti in tempi lontani. – La prima linea austriaca avanza, – aggiunse, facendo scorrere il dito sulla carta topografica, dove una serie di simboli tracciava le posizioni nemiche, – e si collega con un altro forte; il forte Luserna. Anche questo, all'inizio della guerra, è stato sottoposto a un bombardamento incredibile. I nostri comandi parlano di cinquemila colpi in pochi giorni. Qui le cose potevano prendere una pie-ga diversa se fossimo stati più tempestivi. Il forte aveva alzato bandiera bianca in segno di resa, ma i nostri generali hanno ritenuto che si trattas-se di un tranello, e hanno lasciato trascorrere troppo tempo, prima di in-tervenire. – Alcune rondini fendevano l'aria trasparente scivolando sulle ali, proprio davanti a loro, e Marchi si distrasse a seguire quel volo leggero. – Pare incredibile che in natura nulla sia cambiato. Io sono qui, incer-to sul domani; forse potrei crepare ora se un buon tiratore appostato in qualche angolo nascosto mi prendesse di mira, e le rondini continuereb-bero a volare sopra il mio corpo, il sole piano piano volgerebbe al tra-monto e poi spunterebbero quelle belle stelle, cariche di luce, così vicine, qui in montagna, che pare di poterle toccare solo allungando una mano. – Un passo scricchiolò sul fondo di pietrisco: era un giovane tenente che veniva verso di loro.

– Ciao, Marchi, – salutò il nuovo arrivato, mentre considerava Luca cercando di capire chi fosse.

Marchi presentò Luca. – Esci di pattuglia, stanotte? – chiese l'ufficiale sempre rivolto a

Marchi.

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– No, io sono di turno domani. – –La settimana scorsa, sono stato comandato ben due volte. L'ultima volta poi mi è capitato di tutto: su nel bosco a momenti andiamo a sbatte-re contro una postazione austriaca. Poi ho perso un uomo, e mi ci è volu-to un'ora per ritrovarlo in una buca mezzo morto di spavento. Mentre rientravo, tanto per finire in allegria, è scoppiato uno di quei bei tempora-li, tipici di qui, che mi ha lavato dalla testa ai piedi. – L'ufficiale si portò in mezzo a loro e gettò una rapida occhiata al di là della trincea. – Po-tremmo passare il resto della vita giocando a rimpiattino con gli austria-ci... – disse senza girare la testa. –Be', Marchi, ti saluto. Torno giù perché il capitano è su tutte le furie: due soldati si sono presi a pugni durante una partita a morra, e prima di rifilare loro una punizione ha convocato gli ufficiali della compagnia. – Si aggiustò il berretto sulla fronte. – Certi comandanti credono di essere ancora in caserma. – Si voltò verso Luca e con un sorriso, disse: – Allora, benvenuto al fronte. – Fece per allonta-narsi ma subito si fermò. – Ah, Marchi, se senti in giro che tira aria di li-cenza, fammelo sapere. – – Dubito che i generali in questo momento di particolare incertezza vogliano mostrarsi generosi. Ad ogni modo...– Quando scese l'oscurità della notte, nella trincea ci fu per un po' un movimento febbrile, poi il silenzio avvolse la linea del fronte. I soldati puntavano i fucili verso un invisibile nemico, mantenendosi in posizione di sparo. Nelle piazzuole, ingombre di cassette di munizioni, i mitraglieri stavano immobili, attenti a cogliere rumori e comandi. Un sergente per-correva rapido il camminamento, ripetendo con voce cantilenante: – Nessuno spari senza ordine. Nessuno fumi. Nessuno si muova. Nessuno spari senza ordine. Nessuno...– e la voce si perse in lontananza. D'im-provviso si udì il sibilo di un razzo che si accese illuminando il cielo di luce bianca. Quindi, dieci, venti altri razzi sparati in successione spinsero via il buio della notte. Ogni rilievo, ogni profilo spiccava ben più chia-ramente che durante il giorno, quando i riflessi del sole velavano l'occhio togliendo nitore all'immagine. Le mitragliatrici incominciarono a crepita-re e l'aria si riempì di colpi come di frusta. Il suono correva su per i pen-dii del bosco, lacerandosi in echi diffusi. I fucili sparavano, ma si udiva-no solo nei brevi intervalli in cui le mitragliatrici sospendevano il tiro. Anche gli austriaci lanciarono razzi, e anche loro aprirono il fuoco. Le trincee italiane furono prese di mira. Il fischio cadenzato dei proiettili as-somigliava a quello di un ventilatore dalle grosse pale. E, quando un proiettile rimbalzava contro un ostacolo metallico, produceva una vibra-zione prolungata e armonica. Verso mezzanotte entrò in azione l'artiglie-ria: dapprima quella italiana, subito imitata da quella avversaria che im-

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perversò per oltre un'ora. Poi, come per una tacita intesa, ogni arma, co-sì, improvvisamente, smise di sparare. La seconda compagnia ebbe un morto. Era un conducente di muli. Per trattenere gli animali affidati alla sua custodia era uscito allo scoper-to e una scheggia di granata, una piccola scheggia di granata, tagliente come un rasoio, gli aveva sciabolato il torace. Fu trovato all'alba, mentre da dietro le montagne spuntava il sole già carico di calore estivo. Stava disteso supino in mezzo al prato. La faccia segnata dagli anni, grigia di barba, reclinata su una spalla. Una riga rossa di sangue gli tingeva la ca-micia. Due muli pascolavano liberi, vicino a lui. Tutto il resto era tran-quillo, in netto contrasto con il frastuono della notte. A Luca fu assegnato un plotone in cui vi erano soldati di leva, ma anche molti richiamati. Uno, da poco arruolato, pareva un ragazzino e guardava tutti, specie gli anziani, con occhi spauriti. La sua ansia trape-lava dai suoi gesti e dai suoi tic, e appena si formava un crocchio, dal quale nasceva una discussione, lui si avvicinava quasi di soppiatto e ten-deva l'orecchio per cercare di afferrarne il senso. Per farsi benvolere si mostrava premuroso e disciplinato. Se un graduato lo chiamava, correva e una volta di fronte si irrigidiva sull'attenti, presentandosi secondo la formula imparata durante l'istruzione in caserma: – Soldato Crocetti Li-no: agli ordini! – Tutti lo trattavano come un figlio o un fratello minore, e quando un burlone, appartenente a un'altra compagnia, per il solo gusto di giocargli uno scherzo gli impose di portare dell'acqua e di lavargli i piedi, ci fu un plebiscito per vendicarlo. In rappresentanza del plotone si mosse "il nonno", un vecchio soldato dai capelli metà canuti, che nei momenti liberi era sempre impegnato con le sue due pipe. Costui non pronunciò sillaba, si alzò, si stirò la schiena, batté la pipa sul palmo della mano e poi con il suo passo da montanaro, lento ma ampio, si fece ac-compagnare dall'autore dello scherzo. Senza far commenti né montare in collera gli appioppò, appena gli fu di fronte, un tremendo ceffone: – In-vece dei piedi con questo ti lavo la faccia! – tuonò in modo che l'altro capisse il motivo del suo gesto. Si infilò la pipa spenta tra i denti e se ne venne via, mentre il malcapitato si premeva una mano sulla guancia col-pita. Da qualche giorno il soldatino, quando non era in servizio, aveva preso l'abitudine di seguire a distanza, Luca. Di natura timoroso, il suo istinto lo spingeva a cercare protezione presso gli anziani o presso chi avesse autorità. A Luca faceva una vera e propria posta: lo aspettava quando usciva di mensa o dal comando di compagnia, e al suo passaggio scattava diritto, si portava la mano alla visiera e salutava con voce som-messa: – Buongiorno, signor tenente. – Luca aveva imparato subito a

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conoscerlo e provava tenerezza per il suo aspetto da adolescente indife-so, finché si decise a fermarsi e a rivolgergli la parola: – Allora come va, Lino? – – Bene, signor tenente. – – Perché non mi accompagni per un tratto di strada?– – Se lei permette, molto volentieri, signor tenente. – Il soldatino era raggiante. – Parlami di te e della tua famiglia. – lo sollecitò Luca, intuendo di fargli piacere incoraggiandolo ad aprirsi. – Io abito in un paese della Vallarsa, e sono il maggiore di quattro fratelli. I miei genitori sono contadini, ma è solo mia mamma che può lavorare. Mio padre ha l'artrite deformante e adesso nei campi riesce ad andarci sempre di meno. – – Allora una volta congedato dovrai prendere il suo posto, così potrai aiutare la tua famiglia, mentre i tuoi fratelli diventano grandi. – – Io non vorrei fare per tutta la vita il contadino. Lo sa, signor tenen-te, che sono capace di leggere e scrivere? – Il soldatino guardò in faccia Luca per capire se avesse fatto colpo dicendo di saper leggere e scrivere. – Il mio sogno, – proseguì, – sarebbe quello di diventare scrivano nel municipio del mio paese. Prima di partire il sindaco mi ha promesso che se mi faccio onore, meglio ancora, se prendo una medaglia, mi fa avere di sicuro quel posto. – – Per guadagnarti una medaglia dovrai uccidere degli austriaci. – Il soldatino si fece pensieroso. – Ma come si può sparare addosso a una persona che non si conosce? Io mi considero un buon cristiano e il Vangelo mi ha insegnato ad amare il prossimo. – – In guerra non si distribuiscono le medaglie perché si ama il prossi-mo, ma solo se si compiono azioni che dimostrano coraggio.– – A chi devo dunque dare ascolto: alla Chiesa che mi comanda di non far del male agli altri, o ai miei superiori, secondo i quali bisogna uccidere perché l'austriaco è nostro nemico? – – Quando ti troverai di fronte uno di loro, forse il tuo istinto sarà più forte della tua coscienza. – – In tutta onestà non so se sarò capace di premere il grilletto. – Vi erano delle giornate (quasi fosse in atto una tregua) in cui non si sparava un colpo, e anche i tiratori scelti si astenevano dal considerare gli addetti alla corvée, che si dovevano talvolta muovere allo scoperto, conigli selvatici da prendere di mira. Se la giornata sarebbe stata tran-quilla, lo si intuiva subito dopo l'alba, quando i cecchini inspiegabil-mente non approfittavano del sorgere del sole, alle loro spalle, per in-quadrare nel cannocchiale il bersaglio. Cautamente allora i più spavaldi sgusciavano fuori dalla trincea e andavano a occupare valloncelli, o an-

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che buche scavate dalle granate. A metà mattino, uno dopo l'altro si met-tevano a torso nudo e oltre a prendere il sole provvedevano alle pulizie personali. Buona parte degli ufficiali chiudeva un occhio su questo com-portamento più da nomadi che da militari. Dapprincipio qualcuno, ligio al regolamento, aveva minacciato e poi distribuito biglietti di punizione, che poi i comandanti di buon senso non avevano preso in considerazio-ne; così tutto era finito lì. Con il passar delle ore questa libertà faceva di-menticare di essere al fronte e metteva addosso un'allegria tutta giovani-le. Anche a Luca capitò di ritrovarsi un giorno in mezzo a loro mentre tornava da un'ispezione. –Signor tenente, – una voce rimbalzò alle sue spalle. Luca non prestò orecchio pensando che chiamassero qualcun altro. – Tenente Aliprandi. – Allora si fermò e girando la testa riconobbe Nardi, un soldato del suo plotone, il quale in piedi e a petto nudo mostrava tutta la sua prestanza fisica. Luca mosse alcuni passi e gli si accostò per dargli modo di parlare più agevolmente. – Vuole un goccio di vino? – chiese il soldato tendendo una borrac-cia. – No, grazie, Nardi, ma d'abitudine bevo solo durante i pasti. – – Se preferisce ho anche del cognac, – insistette il soldato e si chinò per prendere una fiaschetta nascosta sotto la camicia. – Sei più fornito di uno spaccio. Comunque, grazie ugualmente. – – Qualche grado in più nel sangue fa bene: aiuta a scacciare la ma-linconia. – – Non mi sembri il tipo che soffra di malinconia, visto il tuo umore. –

– Eh no, signor tenente, non si lasci ingannare dalla mia faccia sem-pre contenta. Se non mi tenessi su bevendo, morirei di tristezza. – – E perché dovresti morire di tristezza? per questa guerra? – – La guerra potrei sopportarla, quel che mi pesa è invece la lontanan-za della mia morosa. – – Prima o dopo la guerra finirà e allora tutti ritorneremo a casa. – – Che finisca presto, non ci credo molto, perché se andiamo avanti ogni giorno a rinforzare le nostre posizioni, significa che i comandi pre-vedono che le cose andranno per le lunghe. – – Non è detto. Una battaglia vinta, un'idea giusta, possono risolvere situazioni critiche, in apparenza senza sbocco. – – A proposito di idee, signor tenente, – sul volto di Nardi era riap-parso il sorriso beffardo di sempre, – io ne avrei una buona. Prima, men-tre mi stavo spidocchiando, ho fatto un calcolo. Se ogni soldato si porta dietro una cinquantina di pidocchi, tanti quanti ne avevo io, ognuno po-trebbe addestrare i propri. Messi tutti insieme farebbero un esercito di ol-

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tre mezzo milione di pidocchi, che, se ben ammaestrati, passerebbero comodamente sotto il filo spinato, quindi potrebbero assalire gli austriaci succhiando loro il sangue, costringendoli alla fine ad arrendersi. –

– Non è male come idea! – – Se lei riesce a proporla al generale Cadorna, salveremo un'infinità di vite e io potrei ritornare a casa dalla mia morosa. – E come per complimentarsi con se stesso, Nardi tracannò una lunga sorsata di vino dalla borraccia.

Luca e Marchi si ritrovavano di frequente. In trincea i loro plotoni erano disposti uno accanto all'altro, e nei momenti in cui il fronte spro-fondava in quello strano ozio, che succedeva a una notte di fuoco, il cer-carsi a vicenda per tenersi compagnia era per loro quasi una regola. E proprio in quei momenti nasceva una disponibilità interiore a confidarsi. In una circostanza del genere Luca ascoltò Marchi parlare di sé. Egli era della provincia di Torino. Suo padre faceva il capostazione, e a lui pia-cevano i treni. Da bambino trascorreva intere giornate sulla banchina a vederli sfrecciare. Quella del padre era però una stazione secondaria, do-ve solo i treni locali si fermavano. Di tanto in tanto capitava però che so-stassero anche convogli internazionali diretti in Francia, per questioni di coincidenze con altri treni. Nessun passeggero scendeva ma molti si af-facciavano ai finestrini. Una volta una signora bellissima con un largo cappello e la veletta abbassata lo chiamò, e gli chiese se poteva portarle dell'acqua. Premuroso lui corse a riempire un bicchiere dopo averlo sciacquato per bene, in modo che l'acqua fosse più fresca possibile. La signora alzò la veletta, bevve a piccoli sorsi, restituì il bicchiere e poi te-se il braccio di nuovo nel tentativo di toccargli il volto per fargli una ca-rezza. S'aprì in un sorriso dolcissimo e sussurrò: – Merci beaucoup, che-rì. – Il treno si mosse e lei agitò una mano sottile in segno di saluto, di-cendo: – Au revoir. –

Marchi confessò, che questa immagine femminile gli affiorava anco-ra spesso nella memoria. Proseguendo nel raccontare di sé, disse che il padre lo aveva convinto a studiare medicina, perché, sosteneva, in ferro-via non si guadagnava abbastanza; e poi un dottore in casa significava prestigio e tante opportunità di carriera. Si era così iscritto a medicina, ma per una certa sua pigrizia non aveva ancora completato gli studi. A guerra finita si sarebbe laureato e, dopo aver fatto pratica in ospedale, avrebbe concorso per una condotta in campagna. Una volta ottenuta, o-gni giorno sarebbe uscito di casa con la sua borsa di cuoio per il giro del-le visite, andando di cascinale in cascinale. In uno di questi cascinali a-vrebbe conosciuto una ragazza dolce e un po' timida, dalla bellezza ripo-sante, pronta a innamorarsi, e anche lui alla fine, pur non perdendoci la

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testa, avrebbe cominciato a provare affetto per lei. Il matrimonio sarebbe stato una conseguenza naturale ai loro incontri. Marchi si immaginava già padre di un nugolo di bambini, che sarebbero cresciuti sani e robusti, anche perché lui poteva suggerire come prevenire morbi e malanni. In-vecchiando, mano a mano si sarebbe distaccato dal lavoro di medico e parte del tempo libero lo avrebbe trascorso in qualche piccola stazione a osservare ancora il passaggio dei treni, come faceva da piccolo. Solitamente le loro conversazioni avevano argomenti ben distinti. Un giorno parlavano di casa, un giorno facevano progetti per il futuro (ma-gari ripetendo cose già dette), un altro ancora, della vita al fronte, oppure del genere di uomini che vi si incontrano. – In guerra, – puntualizzava Luca, – la gente è sicuramente diversa. In guerra mi accorgo che la mag-gioranza tende a trascurare quelle apparenze che contraddistinguono il vivere borghese. Qui ognuno si mostra per quello che realmente è: gene-roso o avido, coraggioso o vile, onesto o imbroglione. Anche il modo di pensare cambia. Ogni fede politica o religiosa, ogni inclinazione è più trasparente. Ciò facilita la conoscenza delle persone. – – Questo è vero, benché rimanga l'unico vantaggio offerto dalla guer-ra, – obiettava con il volto pensieroso Marchi. – Sono d'accordo; ma siccome anch'io sono contro questa dannata guerra, preferisco l'ipocrisia borghese alla sincerità della prima linea. – – E dell'eroismo, di cui tanto parlano i pezzi grossi, specie quelli che hanno combattuto nella campagna di Libia, tu cosa ne pensi? – – Personalmente considero l'eroismo una conseguenza della mancan-za di idee da parte dei generali, – rispondeva Luca.– Gli avvenimenti di questi mesi lo dimostrano. Sul Carso, cosa succede? Assalti su assalti, sempre frontali, sempre inutili, sempre con la consapevolezza di sacrifi-care migliaia di vite. Ma poi però si distribuiscono le medaglie e la co-scienza è messa a tacere. Nel nostro piccolo, qui da noi, la musica non cambia: i guastatori rischiano la pelle per aprire dei varchi nei reticolati, si tentano quindi degli attacchi assurdi. Ovviamente con questa tattica non c'è verso di passare, allora ci si spara addosso da una trincea all'altra con la prospettiva di andare avanti così finché dureranno uomini e mezzi. –

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II

agosto 1915

I GENERALI, da cui dipendeva il settore di Asiago, volevano dimo-strare che anche lì, su quelle montagne, ci si dava da fare, e magari con una bella spallata (simile a quelle del Carso) si poteva scardinare il si-stema difensivo austriaco, smantellando i loro maledetti forti e rove-sciando le guarnigioni che presidiavano le linee di sbarramento giù a val-le, oltre Trento. Se la manovra fosse riuscita ci sarebbe stata gloria per tutti, non ultimo anche per il generale Cadorna, cui tanto piacevano le spallate.

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A Thiene, sessanta chilometri dal fronte, il generale Zoppi, coman-dante il V corpo d'armata e il generale Oro, comandante la 34a divisione alla quale appartengono le brigate Ivrea e Treviso, schierate su a Vezze-na, mettono a punto un piano che sulla carta presenta ampi spazi di suc-cesso, considerando che a supporto delle due brigate ci sono oltre cin-quanta bocche da fuoco pronte a battere ininterrottamente il nemico. – Dieci giorni di cannoneggiamenti potrebbero bastare? – azzarda cauto il generale Oro. – Perdio! un trattamento simile è sufficiente a spianare non quattro forti bensì un'intera città come Vicenza, – ribatte risoluto il generale Zoppi. – E se nella malaugurata ipotesi, dopo questo tempo, ci fossero dei superstiti, ebbene essi se la vedranno con la nostra fanteria, che tra l'altro sembra impaziente di entrare in azione… Non è vero, generale Oro? – – I miei soldati attendono solo un segnale. – I preparativi per l'offensiva vengono svolti con estrema scrupolosità. Alcune squadre sono inviate in ricognizione con il compito di effettuare tutte le osservazioni possibili, atte ad approfondire la conoscenza della linea nemica. I forti austriaci risultano protetti da più ordini di filo spina-to, e anche le trincee che collegano questi forti sono isolate dagli stessi sbarramenti. Le postazioni per mitragliatrici (difficili da individuare per il mascheramento), sono disposte in maniera da non lasciare sguarnito nessun lembo di terra. Un assalto frontale sembra impossibile, tutt'al più si può tentare un aggiramento sui fianchi, ma anche così si deve prevede-re il sacrificio di non pochi uomini. Tali sono le conclusioni delle squa-dre uscite per i rilevamenti, ma essendo guidate da giovani tenenti di complemento, seppur validi, vengono giudicate eccessivamente prudenti. Il giorno 15 del mese di agosto, aprono il fuoco le artiglierie italiane e per dieci giorni consecutivi non smettono più di sparare. Sparano obici da 305, da 280, da 210; cannoni da 149, da 87 e da 75. Ogni calibro pro-duce un suo ululato e anche gli schianti sono diversi. Migliaia e migliaia di granate piovono sulle linee austriache scavando una miriade di crateri. Il generale Zoppi era nel giusto quando affermava che un bombardamen-to del genere avrebbe raso al suolo una città grande come Vicenza. Il giorno 24, il generale Oro raduna gli ufficiali superiori della sua divisione e tiene consiglio di guerra. A nord la brigata Ivrea, agli ordini del generale Murari Brà, dovrà attaccare il settore che da forte Verle cor-re su fino a Cima Vezzena. A sud, la brigata Treviso, agli ordini del ge-nerale Villa, terrà impegnato il nemico in corrispondenza del monte Bas-son. Qualcuno obietta che i reticolati, malgrado l'opera dell'artiglieria, sono sempre lì, intatti, e superarli non sarà semplice. – Se fosse necessa-

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rio, – ribatte il generale Oro, – il filo spinato lo apriremo con il petto e con i denti! – Il colonnello Riveri, comandante il 115° reggimento della brigata Treviso, chiede, nel caso le condizioni della battaglia lo consentissero, di poter tentare lo sfondamento della linea nel settore di sua competenza. Sul finire della riunione il più perplesso rimane il generale Murari Brà, che pur non esprimendo un esplicito dissenso, giudica il piano molto ri-schioso. Ma ormai il dado è tratto. Verso le otto di sera dello stesso giorno, le artiglierie hanno l'ordine di sospendere il fuoco, mentre lentamente si stende il velo della notte. Il cielo si riempie di stelle e la luna piena spande un chiarore luminoso. Ogni ostacolo, sporgenza, corpo, toccato dai suoi raggi, allunga sul ter-reno un'ombra sinistra. Il generale Murari Brà fa muovere solo un battaglione, giusto per saggiare la resistenza degli austriaci. In prossimità delle linee da assalire, razzi lanciati da forte Verle tolgono le illusioni a chi riteneva il presidio sgombro dopo i martellanti bombardamenti. Le mitragliatrici austriache prendono di mira le avanguardie, mentre scoppiano gli shrapnels con le loro micidiali sfere d'acciaio scagliate in ogni direzione. I reparti, colti di sorpresa, vengono falciati senza neppure avere il tempo di porsi al riparo. Alcuni soldati si impigliano nel reticolato e le mitragliatrici fanno scem-pio del loro corpo. Molti cadono sul terreno antistante le trincee nemi-che. Il frastuono delle armi si alterna al lamento dei feriti, dando un sen-so tragico alla battaglia. Sopravviene un improvviso silenzio. Il reggimento di Luca è rimasto in trincea, di riserva. Adesso il capi-tano Bauchiero, comandante della sua compagnia, corre lungo i cammi-namenti e chiede volontari per il recupero dei feriti. Luca, Marchi, altri giovani ufficiali e un gruppo di soldati si fanno avanti. – I morti lasciateli dove sono, – ordina il capitano con voce ferma. – Occupatevi solo di co-loro che sono ancora in vita. – Nella luce del plenilunio il suo volto ap-pare teso. – Barelle, barelle, – urla rabbioso.– Dove sono queste puttane di barelle? – Arrivano finalmente i soldati della sanità con il bracciale di riconoscimento. In testa gli ufficiali, i soccorritori strisciano fuori dalla trincea. Una volta allo scoperto procedono curvi, zigzagando. Si odono alcuni sibili: tutti si appiattiscono per terra. Razzi bianchissimi scendono lenti, ondeggiando, prima di spegnersi. Gli uomini riprendono ad avan-zare e giungono dove sono sparsi i corpi dei morti e dei feriti. Luca si spinge fin sotto il reticolato, da dove provengono dei lamenti. Si accosta ai feriti trascurando ogni prudenza, quando altri razzi illuminano d'im-provviso l'aria. Colto alla sprovvista, Luca ha solo il tempo di cadere sul-le ginocchia, in un atteggiamento di difesa. A breve distanza, due soldati,

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riversi a terra, nel vederlo smettono di gemere e implorano aiuto. Luca alza la testa adagio. Al di là dei reticolati un austriaco, protetto dalla trin-cea, lo fissa, tenendolo sotto mira con il fucile. Luca non ha reazioni di paura; solo un pensiero insignificante scaturisce dalla sua mente: – Che distanza c'è tra me e lui? – Un secondo più tardi potrebbe essere morto, ma l'unica preoccupazione sembra quella di valutare la distanza che lo separa dall'austriaco. D'un tratto questi abbassa il fucile. – Dai, porta via quei due poveretti! – lo esorta in dialetto veneto. Luca comprende che deve la sua salvezza al fatto di avere di fronte un soldato austriaco di lin-gua italiana, impietosito dai feriti. I razzi adesso si spengono, allora svel-to si porta accanto ai due e li incita a bassa voce a raddrizzarsi. Li afferra per la vita, trascinandoli quasi di peso finché li affida a dei barellieri im-pegnati a raccogliere i feriti. Mentre nel settore nord si continua a mettere in salvo i superstiti, nel settore sud la brigata Treviso è in stato di all'erta. A un segnale i reparti si schierano in assetto di battaglia. In testa, pronto a muovere, il 115° reggimento. Il colonnello Riveri indossa la divisa di gala, guanti bianchi e gambali di cuoio. Lo precede di alcuni passi l'alfiere con la bandiera del reggimento bene in vista. Leggermente discosto, il trombettiere a-spetta ordini. Nel boschetto alle spalle, una fanfara intona la marcia rea-le. Nel frattempo i guastatori fanno brillare i tubi di gelatina sotto i reti-colati, aprendo dei passaggi. Il colonnello Riveri dà l'ordine al trombet-tiere di lanciare gli squilli per l'attacco. I reparti si buttano in avanti, su per il Basson, con l'obiettivo di sfondare, puntando verso Costa Alta, per portarsi alle spalle delle fortificazioni e operare un aggiramento. Le as-surde note della marcia reale continuano a risuonare nell'aria, accompa-gnando il clamore dell'assalto. Per tentare di penetrare nelle linee nemi-che, i reparti si ammassano nei pochi squarci praticati nei reticolati dai guastatori. La reazione austriaca, anche qui come al Verle, è immediata e imprevista. Le raffiche incrociate delle mitragliatrici si abbattono su di loro. Uno, dieci, cento uomini cadono a terra. Verle e Luserna tirano con gli obici e i vuoti nelle compagnie, mandate allo sbaraglio, sono sempre più evidenti. Altri battaglioni, a ranghi serrati, premono per avanzare im-pedendo a quello già a ridosso delle trincee austriache di ripiegare e met-tersi al sicuro. Urla di incitamento, di rabbia, di dolore si mescolano al fragore delle armi. Nella confusione generale il compagno cerca il com-pagno di plotone, il comandante di plotone cerca il comandante di com-pagnia. Paura e coraggio hanno lineamenti sfigurati. Un giovane soldato se ne sta seduto addossato a un masso, la testa reclinata sulle ginocchia, la schiena scossa da singhiozzi accompagnati da un lamento infantile. Un altro soldato, non riuscendo a rimettersi in piedi per le ferite alle gambe, si lascia rotolare giù dal pendio, per porsi fuori tiro. Due mitraglieri han-

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no piazzato le loro armi a ridosso dei reticolati e tentano di controbattere il fuoco austriaco che si accanisce sui poveri fanti allo scoperto Un ser-gente dalla faccia nera di barba e di fumo monta su una cassetta di muni-zioni e urla: – Via fioi, se no ghe copa tuti! –

I posti di soccorso sono intasati di feriti. Molti arrivano a coppie, reg-gendosi a vicenda, e quando scorgono gli altri in attesa che qualcuno si prenda cura di loro, sorridono, felici di essere in salvo. Luca e Marchi sostano nelle vicinanze di uno di questi ospedaletti da campo, dopo aver scortato il trasporto dei feriti dell'assalto al Verle. Fumano in silenzio, lo sguardo rivolto al Basson illuminato dai razzi e dalle vampe delle esplo-sioni. Il clamore della battaglia giunge sin lì, filtrato dal bosco, e a quella distanza pare il clamore di una piazza in subbuglio. A un tratto un passo pesante risuona alle loro spalle. Entrambi si girano. La figura gigantesca di un soldato si staglia contro lo sfondo degli alberi. La luce del plenilu-nio, insinuandosi a piccoli riquadri nel sottobosco, pone in evidenza la sua taglia imponente in un gioco di chiaroscuri. Egli tiene sottobraccio qualcosa come un fagotto che pende alle due estremità. Il gigante sembra volersi orientare nella radura in cui si trova. Gira su se stesso, mentre l'involto che sorregge ciondola sbattendo sui fianchi. Quando si avvede di Luca e Marchi, che dopo essersi interrogati con gli occhi, gli stanno andando incontro, il gigante arretra quasi timoroso finché si arresta. Non è un fagotto, quello che porta sottobraccio, ma il corpo piegato in due di un ufficiale dal fisico minuto, simile a quello di un ragazzo. Le braccia e le gambe cadono penzoloni e più che un essere umano, così snodato, sembra un fantoccio. Lo sguardo del gigante è allucinato, i capelli scar-migliati, la divisa in disordine. Muove le labbra a stento: – Il mio tenente è ferito: ho bisogno di un dottore per farlo medicare, – implora con una forte inflessione veneta. Marchi si inginocchia. Anche Luca si china. Quel che vedono è una faccia da bambino, rigata da una striscia di san-gue rappreso. Marchi appoggia le dita sul suo collo per sentirne il battito. Per meglio sincerarsi gli tasta un polso e scopre il bianco di un occhio. Il giovane ufficiale è morto. Forse è morto all'istante, colpito da un proiet-tile alla tempia che ha lasciato una traccia di sangue intorno. – È morto, – sussurra Marchi. Per un attimo il gigante guarda il cor-po, inebetito, poi con espressione stravolta lo solleva di colpo, senza al-cun sforzo, davanti a sé – Non è morto! Non è morto! – grida nel suo dialetto. – È solo svenuto! – Fissa con occhi sbarrati Luca e Marchi, per-ché si convincano che ha solo perso conoscenza. Poi dolcemente scuote il misero corpo. – Signor tenente, signor tenente, si svegli. – Quelle paro-le somigliano a una supplica. – Non può essere morto... Come faccio io a tornare a casa da sua mamma e dirle che è morto... Sua mamma lo aveva affidato a me... Io lavoro sulle sue terre... Io non potrò più guardarla in

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faccia, se non lo riporto a casa, vivo. – Il gigante riprende a scuotere con maggior vigore il corpo esanime del piccolo ufficiale. – Signor tenente, per favore, si svegli, – ritorna a supplicare, mentre la voce sembra cedere al pianto. – Io la devo riportare da sua mamma. – D'improvviso si rende conto che tutti i suoi tentativi sono inutili. Allora rimette il suo triste ca-rico sottobraccio e si butta nel folto dell'abetaia, mentre la sua voce im-pazzita va sfumando in lontananza. – Signor tenente, signor tenente, io la devo riportare a casa…ha capito? – Luca e Marchi di ritorno al comando di compagnia incontrano grup-petti di soldati feriti, stravaccati per terra. Fiaschi di vino passano di ma-no in mano, dopo lunghe bevute a garganella. – Sono sicuro che con una ferita così, – dice uno, dal cui calzone strappato all'altezza della coscia sporge una fasciatura bianca, – mi dan-no il congedo. – – Eh, sì, caro mio, – dice un secondo, – aspetta e spera. Ti daranno piuttosto una bella stampella e dopo un paio di settimane ti rispediscono qui. – – Adesso che i generali ci hanno preso gusto, una volta al mese ci sa-rà una battaglia come questa, – fa un terzo. – Bravo Toni! Allora se così fosse, prima di Natale dovremo andare in giro tutti con le stampelle, – ribatte il primo, quello che aveva iniziato il discorso. – Perché, tu credi che i comandanti si preoccupino di noi poveri dia-voli? – domanda quello di nome Toni. – Se devo morire, – fa il secondo, – voglio morire senza sentirmi tri-ste. – Interpone una pausa, poi aggiunge: – Per scacciare i brutti pensieri niente è meglio di una buona bottiglia di vino. – Così, senza perdere tempo, agguanta il fiasco, se lo porta alla bocca e ne tracanna un lungo sorso con un sonoro glu glu. – Io, se proprio devo morire, vorrei che mi succedesse in un bel letto morbido, con le lenzuola bianche e tanta gente intorno, – fa eco quello chiamato Toni. Altri feriti stanno sopraggiungendo. – Stanotte quelli della sanità dovranno lavorare parecchio, – dice il primo, alludendo ai soldati in arrivo. – E meno male che i morti non danno più fastidio a nessuno! – scherza Toni. Sul Basson l'attacco continua. I battaglioni premono contro i reticola-ti ma non riescono a superare l'ostacolo, inchiodati come sono sulle loro posizioni dal martellare incessante del fuoco austriaco. Il terreno circo-stante è ricoperto di morti. Tra i morti vi sono comandanti di compagnia e di plotone. I reparti superstiti si sbandano, ondeggiano ora a destra ora

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a sinistra, finendo col mescolarsi ad altre unità e creando un caos spaven-toso che disorienta anche chi vorrebbe rimanere lucido. Il colonnello Riveri ordina di resistere. Tuttavia la sua più grande ap-prensione pare quella di mettere in salvo la bandiera del reggimento. Le tenebre si diradano; il sole si leva prendendo il posto della luna che per tutta la notte è stata testimone della strage. Le rondini, mattinie-re, cominciano a volteggiare sulla distesa di corpi inanimati. Anche per gli uccelli dei boschi attorno non è successo niente, e il loro trillo annun-cia una bella giornata, simile a tante altre. Sono le sei. Un comandante di compagnia cerca di persuadere il co-lonnello Riveri a dare finalmente ai sopravvissuti l'ordine di ripiegare. La riposta è no. La sua ostinazione non ha senso, considerando che la lu-ce del giorno non fa altro che favorire il nemico. Ma non è nel suo carat-tere rientrare e dover ammettere la sconfitta. Per lui essere soldati signi-fica combattere, ma soprattutto vincere. Vincere; non importa a quale prezzo; un soldato, mille soldati che cadono possono essere un'inezia se uno ha degli ideali: e lui ne ha. Sono le otto. Nelle trincee nemiche si avverte un certo fermento; c'è il rischio di un contrattacco. In quell'istante, alzandosi per impartire di-sposizioni, il colonnello Riveri viene colpito da un cecchino. Lo aiutano a ripararsi, portandolo in una posizione meno esposta. E poiché anche i comandanti più eroici quando perdono sangue diventano comprensivi, dà, se Dio vuole, il sospirato ordine di ritirata e i pochi superstiti si met-tono in salvo. Sono le dieci. Pattuglie austriache escono a perlustrare il campo di battaglia. Il colonnello Riveri, impossibilitato a muoversi per le ferite, cade prigioniero. La giornata è limpidissima e il cielo risplende di una luce abbaglian-te. I boschi fitti di abeti nascondono alla vista dei più lontani l'orrore del-la battaglia. Le salme dei caduti giacciono di fronte al Basson. L'odore penetrante e acre di morte prende alla gola. Gli stessi austriaci provve-dono a cospargere i corpi di calce, prima che i miasmi avvelenino l'aria, e nei giorni seguenti a dar loro sepoltura.

Quella notte, la brigata Ivrea nell'attacco contro il Verle ebbe 27 morti e circa 210 feriti. Nell'assalto al Basson, la brigata Treviso contò invece 1081 morti e un numero quasi uguale di feriti.

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III

febbraio 1916

DOPO la battaglia del Basson, sulla piana di Vezzena i fronti tacque-ro a lungo, salvo in ottobre quando alcuni reparti della Treviso, in un combattimento isolato verso la Sella di Milegrobe, lasciarono sul campo ancora dei morti. All'infuori di questo scontro si ebbero solo delle sca-ramucce. Sopravvenne il maltempo e anche lui fu subito nemico. La pioggia scrosciava senza interruzione; una pioggia malvagia che penetrava o-vunque. La terra non riusciva ad assorbire il diluvio d'acqua che cadeva dal cielo plumbeo. Molte trincee si allagarono e fu necessario disporre sul fondo delle passerelle per poterle percorrere. Le buche delle granate ricolme di pioggia divennero stagni pericolosi in cui molti uomini vi sprofondarono, uscendone fradici. Bisognò allora segnalarne la pericolo-sità con dei cartelli rossi. Il terreno molle di fango imprigionava i piedi e il camminare diventava faticoso. Gli alloggiamenti e i ricoveri si dimo-strarono insufficienti per offrire un tetto all'intera divisione. Si ricorse a ogni tipo di espediente per costruire dei ripari. Si legavano ai rami degli alberi i quattro capi di un telone impermeabile, e con una pertica lo si sollevava al centro, in modo da impedire il formarsi di sacche d'acqua. I più fortunati riuscivano a procurarsi delle lamiere ondulate e con dei pa-letti erigevano delle tettoie. Muli e cavalli stavano raccolti in recinti chiusi, immobili, le groppe fumiganti, vittime anche loro di una sorte in-grata. Sempre per proteggersi dalla pioggia, i soldati nell'uscire all'aperto si incappucciavano con le mantelline, e all'ora del rancio, quando tutti si accalcavano intorno alle cucine da campo, le mantelline accostate tra lo-ro davano l'impressione di un grande drappo sospeso per aria. Gli au-striaci probabilmente dovevano fronteggiare un'emergenza identica, vi-sto il silenzio che gravava sulla zona da essi presidiata. La pioggia, l'umidità, poi il freddo finirono col portare malattie. Feb-bri, reumatismi acuti e disturbi intestinali resero indisponibili una parte

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degli effettivi, e quelli che ne erano esenti si dovevano sobbarcare pesan-ti servizi supplementari. Una settimana prima di Natale, Luca era stato incluso nell'elenco di coloro che dovevano partire in licenza. Poi, all'ultimo momento, per l'aggravarsi della situazione sanitaria, le licenze furono parzialmente re-vocate. Il criterio di scelta venne fatto tenendo conto dell'anzianità di ar-ruolamento, e Luca, al fronte solo da luglio, fu escluso. Marchi ancora più sfortunato, non poté partire, perché nella lista dei privilegiati fu supe-rato da un paio di colleghi che godevano di priorità. La delusione rese in-trattabile Luca, e malgrado i suoi soldati e lo stesso Marchi, più filosofo di lui, provassero ad ammorbidirlo, egli visse giorni in preda a una rab-bia dura da sbollire. Nelle lettere ricevute da casa tutti speravano moltissimo di rivederlo per Natale. In quelle scritte dalla madre trapelava la tenerezza fatta di piccoli ricordi e raccomandazioni. In fondo alla pagina non mancavano mai i saluti del padre, della Marta, di Liliana e anche il nome della con-tessa Bukowsky appariva di frequente. Nello zainetto dove custodiva la posta vi erano anche due lettere di Spiro. Egli prestava servizio presso un comando di divisione in Carnia, e viste le condizioni degli altri in prima linea, ammetteva di non passarsela male. Si dichiarava sicuro di poter es-sere a casa per Natale. Sperava molto che Luca ottenesse una licenza per aver modo, dopo tanti mesi, di incontrarsi. Due volte aveva scritto anche Adelina, dando notizie di Guglielmo (sottufficiale istruttore in una ca-serma) e dei nonni. Tutti stavano bene e parlavano spesso di lui; e tutti si attendevano una sua visita. Vi erano infine le lettere di Camilla. Camilla usava una carta azzurrina, leggermente crespata. Non scriveva mai a date fisse. La sua calligrafia si distingueva per una certa inclinazione sulla de-stra. Ed era proprio lei, più degli altri, a rimescolare le sue emozioni. Camilla si esprimeva in maniera ora ironica, ora dolce, ora malinconica; come sua abitudine. Molte volte Luca si appartava per rileggere quanto gli scriveva. Prima però di trovare l'angolo giusto infilava le lettere nella tasca interna della giubba, e nel toccarle avvertiva come un flusso di ca-lore che gli rimescolava il sangue. Camminando, pregustava l'attimo in cui si sarebbe fermato, lontano da occhi indiscreti, per toglierle di tasca e riprovare la medesima sensazione di quando gliele recapitavano. Ma in quel mese accadde un fatto sorprendente. In gennaio la brigata Treviso venne trasferita a Cormons. Le posizioni lasciate sguarnite dai reggimenti in partenza furono occupate dai soldati dell'Ivrea, costretti a dover presidiare una zona doppia di quella loro assegnata in precedenza; e ciò fece svanire il sogno di una licenza in chi non ne aveva ancora usu-fruito. Invece alla fine scappò fuori una breve lista di una trentina di no-mi. Ma neppure stavolta Luca fu fortunato. Il capitano Bauchiero si giu-

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stificò con lui, poiché, potendo indicare un solo uomo per compagnia, scelse giustamente Marchi, per via dell'anzianità. Marchi sapendo quanto Luca ci tenesse alla licenza, gli offrì la sua, ma a parte le complicazioni burocratiche, Luca non se la sentì di privare l'amico di una simile oppor-tunità. Ormai in lui stava subentrando la rassegnazione, ma proprio in quei giorni di febbraio giunse una lettera di Camilla. Imprevedibile co-m'era, lo sollecitava a richiedere un permesso, anche breve, e non appena ottenuto di comunicarglielo a mezzo telegramma; dopo di che lei sarebbe venuta su ad Asiago. Camilla aveva fissato già il luogo del loro incontro: l'appartamento che una signora del posto affittava, prima della guerra, ai villeggianti durante la stagione estiva. L'indirizzo le era stato fornito da una conoscente di famiglia, moglie di un ufficiale del genio di stanza nella zona. Gli raccomandava di non occuparsi di nulla, all'infuori del permesso, per ogni altra cosa avrebbe provveduto lei. Chiudeva la lettera con un eloquente: "A presto; anzi, a prestissimo! Tua Camilla. P.S.: ho una voglia matta di vederti!". Non fu facile ottenere un permesso. Si trattava di un permesso di sole quarantott'ore, ma considerato che non sprecava tempo col viaggio, non poteva lamentarsi. Per gli accordi con Camilla fu sufficiente uno scam-bio di telegrammi. Il pensiero di rivederla gli metteva addosso una frenesia che gli im-pediva persino di dormire. Allora usciva nella notte a fissare il manto di neve, o a parlare con i soldati di guardia, intirizziti dal gelo. Una mattina di buonora, Luca e Marchi (le cui partenze coincideva-no) lasciarono Vezzena con le biciclette avute in prestito da un comando della vicina sussistenza. Marchi, giunto ad Asiago, avrebbe preso il treno che portava in pianura, prima di proseguire fino a casa. La carreggiata della strada in direzione di Asiago era ristretta a causa della neve accumulata ai lati. A tratti il fondo si presentava levigato di ghiaccio e le biciclette tendevano a perdere aderenza. Il freddo pungeva la faccia come tanti spilli. Luca e Marchi sembravano due ragazzi in va-canza. Improvvisando gare di velocità, si rincorrevano lanciando grida nel sorpassarsi a vicenda. Su una leggera discesa, Marchi staccò le mani dal manubrio per mostrare al compagno la propria destrezza, senza ac-corgersi per tempo di una gobba in mezzo alla strada. Quando tentò di sterzare era tardi. La bicicletta si impennò, sbalzandolo a terra sopra un mucchio di neve. Superato il momento di sbigottimento si rimise in piedi e, notando come Luca lo guardasse divertito per la neve rimastagli attac-cata addosso, dapprima si rassettò un poco e poi scoppiò a ridere. Allora anche Luca rise. Rimontarono in sella, riprendendo a pedalare con più calma, mentre lo sguardo vagava attorno. Oltre il torrente Assa, che cor-reva parallelo lungo la strada, gli abeti appesantiti da uno strato di neve

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indurita, sembravano racchiusi in tanti involucri. Orme di piccoli selvati-ci segnavano per alcuni tratti il margine del bosco per poi scomparire verso l'interno. Dalle pareti di roccia cadevano cascatelle di ghiaccio ri-gate di striature turchine. Più avanti si imbatterono in alcuni soldati im-bacuccati in mantelli e passamontagna, seguiti da file di muli carichi di salmerie. Non distanti da loro, tre autocarri arrancavano verso il fronte, ma gli autisti facevano una gran fatica a guidare i mezzi che sbandavano sulle lastre di ghiaccio. Mancavano pochi minuti alle nove quando si fermarono alle porte di Asiago, dove dei cartelli indicavano varie direzioni. Era giunto per loro il momento di separarsi. Non si attardarono a scambiarsi frasi di circostan-za, ma si strinsero semplicemente la mano, sapendo che quel contatto suggellava una vera amicizia. – Ciao, Aliprandi. – – Ciao, Marchi. – Non aggiunsero altro. Luca inforcò di nuovo la bi-cicletta e imboccò la strada che attraversava la cittadina, mentre Marchi tirò dritto verso la stazione. La contrada da raggiungere si trovava fuori Asiago, sulla sinistra del-l'aeroporto. Luca pedalò sicuro, seguendo le poche informazioni ricevute da un portaordini del suo reggimento, pratico dei luoghi. L'abitato era ormai alle sue spalle. Davanti si stendevano campi ondulati e a ridosso dei campi la linea dei monti chiudeva immediatamente la vista. La gior-nata era splendida, e nel cielo terso il sole accendeva sulla distesa di ne-ve una miriade di scintillii accecanti. Il tetto di una casa spuntò sul fon-do, dietro a un dosso. Dopo il tetto apparve il rivestimento di legno scuro della parte superiore, e infine emerse anche la parte bassa, in muratura. Sull'ingresso, ancora lontano, una figura femminile, vestita di colori sgargianti, mosse alcuni passi verso la strada. Il passo si fece sempre più rapido e divenne corsa. Era Camilla. Un'improvvisa emozione si impos-sessò di Luca, che invece di pedalare più svelto rallentò come se gli ve-nissero a mancare le forze. A una trentina di metri da lei, abbandonò la bicicletta e prese anche lui a correre. Il berretto gli volò via ma non si cu-rò di raccoglierlo. Erano ormai vicinissimi e sullo slancio lui l'afferrò per la vita. Nella foga dell'abbraccio rotolarono a terra, sulla neve. Luca la baciò a lungo sino a farle dolere le labbra. Camilla gli avvolse un braccio intorno al collo e con la mano libera incominciò ad accarezzargli i ca-pelli. Sempre sdraiati sulla neve, lei a un tratto si liberò dalla sua stretta. – Lasciati guardare, – disse, e in quel gesto si celava l'ansia della lunga attesa. Anche lui la guardò. I suoi occhi erano grandi e scuri, il naso sot-tile, le labbra piene, la pelle liscia. Era talmente bella da provare im-barazzo nel fissarla troppo a lungo. Lei teneva la testa leggermente rove-sciata indietro, mostrando il collo stupendo; un collo bianco con un'at-

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taccatura morbida. Camilla riprese ad abbracciarlo incurante della neve sui vestiti e sui capelli. Gli tenne poi il volto tra le mani per poterlo guardare a piacimento, quasi a saziarsi per un troppo lungo digiuno. – Ho aspettato tanto questo momento! – gli sussurrò infine all'orec-chio. – E pur di essere vicina a te sarei venuta su sino al fronte. – – Sapessi quante volte ho pensato a te. Quante volte mi sono sveglia-to all'improvviso di notte, cercandoti, come se tu fossi lì accanto. – – Oh, Luca, ero pazza nel volerti rivedere. – – Davvero non potrei concepire la vita senza di te, e nessuna parola al mondo potrebbe aiutarmi a confessarti i miei sentimenti, tanto questi sono profondi. – Tornarono a baciarsi e lui l'avvolse nella sua mantellina. Quando si rialzarono sulla neve rimasero le impronte dei loro corpi. Si incamminarono verso la casa, tenendosi stretti. Luca era così preso dalla sua vicinanza che si scordò della bicicletta e del berretto perso per strada, mentre le era corso incontro. L'appartamento prenotato da Camilla era piccolo ma accogliente e ben arredato. Si componeva di un tinello, di una camera da letto, e di una minuscola toilette con un lavabo, una brocca d'acqua e degli asciuga-mani candidi. Al centro del tinello una stufa di maiolica, ben carica di legna, riscaldava agevolmente l’intero appartamento. La padrona di casa si annunciò per chiedere se avessero bisogno di qualcosa, mostrando molto riguardo nei confronti di Camilla. La donna era ancora giovane e ascoltandola Luca capì che anche suo marito era sotto le armi. Mentre parlava sopraggiunse un bimbetto biondo, di quattro o cinque anni, che si mise a far capolino da dietro le gonne, e allora la donna tutta orgoglio-sa lo chiamò per nome e non fu difficile indovinare che ne fosse la ma-dre. All'atto di uscire, ebbe per Luca uno sguardo carico di pena, come di chi sappia cosa voglia dire (abitandoci vicino) vivere al fronte. Rimasti soli, Camilla lo aiutò a togliersi la mantellina e la giubba, poi da una bor-sa tirò fuori un maglione di taglia maschile e volle che lui lo indossasse per non prendere freddo. Luca fece un po' di resistenza, ma lei lo convin-se sfiorandogli il mento con un piccolo bacio. Si misero seduti a discorrere, ma Luca nel seguire il movimento delle sue labbra sentì il desiderio di toccarla, di stringerla di nuovo. Fece scor-rere la mano e quella di lei gli venne incontro. Quando le dita si intrec-ciarono, la trasse a sé, tornandola a baciare con tutta la voglia che la dura lontananza suscitava. Adesso non c'erano più morti, gelo, paure; adesso c'erano solo loro due, chiusi in una stanza calda, circondati da un pro-fondo silenzio che amplificava il pulsare dei respiri. Camilla si spogliò con gesti ora lenti ora rapidi, e man mano che gli indumenti cadevano a terra, Luca si sentiva percorrere da un tremore e doveva serrare le ma-

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scelle perché i denti non prendessero a battere. Conosceva il suo corpo al tatto, ma era la prima volta che la vedeva nuda. E così nuda la sua bel-lezza lo stordiva. Aveva una pelle morbida, un po' più chiara rispetto a quella del viso. Il seno colmo terminava con un capezzolo bruno, all'in-sù. I fianchi si incavavano disegnando una curva in armonia con il resto del corpo. Lei lo incoraggiò accennando a svestirlo, e ciò bastò per ri-dargli sicurezza. Nel fare l'amore lo implorava di non lasciarla più. Lui si sentiva come ubriaco e diceva cose talvolta insensate, ma sempre piene di tenerezza. E parte delle cose dette tornarono a ripeterle alla fine del lo-ro atto d'amore. – Vorresti sul serio scappar via con me, così come avevi detto prima? – volle sapere Camilla. – Davvero non c'è nulla al mondo che non farei per te. – – Ma scappar via con me vuol dire disertare. – – Sarei disposto anche a disertare pur di vivere accanto a te. – – Ma poi rischieresti la fucilazione. – – Quanto a rischi, lassù al fronte me li prendo tutti i giorni. – Camilla posò la testa sul suo petto e rimase ad ascoltare il battito del cuore. – Tu, Luca mi ami a tal punto? – – Per me, non esiste un limite fin dove io possa dire di amarti. – – Parole come queste toccano veramente il fondo del cuore. – La camera da letto non era molto spaziosa, ma in compenso era ben riscaldata, e rimanendo sopra le coperte si misero a guardare attraverso i vetri la spianata dirimpetto, deserta e piena di sole. Uno stormo di corvi nerissimi planò, raccogliendosi sotto un vecchio abete dove la neve non si era depositata. Smossero il tappeto di aghi alla ricerca di cibo, quindi uno dopo l'altro spiccarono il volo, battendo forte le ali per prendere quota. Si erano già rivestiti, quando a mezzogiorno la padrona di casa appa-recchiò nel tinello e servì il pranzo. Mangiarono con appetito, bevendo una buona bottiglia di vino rosso, e Luca disse che gli ricordava quello di nonno Giovanni. Meravigliando entrambi, la donna portò anche una pic-cola torta preparata nel forno di casa. Sapeva di formaggio ma aveva un gusto squisito. Luca, abituato alla frugale mensa ufficiali, si sentiva sazio e la testa gli girava un po' per il troppo bere. Si assopì sul divano accanto alla stufa, mentre Camilla rimase immobile per non disturbarlo. Nel ride-starsi, lui per prima cosa notò i suoi occhi carichi di espressività chini a fissarlo, allora seguendo l'impulso le cinse dolcemente le braccia al collo obbligandola a scivolare contro il suo petto.

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Nel pomeriggio, Camilla vedendo la padrona di casa guidare una slit-ta trainata da un cavalluccio biondo, lanciò l'idea di farsela prestare per compiere un giro nei dintorni. "È sempre la stessa", pensò Luca. "Quando le si presenta l'occasione di scoprire o provare qualcosa di nuovo, si riempie di entusiasmo e nessuno la ferma più". La donna acconsentì senza difficoltà a prestare il mezzo e diede al-cune istruzioni sul come usarlo. Infine essi montarono sulla pedana sopra la quale era fissata una panchetta a due posti, e Camilla impugnando le redini incitò l'animale a muoversi. Il cavalluccio dopo un attimo di inde-cisione partì al piccolo trotto, torcendo le orecchie quasi a cogliere il suono della voce sconosciuta, mentre la campanella al collo prese a tin-tinnare. Gli zoccoli battevano per terra sollevando un pulviscolo bianco. La strada tagliava a metà la distesa di neve, addentrandosi nelle macchie di abeti. Non si scorgeva anima viva intorno e questo senso di solitudine, anziché immalinconire, dava l'illusione di trovarsi lontanissimi, in un luogo dove non esisteva più nulla: né guerra né paura né dolore. La slitta scivolava via morbidamente. Camilla aveva ceduto a Luca la guida e stando allacciata al suo braccio, le veniva naturale appoggiare la testa sulla sua spalla. – Mi sento tanto felice vicina a te, – mormorò. – Come hai detto? – domandò Luca, che per lo scampanellio non a-veva afferrato le parole. Allora Camilla si alzò in piedi, reggendosi in equilibrio, e mettendo le mani a imbuto davanti alla bocca ripeté, gridan-do: – Mi sento felice accanto a te. – Luca mollò le redini e imitando i suoi gesti urlò: – Anch'io mi sento felice. – Si abbracciarono ma la slitta traballava sotto i loro piedi e a una cur-va si sbilanciarono, ruzzolando a terra. Camilla si raddrizzò per prima. Svelta preparò una palla di neve e colpì Luca, che immediatamente reagì lanciandone una a sua volta. Ingaggiarono una breve sfida, schiamazzan-do, finché Camilla alzò le mani in segno di resa. – Sono tua prigioniera, – disse ridendo. – Allora te la passerai male, – minacciò Luca con finto cipiglio. – Io sono malvagio con i prigionieri. – – Chiedo pietà. Sono giovane e abbastanza carina. Ti prego: non farmi del male. – – Vedrò di essere clemente, a patto che tu faccia quello che io desi-dero. – – Per esempio? – – Prima di tutto, ti stringerò e ti bacerò, ma guai a te se ti ribelli! –

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– No; non mi ribellerò, perché io sarò per sempre la tua schiava. – Il cavalluccio si era fermato un pezzo più avanti, e scalpitando inci-deva con lo zoccolo il fondo di neve pressata. La bella giornata di sole, lentamente andava cedendo il proprio tepore alle prime ombre della sera, che presto avrebbero fatto precipitare la temperatura.

Dopo cena, la stufa di maiolica li tentò a rimanere seduti sul di-vanetto, a parlare del passato ma ancor più a fare progetti per il futuro. – A guerra finita vorrò subito fare un viaggio con te; però un po' di-verso da quelli che facevamo assieme, dopo esserci conosciuti, – fanta-sticava Luca. – Che tipo di viaggio? – – Fin da piccolo ho sempre sognato di scendere lungo il Po, partendo dalla casa dei nonni, e una volta giunto a Venezia imbarcarmi su un piro-scafo e navigare verso l'Africa, facendo scalo in quei porti misteriosi, frequentati da gente altrettanto misteriosa. Sai, da ragazzo ho ascoltato molte volte storie del genere, e da allora non ho mai smesso di cullare questo desiderio. – – Sarebbe davvero eccitante fare un viaggio così. – – È un vero peccato però che la vita in questo momento sia piena di incertezze. – – Ma questa maledetta guerra che ci tiene così in pena, dovrà pur fi-nire! –

Luca non rispose; rimase assorto per qualche attimo, poi si acco-stò alla finestra e piegandosi un po' indietro per guardare il cielo, disse: – Hai visto Camilla, che notte stellata? –

Lei lo raggiunse e anche lei indugiò ad ammirare la volta celeste. – Vogliamo uscire? – propose Luca. – Non prenderai freddo? – si preoccupò Camilla. – Basta coprirsi bene... Ho voglia di fare una passeggiata con te,

in una notte simile. – – Come mai questa voglia, così improvvisa? – – Al fronte mi è capitato di trascorrere molte ore in solitudine,

guardando le stelle e scoprirmi con il pensiero fisso su di te –. – Tanto ti sono mancata ? – – Sì. – Non era spiacevole camminare all'aperto e il freddo non era pun-

gente come su a Vezzena. La neve scricchiolava sotto le scarpe, ma fer-mandosi di colpo il silenzio profondissimo faceva dolere i timpani per la totale assenza di vibrazioni. L'aria, perfettamente trasparente, dava alle stelle un tale senso di grandezza e di luminosità da lasciare Camilla stu-pefatta.

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La notte dormirono assieme, nel letto matrimoniale dai materassi ben imbottiti di lana, tra lenzuola fresche di bucato e con le coperte che dopo un po' buttarono indietro, perché la stufa continuava a diffondere calore e la temperatura era eccessiva. Si erano di nuovo amati e poi ave-vano chiacchierato fin oltre mezzanotte. Camilla prima di cadere addor-mentata aveva rannicchiato le ginocchia sotto il seno, posando il collo sopra il braccio di lui. Luca rimase perfettamente immobile per non di-sturbare il suo riposo, mentre nella vaga luce notturna fissava la sua figu-ra piena di femminilità. Ogni tanto lei era percorsa da leggere contrazio-ni involontarie, accompagnate da piccoli sospiri. Sembrava volersi girare ma poi semplicemente si assestava, rimanendo nella posizione assunta al momento di chiudere gli occhi. Luca non aveva sonno. Con cautela, per non svegliarla, era riuscito, con la mano libera, a prendere una sigaretta e a far scattare l'accendino. La brace ardeva nel buio, formando intorno al-la punta un piccolo alone rosso. A ogni boccata soffiava il fumo in alto perché non le desse fastidio. Spenta la sigaretta, si accorse di come lei avesse piegato la testa premendo il viso contro il materasso. Pensò che fosse un suo vezzo, dormire tutta rannicchiata come una bambina. In quella positura, i capelli si erano disposti a ventaglio e proiettavano tenui riflessi. Fu preso dalla voglia di accarezzarli delicatamente, fin quando il sonno lo colse di sorpresa.

Al risveglio si attardarono nel letto caldo, scambiandosi piccole affettuosità. Intanto il sole a levante inondava di luce la camera, ed era uno spettacolo colmo di suggestione osservare la natura che tornava co-me sempre a mostrarsi. Così presi dalla visione, si decisero ad alzarsi so-lo quando la padrona di casa bussò per servire la colazione. Mangiare, stando in una stanza ben riscaldata, allungando lo sguardo fuori, dava un senso inappagabile di voluttà. E proprio in quel momento straordinario, Luca si lasciò trasportare dal pensiero che quella sensazione gli ispirava:

"Trascorrere ore come queste, accanto alla donna amata, lontani dalle paure, di fronte a una visione della natura così stupefacente: può e-sistere al mondo un piacere più intenso?".

A metà mattino, Camilla volle fare delle fotografie. Aveva porta-to con sé un apparecchio Kodak, comprato per l'occasione, e facendosi ancora una volta trascinare dall'entusiasmo, si vestì con cura, poi si oc-cupò di Luca affinché si presentasse nel migliore dei modi, in uniforme, senza però indossare la mantellina, che a suo parere era di foggia troppo montanara. Per essere ripresi in coppia, andò a scomodare la padrona di casa, spiegandole come funzionava la macchina, e di fronte a una certa ritrosia, la convinse che si trattava in definitiva di premere solo un botto-ne. Finalmente si misero in posa e la donna puntò l'obiettivo su di loro e scattò la foto. Ne fecero delle altre, ogni volta in posizioni diverse. Per

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ringraziarla della cortesia, Camilla la riprese con il figlioletto, mentre u-n'istantanea la riservò alla casa.

Nel pomeriggio, uscirono per fare ancora un giro in slitta, come il giorno precedente. Camilla esaurì la pellicola a disposizione, fotografan-do tutto ciò che suscitava in lei curiosità: il paesaggio, il cavalluccio, una piccola baita immersa per metà nella neve, un abete solita-rio…Attraversando un boschetto avvertì dei brividi di freddo. Luca si tolse la giubba e gliela fece indossare. La giubba le cadeva abbondante e le maniche coprivano quasi per intero le mani. Si trovò ridicola, ma ciò le offrì lo spunto per scimmiottare l'immaginaria figura di un arcigno ge-nerale. Completò il travestimento calandosi in testa il berretto di Luca (recuperato assieme alla bicicletta dalla padrona di casa), e prese a reci-tare con un timbro di voce grave, simulando quello maschile: – Tenente Aliprandi, come mai lei si trova così lontano dal suo ac-campamento? –

Luca stette al gioco: – Ebbene, signor generale, confesserò la mia debolezza: sono

scappato dal fronte perché non resistevo più lontano dalla mia fidanzata. –

– Un vero soldato non abbandona mai le proprie posizioni per correre dietro alle sottane di una donna. –

– Ma io, signor generale, di quella donna sono perdutamente in-namorato. –

– Piccinerie, mia caro tenente. Io non vedo mia moglie da oltre un anno, eppure non do in smanie come un collegiale. –

– Mi scusi, signor generale, ma lei forse non ha più l'età per sma-niare. – – Come si permette; irriverente e screanzato. Io la posso far fucilare. Siamo in guerra, e io posso disporre della sua vita a mia discrezione. An-zi, adesso che ci penso, voglio dare a tutti gli altri un esempio: domani mattina la farò giustiziare. –

– Però prima di far ciò, vorrei chiederle di esaudire un mio ulti-mo desiderio. –

– Sentiamo; di cosa si tratta! – – Mi lasci baciare ancora una volta la giovane che amo. –

– Con tali soldati io non vincerò mai la guerra... Comunque sia; ma si sbrighi!

Luca levò a Camilla la giubba e il berretto, l'attrasse a sé e la ba-ciò a lungo. Il tempo fuggiva via.

Camilla teneva in serbo un'ultima sorpresa. Terminata la cena, trasse da un cassetto dove aveva riposto la sua roba, un astuccio ancora

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incartato. Dentro vi era un bellissimo orologio: un regalo per Luca. Sen-za dire nulla slacciò quello che lui portava e lo sostituì con quello nuovo. – Così sono sicura che tutte le volte che lo guarderai non potrai fare a meno di pensare a me. – – È magnifico! – Luca rimase a contemplare l'orologio che adesso ri-luceva al suo polso, ma poi si riscosse e con voce velata, disse: – Io però non ho niente per contraccambiare. – – Mi è sufficiente sapere che tu sei mio e che un giorno saremo di nuovo insieme, per sempre. –

Luca, la notte non riuscì a prender sonno. All'idea che di lì a po-che ore si sarebbe dovuto separare da lei sentiva montare uno spasmo. In quei due giorni era stato tremendamente felice e adesso tutto sarebbe sta-to spazzato via da una brutale realtà. Già il senso della lontananza, della nostalgia si insinuavano in lui, e per scacciare l'angoscia incipiente, av-vertì il bisogno di stringerla ancora a sé, a lungo. Ma non voleva di-sturbarla in quel suo dormiveglia agitato. E intanto il tempo scorreva, scorreva. Avrebbe ficcato la testa sotto le coperte, per non vedere quella maledetta luce dell'alba penetrare nella camera, e richiamarlo a un dove-re prima sopportato, ma adesso divenuto improvvisamente odioso. Se non fuggiva presto sarebbe impazzito. – Perché Camilla ti devo amare così tanto? – si domandò, arrabbiandosi con se stesso, per l'incapacità di arginare senza pena i suoi sentimenti.

Al risveglio, prima di aprire gli occhi, lei tastò il letto per cercar-lo con la mano. Luca si scostò di scatto, ma cedendo ancora una volta, la baciò sulle guance e sui capelli. Poi si alzò, vestendosi quasi con furia, come se avesse premura di partire. Per entrambi le parole si spegnevano sulla bocca. Camilla aveva perso l'abituale esuberanza e arguzia: sul viso un'ombra triste la costringeva a tenere le palpebre abbassate. Era giunto il momento di separarsi. Lui la pregò di non accompagnarlo fuori, altrimenti non sarebbe stato capace di lasciarla. Si affrettò perché un nodo gli serrava la gola. – Ti amerò sempre, Camilla, – disse con la voce incrinata. – Anch'io, Luca, sarò sempre tua. – E mentre varcava la soglia, al-lungò la mano sfiorandogli una spalla, nel gesto istintivo di trattenerlo.

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IV

marzo 1916

LUCA fu chiamato dal capitano Bauchiero che lo accolse invitando-lo a sorvolare sulle formalità. Lo fece accomodare, avviando una conver-sazione che non aveva alcuna attinenza con le convocazioni quotidiane. Il capitano mostrava una faccia segnata e stanca. La pipa, tenuta abi-tualmente accesa, stava sul tavolo, fuori dalla portata di mano. Si toccava la fronte come a scacciare pensieri fastidiosi. Stranamente iniziò a parla-re di casa, dei suoi, e di come fosse stato attaccato ai nonni presso i quali era cresciuto, in campagna. Luca sapeva della familiarità con cui trattava gli ufficiali subalterni, ma gli sfuggiva il senso di quel discorso, troppo lontano e in apparenza privo di nesso con la realtà del momento. Il capi-tano intercalò una pausa ma il silenzio parve procurargli imbarazzo. Si piegò e aprì un cassetto da cui trasse qualcosa. – Lei, tenente Aliprandi, è un buon ufficiale. So che i suoi uomini la stimano e in più occasioni ha dimostrato coraggio. – Il capitano fece u-n'altra breve pausa. – Ci sono però circostanze nella vita in cui è necessa-rio aver più coraggio di quando si è in guerra. – Nel completare la frase la sua mano era scivolata sul tavolo, fin sotto gli occhi di Luca, e ritraen-dola scoprì un foglio di carta ripiegato. Era un telegramma. Il capitano tornò a parlare ma egli non lo ascoltava più. Un tuffo violento al cuore gli appannò la vista. Al fronte, i telegrammi avevano in maggioranza un solo significato: la morte di un congiunto. Lentamente lo prese, lo aprì e lesse le tre righe di testo: "Nonno Giovanni è spirato ieri, nel sonno. Sii forte. Parteciperemo funerale portando tue condoglianze. Mamma e pa-pà". Non riusciva a staccare lo sguardo da quel telegramma, ma nemme-no riusciva a rileggerlo. Le tempie pulsavano con impeto togliendogli lu-cidità. Quando lasciò il comando forse erano passati cinque, forse dieci minuti. Sentì la necessità di isolarsi, di rimanere solo. Si rifugiò in un angolo dove nessuno poteva vedere i segni del suo dolore. Chi d'altronde avrebbe compreso in un posto del genere, nel quale la morte era un fatto ordinario, cosa volesse dire per lui la scomparsa di un vecchio? Ma era poi morto veramente, nonno Giovanni? Poteva un uomo della sua tem-

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pra, morire? Da piccolo lo aveva paragonato a un uomo senza tempo, e anche da ragazzo, nonno Giovanni suscitava in lui come un senso di im-mortalità. Per questo non era mai stato toccato dal pensiero della sua morte; perché per lui nonno Giovanni era diverso e non poteva seguire il destino di tutti gli altri esseri umani. La forza, la sicurezza piena di tran-quillità che sprigionavano dalla sua persona, erano tali da porlo in una sfera diversa. Allora se era morto nonno Giovanni poteva morire anche il Po, che scorreva vicino alla sua casa. E anche le montagne, da dove il fiume nasceva, potevano crollare. Ma finalmente dolci ricordi vennero a recargli sollievo. Gli tornarono in mente le care immagini del viaggio in calesse al mercato di Piacenza; di quando, allontanandosi imprudente-mente, si smarrì per le vie della città e una sartina del posto lo riaccom-pagnò sulla piazza del mercato, punto di partenza del suo girovagare. Gli tornarono in mente le passeggiate lungo l'argine del Po; le serate afose sotto il portico, a prendere il fresco, e le visite dei contadini delle cascine attorno, il sabato sera. Gli tornò in mente, il suo vezzo di lisciarsi i baffi e il suo inseparabile sigaro, talvolta acceso talvolta spento. Gli tornò in mente la considerazione di cui godeva tra coloro che lo frequentavano, la bontà d'animo, in contrasto con il carattere in apparenza burbero, le mille cose che conosceva, che sapeva fare, e il suo modo di dare consigli, sen-za far pesare né esperienza né saggezza. E ancora: la sua venuta a Mila-no assieme a nonna Emilia e Adelina, quando lui aveva rischiato di mori-re per un morbo misterioso. Poi il Natale, tutti riuniti, in famiglia. Le va-canze estive nella sua casa sul Po; il matrimonio di Adelina, e infine, l'ultimo incontro, prima di partire per il fronte.

– Finché tutto questo sarà vivo in me, anche nonno Giovanni vi-vrà. – E tale pensiero ebbe la forza di sollevarlo dallo sconforto.

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V

maggio 1916

I GENERALI del V corpo d'armata si ostinano ad affermare che gli austriaci non attaccheranno. Il generale Cadorna, allarmato dalle voci che hanno raggiunto il suo comando, a Udine, finalmente si decide a muoversi per ispezionare il settore degli Altipiani, e in particolare quello di Vezzena, dove la minaccia del nemico sta assumendo aspetti sempre più evidenti. Prigionieri e disertori confermano che nelle retrovie afflui-scono in continuazione truppe fresche e quantità enormi di materiali e munizioni. I generali persistono nel loro scetticismo, ma di parere diver-so sono soldati e ufficiali che vivono in prima linea, dove intuito e per-cezione si sviluppano in modo piuttosto differente rispetto alla visione talvolta distorta che ha lo stato maggiore dei campi di battaglia.

Il generale Cadorna esprime, come al solito, il suo biasimo per come sono tenuti gli apprestamenti difensivi (non si è mica certo scomo-dato per distribuire elogi. Ci mancherebbe altro!). Benché il generale Brusati, comandante della I armata, lo abbia a più riprese sollecitato a inviare rinforzi, per poter provvedere a rinsaldare le linee e a dare mag-giore consistenza alle unità combattenti, il generale Cadorna solo adesso, durante la sua ricognizione, si convince che la precarietà segnalata non era campata in aria. Evidentemente è tardi per dare ragione al suo colla-boratore. Lo accusa invece di incapacità, e per poter disporre di un col-pevole su cui infierire, nel caso si verifichino crolli difensivi, attua nei suoi confronti una manovra in auge presso gli alti comandi: il siluramen-to. In sostituzione del generale Brusati viene chiamato il generale Pecori Giraldi, uomo probo e ligio, ma privo di ricette miracolistiche.

Il 15 maggio, le divisioni del generale Conrad, comandante au-striaco nella zona del Trentino, sferrano una gigantesca offensiva; un'of-fensiva studiata a lungo e con meticolosità. Così come avevano anticipa-to prigionieri e disertori, nelle loro retrovie sono ammassati mezzi e ri-serve di uomini in misura eccezionale. Le artiglierie, secondo schemi tradizionali, iniziano a spianare il terreno rovesciando sulle linee italiane valanghe di fuoco. Gli austriaci usano cannoni marini, obici, bombarde

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(per centrare con precisione reticolati e trincee). Essi hanno in dotazione anche pezzi da 380, chiamati "Barbara", i quali hanno una gittata e una potenza incredibile. Asiago viene colpita dalle batterie concentrate giù a Caldonazzo, e gli abitanti sono costretti a rifugiarsi, dapprima nelle loca-lità vicine, e più tardi, quando verrà quasi completamente distrutta, a scendere in pianura come profughi, al pari di chi vive sul resto dell'Alto-piano. La brigata Ivrea, già provata dal lunghissimo anno di permanenza, sempre a difesa della piana di Vezzena, è presa di mira dalla rabbia del fuoco nemico. Attestata com'è in uno spazio ristretto, tra il monte Coste-sin e il bosco Brusolada, non riesce a sottrarsi all'intenso tiro austriaco. Le perdite sono pesanti. Non c'è nemmeno il tempo di provvedere a met-tere in salvo tutti i feriti e a riparare alla meglio i danni, che il giorno 20 maggio la brigata subisce un attacco frontale violentissimo, a opera delle fanterie avversarie. Chiunque sarebbe spazzato via, ma l'Ivrea resiste. L'accanita opposizione disorienta gli assalitori che, non potendo avan-zare, si sbandano, e così allo scoperto sono bersagliati dall'artiglieria ita-liana, non ancora messa del tutto a tacere. I superstiti ripiegano, ma per tornare con rinforzi, impegnando l'Ivrea in lotte furiose a breve distanza, parte delle quali finiscono in mischie all'arma bianca e in disperati corpo a corpo. Al calar della sera la battaglia cessa. Il terreno è ricoperto di morti. I feriti gemono e le squadre della sanità sono impossibilitate a prestar soc-corso a tutti. I comandanti di compagnia fanno un rapido appello: quasi metà degli uomini sono mancanti. Solo adesso ci si rende conto di quan-te vite siano andate perse. Durante una sommaria perlustrazione del ter-reno, dove sono avvenuti gli scontri più sanguinosi, si presentano visioni che fanno inorridire. Nelle postazioni più avanzate, i morti giacciono ammucchiati, quasi fossero caduti tutti insieme, nel tentativo di frenare l'impeto nemico. Alcuni mitraglieri stanno ancora abbrancati all'arma, nell'atto di sparare. Numerosi corpi di austriaci penzolano dal bordo del-la trincea. Membra disseminate ovunque. E le facce dei morti…Facce li-vide, facce atterrite, facce con la bocca spalancata, con gli occhi sbarrati, facce all'improvviso vecchie. Ma i generali degli alti comandi non possono vedere, o non vogliono, perché secondo loro gli austriaci non dovevano attaccare. Il generale Murari Brà invece vuol vedere. Lui è tra i suoi uomini; li sostiene e li in-coraggia. Vorrebbe far ripiegare i superstiti su una linea più sicura, sulla quale potersi riorganizzare, ma l'ordine è di resistere a oltranza. Fra i soldati fa la comparsa il maggiore comandante del battaglione, seguito dal fido aiutante. Il maggiore deve essersi ripromesso di rinfran-care anche lui il morale dei combattenti usciti vivi dalla carneficina, con

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esortazioni ed esempi di figure eroiche (non si capisce cosa c'entri il re), ma si accorge di scivolare troppo sulla retorica creando stonature; allora lascia completare il discorsetto all'aiutante, il quale coglie al volo l'occa-sione di porsi di fronte all'auditorio facendo presente la gravità della si-tuazione (come se qualcuno avesse dei dubbi). Ed evocando il patriotti-smo risorgimentale, dichiara di essere pronto a immolarsi sul campo, il tutto sottolineato da un alternarsi di enfasi e sussiego. Più paternamente, il capitano Bauchiero raduna gli ufficiali superstiti della sua compagnia. Tre sono caduti sul Costesin e anche i loro plotoni sono stati annientati. Luca e Marchi stanno in piedi uno accanto all'altro. Luca ha una ferita al braccio, mentre Marchi zoppica, e pure gli altri, chi più chi meno, lamen-tano qualche guaio. Sono tuttavia cose di poco conto, considerando la giornata spaventosa. Il capitano ha la stessa faccia sciupata degli ultimi tempi, ma lo sguardo appare tranquillo, a volte sorridente. La sua calma non si incrina neppure in questa terribile circostanza. Ha parole di dolo-re per i morti della compagnia, senza distinzioni, anche se il più giovane dei tre ufficiali era figlio di un suo cugino. – Riguardo la situazione attuale vi parlerò con franchezza, – dice passandosi una mano tra i capelli. – Domani sicuramente gli austriaci at-taccheranno di nuovo e, ridotti come siamo, sarà dura tenere loro testa a lungo. C'è il rischio che una volta sfondato si trovino la strada spianata per scendere in pianura. Non esiste una seconda linea con cui tentare di arrestarli; e in verità non so cosa possa succedere, se non interverranno fatti nuovi per modificare il corso della guerra e volgerla a nostro favore. Purtroppo gli stati maggiori fanno affidamento solo sul valore della trup-pa, mentre da parte loro non è mai stata applicata una strategia, una mos-sa capace di sorprendere gli avversari. E adesso noi ne paghiamo il fio.Per soprammercato, a certi livelli non esiste nemmeno una stima recipro-ca, vedasi le sostituzioni a raffica di generali, quindi ben difficilmente ci sarà mai un'intesa comune per portarci alla vittoria; a meno che il soldato italiano sia talmente eroico, come hanno dimostrato oggi i fanti dell'Ivre-a, da essere più forte dell'inettitudine di chi ci guida, stando al riparo nei loro sicuri comandi. – Il suo tono di voce non è alterato né da passione né da veemenza. – Voglio chiarire meglio il mio pensiero: il mio atteg-giamento non è disfattismo e nemmeno ribellione dell'ultima ora, ma so-lo presa di coscienza della realtà di questa guerra. – Stringe la pipa nella mano abbandonata lungo il fianco. – Domani sapremo quale sorte ci ri-serverà il destino. Qualcuno di noi ci sarà ancora e qualcuno non ci sarà più. Dal canto mio sono orgoglioso di avervi conosciuto e di aver com-battuto con voi. – Guarda gli uomini di fronte con espressione serena, benché stanca. – Un'ultima cosa: rimanete vicini ai vostri uomini il più a

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lungo possibile. In questo momento non possiamo offrire loro null'altro che la nostra solidarietà. – Gli ufficiali della compagnia sono allineati tutti davanti a lui. Il capi-tano, partendo da sinistra va a stringere la mano a ciascuno di loro. – Buona fortuna, – ripete. Il suo sembra un commiato definitivo. Nel piccolo ricovero, in cui si sono ritirati Luca e Marchi, un luci-gnolo immerso in una lampada sporca di fumo manda un fievole barlu-me, appena sufficiente per rompere l'oscurità. Essi sono seduti per terra, la schiena contro una parete. Fumano, mentre rivivono con la mente gli orrori della giornata da poco conclusa. – Tu quanti uomini hai perso? – attacca a chiedere Marchi. Sembra una domanda banale, ma dalla sua voce trapela un'angoscia profonda. – Ho avuto due morti, tre feriti e un disperso. – – Io ho avuto solo morti nel mio plotone: addirittura cinque, – fa sa-pere Marchi. Il fumo delle sigarette si mischia con quello della lampada. Uno strato grigio è appeso al soffitto, e man mano che il fumo sale verso l'alto, lo strato cambia di forma al pari di una nuvoletta bizzarra. – Tu credi che domani sia il giorno decisivo? – domanda Marchi.

– Decisivo per lo sfondamento? Sì. Non può essere altrimenti, vi-sto l'attacco incredibile che gli austriaci ci hanno portato. – – Secondo me potremmo resistere un giorno o due, ma ormai non vedo come li si possa fermare. Già oggi, trattenerli è stato un miracolo. – – Tu hai avuto paura quando li hai visti venire all'assalto in quel mo-do? – – Durante l'assalto, no; ma prima, quando stavamo schiacciati in trin-cea, mi sentivo i brividi addosso. – – E adesso? – – Adesso provo come uno stordimento per tutte le immagini di morte che mi pesano dentro. – La nuvoletta di fumo ha preso la forma di un fiore dai petali scuri. – E se domani veramente ci capitasse qualcosa?– Marchi insiste con le domande. – Non è detto che tocchi a noi... E poi potrebbero dare l'ordine di ri-piegare. – La voce di Luca manca però di convinzione. Su di loro cade il silenzio; poi Marchi riprende a parlare:. – Io sto pensando a casa. Come la prenderanno a casa? Mia madre sempre così piena di premure, con lo sguardo ansioso... E mio padre così fiero di me, al punto che durante la licenza mi chiedeva di accompagnar-lo in giro con indosso l'uniforme, perché tutti vedessero i miei gradi di ufficiale. E imbattendosi in qualche conoscente andava ripetendo, allu-dendo a me: "Combatte in prima linea, a pochi chilometri da Trento! Lì è

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dura, eh. Lui non è imboscato come certuni che si danno delle arie senza combinare nulla. – Anche Luca sente il bisogno di confidarsi: – Fin quando non sono stato chiamato sotto le armi, io ho conosciuto ve-ramente la felicità. Sono vissuto in una famiglia che mi ha dato tutto l'af-fetto possibile. La mia infanzia, la mia giovinezza sono piene di bei ri-cordi. Poi ho incontrato una ragazza stupenda, e amandola mi sono con-siderato l'uomo più fortunato della terra. Ma forse ero troppo felice e il destino, come a volte succede, ha voluto punirmi, allontanandomi da lei e da casa. E come se ciò non bastasse, anche la mia vita è in pericolo. Tuttavia, sopporterei anche il pensiero della morte, ma mi addolora il sa-pere che le persone che amo debbano poi soffrire, nel caso dovessi rima-nerci. – Il dialogo si interrompe di nuovo, ma ancora una volta Marchi lo ri-prende: – Già da tempo, – dice mentre infila una mano all'interno della giubba, dalla quale ne cava una busta, – ho preparato una lettera per i miei genitori. Temevo che, prima o poi, sarebbe giunto il momento di farla loro avere. – La lettera è alquanto sgualcita e Marchi si prova a sti-rarla con le mani. – Vorrei affidarla a te, perché, nel caso peggiore, tu provveda a recapitarla. – Nel concludere la frase porge la busta a Luca, il quale fa il gesto di opporsi con il palmo della mano, come per un rifiuto, ben sapendo che il loro destino è legato a un filo. – Ma tutti e due abbiamo le stesse probabilità di sopravvivere o di morire, – dice per giustificarsi. Sul volto di Marchi affiora un sorriso mesto, e ciò basta per convin-cere Luca a prendere la lettera. La nuvoletta di fumo, sopra le loro teste, ondeggia da una parte all'altra del soffitto, mossa da un impercettibile soffio d'aria. Sorge l'alba del giorno 21. Tutti i calibri dell'artiglieria austriaca tor-nano a martellare le linee italiane. Si placano poco prima delle otto, in tempo per permettere alle loro fanterie di balzare in avanti. Sono ondate paurose che si abbattono sul Costesin. L'Ivrea non cede. Ma come pos-sono uomini normali, malnutriti, male alloggiati, esausti per le veglie, le guardie, spaventati dai bombardamenti, lottare con tanto accanimento? E per chi? Per che cosa? Non sono nemmeno mossi da ideali: l'amore per la patria, lo spirito di corpo, suscitano nella maggioranza solo indifferen-za. Eppure, dentro di loro ci sono forze oscure che li spingono a tenere posizioni ormai indifendibili, dimostrando un valore che va oltre ogni comprensione razionale. Il capitano Bauchiero è ucciso da una bomba a mano. Del plotone di Luca si salvano in pochi. Crocetti, il soldatino dall'aria spaurita, in sog-gezione di fronte agli anziani, che voleva guadagnarsi una medaglia per

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essere assunto nel municipio del suo paese come scrivano, cade trafitto da una baionetta, dopo aver fatto fuori un gruppo di assalitori a colpi di fucile, con una freddezza e una precisione incredibili. Anche Nardi, il giovanottone pronto alle burle, che di sovente si lagnava per la lontanan-za della ragazza, non uscirà più dalla trincea, al pari di tanti altri suoi sfortunati compagni. Con la mancanza di tempismo, tipica di chi non segue le fasi di un combattimento in prima persona, il comandante di divisione inoltra l'or-dine di ritirarsi. In queste condizioni di estrema confusione l'ordine tarda a giungere in linea. Proprio in quelle ore arrivano dalle retrovie alcuni battaglioni della brigata Alessandria, da poco fatta affluire nel settore. Le restanti forze dell'Ivrea li trascinano in un tentativo di contrattacco. L'ur-to e la sorpresa fanno arretrare il nemico verso il Basson, poi i reparti ita-liani, portandosi sullo slancio allo scoperto, offrono alle batterie austria-che un facile bersaglio. Tutta la rabbia, il coraggio, la tenacia del mondo non servono a nulla quando piovono granate sulla testa. È una strage.

Urla, bestemmie, richiami, gemiti, ordini accompagnano lo sgombero della piana di Vezzena, ormai perduta. Un sergente, lacero, di-sarmato, vaga solo sul campo di battaglia. Si china e guarda i corpi che giacciono a terra; sembra cercare qualcuno. Improvvisamente si mette a imprecare a squarciagola: – Un anno di fame, di patimenti, di morti: tutto per un cazzo. Affan-culo, re, generali, comandanti e tutte le balle con cui cercano di riempire le teste dei disgraziati come noi. – Si guarda ancora attorno, ma attorno ci sono solo cadaveri mutilati. Allora in un gesto di disperazione si cac-cia le mani nei capelli. – Venite a vedere cosa avete combinato: luridi bastardi, infami assassini…– Uno shrapnel si frantuma in aria, accanto a lui. Il rumore assomiglia allo scoppio dei mortaretti durante le sagre pae-sane. Una rosa di biglie d'acciaio investe il povero sergente. Le biglie a quella distanza agiscono come una mannaia: il suo collo è troncato di netto dal busto, mentre la bocca resta spalancata nell'atto di vomitare in-sulti. Il giorno dopo, nessuno sa valutare le forze superstiti. Luca e Marchi rastrellano gli sbandati, appartenenti ad altre brigate, e li aggregano ai lo-ro plotoni, ridotti a pochi elementi. Senza più un contatto diretto con qualcuno che dia ordini, essi rallentano di proposito la marcia per coprire i reparti sparsi nei boschi, in fase di arretramento verso Asiago. Le avan-guardie nemiche avanzano baldanzose, sicure come sono di trovare il ter-reno sguarnito. Nascosti in postazioni improvvisate, Luca e Marchi nota-no figure di soldati dall'aspetto giovanissimo penetrare fra l'intrico degli abeti. Essi procedono per nulla intimoriti, si direbbe passeggiando. A-

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desso le voci sono distinte, benché le parole siano incomprensibili. Gli occhi del nemico sono ridenti, di ragazzi, forse reclute. Chissà se sono contadini? Se sono contadini vivranno in qualche bella fattoria, circonda-ta da prati verdi, sui quali pascolano mandrie grasse. Ma ora che sono a pochi passi, l'espressione, la pelle bianca senza venature, le mani lisce che imbracciano il fucile, mostrano una provenienza cittadina. Po-trebbero essere studenti dell'ultimo anno di liceo. Forse ridendo prendo-no in giro qualche professore rimasto a casa a dar lezioni ad altri allievi. Sì, devono essere comunque reclute, altrimenti se avessero esperienza di guerra intuirebbero che alcuni tronchi accatastati all'uscita di una radura possono facilmente celare un'imboscata. Sono quattro e si muovono a contatto di gomito. Quando cadono, falciati dalla mitragliatrice, nello stramazzare al suolo i fucili volano via, lontani da loro. Cautamente, Lu-ca e Marchi strisciano fuori dal riparo e si avvicinano ai corpi inanimati. Sono morti tutti sul colpo. Il più giovane ha le sembianze di un fanciullo. La catenina d'oro lucente pende di sbieco sopra il colletto. Sul retro della medaglietta c'è una dedica: Deine Mutter. 14.2.1916. Luca ordina che i corpi siano seppelliti, ma alcuni soldati di un'altra brigata hanno un ac-cenno di rifiuto, sostenendo di essere in una zona troppo esposta. Luca si infuria e strattona il più anziano per un braccio. Gli altri subito si am-mansiscono, e tre mettono mano alle pale. Per precauzione egli manda un paio di sentinelle sul limitare della radura. La terra è umida e a scava-re una fossa non ci vuole molto tempo. Le salme vengono deposte una a fianco all'altra e sul tumulo è infissa una croce fatta con due rami. Gli ef-fetti personali prelevati dalle loro tasche sono lasciati accanto alla tomba, avvolti in un telo impermeabile, per facilitarne il riconoscimento, nel ca-so che altri loro commilitoni attraversino lo stesso tratto di bosco e si fermino in quel punto.

La mattina del 23 si annuncia con una fitta pioggia. I reparti italiani stanno ancora retrocedendo, mentre attorno alla

cintura di Asiago si lavora giorno e notte per apprestare una linea difen-siva, capace di bloccare l'avanzata degli austriaci. Questi nel frattempo dilagano, impossessandosi dei capisaldi italiani con azioni di sorpresa. Forte Verena, Bocchetta Portule, Porta Manazzo, da dove le artiglierie battevano i loro presidi, ora fan parte del bottino di guerra, e gli sforzi per riconquistarli falliscono.

Il maltempo si accanisce anche il giorno 24. Gli austriaci conso-lidano le posizioni occupate, e nello stesso tempo premono per allargare il dominio della zona che si inerpica lungo la dorsale del monte Ortigara, proprio sul ciglio dell'Altopiano. Luca e Marchi hanno finalmente ripri-stinato i collegamenti con il comando di battaglione, dal quale parte im-mediatamente l'ordine di proseguire a operare in copertura, con il compi-

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to di sventare colpi di mano da parte delle pattuglie nemiche, molto atti-ve nella fase di ripiegamento della divisione. Luca ritrova il nonno, un soldato esperto e coraggioso del suo plotone, rimasto isolato dopo lo sfaldamento dei reparti di prima linea, avvenuto durante l'assalto risolu-tivo degli austriaci sulla piana di Vezzena.

I plotoni di Luca e Marchi, ricomposti adesso con altri soldati dell'Ivrea, si sono appostati in un boschetto, nei pressi di una strada che conduce su in Val Gamarara, dentro la cui conca sono segnalati movi-menti di avanguardie. Giorno 25. Piove ancora e tutto è fradicio a causa del maltempo osti-nato. Il fango si gonfia e camminare diventa faticoso. L'erba è scivolosa, così dovendo superare dossi e declivi bisogna impegnare severamente i muscoli. Per ripararsi dall'acqua, i due plotoni si sono rintanati in una caverna, scoperta a ridosso di una massicciata, nel folto del bosco. Intor-no a mezzogiorno, gli uomini tirano fuori dallo zainetto i viveri di riser-va: scatolette di carne, formaggio e del pane, spugnoso per l'umidità. Poi, come per incanto, appaiono due borracce di vino. Il vino in prima linea, anche nei momenti di rifornimenti difficili o in quelli tormentati della battaglia, non è mai mancato. Fra la truppa corre voce che il vino (e tal-volta il cognac) è distribuito in dosi generose per infondere coraggio a chi ne è sprovvisto. Su questo punto sono tutti d'accordo: una bella bevu-ta scaccia la paura, ma anche il freddo e i malesseri provocati dal cattivo tempo. Fino alle tre, la zona appare molto tranquilla. Solo la pioggia dà un gran fastidio colando dalle fessure della roccia con uno sgocciolio sner-vante, formando per terra rigagnoli fangosi. Bisogna anche coprire la canna della mitragliatrice piazzata all'imboccatura, affinché non si bagni. Se non fosse per la pioggia, quasi quasi sembrerebbe... Alcuni spari rie-cheggiano nell'aria: non si capisce se vicino o lontano. Tutti si fanno guardinghi. Marchi si consulta con Luca e decide di andare a perlustrare i dintorni, prima di essere sorpresi da qualche pattuglia austriaca. Luca cerca di dissuaderlo per stare uniti, ma Marchi insiste. Prende con sé un paio di uomini, esce dal ricovero e s'inoltra nel bosco fitto di alberi gron-danti di pioggia. Passa un quarto d'ora, passa mezz'ora e Luca incomin-cia a spiare l'orologio, sempre più teso. Sono già quaranta minuti che Marchi è fuori. D'un tratto il fischio di tre granate, lanciate in successio-ne, lacera il silenzio del pomeriggio. Gli sguardi sono tutti rivolti verso l'alto. Le stime su dove vadano a esplodere si intrecciano tra i soldati. Il nonno, mentre accende di nuovo la pipa, propende per i trecento metri dalla loro posizione. Lo schermo del bosco impedisce di scorgere il pun-to dello scoppio, ma qualche attimo più tardi una nuvola scura si alza al di sopra delle cime degli alberi. Il nonno è indifferente ai complimenti

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dei compagni, che confermano la distanza da lui calcolata. Intanto il ri-tardo di Marchi preoccupa sempre più. Luca si agita: vorrebbe andare al-la sua ricerca. Non sapendo tenere a freno l'inquietudine, s'incammina per un tratto nella direzione presa dall'amico al momento di uscire. Lag-giù, nel folto del bosco, una figura umana si muove. Egli si appiattisce dietro un albero e sfila la pistola tenendola all'altezza della guancia, pronto a sparare. Per un paio di minuti rimane immobile, poi cautamente sporge la testa, facendo scorrere l'occhio lungo la linea di abeti in fondo alla quale ha intravisto l'uomo. Costui ora è accovacciato a terra, non molto lontano da lui. Luca riconosce uno dei soldati che accompagnava-no Marchi in ricognizione. Lo raggiunge di corsa, mentre un brutto pre-sentimento gli stringe la gola. Senza perder tempo, aiuta il soldato a rial-zarsi, lo scuote, benché ferito: – Dov'è il tenente Marchi? – L'altro stenta ad afferrare il senso della domanda. Forse ha subito uno shock. Alla fine, si riprende un po' e si sforza di rispondere: – Una bomba è scoppiata vi-cino a noi. – Parla spezzando le parole. – Il tenente Marchi è ferito alla pancia. Io venivo a cercare soccorso. – Nel frattempo spinto dal suo in-tuito sopraggiunge il nonno, al quale Luca affida il ferito. Poi, correndo a perdifiato si tuffa nel bosco, verso il punto dove ancora ristagna la nuvo-la dell'esplosione precedente. Marchi è sdraiato sulla schiena; con le ma-ni si comprime il ventre. Il suo sguardo è lucido, ma il volto esangue fa capire quale sia la gravità della ferita. Luca si inginocchia sulla terra ba-gnata e gli solleva la testa leggermente. Un senso di oppressione lo tiene inchiodato, impedendogli di dire o fare qualcosa. – Stavamo rientrando quando sono scoppiate tre granate; la terza qui a un passo da noi, – sussurra Marchi con un tono di voce, come se voles-se giustificarsi per l'accaduto. – Proprio l'ultima mi doveva fregare! – – Adesso ti porto al sicuro e vedrai che nel giro di un paio di setti-mane ti rimetti a posto. – Le parole escono dalla bocca di Luca con u-n'intonazione che vorrebbe essere di incoraggiamento, benché sia l’angoscia a dominarlo nel rendersi conto delle sue reali condizioni. – No, non ti muovere, – lo prega Marchi. – Ormai per me il destino è segnato. Una ferita come questa al ventre non perdona. – Lo dice come se facesse, lui quasi medico, la diagnosi a un altro. Piega lo sguardo sulle mani insanguinate, in apparenza senza provare turbamento. – Hai visto che avevo ragione a consegnarti la lettera per i miei genitori? – – Non stancarti. – – Ma non sono stanco. Anzi, ho l'impressione di essere leggero, co-me se avessi perduto peso. – – Senti male? – – Per adesso no, ma fra una decina di minuti incominceranno le vere sofferenze. –

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– Ma tu guarirai. – – No; io non posso guarire. Potrei resistere un'ora, una giornata ma con dolori atroci, e poi la fine sarebbe sempre quella. – – All'ospedale si prenderanno cura di te…– Marchi abbozza una smorfia. Le viscere messe a nudo premono contro le mani e lo squarcio obliquo non butta nemmeno più sangue. –Tra poco arriveranno gli austriaci...– Marchi si interrompe per prendere respiro: l'affanno incomincia a fargli sussultare il petto. – A-scoltami, – aggiunge bisbigliando e guarda Luca invitandolo con gli oc-chi a piegare la testa verso di lui. Luca appoggia l'orecchio alle sue lab-bra, ma dopo averlo ascoltato raddrizza il busto di scatto, stravolto. Mar-chi gli ha chiesto di ucciderlo per evitargli un'inutile e dolorosa agonia. Sempre con grande calma gli ha anche detto che se potesse lo farebbe da sé, ma levando le mani dal ventre gli si rovescerebbe fuori l'intestino. Luca è impietrito. – Ti prego, Luca. – È la prima volta che lo chiama per nome, e in quel nome c'è tutta l'amicizia, la sincerità, il coraggio di un uomo che domanda aiuto, in un momento in cui non esiste più alcuna speranza. Luca allora si decide: fa il gesto di prendere la propria pistola ma Marchi lo ferma. – No; usa la mia. – La pistola di Marchi è una Glisenti di cui egli è sempre andato orgoglioso. Luca gli slaccia la fondina e la impugna. –Ancora una cosa, Luca: seppelliscimi qui, in questo bosco, sotto un abete. – Allora gli punta la canna alla tempia ma esita a sparare. – Su, non aver paura, – lo incita Marchi e gli sorride. Luca preme il gril-letto: la pallottola trapassa la testa e si schiaccia contro un albero poco distante. Quando il nonno arriva guidando una squadra di soldati, scopre Luca che senza fretta sta ricomponendo il corpo dell'amico.

L'offensiva avversaria prosegue e investe l'intero Altopiano. Feroci

battaglie divampano ovunque. Gli austriaci hanno come obiettivo di guadagnare la pianura. Dalla loro parte ci sono: perfetto addestramento delle truppe, esperienza militare, abbondanza di mezzi moderni. Davanti però si parano ancora due ostacoli; due ostacoli in apparenza di poco conto: il monte Cengio e il monte Zovetto. Sul Cengio vengono du-ramente impegnati dai granatieri di Sardegna, i quali pur soccombendo riducono a mal partito gli assalitori. Ma altri reggimenti nemici si fanno avanti. La pianura è lì, sotto i loro occhi; qualche passo ancora e gli ita-liani saranno sconfitti forse definitivamente. Ma sull'Altopiano si affaccia la figura di un soldato di coraggio e di acume: il generale Achille Papa. Mentre egli sale lungo le pendici dei monti che si staccano da Piovene Rocchette, alla testa della brigata Ligu-

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ria, per rimpiazzare i vuoti nelle file di altri reparti, incontra, il giorno 5 giugno, alcuni generali delusi e sfiduciati dall'esito dei combattimenti. Essi si mostrano dell'avviso di ritirare dall'Altopiano le truppe restanti e tentare di sbarrare la strada al nemico che incalza, giù sul piano. Il gene-rale Papa si dichiara totalmente contrario a un'iniziativa simile. Traccia invece una linea di difesa che ha come cardine il monte Zovetto. Ed è una difesa talmente ben congegnata da non permettere agli austriaci di aprire alcuna breccia. La valorosa brigata Liguria è decimata, ma co-stringe gli avversari a ripiegare. Trovandosi con gli schieramenti perico-losamente sbilanciati, gli austriaci arretrano su tutto il territorio dell'Al-topiano, attestandosi su un fronte che dal monte Rasta corre su attraverso il monte Zebio, sino alle cime del monte Ortigara.

Fonti ufficiali calcolano che durante questa offensiva, chiamata dagli austriaci col nome di Strafexpedition, gli italiani abbiano avuto oltre 6000 morti, 41000 dispersi, 28000 feriti. Il termine disperso è un eufemi-smo per indicare nella maggioranza altri caduti, così come bisogna ag-giungere una quota di feriti (deceduti in un secondo tempo) al numero dei morti.

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Parte quarta

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I

febbraio 1919

SPIRO non tornò più dalla guerra. Egli scomparve nel nulla. Il suo nome risultava tra i dispersi, ma cosa gli fosse capitato non lo si seppe mai. Nelle sue ultime lettere aveva continuato a ripetere di considerarsi fortunato per essere in forza presso un comando di divisione – fuori dalla portata, – diceva scherzando, – delle artiglierie. – Verso la metà del '18, quando i combattimenti più violenti si spostarono sul Piave, la sua divi-sione fu mandata in quella zona, di rinforzo. E lì, mentre era intento a tracciare la mappa di un terreno circostante, si persero le sue tracce. Si sperò a lungo che fosse stato fatto prigioniero, ma risultò che nessuno degli appartenenti al suo comando venne mai a contatto diretto col nemi-co. Il suo destino si legò in maniera funesta a uno dei mille misteri che avvolsero quegli avvenimenti. Anche Guglielmo, marito di Adelina, cadde presso il Piave, nel settem-bre del '18. Egli avrebbe potuto starsene tranquillo a fare l'istruttore in caserma, ma cedendo all'impulso di partecipare alla lotta, chiese di esse-re inviato al fronte tra i suoi lancieri. Morì in una battaglia campale; una battaglia dove si lanciavano i cavalli al galoppo, per andare alla carica, gridando "Savoia!". Ecco, se Guglielmo avesse potuto scegliere in quale modo morire, la scelta non si sarebbe distaccata dalla forma in cui nella realtà avvenne. Nella carica, trascinando i suoi soldati, travolse alcune postazioni nemiche, e per l tale azione si meritò la medaglia d'argento. Luca, invece, che aveva vissuto per oltre tre anni a contatto con la morte, rimanendo ferito due volte e meritandosi altrettante medaglie, riuscì a scamparla. Ma a casa lo trovarono completamente cambiato. Nell'aspetto si era fatto più uomo: la pelle tesa sugli zigomi, l'occhio più severo, il gesto secco di chi è abituato al comando, ne facevano quasi un'altra per-sona. Al di là delle sembianze fisiche, era però il carattere che i familiari non riconoscevano più. Già il giorno seguente l'arrivo, il sorriso era scomparso dalla sua espressione. Si mostrava taciturno e, di fronte alle premure di tutti, assumeva un atteggiamento talvolta scostante. Non vo-leva parlare della guerra e di come l'aveva vissuta. Nemmeno le ferite

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subite e le medaglie guadagnate lo invogliavano a confidarsi. Questi due argomenti parevano anzi irritarlo. Rimaneva rinchiuso per ore in camera sua, e quando usciva se ne andava a strane riunioni di ex commilitoni. Di frequente passava la notte fuori. La signora Annalisa se ne accorgeva perché vedeva il letto intatto; allora scuoteva il capo, amareggiata. Con più comprensione il signor Teresio cercava di giustificare il comporta-mento del figlio, sostenendo che esistono non poche difficoltà nel pas-saggio da una vita militare così dura a quella civile. – E dobbiamo rin-graziare il Signore, – diceva, rispondendo alle lagnanze della moglie, – che ci sia tornato a casa sano e salvo. – Poi per rincuorarla aggiungeva: – Diamogli un po' di tempo per ambientarsi di nuovo e ritroveremo il Luca di qualche anno fa. – Anche il legame con Camilla era mutato. Lei aveva atteso il suo ri-torno, giorno dopo giorno, con una trepidazione che alla fine era diventa-ta ansia. Ma nel rivederlo scoprì un Luca diverso: freddo, incapace di provare le emozioni di un tempo. Nonostante ciò non si lasciò vincere dalla delusione, convinta che l'aridità dentro di lui si sarebbe dissolta presto. Talvolta però in sua presenza avvertiva come un disagio. Luca si chiudeva in ostinati silenzi, e di fronte ai suoi tentativi per avviare una conversazione rispondeva con distacco. Poi vi era quella sua aria assente, come chi ha il pensiero rivolto altrove, tanto che a volte si sentiva come un’estranea. E anche quando gli si offriva, le labbra non avevano più quel calore, la voglia di contatto fisico, che ricordava così lucidamente. Essendo però di carattere tenace, non si dava per vinta. Riuscì a convin-cerlo che distrarsi, come facevano prima della guerra, lo avrebbe aiutato a ritrovare la serenità di un tempo. Camilla propose così di uscire a cena, in un ristorante del centro. La sera dell'appuntamento, lei impegnò tutta l'arte della seduzione per riaccendere in lui la passione spenta. Non volle usare l'automobile, che ormai guidava abitualmente, ma proprio per rivi-vere i tempi più romantici dei loro primi incontri, si recò in via Torino, dove lui abitava, con la carrozza condotta dal vetturino di casa. In quel-l'occasione, Camilla era ancora più affascinante. Indossava un vestito fresco di sartoria, e il suo viso, i suoi occhi fulgidi, traboccavano di sen-sualità. Luca ne parve conquistato, e appena preso posto al tavolo del ri-storante, sotto la cascata di luce dei lampadari, si incantò a guardarla, mentre lei scorreva il menu. Si accorse di come il suo fascino attirasse l'ammirazione di molti presenti, alcuni dei quali le lanciavano occhiate furtive, quasi incapaci di contenersi. Un cameriere, dalla giacca bianca guarnita di bottoni dorati, sgambettò intorno a loro tenendole gli occhi addosso. Poi con la scusa di portarle una rosa in omaggio, il maître si ac-costò al tavolo, dilungandosi in cerimonie e sottili complimenti, finché Luca, non proprio educatamente, tagliò corto invitandolo a prendere le

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ordinazioni. Una volta allontanatosi, Camilla si sentì in dovere di pren-dere le sue difese.

– Ti costava tanta fatica essere meno brusco? Dopo tutto faceva il suo lavoro, – disse con tono di leggero biasimo.

– Macché suo lavoro! Voleva semplicemente fare il cascamorto, – ribatté Luca. – Perché non va laggiù vicino alla finestra, dove siede quella mummia? – aggiunse e indicò con il mento una signora anziana in compagnia forse del marito, pochi tavoli più in là.

Tornò il cameriere dai bottoni dorati e, sogguardando con timore Luca come se fosse stato messo sull'avviso di che tipo di cliente scorbu-tico egli fosse, con tutta la cortesia possibile ed evitando di fissare Ca-milla, chiese se avessero già scelto cosa prendere. Per riuscire simpatico, il cameriere consigliò con molto garbo un secondo piatto che doveva es-sere l'orgoglio dello chef, e un vino di prima della guerra, di cui fece un elogio persino esagerato. Mentre mangiavano, Camilla, nell'osservare Luca, si ritrovò a pensare a come anche il suo contegno fosse cambiato. Riscontrava nel gesticolare, nel portare le posate alla bocca, nel bere a sorsi avidi, un che di grossolano. Lo sorprese con i gomiti scomposti sul tavolo, la testa che toccava quasi il piatto, mentre roteava gli occhi attor-no come fanno gli animali intenti a difendere il loro pasto. Se ne vergo-gnò un poco, ma non pronunciò parola. Luca però si avvide dall'espres-sione di disappunto che qualcosa nel suo comportamento la urtava. Si passò il dorso della mano sulla bocca e deglutendo con decisione per li-berarsi in fretta dal cibo che ancora stava masticando, disse con voce provocatoria:

– Lo so cosa pensi. – – Ti stavo solo guardando, ma con tutta sincerità non pensavo a nul-la, – rispose Camilla pacatamente, cercando di non contrariarlo. – No, tu stavi pensando che un po' ti disgusto per il modo in cui mangio. –

– Ma non è assolutamente vero! – – È vero, sì! Certo, io non ho più la classe, il gesto di tanti damerini rimasti comodamente lontani dalla guerra. – – Io non ti ho fatto nessun rimprovero, sei tu che vai dicendo cose in-giuste anche verso persone che nulla hanno a che vedere con te. – – Però vorresti che fossi ancora il Luca di un tempo: quello pieno di premure, di smancerie, pronto a far discorsi da innamorato. – – Nessun altro meglio di te può conoscere i tuoi sentimenti. Io, i miei sentimenti li conosco bene e sono limpidi come l'acqua. – – Ma adesso voi borghesi vorreste insegnare a noi reduci un sacco di cose. Questo non si fa, questo non si tocca, di lì non si passa. – – Io capisco cosa tu possa aver provato...–

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– No; tu come gli altri non capisci nulla; fate finta di mostrare pena e comprensione per chi è stato in guerra, ma in fondo non ve ne frega un fico secco. –

– Invece io capisco, – insistette a dire Camilla. – Tu non puoi; tu non puoi capire cosa significhi stare inchiodati per giorni e giorni in una lurida trincea, con i morti rigidi in pose orrende, con l'odore schifoso di orina e feci che ti tagliano il respiro, e rosicchiare un pezzo di pane ammuffito, mentre fissi il buio della notte, con il terrore di essere sorpresi da un attacco; e il non dormire per non crepare asfis-siati quando lanciano bombe a gas; e sentire le ossa scricchiolare per il freddo e la posizione di immobilità mantenuta per ore e ore. – – Ma adesso tutto è finito. – – Per chi non l'ha fatta, la guerra è finita. Ma anche se i fucili non sparano più, la mente non può liberarsi dai ricordi come se fossero spaz-zatura da buttare. – – Lo so che i ricordi pesano! – Camilla tentava in tutti i modi di as-secondarlo e di essere comprensiva, per evitare che il suo animo precipi-tasse senza più freni in una esplosione di collera. – I ricordi ti stanno dentro appiccicati; anzi bruciano più adesso che durante gli ultimi mesi di guerra, ma per la gente bisogna dimenticare al-la svelta. – – Tu Luca non puoi odiare tutti quanti, solo perché hai sofferto. – – Io non odio nessuno. – – Se non è odio è indifferenza. Di chi ti importa ancora? Non di me, non dei tuoi familiari, e nemmeno la notizia di Spiro ti ha scosso. – – Spiro è morto solo una volta, io è come se fossi morto cento volte. – La voce di Luca si era fatta concitata, ma Camilla non era più disposta a sopportare il suo tono insolente, e d'improvviso non fu più capace di dominare l'indignazione. – Se anche io ti amo, tu non ti puoi permettere di farmi pesare il tuo passato quasi ne fossi la colpevole. – Ormai Camilla aveva perso pazien-za e affabilità. – Fin dal primo giorno che sei tornato, io ti sono stata ac-canto, e anche quando eri laggiù al fronte il mio pensiero era sempre per te. Tu hai patito, è vero, ma non credi che il rimanere costantemente in ansia per qualcuno, non riuscire a scacciare la paura che da un momento all'altro possa arrivare un telegramma da un comando militare, che in-cominci con le parole: "Siamo dolenti informarvi..." non sia altrettanto terribile come combattere? – – Non lo so. – – Ah, non lo sai; non lo sai perché il tuo egoismo ti impedisce di ca-pire che non c'è solo un tipo di dolore. C'è per chi soffre ma anche per chi assiste alla sofferenza. –

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– Finalmente mi è possibile capire come la pensi. – – E non solo sei egoista, ma sei anche un violento. Ti ho visto come ti comporti con la gente: sempre ringhioso, sempre pronto a provocare per attaccar briga. Te li ricordi gli interventisti alla vigilia della guerra? Ecco, tu sei come loro, se non peggio! Loro se non altro si battevano per una ragione politica, mentre tu come giustifichi il tuo comportamento? – – Se il mio comportamento non ti piace più, c'è solo una cosa da fare: lasciarci. – La discussione era ormai scaduta a diverbio, e alcune persone dei tavoli vicini si erano girate dalla loro parte, rese curiose dai toni sempre più accesi. – La proposta l'avevi già bella e pronta da tempo, non è vero? – disse pungente Camilla, guardandolo diritto negli occhi. – Non c'era niente di premeditato, solo che mi sembra patetico conti-nuare una relazione con una donna che non mi considera più alla sua al-tezza. – – Io non ho detto questo, ma ho espresso unicamente delle opinioni su come ti vedo adesso. – – Allora sai cosa ti dico: passa le tue serate con le tue opinioni. – Lu-ca sbatté il tovagliolo sul tavolo e si alzò buttando indietro la sedia. Era furente e le parole gli uscivano di bocca con veemenza. – Giacché sei in piedi, te ne puoi andare anche subito. Mi sei odioso e insopportabile. – – Tu non solo sei una ricca viziata, ma anche presuntuosa; e mi ac-corgo, purtroppo tardi, di aver sprecato il mio tempo con te. – – Ti suggerisco di non sprecarne altro. Addio! – disse seccamente Camilla, mentre ormai tutto il ristorante seguiva la lite. – Addio! – E mentre Luca le voltava le spalle per avviarsi verso l'u-scita incontrò lo sguardo di un vicino di tavolo, carico di riprovazione per quella scenata di certo insolita per un ambiente così raffinato. – Perché non si impiccia degli affari suoi? – lo investì Luca. – Lo farò, ma lei intanto avrebbe bisogno di imparare la buona cre-anza, – trovò il coraggio di ribattere l'interpellato. Luca con uno spintone lo scaraventò per terra, ma subito nacque un parapiglia con altri due commensali che si erano intromessi a difesa del malcapitato. Senza trop-pa fatica si sbarazzò di loro, dirigendosi di nuovo verso l'uscita. In cima al salone, gli si parò davanti il maître, lo stesso che si era intrattenuto al loro tavolo, e di certo per mostrarsi persona di polso di fronte ai clienti, volle affrontarlo per fare le sue rimostranze:

– Lei, mio caro signore dovrebbe vergognarsi per ciò che ha commesso. Questo è un ristorante frequentato da gente di...– Luca non gli diede il tempo di ter-minare la frase, e con uno strattone se lo tolse dai piedi, oltrepassando la so-glia del locale.

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II

marzo 1919

LUCA lasciò la famiglia per andare a vivere da solo, in una pensione di via Meravigli. Nella pensione rimaneva giusto qualche ora per riposa-re, e non sempre di notte, mentre nel tempo restante si accompagnava a degli ex ufficiali, come lui, impegnati a raccogliere adesioni per un nuo-vo partito: i Fasci di combattimento. Tale partito si proponeva come an-tipartito, contro la monarchia, la Chiesa, il bolscevismo, e a favore dei reduci e della nazione. Era capeggiato dal direttore del giornale Il Popolo d'Italia, Benito Mussolini, già noto per la sua posizione in appoggio al-l'interventismo. I Fasci di combattimento cercavano di far breccia nelle masse più con l'azione che con la parola. I militanti erano inclini ad ado-perare maniere spicce e manganelli, piuttosto che la dialettica, un'arma secondo loro di troppo lenta persuasione e non adatta al popolo privo di istruzione. Nel circolo dove Luca si recava per discutere con gli altri aderenti i pro-grammi da svolgere, aveva conosciuto un capitano di cavalleria, di nome Renzi, congedato da qualche settimana, il quale a differenza di certi ca-merati non si vantava delle imprese compiute in guerra, ma guardando avanti (era una sua espressione ricorrente) si dichiarava pronto a im-pegnarsi in una causa che spazzasse via tutte le incertezze politiche del momento. – Due sono i partiti che possono far presa sulla gente: il partito bol-scevico e quello fascista. Entrambi essendo di formazione recente, hanno la stessa possibilità di affermarsi. – – Ma ci sono anche i socialisti e i liberali, – obiettava Luca. – Se questi non sono stati capaci di sfruttare le opportunità, nel corso degli anni a loro favorevoli, figuriamoci adesso! – – Tuttavia il partito socialista è sempre una forza che rappresenta i lavoratori. – – Ascolta: io nella vita civile esercito la professione di avvocato, – diceva Renzi. – Ecco, il partito socialista è come un avvocato che si oc-

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cupa di certe cause quando il cliente è in difficoltà, e poi lo abbandona al proprio destino. – – Ammesso che i bolscevichi prendano il loro posto nelle ideologie dei lavoratori, quale linea di condotta sceglieranno? – – Per loro il modello attuale resta la rivoluzione russa, perciò, se do-vessero conquistare il potere, industriali e borghesi se la vedrebbero brut-ta. – – Non è un'allegra prospettiva! – – I tempi d'altronde sono questi: forza e moderazione non possono coesistere, e il primo ad accorgersene è stato Mussolini che, come vec-chio socialista, ha capito al volo la situazione, cambiando bandiera e mettendosi alla testa di questo nuovo partito. – – Stando così le cose, se davvero noi del Fascio vogliamo emergere, lo possiamo fare esclusivamente sul piano fisico, misurandoci con gli al-tri partiti e in particolare modo con i bolscevichi. – –E qui, – puntualizzava Renzi, – siamo noi in vantaggio. La maggio-ranza dei nostri iscritti o simpatizzanti è composta di reduci e, si sa, la violenza che ci ha contagiato in guerra non è roba di cui ci si possa sba-razzare facilmente, come pretenderebbero i nostri governanti, smobili-tandoci e mettendoci a riposo senza riservarci più alcuna attenzione. – – Allora, secondo il tuo punto di vista, l'attuale periodo è da conside-rare come una tregua armata, in attesa di scendere nuovamente in campo. –

– Credo proprio di sì. –

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III

aprile 1919

NON poteva andare diversamente! Troppe provocazioni, troppi tu-multi si erano verificati nelle ultime settimane a Milano, perché la gente se ne rimanesse zitta e buona. Le forze operaie, stanche inoltre di prote-stare a vuoto contro il rincaro dei prezzi, i salari inadeguati, la disoccu-pazione, le condizioni sociali miserevoli, si mobilitano proclamando per il 15 aprile uno sciopero generale. In altri tempi forse la popolazione sa-rebbe rimasta tranquilla, ma con le notizie che provengono dalla lontana Russia, è difficile non farsi contagiare dallo spirito di emulazione. – Se in un Paese così vasto, – si sostiene, – così saldamente in mano ai pro-prietari terrieri e agli industriali, in difesa dei quali vigilava un'autorità tra le più repressive, i proletari sono stati capaci di insorgere, perché, con un po’ più di coraggio, non potremmo fare altrettanto noi qui in Italia? – I più scalmanati incitano i compagni: – Allora, dai, fuori le bandiere ros-se, i ritratti di Lenin e scendiamo in piazza! – Malgrado la guerra appena finita, le privazioni e adesso anche la "spagnola", la terribile epidemia che miete intere famiglie, la protesta, sempre più veemente, rimbalza dalle fabbriche alle periferie.

Giorno 15 aprile: la gente scende in piazza. Parte dei dimostranti, sono gli stessi che da giovani avevano partecipato ai moti del '98, scontrandosi con i soldati del generale Bava Beccaris. Anche le donne mostrano l'i-dentico coraggio di quelle scese a battersi in quei giorni sanguinosi. Esse marciano in testa alla colonna che si snoda lungo le vie del centro, sven-tolando bandiere con la falce e il martello e inneggiando alla rivoluzione. Per fronteggiare i manifestanti, un corteo composto in prevalenza di uffi-ciali, reduci di guerra, e guidato dai capi dei Fasci di combattimento, si muove attorno a piazza del Duomo con il pretesto di inscenare una con-tro dimostrazione, ma in effetti con la volontà di arrivare allo scontro fi-sico, per impartire una lezione agli oppositori. Il corteo procede secondo uno schema prettamente militare: dapprima un'avanguardia, il grosso al

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centro e sui fianchi delle squadre per prevenire infiltrazioni o attacchi di sorpresa. Luca comanda una di queste squadre, che opera in copertura, mentre un'altra più avanti è affidata a Renzi. Quasi tutti sono armati di pistole, pugnali e randelli. Sulle divise del Corpo di appartenenza, i de-corati hanno appuntato le medaglie. Sfilano, dando l'impressione di esse-re in parata. Voci senza volto da dietro le imposte li insultano. Gruppi di giovani, riparati nelle viuzze, fanno sberleffi, pronti a sparire nei cortili dei vecchi palazzi all'accenno di qualsiasi reazione. Uno di loro, non ab-bastanza agile, è rincorso e agguantato da un soldato degli Arditi, piom-bato su di lui con uno scatto rabbioso. Il giovane, picchiato a sangue, viene lasciato mezzo svenuto per terra. Una vecchia, incerta sulle gambe, sputa addosso ai militari. Qualcuno vorrebbe assestarle una randellata, ma Renzi interviene per tempo. Anche Luca ha il suo bel daffare per trat-tenere i più turbolenti, decisi ad aggredire chiunque indossi un abito civi-le. Gli animi si vanno sempre più riscaldando. Inaspettatamente, una pic-cola folla di gente ben vestita applaude il passaggio dei soldati, e tale improvvisa simpatia rende ancora più spavaldi gli uomini in uniforme. Piazza San Fedele, la Galleria, corso Vittorio Emanuele e tutto il perime-tro intorno al Duomo è presidiato da reparti di carabinieri, mobilitati per impedire scontri tra le due fazioni. Al di là di questa cintura di sicurezza, già si profila la testa della colonna dei bolscevichi. Le bandiere rosse e i ritratti di Lenin ondeggiano sopra la ressa vociante. Si ode netto il coro delle urla: – Viva la rivoluzione! Viva i proletari! Morte ai capitalisti e ai loro servi! – Anche la colonna dei soldati avanza dalla parte opposta, ed entrambe sono ormai a breve distanza dalle forze dell'ordine. Le due co-lonne si arrestano. Per qualche istante un silenzio irreale aleggia tutt'in-torno; ma subito uno scambio di minacce tra alcuni contendenti fa rie-splodere la collera. Un cubetto di porfido vola sulle teste degli ufficiali e un rivolo di sangue tinge una fronte. Come a un segnale, i loro pugni si sollevano in alto, tutti d'improvviso armati. Pistole, pugnali e randelli fanno ammutolire le prime file della colonna antistante. I carabinieri, sot-to la spinta degli ufficiali, cedono, aprendo un ampio varco nel quale si incunea una formazione di aggressori. I dimostranti civili rinculano per mettersi al riparo, ma la massa arretrata non permette di ripiegare pron-tamente. Una serie di spari semina paura. I randelli si abbattono ripetu-tamente sulle teste dei malcapitati. Gli ufficiali, seguendo una mossa preparata, tagliano la colonna in più tronconi con il proposito di scompi-gliarla. I colpi continui d'arma da fuoco sovrastano il clamore delle voci. Colti dal panico, adesso i civili si riversano di corsa lungo la ragnatela di strade che si diparte da piazza del Duomo. Alcuni, sfiorati dai proiettili, si buttano a terra, spaventati. È in atto una caccia crudele nella quale la furia degli inseguitori si sfoga in pestaggi. Ma i bolscevichi, quelli più di

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fegato, si ricompongono, decisi a difendersi. Anche in mano loro ap-paiono rivoltelle coltelli e bastoni. La lotta si riaccende feroce. Molti mi-litari sono feriti e i commilitoni li vendicano accanendosi su qualsiasi avversario capiti loro a tiro. Sul selciato rimangono quattro morti. Una piccola folla si lancia in una fuga precipitosa lungo la via Dante, verso il castello Sforzesco, con alle calcagna una turba inferocita. In fondo alla via, altri civili sono raccolti intorno al monumento di Garibaldi, sul cui piedistallo si issa un oratore improvvisato, che incita, in nome della rivo-luzione, a non cedere alla brutalità fascista. Un soldato in divisa da Ardi-to si avventa su di lui e lo pugnala, sotto gli occhi sbigottiti della gente. Tanto odio non si era visto nemmeno in guerra! Renzi si ritrova a un tratto solo, circondato da tre dimostranti. Una ba-stonata lo colpisce su una gamba e una seconda lo prende di striscio sulla testa. Barcolla, e se la vedrebbe brutta se Luca, che lo segue a distanza, non intervenisse con tempestività, sparando subito due colpi in alto. Quindi strappa il bastone dalle mani di un assalitore e lo cala più volte su di loro, sino a mettere in fuga i malintenzionati. La strada in quel tratto adesso è deserta, allora si prende cura di Renzi. Dà un'occhiata alla ferita e con il fazzoletto ripulisce il sangue ancora tiepido sui capelli. Un improvviso grido di donna lo interrompe. E un grido di aiuto, di disperazione. Luca si guarda in giro, attento a capire da dove provenga. Senza aprir bocca lascia l'amico che si sta riprendendo, e svoltando l'an-golo subito appresso, si butta nel vicolo laterale. Il grido si ripete ma non è più così acuto; è ancora distinto ma si va spegnendo sino a trasformarsi in un rantolo. Luca si ferma e finalmente individua il posto dal quale giunge quella voce di donna. È un androne cieco, dalla volta non più alta di un uomo, incassato tra due edifici. Per terra c'è una ragazza. Sopra di lei un soldato con i calzoni metà calati, la sta schiacciando con il suo pe-so. Stringe in mano un coltello e lo punta alla gola della ragazza, che ha un'espressione atterrita. La gonna è rivoltata in su oltre le cosce nude; le ginocchia divaricate in alto. Mentre la violenta il soldato sghignazza e la insulta, dandole della troia bolscevica. Il soldato non si è accorto del so-praggiungere di Luca, ma la ragazza gli rivolge occhi imploranti. Luca è preso da una vampa di rabbia. Il senso di violenza che cova in lui diventa irrefrenabile, come per un raptus. Di scatto impugna la pistola e con il calcio colpisce con furore l'uomo, che si stacca al pari di una bestia dal corpo della ragazza. L'uomo ha ancora lo sguardo velato dall'ebbrezza del coito; fissa il vuoto incapace di qualunque reazione. Trova la forza di abbozzare un sorriso, per far intendere che dopotutto loro due sono della stessa parte. – È una sporca bolscevica! – dice infine, come per giustifi-care la sua turpe azione. Luca non lo sente. Gli appoggia la pistola alla

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tempia, mentre gli occhi dell'altro sembrano schizzar fuori dalle orbite. Il dito di Luca si contrae sul grilletto. – Aliprandi, per l'amor di Dio, fermati! – L'invocazione di Renzi, che ha appena messo piede nell'androne, si leva alle sue spalle. Luca sbatte le palpebre e si riscuote, solo ora cosciente di ciò che stava per commettere.

Verso sera nel cielo si addensano oscuri nuvoloni. Si scatena un

temporale accompagnato da una grandinata che convince i dimostranti a disperdersi.

L'indomani lo sciopero prosegue, ma fortunatamente le violenze del giorno prima non si ripetono.

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IV

giugno 1919

SCACCIARE dalla mente l'immagine di Camilla non era per lui faci-le. In certi momenti, specie appena a letto, le stesse immagini si affac-ciavano con tale prepotenza che finiva col perdere quel poco sonno cui era abituato. Allora Luca accendeva una sigaretta, seguendo le volute che si torcevano verso il soffitto, ma il fumo, invece di sopire il ricordo di lei, lo alimentava. Talvolta il pensiero prendeva corpo e diventava pa-rola. Senza avvedersene le labbra si muovevano, in un sussurro: "Come vorrei che nulla fosse cambiato! Aspettarla sotto casa, salutando-la con un bacio, e poi correre lontano dalla città, dalla gente. Noi due so-li, pieni di voglia di vivere, così come succedeva prima della guerra". Il fumo disegnava arabeschi. Con il mozzicone accendeva una seconda si-garetta. "Perché ogni cosa mi appare così distante? Perché sento di amar-la ancora tanto e non trovo la forza di tornare da lei?". Si obbligava a guardarsi dentro per cercare una spiegazione al suo modo di essere. "Ma cosa diavolo ho nella testa? Riuscirò mai a tornare come un tempo?". Domande che rimanevano sospese, senza risposta. Per superare il disagio si alzava, spalancava la finestra, lasciando cadere lo sguardo sulla via de-serta, rischiarata da una fila di lampioni. Da piazza Cordusio sbucava una carrozza e lo stridore delle ruote sul selciato di pietra interrompeva il corso dei suoi pensieri. La carrozza, illuminata malamente dalla lucerna, avanzava come una macchia scura, traballando. Il vetturino stava rannic-chiato a cassetta, mezzo assonnato, le redini tenute fiaccamente in mano. Al momento di passare sotto la finestra, gli zoccoli del cavallo mandava-no un suono metallico, cadenzato. Poi la via tornava a farsi silenziosa. La luce della notte spioveva sui tetti, scivolando sulle facciate delle case. Quel senso di pace lo trasportava con la mente lì, poco lontano, dove abi-tavano i genitori. Guardava l'orologio e se mancava poco all'alba gli ve-niva da pensare alla Marta, già in piedi come sua abitudine. Per prima cosa si sarebbe infilata in cucina a far bollire il caffè: e quel buon odore

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di caffè si sarebbe sparso per le stanze. Gli bastava dilatare un po' le nari, per sentirlo ancora, quel buon odore. Volendo vincere la noia di certe serate vuote, si era messo con una gio-vane signora, incontrata a un ricevimento, in casa di conoscenti. Lei ave-va perso il marito in guerra, nel '17, e questo argomento era stato lo spunto per scoprire una reciproca simpatia. Come donna non era per niente male: sulla trentina, attraente, con un bel portamento. Conversan-do, sapeva interporre quei giusti stacchi per farsi apprezzare dal-l'interlocutore. Anche il gesto era misurato. Nella circostanza, indossava un vestito appariscente, senza però essere in contrasto con il buongusto. Dopo quel primo incontro era trascorsa una settimana, quando Luca tor-nando alla pensione dove alloggiava, trovò una busta su cui risaltava una calligrafia femminile. Era un invito. La signora del ricevimento dava a sua volta una festicciola, e si diceva felice di averlo tra gli ospiti. Egli vi andò. Al termine della serata lei seppe trattenerlo abilmente, mentre gli altri invitati si congedavano. Non parlò più del marito, ma pilotò la con-versazione in modo da conoscerlo meglio, ponendo, con molto tatto, tut-ta una serie di domande. Parlò anche di sé, e con sapienza tipicamente femminile, toccò a più riprese il tasto della solitudine, affermando di non aver ceduto a nessuna lusinga maschile dal quando era rimasta vedova. Dopo la disgrazia del marito, era quella la prima volta che si sentiva at-tratta da un uomo. Lo confessò con un sussurro, dosando la frase con garbo per non apparire sfacciata. Confessò anche di essere rimasta col-pita subito da lui, prima ancora che si presentassero, là, al ricevimento. E anche adesso, mentre erano soli, si sentiva turbata, al punto di provare una sensazione di malessere. Luca la baciò a lungo e lei rispose con una passione forse troppo a lungo rattenuta. Poi la frugò sotto gli indumenti intimi, e intanto che la esplorava sentì sulle mani i fremiti liberati dalla sua pelle. Facendo l'amore, la gola di lei era percorsa da gemiti ora vio-lenti ora fievoli. Aveva un seno magnifico, forte, con un capezzolo li-scio, di un bel colore bruno. Nel contatto fisico, il suo corpo emanava un calore fatto di desiderio, guizzi, piacere. Il volto, pur contraendosi per le sensazioni provate, rimaneva pieno di grazia. Si placò solo verso il mat-tino, prendendo sonno con un lungo sospiro che tradiva tutto il suo ap-pagamento. Luca continuò a frequentarla, tuttavia questi tentativi di stordirsi, met-tendosi con un'altra donna, non riuscirono a distaccarlo con la mente da Camilla. Che amasse qualcun'altra, alla fine se ne accorse anche la gio-vane vedova, ma pur di non perderlo si disse disposta a rimanergli accan-to con discrezione.

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V

settembre 1919

VERSO la fine del mese Luca si recò a Roma per delle riunioni di partito. A Roma non aveva incontrato l'entusiasmo di Milano e di altre città. Non che mancasse l'interesse per i Fasci, ma là scarseggiavano gli attivisti disponibili a far propaganda, illustrando alla gente i nuovi ideali in cui credere. La pigrizia dei capitolini fungeva da freno, e per scuotere un po' l'ambiente si erano mossi loro da Milano. Luca però si sentiva alquanto deluso. Anche laggiù si erano scontrati con dei gruppi avversari e ne erano venute fuori le solite risse. Era chia-ro: ci si voleva imporre a tutti i costi attraverso la forza. Ormai, visto che le idee del partito stentavano a far presa sulle classi più povere, si ricor-reva spudoratamente all'uso costante del manganello. Se dapprincipio si considerava d'accordo sui modi duri e sbrigativi, a lungo andare l'osti-narsi su questa linea gli pareva insensato. Il popolo non condivideva i mezzi brutali dei fascisti. E per convincere il popolo, cosa bisognava fa-re? Mettere in fila trenta milioni di italiani e bastonarli tutti? A chi spet-tava poi mettere in fila trenta milioni di italiani per bastonarli, promet-tendo che in seguito ogni azione sarebbe rientrata nella legalità? Bella la vita per Mussolini! Lui amava fare l'oratore, arringare la folla (in mag-gioranza curiosi), stringere un po' di mani e lasciare a loro, braccio arma-to del partito, di vedersela con la rabbia dei rossi, cui bisognava aggiun-gere i monarchici. Anche Renzi incominciava ad averne le tasche piene del caporale (così chiamava Mussolini per il grado rivestito in guerra dallo stesso). Tra i militanti della prima ora, in gran parte reduci, dopo l'esaltazione i-niziale, in diversi si erano ritirati dalle file fasciste, lasciando il posto a un'accozzaglia di avventurieri e ribaldi che si trovavano a loro agio nel commettere soprusi e violenze. Al rientro a Milano, un messaggio di tre giorni addietro avvertì Luca di andare con urgenza a casa dei genitori. Cos'era successo di così grave? Fino allora non lo avevano mai disturbato, accontentandosi delle brevi visite che egli faceva loro, saltuariamente. Il tempo di riordinarsi e quin-

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di si incamminò verso via Torino. Ad accoglierlo venne la Marta, ormai anziana, con le gambe gonfie che trascinava come se fossero di legno. La Marta si emozionava sempre nel rivederlo. La signora Annalisa e il mari-to sedevano in salotto. Sui loro volti si leggeva un'aria mesta. Appena scambiati i saluti, egli prese posto di fronte e rimase a fissarli. – È morta nonna Emilia, – disse con tono spento il signor Teresio. – Pensavamo di trovarti al tuo indirizzo, ma abbiamo saputo che eri andato a Roma. – – Era molto vecchia, nonna Emilia, – disse Luca senza tradire nessu-na pena. – Sì, era vecchia, nonna Emilia, – ripeté il padre, mentre una ruga gli solcava la fronte e il suo sguardo si perdeva nel vuoto.

– Quando hanno fatto il funerale? – – Due giorni fa. – – Siete andati entrambi? – – Sì. – – Di che cosa è morta? – – Non è certo: forse anche di spagnola. – – Ma la spagnola mette la febbre. – – Anche se l'avesse avuta non era il tipo di starsene a letto, – disse il signor Teresio. – E adesso, Adelina? – – Adesso lei vive sola. – – Come se la caverà, Adelina? – – Non lo so. Nel vederla al funerale ho provato una stretta al cuore. È ancora così giovane... In poco tempo ha perso il marito e i nonni...– Il suo discorso si era interrotto, come se un pensiero doloroso lo pungesse e non osasse confidarlo a chi lo stava ad ascoltare.

– Ma non potrebbe venire a vivere qui a Milano? – chiese Luca, immaginando Adelina di certo persa in mezzo a quella solitudine. –Ho provato ad accennarglielo, quando siamo usciti dal cimite-ro, ma era talmente angosciata che sembrava non udirmi. – – Voi la ospitereste anche qui in casa? – – Noi, sì, – disse il padre. – Vero, Annalisa che ne abbiamo già parlato? – aggiunse rivolgendosi alla moglie. –A me farebbe piacere averla con noi. È sempre stata così una brava ragazza! – Luca pensò che aveva dei genitori meravigliosi e sicuramente si sarebbero meritati un figlio più devoto di lui.

– Se non hai impegni, potresti rimanere presso di noi, per un giorno o due. Tu lo sai quanto ci manchi, – disse la signora Annalisa con l'espressione tenera di madre, sempre trepidante nei suoi riguardi.

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– Anch'io vorrei che tu Luca ti fermassi; fra l'altro ho bisogno di parlarti, – disse appresso il signor Teresio, come a voler dare maggior vigore all'invito formulato dalla moglie. – Sì, – pensò Luca, – ho proprio dei genitori meravigliosi. So quanto desiderano avermi con loro, eppure non cercano di impietosirmi per trat-tenermi. – Li guardò e fece:

– D'accordo. Fino a domani sera posso anche restare; purtroppo non oltre, avendo già fissato degli appuntamenti. –

I volti dei genitori si illuminarono di soddisfazione, e quasi a vo-lere dimostrare questo stato d'animo, nelle ore successive, tutti furono prodighi di premure nei suoi confronti. Per cena, la Marta preparò una sfilza di piatti, da far pensare a una serata di inviti. La signora Annalisa finse di rimproverarla.

– Doveva proprio tornare Luca, perché la Marta riscoprisse la voglia di cucinare. –

– Ma a noi, persone di una certa età, non fa bene mangiare trop-po, – piagnucolò la Marta, ma il suo impegno per la cena era un modo di esprimere la gioia di quel ritorno. Servito il caffè, le due donne non smettevano di girare attorno a Luca con piccoli discorsi. Il signor Teresio dava segni di impazienza volendo rimanere solo con il figlio. Alla fine, con la scusa di fumare in pace (quando voleva appartarsi tirava sempre fuori il pretesto del fumo) si de-cise a trascinarselo affettuosamente nello studio per potergli parlare. La Marta brontolò come un tempo: – Cosa avranno sempre da dirsi, que-sti benedetti uomini che noi non si possa ascoltare? – Il signor Teresio aprì una scatola di sigari e un cofanetto di avorio in-tarsiato colmo di sigarette, invitando Luca a scegliere a piacere. Tutti e due presero una sigaretta e l'accesero. – Tu sai, Luca, che in genere sono di pochi complimenti, – esordì il signor Teresio. – Ma sinceramente il rivederti qui mi fa molto piacere. Non parliamo poi di tua madre, che mi ossessiona per convincerti a ri-tornare a vivere con noi. – Batté il dito sulla sigaretta e la cenere si stac-cò, cadendo nel vasetto di cristallo posato sul tavolino. – Non sono tutta-via le preoccupazioni di tua madre che mi hanno spinto a parlarti...– Il discorso restò sospeso per qualche attimo.– Sono tre gli argomenti che mi stanno a cuore, –riprese. – Primo: una settimana fa, il signor Ferrati, il padre di Camilla, è venuto in fabbrica, e con la scusa di trattare perso-nalmente una fornitura, si è detto dispiaciuto che voi due vi siate lasciati. Non proprio apertamente, ha aggiunto che Camilla sente molto la tua mancanza, e per quanto lei non lo voglia ammettere, soffre ancora a cau-sa di questa vostra rottura. Sul punto di congedarsi, mi ha pregato viva-mente perché quanto riferitomi non arrivi all'orecchio di Camilla, troppo

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orgogliosa per accettare un tentativo di riconciliazione da parte di altri.– Il signor Teresio guardava il figlio che teneva il mento reclinato sul pet-to. – Il mio sentimento per Camilla è sempre quello di una volta, solo che in questo momento non mi sento pronto per tornare da lei. –

– Perché, se mi è lecito? – –Non è una malattia cui si possa dare una spiegazione. Sono sempli-cemente difficoltà mie. – – Con tutta onestà, anche a me e a tua madre farebbe piacere riveder-vi assieme. – Le sigarette posate nel portacenere bruciavano lentamente. – Il secondo punto riguarda il lavoro, – proseguì il signor Teresio, cam-biando argomento. – Ti confesserò che mandare avanti da solo la fabbri-ca sta diventando assai pesante. Prima della guerra facevo molto affida-mento su di te, perché mi aiutassi nella conduzione. Poi sei rimasto as-sente per più di tre anni, e naturalmente avevi ben altro cui pensare. Sarà per egoismo, ma dopo il congedo ho sperato che tu ti sentissi pronto per affiancarmi, anche perché io non posso essere eterno. Tu lo sai, mi è dif-ficile pregarti, ma desidererei vivamente che un giorno prendessi il mio posto, altrimenti dovrei vendere la fabbrica e questa decisione sarebbe per me assai dolorosa. – – Conosco le tue attese. Ho bisogno tuttavia ancora un po' di tempo per riflettere, poi prenderò una decisione al riguardo – Uno dopo l'altro, schiacciarono i mozziconi nel portacenere. Passò qualche istante, poi il signor Teresio riprese la parola. – Terzo punto; e anche qui mi esprimerò con franchezza. Politica-mente, tu sai, non ho mai nascosto la mia fede socialista, che è totalmen-te in contrasto con quella dei Fasci. Tale contrasto non mi toccherebbe più di tanto, se mio figlio non si trovasse dall'altra parte della barricata. Ma quello che più mi rattrista è di saperlo in giro a bastonare la gente di colore diverso. Capisco che tu ti porti ancora dietro il senso di violenza della guerra, però è necessario considerare che la guerra è finita. Non pretendo di darti consigli, ma se tu provassi a liberarti dalla tua aggressi-vità, forse ti sarebbe facile ritornare quello di una volta. Potrei sbagliar-mi, ma il rimanere assieme ai fascisti non è altro che un pretesto per sfo-gare proprio questo senso di violenza che ancora ti porti dietro dal fronte, dove forse era un fatto quotidiano. – Nel discorso vi era determinazione ma non animosità. Luca vedeva per la prima volta il padre sotto l'aspetto di uomo che si ri-volge a un altro uomo, mentre sino allora essi avevano sempre parlato di cose superficiali, ispirate al legame familiare.

Più tardi nella solitudine della sua camera, si sorprese a pensare su quanto il padre gli aveva detto, e sentiva che la mente non rifiutava il

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senso di quelle parole, come avrebbe fatto qualche tempo prima. Il pen-siero si trasferì sul ricordo di nonna Emilia e ne rivide le immagini e i gesti. Dopo la lontananza da casa, trovò confortevole il proprio letto, e al mat-tino si risvegliò con la luce che penetrava attraverso le stecche della per-siana. Appena riaperti gli occhi, l'odore di caffè gli solleticò l'appetito; lo stesso odore che sentiva dopo una notte insonne, là, nella pensione. La Marta ce la mise tutta per rimpinzarlo, e ricordandosi della sua gola per le frittelle, gliene servi un piatto ancora calde di forno. Luca trascor-se la giornata in compagnia dei suoi, e fu piacevole per lui riscoprire la voglia di chiacchierare di cose che gli ricordavano il passato.

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VI

novembre 1919

LE ELEZIONI politiche erano fissate per il 15 del mese. Nelle sedi dei Fasci vi era grande eccitazione tra gli aderenti, convinti di far man bassa di voti. Luca, mettendo in disparte i dubbi, si buttò nella campagna elettorale, contagiato anche lui dallo spirito di conquista che pervadeva un po' tutti in quel particolare momento. Bisognava spostarsi in continuazione, da una località all'altra. Ma se nelle città l'accoglienza poteva dare l'impres-sione di entusiasmo, nei paesi e ancor più nelle campagne, gli scontri con operai e braccianti erano all'ordine del giorno. Molti permanevano dell'i-dea che non si doveva recedere dagli atteggiamenti di forza, proprio per staccarsi dagli altri partiti, orientati verso il convincimento oratorio. – Con la forza abbiamo vinto la guerra, non con le ciance! – si sbraitava sulle piazze. I socialisti replicavano duro. – Questi qui [i fascisti] con il loro modo di pensare ci porteranno a impugnare le armi un'altra volta, magari tra noi italiani! – I personaggi più in vista viaggiavano senza sosta, scortati dai loro preto-riani, dentro un'atmosfera da girone dantesco. Riunioni, comizi, urla, schiamazzi, arroganza, provocazioni, zuffe; dove si recavano, i fascisti gettavano lo scompiglio. E così agendo erano convinti di trionfare! Pioveva da diversi giorni. Luca e Renzi, dopo un giro in Emilia, avevano preso un treno a Bologna per rientrare a Milano. Si erano scelti uno scompartimento vuoto e, seduti accanto al finestrino rigato dalle gocce di pioggia, lasciavano scorrere lo sguardo sui campi scuri già smossi dall'a-ratro. – Come pensi andranno le cose? – attaccò a chiedere Renzi. – Nonostante l'ottimismo, non vedo ancora la gente pronta ad accet-tare le nostre idee. –

– Ma sarà mai pronta la gente? – –Ti rispondo con un'altra domanda: è possibile convincere una

persona aggredendola quando non è d'accordo con noi? –

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– Mi sto rendendo conto che abbiamo sbagliato fin dall'inizio.– Il treno si inclinava nell'affrontare una curva e in quell'istante si vedeva la locomotiva sbuffare nell'aria grigia. Piccole stazioni, isolate nella cam-pagna, scorrevano davanti, con affissi i nomi delle località e i chilometri progressivi del percorso. – Volevo confidarti una mia decisione, – disse a un tratto Renzi, e sembrò volesse parlare sottovoce. Luca si avvicinò con la testa, prestan-do ascolto. – Appena assolto gli impegni presi, – proseguì, – senza at-tendere i risultati delle elezioni, io mi ritirerò dai Fasci. – Luca non com-mentò. – A parte l'esigenza di riprendere la mia professione di avvocato, c'è una cosa che mi ha profondamente deluso di questo nuovo partito: ol-tre a non essere in grado di superare le incertezze del dopoguerra, alla fi-ne ha accresciuto il caos politico. – – E se dovesse vincere? – – Non ci credo, ma ad ogni modo non tornerei affatto indietro. – Arrivati a Milano, si fecero accompagnare da una vettura sino in centro, poi si lasciarono con l'intesa di ritrovarsi all'indomani. La pioggia flagellava il selciato, rimbalzando per la violenza dell'impat-to. Era passato da poco mezzogiorno, e un po' per l'ora di pranzo un po' per il maltempo, le strade apparivano deserte. Appena lo vide, la padrona della pensione gli si affrettò incontro, informandolo che verso le otto del-la stessa mattina, aveva ricevuto una chiamata telefonica con la quale i genitori lo sollecitavano a correre a casa il più presto possibile. Luca sta-volta si allarmò. Senza nemmeno salire in camera sua, si precipitò a pie-di in via Torino, giungendo bagnato e ansimante.

– Luca, che disgrazia! – seppe dire a malapena la Marta, con gli occhi umidi di pianto, appena gli aperse la porta.

– Parla! Cosa è accaduto? – – È morta Adelina. –

– È morta Adelina? – ripeté Luca incredulo. – È morta l'altra notte; noi abbiamo ricevuto un telegramma stamatti-na presto. Tuo padre e tua madre sono partiti con un'automobile presa a nolo, perché il funerale era previsto forse verso le undici, forse nel primo pomeriggio. Non lo so di preciso. – La Marta voleva aggiungere qualco-sa, ma Luca si precipitò giù e da una carrozza di passaggio si fece con-durre in tutta fretta alla stazione. Le attese e il viaggio gli portarono via quasi tre ore. Quando scese dal treno, per avviarsi a passo sostenuto ver-so la casa dei nonni, la pioggia aveva smesso di cadere, ma da ponente avanzavano nuvole basse e cupe che ne minacciavano una prossima ri-presa. Egli camminava più svelto possibile, anche per non pensare, per soffocare il tumulto dentro di sé. Già aveva abbandonato la strada mae-stra, e imboccando quella che si inoltrava tra le campagne la sua mente

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tentava di risvegliare visioni riposte, allora per non cedere ai ricordi fece scivolare lo sguardo intorno. Un fosso gonfio d'acqua fangosa lambiva il ciglio della strada. I campi rispecchiavano il colore del cielo: la terra era scura, quasi livida. Un albero scheletrico, simile a un crocifisso, si erge-va solitario in mezzo alla campagna brumosa dando un senso di angoscia al paesaggio avvolto nelle tinte autunnali. Per evitare un tratto di strada impantanata salì sulla proda erbosa del fosso, rasente un filare di stoppie di granoturco. Più avanti, passò di fronte alla casa dai roseti aggrappati ai muri. Notò le gelosie chiuse, allora non poté fare a meno di pensare co-me anche da ragazzo le rammentasse sempre così, tanto da chiedersi più volte se qualcuno ci avesse mai abitato. Poco oltre, la piana si stendeva sino ai margini del Po dove il greto precipitava di colpo nelle sue acque. Le nubi si erano di nuovo addensate e di nuovo gocce di pioggia presero a tamburellare nelle pozzanghere. In prossimità della casa dei nonni, Lu-ca gettò lo sguardo in avanti. Non scorse nessuno, ma appena vi giunse se ne volle accertare facendo un giro all'esterno. Sotto la tettoia, i carri agricoli e il calesse ingombravano il passaggio. In un angolo del portico c'era una seggiola sotto la quale spuntava il vec-chio braciere usato d'estate per scacciare le zanzare. Più in là si fermò davanti alla stalla con la porta chiusa da una stanga. Guardò attraverso uno spioncino e intravide solo degli attrezzi da lavoro accatastati per ter-ra. Il foraggio stipato nel fienile mandava un leggero odore di fermenta-zione. Luca completò il giro intorno alla casa, poi si diresse verso l'in-gresso e spinse l'uscio che si aprì con un lieve cigolio. Rimase sulla so-glia a scrutare la grande cucina già immersa nell'oscurità. Andò a tentoni verso il camino, fece scorrere la mano sulla mensola e trovò la scatola di fiammiferi che da sempre veniva messa lì. Regolando il saliscendi, ab-bassò la lampada e l'accese, indugiando attorno con lo sguardo. Vide un grembiule buttato sulla spalliera della sedia di fronte al camino, e poi vi-de anche un libro posato di traverso sulla cassapanca, come se qualcuno fosse uscito di fretta. La fiamma della lampada tremolò facendo guizzare un'ombra sul muro. Il profondo silenzio fu rotto dagli scrosci di pioggia. Luca si avvicinò alla credenza, dove infilata nella cornice dell'antina dal vetro ambrato vi era una fotografia di gruppo. Riconobbe la fotografia di vent'anni prima, quando Adelina e i nonni erano venuti a Milano a trova-re lui, convalescente da una brutta febbre, e a trascorrere il Natale in fa-miglia. Proprio alla vigilia di Natale, erano scesi a passeggiare sotto la Galleria e la contessa Bukowsky aveva proposto di farsi riprendere in-sieme. All'infuori di Camilla, nella fotografia vi erano tutti quelli che a-veva amato: Spiro, Adelina, i nonni, la contessa, Liliana, la Marta e i ge-nitori. Per osservarla meglio, Luca la portò sotto la lampada. La carta lu-cida si stava ingiallendo. Scostò una sedia e si mise seduto tenendo la

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vecchia fotografia davanti a sé. Fissando quei volti un po' sbiaditi, senti-va un nodo alla gola, ma sentiva anche un forte sentimento penetrare nel suo cuore di ghiaccio. Allora intrecciò le braccia sul tavolo, vi abbando-nò sopra la testa e incominciò a piangere; dapprima sommessamente e poi lasciando che le lacrime si portassero via l'oppressione che lo soffo-cava.

Fuori, un'imposta male agganciata sbatté più volte, mentre gli scrosci d'acqua si fecero sempre più rabbiosi.

Continuando a piovere con quell'intensità, sicuramente il Po, lì

dietro casa, avrebbe finito col rompere gli argini.

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Opere di Federico G. Martini 1 – ERA IL TEMPO DELLE CARROZZE A CAVALLO (3^ edizione) 2 – L’INVITO DI LUDOVICO IL MORO (2^ edizione) 3 – STORIE DI MILANO E DINTORNI (2^ edizione) 4 – PERIFERIA DI RABBIA (2^ edizione ) 5 – COPPIA DI DENARI 6 – PIANTA TUTTO E VAI 7 – VIAGGIO NEL MISTERO dello stesso autore, di prossima pubblicazione: 8 – L’ERETICO 9 – IL LATO OSCURO DELLA SOLITUDINE 10– LUNA NERA A CASABLANCA

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