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ENRICO VOCCIA Æ*X" Corpo, Mente, Arte Un viaggio nelle forme

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ENRICO VOCCIA

Æ*X" Corpo, Mente, Arte

Un viaggio nelle forme

Enrico Voccia

2 Porta di Massa. Laboratorio Autogestito di Filosofia Epistemologia e Scienze Politico-Sociali

Æ*X". Corpo, Mente, Arte

www.portadimassa.net 3

Indice 07 Introduzione

11 Premessa. L’Universo ed i Mondi dell’Uomo

17 Corpo

27 Sensazione, Percezione

33 Emozione, Sentimento

39 Coscienza, Autocoscienza, Pensiero, linguaggio

49 Arte

71 Cervelli “Elettronici”

57 Appendice. Le “Forme” della Cultura Orientale del Combattimento

Enrico Voccia

4 Porta di Massa. Laboratorio Autogestito di Filosofia Epistemologia e Scienze Politico-Sociali

Supplemento a PORTA DI MASSA Laboratorio Autogestito di Filosofia, Epistemologia e Scienze Politico.Sociali

Autorizzazione Tribunale di Napoli n. 23 del 30 marzo 2005 Autunno 2005 – Inverno 2006 Copy Art Napoli, via De Marinis 18 2 Aprile 2006

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uesto testo nasce da alcuni seminari da me tenuti al Dipartimento Arti Musica e Spettacolo dell’Università delle Calabrie, presso la cattedra di Teoria e tecnica della ma-

nipolazione dell’immagine presieduta dal compianto Professor Toni Ferro (a.a. 1998-1999). L’invito da lui fattomi era quello di dar forma compiuta a determinate rifles-sioni, che gli avevo esposto, in merito ad una serie di territori di confine tra Scienza, Arte e Filosofia. Devo dunque a lui, che non è più in vita, i primi ringraziamenti. Devo poi ricordare, con affetto, tutti i suoi allievi che hanno ascoltato con atten-zione e partecipazione le mie lezioni, fornendomi ulteriori spunti per le mie rifles-sioni. Ringrazio, infine, i redattori di Porta di Massa – Laboratorio Autogestito di Filoso-fia, che, insieme con me, hanno organizzato la Giornata di Studi “Il ruolo della sog-gettività nella genesi del pensiero scientifico”, 1 nella quale ho esposto alcuni punti di questo lavoro, relativi in particolare ai rapporti tra mente, intelligenza ed emo-zione. Alcuni di loro – Marco Celentano, Donella Di Marzio, Dario Ettari, Toni Ferro, Giovanni Fuschino, Italo Nobile, Aldo Oliveri, Maria Fernanda Spina, Ilia Tufano – hanno poi letto le bozze del lavoro, fornendomi un apporto prezioso per l’elaborazione finale. Lo stesso dicasi per Giuseppe Mangione, Marco Mangione, Antonio Vitale ed Emilia Tagliatatela. In ogni caso, è esclusivamente mia la respon-sabilità per le posizioni espresse e per gli eventuali errori commessi.

Napoli, Aprile 2006

1 Napoli, 12 dicembre 1998, Aula Magna ex Ospedale Psichiatrico Leonardo Bianchi. Gli atti sono

stati pubblicati, come allegato al settimo fascicolo di Porta di Massa – Laboratorio Autogestito di Fi-losofia dedicato al concetto di “Mente” (Napoli, “Città del Sole”, 2000).

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Premessa.

L’Universo ed i Mondi dell’Uomo

n questo momento, mentre scrivo, le mie mani si muovono con un certo auto-matismo sulla tastiera. Intanto le funzioni vitali del mio corpo proseguono indi-

sturbate, quasi inascoltate da quella cosa che chiamo (chiamiamo) “io”. I miei occhi seguono il disporsi delle lettere sullo schermo che mi sta davanti, per poter correg-gere eventuali errori di battitura, mentre un enorme numero di altre sensazioni si si-tua in sottofondo. Le parole dei miei pensieri – con le quali cerco di esplorare e comunicare ad altri una parte di quella che chiamiamo “verità” – sembrano fuoriu-scire spontaneamente, anche se ho dei ripensamenti, e ritorno sul già scritto. Sono sostanzialmente calmo e rilassato, anche se una sorta di leggera ansia mi ricorda di altri impegni e che tra poco dovrò interrompere questo paragrafo iniziale, per ri-prenderlo in un altro momento.

Niente di strano: ciascuno di noi vive un’esistenza in cui corporeità, sensazioni, pensieri ed emozioni sono compresenti e interagiscono nelle maniere più varie. Il nostro personale Universo è composto di questi mondi, ed essi ci determinano, vo-lenti o nolenti, sia nella loro interazione sia nella loro distinzione. Ciò che sentiamo di essere, nel bene e nel male, lo dobbiamo soltanto a loro.

Il primo di questi mondi, il corpo, sembra però cosa assai diversa dagli altri tre, che chiamiamo collettivamente con il nome di mente. Questi, difatti, continua a fun-zionare anche quando siamo in una fase di sonno profondo, dove l’assenza dei so-gni ci fa apparire gli altri tre mondi assenti, quasi annullati, quanto meno in stand-by, anche se pronti a ripartire al “nostro”2 risveglio. Il corpo poi ci appare notevolmen-

2 Il fatto di essere “noi” a risvegliarci non è un dato così pacifico. Quel che possiamo oggettiva-

mente dire è che, ogni volta che “ci” risvegliamo, ricordiamo ciò che “noi” siamo stati, in altre parole ciò che qualcuno – noi stessi? un altro? – ci ha tramandato. Sogni, speranze, timori, desi-deri, povertà e ricchezze allora “ci” (ri?)costituiscono ed affrontiamo il mondo – un mondo che ci cambia, spesso senza che noi ce ne accorgiamo, e che noi stessi cambiamo, spesso senza che

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te affine, da molti punti di vista, agli altri innumerevoli oggetti, viventi e non, che ci circondano. Sensazioni, emozioni, pensieri, invece, ci appaiono alquanto diversi dalla “materialità” del resto dell’Universo. In fin dei conti, tutto, ivi comprese le re-lazioni sociali tra le menti, può essere descritto in maniera oggettiva, in altri termini in maniera del tutto indipendente dalla soggettività dell’indagante.3 Tutto, tranne, in apparenza, la mente: questa appare possedere un punto d’osservazione privilegiato ed assolutamente autoreferenziale – se stessa. Non solo non ci sembra di essere in grado di sapere “cosa si prova ad essere un pipistrello”4 ma nemmeno cosa si prova ad essere un altro individuo della nostra stessa specie e, anzi, nemmeno cosa si pro-va ad essere ciò che “noi stessi” siamo stati un tempo – anche solo un secondo fa.5

La riflessione incentrata sulla percezione di una tale separazione, ed in particola-re l’idea di una differenza radicale dei due mondi, ha una lunga storia nel pensiero occidentale. Questa concezione si può far risalire all’influsso esercitato dalla religio-sità orfica su alcuni dei primi pensatori: Pitagora, Eraclito, Empedocle e, soprattut-to, Socrate e Platone. L’idea del corpo come “carcere dell’anima”, presente in vari scritti platonici,6 trasmigrerà in epoca ellenistica in varie altre religioni, ed in partico-

esso se ne accorga. Alla fine di una breve parentesi, il sonno ci coglie e la nostra coscienza se ne va via. In apparenza, nel nulla. Quello che eravamo stati sparisce, e il ciclo ricomincia. Qualche volta, ricordiamo di aver sognato. Ci accorgiamo, in altre parole, che il nostro stato di coscienza precedente sta costruendo, sulle ceneri di se stesso, una nuova coscienza, pronta ad interagire con il proprio corpo e con il mondo.

3 È questo il senso autentico del termine “oggettività”. Molte polemiche sulla possibilità o meno di un’indagine “oggettiva” derivano, a nostro avviso, dall’arbitraria ascrizione a questo termine delle valenze di “verità certa”, “assolutezza” e similari. In altri termini, se io affermo che “il Sole è fatto di burro”, ho detto una cosa del tutto falsa, ma ho enunciato questa mia balzana idea in maniera tale che chiunque può rendersi conto della cosa. In altri termini, il valore di verità della proposizione non era legato alla mia o ad altre (magari plurali) soggettività. Dunque la mia de-scrizione della nostra stella, nonostante la sua palese falsità, può a buon diritto rivendicare un carattere d’oggettività. Se io invece affermo “Quella luce mi appare rossa”, allora questa descri-zione non può essere indipendente dalla mia soggettività e, dunque, anche se fosse del tutto ve-ra, non sarebbe, per l’appunto, “oggettiva”.

4 Sto parafrasando un articolo “storico” nel campo della Filosofia della Mente: NAGEL, Thomas, “What Is It Like to Be a Bat?”, in The Philosophical Review, ottobre 1974 (traduzione italiana “Che cosa si prova ad essere un pipistrello?” in HOFSTADTER, Douglas R. e DENNETT, Daniel, L’io della mente. Fantasie e riflessione sul sé e sull’anima, Milano, Adelphi, 1980, pp. 379-391).

5 “Tornare indietro” a ciò che ero un istante fa, è un’operazione paradossale e perciò impossibile. Capire “cosa si prova ad essere ciò che ero” implicherebbe, infatti, che “io” perdessi le caratte-ristiche che ho acquisito nel tempo che è trascorso: ma “io” sono costitutivamente anche quelle caratte-ristiche. Sarebbe perciò un altro – quell’altro – e non “io”, a capire “cosa si prova ad essere ciò che ero”. Anzi, nemmeno “quell’altro”: egli avvertirebbe semplicemente cosa si prova ad essere se stessi, cosa che ha (ho?) già fatto in quell’istante trascorso.

6 Vedi ad esempio il Fedone.

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lar modo nel cristianesimo.7 La celebre distinzione cartesiana tra res extensa e res cogi-tans8 è, ad esempio, il risultato diretto dell’influsso della religione cristiana su di un tentativo di fondazione ultima del sapere. 9

In realtà, le cose sono molto più complesse e la separazione corpo-mente non funziona, almeno se espressa in termini ontologici e non di cosciente semplifica-zione dell’analisi o di diversi livelli di descrizione. D’altronde, nonostante l’idea sia stata ripetutamente postulata nelle religioni più disparate, nessuno ha mai realmente mostrato un’“anima”, in altre parole una mente incorporea. Anzi, ogni mente che noi incontriamo è sempre legata ad un corpo; di più, a certi corpi, e non ad altri. Sappia-mo perfettamente di poter prendere a calci una pietra senza che questa reagisca né si faccia di noi alcun concetto negativo e di non poter fare la stessa con un essere vivente. Sappiamo anche che certi corpi possono sviluppare un determinato tipo di mente ed altri no; colleghiamo, infatti, queste capacità al grado di sviluppo del si-stema nervoso posseduto dal vivente – in altri termini alle sue effettive capacità di

7 Vedi, p. e., BRÉIER, Emile, La Filosofia del Medioevo, Milano, Einaudi, 1952, pp. 19-44. 8 Vedi ad esempio DESCARTES, René, Meditazioni metafisiche, Torino, SEI, 1992, pp. 53-62 (II

meditazione). 9 In effetti, all’interno del pensiero antico, avevano largo eco anche posizioni assai diverse da

quelle originatesi dall’influsso dell’orfismo, che con queste svilupparono una notevole dialettica. Possediamo, ad esempio, di Parmenide (il “padre da uccidere” da parte di Platone) il frammen-to 16 Diels-Kranz: “Dal momento che consta sempre di un complesso di idonee membra, in tal modo l’intelletto è dominante negli uomini; dunque ciò che pensa negli uomini è la disposizione naturale delle membra, la stessa in tutti ed in ciascuno; infatti la parte prevalente è pensiero.” (PARMENIDE DI ELEA, Della Natura, traduzione a cura di Enrico Moscarelli). Il frammento si inserisce all’interno della polemica, tipica del mondo greco e di quello mediterraneo in gene-rale, sulla sede specifica del pensiero, individuata variamente nel cuore, nel fegato, nel sangue, nel cervello, ecc. (per una rapida ricognizione della questione vedi LEGRENZI, Paolo, Storia della Psicologia, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 36-40). In questa polemica Parmenide interviene con una posizione specifica ed originale: è il corpo intero dell’uomo che pensa, e non un suo organo particolare. Posizione, tra l’altro, rigidamente “materialista”: è quella specifica disposi-zione corporea che fa sì che l’uomo, a differenza di altri viventi, possa sviluppare, come tratto specifico (“prevalente”) il pensiero. La posizione parmenidea influenzò moltissimo molte altre scuole filosofico-scientifiche dell’antichità – l’atomismo, in primo luogo (vedi, p. e., CASERTA-NO, Giovanni, a cura di, Democrito. Dall’atomo alla città, Napoli, Loffredo, 1983, pp. 29-99) ma non solo. Queste discussioni dell’antichità – che possono a buon diritto considerarsi le antenate delle odierne neuroscienze – mostrano, ampiamente, come l’ipotesi della separazione radicale delle “due sostanze” non fosse un destino ineluttabile del pensiero occidentale, ma il risultato di specifiche contingenze storico-culturali. In ogni caso, tali posizioni furono definitivamente mes-se fuori gioco dalla posizione dominante della cultura cristiana. Una analisi di questi antichi di-battiti alla luce delle moderne neuroscienze è presente in GREGORY, Richard, Mind and Science. A History of Explanations in Psychology and Physics, Città, Editore, 1981. Di questo testo esiste una traduzione italiana (La mente nella scienza, Milano, Mondadori, 1985), ma l’autore e l’editore ne hanno espunto alcune delle parti che qui ci interessano, dedicate alla filosofia classica e moder-na, ritenendole inutili al lettore italiano.

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elaborazione dell’informazione. I miei genitori non hanno battuto ciglio quando ho comunicato loro la mia decisione di iscrivermi all’Università; non hanno nemmeno lontanamente pensato, invece, di iscrivere ad un qualunque ordine di scuola la ca-gnetta o il canarino di casa.

È questo banale ordine di constatazioni a rendere plausibile l’ipotesi10 che lo strano oggetto che è la “mente” – malgrado la sua apparente radicale soggettività – non sia altro che il risultato di una descrizione di “ordine più elevato” di processi fi-sici elementari. Il che non significa affatto che in questo gioco di descrizioni a vari livelli della nostra realtà non ci si possa perdere e sentirci alienati. La nostra identità complessiva è un processo molto fragile, perpetuamente rimesso in discussione, e queste pagine sono proprio un tentativo, si spera un po’ meno fragile, di offrire ad essa la consapevolezza di una sua unità di fondo, una strada per superare l’a-lienazione dalla “bruta” natura.11

10Tipica del cosiddetto “programma forte” in Intelligenza Artificiale ma non solo di questo. Per

un’introduzione alla questione e in generale ai problemi delle neuroscienze, è ancora utile la let-tura di HOFSTADTER, Douglas R. e DENNET, Daniel, L’io della mente. Fantasie e riflessione sul sé e sull’anima, op. cit. Uno sviluppo filosofico di estremo interesse che parte dalle idee dell’IA “forte” è presente in BATESON, Gregory, Mente e natura. Un’unità necessaria, Milano, Adelphi, 1984 ed in BATESON, Gregory e BATESON Mary Catherine, Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro, Milano, Adelphi, 1989. Recenti e notevoli sviluppi – sia tecnologici sia fi-losofici – dell’IA “forte” sono presenti in AA. VV., La fenice digitale. Come i computer stanno cam-biando la filosofia, Milano, Apogeo, 2000.

11Le idee contenute in questo libro sono evidentemente influenzate dalla riflessione di Gregory Bateson (vedi i testi citati nella nota precedente). Può allora valere la pena di spiegare qui cosa mi tiene lontano da un’accettazione incondizionata delle sue tesi. Innanzitutto, ho l’impressione che la distinzione fra “pleroma” e “creatura”, che egli pone, non sfugga al dualismo cartesiano ma ne sposti semplicemente i confini. Se in Cartesio la separazione era tra la “mente” umana e tutto il resto, Bateson la sposta tra il mondo capace di elaborazione dell’informazione (uomini, animali, vegetali, computer, comunità, ecc. – la creatura) ed il mondo incapace di tale elaborazio-ne (ogni oggetto non “mentale” – il pleroma). Una tale categorizzazione è perfettamente legitti-ma ai fini pratici – io stesso l’ho usata poche pagine fa. Essa però non è scontata dal punto di vi-sta scientifico – non è pacifico cioè che la materia “non mentale” sia incapace di elaborazione dell’informazione. Di là dell’ipotesi di numerosi scienziati (Fredkin, Landauer, Toffoli, Fe-ynman, Ginkelstein, Minsky, Petri, Wheeler, Zeigler, Zuse…: vedi STEINHART, Eric, “Meta-fisica digitale”, in AA.VV., La fenice digitale…, op. cit., pp. 125-139) che l’intera realtà possa esse-re, in ultima analisi, “computazionale”, ritengo comunque che questa, come tutte le categoriz-zazione empiriche, rischi di far dimenticare l’unità di fondo dell’intera natura vivente e non vi-vente, la sua unità sostanziale. Inoltre, ho l’impressione che l’ateo Bateson, a forza di studiare da antropologo le religioni, si sia eccessivamente attaccato al suo oggetto di studio, confondendolo con lo strumento – la scienza occidentale – con cui l’approccia. Egli, in pratica, ridefinisce i concetti di “religione” e di “sacro” appiattendoli di fatto su quelli di “scienza” e “passione scientifica”. Così facendo, però, rischi di creare grossi equivoci. Le religioni storicamente effet-tive e dominanti, infatti, da certi punti di vista, sono state addirittura il meccanismo ideologico fonda-

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Una strada che molti cercano negli approcci ascetici più o meno religiosamente connotati o nei loro rovesciamenti in forme contemporanee di materialismo volga-re. Queste “soluzioni” non sono, però, in realtà tali: privilegiando semplicemente un corno del dilemma corpo-mente, svalutando l’altro, esse lasciano sussistere l’alienazione indisturbata, facendola ricomparire in altre forme. 12 Il conflitto storico tra le religioni ed il materialismo volgare appare perciò, analizzato in questi termini, come un’illusione di alternative.13

Il “programma forte” in Intelligenza Artificiale è invece, da certi punti di vista, il più coerente prosecutore di una linea di pensiero sui rapporti mente-corpo che ha il suo punto filosoficamente più elevato nel pensiero di Spinoza.14 Per il pensatore o-landese, infatti, l’Universo era composto di un’unica Sostanza, di cui “corpo” (e-stensione) e “mente” (pensiero) erano solo attributi, particolari forme di percezione di una stessa e identica realtà da parte di una specifica modalità finita della Sostanza – gli esseri umani. Le pagine che seguono sono il tentativo di utilizzare l’approccio spinoziano – rivisitato alla luce delle odierne neuroscienze – come una mappa che ricostruisca, alla fine, l’unitarietà di un itinerario tra corporeità, sensazione, emozio-ne, pensiero. Un itinerario che proverà a mostrare come questi mondi siano inestri-cabilmente intrecciati, e come l’alienazione – derivante dalla credenza nella distin-zione radicale tra di essi – non sia un destino ineludibile.15

mentale della separazione uomo-natura, e, quindi – nell’ottica batesoniana stessa – alla base del disastro ecologico (vedi LOVEJOI, Arthur, La grande catena dell’essere, Milano, Feltrinelli, 1966).

12Con i limiti denunciati nella nota precedente, la sotterranea complicità fra il contemporaneo “bi-sogno” di religione nelle sue varie forme (da quelle ufficiali ed istituzionalizzate, alla cosiddetta New Age, alle sette più o meno antagoniste alle istituzioni religiose ufficiali) e l’ideologia “scien-tista” nelle sue varie forme è mostrata in maniera esemplare da Gregory Bateson in “Né so-prannaturale né meccanico” (in BATESON, Gregory e BATESON, Mary Catherine, Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro, op. cit., pp. 83-103). Non a caso, nel pensiero di Car-tesio, è fatto notare nel testo, si possono rintracciare le matrici moderne di entrambi i paradig-mi: sia di quello dell’irrazionalismo, più o meno religiosamente connotato, sia di quello dello scientismo meccanicista.

13Per il concetto di “illusione di alternative”, tipico della psichiatria sistemica, vedi WATZLA-WICK, Paul, BEAVIN, Janet Helmick e JACKSON, Don D., Pragmatica della Comunicazione Umana, Roma, Astrolabio, 1971, pp. 219-221.

14Vedi SPINOZA, Baruch, Ethica More Geometrico Demonstrata, Torino, Bollati Boringhieri, 1992. Il testo può risultare interessante nel suo complesso: ma, per ciò che concerne più da vicino il no-stro argomento, vedi particolarmente le pp. 45-92 (libro II, “Natura e origine della mente”).

15Certo, non è questa l’unica forma d’alienazione in cui può incorrere un essere umano. Ne esi-stono molte altre, a partire dall’alienazione materiale, quella per cui sembra anche qui un destino ineludibile il fatto che i produttori materiali della ricchezza sociale siano quelli che ne godono la minima parte – e chi mi conosce sa che sono ben lungi dal sottovalutare la necessità del supe-ramento di questa ed altre forme del presente stato alienato delle cose. Credo però anche che tutte le varie forme di alienazione siano sistemicamente legate e che non sia possibile stabilire fra di

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Agli inizi del pensiero occidentale, d’altronde, il termine idea (Æ*X") aveva una va-lenza semantica molteplice: poteva significare “concetto” così come “corpo ele-mentare, fondamentale”. Democrito e Platone, pur in una radicale diversità di pro-spettive teoriche, utilizzano, infatti, lo stesso termine per designare l’elemento fon-damentale delle loro visioni del mondo.16 Nelle versioni italiane la cosa va spesso perduta, in quanto – non senza una qualche ragione di resa concettuale – i tradutto-ri solitamente preferiscono rendere, per l’appunto, Æ*X" rispettivamente con “idea” nel caso di Platone e con “atomo”, “corpo”, “forme materiali” o similari nel caso di Democrito. Si perde però così il senso originario del termine, che era quello di “for-ma” – un senso che si poneva di là da quella che sarà la più tarda scissione di signi-ficati e d’ambiti ontologici tra “idee” e “corpi”. In questo senso, navigando oltre questa scissione, il nostro sarà un viaggio tra le forme.

Cos’ha tutto questo a che fare con l’Arte citata nel titolo del libro? Lo stesso fat-to di doversi porre una tale domanda è il segno di un’ulteriore alienazione tipica della cultura occidentale: quella tra “Arte” e “Scienza”. Intendiamoci. Non voglio affatto porre un’indistinzione selvaggia tra le due cose – simile a quella per cui oggi certa “epistemologia” sostiene che la Teoria della Relatività da un lato e le cosmo-logie mitiche dall’altro godono dello stesso statuto di verità, che lo stesso vale per i Teoremi di Gödel da una parte ed i calcoli astrologici dall’altra e cosi via.17 Sarebbe,

esse rapporti gerarchici del tipo struttura/sovrastruttura. Non si può privilegiare anche qui un corno del dilemma, e sperare che la sua isolata rottura – ammesso che ciò sia possibile – com-porti una vera trasformazione.

16Per Democrito vedi Gli Atomisti. Frammenti e testimonianze, a cura di Vittorio Enzo Alfieri, Bari, Laterza, 1936 (A57 e relative note 225 e 228; B5i e relativa nota 488; B6 e relativa nota 489; B141) e Atomisti antichi. Testimonianze e frammenti. Testo greco a fronte, a cura di Matteo Andolfo, Mi-lano, Rusconi, 1999 (A47; B5i; B6; B141). Ma, di là di questi usi espliciti del termine Æ*X" nel cor-pus democriteum, “il termine ‘indivisibile’ corrisponde al greco atomon e, come osserva Alfieri, questa parola è usata quasi sempre al femminile (nella forma atomos) come aggettivo che sottin-tende il termine Æ*X"” (ANDOLFO, Matteo, “Introduzione” ad Atomisti antichi…, op. cit., p. 11). Per Platone, poi, c’è solo l’imbarazzo della scelta.

17Per una critica filosofica al relativismo culturale – e, più in generale, al pensiero “debole” e/o “postmoderno” – vedi HÖSLE, Vittorio, “Questioni di fondazione dell’idealismo oggettivo” (in HÖSLE, Vittorio, Hegel e la fondazione dell’idealismo oggettivo, Milano, Guerini e associati, 1991, pp. 13-69; l’intero testo, comunque, è costellato dagli elementi di una tale operazione critica) e soprattutto NAGEL, Thomas, L’ultima parola, Milano, Feltrinelli, 1999. Vedi anche SOKAL, Alan e BRICMAN, Jean, Imposture intellettuali, Milano, Garzanti, 1999. Anche se con qualche ca-duta di tono, si tratta di una critica interessante alla faciloneria ed approssimazione di taluni fi-loni della cultura umanisitica contemporanea, comunque da leggere, sia in virtù del tono di pro-vocazione goliardica che lo anima (il testo nasce da un vero e proprio scherzo intentato da uno dei due autori a Social Text, la rivista capofila del cosiddetto pensiero “postmoderno” o “debo-le” negli U.S.A.), sia come documento di un dibattito tipico della sinistra radical statunitense (dove i “razionalisti” chomskyiani accusano, senza troppi peli sulla lingua, i “postmoderni” di

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né più né meno, un volersi addentrare in una notte senza luna in cui, come suol dir-si, tutte le vacche sono nere. Ciononostante, va detto che il pensiero occidentale dimentica troppo spesso che gli oggetti cui si rivolgono tutti questi aspetti della cul-tura umana sono gli stessi. “Corpo” e “pensiero” non sono appannaggio esclusivo delle Scienze, così come “percezione” ed “emozione” non lo sono delle Arti. Il no-stro viaggio tra le forme, perciò, ha anche la pretesa di voler rivelare determinati a-spetti della prassi dell’Arte – in particolar modo di quella contemporanea – che, al-trimenti, corrono il rischio di essere sottaciuti o sottovalutati.

essere una sorta di moderni “socialisti della cattedra”, che nascondono il loro arrivismo acca-demico – pari solo al loro disimpegno sociale e politico – dietro un linguaggio astruso e pseu-dorivoluzionario. Per dirla con le parole dello stesso Sokal, occorre “combattere (…) un’inclinazione al soggettivismo (…) dannosa per il futuro ed i valori della sinistra”).

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oi” abbiamo l’impressione quasi costante di controllare coscientemente, almeno in parte, il “nostro” corpo come uno strumento. Possiamo difatti

“per suo tramite” prendere un libro, sederci nel luogo che preferiamo, aprirlo, pun-tare la testa in modo che i nostri occhi siano direzionati in maniera opportuna, vol-tare pagina quando è il caso, nonché fare infinite altre cose. Nel nostro agire quoti-diano, esso ci appare perciò talvolta come uno strumento tra gli altri, di cui “noi” ci serviamo per ottenere determinati scopi, in maniera sostanzialmente non dissimile da come utilizziamo un martello, un computer, il servizio postale. Certo, queste ul-time cose sono strumenti secondari, in un certo senso derivati, che si possono a buon diritto considerare quali estensioni delle potenzialità del nostro corpo. Ciono-nostante, né l’uno né l’altro genere di strumenti ci appare particolarmente intelligen-te. Nel complesso, perciò, più che essere un corpo può sembrarci invece di possedere un corpo, in maniera non molto diversa da come possediamo un qualunque altro oggetto che ne estenda le capacità.

A differenza di tutti gli altri oggetti del mondo, però, il corpo – il “nostro” cor-po – è lì, continuamente presente a “noi”. Dai computer e dai libri alla fine ci con-gediamo, generalmente senza particolari patemi d’animo. Senza il corpo, invece, sappiamo di prendere congedo da noi stessi e raramente la cosa c’è gradita.

Se “noi” ci siamo anche “lui” c’è – ed agisce meccanicamente, in automatico, spes-so totalmente al di fuori del nostro controllo cosciente. “Noi” controlliamo in pic-cola misura il nostro battito cardiaco e la respirazione18 e se non crolliamo al suolo è per l’azione del tutto inconscia dei nostri muscoli antigravitari – che agiscono in risposta alle informazioni ricevute ed elaborate dai propriocettori muscolo-tendinei e vestibolari.

18Possiamo, infatti, rallentarli, accelerarli, ma non interromperli: è impossibile, evidentemente, sui-

cidarsi sospendendoli volontariamente per lunghi periodi.

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Nonostante la riconoscenza che gli dobbiamo, è però anche per questo che il corpo ci appare stupido, privo di caratteristiche mentali, semplice luogo di ciechi meccanismi vitali. In questo, non ci appare molto diverso dal resto della “materiali-tà” circostante. Certo, a partire dagli studi pionieristici di Claude Bernard,19 sappia-mo che non si tratta affatto di meccanismi semplici. Anzi, in questo secolo abbiamo scoperto nel corpo sempre nuovi e più complessi meccanismi omeostatici, ampi e multiformi processi di elaborazione dell’informazione. I processi di termoregola-zione dell’organismo, le funzioni digestive ed i meccanismi fisiologici in genere so-no, infatti, il risultato di complesse operazioni volte a coordinare, in base ad elabo-rati sistemi di retroazione, numerosi sottosistemi in funzione del mantenimento di determinati standard vitali.

Neanche questo, però, ci basta: in fin dei conti, anche un semplice termostato è un meccanismo omeostatico. La spesso impressionante complessità dei processi di percezione ed elaborazione dell’informazione, immanente ai nostri processi vitali, non è quindi motivo sufficiente a farci riconsiderare il giudizio di stupidità che ab-biamo sentenziato nei confronti del nostro corpo.

Il “nostro” corpo, però, impara.20 A differenza di quasi ogni altro oggetto dell’Universo – solo parte della materia vivente e determinati computer dotati di particolare software condividono con noi questa capacità – è, infatti, capace di ac-quisire abilità comportamentali e/o cognitive nuove, che precedentemente non possedeva. Prendiamo, ad esempio, il già citato processo di termoregolazione. Se abbiamo freddo, possiamo reagirvi sia con un meccanismo fisiologico – pressoché inconscio – sia con un meccanismo comportamentale.

19Vedi ad esempio BERNARD, Claude, “Les fonctions du cerveau”, in Revue des deux mondes, n.

98, 1872, pp. 373-385. Il testo è stato tradotto, introdotto e commentato da me nel gia citato settimo fascicolo di Porta di Massa – Laboratorio Autogestito di Filosofia dedicato al concetto di “Mente” (Napoli, “Città del Sole”, 2000).

20I centri nervosi di molti esseri viventi – quelli dell’homo sapiens innanzi tutto – possiedono la ca-pacità d’automodificarsi in base agli stimoli ambientali. Questo significa che, in modo perma-nente o semipermanente, a livello del microscopio ottico e/o a livello molecolare, nel sistema nervoso compaiono modificazioni: si parla, in questi casi, di attività plastiche. Tra le attività plasti-che, la forma d’apprendimento più comune è il fenomeno della memoria, in altre parole la riten-zione di determinati eventi dell’esistenza dell’organismo e/o del suo ambiente. Attività plastiche possono essere riscontrate, oltre che negli esseri viventi, anche in certo software. Non c’è nem-meno bisogno, per ritrovarle, di andare a scomodare i programmi di Intelligenza Artificiale stric-tu sensu. Tutti i sistemi operativi attuali sono, infatti, in grado di riconoscere se nuove strutture sono state aggiunte all’hardware, se ulteriori programmi sono stati installati, se sono venute a mancare parti importanti del codice, ecc. ed intraprendere le procedure necessarie – ovvero mo-dificarsi – in maniera da far fronte ai cambiamenti sopravvenuti nell’ambiente.

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Il brivido, la vasocostrizione, la secrezione di tiroxina, sono l’espressione di altrettanti meccanismi fisiologici che agiscono manifestamente ad un identico fine. Il loro significa-to funzionale è chiaro: mantenere costante la temperatura corporea mediante aumento della produzione di calore e diminuzione della sua dispersione. Questi meccanismi fisio-logici hanno tutti i caratteri (inevitabilità, variabilità estremamente piccola) d’un comune riflesso, quale si può ottenere nell’animale spinato o decerebrato; sono solo estremamen-te più complessi. Nell’espressione “meccanismo” è appunto implicito il paragone di una funzione fisiologica con il funzionamento ed i congegni di una macchina semplice.

Ma il gatto o un cane possono reagire al freddo anche con un comportamento comples-so: p. es. andando da una stanza fredda ad una stanza calda, o sdraiandosi in modo da diminuire al massimo la dispersione di calore, o movendosi incessantemente, in modo da produrre più calore. In fondo anche un comportamento implica una determinata dispo-sizione nello spazio e nel tempo dell’attività di popolazioni di motoneuroni, come avvie-ne in una risposta riflessa. Anche il comportamento può essere ricondotto ad un mecca-nismo nervoso. Tuttavia l’uomo sa che egli può fare o non fare quei movimenti che lo proteggono contro il freddo e pertanto li chiama “volontari”. Quando li osserva com-parire con gli stessi caratteri e manifestamente con le stesse finalità nel cane e nel gatto egli è portato a classificarli in una categoria a parte, definendoli un “comportamento”.21

Un “comportamento”, appunto, è tale nel senso comune appena richiamato, per-ché non inevitabile e con grosse componenti di variabilità. L’organismo lo apprende: in altri termini, è in grado di costruirsi strategie comportamentali dotate di carattere di novità. Strategie di supporto ai meccanismi fisiologici, ma indipendenti in qualche misura da questi: come ognuno di noi sa, ci si può spostare in una stanza più calda anche prima di avvertire freddo, in base ad una semplice previsione. In questo caso, l’“io” cosciente ha un certo ruolo. Ma quando noi, ad esempio, apprendiamo un’arte marziale, certo stiamo fornendo un notevole supporto ai meccanismi fisio-

21MORUZZI, Giuseppe, Fisiologia della vita di relazione, Torino, UTET, 1981, p. 553. Il brano

prosegue con la seguente affermazione: “Questa è indubbiamente una distinzione legata ad una visione antropocentrica, perché è difficile dire cosa siano i movimenti volontari nei ver-tebrati inferiori”. Qui però il problema è molto più complesso: ragionando in questi termini, per quanto se ne può dire fondatamente, in realtà non è l’“uomo” ma sono “io” che mi rendo conto di un qual certo carattere di “volontarietà” legato a determinati miei movimenti; di ciò che “sa” sulla volontarietà o meno dei suoi atti un altro uomo, io non posso dire nulla. Non serve interrogarlo in merito, poiché il comportamento comunicativo è uno di quei “movimen-ti volontari” che andrebbe preliminarmente spiegato e non posso usarlo come giustificazione di se stesso. È, in fin dei conti, il classico problema affrontato da Cartesio su ciò che possia-mo fondatamente affermare sulle altre menti: vedi DESCARTES, René, Meditazioni Metafisiche sulla filosofia prima, op. cit.., p. 23-26. Il problema di dire “cosa siano i movimenti volontari”, quindi, se la questione è soggettivisticamente fondata in questi termini, in realtà non è per nulla confinato ai soli vertebrati inferiori, ma è esteso a pressoché tutto l’universo vivente e/o elaborante – “io” solo escluso.

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logici che vanno sotto il nome di “reazioni di difesa-attacco”; ma in questo caso meno l’“io” cosciente è presente, più i meccanismi comportamentali dell’arte si so-no automatizzati, meno si deve ragionare consciamente durante il combattimento, meglio è.

Inoltre, anche il sapere concettuale spesso e volentieri si “automatizza”. Pren-diamo l’esempio della matematica. Un buon matematico è passato attraverso lo studio di larghe parti della sua disciplina, si è trovato, in altre parole, nella necessità di ripercorrere la dimostrazione di migliaia di teoremi diversi. Di alcuni di questi, con cui ha maggiore dimestichezza, egli riuscirà a ricostruire al volo la relativa di-mostrazione; di altri, la gran parte, non è in grado – anche se nella maggioranza dei casi, con una certa dose di applicazione cosciente, potrà ricostruirla in un tempo più o meno lungo. Messo di fronte alla necessità di dimostrare per la prima volta la teo-rematicità o meno di una proposizione, salvo casi particolarmente semplici, avrà quasi certamente bisogno di un tempo ancora maggiore.

In che modo un buon matematico giunge a ricostruire la dimostrazione dimen-ticata di un teorema o, addirittura, giunge a costruirne una ex novo per una proposi-zione che lui – o addirittura l’intera sua disciplina – non ha mai incontrata prima d’ora? In realtà, i suoi studi lo hanno portato ad automatizzare determinate strategie di risoluzione dei problemi ed è esattamente a queste che il matematico fa appello. Egli è portato verso di loro spesso in maniera inconscia – l’idea di applicare l’una o l’altra sorge sul momento. I casi particolarmente complessi sono poi, ovviamente, quelli in cui le strategie standard sono inefficaci per quel problema specifico ed è la strategia risolutiva in quanto tale che va trovata. Strategia che, una volta recuperata per un caso specifico, può eventualmente entrare a far parte del bagaglio concettuale del matematico – in tempi più o meno lunghi, anche dei suoi colleghi e della disci-plina in quanto tale – e si “automatizza” anch’essa. Di fronte ad un ulteriore pro-blema, egli avrà uno strumento in più verso il quale la sua mente si rivolgerà spon-taneamente.

Quanto esemplificato per la Matematica, si può certo estendere a un po’ a tutte le Scienze – anche a quelle cosiddette “umane” – le quali costruiscono specifici concetti e strategie per affrontare i loro peculiari problemi. La storia delle acquisi-zioni concettuali è, perciò, paradossale. Nel momento in cui ci dedichiamo al pro-cesso di apprendimento, avvertiamo fortemente la “mentalità” del processo: le nuove nozioni e/o abilità ci appaiono, nelle loro caratteristiche essenziali, nella pie-na luce della coscienza. Quando, però, un tale processo si approfondisce, ecco che

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tali acquisizioni divengono una sorta di automatismo cognitivo e/o comportamen-tale,22 e dobbiamo fare un certo sforzo per riportare alla coscienza le loro caratteri-stiche concettuali (ad esempio per insegnarle ad altri).23

Riportavamo prima che “anche un comportamento implica una determinata di-sposizione nello spazio e nel tempo dell’attività di popolazioni di motoneuroni, come avviene in una risposta riflessa. Anche il comportamento può essere ricon-dotto ad un meccanismo nervoso”. Ora, la comprensione concettuale è anch’essa un meccanismo comportamentale.24 Innanzitutto, è legata genealogicamente ad un automatismo riguardante l’istinto – quello dell’esplorazione e “mappatura” dell’am-biente: ogni forma di conoscenza, infatti, dal punto di vista della teoria dei sistemi e dell’informazione, può essere considerata come la “mappa” di un ambiente.25 Inol-tre non è certo inevitabile e presenta, particolarmente ai suoi più alti livelli, continue e talvolta radicali novità.

Il corpo è allora, dunque, anche il luogo del pensiero e non solo di “ciechi” e “stupidi” automatismi vitali? Certo: ma se si continua a ragionare nei termini della contrapposizione corpo-mente, esso può facilmente apparire come un mostro che divora continuamente, appiattendolo negli infimi regni dell’automatismo neuronale, la luce di un pensiero, di una coscienza, di un io, che, pur nascendo da esso, ne so-no in una qualche misura distinti e che devono di continuo ricrearsi per poter esi-stere in quanto tali.26

22Questo movimento concettuale è evidenziato efficacemente dal filosofo tedesco Hegel nella sua

celebre formula del passaggio “dallo spirito alla natura e dalla natura allo spirito”: vedi HEGEL, George Wilhelm Friedrich, Enciclopedia delle Scienze Filosofiche in Compendio, Bari, Laterza, 1984, pp. 219-227.

23Questo è il motivo per cui il grande scienziato o il campione sportivo non sono automaticamen-te dei buoni insegnanti delle loro scienze o arti. Sicuramente essi sono in possesso dell’abilità di apprendere le loro discipline – in altre parole di renderle degli automatismi cognitivi e/o motori – ma non è per nulla assicurato che posseggano la capacità inversa – trasformare i loro automa-tismi in una strategia cognitiva atta a farli apprendere ad altri.

24Vedi CELENTANO, Marco, “Conoscenza senza verità. Un problema etologico”, in Porta di Massa – Laboratorio Autogestito di Filosofia, V fascicolo, 1998, pp. 17-20.

25Vedi BATESON, Gregory, “Forma, sostanza e differenza”, in BATESON, Gregory, Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1976, pp. 464-484.

26È né più né meno la tesi di fondo del cosiddetto “Attualismo” gentiliano. Giovanni Gentile, in-fatti, spezza il criterio di fondo del panlogismo hegeliano – quello dell’identità di logica e meta-fisica – in nome di una pretesa specificità del pensiero rispetto all’essere. Il pensiero, per il filo-sofo italiano, non può ridursi ad una semplice forma dell’essere, in quanto quest’ultimo sarebbe, a suo dire, statico e passivo, mentre il primo si caratterizza per la sua dinamicità ed attività: non è fatto, bensì atto (vedi GENTILE, Giovanni, “I fondamenti dell’idealismo attuale”, in GENTI-LE, Giovanni, Opere filosofiche, parte IV, cap. V, Milano, Garzanti, 1991). Una tale concezione ha avuto nella Filosofia del XX secolo enorme risonanza, influenzando in particolar modo la

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fenomenologia e l’esistenzialismo (vedi PACI, Enzo, La filosofia contemporanea, Milano, Garzanti, 1974, in particolare le pp. 161-233). È però presente anche nel campo delle Neuroscienze e del-la Filosofia della Mente, in particolar modo come sottofondo ideologico alla cosiddetta “tesi debole” in Intelligenza Artificiale: vedi SEARLE, John R., “Minds, Brains, and Programs”, in The Behavioral and Brain Sciences, 3, 1980, (traduzione italiana “Mente, cervelli e programmi” in HOFSTADTER, Douglas R. e DENNETT, Daniel, L’io della mente. Fantasie e riflessione sul sé e sull’ anima, op. cit., 341-360). Per una notevole obiezione alla tesi contenuta nell’articolo di Sear-le – cui si deve tra l’altro l’introduzione dei termini “tesi debole” e “tesi forte” in Intelligenza Artificiale – si vedano le riflessioni di Hofstadter e Dennett alle pp. 360-369 dello stesso testo appena citato.

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Sensazione, Percezione

d un “meccanismo nervoso” possono essere ricondotte anche tutte le nostre sensazioni, che costituiscono un aspetto di ciò che chiamiamo “mente”. 27

Sensazione, però, non equivale a percezione: se quest’ultima è sicuramente una sen-sazione, non è vero il contrario. Ad esempio, se l’informazione giunta al recettore si trasmette attraverso gli interneuroni ai motoneuroni, non abbiamo altro che un’attività riflessa; solo nel caso in cui l’informazione s’incanali per le vie ascendenti specifiche connesse alle aree di proiezione corticali, c’è la possibilità che essa si tra-sformi in una percezione, in altre parole che giunga all’attenzione cosciente.

La possibilità, per nulla la certezza assoluta. Un numero incredibilmente basso d’informazioni sensoriali – forse meno di una su un milione ogni secondo – giunge ad influenzare la coscienza di un essere umano, trasformandosi in percezioni. Il che non significa che le altre siano inutili: sono, anzi, indispensabili per le miriadi di re-golazioni riflesse necessarie alla sopravvivenza del nostro organismo. Alcune in-

27Le informazioni di varia natura provenienti dal mondo “interno” o da quello “esterno”, sono

trasformate in sensazioni mediante un complesso meccanismo fisiologico: dapprima accolte e trasformate dai recettori sensoriali, attraverso uno o più neuroni sensitivi primari esse giungono a quelli centrali, dove avviene un’elaborazione del segnale e la sua trasformazione definitiva in una sensazione. La ricezione dell’informazione nei recettori è un fenomeno bioelettrico analogi-co, continuo, senza soglia d’attivazione e potenzialmente sommatorio. La trasmissione dell’in-formazione può però avvenire solo perché questo dato analogico di partenza è trasformato in un segnale digitale – del genere “tutto o nulla”, caratterizzato da una soglia minima d’attivazio-ne e per nulla sommatorio. I neuroni centrali, infine, operano un’ulteriore elaborazione digitale del segnale e producono la sensazione – un’elaborazione basantesi anche su di una serie di co-dici che regolano la trasmissione dell’informazione ricevuta. Un codice può consistere nel fatto che la linea della trasmissione del segnale è marcata – in altri termini, gli impulsi possono giunge-re da quello specifico neurone sensitivo primario e/o attivare quel neurone centrale – e questo già contiene in sé una notevole dose d’informazione strutturata. Altrettanto notevoli dosi d’informazione prestrutturata possono giungere poi dal codice temporale – in altri termini dalla frequenza, dalla distribuzione nel tempo, dagli intervalli tra una scarica ed un’altra, ecc. con cui avviene la trasmissione del segnale nel neurone sensitivo primario – o dal codice spaziale – in altri termini dall’attività contemporanea o meno di più canali di trasmissione dell’informazione.

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formazioni sensoriali28 servono addirittura solo ed esclusivamente ad alimentare tali regolazioni riflesse e non giungeranno mai, in nessun caso, alla nostra coscienza.

In ogni caso – indipendentemente dalle nostre cognizioni di estesiologia – noi tendiamo ad attribuire caratteristiche “mentali” solo a quelle sensazioni che, per qualche motivo, sono state accolte come oggetto della nostra coscienza: le perce-zioni, appunto. Certo, non immediatamente. Per il senso comune, anzi, il libro che leggiamo non consiste nell’immagine che si è formata sulla retina ed è stata poi suc-cessivamente elaborata dai centri corticali della visione: tale immagine, insieme a tutte le altre percezioni tattili, acustiche, odorose collegate ad essa, è invece il libro stes-so – e lo stesso vale per la stragrande maggioranza delle altre nostre percezioni. Per attribuire carattere di “mentalità” alle percezioni che abbiamo del mondo, dobbia-mo fare mente locale al fatto che, per esempio, la percezione delle onde luminose o di quelle acustiche non ha nulla in comune con ciò che esse sono per il fisico. In un universo senza esseri viventi le onde luminose ed acustiche ci sarebbero certo state, ma la luce ed il suono no. D’altronde, per un cieco e per un sordo queste percezioni non esistono.29

Le percezioni appaiono così, in quest’ottica, un meccanismo cognitivo. Sono, in pra-tica, un modo di giungere a conoscere l’universo – compreso noi stessi in quanto “corpo” e in quanto “mente” – trasformandolo in una somma d’informazioni per noi recepibili e fruibili.30 Basti pensare al meccanismo binoculare della visione. At-traverso di esso, onde luminose che giungono indipendentemente ai recettori dei singoli occhi vengono trasformate in una visione tridimensionale del mondo, che ci consente di valutare distanze e dimensioni dei singoli oggetti. Si tratta di un’informazione che, in quella forma, non è contenuta direttamente in alcun modo nelle singole onde luminose che esistono “là fuori” e che hanno colpito i nostri sin-goli occhi: essa è comparsa solo a partire dall’elaborazione corticale dei dati senso-riali. Il caso della visione binoculare è particolarmente eclatante. In generale, però, le sensazioni sono il risultato di una trasformazione ed un trattamento digitale delle informazioni analogiche di partenza, non un semplice “rispecchiamento” del mon-

28Ad esempio quelle provenienti dai barocettori seno-carotidei e dai fusi neuromuscolari. 29Questa constatazione è alla base di un concetto tipico della scienza moderna: la distinzione tra

qualità primarie (quantitativamente analizzabili ed oggettive) e qualità secondarie (facenti riferi-mento alla sensorialità e del tutto soggettive). Vedi GALILEI, Galileo, Il Saggiatore, ENO, pp. 347-352.

30Il primo a cogliere con precisione quest’aspetto cognitivo – e non semplicemente riproduttivo – del meccanismo sensoriale-percettivo è stato Immanuel Kant. Vedi KANT, Immanuel, Critica della ragion Pura, Bari, Laterza, 1985, pp. 65-92 (“Estetica Trascendentale”).

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do, “esterno” o “interno” che sia. Davvero niente male, per un “semplice” mecca-nismo nervoso.

La contrapposizione corpo-mente è però dura a morire. In fin dei conti, anche il comportamento di un semplice computer dotato di scanner nei confronti di una fo-tografia potrebbe essere descritto in maniera assai simile. Inoltre, abbiamo visto che la stragrande maggioranza delle sensazioni resta tale e che ben poche giungono ad essere contenuto di una coscienza. Si potrebbe perciò pensare che sia un’attività strettamente “mentale” – la coscienza, appunto – a trarre fuori dagli infimi regni del meccanicismo neuronico alcuni contenuti, ed, elaborandoli, portarli su di un piano diverso.31

31Una posizione come questa ha il suo antenato più illustre in Cartesio: vedi DESCARTES, Re-

née, Meditazioni Metafisiche sulla filosofia prima, op. cit.

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Emozione, Sentimento

n un certo senso, la coppia emozione/sentimento (o, per essere più precisi, rea-zione emotiva/sentimento emotivo), possiede delle affinità strutturali con la

coppia sensazione/percezione analizzata precedentemente. Abbiamo visto che alcune sensazioni non giungeranno mai, costituzionalmente,

al livello della coscienza, essendo destinate, evolutivamente, al solo scopo di pro-durre determinate regolazioni riflesse. Portarle alla coscienza, vale a dire trasformar-le in percezioni, sarebbe del tutto inutile e talvolta persino controproducente. In ap-parenza, però, le emozioni sono sempre coscienti; in altre parole noi esseri umani siamo portati ad identificare le reazioni emotive con i loro correlati coscienti – i senti-menti emotivi. Di solito, infatti, il termine emozione, nel linguaggio ordinario, tende a coprire entrambi questi aspetti: in questa concezione del senso comune c’è qualcosa di giusto e qualcosa di sbagliato.

Partiamo da ciò che c’è di sbagliato. Una simile identificazione è antropocentri-ca, in altri termini dimentica che nella maggior parte degli animali è assai probabile che manchi la coscienza – e di conseguenza i sentimenti – mentre è pressoché di norma la presenza di reazioni emotive. È esperienza comune, infatti, notare reazio-ni emotive in animali dotati di un sistema nervoso troppo ridotto per presupporre in loro la presenza di un meccanismo cerebrale così complesso quale la coscienza.

Ho assistito una volta ad una sequenza assai complessa di reazioni emotive da parte di una lucertola. Accerchiata da un gruppo d’esseri umani che volevano allon-tanarla da una situazione per lei pericolosa, si è prima immobilizzata, poi è scattata di corsa più volte, si è infine nuovamente immobilizzata, ha teso tutti i muscoli del corpo gonfiandolo, sollevato nella nostra direzione la testa, mostrato i denti e sof-fiato. Tutti comportamenti che, se attuati da un essere umano, ci avrebbero fatto immediatamente concludere all’esistenza in lui di determinati sentimenti emotivi – quali paura, ira, aggressività… – che consideriamo correlati necessari di tali reazio-ni emotive a livello comportamentale. Occorre però considerare che

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(…) la coscienza si è prodotta dopo che la corteccia dei mammiferi si è sviluppata. Ri-chiede la capacità di mettere in relazione più cose nello stesso momento (l’aspetto di uno stimolo, i ricordi di esperienze passate relative a questo stimolo o a stimoli correlati, una concezione di sé come partecipante all’esperienza). Un cervello incapace di creare queste relazioni, per mancanza di un sistema corticale che riesca a riunirle nello stesso momen-to, non può diventare cosciente. In base a tale definizione, la coscienza è sicuramente presente negli esseri umani; e gli altri animali, nella misura in cui hanno la capacità di trattenere e di manipolare le informazioni in uno spazio di lavoro mentale generalizzato, hanno anche la capacità potenziale di essere coscienti. Questa formulazione lascia aperta la possibilità che altri mammiferi, altri primati in particolare, ma non solo loro, siano co-scienti. Negli esseri umani, però, la presenza del linguaggio naturale modifica sostanzial-mente il cervello: spesso attribuiamo delle categorie alle nostre esperienze in termini lin-guistici, e le immagazziniamo in modo che siano accessibili linguisticamente. Se esiste una coscienza fuori dalla specie umana, potrebbe essere molto diversa dalla nostra.

(…) la coscienza umana è quella che è per il tipo di cervello che abbiamo. Altri ani-mali potrebbero essere coscienti a modo loro, per il tipo di cervello che hanno. E altri ancora essere privi di coscienza, sempre per il tipo di cervello che hanno. Al contempo, la coscienza non è né la condizione necessaria né la stessa cosa della capacità di pensare e ragionare. Un animale riesce a risolvere molti problemi senza essere manifestamente consapevole di quello che fa e del perché lo fa. La coscienza eleva il pensiero a un altro livello, ma è diversa dal pensiero.32

Le reazioni emotive, perciò, sono distinte dai sentimenti emotivi. Si tratta di una se-rie di comportamenti stereotipati di risposta immediata all’avvertimento di una serie di stati del mondo che si distinguono dai semplici “riflessi istintivi” – come quello, per esempio, che fa scattare in avanti la nostra gamba al tocco di un martelletto sul-la rotula – per la presenza in essi di un processo di valutazione inconscia del dato percepito. Una valutazione che produce, specie negli animali superiori, una risposta emotiva piuttosto che un’altra. Incontrare la donna di cui sono innamorato o la sua gemella omozigote, nonostante l’estrema somiglianza dei dati che giungono ai miei organi di senso, non produce affatto la stessa reazione emotiva. È intervenuta, in-fatti, una valutazione differente di dati sensoriali estremamente simili.

Una valutazione, tra l’altro, tipicamente inconscia: posso essere cosciente dei ri-sultati sentimentali emotivi di tale valutazione, ma quale sia stato il processo che li ha ge-nerati è cosa che ricade totalmente fuori dell’ambito della mia coscienza. In questo, noi uomini siamo perfettamente assimilati al resto del regno animale. In un certo 32LEDOUX, Joseph, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, Milano, Baldini & Castoldi, 1998,

pp. 311-312. Vedi anche CIMATTI, Felice, La Mente Silenziosa. Come Pensano gli Animali non U-mani, Roma, Editori Riuniti, 2002, pressoché interamente dedicato al tema in questione.

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senso, dunque, i processi di valutazione inconsci che portano ad una reazione emo-tiva somigliano a tutte quelle sensazioni che non giungono mai al livello della co-scienza. Il sentimento emotivo, pertanto, è una forma particolare di percezione: l’avvertimento cosciente di uno stato interno legato ad una reazione emotiva.

Dicevamo però che nella concezione del senso comune – che, solitamente, ap-piattisce le reazioni emotive sul sentimento emotivo – c’è anche l’intuizione di qualcosa di esatto, purché non si commetta l’errore di estendere quella che è una condizione tipicamente umana e, forse, di pochi altri animali, all’emozione tout court.

I sentimenti emotivi – paura, rabbia, odio, amore, aggressività, gioia, ansia… co-sì come giungono alla coscienza degli esseri umani – sono dotati di notevoli pecu-liarità. Da un lato, infatti, essi hanno le caratteristiche tipiche di tutte le altre perce-zioni: occupano lo spazio della coscienza, possono essere più o meno in “primo piano”, ecc. Le percezioni standard, però, possono anche, entro certi limiti, giungere o svanire a nostro piacimento: abbiamo ad esempio deciso di leggere questo libro; tra un tempo più o meno lungo lo richiuderemo, per indirizzare l’attenzione della nostra coscienza su altri enti del nostro mondo.

I sentimenti emotivi, invece, sono, al tempo stesso, necessariamente coscienti e neces-sariamente involontari. Un sentimento è, infatti, cosciente per definizione: una perso-na, nonostante le illusioni che qualcuno può farsi in merito, non può davvero essere innamorata di un’altra “senza saperlo”; tanto meno ha senso affermare di provare paura, odio, amore, ansia, ecc. senza che l’emozione sia concretamente presente. In altre parole, dal punto di vista fenomenologico della coscienza individuale umana, l’esistenza di un’emozione coincide con la sua presenza nello spazio della coscienza. D’altronde, non pos-siamo scegliere di provare o no un’emozione: essa arriva e basta, manifestandosi come sentimento emotivo. Nessuno di noi può provare amore, gioia, spavento, ecc. dietro il comando della sua semplice volontà. Le emozioni allora, osservate da que-sto punto di vista, sembrano percezioni riflesse, fenomeni mentali che, giungendo alla coscienza in modo del tutto automatico, assomigliano alle “semplici” regolazioni ri-flesse. Di conseguenza, quello che certa letteratura e senso comune considerano la cifra per eccellenza dell’individualità, appare, invece, come un meccanismo percet-tivo abbastanza generico e, in fin dei conti, davvero pochissimo – per non dire per nulla – individualizzato.33

33Già Charles Darwin aveva fatto notare, nel suo The Expression of the Emotions in Man and Animals

(1872) (traduzione italiana L’espressione delle emozioni nell’ani-male e nell’uomo, Torino, Bollati-Boringhieri, 1962), come la mimica facciale collegata a determinate emozioni fondamentali fos-

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A questo punto vale la pena di domandarsi a cosa servono i sentimenti emotivi. A cosa servano le reazioni emotive, infatti, è facile dare una risposta. Per usare un e-sempio classico, se un orso mi assale all’improvviso durante una passeggiata, l’avere a disposizione una serie di veloci sequenze automatiche di reazione che, evolutiva-mente e statisticamente parlando, hanno permesso, nella maggior parte dei casi, a quelli della mia specie di cavarsela in tali frangenti è una cosa assai utile, dato il pic-colissimo tempo che ho a disposizione per pensare ad una qualunque strategia di difesa. Se le reazioni emotive mi hanno momentaneamente messo fuori pericolo, allora potrò mettere in azione le mie capacità di ragionamento – più raffinate ma più lente – per capire cosa posso fare per trarmi definitivamente fuori pericolo.

Il problema, appunto, è che per svolgere questa funzione le reazioni emotive sa-rebbero più che sufficienti. Ad un primo sguardo non si comprende bene perché si siano evoluti nella specie umana e, forse, in poche altre specie animali, i sentimenti emotivi. Non si capisce bene, in altri termini, perché si sia dovuto portare al livello della percezione i risultati di processi che, nella stragrande maggioranza delle altre specie, funzionano tranquillamente in assenza della loro entrata nello spazio della coscienza.

Per capirlo, occorre tenere presente due cose. Innanzi tutto, che le reazioni e-motive implicano comunque un processo valutativo, sia pure inconscio. Numerosi studi34 hanno però mostrato come le catene neuronali che strutturano tali reazioni emotive, nel loro aspetto “valutativo” siano alquanto sommarie e generiche, rispet-to alle catene che strutturano i processi del pensiero comunemente inteso. In com-penso, sono decisamente più veloci e questo contribuisce notevolmente alla nostra sopravvivenza. Va poi ribadito che la nostra mente non è un processo lineare, ma che, al contrario, nel nostro sistema nervoso circolano e sono elaborati contempo-raneamente una notevole quantità di processi35 – la stragrande maggioranza dei quali, come abbiamo visto, non accederà mai alla coscienza.

Alcuni di questi processi sono però particolarmente importanti per la vita di re-lazione e per la stessa sopravvivenza dell’individuo, e vanno portati, urgentemente, all’attenzione della coscienza. Torniamo all’esempio dell’orso. Le informazioni rela-

se un dato indipendente dalle culture e, in buona misura, comune all’uomo ed alle scimmie an-tropomorfe.

34Per una visione sinottica di queste ricerche, vedi LEDOUX, Joseph, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, op. cit., particolarmente pp. 143-185.

35Per approfondire questo concetto vedi un “classico” della Filosofia della Mente e delle Neuro-scienze: MINSKY, Marvin, La società della mente, Milano, Adelphi, 1989.

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tive all’attacco sono come annegate in un mare d’informazioni sensoriali introcetti-ve, propriocettive ed esterocettive, che solo in minima parte lo riguardano. Esse pe-rò, per la loro importanza, hanno attivato una o più reazioni emotive elementari e, nel caso degli esseri umani, hanno avocato a sé lo spazio della coscienza. Così fa-cendo, hanno richiamato i processi del pensiero valutativo maggiormente raffinato sul problema in questione, invitandolo con decisione a trovare per esso una solu-zione, nel caso che le reazioni emotive automatiche non siano sufficienti. I senti-menti emotivi, perciò, sono una sorta di “campanelli d’allarme” che indirizzano con forza la coscienza cognitiva su di un particolare processo, mettendo momentanea-mente in ombra tutti gli altri.36

Ricapitoliamo. Esiste nella “società della mente” un processo cognitivo partico-lare, del tutto automatico ed inconscio, che opera una sorta di supervisione sui con-tenuti sensoriali, avvisandoci tramite la paura di un pericolo immediato, tramite l’innamoramento di un partner sessuale particolarmente interessante, tramite l’affet-to della presenza di un amico, tramite l’odio di quella di un nemico, ecc. Questo processo, da un lato, appronta delle reazioni automatiche pressoché immediate; dal-l’altro, almeno negli esseri umani, spedisce i suoi risultati nel pieno dell’area della coscienza, richiamando così in funzione dei processi cognitivi maggiormente poten-ti, anche se decisamente più lenti, in grado di intervenire ulteriormente, valutando in maniera più approfondita la situazione e studiando delle strategie maggiormente specifiche.

Proprio nel campo delle emozioni, perciò, l’idea di una separazione “forte” tra mente e corpo, trova paradossalmente il suo limite. È tra l’altro stato ipotizzata e studiata a più riprese l’ipotesi che determinate emozioni siano imparentate – la pau-ra e l’ansia, per esempio – e che l’emozione “lieve” sia il risultato di una sorta di “desensorializzazione emotiva”, dovuta all’esposizione prolungata alla circostanza

36 Questa concezione è suffragata da numerosi casi clinici, in cui i pazienti hanno subito – per ma-

lattie o per conseguenza di eventi traumatici – una lesione alle zone del cervello che presiedono alle emozioni, mantenendo però completamente intatte le capacità cognitive superiori. Questi pazienti mostrano ai test un’intelligenza normale od anche superiore alla media, dunque non sono per niente stupidi: si comportano però come se lo fossero. L’incapacità o anche la sola dif-ficoltà a provare emozioni, infatti, impedisce loro di dare importanza particolare ad un evento piuttosto che ad un altro – in altri termini, impedisce loro di giungere a decisioni, per cui pos-sono restare come imbambolati, per un tempo lunghissimo, a riflettere su decisioni che una persona sana prenderebbe in breve tempo (ad esempio, il giorno di un appuntamento). Vedi DAMASIO, Antonio R., L’errore di Cartesio, Milano, Adelphi, 1995, in cui sono discussi alcuni di questi casi.

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che produce la collegata emozione “forte”.37 Quella che sembra la cifra dell’individualità mentale mostra, analizzata con la necessaria attenzione, inaspettate affinità con il “corporeo” e “pavloviano” meccanismo delle regolazioni riflesse.

Tra l’altro, è proprio per questo che l’uomo, in una qual certa misura, può pro-porsi di educare i propri sentimenti. La cultura occidentale ha lunga tradizione in meri-to, dove una tale educazione è stata sostanzialmente una repressione. Nel momento in cui, però, si riesce ad evitare di divinizzarli o di demonizzarli, il nostro rapporto con i sentimenti può essere un formidabile strumento di crescita personale. Prendendoli per ciò che sono – la catena finale di un processo cognitivo – possiamo aver con essi un rapporto costruttivo, che ne può fare un formidabile strumento di cono-scenza del mondo e di noi stessi. Se non possiamo scegliere se avere o non avere un’emozione, possiamo però educarci alla convivenza con esse, carpirne adeguata-mente la significatività, viverle come amiche e non come ospiti incontrollabili. Po-tremmo forse odiarle, in certi momenti, ma se siamo ancora vivi per poterle odiare, lo dobbiamo in buona parte a loro.

37Vedi TOMKINS, Sylvan, Affects, Imagery, Consciousness, New York, Springer, 1972; IZARD, Car-

roll, Human Emotions, New York, Plenum, 1977; EKMAN, Paul, “Expressions and nature of emotion”, in AA: VV., Approaches to Emotion, Hilldale (NJ), Erlbaum, 1984; PLUTCHIK, Robert, Emotion: A Psychoevolutionary Synthesys, New York, Harper and Row, 1980; FRIJDA, Nico, The Emotions, Cambridge, Cambridge University Press, 1986 (traduzione italiana Emozioni, Bologna, Il Mulino, 1990); JOHNSON-LAIRD, Philip a OATLEY, Keith, “Basic emotions, ra-tionality and folk theory”, in Cognitions and Emotions, 6, 1992, pp. 201-223). Per una sintesi di queste ricerche, vedi ancora una volta LEDOUX, Joseph, Il cervello emotivo. Alle origini delle emo-zioni, op. cit., pp. 107-142.

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Coscienza, Autocoscienza, Pensiero, Linguaggio

el pensiero abbiamo già parlato. Abbiamo, infatti, già visto come questo – che è generalmente riconosciuto come la funzione mentale per eccellenza –

abbia molto a che fare con il suo preteso opposto – il corpo – proprio sul terreno dei meccanismi automatici. Ora torneremo a parlarne, perché è giunto il momento di soffermarsi sulla sua concreta espressione materiale: il linguaggio.

Sin dai tempi più antichi, gli esseri umani hanno inventato tecniche per migliorare le condizioni dell’esistenza, estendendo, come abbiamo già accennato, le capacità del proprio corpo. Gli abiti, le case, i riscaldamenti, le medicine, i mezzi di traspor-to, gli strumenti di lavoro, le armi, non sono in fondo altro che estensioni della no-stra pelle, del nostro apparato di termoregolazione, del nostro apparato immunita-rio, delle nostre braccia e delle nostre gambe.

La sviluppatissima capacità di costruire attrezzi, di ideare e realizzare tecniche, è forse la caratteristica peculiare dell’uomo rispetto agli altri animali. L’uomo è, infat-ti, in grado anche di costruire estensioni del proprio sistema cognitivo. Alcune di queste tecniche d’espansione dell’intelligenza sono molto antiche: di una di queste fanno parte i piccoli segni che avete in questo momento sotto gli occhi e che chia-miamo “parole”, così come i corrispondenti suoni che questi segni rappresentano nelle scritture alfabetiche.

Siamo talmente abituati a vivere nel mondo in compagnia di quella peculiare tecnica dell’intelligenza che si chiama “linguaggio” – o per essere precisi linguaggio digitale, il linguaggio delle parole – che, oramai, siamo quasi totalmente incapaci di vedere quei piccoli segni sulla carta o ascoltare i corrispondenti suoni senza dar loro automaticamente un significato, senza trasformarli in parole e discorsi. Proprio per-ché è la tecnica che più delle altre ci accompagna lungo il percorso della nostra vita, il linguaggio verbale ci appare allora spesso come un dato del tutto “naturale”, e dobbiamo fare un notevole sforzo per capire che nei linguaggi c’è ben poco di na-

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turale,38 che essi sono tecniche così come lo sono le case, i riscaldamenti, i mezzi di trasporto, gli strumenti di lavoro, le armi. Solo, mentre queste ultime sono esten-sioni delle capacità degli aspetti “non spirituali” del nostro corpo, i linguaggi sono espansioni del sistema cognitivo, delle nostre capacità di ragionamento.

Senza il linguaggio digitale noi vivremmo – nella comunicazione con i nostri si-mili – in un mondo del tutto contingente, rinchiusi nell’attimo presente, incapaci di andare oltre le percezioni del momento. Avremmo a disposizione il solo linguaggio analogico: potremmo in pratica comunicare solo attraverso gesti, suoni, ecc. in qual-che modo analoghi, somiglianti, alla cosa che intendiamo comunicare. Ad esempio potremmo trasmettere la nostra rabbia facendo in aria, a vuoto, il gesto di colpire qualcuno. Avendo a disposizione solo questo tipo di linguaggio molte cose ci sa-rebbero precluse: anche un elemento della vita quotidiana che ci sembra banale e scontato, come concordare un semplice appuntamento, sarebbe impossibile da at-tuare con il solo linguaggio analogico. Provando a dire ad un’ altra persona “ti vo-glio vedere domani” senza usare le parole, senza in pratica dare a segni, suoni, gesti un significato preciso, ma utilizzando solo il linguaggio dell’analogia, ci si accorge presto che al massimo si riesce a farle capire, per esempio attraverso l’espansività corporea, che si è contenti di vederla adesso, in quello specifico momento e luogo. Con strumenti così limitati non possiamo davvero comunicare niente di più. Certo, quello stato mentale che definiamo “memoria” – presente in noi come in molte al-tre specie animali – ci permetterebbe anche di desiderare soggettivamente il rivedersi, magari da entrambe le parti; ma non avremmo gli strumenti per poter attuare con una certa sicurezza il nostro desiderio.

Si tratta ora di capire perché questa cosa diventa facilissima non appena comin-ciamo ad utilizzare un linguaggio digitale condiviso da tutti i comunicanti. Per giun-gere a ciò, occorre comprendere cos’è – da un punto di vista logico – la particella elementare di un linguaggio: la parola.

La parola è un oggetto – solitamente un suono o un segno o un gesto o lo stato di un circuito elettronico – cui è stato connesso un significato. “Significato” è un termine derivato dal latino signum facere, “fare segno”, “indicare”: se noi utilizziamo 38Gli esseri umani, certo, posseggono una determinata predisposizione all’apprendimento dei lin-

guaggi, nonché – vedendo le cose dal punto di vista del linguaggio emesso attraverso segnali sonori – un repertorio sonoro di base composto da alcune decine di fonemi. Ciononostante, in mancanza di un particolare addestramento, che deve avvenire tra l’altro in specifici momenti dell’esistenza infantile, queste predisposizioni restano inutilizzate – come dimostra la classica esperienza dell’“uomo dei lupi”. D’altronde, l’uomo possiede anche le mani, ma non basta dare una penna in mano ad un analfabeta perché questi scriva.

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un linguaggio digitale, vuol dire che abbiamo appreso l’arte, la tecnica di collegare, tramite un codice, a suoni, segni, gesti, ecc. oggetti, azioni, qualità, relazioni tra enti di diversa natura, sentimenti, ecc. Ad esempio scrivendo il segno “gatto” e/o pronun-ciandone il relativo suono e/o utilizzando qualche gesto di un linguaggio dei sor-domuti, adoperando le convenzioni linguistiche dette “italiano”, usiamo questi og-getti per “significare”, “indicare” un altro oggetto – un animale. Lo stesso facciamo con termini quali “camminare”, “altezza”, “vedovanza”, “amore”, ecc. Connetten-do poi insieme queste singole parole, formiamo frasi con cui descriviamo stati del mondo anche estremamente complessi; possiamo parlare di cose che non sono al momento alla nostra portata; possiamo ipotizzare azioni future; possiamo riflettere su quelle passate; possiamo insomma fare un’infinità di cose, anche riflettere sullo stesso linguaggio. Possiamo, infatti, domandarci se ciò che pensiamo sul mondo, sugli altri, su noi stessi, ecc. è vero o falso. Il linguaggio digitale è, infatti, la chiave che apre le porte ad un mondo che gli altri animali, salvo le poche scimmie antropo-morfe cui abbiamo insegnato in parte un linguaggio gestuale dei sordomuti, non conoscono affatto: il mondo della verità. 39

Il tema dei rapporti tra “linguaggio” e “verità” è sterminato. Per ciò che c’interessa più da vicino, focalizzeremo ora la nostra attenzione sul fatto che il linguaggio digitale è uno dei tanti comportamenti che il “nostro” corpo può ap-prendere.

39Il tema della verità – e del rapporto tra linguaggio e verità – è alla base della nascita del pensiero

razionale ed è la questione chiave dell’epistemologia, della filosofia del linguaggio e dell’ontologia. Per un approccio alla questione, si può utilmente consultare il già citato V fasci-colo della rivista monografica Porta di Massa – Laboratorio Autogestito di Filosofia (dedicato proprio al concetto di “Verità”), e, in particolare, le pp. 4-20 (VOCCIA, Enrico, “Elogio della verità”; NOBILE, Italo, “Esiste verità?”; ETTARI, Dario, “Un ‘oscuro laberinto’? Riflessioni su mon-do, conoscenza del mondo, limiti del mondo”; CELENTANO, Marco, “Conoscenza senza ve-rità. Un problema etologico”) ed il fascicolo VIII (dedicato al concetto di “Filosofia”) ed, in particolare, le pp. 3-4 e 19-23 (ALINI, Maddalena, “La Filosofia come Creazione di Concetti”; VOCCIA, Enrico, “Che cos’è la Filosofia. Tecnica, Linguaggio, Verità, Fondamento”).

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Il fatto di non riuscire più a vedere “ingenuamente” solo una serie di punti, curve e tratti, ma di essere pressoché costretti a cogliere il “significato” connesso a questi segni – in pratica, pensare immediatamente a quell’oggetto con cui si fuma il tabac-co – è il segno evidente che il linguaggio, in noi che lo abbiamo appreso, consiste in un riflesso condizionato. Il pensiero concettuale, perciò, non è altro che l’uso dell’abilità linguistica,40 in pratica di quel condizionamento in base al quale, dopo un processo educativo, associamo automaticamente a determinati suoni, segni, gesti i loro significati.41

D’altronde, noi controlliamo ben poco il nostro linguaggio – di conseguenza, il nostro pensiero. Nessuno di noi sa preventivamente ciò che penserà. I pensieri fluiscono, semplicemente, senza che su di essi possiamo esercitare il benché minimo control-lo. Non possiamo impedirci di pensare ciò che penseremo, il che in certi momenti è un e-norme peso, quando la ragione ci rivela cose che preferiremmo non giungessero al-

40 Ovviamente sono cosciente del fatto che esista tutta una tradizione di pensiero, per così dire,

“trasversale” all’interno della cultura occidentale, che contesta radicalmente quest’identità pen-siero-linguaggio, in base all’idea che quest’ultimo sarebbe solo il meccanismo espressivo di un pensiero, altrimenti connotato. Solo, questa posizione mi sembra assai debole e, spesso, accom-pagnata dall’equivoco che il linguaggio sia un fenomeno necessariamente cosciente (si veda, su questo punto, più avanti nel testo). Chi afferma che il pensiero è altro dal linguaggio dovrebbe, infatti, poter esibire un pensiero concettuale in forma diversa da quella linguistica – cosa che, però, non è mai stata concretamente fatta. Altre posizioni affini alla presente sono largamente diffuse in CIMATTI, Felice, La Mente Silenziosa. Come Pensano gli Animali non Umani, op. cit. Si tenga presente che anche il codice binario usato dai computer è un linguaggio ed abbiamo inoltre visto, in precedenza, come gli stessi meccanismi di comunicazione del sistema nervoso degli es-seri viventi operano pur’essi su base binaria.

41 Si distinguono, in base al meccanismo che li produce, sostanzialmente due tipi di riflessi condi-zionati: i riflessi condizionati “classici” (o “pavloviani”) e quelli “strumentali”. Associando in determinate maniere ad un riflesso incondizionato (in altri termini, indipendente dall’apprendimen-to: ad esempio, la secrezione salivare sotto stimolo della fame alla presenza di cibo) uno stimolo condizionante (ad esempio un determinato suono), si può ottenere un riflesso condizionato classico. In pratica, l’animale affamato, sentendo quel determinato suono – che senza il processo di condi-zionamento avrebbe attivato solo il cosiddetto riflesso d’orientamento (“che-cosa-è?”) – saliverà an-che senza la presenza del cibo. Il riflesso condizionato strumentale appare, invece, quando l’animale stesso determina il proprio condizionamento. Ad esempio, un piccione in gabbia che, sotto l’effetto della fame, tende a beccare casualmente il terreno in ricerca di cibo, può scoprire del tutto casualmente che beccando un determinato punto fuoriesce del cibo. Dopo un po’ di tem-po, alla presenza dello stimolo della fame, il piccione beccherà solo quel punto. È evidente che l’apprendimento del linguaggio consiste in una combinazione dei due processi: per esempio, il genitore nomina ripetutamente, davanti al bambino, un certo suono alla presenza di un deter-minato oggetto; il bambino, utilizzando autonomamente una determinata combinazione di suo-ni invece che altre, si accorge di raggiungere più facilmente i suoi scopi. Più nello specifico, per ciò che concerne i meccanismi di apprendimento del linguaggio, numerose delle più recenti ri-cerche sono rintracciabili in AA. VV., Apprendimento e Memoria, .Quaderni de Le Scienze, 1988 ed in AA. VV., L’Intelligenza, Dossier Le Scienza, 1999, 1.

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la nostra autocoscienza. È persino quasi impossibile controllare le parole con cui comunichiamo ad altri esseri umani le nostre idee. Possiamo, talvolta, tentare di pen-sare prima le parole precise e poi dirle, ma si tratta di un’attività talmente faticosa che quasi sempre il suo risultato è l’incapacità di sostenere la più banale conversa-zione. Persino gli attori sul palcoscenico rendono al meglio quando le parole del te-sto fluiscono automaticamente: le “prove” della recita servono anche a raggiungere questo stadio.

Di più: il pensiero non è nemmeno un fenomeno necessariamente cosciente. Prendiamo, ad esempio, una classica operazione mentale di carattere squisitamente linguistico: la ricerca di un nome mancante all’appello immediato della memoria. È un’esperienza comune quella di canticchiare una canzone, ricordarsene l’aria musicale, il testo, l’autore… ma non, ad esempio, il titolo ed impegnarsi sul momento in una lunga ri-cerca senza esito. Poi, dopo un periodo di tempo più o meno lungo che va solita-mente dai pochi minuti ai due/tre giorni, in un momento senza connessione evi-dente con la ricerca iniziale, ecco che il nome ci viene all’improvviso alla mente, senza che noi apparentemente abbiamo fatto alcuno sforzo cosciente per ricordar-lo. In realtà, durante tutto il tempo trascorso, la ricerca era andata avanti incon-sciamente, in background, parallelamente a tutti gli altri nostri processi mentali, co-scienti o meno e, giunta a buon fine, si è finalmente imposta all’attenzione della co-scienza. D’altronde, le stesse parole che “decidiamo” di usare – lo abbiamo appena visto – si formano in maniera inconscia: alla coscienza giungono sostanzialmente già formate. 42

42Al di là di questi esempi di “vita quotidiana”, esiste tutta una letteratura scientifica, con la di-

scussione di una serie di celebri esperimenti di psicologia sperimentale, che mostrano come an-che complesse operazioni concettuali e linguistiche si svolgano tranquillamente in maniera del tutto inconscia. Il più famoso tra questi esperimenti è forse quello degli psicolinguisti James La-ckner e Merrill Garrett. Ad una serie di soggetti venivano applicate delle cuffie, nelle quali veni-vano trasmesse due serie di frasi diverse, una per ciascun canale. Si chiedeva ad essi di concen-trare l’ascolto su uno solo dei due canali, dove veniva trasmesso un messaggio ambiguo, del ti-po “La paura dei nemici impedì la guerra”. Una metà dei soggetti ascoltava sull’altro canale una serie di frasi “neutre” rispetto all’espressione ambigua ascoltata con attenzione cosciente sull’al-tro canale; l’altra metà riceveva, invece, anche una frase che suggeriva una delle possibili inter-pretazioni della frase in questione (del tipo “I nemici avevano paura, per cui non attaccarono”). Interrogati dopo un certo intervallo, entrambi i gruppi erano incapaci di riferire cosa avessero ascoltato sul canale su cui non avevano puntato l’attenzione. Ciononostante, il gruppo che ave-va ascoltato la frase “interpretante”, a differenza dell’altro, interrogato in merito, seguiva quasi unanimemente l’interpretazione ascoltata sul canale cui non aveva prestato attenzione cosciente. L’esperimento – come molti altri dello stesso genere – è difficilmente interpretabile altrimenti se non con l’ipotesi che il segnale non seguito con attenzione cosciente venga comunque elabo-rato semanticamente in maniera completa, in pratica che esso sia perfettamente compreso a livello inconscio

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La dicotomia corpo-mente s’infrange ancora una volta proprio su quelle che sembrano le roccaforti del “mentale” come oggetto ontologicamente separato dal “corporeo”. Dopo le emozioni, è proprio il pensiero a mostrarsi inaspettatamente “materiale”, “corporeo”, “meccanico”, “riflesso”, tradendo in pieno le aspettative di chi voleva vedere in esso lo stendardo della differenza.

(Vedi LACKNER, James R. e GARRETT, Merril, “Resolving Ambiguity: Effects of Biasing Context in the Unattended Ear”, in Cognition, 1973, pp. 359-372).

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Arte

l nostro viaggio all’interno dei mondi dell’uomo ci ha portato, almeno, a non ri-tenere scontata la loro separazione ontologica. Anzi, il nostro discorso ci ha por-

tato sempre più vicino all’idea che corpo, sensazione, emozione e pensiero siano radicalmente coessenziali, che posseggano, in altri termini, una radice comune – la quale, certo, non li unifica, non annulla del tutto le loro distinzioni oggettive, ma li rende in ogni modo abitatori di un’unica regione dell’essere. Una concezione questa che ci riporta, alla fine del nostro percorso, all’intuizione spinoziana per cui “cor-po” (estensione) e “mente” (pensiero) sono solo attributi, che originano particolari forme di affezione – diversi livelli di descrizione, potremmo forse dire? – d’una stessa e identica Sostanza.

Cosa c’entra l’Arte con tutto ciò? Più di quanto appaia a prima vista. Un’opera d’arte non è pura materia – puro suono, colore, forma, collocazione. Nemmeno, però, è puro significato dematerializzato. Essa, invece, come ha mostrato Hegel,43 è unione dialettica di materiale sensibile e di significati, dove l’una cosa non può esse-re senza l’altra. Molte delle discussioni sviluppate nelle pagine precedenti sul rap-porto tra il “corpo” e la “mente” dell’individuo, possono perciò facilmente traspor-si – e non sempre per semplice metafora – all’interno dei rapporti tra il livello della materialità e quello della significatività nell’opera d’Arte. Come nessuno ha mai vi-sto un’“anima” – una mente senza corpo – nessuno ha mai visto una qualche signi-ficatività artistica sganciata da un qualunque supporto materiale. Persino il totale si-lenzio di una famosa opera del musicista John Cage si sostanziava nella sua immobi-lità sul palco o nei solchi totalmente lisci di vecchi dischi a 33 giri. D’altronde, come un oggetto materiale bruto, su cui non si sia attuata alcuna operazione di significa-zione artistica, non può considerarsi oggetto d’Arte senza banalizzare del tutto que-sto termine, così anche gli stessi atomi che formano un corpo umano, senza essere 43Vedi HEGEL, George Wilhelm Friedrich, Lezioni sull’Estetica, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 34-

94 (“Concetto del bello artistico”).

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inquadrati in una particolare struttura, non formano per nulla un individuo dotato di mente. La coessenzialità tra materia e significato nell’opera d’Arte, rivisitata alla luce delle sue affinità formali con il problema corpo-mente, può allora, forse, proiettare luce su entrambi gli ambiti.

Gli esseri umani, a differenza degli altri viventi, vivono da millenni in compa-gnia di quella straordinaria tecnica d’espansione dell’intelligenza che è il linguaggio digitale. Delle capacità e della potenza concettuale di questo strumento abbiamo già detto. Ma l’uomo non è puro pensiero; la radicale coessenzialità di pensiero, corpo, sensazione, emozione è stato il tema di queste pagine, così come abbiamo discusso in esse l’alienazione tipica della cultura occidentale – ma non solo, in verità – tra “corpo” e “mente”. L’Arte, è la tesi che sosterremo, può allora configurarsi come un linguaggio peculiare, che nega alle radici e tende al superamento di quest’aliena-zione millenaria.

Un primo indizio in questa direzione. Abbiamo visto come alla radice dell’idea di una forte separazione ontologica tra il “corpo” e la “mente” ci sia stata la religio-ne orfica, poi come tale concezione si sia trasmessa ed abbia prolificato nella suc-cessiva religione cristiana, che ha informato di sé la cultura occidentale. Ebbene, uno dei punti in comune degli elementi di questa tradizione culturale, da Platone in poi, è stata certamente la diffidenza verso l’operazione artistica.

Cos’è, ad esempio, che Platone rimprovera all’Arte?44 Esattamente ciò che He-gel individuava come sua peculiare caratteristica: la compenetrazione inscindibile di materia e significato concettuale. Il peccato dell’artista, per Platone, consisteva in-fatti in ciò: egli metteva in discussione la separazione del mondo dei significati dal mondo della materia. In questo, dunque, egli era un nemico dello Stato, poiché ne “abbrutiva” i sudditi, impediva loro di sottomettersi ai veri governanti, i “filosofi” che avevano la capacità di osservare disinteressatamente, superando lo sbarramento obnubilante della materia, il mondo dei “veri” e disincarnati significati.

Il pensatore ateniese si rese conto, con notevole rammarico, che l’operazione ar-tistica era profondamente amata e ricercata dagli individui – paradossalmente, si di-rebbe anche da lui stesso, viste le notevoli citazioni che egli fa dell’arte del suo tem-po. Pertanto, non è pensabile distruggerla alla radice, anche se questa in certi pas-

44Vedi. PLATONE, Repubblica, particolarmente i libri II, III e X. La posizione platonica sul te-

ma subisce varie oscillazioni nei diversi testi, anche in seguito ad uno sviluppo di pensiero sul tema, giungendo a radicalizzarsi ancora di più nelle Leggi. È però nella Repubblica che il tema dei rapporti tra Arte e Potere è svolto con la massima articolazione.

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saggi45 è la sua esplicita tentazione. Desidera però controllarla, costringerla ad espri-mere soltanto contenuti contraddittori con la sua essenza di processo di mediazio-ne, in forma sensibile, di materia e concetti. Lo Stato dei “filosofi”, così come si configura nella sua più famosa opera politica, accetterà dunque solo le opere d’arte che veicolino i contenuti della religiosità orfica; che accettino, in altri termini, di rappresentare sensibilmente solo l’idea di una radicale separazione del mondo della materia da quello delle idee.

Il progetto di “politica culturale” di Platone passerà, facendosi davvero concre-to, nella società cristiana dell’Occidente, che lo tradurrà nei suoi specifici termini. L’artista – in quanto tale generalmente oggetto di una notevole diffidenza ed emar-ginazione sociale – sarà accettato solo in quanto messo “al servizio di Dio”, in altre parole costretto a muoversi all’interno di contenuti ben specificati, tutti dominati dall’idea di una separazione radicale tra spirito e materia. Nel II Concilio di Nicea (787), per esempio, si decretava che

Il contenuto delle scene religiose non è lasciato all’iniziativa degli artisti: esso deriva dai principi stabiliti dalla Chiesa Cattolica e dalla tradizione religiosa (…) l’arte sola appartiene al pittore, la sua organizzazione e composizione appartengono al clero.46

Agli opposti della posizione platonica – al punto di affermare che “L’arte presenta alla coscienza la verità sotto forma sensibile”47 e, di conseguenza, elevarla a mo-mento iniziale dello Spirito Assoluto – sono le già citate Lezioni sull’Estetica di He-gel. L’arte, per il filosofo tedesco, può riportare i significati spirituali nella materia sensibile proprio perché il materiale sui cui essa opera è da essa trasformato nell’essenza dello spirito: in linguaggio, in simbolo. Egli giudica, però, che essa stia an- 45 Vedi, p. e., PLATONE, Repubblica, 380 a segg. 46 Citato in MALTESE, Corrado, “Sociologia dell’arte”, in AA.VV., Enciclopedia Universale dell’Arte,

Roma-Venezia, Istituto per la Collaborazione Culturale, 1964, vol. XII. Fino al XIX secolo il committente, laico o religioso che fosse, stabiliva nel contratto preliminare con l’artista sogget-to, misure, numero delle figure e spesso colori e materiali – retaggio evidente dei rapporti arti-sta/committente venutisi a creare quando quest’ultimo era spesso di natura religiosa. Da questo punto di vista, la storia dell’arte nell’Europa cristiana può considerarsi come un processo di li-berazione dell’artista nei confronti del cristianesimo (ed una caduta nelle fauci del mercato capi-talistico dell’arte). Per ciò che concerne il Novecento, è da notare come la sprezzante opinione sulle avanguardie storiche emessa dalla Chiesa Cattolica (“orribili deformazioni”), anticipi e ri-calchi da vicino le accuse di degenerazione tipiche degli altri stati totalitari del Novecento. Su tutti questi temi vedi HAUSER, Arnhold, Storia sociale dell’arte, Torino, Einaudi, 1956; GIMPEL, Jean, Contro l’arte e gli artisti. Nascita di una religione, Torino, Bollati Boringhieri, 2000; KOSUTH, Joseph, L’arte dopo la Filosofia. Il significato dell’arte concettuale, Genova, Costa & Nolan, 1987.

47 HEGEL, George Wilhelm Friedrich, Lezioni sull’Estetica, op. cit., p. 118.

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dando incontro, ai suoi tempi, ad una radicale crisi, in quanto l’estrema ricchezza del contenuto concettuale dell’epoca moderna ha difficoltà ad essere pienamente tradotto nei linguaggi analogici tipici dell’Arte – di conseguenza, esso stia migrando verso la rappresentazione scientifica diretta.

Quest’analisi hegeliana contiene, a nostro avviso, un elemento di verità. Indub-biamente, lo abbiamo già visto, il linguaggio analogico presenta dei limiti rispetto a quello digitale. Ma proprio in questo sta la grandezza dell’Arte contemporanea: libe-ratasi dalla tutela e dalle restrizioni ideologiche della committenza politico-religiosa, essa ha accettato in pieno la sfida. La storia delle avanguardie artistiche contempo-ranee è perciò anche la storia di una forzatura dei linguaggi artistici fino al loro e-stremo limite, in modo da renderli capaci di fondere nei “materiali sensibili” i signi-ficati più complessi. Persino i concetti matematici – si pensi all’opera di Escher – per non parlare di quelli delle scienze bio-psicologiche, sono divenuti oggetto e contenuto di questa sfida. Una sfida che ha portato l’arte contemporanea a divenire una sorta di educazione/rivoluzione permanente dei linguaggi del corpo, della sen-sazione, della percezione, dell’emozione e del pensiero.48

Quello che sembrava un puro limite – l’utilizzo dei meccanismi analogici della comunicazione – è stato trasformato in un punto di forza. L’arte contemporanea, sganciatasi dall’obbligo di rappresentare un contenuto particolare, ha sfruttato l’uni-versalità del linguaggio artistico, la sua indipendenza dalla conoscenza di un partico-lare codice linguistico digitale. In tal modo, si è potuta concentrare sulla manipolazio-ne dei simboli, utilizzando i materiali ed i contesti più svariati. Così facendo, ha pro-dotto opere che, a differenza del passato, parlano al mondo intero, scavalcano con-fini culturali che sembravano barriere quasi del tutto incolmabili.

Certo, questo processo di continua e diretta manipolazione dei simboli può por-tare a sopravvalutare l’operazione di manipolazione del significante rispetto a quella della produzione del significato, sino al punto di giungere a considerare inessenziale quest’ultimo aspetto.

Su questo vanno dette due cose. Innanzi tutto, è materialmente impossibile manipola-re significanti senza produrre un qualche significato. Al massimo, si può intellettualistica-mente negare questa necessaria connessione fattuale – il che è, di per sé, una pro-duzione di significato. Inoltre, nonostante le apparenze, questa posizione è ben po-co d’“avanguardia”. Al contrario, essa appare come una sorta di rimpianto dell’idea di matrice orfico-cristiana per cui materiale sensibile e significati sarebbero mondi 48 Vedi DE MICHELI, Mario, Le Avanguardie Artistiche del Novecento, Milano, Feltrinelli, 1971.

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ontologicamente separati. I teorici dell’inessenzialità della produzione del significa-to, di fronte all’evidente e continua falsificazione oggettiva di questa tesi, non fanno altro, in fondo, che metterne in scena la desiderabilità.

Da un certo punto di vista, perciò, il tentativo di implementare l’intelligenza – in pratica, la capacità di produrre autonomamente significati – in una struttura mate-riale a base di silicio, è la massima operazione artistica che si possa immaginare. Questo non nel senso che un HAL 9000 possa essere paragonato al David di Dona-tello: si tratta ovviamente di operazioni in cui la techné umana si rivolge in direzioni ben diverse. Nel senso, invece, che la realizzazione concreta e plateale di un’Intelli-genza Artificiale smentirebbe senza alcuna possibilità d’appello la tesi che vuole ra-dicalmente scissi il mondo della materia e quello dei significati.

Non è un caso forse, allora, che i più tenaci negatori del progetto dell’Intelligen-za Artificiale “forte” accettino, più o meno esplicitamente, con varie sfumature, l’i-dea che la “mente”, il mondo dei significati, sia qualcosa d’altro dal mondo del “corpo”, della bruta materialità. In questo, essi derivano proprio da quella tradizio-ne culturale che, per millenni, ha svilito l’operazione artistica.

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Cervelli “elettronici”

uali sono le posizioni di coloro che negano la possibilità di una “Intelligenza Artificiale” – in altri termini, che si possa implementare in un corpo non orga-

nico sensazione, percezione, emozione, sentimento e pensiero? Si tratta di un ven-taglio d’atteggiamenti critici complesso e variegato, che qui esporrò nelle loro linee essenziali. 49

Innanzi tutto, si sostiene che i software di I.A. siano delle strutture esclusiva-mente sintattiche, puri insiemi d’istruzioni in logica binaria ed implementati ingegne-risticamente in un hardware altrettanto binario. L’intelligenza, però, è strettamente connessa alla sfera semantica: in altri termini, alla produzione di significati. La co-scienza poi, in particolare, è caratterizzata dal suo essere intenzionale, dal suo essere costituzionalmente rivolta ad un oggetto significativo.

Si tratta di un’argomentazione le cui radici possono essere fatte risalire ad uno dei primi pensatori che ha riflettuto sulla possibilità di una macchina “calcolante”. Contrapponendo alle macchine “corporee” cartesiane la plasticità della “sostanza spirituale”, Leibniz afferma infatti che

Se immaginiamo una macchina costruita in modo che pensi, senta, percepisca, si potrà concepire che venga ingrandita osservando le medesime proporzioni, in modo che vi si possa entrare come in un mulino. Ciò fatto, nel visitarla internamente non si troverà altro che pezzi, i quali si spingono scambievolmente e mai alcuna cosa che possa spiegare una percezione.50

49 Per un primo approccio a queste posizioni può essere utile la lettura di AA.VV., Cervelli che par-

lano. Il dibattito su mente, coscienza e intelligenza artificiale, Milano, Bruno Mondatori, 1997. Questo testo è la raccolta, commentata, di una serie d’interviste ai protagonisti del dibattito sull’intelligenza artificiale, con una notevole preponderanza delle posizioni critiche nei confronti del programma forte in I.A. Le interviste sono curate da Eddy Carli.

50LEIBNIZ, George Wilhelm, Monadologia e Discorso di metafisica, Bari, Laterza, 1986, pp. 36-37.

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L’esperimento mentale della “stanza cinese” elaborato dal filosofo John Searle è, a mio giudizio, una semplice variante logicistica dell’argomentazione leibniziana. Se-arle inizia a supporre che una persona del tutto ignorante di cinese venga rinchiusa in una stanza: le vengono passate una serie di simboli della scrittura cinese, insieme ad una serie di istruzioni sintattiche in una lingua che invece conosce per formare delle frasi cinesi, perfettamente corrette. Quest’uomo sarà dunque in grado di pro-durre un output che, agli occhi di un cinese ignaro delle modalità della sua produ-zione, apparirà come un manufatto prodotto intelligentemente: ciononostante, il suo produttore materiale sarà assolutamente incapace di capirlo. La produzione, in questi termini, di un tale output non implica, dunque, alcuna forma di “intelligen-za”. Per Searle, questa è esattamente la condizione in cui si trovano tutti i software di I.A.: il fatto che producano, in base ad istruzioni puramente sintattiche, output che ad un occhio umano appaiono “intelligenti” non implica in nessun modo che essi lo siano a loro volta.51

Un’ulteriore posizione tendente a negare la possibilità che le macchine possano pensare, si basa invece sul parametro dell’emozionalità e fa capo ad una riflessione esistenzialistico-fenomenologica. L’intelligenza – si afferma non senza ragione – è inscindibile dall’emozione. Ora, se una macchina può sviluppare forme d’intelligen-za “meccanica”, in altri termini puramente logico-deduttive, non potrà mai entrare in una relazione forte con il mondo, non potrà mai annettergli significati emotivi, non sarà mai un essere-nel-mondo, o un Dasein, avere una qualche forma di “pre-comprensione”, ecc.52

Un’altra e diversa argomentazione critica si basa, invece, sul parametro della straordinaria complessità sia del cervello umano, sia delle sue continue – e molto diverse tra loro – interazioni con il mondo circostante. Una complessità, si sostiene, che impedirebbe ad un qualunque complesso hardware/software di giungere mai a riprodurla, se non in maniera del tutto parziale e lacunosa.53

Un’altra posizione afferma poi che per spiegare le capacità d’elaborazione intel-ligenti del cervello umano, sicuramente inferiori in termini di velocità rispetto a qualunque elaboratore attuale, occorre fare capo a determinate proprietà quantisti-che che, si postula, devono essere presenti nella struttura materiale del cervello uma-no, permettendogli di superare le apparenti limitazioni rispetto alla macchina. Il fat- 51Vedi SEARLE, John R., “Minds, Brains, and Programs”, op. cit. 52Vedi DREYFUS, Hubert L., “Una risposta ai miei critici”, in AA. VV., La fenice digitale. Come i

computer stanno cambiando la filosofia, op. cit., pp. 207-230. 53Vedi DAMASIO, Antonio R., L’errore di Cartesio, op. cit.

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to di non poter sfruttare gli stessi effetti quantistici sarebbe poi il motivo per cui, da un lato, i computer non riuscirebbero a sviluppare, nonostante le loro prodezze ve-locistiche, l’intelligenza e, dall’altro, le ricerche in I.A., dopo gli iniziali successi, si sarebbero arenate: delle macchine basate sulla pura logica binaria sarebbero incapa-ci di elaborare delle strategie adeguate per risolvere la complessità che si sviluppa in problemi anche apparentemente banali.54

Sono queste, a mio avviso, le obiezioni principali che sono sviluppate contro il programma forte di ricerca in I.A. Si tratta di posizioni molto conosciute e diffuse nella comunità intellettuale che si occupa della questione: vale la pena allora di spie-gare perché, a mio avviso, nessuna di esse regge alla controcritica.

Le ultime due posizioni, per cominciare, nonostante le intenzioni dei loro autori, in realtà non sono delle vere obiezioni. La prima si limita a constatare l’ovvio: le macchine attuali – intese come combinazione hardware/software – non hanno la potenza d’elaborazione sufficiente per poter essere intelligenti. Il che, appunto, è ovvio e perfettamente presente ai più accaniti fautori del programma forte in I.A. L’idea – sottintesa – che i computer non raggiungeranno mai un tale livello è però assolutamente immotivata, data la crescita esponenziale delle capacità delle macchi-ne elaboratrici, nonché dalla loro possibilità di lavoro in parallelo e dai lenti ma continui progressi nella progettazione del software di I.A.. Per ciò che concerne in-fine l’ultima obiezione, l’idea – ancora una volta sottintesa – che i computer non possano costituzionalmente raggiungere il (postulato e non dimostrato) livello “qu-antistico” d’elaborazione delle informazioni da parte del cervello biologico, è am-piamente messa in discussione dalle più recenti ricerche.55 Per cui, anche se fosse vera, essa si riferirebbe ancora una volta solo all’ovvia constatazione delle limitazio-ni delle attuali tecnologie.

Andiamo allora all’argomentazione di Searle: la sua apparente ovvietà si basa su due equivoci. Il primo è che Searle fa apparire la manipolazione sintattica incoscien-te dei simboli di un linguaggio una cosa del tutto semplice, di facile applicazione anche da parte di chi non conosce per nulla quella lingua. Si tratta, in realtà, di un tentativo impossibile, a meno che non si conosca davvero quella lingua.56 Il secon- 54Vedi PENROSE, Roger, La mente nuova dell’imperatore. La mente, i computer e le leggi della fisica, Mila-

no, Rizzoli, 1992. 55 Vedi, p. e., AA.VV., Introduction to Quantum Computation and Information, World Scientific Pub-

lisher, 1999. 56 La controargomentazione che ho abbozzato è ampiamente articolata nelle già citate note criti-

che a Searle di Hofstadter e Dennett (HOFSTADTER, Douglas R. e DENNETT, Daniel, L’io della mente. Fantasie e riflessione sul sé e sull’ anima, op. cit., pp. 360-369).

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do consiste nell’idea – sottintesa – che sia possibile una semantica senza il fondamento di una sintassi. In realtà, però, come nessuno ha mai esibito sul serio una mente incor-porea, altrettanto nessuno, che mi risulti, ha nemmeno mai esibito un significato sganciato da una qualunque sintassi. Il fatto, perciò, di vedere, ad un determinato livello di descrizione, solo l’aspetto sintattico delle istruzioni presenti in un software di I.A. non implica affatto che, ad un diverso livello di descrizione,57 non se ne pos-sa vedere l’aspetto semantico.

L’obiezione di matrice fenomenologico-esistenzialistica, invece, parte da una premessa esatta da cui trae però conclusioni indebite, che danno per scontato pro-prio ciò che andrebbe dimostrato. Che un meccanismo emozionale “caldo” sia condizione essenziale per la funzionalità stessa anche dell’intelligenza “fredda” è, come si è visto nelle pagine precedenti, anche la mia opinione, così come della maggioranza degli aderenti al “programma forte”. Quello che si dà per scontato è però che le emozioni stesse non siano riducibili a catene d’istruzioni algoritmiche – in quanto tali implementabili da un computer come parte integrante di un software di I.A. Al contrario, però, le attuali cognizioni delle neuroscienze, da questo punto di vista, non fanno differenza tra i processi elementari d’elaborazione presenti nelle parti del cervello deputate alla “calda” emozione ed in quelle deputate al “freddo” ragionamento. Il tutto mi sembra perciò ridursi in un appello retorico a quella pre-tesa irriducibilità delle emozioni al “meccanico” di cui abbiamo già discusso in pre-cedenza. Per ciò che concerne la mancanza di contatto della macchina con il suo ambiente, si tratta poi di pura ignoranza dell’enorme quantità d’organi di senso di cui si può dotare un elaboratore moderno, nonché delle capacità gestionali di questi da parte dei software di I.A.58

Di là di queste deficienze particolari, però, ognuna di queste ultime obiezioni, rivolta ad un “cervello elettronico” ed al suo software di I.A., crolla su un punto chiave: se fosse valida, non dovrebbero pensare nemmeno gli esseri umani. Torniamo alla cita-zione leibniziana e parafrasiamola: ingrandendo il cervello umano in maniera tale da potercisi muovere dentro non si troverà altro che assoni, dendriti, ecc. e mai alcuna cosa che possa spiegare una percezione, un’emozione, un pensiero… L’uomo però, di fatto, è

57 Il concetto di diversi livelli di descrizione di un medesimo fenomeno, per cui esso appare diver-

so a seconda del livello adottato per descriverlo, è tipico dell’epistemologia legata al programma forte in I.A. Vedi in merito il classico HOFSTADTER, Douglas R., Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante, Milano, Adelphi. 1984, particolarmente pp. 299-364

58 Vedi p. e. –.e citiamo volutamente un testo “datato” – AA. VV., Mente e macchina, Quaderni de Le Scienze, 66, 1992.

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capace di tutte queste cose. A meno di ipotizzare esplicitamente un’anima incorpo-rea, non resta perciò che adottare il concetto di diversi livelli di descrizione di un medesimo fenomeno, per cui esso appare diverso a seconda del livello adottato per descriverlo.

A questo punto, però, tutte le obiezioni cadono. In effetti, non c’è alcun motivo logico per cui le stesse comunicazioni binarie in forma elettronica, se eseguite su di un cervello a base di carbonio, diano luogo a “pensiero”, “coscienza”, ecc., se inve-ce eseguite su di un “cervello” a base di silicio invece no. Entrambe le strutture, in-fatti, sono strutturate in modo tale da produrre ed elaborare messaggi elettrici in forma binaria. Da questo punto di vista, il nostro cervello “carbonico” non è meno “elettronico” di quello siliceo e, difatti, consideriamo un essere umano definitiva-mente morto in occasione della scomparsa dell’attività elettrica del suo cervello – la “morte cerebrale”. La scomparsa dell’attività elettrica in forma binaria di un cervello la consideriamo, in altri termini, del tutto equivalente alla scomparsa del pensiero e della coscienza dell’individuo. Perché allora la presenza della stessa, identica, comu-nicazione elettronica binaria in un “cervello” a base silicea, allora, non dovrebbe es-sere considerata senza alcun dubbio una prova della potenzialità in esso del fenome-no della coscienza? Ci troviamo di fronte ad una resistenza di carattere extrascienti-fico e, anzi, sostanzialmente irrazionale.

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Appendice. Le “forme” della cultura orientale del combattimento

opo la seconda guerra mondiale, l’Occidente ha scoperto ed amato le arti o-rientali del combattimento. Judo, Karate, Ju-Jitsu, Tae-kwon-do, Aikido, Wu-

shu, Muai-Boran, Apkido, Tae-chi-chuan, Escrima, Jet-kun-do ed una miriade di al-tre arti marziali asiatiche sono state accolte e praticate con passione sempre cre-scente. Dietro questa passione, si nasconde talvolta un certo esotismo: a queste arti l’Occidente attribuiva, inizialmente, la pressoché magica capacità di dotare il prati-cante di poteri eccezionali. Per fare solo un esempio, era diffusissima in anni passati – in parte lo è ancora – la leggenda metropolitana per cui chiunque raggiungesse anche solo il primo livello della cintura nera di Karate dovesse registrarsi presso i corpi di polizia come una sorta di arma vivente.59

Oggi se queste prime, rozze, leggende metropolitane sono in declino, l’approccio esotistico alle arti orientali da combattimento continua però imperterri-to. Negli ultimi anni si sta diffondendo, infatti, un approccio “esoterico” a tali arti, dove spesso sono recuperate una serie d’idee quanto meno discutibili – di certo 59 L’origine della leggenda metropolitana in questione è, una volta tanto, facilmente rintracciabile.

Nel 1925 la rivista King pubblicò un resoconto, alquanto colorito, del combattimento organizza-to nel novembre del 1921 a Kioto, tra un cinquantacinquenne karateka – Choki Motobu – ed un campione occidentale di pugilato, molto più giovane, alto e pesante di lui. Le regole dell’incontro erano quelle della boxe, salvo che l’anziano karateka non poteva usare i pugni, ma solo tecniche a mano aperta. Nonostante lo squilibrio corporeo e l’impossibilità ad usare la gran parte delle tecniche tipiche della sua arte – oltre ai pugni, calci, gomitate, ginocchiate, testate, le-ve, sgambetti e proiezioni – l’anziano karateka mise l’avversario K.O. al primo round. La cosa avvenne di fronte ad un pubblico, quello giapponese, che vedeva anch’esso per la prima volta il Karate in azione. Fino allora, infatti, il Karate era rimasto confinato nella piccola isola d’O-kinawa, a cavallo, sia geograficamente sia politicamente sia culturalmente, tra la Cina e le isole del Giappone. Il giornalista, alla fine dell’articolo, riportando le opinioni degli stupiti ed impres-sionati spettatori, diceva che tali colpi erano “straordinari, e a un certo momento sono stati considerati dalla legge come l’equivalente di un’arma”. L’articolo all’origine della leggenda me-tropolitana è ora presente in TOKITSU, Kenji, Storia del Karate, Milano, Luni, 1995, Allegato III, pp. 227-232.

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non molto più fondate delle panzane dei nostri “maghi” televisivi – accettate senza batter ciglio e in maniera totalmente acritica per il solo fatto di provenire dalla “an-tica sapienza orientale”.60

Questi vecchi e nuovi approcci esotistici alle arti marziali impediscono di coglie-re gli aspetti più interessanti di queste discipline. In particolare, impediscono di co-gliere appieno il senso ed il significato dei kata61 – le “forme” tramite le quali tradi-zionalmente si apprendono le arti marziali in Oriente.

60Tipica di questo genere di ricezioni acritiche è la propaganda – senza un minimo di confronto

con i dati oggettivi della fisica e della fisiologia – delle antiche dottrine cinesi sui “tesori vitali”, sulla “respirazione cosmica”, sui “punti vitali”, sui “meridiani energetici” e relativi “punti di pressione”, “tocchi della morte”, ecc. Dove c’è chi si limita a riportare queste dottrine mante-nendone un minimo di distacco (ad esempio LIND, Werner, Karate. I kata classici nell’insegnamento dei grandi maestri, Roma, Mediterranee, 1998 o TREVISAN, Adriano, Il libro completo dell’Aikido. Teoria e pratica, Roma, Mediterranee, 1997), c’è però anche chi (ad esempio MONTANARI, En-zo, Karate sconosciuto. La parte nascosta del Karate tradizionale, Roma, Mediterranee, 1995) non solo s’identifica totalmente in tali dubbie teorie, ma, saltandone a pie’ pari il simbolismo spesso me-taforico, ci ricama anche sopra con ancora più dubbi risultati. Troviamo allora, per fare un e-sempio tra i tanti possibili, improbabili connessioni tra forma e movimento delle galassie e dan-za di Shiva; movimento degli elettroni intorno al nucleo e danza dei dervisci islamici; Cosmolo-gia “scientifica” (così definita: “Il Vuoto (sconosciuto) | Big Bang | Dalla contrazione di Yin e l’espansione di Yang si ottiene la pulsazione | Luce – energia vibratoria. Nel primo milione di anni l’Universo è formato dalla luce poi si formano gli | Atomi | ed infine | l’Universo | Vita Organica” – MONTANARI, Enzo, op. cit., p. 30) e Cosmologia taoista; materia/antimateria e Yin/Yang; ecc. È da notare, infine, come questi esotismi siano, invece, solitamente assenti nei testi degli autori orientali, che hanno paradossalmente un rapporto più laico e distaccato con la loro tradizione culturale. A parte il già citato Kenji Tokitsu (se ne veda anche Lo zen e la via del Karate. Per una teoria delle arti marziali, Milano, Sugarco, 1978) – che ha il merito scientifico di aver fatto delle arti marziali l’oggetto di un’approfondita analisi storica, sociologica ed antropologica – la palma del laicismo va certamente a Hei Long (Il tocco del Drago. Punti deboli del corpo umano, Roma, Mediterranee, 1992). Questo maestro di Wu-shu, infatti, totalmente tradizionalista ed an-tisportivo, abbandona totalmente, senza farne nemmeno lontanamente menzione, le antiche te-orie sui “punti vitali” e i pretesi “tocchi della morte”, e scrive un vero e proprio trattato di ana-tomofisiologia del corpo umano ad uso dei praticanti di arti marziali. Persino alcuni maestri o-rientali d’Aikido – la disciplina marziale forse più legata alle matrici religiose orientali – si mo-strano molto più laici di certi loro seguaci occidentali: si veda, ad esempio, SHIODA, Gozo, Aikido dinamico. Tecniche di base ed applicazioni pratiche, Roma, Mediterranee, 1998. Con ciò non in-tendiamo affatto affermare una superiorità apriorica della cultura occidentale su quella orientale: le idee, per ciò che concerne la loro validità, sono indipendenti dal loro luogo d’origine. La veri-tà di qualunque teoria, però, deve essere controllata, e non, invece, recepita acriticamente. D’al-tronde, quanto a castronerie, la medicina occidentale prescientifica non aveva nulla da invidiare a quella orientale.

61“Kata” è termine giapponese – il più conosciuto in Occidente – ed è l’equivalente del cinese “Dao” e di vari altri termini presenti nelle diverse lingue e tradizioni marziali asiatiche, tutti so-stanzialmente accomunati dal medesimo significato: “forma”, “modello”, “stampo”, “prototi-po”. È interessante notare come il significato del termine corrisponda, nella tradizione occiden-tale, all’antico uso del termine greco Æ*X", così come lo abbiamo visto utilizzato dai primi pensa-tori razionali. Vedi la discussione presente in questo stesso testo nella Premessa.

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Cos’è una “forma”? Già dal finire del secolo scorso è divenuto abituale inserire in un servizio sulla Cina una ripresa, in cui alcune persone effettuano in pubblico una forma del Tae-chi-chuan – in pratica una sorta di strana danza, molto rallenta-ta, nella quale anche l’occhio del profano intuisce determinati movimenti d’attacco e di difesa, sia pure molto stilizzati, eseguiti contro avversari immaginari. Altrettan-to abituale, nei film dedicati alle “arti marziali”, tra un combattimento (spettacolare quanto improbabile) e l’altro, la presenza di un anziano maestro che, nell’aiutare il protagonista, si esibisce in (e/o gli insegna) qualcosa di molto simile alle forme del Tae-chi-chuan, solo molto più veloci, possenti e ritmate.

Nelle arti marziali orientali, i kata, le forme, sono una serie di gesti tecnici, di dife-sa e contrattacco, formalizzati e codificati, che, mimando un combattimento contro più avversari, armati e/o disarmati, si sviluppano secondo uno schema prefissato, alla fine del quale il praticante, se non ha commesso errori, spesso ritorna esatta-mente al punto da cui è partito. Ci sono forme che durano poche decine di secondi ed altre molto lunghe; alcune che si svolgono “al rallentatore”, in decontrazione o, al contrario, enfatizzando la forza; altre molto rapide e che sviluppano una forza d’impatto veloce; altre ancora che mescolano tipicamente passaggi lenti e veloci, contratti e decontratti. I movimenti sono tutti stilizzati e permettono molteplici in-terpretazioni dei vari gesti, anche i più minuti e, apparentemente, del tutto seconda-ri. La perfezione del gesto, di conseguenza, è curata in ogni minimo dettaglio.

Qual è il senso di queste strane ed elaborate movenze rituali, ossessivamente ri-petute dai praticanti alla ricerca dell’efficacia nel combattimento? Come riesce una pratica come questa – notevolmente inusuale per la tradizione marziale dell’Occi-dente62 – che sembrerebbe poco più che una perdita di tempo, rispetto a pratiche d’allenamento apparentemente più dirette ed adeguate, a produrre nei suoi pratican-ti quell’efficacia nella lotta per cui sono divenuti tanto famosi? Quali sono i mecca-nismi fisiologici e psicologici attraverso i quali la frequentazione assidua di una sor-ta di danza può far sì che un anziano praticante sconfigga, senza difficoltà apparen-te, avversari ben più giovani, forti e dai riflessi più pronti?

Sebbene nei kata ci si eserciti da soli, essi presuppongono sempre uno o più avversari. L’idea fondamentale del kata è che [il praticante] debba sempre inquadrare la sua tecnica in relazione a un avversario verso il quale sono diretti i colpi e le risposte. Tuttavia un

62Era però presente nell’antico Pankratio ellenico, non a caso la forma marziale della tradizione occidentale più simile alle arti orientali.

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kata non può essere ridotto a un combattimento immaginario: è una formalizzazione di tattiche di combattimento destinate alla trasmissione e all’apprendimento.

(…) All’inizio si tratta di creare l’automatismo di una serie di gesti tecnici che mira alla realizzazione perfetta di forme e movimenti, ma occorre al tempo stesso includervi di-namismo e potenza, che sono degli elementi di efficacia. Il lavoro sul kata è un andiri-vieni perpetuo tra il perfezionamento della forma e della precisione e quello del dinami-smo. Esso è orientato verso la ricerca dell’efficacia.

Il kata contiene più di ciò che mostra a prima vista. Ogni movimento di un kata è co-me un promemoria che ricorda e condensa il movimento e le sue varianti; esso è stato elaborato per anni da un maestro e dai suoi allievi. (…) le generazioni hanno accumulato nei kata la somma delle loro esperienze. I concatenamenti e la successione di queste ul-time nei kata servono a indicare e a ricordare le possibilità di strategia, di azione e rea-zione dell’avversario. (…)

Di fatto, benché si alleni da solo al kata, l’adepto di un certo livello integra in quest’ultimo le proprie esperienze di combattimento, nello stesso tempo in cui decifra, per mezzo del kata, risposte alle domande che è in grado di porsi. Il kata è, in qualche modo, uno specchio: può riflettere solo ciò che gli sta di fronte. Se si sa utilizzarlo per vedervi l’esperienza condensata dai propri predecessori, esso rappresenta un mezzo pri-vilegiato per valutare l’avversario e conoscere se stessi.

Distinguerei due aspetti nella pratica del kata: istruirsi per mezzo del kata – rice-verne una direzione, imparare da esso, come da un alfabeto, certi gesti tecnici che non possediamo ancora nel nostro repertorio – e, d’altra parte, utilizzare il kata per riempirlo della nostra esperienza. È il va e vieni tra i due aspetti che permette di e-splorare le possibilità di applicazione in combattimento e anche di andare verso la scoperta di nuove tecniche.63

Da questa descrizione delle “forme” effettuata da parte di un colto praticante, pos-siamo partire per rispondere alle domande che c’eravamo posti all’inizio. Innanzi tutto, occorre distinguere le arti marziali in senso stretto dalle loro moderne e nu-merosissime derivazioni sportive: il combattimento di Judo o di Ju-Jitsu, il Karate-sport, il Full Contact, la Muai-Thay, i cosiddetti “combattimenti senza [in realtà = con meno] regole”, ecc. Generalmente il pubblico non praticante confonde com-pletamente i due ambiti: ma le arti marziali sono un’altra cosa. Nate per l’autodifesa, contengono un enorme numero di tecniche troppo pericolose per essere praticate in un combattimento libero ed allenabili insieme ad uno o più partners solo in un ambito controllato. In teoria, si potrebbero apprendere tali tecniche e strategie di lotta in una numerosa serie di combattimenti reali. In pratica, si morirebbe o si re-

63 TOKITSU, Kenji, Storia del Karate, op. cit., pp. 12-13.

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sterebbe storpi ben prima di averle anche lontanamente automatizzate e, di conse-guenza, rese realmente efficaci. 64

Per cui, nonostante la prima impressione, questa sorta di strane danze che sono le forme delle arti marziali sono l’unico modo concreto per apprenderle, insieme – come complemento – all’allenamento controllato con uno o più partners delle singole concatenazioni tecniche nelle loro varie interpretazioni. Difatti, l’allenamento dei grandi maestri del passato consisteva esclusivamente in questo, mentre il combat-timento sportivo appariva ai loro occhi inconcepibile, anche peggio di una pura perdita di tempo: avrebbe prodotto, infatti, l’acquisizione di abitudini di combatti-mento del tutto inadeguate.65 Essi perciò approfondivano la conoscenza della loro arte esclusivamente intorno alla pratica delle forme tramandate dai maestri che li avevano preceduti. Essi potevano, come oggi, conoscere e praticare anche molte forme diverse, ma su di una di esse – il tokui kata, in giapponese – si esercitavano in modo particolare: numerose volte ogni giorno per tutta la vita. In ogni caso, qua-lunque fosse la forma praticata in quel momento, era prassi usuale, in un allena-mento sotto la direzione di un maestro, farla ripetere dalle cinquanta alle sessanta volte a seduta. Chiunque abbia presente il livello d’impegno muscolare, sia aerobico sia anaerobico, connesso all’esecuzione di una forma, può rendersi facilmente con-to dell’estrema gravosità di una simile pratica. L’obiettivo di un tale tipo d’allena-mento era quello di automatizzare al punto tale i movimenti da condurre il prati-

64 Tali tecniche, di conseguenza, vengono escluse dalle varianti sportive, anche da quelle apparen-

temente più “liberali” in fatto di regole. Inoltre, in un’ottica sportiva, se io ricevo, per esempio, una tecnica frontale al viso, sono ovviamente svantaggiato nel combattimento, ma in generale posso proseguirlo; posso perciò concentrarmi sulle combinazioni d’attacco concesse dalle rego-le sportive e meno sulle strategie di difesa, fidando statisticamente sul fatto che, alla fine dell’ in-contro, avrò segnato più punti dell’avversario, l’avrò messo K.O., ecc. In uno scontro vero, però, quella tecnica frontale al viso sarebbe potuta essere un attacco con le dita agli occhi, un colpo di palmo alla base del setto nasale, di picca alla carotide, ecc.: in tal caso io avrei riportato gravis-simi danni, forse anche la morte, senza possibilità d’appello. Un’arte marziale è perciò tipica-mente orientata all’autodifesa – che senso ha “vincere” se si resta storpi? – e cura più l’efficacia concreta che lo spettacolo sportivo. Ad esempio, l’uso massiccio di calci spettacolari, che si no-ta nelle varianti sportive di molte arti marziali, è basato sul fatto che una regola universale di tut-te queste, anche le più brutali, è la proibizione dell’attacco ai testicoli – zona che si scopre neces-sariamente nell’esecuzione di tali tecniche, rendendo chi attacca estremamente vulnerabile ad una banale tecnica d’incontro dell’avversario, quando questi non sia frenato da regole sportive. Inoltre, in un combattimento sportivo, è prassi comune (si pensi al clinch del pugilato) mettersi in una posizione tale che l’avversario non può effettuare alcuna delle tecniche consentite dal re-golamento, allo scopo di interromperne l’azione. In uno scontro reale, tale tattica sarebbe inve-ce suicida, perché tali posizioni facilitano invece l’effettuazione di numerosissime e devastanti tecniche all’avversario. E gli esempi potrebbero continuare.

65 Vedi nota precedente.

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cante all’esecuzione della forma in uno stato di trance, dove il pensiero cosciente sparisse del tutto.66

Affermavamo che ogni forma è stata elaborata per anni ed anni da un maestro e dalla comunità dei suoi allievi. Ora, se questi avessero costruito delle forme in una qual certa misura inefficaci, avrebbero sicuramente pagato a caro prezzo, con la morte e/o con il disonore, i loro errori, che pertanto non avrebbero avuto alcuna occasione di essere tramandati. La sussistenza stessa di una forma nel tempo, dun-que, è il segno che ne garantisce – in un senso strettamente “evoluzionistico” – l’efficacia reale in combattimento e la rende degna di essere studiata con fiducia an-cora oggi.67

Le forme delle arti marziali nascono dalla medicina cinese e, in particolare, da una serie d’esercizi ginnico-respiratori salutari, terapeutici e preventivi di varie ma-lattie. L’antica arte cinese del Qigong – la “cultura dell’energia vitale” – fu, nel III secolo d.C., formalizzata dal medico cinese Hua Tuo ne L’arte dei cinque animali. Hua Tuo riprende e sistematizza nel suo libro un sistema di ginnastica risalente a secoli prima: il suo

66Una simile pratica è rimasta nel nome stesso di una delle più conosciute discipline marziali: il

Karate. Il suo nome originario era Tote (“mano” – nel senso di “lotta” – cinese) o Okinawate (“mano” d’Okinawa). Quando, agli inizi del XX secolo, quest’arte giunse in Giappone, i vecchi nomi furono d’enorme impaccio, poiché il Paese del Sol Levante era nel pieno di una politica espansionistica nei confronti della Cina. Un’arte “cinese” sarebbe stata alquanto mal vista; an-che il termine Okinawate non era adatto, per due motivi: Okinawa, per ragioni storico-culturali, era l’isola dell’arcipelago giapponese più “cinesizzata” e, inoltre, si voleva “sprovincializzare” l’arte, inserendola a pieno titolo nel Budo, l’insieme delle arti marziali giapponesi. Approfittando del fatto che l’ideogramma per “vuoto” aveva in Giappone la stessa pronuncia dell’ideogramma per “Cina”, si trasformò ideogrammaticalmente il Tote in Karate. In Occidente si pensa, solita-mente, che il significato di Karate sia, allora, “mano vuota” – cosa che sarebbe assai strana, dato che l’arte in questione insegna anche l’uso di varie armi contadine e che molte delle sue forme possono essere praticate non solo disarmati, ma anche con alcune di esse: il tonfa in primo luo-go, ma anche il bastone, il remo, ecc. In effetti, l’ideogramma sostituito rimanda invece, più che all’assenza di un’arma nelle mani del praticante, all’idea zen dello stato di “non pensiero”, pre-sente, oltre che nelle arti marziali, nella cerimonia del tè, nell’arte calligrafica, nella pittura, nella poesia estemporanea, ecc. Lo stato di non pensiero dovrebbe portare il praticante ad eseguire un gesto perfetto attraverso l’interiorizzazione totale del gesto tecnico, che dovrebbe fluire na-turalmente, senza intervento della mente cosciente, in uno stato di trance. Il significato vero di Karate è, perciò, “arte marziale che si svolge in uno stato di vuoto mentale” – che, appunto, ri-manda alla pratica tradizionale dell’allenamento attraverso le forme.

67 Attualmente sono presenti, nelle varie arti marziali, una serie di forme molto recenti, svilup-pate da alcuni maestri che, a differenza di quelli del passato, non hanno avuto occasione di sperimentarle in un combattimento reale – per la vita o per la morte – ma solo nella pratica sportiva. Ovviamente, sull’efficacia marziale di tali forme, il minimo che si possa fare è so-spendere il giudizio.

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è il primo sistema ginnico tramandato dall’antica Cina. Hua Tuo si orientò ai movimenti della tigre, del cervo, dell’orso, della scimmia e della gru. Attraverso l’osservazione egli tentò di cogliere la struttura di base del movimento degli animali e di comprendere le funzioni della loro bioenergia. Per fare ciò era necessario capire la struttura interiore di tutti i comportamenti degli animali, quali ad esempio la loro andatura, il loro modo di o-rientarsi, di cacciare, di dormire, ecc. e di tradurlo in comportamenti umani. Egli dovette scoprire in che modo la tigre utilizza il suo Qi [energia vitale] e come ciò si ripercuote nelle sue attività. Allo stesso modo era necessario comprendere lo spirito dell’animale, che coordina le sue strutture energetiche e che lo induce a fare ciò che corrisponde alla sua specie. (…) [Hua Tuo scrive nel suo libro che] “Questo sistema guarisce le malattie, conserva a lungo la salute ed è costituito da salti, flessioni, slanci, strisciamenti, movi-menti rotatori e contrazioni muscolari”.68

Dalle parole dello stesso Hua Tuo possiamo riconoscere, nel suo sistema ginnico-terapeutico, molti degli elementi tipici delle forme marziali che si svilupperanno al-cuni secoli più tardi. In particolare, un insieme di movimenti prefissati composto da “salti, flessioni, slanci, strisciamenti, movimenti rotatori e contrazioni muscolari”, imitanti le strategie comportamentali degli animali, potrebbe essere, ad un primo sguardo, anche la descrizione di una forma marziale.

Gli esercizi del Qigong non sono comunque delle forme marziali; alcuni secoli dopo, però, nei monasteri buddhisti – a partire dal celebre tempio di Shaolin – cominciarono a trasformarsi in esse. Sul modello delle antiche forme di ginnastica terapeutica si costruirono delle concatenazioni di gesti tecnici marziali, che incar-navano precise strategie di combattimento, ispirate al comportamento bellicoso degli animali. Oltre che quest’ultimo aspetto, le nuove forme marziali mantennero dell’antica ginnastica tutta una serie di momenti volti a fortificare il corpo del pra-ticante, ad amplificarne le estensioni tendinee, ossee e muscolari, a sviluppare il coordinamento delle parti corporee in esecuzioni complesse, a disciplinarne la re-spirazione ed integrarla con i movimenti per amplificarne l’efficacia. Per questo, ancora oggi, molti movimenti delle più moderne forme marziali mostrano palesi somiglianze con “l’arte dei cinque animali” ed altre consimili concezioni ginniche ad esso posteriori.

Una forma marziale, dunque, è innanzi tutto orientata al corpo. In un primo senso, si tratta di una sorta di ginnastica, volta a migliorarne le capacità. Ma in un secondo senso, molto più importante, essa è volta ad educare il corpo, in altre parole a fargli apprendere movimenti inusuali, quasi per nulla istintivi, ma cio- 68 LIND, Werner, I kata classici nell’insegnamento dei grandi maestri, op. cit., p. 22.

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nonostante estremamente più efficaci nel combattimento. Dopo una lunghissima pratica delle forme, quei movimenti diventano però un vero e proprio riflesso condizionato, pronto ad essere utilizzato al momento opportuno, al di fuori del controllo cosciente.69

La stessa sensazione e percezione, di sé e dell’altro, è educata nella ripetizione costante delle forme e nel complementare allenamento con uno o più compagni. Movimenti impercettibili e prima insignificanti dell’avversario diventano improvvi-samente significativi, permettendo al praticante avanzato di comprendere con note-vole anticipo le intenzioni dell’avversario, anche i movimenti più repentini e/o na-scosti. Il praticante avanzato non cade nelle cosiddette “finte” dell’avversario, mo-vimenti d’attacco fittizi, destinati a nascondere la tecnica reale: egli avverte la realtà dietro la finzione ed agisce di conseguenza. Egli, inoltre, avverte in ogni momento quale tecnica è la più adatta in quel particolare frangente, a partire dalla posizione e potenzialità del suo corpo in quell’istante. Si tratta, in tutti questi casi, d’atteggia-menti da adottare in pochi millesimi di secondo, inconsciamente, cosa possibile so-lo dopo un lungo allenamento alla percezione di sé e dell’altro.

Ma una forma non agisce solo sul corpo, potenziandolo, automatizzandone le risposte più opportune in ogni momento e sulle sue capacità di avvertire l’essenza della situazione: una forma è anche uno straordinario strumento di controllo delle emo-zioni. Le emozioni, l’abbiamo visto nel corso di questo libro, sono largamente invo-lontarie. Spesso utili, in un combattimento possono però essere dannose. La paura porta al centro della nostra attenzione una situazione di grave pericolo, ma, al tem-po stesso, quando questa situazione non può essere sfuggita e deve essere affronta-ta in uno scontro fisico per la salvezza, essa può intralciare gravemente le possibilità di reazione. Peraltro, la rabbia può indirizzare velocemente tutte le nostre energie contro il pericolo; ma, al tempo stesso, può facilmente portarci a sopravvalutare le nostre forze, facendoci coinvolgere in uno scontro in cui alla fine soccomberemo. E gli esempi potrebbero continuare.

69 Questo è un altro dei motivi per cui gli antichi maestri rifiutavano il combattimento sportivo: se

si lasciavano trasportare dalla foga – cosa indispensabile per vincerlo – erano incapaci di con-trollare le reazioni automatiche del loro corpo. Abbiamo, infatti, più di una testimonianza at-tendibile su incidenti mortali dovuti a praticanti d’arti marziali costretti, contro la loro volontà, a partecipare ad incontri di lotta sportiva. Ad esempio, agli inizi del XX secolo, dopo uno di que-sti incidenti, constatata oltre ogni ragionevole dubbio l’involontarietà dell’accaduto, le autorità militari giapponesi esentarono i praticanti di Karate originari di Okinawa dal partecipare agli al-lenamenti della forma antica di Sumo – obbligatori – a bordo delle navi da guerra.

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Le forme delle arti marziali, perciò, sono volte a creare un riflesso automatico per cui, nella situazione di un combattimento, le emozioni standard letteralmente vengono fatte sparire.70 Come può una sorta di danza giungere a creare un tale riflesso condi-zionato? Qui il significato dell’imitazione degli animali appare nella sua vera luce. Il praticante avanzato sa che il suo stile e/o quella particolare forma, imitano i movi-menti, le strategie ed i “modi di pensare” di un determinato animale e che, per giun-gere al meglio della pratica, non deve “identificarsi” con quell’animale: deve diventare quell’animale. Non deve “imitare” una tigre: deve sentire di essere una tigre.

Si tratta, ovviamente, di un obiettivo impossibile: noi siamo esseri umani e non tigri, orsi, scimmie, draghi o altro. D’altronde, se lo fossimo, non combatteremo così come c’insegnano le forme marziali, che si basano sulle possibilità concrete della nostra struttura corporea. Però, il tentativo, ossessivamente ripetuto nell’alle-namento tradizionale, di sentirsi davvero un animale, ha un effetto notevole sulla no-stra psiche: ci manda letteralmente in trance ogni qualvolta iniziamo un combatti-mento. Non siamo noi che combattiamo: è l’animale che è in noi. In questo stato d’animo le emozioni standard sono come annullate, poiché la coscienza vive in uno stato alterato.

Le testimonianze dei praticanti avanzati su tali stati d’animo sono pressoché u-nanimi: io stesso li ho talvolta sperimentati in prima persona. È come se ci si osser-vasse agire: si vede il nostro corpo muoversi senza apparente controllo, ma con e-strema precisione e senso dell’opportunità, come osserveremmo i nostri abiti, sotto il soffiare del vento, seguirne involontariamente la direzione esatta. I ricordi stessi di ciò che “noi” abbiamo fatto sono stranamente alterati: è per nulla infrequente non ricordare precisamente ciò che è accaduto o anche non ricordarlo in soggettiva – attraverso il punto di vista dei nostri occhi – ma come se fossimo stati all’esterno di noi stessi, a riprenderci con una telecamera.

La cosa particolare è che per innescare stati del genere non c’è neanche bisogno di sapere, durante l’allenamento, che si sta imitando un animale: il dover eseguire determinati movimenti, chiaramente orientati al combattimento ma al tempo stesso fortemente stilizzati, con estrema attenzione alla cura d’ogni minimo dettaglio, in-nesca nei praticanti un’abitudine allo stato di coscienza alterata durante il combat-timento. L’idea dell’animale è un appiglio – utile ma non indispensabile per

70 È anche questo il senso del “non pensiero”: non solo la riflessione, ma anche il sentimento di-

sturba, ritarda ed intralcia l’azione del corpo del praticante, che deve essere lasciato libero di e-splicare tranquillamente tutti gli automatismi motori acquisiti nell’allenamento.

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l’efficacia educativa della forma marziale – per renderci liberi dalle nostre emozioni standard, quando queste non ci servono o, peggio, c’intralciano.71

Certo, il maestro ed i compagni d’allenamento spesso verbalizzano e mostrano concretamente determinati aspetti della forma, ne danno in pratica un’“interpreta-zione” – bunkai, in giapponese. Anzi, il ruolo di un buon maestro è proprio in que-sta capacità di indirizzare l’attenzione del praticante su determinati aspetti marziali di quella che, altrimenti, potrebbe restare una semplice danza. Il maestro ed il prati-cante avanzato fanno ciò partendo da quella che è stata la loro formazione; le inter-pretazioni che offrono della forma sono ovviamente il risultato di questa loro storia personale. In questa verbalizzazione dei significati della forma, è altresì importante la cultura personale del maestro. Le lezioni diventano, infatti, occasione per la vei-colazione all’allievo di fondamentali nozioni d’anatomia, biomeccanica, fisica, stra-tegia militare, le quali diventeranno, interiorizzate, parte integrante della strategia di difesa e contrattacco tipiche dell’arte insegnata.

Tutte queste spiegazioni date all’allievo, man mano che questi diventa a sua vol-ta un maestro, innescano in lui un processo di ricerca interiore che lo porta, grada-tamente, a scoprire nelle forme che pratica sempre nuovi significati e ad allenarli coscientemente. Può accadere che compia, durante l’allenamento e/o un’interazio-ne giocosa, un movimento istintivo, estremamente efficace in quella specifica situa-zione, alla fine del quale si accorge che il proprio corpo ha in realtà eseguito un par-ticolare passaggio di una determinata forma, che mai prima di allora aveva immagi-nato potesse avere quel significato. Può anche accadere che, ripensando a determi-nati movimenti di una forma, un nuovo significato gli sia comparso all’improvviso, e, sperimentato con un compagno, abbia mostrato di funzionare alla perfezione. Il processo di scoperta che sto descrivendo – perfettamente presente a tutti i pratican-ti avanzati di arti marziali orientali – possiede in pieno i caratteri dell’insight. 71 Quest’ultima cosa è diventata evidente nella pratica occidentale dell’arte marziale, dove, anche

in un’ottica tradizionale e non sportiva, l’appiglio mentale dell’idea dell’animale è divenuto, quanto meno, secondario. Mi sembra, però, che con la mancanza di tale appiglio si sia perso in ogni caso un qualche aspetto importante. L’animale non umano, infatti, non solo sa bene quan-do e come attaccare: sa anche bene quando e come evitare il combattimento. Non è, infatti, di so-lito, condizionato da determinate sovrastrutture particolari, tipiche delle culture umane, che possono portare gli umani ad attaccare in battaglie perse in partenza, perché si ritiene, ad esem-pio, la salvezza dell’onore più importante della vita. Evitare il combattimento che si può perdere era, infatti, una delle massime degli antichi maestri, conseguente alla pratica delle forme animali. “Non pensare a vincere, pensa a non perdere”, era la massima del maestro Gichin Funakoshi, tesa ad indirizzare il praticante in un’ottica mentale volta, innanzi tutto, a preservare la propria integrità corporea. A vincere c’è sempre tempo, ed è quello che viene a mancare se si muore od anche solo se si resta storpi.

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Tutto ciò si sviluppa a partire da quella che è, in fin dei conti, una danza e che era anche avvertita come tale nei paesi orientali d’origine. Chiunque osservi, ad e-sempio, una forma di Karate e dei passaggi delle danze dell’isola d’Okinawa, non potrà notare le innegabili affinità tra i gesti tecnici e quelli artistici. D’altronde, è te-stimonianza pressoché unanime degli antichi maestri come le forme fossero usate a mo’ di spettacolo pubblico durante le feste, esibite come strumento privato di cor-teggiamento davanti ad una ragazza, come momento di intrattenimento davanti a un gruppo di amici, colleghi di lavoro o semplici passanti. In tutti questi casi la forma era esibita nel suo puro aspetto di danza, senza alcuna velleità d’insegna-mento marziale.72 Nei momenti di maggiore repressione da parte del potere politi-co, le scuole di danza diventavano un utile momento di copertura per la pratica del-le discipline marziali legate alle classi sociali e/o ai gruppi politici soggiogati.73

L’Occidente ha colto tardi quest’aspetto delle discipline marziali orientali colle-gato alle pratiche artistiche – distratto dalla diversità tra le movenze occidentali del-la danza con quelle dei paesi asiatici. Solo di recente, tra le avanguardie che hanno rinnovato la pratica occidentale dell’arte della danza integrando approcci multicul-turali, si è cominciata a diffondere una qual certa attenzione alle forme orientali come repertorio di gesti tecnici apprezzabili anche sul piano artistico.74

Una forma, insomma, è, nello stesso tempo, una complessa e faticosa ginnastica del corpo, un sapere concettuale nascosto ed una forma d’arte. Una danza, questa, con aspetti di vera e propria arte pubblica ma che, allo stesso tempo, fortifica il corpo e lo educa al combattimento; una ripetizione tradizionalmente codificata di gesti, che produce, allo stesso tempo, automatismi motori e momenti d’insight nei quali si comprendono coscientemente strategie di combattimento e determinati a-spetti della biomeccanica del corpo umano; una pratica legata ad una tradizione d’insegnamento esplicito e verbalizzante, diretto però a sviluppare una ricerca in-

72 Il quale, d’altronde, sarebbe stato del tutto impossibile: la pura e semplice visione, una tantum,

dell’esecuzione di una forma non dice pressoché nulla a nessuno, nemmeno ai più grandi mae-stri, sul suo contenuto marziale. Non c’è alcuna contraddizione, perciò, tra l’esibizione pubblica delle forme e la prassi di segretezza imposta da molte scuole.

73 Il Karate, ad esempio, si è sviluppato nell’isola d’Okinawa – tra marinai, contadini ed elementi dell’antica aristocrazia caduta in disgrazia – proprio in un periodo in cui le caste dominatrici proibivano l’uso delle armi e qualunque pratica marziale. Questa dinamica politico-sociale legata allo sviluppo ed alla pratica delle arti marziali, non è esclusiva dell’Oriente. Gli schiavi neri bra-siliani, ad esempio, hanno continuato a praticare un’antica arte marziale dei loro paesi d’o-rigine, spacciandola, davanti agli occhi dei loro padroni, come una semplice danza: la Capoeira.

74 Vedi ad esempio, ROSSI, Monica, “Ballando sul filo dell’acqua ho oltrepassato la porta d’Oriente”, in Arti d’Oriente, anno II, n. 10, dicembre 1999, pp. 24-31.

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conscia di significati, all’ interno d’automatismi motori sviluppati in un combatti-mento mimato “contro le ombre”.

In una simile pratica la separazione corpo-mente – ma anche quella sapere-arte – svanisce, e la cultura occidentale si ritrova assolutamente spiazzata. Di fronte ad una tale difficoltà, l’esotismo di stampo esoterico di cui parlavo all’inizio ha perciò gioco facile: sembra quasi che l’Occidente preferisca credere nelle favole esotiche, piuttosto che abbandonare uno sterile gioco di contrapposizioni, con cui però si trastulla da millenni, e che gli appare oramai talmente familiare da aver assunto i ca-ratteri di una “naturalità” ineluttabile. Nel momento allora in cui è costretto a con-frontarsi con un’istanza culturale come le forme delle arti marziali, che mettono in crisi il suo gioco millenario della separazione ontologica tra corpo e mente, l’Occi-dente si rifugia talvolta assai volentieri nelle braccia rassicuranti del Mito.75

75 “Mito” è un termine polisemico, e vale allora la pena di specificare cosa qui intendiamo con

esso. Nel senso che gli diamo in Occidente, “mito” significa un racconto e/o una teoria tesa a spiegare uno stato del mondo – presente, passato o futuro, riscontrabile o meno all’istante – senza presentare un qualunque processo di possibile validazione della sua verità. A differenza dell’“ipotesi”, però, il mito pretende di essere vero, in base ad una qualche forma di principio di autorità fideistica – un dio, un determinato uomo “superiore”, l’opinione della maggioran-za, la credenza nella superiorità di una determinata forma culturale… Certo, il fatto che un’idea non sia stata validata, non significa di per sé che essa sia falsa: tautologicamente, signi-fica semplicemente che non è stata validata, e basta. Se non è stata invalidata oggettivamente, potrebbe anche essere vera e noi non possediamo – o non possediamo ancora – gli strumenti per validarla. Anche se oggettivamente falsa, inoltre, l’idea in questione potrebbe essere dotata di una ricca carica di valenze simboliche, ed essere oggetto di fruttuosissime operazioni cultu-rali ed artistiche. Detto questo, però, io non vedo alcun motivo di credere al mito orientale dei “tocchi mortali”, più di quanto debba credere al mito occidentale dell’invulnerabilità d’Achille. Possiamo notare, per inciso, che esisteva nella pratica orientale delle arti marziali qualcosa di simile al mito omerico. In Cina, alcune scuole praticavano una serie d’esercizi cui si attribuiva la magica capacità di rendere il corpo invulnerabile: una di queste era la cosiddet-ta “setta dei boxeurs”, protagonista della rivolta antioccidentale, i cui praticanti si lanciarono, con tragici risultati, a petto nudo contro le pallottole dei difensori occidentali del quartiere degli stranieri a Pechino. L’inesistenza oggettiva della loro pretesa “aura di ferro” fu così di-mostrata in maniera palese e tale pratica è caduta a lungo nel dimenticatoio. Inutile dire che anche queste strampalate teorie vengono oggi, in Occidente, esotisticamente rivisitate, sia pu-re in un’ottica di simbologia esoterica.

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