ENRICO BELLAVIA DOMENICA 24 OTTOBRE 2010 / Numero 298 di...

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DOMENICA 24 OTTOBRE 2010 / Numero 298 D omenica La di Repubblica VITTORIO ZUCCONI WASHINGTON L a premiata fabbrica dell’orrore “King & Famiglia” co- minciò con un investimento di venticinque centesimi. Era il “quartino” con il quale Ruth King ricompensò il fi- glio per avere scritto a dieci anni una favoletta per bam- bini: Il coniglio magico. Come la moneta infilata in un juke-box sa- peva scatenare suoni, voci, rimbombi, così la piccola ricompensa di una mamma evocò dalla mente di un bambino chiamato Stephen un sabba di terrori e di orrori, di incubi e di succubi, di adolescenti de- moniache e alberghi satanici che dopo sessant’anni, quarantanove libri e cinquecento milioni di copie tradotte in trenta lingue, hanno fatto di questo miope, timido, ex alcolizzato ed ex cocainomane non un candidato al Nobel per la letteratura, ma qualcosa di più. Un “brand”, come le orecchie di Topolino o le corna del diavolo. (segue nelle pagine successive) STEPHEN KING S tavo andando sulla mia Batmobile ed ero diretto in ban- ca, quando all’improvviso ho sentito puzza di qualcosa. Ho fermato la macchina e ho abbassato il finestrino elettronico ed ecco che mi si avvicina un imbranato e mi fa con cipiglio: «Ho sentito che ce l’hai con la maternità», dice, con un sospiro. «Spari ai tuoi insegnanti di liceo e proibisci ai tuoi uccelli di volare. Meglio che te ne vai da qui prima che te le suoni...» Io gli ho detto: «Che cosa faresti se Jesse venisse in città?» Ma proprio in quel momento arriva uno sbirro strabico e dice: «Chi credi di essere? A me pare che somigli a John Wilkes Booth, e faresti meglio a scendere da quella macchina». Comincia ad arri- vare gente in crocchie e cricche e trecce e senza una parola comin- ciano a picchiarmi con gli hula hoop. (segue nelle pagine successive) KING STEPHEN orrore fabbrica dell’ la FOTO CORBIS Cominciò con una favola innocente è diventato lo scrittore delle nostre paure Ora un libro svela le sue l’incontro Mario Botta, progetti in punta di matita IRENE MARIA SCALISE cultura L’altra faccia di Robert Doisneau MICHELE SMARGIASSI e AMBRA SOMASCHINI l’attualità Quel cimitero chiamato Mediterraneo ENRICO BELLAVIA le tendenze Single men, matti per lo shopping ILARIA ZAFFINO spettacoli L’epopea senza fine di Star Wars PINO CORRIAS e CLAUDIA MORGOGLIONE Repubblica Nazionale

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DOMENICA 24OTTOBRE 2010 / Numero 298

DomenicaLa

di Repubblica

VITTORIO ZUCCONI

WASHINGTON

La premiata fabbrica dell’orrore “King & Famiglia” co-minciò con un investimento di venticinque centesimi.Era il “quartino” con il quale Ruth King ricompensò il fi-glio per avere scritto a dieci anni una favoletta per bam-

bini: Il coniglio magico. Come la moneta infilata in un juke-box sa-peva scatenare suoni, voci, rimbombi, così la piccola ricompensa diuna mamma evocò dalla mente di un bambino chiamato Stephenun sabba di terrori e di orrori, di incubi e di succubi, di adolescenti de-moniache e alberghi satanici che dopo sessant’anni, quarantanovelibri e cinquecento milioni di copie tradotte in trenta lingue, hannofatto di questo miope, timido, ex alcolizzato ed ex cocainomane nonun candidato al Nobel per la letteratura, ma qualcosa di più. Un“brand”, come le orecchie di Topolino o le corna del diavolo.

(segue nelle pagine successive)

STEPHEN KING

Stavoandando sulla mia Batmobile ed ero diretto in ban-ca, quando all’improvviso ho sentito puzza di qualcosa.Ho fermato la macchina e ho abbassato il finestrinoelettronico ed ecco che mi si avvicina un imbranato e mi

fa con cipiglio: «Ho sentito che ce l’hai con la maternità», dice, conun sospiro. «Spari ai tuoi insegnanti di liceo e proibisci ai tuoi uccellidi volare. Meglio che te ne vai da qui prima che te le suoni...»

Io gli ho detto: «Che cosa faresti se Jesse venisse in città?»Ma proprio in quel momento arriva uno sbirro strabico e dice:

«Chi credi di essere? A me pare che somigli a John Wilkes Booth, efaresti meglio a scendere da quella macchina». Comincia ad arri-vare gente in crocchie e cricche e trecce e senza una parola comin-ciano a picchiarmi con gli hula hoop.

(segue nelle pagine successive)

KINGSTEPHEN

orrorefabbricadell’

laF

OT

O C

OR

BIS

Cominciòcon una favola innocente

è diventato lo scrittoredelle nostre paure

Ora un libro svela le sue

l’incontro

Mario Botta, progetti in punta di matitaIRENE MARIA SCALISE

cultura

L’altra faccia di Robert DoisneauMICHELE SMARGIASSI e AMBRA SOMASCHINI

l’attualità

Quel cimitero chiamato MediterraneoENRICO BELLAVIA

le tendenze

Single men, matti per lo shoppingILARIA ZAFFINO

spettacoli

L’epopea senza fine di Star WarsPINO CORRIAS e CLAUDIA MORGOGLIONE

Repubblica Nazionale

la copertinaIncubi

Vecchi appunti. Primi racconti. Le foto da bambino. Il giornalinodella scuola. Alla rinfusa, nella sua fabbrica-laboratorio,lo scrittore che non vincerà mai il Nobel perché è già un brand,conserva il segreto del suo successo: un padre fuggito di casa,un’adolescenza da perdente, quella notte in un hotel del ColoradoA svelarlo ci pensa adesso un libro che archivia gli spettri di una vita

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(segue dalla copertina)

Talmente identificato con i suoi agghiac-cianti personaggi, insieme adorato e de-testato per le sue creature, è StephenKing, che un’anziana signora «coi capel-li arancioni», ricorda lui, incontrandoloin un supermercato del Maine dove vive,

lo aggredì a borsettate accusandolo di averle impedi-to per anni di dormire. «Perché, se sei tanto bravo conle parole, non scrivi una storia bella e commovente co-me The Shawshank Redemption (Le ali della libertà)invece di quelle bruttezze?». «Ma... ma... l’ho scrittaio», tentò di difendersi King. «Bugiardo», tagliò cortola signora incredula e indignata. Dalla sua fabbricadell’horror, che oggi possiamo visitare nei dettagli piùsegreti, potrebbero un giorno uscire fiabe gentili ecantici francescani. Ma per sempre la marca, o il mar-chio di fabbrica, sarà la paura.

Anche se la produzione letteraria e cinematografi-ca di Stephen King è, per quantità e a volte per qualità,più da stabilimento di automobili di serie che da raffi-nato carrozziere (scrive almeno dieci pagine ognigiorno, e ha sfornato almeno un libro all’anno dal pri-mo pubblicato nel 1973, Carrie) il mondo nel quale vi-ve e lavora tra le abetaie e le coste rocciose del Maineè in realtà, più che fabbrica, un laboratorio. Ora che unautore americano, Bev Vincent, lo ha raccontato e ri-costruito in un minuzioso studio illustrato (Tutto suStephen King, martedì in uscita in Italia per Sperling &Kupfer) arricchito da copie di manoscritti, correzioni,appunti sui tovagliolini di carta, foto di lui bambino, sipuò entrare come mai prima nel mondo interiore diquesto dottor Frankenstein del brivido. È possibileora osservare il processo di concezione e di creazionedei suoi cani mostruosi, dei suoi cimiteri di zombie,delle fan dementi. Spiare come la vita di questo ses-santatreenne — King è del 1947 — si attorcigli e si di-pani nelle sue creature a volte troppo credibili, pernon essere davvero spaventose.

Poiché in ogni pagina di qualsiasi autore, in ogni fo-togramma di regista o pennellata di pittore c’è semprela traccia di chi l’ha prodotta, la visita nella fabbrica la-boratorio del “King of Horror” offre molte, ovvie sug-

gestioni. La prima, sulla quale lui preferisce sorvolare,ci porta all’anno 1950 quando lui, bambino di neppu-re tre anni, diede il rituale bacino sulla guancia del pa-dre che era uscito la sera «a comperare la sigarette» eche, come nelle barzellette più tristi, non rientrò maipiù. Divenne un orfano bianco, senza neppure il rela-tivo, ma definitivo, conforto della morte, abbandona-to nella dissolvenza infinita di un rifiuto cosciente in-sieme alla madre, Ruth, e al fratello adottivo, il piùgrande. Tre anni sono troppo pochi per ricordare, maabbastanza per avvertire il vuoto di un’assenza che sifa concreta con il trascorrere del tempo. E otto anni so-no abbastanza per capire che cosa era accaduto a uncompagno di scuola nell’Indiana, dove la madre ave-va traslocato inseguendo lavori d’occasione per man-tenere i due figli, che aveva giocato a rincorrere un tre-no merci e ne era stato maciullato.

Lui nega, rifiuta ogni associazione fra la scopertadella crudeltà deliberata o casuale della vita e le suecreature maligne, ma nella fabbrica ci sono sparsi aterra troppi rottami, troppi utensili spezzati per po-tergli credere davvero. Stephen era un bambino, e so-prattutto un teenager, parecchio bruttarello, afflittoda una miopia che lo costringeva dietro occhiali mon-tati in nero — i soli che la madre potesse permettersi— e spessi come fondi di bicchiere, sopra un viso dadork, come dicono crudelmente i ragazzi, da secchio-ne, da perdente, tagliato da un folto sopracciglio neroe continuo come la indimenticabile Mariangela, la fi-glia del ragionier Fantozzi. È dunque difficile non ri-conoscere in Carrie, la ragazzina rifiutata e umiliatadai coetanei che si vendica ferocemente dei suoi tor-mentatori con i propri poteri soprannaturali, qualco-sa di quell’adolescente infelice, ignorato dalle com-pagne in fiore, che aveva trovato nella scrittura e nelfoglio di carta — diresse il giornalino del liceo — la ri-vincita e il rifugio inattaccabile.

Carrie fu il suo primo romanzo pubblicato da Dou-bleday e amorevolmente curato da un redattore dellacasa editrice, quel Ben Thompson che avrebbe poiscoperto e imposto John Grisham, con un anticipo suidiritti di duemilacinquecento dollari. Poca cosa an-che nel 1973, abbastanza soltanto per acquistare unorrida Pinto Ford usata che si affrettò a perdere perstrada la cinghia di trasmissione due giorni più tardi.Quei duemilacinquecento dollari sarebbero divenu-ti, pochi mesi più tardi, i cinquecentomila dell’edizio-

ne economica in paperback epoi gli ormai incalcolabili mi-lioni che lui lascia in depositopresso gli editori che glieli inve-stono, ricevendo un assegno an-nuale, oggi, di cinquecentomiladollari, per evitare le tasse e ri-mandarle alla vecchiaia con ali-quote più basse. Ma se in Carrie c’èil King ragazzino, anche in Shining,nel personaggio del padre della fa-miglia Torrance che approda nel-l’hotel del Colorado chiuso per l’in-verno e viene risucchiato dalla forzadiabolica del luogo, c’è lui, l’autore. Lafigura del padre, che Kubrick affidò al-l’immenso Jack Nicholson per il film, ènel film un alcolizzato, come lo era, persua ammissione, King in quel periododella vita. E proprio in un albergo prossi-mo alla chiusura, tra i monti del Colora-do, aveva trascorso una notte la famigliaKing, cercando uno dei bambini che si eraperso nella vuota immensità di un palaz-zone dove loro erano gli unici ospiti. E, qua-si a voler lasciare un altro indizio, nella par-te del direttore dell’orchestra spettrale, c’èproprio l’autore. Stephen King.

Nel cimitero degli animali zombie di Pet Se-matary, una storpiatura dell’ortografia cor-retta, «Cemetery», scritta da un bambino so-pra un autentico cimitero per «pets», per ani-mali domestici, era stato sepolto pochi giorniprima di scrivere il romanzo, il gattino di fami-glia, misteriosamente morto tra la disperazionedei bambini. Per scrivere uno dei suoi romanzipiù belli, Il miglio verde, l’ultimo tratto di stradache il condannato a morte percorre, pretese di se-dersi su un’autentica sedia elettrica, di essere in-cappucciato come lo sono le vittime, per nascon-dere ai testimoni lo spettacolo della testa che fumae prende fuoco sotto l’effetto della scariche. «Seavessi potuto farmi investire dalla corrente senzamorire, lo avrei fatto», disse. In Misery, la storia delloscrittore salvato e poi torturato da una fan che lo vuo-le possedere nella sua desolata solitudine, le allusionisono persino troppo ovvie. È il tuo lettore, il tuo tifoso,

Nelle stanze buiedel King of HorrorVITTORIO ZUCCONI

Repubblica Nazionale

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il tuo spettatore che ti nutre, ti salva dal-la miseria degli inizi, quando la moglie,Tabitha, recuperava dalla spazzature lepagine che lui buttava dopo il rifiuto deglieditori, ma ti avvinghia e alla fine ti consu-ma. Lo dice la dedica del libro, fatta a tre sco-nosciuti dai nomi generici che «sanno perchélo dedico a loro, ahi come lo sanno».

Non è una fabbrica luminosa, un atelier dapittore bohémien il luogo dove ci porta la visita,come non c’è molta luce, se non per qualche forzatohappy endingappiccicato alla fine dei romanzi, per farcontento il pubblico e l’editore. Non c’è la luce della fe-de religiosa, che King confessa di non possedere anchese un tempo pronunciava sermoni domenicali peruna chiesetta metodista. «Rispetto chi crede, ma il po-tere della religione sulle menti più deboli, la sua capa-cità di corruzione mentale mi spaventa», osa dire. «Ifondamentalisti di ogni fede sono squilibrati, spessoconvinti di possedere o di avere testimoniato fenome-ni paranormali, miracoli, eventi psichici». Non riescea vedere una razionalità, una coerenza negli eventiumani «forse perché siamo troppo vicini alle cose» eproprio lui, angoscioso cantori di morti che torna-no, non crede nell’altro modo e certamente non neiritorni. La madre, quella che aveva fatto partire iljuke box dell’horror con i 25 cents, morì pochi gior-ni prima della pubblicazione del suo primo libro,Carrie. «Una sera in un albergo di Londra chiesi alconcierge di trovarmi un angolo tranquillo dovelavorare e lui mi portò in un studiolo dove c’erauna vecchia scrivania. Ci lavorai freneticamen-te per tutta notte e al mattino mi disse con unsorrisetto: era la scrivania sulla quale RudyardKipling morì di emorragia cerebrale, lavoran-do tutta la notte».

Su uno dei suoi tavoli da lavoro c’è soltan-to una traccia, un segno che dietro questo in-dustriale della paura c’è quel bambino ag-grappato al solo amore vero che abbia co-nosciuto, quello per Tabitha, la moglie in-

contrata all’università del Maine, quarantatré anni orsono. «La morte non mi interessa — scrive — sbatti lepalpebre e te ne vai. Quello che mi interessa è saperecome possa l’amore sopravvivere alla morte, come soche il mio per te, Tabitha, sopravviverebbe». Anchenella fabbrica più cupa, c’è un angolo luminoso.

Bottiglie di scotche manici di scopa

L’inedito, 1966

STEPHEN KING

(segue dalla copertina)

Io scappo dietro l’angolo ed en-tro in un bar e il barista è Jack loSquartatore e ha un bel po’ di ci-

catrici da manico di scopa.«Ho bisogno di bere qualcosa», di-

co, «mi sento parecchio male». Luiversa ma vuole sapere dov’è il miomanico di scopa. «Non ne ho uno eperché avrei dovuto?» gli faccio io e luimi tira addosso una bottiglia di scot-ch, ma la sua mira non è molto buona.Corro nel retro dove i ragazzi stannogiocando a carte, il mazziere è cieco,grasso che è una montagna di lardo. Glirubo tutti i soldi ma lui mi colpisce conil suo bastone, io gli lascio delle matite evado giù per lo scarico della cucina.

È molto buio e l’odore non è buono,prendo la prima a destra e mi ritrovo al-la Lisbon High, come mi aveva detto untopo gentile. Mi pettino i capelli e filo almio corso preferito, quello di intreccia-tura capitalista, che è sempre stato unagoduria.

La sorvegliante era Barbra Streisand,l’insegnante Capitan Uncino; gli ho det-to che ero il redattore di un ricettario del-la Strunk & White. Proprio in quel mo-mento suona la campana e noi lanciamotutte le nostre palle da bowling, l’inse-gnante mi prende in testa e mi manda indetenzione.

«Sto diventando matta!» si mette a gri-dare una ragazza. Ha le calze rosse e iltrucco verdeblu cielo.

«Non venirmi a raccontare i tuoi pro-blemi», le dico io battendomela, quandofinisco addosso a un tizio in uniforme.Credo che sia Capitan Bligh.

«Adesso ti appendiamo a un penno-ne», dice con un’aria un po’ tetra. «Vole-vamo Ponzio Pilato, ma tu ci somigli ab-bastanza».

«La supplico, signor Bligh», dico io,«mi dia solo un’altra occasione...» È lì chearriva questa gnocca, Brigitte Bardot dal-la Francia.

Ma giusto in quel momento mi sonosvegliato, e stavo giusto pensando, non èche direi di no a un altro sogno, ma nonproprio come quello.

Traduzione di Tullio Dobner

(The Stephen King IllustratedCompanion © 2009 Bev VincentPublished by arrangement with

becker&mayer!, LCC Bellevue,Washington © 2010

Sperling & Kupfer Editori Spa)

IL LIBRO

Uscirà il 26 novembre Tutto su Stephen KingAlla scoperta di un genio:scritti autografi, lettere,fotografie, disegni inediti e memorabiliadi Bev Vincent(Sperling & Kupfer, 192 pagine, 40 euro)I documenti di queste paginee il racconto di Kingsono tratti dal volumeIl 23 novembre, per la stessacasa editrice, usciràanche Notte buia,niente stelle (480 pagine, 20,90 euro), quattro romanzibrevi tradotti per la primavolta da Wu Ming 1

I DOCUMENTINell’altra pagina, rivistestudenteschein cui comparvero scrittidel giovane King;sotto, l’originalede Il quarantatreesimosogno che pubblichiamo

LE FOTOA sinistra, Stephen Kingal telefono nel suo studionel 1980; in fondoalla pagina, lo scrittoresul set dello spotper l’American Expressgirato nel 1985

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Repubblica Nazionale

l’attualitàTestimoni

Un giorno Gabriele Del Grande comincia a raccogliere le storiedi chi cerca invano di raggiungere l’Europa: annegati in mare, dispersinel deserto, asfissiati nei Tir, assiderati nelle stive degli aerei, torturatiin carcere. Presto diventa l’unica fonte attendibile sulle reali cifredel dramma: 15.059 vittime dal 1988, un genocidio

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24OTTOBRE 2010

FIRENZE

Il ragazzo che conta i clandestiniodia che lo si chiami ragazzo enon usa mai la parola clandesti-ni. Gabriele Del Grande ha ven-

totto anni, ha trascorso buona parte de-gli ultimi quattro nel Nordafrica. Ha rac-colto le storie di chi è partito per mare al-la volta dell’Italia, della Spagna o dellaFrancia e non è più tornato e di chi è fi-nito in centri di permanenza che sonogalere, tra torture e violenze di ogni tipo.Ha sbugiardato così la fredda logica deirespingimenti, raccontando di come simuoia per una barca che si spezza o incella da innocenti. Ha descritto comesono le prigioni libiche finanziate dall’I-talia e a che prezzo siano crollati gli arri-

vi dal mare. Ha rilanciato gli appelli dichi è finito nel girone infernale delle pri-gioni tunisine diventando un desapare-cido. Ha messo in fila le cifre e ne ha ri-cavato quella che chiama la «scoperta»:15.059 vittime dal 1988. Due morti algiorno per ventidue anni. Un genocidio.

È nata da qui, da questo numero, l’i-dea di abbandonare il lavoro all’agenziaRedattore sociale per mettersi a cercarele facce e le vite dei coetanei ingoiati dalmare e dei padri, delle madri e dei fratel-li, rimasti ad aspettare e a sperare l’im-possibile. «Avevo i numeri ma non ave-vo le storie. Non sapevo nulla di quellagente. Volevo capire, andare a fondo,conoscere». I primi contatti con le co-munità che vivono in Italia, poi il viaggioalla scoperta del perché, a ondate, quel-le persone sfidano il mare su legni sfa-sciati per arrivare in Paesi che ne hannoun disperato bisogno ma dicono di nonvolerli. E mascherano con mille sinoni-mi l’idea di una frontiera sbarrata.

«La prima conclusione è che dietro laretorica della disperazione c’è l’ansia ela voglia di generazioni di africani dimettersi in discussione, di provare a fa-re meglio, di comprarsi una casa, spo-

sarsi, mandare i figli a studiare. Dietro laretorica della disperazione c’è solo unatensione al riscatto da una condizionefrustrante. Poi ci sono gli esuli, i perse-guitati, quelli che avrebbero diritto al-l’asilo che nei loro Paesi conoscono latortura e qui vengono trattati come cri-minali». Ecco perché in mezzo alle mil-le storie di chi è partito, la costante è l’an-sia di far presto, di guadagnare tempo eopportunità.

C’è Merouane che lavorava nello stu-dio grafico di famiglia ad Annata, nel-l’Algeria dove un tempo emigravano gliitaliani, e voleva andare in Francia dallaSardegna e Redouane che il padre inco-

raggiò a partire perché non finisse i suoigiorni a raggranellare spiccioli in unabaracca di Sidi Salem riparando cellula-ri. C’è chi aveva già pronto un piano perarrivare in aereo con un visto turistico eche una notte, senza dire nulla, ha smes-so di attendere che la burocrazia corrot-ta truccasse le carte e si è messo in viag-gio rimanendo da qualche parte in fon-do al mare. «Sono ragazzi come me chenon se la sentono di trascorrere un’esi-stenza dai confini già tracciati, che han-no il desiderio di crescere e migliorarsicome chiunque altro. È semplice ma ècosì».

Gabriele ne ha incontrati tanti prontia partire. Li ha visti consumarsi nellanoia dell’attesa tra i tavolini dei bar,spezzarsi la schiena di fatica per raci-molare quanto basta a farsi staccare unbiglietto di sola andata in direzione Eu-ropa. «Le frontiere in realtà sono giàaperte, la stragrande maggioranza di chiarriva qui viaggia in aereo. Solo chi nonha abbastanza soldi o non ha voglia diaspettare, provando e riprovando, sce-glie il mare».

Le storie che Gabriele Del Grande hamesso insieme sono pubblicate in tre li-

bri che un combattivo editore, Infinitoedizioni, gli ha pubblicato e che hannospopolato in un mercato che c’è e non sivede e che ha regalato a questo toscanovagabondo dall’aria scanzonata, premi,riconoscimenti e un’autorevolezza fat-ta di citazioni perfino sul New York Ti-mes. Gli si riconosce di avere scopertoquello che era sotto gli occhi tutti: le di-mensioni di una catastrofe immane. E dinon essersi fermato alle cifre ma di esse-re partito per andare a raccontare le la-crime, il sudore, il sangue che c’è dietrola maschera di un numero.

«Non mi piace che mi sia dia del ra-gazzo, in questo Paese sembra più unacondanna che un merito essere giovanee aver voglia di fare. Anche quella del-l’età finisce per essere una specie di ca-tegoria che non ti fa essere una personama un’etichetta come quella di immi-grato o migrante o clandestino». L’ulti-mo libro di Del Grande si intitola Il ma-re di mezzo. È il Mediterraneo ma anchelo spazio che divide chi tra le due spon-de ha sogni e speranze identiche. «Misono reso conto che non c’era molta dif-ferenza tra me che viaggiavo e loro chepartivano. Solo quel mare». Il primo re-

Il ragazzo che conta i clandestini“I parenti e gli amicidei desaparecidos

mi chiamanodalla Libia

o dalla Tunisiaper avere notizie”

ENRICO BELLAVIA

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 24OTTOBRE 2010

portage di Del Grande in terra d’Africa èin Mamadou va a morire che lo ha fattoconoscere in giro per il mondo. In pochesettimane ha messo insieme cento pre-sentazioni in circoli e istituzioni cultu-rali in Italia e in Nordeuropa.

Ma il suo lavoro, quello che ogni gior-no serve a tenere il conto e la memoria dichi si è perso nel mare di mezzo, è For-tress Europe: la fortezza Europa, il blog,tra i più cliccati da chi si occupa di im-migrazione. Un punto di riferimentoanche per i giornalisti che attingono apiene mani al lavoro di Del Grande chegiornalista non è: «Non ho la tessera efrancamente non credo che mi serva: la-voro, scrivo e racconto. La considera-zione di cui godo è data dalla serietà edall’impegno che ci metto. Poi, averscritto giornalista sui documenti per lamia attività non credo aiuti». Muoversiper la riva opposta a squarciare il veloche copre le storie dei morti, gli ha atti-rato più di una grana. Non lo amano inTunisia dove gli hanno fatto pagare unaserie di documentati racconti sulla san-guinosa repressione di polizia della pro-testa dei sindacalisti nel distretto mine-rario di Redeyef nel 2008. Tornando a in-

dagare, l’anno dopo, sulla fine dei di-spersi algerini forse finiti nelle prigionitunisine, si trovò nella black list.

L’idea di uno che prende rischi senzacalcolarli è lontanissima dal modo diprocedere di Gabriele Del Grande. Sa dimuoversi su un terreno minato: i suoicontatti sono spesso dissidenti dei Pae-si in cui si trova, oppositori dei governi,gente che rischia, quella sì la pelle, peruna parola di troppo: «Il problema è piùper loro che per me. So di mettere a re-pentaglio la loro vita e la loro libertà e perquesto ho l’obbligo di essere cauto». Dipoliziotti e barbe finte al seguito duran-te i suoi giri ne ha avuti parecchi e semi-narli non è semplice. Cercavano i suoitaccuini per carpirgli i contatti. Quellavolta della protesta di Redeyef dovettemettere tutto su un file, dribblare i segu-gi che già erano a un passo dalla sua ca-mera d’albergo e mettere in salvo i ma-teriali nel posto più sicuro che conosca:la Rete. La protesta di Redeyef lo ha mes-so sulla pista della fine che fanno gli esu-li e delle torture riferite da chi aveva as-saggiato la polizia tunisina. Che non hagradito tanto zelo.

«Dai centri di permanenza, dalle pri-

gioni che ho visitato, tengo i contatti conchi è dentro. Spesso le persone arresta-te utilizzano un telefono cellulare e ilmio numero ormai gira parecchio. Rice-vo richieste di aiuto, segnalazioni, de-nunce su ciò che accade. Per chi vienearrestato prima di espatriare, in Norda-frica non ci sono certezze. A bordo di ca-mion, spesso anche dei container, comequelli utilizzati in Libia, somali, eritrei,sudanesi finiscono per mesi, se non peranni, in strutture speciali lontane da tut-to e creduti morti dai parenti. Ormai hola mia rete di contatti e finisco sempreper avere in tempo reale un bollettino diuno sbarco, tentato o riuscito. Ho infor-mazioni di prima mano che sottopongoa verifica. Con i telefoni cellulari mi arri-vano anche riscontri fotografici alle tor-ture e alle violenze denunciate».

La prima volta in Africa fu un viaggioin Tanzania imbottito di vaccini, ades-so prende il primo volo utile e va, anno-tando con scrupolo quel che la straor-dinaria accoglienza culinaria dall’altraparte del mare gli riserva. Messa in uncassetto la laurea in Storia orientale chegli valse una borsa di studio con la qua-le sono iniziati i reportage, oggi Del

Grande lavora per partire ancora e rac-contare altre storie e altri spaccati di unmondo che da qui si fatica a vedere. Untempo non lontano faceva il camerierein una trattoria di Testaccio a Roma permettere insieme i soldi, oggi, tra libri,conferenze e seminari all’università,riesce a vivere della sua stessa voglia diraccontare. «Lavoro su Internet, possofarlo da qualsiasi posto. Ho abitato aRoma e Milano, ho vissuto due anni inSicilia, adesso sto in Toscana dai miei,ma riparto tra non molto e poi chissà,forse metto su casa ancora a Roma». Hala consapevolezza di fare qualcosa digrande e di utile. Ma se la cava facile conuna battuta: «I miei meriti? Forse i de-meriti degli altri. Di chi è pagato, e an-che bene, per raccontare quel che rac-conto io e non lo fa».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

IL BLOG E IL LIBRO

Il blog di Gabriele Del Grandesi chiama Fortresse Europe

(fortresseurope.blogspot.com)ed è l’osservatorio

più autorevole sulle vittimedell’emigrazione. L’ultimo libro

di Del Grande si intitolaIl mare di mezzo

(Infinito edizioni, 222 pagine,15 euro), un reportage

sulle due spondedel Mediterraneo attraverso

le rotte dei clandestini

I CASI

CEUTA, IL CONFINEIl 15 maggio 1989una barca con ventimigranti naufragaal largo di Ceuta:è una delle primetragediedel Mediterraneo

SUL CAMPO MINATONel ’94 quattrouomini sul confineturco-grecomuoiono dilaniatidalle mine: unodei casi segnalati in questi anni

STRAGE DI NATALECosì è chiamatala tragediaavvenutail 25 dicembre 1996nel canale di Sicilia:affogano in mare283 migranti

CANALE DI OTRANTOIl 28 marzo 1997una motovedettadella Finanzasperona la Kater IRades: annegano108 albanesi, moltele donne e i bambini

VOLO KILLERA Gatwick, 1999,volo British Aiways:uno dei tanti casidi migranti trovatimorti assideratinelle stivedi un aereo

DENTRO I CAMIONNel 2002a Caserta, dentroun Tir, vengonorinvenuti i cadaveridi nove migrantimorti asfissiatiNon è l’unico caso

NEL SAHARASolo dal 2000al 2005 sonoalmeno duemilae cinquecentoi migranti mortiattraversandoil deserto del Sahara

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Repubblica Nazionale

Lo chiamavano “il Prévert della fotografia”, il suo “Bacio”è diventato la cartolina più venduta. Di lui si crede di averevisto tutto. Invece dagli archivi di famiglia spuntano scatti

inediti che raccontano il lavoro dietro ogni immagine di bistrot, trottoir e cocotte:la costruzione maniacale di atmosfere che non esistono nella realtà ma solo nel mito

CULTURA*

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24OTTOBRE 2010

ti, insegne dipinte a mano, calze con la riga, cani al guinzaglio,bambini, barboni, cocotte, innamorati sul lungosenna e fogliemorte e tutto il resto, Paris en rose, Parigi buona e umana e pro-vinciale e semplice e dolce come una crêpe au sucre.

E proprio questo invece è il capolavoro di Doisneau: farci cre-dere all’esistenza reale di una Parigi fatta proprio così, che inve-ce lui aveva costruita passo dopo passo sui trottoir, anno dopo an-no, senza fretta, perché «Parigi è un teatro il cui biglietto d’in-gresso si paga col tempo perduto». Illudendoci che il suo compi-to fosse invece solo di raccoglierla e incollarla sull’album, come

RiveMICHELE SMARGIASSI

DoisneauL’arte di inventare la Parigi perfetta

gaucheF

acciamo che era Parigi. Facciamo che un pittore di-lettante spennellava sul Pont des Arts e un signore sigirava a guardarlo (il cane no). Facciamo che un col-po di vento rubava i cappelli davanti alla Madeleine etutti ridevano, o che due ragazzi si baciavano di fron-te all’Hotel de Ville incuranti di tutto. Gli album pari-

gini di Robert Doisneau parlano all’imperfetto: che è il tempo deigiochi dei bambini, sospeso fra immaginario e realtà, tra creder-ci e non crederci. Gliel’aveva spiegato l’amico Jacques Prévert: «Èsempre all’imperfetto dell’obiettivo che tu coniughi il verbo fo-tografare». Ecco, ci siamo: dici Doisneau e credi di sapere già tut-to. Il Prévert della fotografia, il narratore giocoso della Parigi pit-toresca, tenero, romantico, “facile”, sorridente. E anche questolibro-monumento con centinaia di scatti, benché pieno di sor-prese e di inediti, pare già di averlo sfogliato tutto, ciottoli bagna-

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 24OTTOBRE 2010

l’entomologo con le farfalle. Ma quella Parigi non esisteva primadi Doisneau e dei suoi amici Izis, Boubat, Ronis, i fotografi dell’u-manità ritrovata, i «corrispondenti di pace» (come il solito Prévertdisse in realtà del solo Boubat, per l’invidia malcelata di Doi-sneau). Ragazzi poco più che trentenni nel dopoguerra, quandoc’era sete di libertà e bisogno di dimenticare in fretta l’onta del-l’occupazione nazista, la vergogna di Vichy e tutte quelle «imma-gini che sudano sangue».

Erano, in tutto il mondo, gli anni d’oro della fotografia umani-sta: l’ideologia della fraternità planetaria venuta dagli Usa con lasupermostra The Family of Man, in Francia prese una piega piùnazionale e popolare, incarnata da fotografi quasi tutti orientatia sinistra. Bistrot, negozietti, episodi di strada: la nazione france-se umiliata nella sua grandeur ritrovava la semplicità del piccolocomunitarismo di vicinato, il calore dell’angolo di strada, il pia-cere degli orizzonti stretti. Quello di Doisneau non andava mol-to oltre le cimase di Gentilly, Val-de-Marne, gli piaceva far crede-re (non era vero, vedremo) di non aver mai attraversato la Loira,di certo era «turbato dai lunghi viaggi», e per sé aveva coniato lametafora del tappo di vino: che resta bagnato e sano finché la bot-tiglia sta coricata a riposo, mentre se la metti in piedi si secca e siguasta. Era la sua maschera di umiltà: «Un fotografo intelligenteè spacciato», si faceva beffe di Barthes con i suoi studium e i suoipunctume di tutti i semiologi, «seminaristi chiacchieroni che vo-gliono solo fregare i miei giocattoli». Rivendicava la sua pesca mi-racolosa in mezzo al «gregge dei pedoni», da «etnologo involon-tario» che «compone col provvisorio».

Piccole sapienti bugie. Doisneau era tutto tranne che un inge-nuo collezionista di belle conchiglie sulla spiaggia. Aveva fatto lascuola d’arte e studiato litografia, conosceva i maestri dell’im-magine. Era «un iconolatra» colto, un consapevole fabbricante diimmagini, padronissimo dei propri mezzi espressivi. C’è la pro-va. Quando accettò viaggi lontani (sì, anche oltre la Loira: negli

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Due figliealla ricerca dell’aura

AMBRA SOMASCHINI

Scatti selezionati con cura, infilati nelle scatole te-matiche di legno tutte uguali. Didascalie scritte amano chiuse nelle stesse buste di plastica traspa-

rente. Un lavoro meticoloso, da chirurgo. Parigi, i giar-dini, la Senna, i bistrot, i cabaret, i music-hall e le faccedei passanti, il trucco pesante, i solchi delle rughe, lesmorfie, i sorrisi. E quel bacio in mezzo alla strada strap-pato al tempo (Il bacio dell’Hotel de Ville) diventato po-ster, carta da regalo e cartolina. Robert Doisneau avevaschedato in modo quasi ossessivo seicentomila negati-vi. Francine e Annette, le figlie, li hanno studiati uno peruno e sistemati in due libri. Il primo, pubblicato in Fran-cia da Gallimard, sbarca da noi venerdì prossimo 29 ot-tobre: Paris Doisneau (Ippocampo, 400 pagine, 39,90euro), un collage di immagini (perlopiù inedite) e rifles-sioni. Il secondo uscirà tra due anni.

Foto e frasi per catturare emozioni. Scriveva Doi-sneau nel 1951: «Si chiama aura quella specie di tubo alneon che si accende intorno a certe persone, isolandoleper un breve momento. Bisogna sbrigarsi a registrarlaperché non regge il movimento». Suggeriva a made-moiselle Anita, abito scollato e filo di perle: «La prego,ferma così, non si muova, poi le spiego». È l’attimo del-l’aura, la circonferenza di luce di un istante che le figliehanno voluto fissare e impaginare: «Sono frammentiche abbiamo trovato nell’atelier di papà — raccontanoFrancine e Annette — abbiamo impiegato più di due an-ni per individuarli e sistemarli. Abbiamo assemblato fo-to, appunti e documenti che erano nel suo archivio per-sonale, altri elementi li abbiamo spulciati tra i vecchi te-sti esauriti sul mercato editoriale. Un percorso fatto sen-za mai dimenticare i suoi desideri, quella successione dimomenti magici che sanno dare soltanto le foto d’auto-re». Paris par hasard, Galanterie urbaine, Paris des pari-siens, Paris béton... Le sorelle hanno seguito il suo ritmo,hanno rispettato la scansione omogenea nello stesso fi-lone, quello del bianco e nero, quello del grigio urbanodel giorno e degli scintillii della notte: «Gli scatti raccon-tavano il suo mondo. Li aveva suddivisi e assemblati se-condo temi e sequenze, li trattava come cortometraggi,sì, come piccoli film. Non sarebbero potuti sopravvive-re se non fossero stati legati da una storia per immagini».Annette e Francine hanno selezionato e incollato aiuta-te da Jean Yves Quierry che ha creato il logo de l’AtelierDoisneau: «Abbiamo fatto una scelta radicale. I negati-vi erano troppi. Abbiamo voluto raffigurare quello chelui chiamava mon petit théâtre. Alla fine abbiamo esclu-so la sezione spettacoli, cinema, opera, danza e teatro...La utilizzeremo per il prossimo libro».

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I PESCATORIE LE MOSCHEDoisneau avevaintitolato cosìi due montaggi di fotoscattate nel 1972tratte dalla sezione“Parigi sulla Senna”

Usa, perfino in Siberia), il suo stile si adeguò prodigiosamente. Inquesti giorni al centro Forma di Milano si può godere il ritrova-mento del suo reportage (a colori!) su Palm Springs, città-giardi-no californiana del golf e dell’America affluent: un servizio che glichiese nel 1960 il grande Walker Evans, allora photo-editor di For-tune. Ebbene, l’occhio che si posa sull’opulenza delle ville con pi-scina e dei party è freddo, sarcastico, quasi cinico, molto “ameri-cano”.

Insomma Doisneau sapeva maneggiare alla perfezione la re-torica delle forme, e se ne servì per fabbricare e regalare alla suaParigi un’atmosfera, un marchio di fabbrica, una nuova colloca-zione nell’immaginario da mettere al posto della Ville lumièreot-tocentesca e degli années folles prebellici, miti ormai inservibili.Questa nuova Parigi “all’imperfetto”, che sembra aneddotica evernacolare, è in realtà una città deliberatamente mitologica: lacittà del bonheur in cui tutti vorrebbero vivere. Del resto, di nonessere un testimone nostalgico lo ammise lui stesso: «Lasciare al-le future generazioni una testimonianza della Parigi dell’epoca incui ho tentato di vivere è stata l’ultima delle mie preoccupazio-ni». Non un archeologo: un regista. «Ci sono messinscena nellesue foto?» «Certo che sì!». La più famosa è proprio il romanticoBaiser de l’Hotel de Ville, la cartolina più venduta al mondo, mes-sa in posa con la collaborazione di due giovani aspiranti attori; maanche il pittore del Pont des Arts è «completamente montato», egli sposi nel bistrot assieme al carbonaio non erano neppure fi-danzati. Ebbene? È il mestiere del creatore di miti premeditati. Leimmagini fintamente ingenue di Doisneau, ha ben visto RégisDebray, «sovracodificano la pariginità eterna» ad uso e consumodi un mondo che la crederà vera e la verrà a cercare negli anni delturismo di massa. E, a sorpresa, la troverà davvero, impacchetta-ta come un souvenir a scala urbana: esempio strepitoso di comele fotografie spesso non riproducono la realtà, ma la creano.

‘‘Passerotti sul canaleIn uno di questi giorni felici trovoquesto pescatore sul canale Saint-MartinIl pescatore e i passerotti di Parigisono una fonte di facile colore localeper i fotografi...

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DAL 1707

Repubblica Nazionale

Era il 1977 quando usciva il primo episodio dell’epopeacreata da George Lucas. Oggi, dopo due sequele tre prequel, il regista annuncia un nuovo progetto:

i film nelle sale in 3D. Ma milioni di fan non sono d’accordo, come rivelaun documentario in programma al Festival del cinema di RomaE ancora una volta veniamo trasportati nella “galassia lontana lontana”

SPETTACOLI

anto tempo fa (gennaio 1977), nella galassia lontana lontana della New Hollywood, il trenta-treenne George Lucas mostrò a un gruppetto di amici — tra cui Martin Scorsese e Brian DePalma — la prima versione del suo nuovo film, una storia di fantascienza intitolata Star Wars.Quelle battaglie spaziali di ribelli e buffi robot, condite da una sorta di filosofia sul lato oscurodella Forza, sembrarono agli ospiti prive di senso. Destinate a un umiliante fallimento al bot-teghino. Perfino la moglie del regista, Marcia, scoppiò in lacrime. Solo Steven Spielberg si mo-strò ottimista: «Sono sicuro che guadagnerà cento milioni di dollari».

La previsione fu smentita. In positivo, però: la pellicola di milioni ne incassò subito — inquella calda estate di trentatré anni fa — oltre 460. Dando il via alla saga cinematografica piùlongeva e redditizia: sei pellicole uscite tra allora e il 2005, ripartite in due trilogie (la seconda,in ordine di realizzazione, è un prequel della prima). Capaci di generare un cosiddetto uni-verso espanso (l’insieme di avventure extrafilmiche legate alla serie) di enormi dimensioni:videogame, fumetti, libri, cartoni animati. Per non parlare del merchandising. Ma Guerre stel-lari è soprattutto un fenomeno di costume intergenerazionale, un mondo adorato da schie-re di fan appassionati e ipercritici. Per questo sembra destinato a non morire mai. Anche là do-ve è nato: sul grande schermo. I primi tre capitoli sono già tornati nelle sale a partire dal 1997,in un’edizione speciale leggermente rimaneggiata. E adesso, altro giro: Lucas ha annunciatola riedizione di tutti i film in 3D. Il primo a sbarcare nei cinema, nel 2012, sarà Episodio I — Laminaccia fantasma.

Una storia infinita. E controversa. Perché questa nuova iniziativa è stata bocciata sen-za appello, sui forum internettiani, dallo zoccolo duro dei fan. Gli irriduci-bili, custodi della purezza della vecchia trilogia: quaranta-cinquantennifulminati a fine anni Settanta dal primo film, nerd o comunque navigatoriweb della prima ora (Star Warsha anche un’enciclopedia online tutta sua,wookiepedia), adoratori mistici della galassia lontana lontana. Un cultocon centinaia di migliaia di adepti: americani, giapponesi, europei. Legatial regista di Guerre stellari da un rapporto di passione e insieme di avver-sione che non ha paragoni, nella cultura pop. Come dimostra un docufilmgià cult di scena il primo novembre, fuori concorso, al Festival del cine-ma di Roma: si chiama People vs. Gorge Lucas, è diretto da AlexandreO. Philippe, è stata definita la migliore geek-opera mai apparsa suglischermi, e fa parte del ricco pacchetto della sezione Extra, curata daMario Sesti.

Guardare questo film è come entrare in un universo parallelo. Incui regnano passione, fanatismo, feticismo. Con testimonianze illu-stri: ad esempio lo scrittore Neil Gaiman, che racconta come quell’e-state del ’77 cambiò la vita di tutti. O Francis Ford Coppola, che sot-tolinea la potenza industriale del fenomeno. O ancora AnthonyWaie, produttore esecutivo di 007, che conserva ancora il biglietto di ingresso ditrentatré anni fa. Il risultato di questo attaccamento morboso è duplice. Da un latogenera il proliferare di fake movies, amorevoli omaggi o parodie girate dai fan, visibi-li online e realizzate con ogni mezzo: personaggi di plastilina, costruiti con le bottiglie diwhisky, con le uova sode. C’è perfino un sexy-horror: Don’t go in the Endor Woods. Ma esi-ste anche il rovescio della medaglia. Perché l’adorazione è accompagnata da tanta rabbia: «Ioamo e odio Gorge Lucas», dice senza mezzi termini un fan, nella parte iniziale del documen-tario. Nel mirino, la decisione dell’autore di cambiare leggermente la trilogia classica in occa-sione dell’edizione speciale del 1997, l’unica tuttora reperibile in dvd. Piccoli ritocchi. Comenella scena della Cantina, in cui — nella versione originale — Han Solo (Harrison Ford) fa fuo-ri senza preavviso un alieno chiamato Creedo. Vent’anni dopo, la sequenza cambia: è l’av-versario a cacciare la pistola per primo, il protagonista colpisce per legittima difesa. «Tradi-mento», gridano ancora oggi gli irriducibili, che hanno creato su Facebook il gruppo “Han So-lo Shot First”. Altrettanto critici i giudizi sul tris di pellicole più recenti, considerate non all’al-tezza delle prime tre. Bocciati soprattutto alcuni nuovi personaggi, come il molliccio e queru-lo Jar Jar Binks: per paradosso, il più odiato dai veterani, ma anche tra i più amati dai ragazzi-ni di adesso. Cioè dai fan di ultima generazione, molto meno ideologici, che non vedonoalcuna differenza tra vecchie e nuove avventure. Sono loro che – a migliaia, travestiti da Ca-valieri Jedi - sfileranno a Lucca Comics and Games, la più importante manifestazione italianadel settore, in programma dal 29 ottobre al primo novembre. Una kermesse in cui i padri cer-cheranno memorabilia della prima trilogia, mentre i figli adolescenti parteciperanno ai gio-chi di ruolo con le spade laser. È per questo che Star Wars non muore mai.

JediCavalieri a guardia

della Repubblica galatticaLe loro armi sono le spade

di luce, ma soprattuttola grande conoscenzache hanno della Forza,

l’energia che scorrein tutto l’universo

SkywalkerTutto incomincia con Anakin

Skywalker, prima iniziato comecavaliere Jedi e poi sedottodal lato oscuro della Forza

e divenuto Darth Vader. SposaPadmé e nascono due gemelli,Luke e Leia che riporteranno

l’equilibrio nell’universo

AvventurieriHan, Chewie e Lando,contrabbandieri e piratidello spazio, si uniranno

alla causa dei ribellicontro l’Impero galattico

LUKE SKYWALKER

HAN SOLO

JAR JAR BINKS

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24OTTOBRE 2010

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CLAUDIA MORGOGLIONE

La saga infinita

T

PADMÉ AMYDALA

CHEWBACCA

Droidi & Co.L’astrodroide e il droideda protocollo sonodeterminanti in ogniepisodio, come lo sono,nel bene e nel male, altripersonaggi minori, abitantidi mondi di foresteo sottomarini

OBI-WAN KENOBI

QUI-GON JINN

MACE WINDU

YODA

LEIA ORGANA

LANDO CALRISSIAN

R2-D2

C-3PO

GLI EWOK

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 24OTTOBRE 2010

SithSono i signori del lato oscurodella Forza. Il loro padroneè Cos Palpatine, senatore

che ha tradito la Repubblicaed è divenuto imperatoreAl suo fianco c’è sempre

un apprendista. Il più potentediventerà Darth Vader

DARTH MAUL

JABBA THE HUTT

JANGO FETT

La saga infinita

I cavalieri, le armi, gli amoril’eterna epica contro il nulla

PINO CORRIAS

Ma seun hamburger di elastica carne transgenica con patatine congelate due anni fa, più una spruz-zata di pomodoro ricolorato e acido equivale a un buon pranzo, perché mai la saga di Star Wars

non dovrebbe essere nutriente quanto una mediocre cine o fanta religione? La persistenza deisuoi eroi in viaggio da quarant’anni tra i meandri galattici del male verso il bene più che raccontarci la lo-ro esplicita ricchezza di emozioni digitali, ci rivela l’implicita miseria della nostre vite, imprigionate ormaidentro a notti senza più stelle, ma ricche di sogni artificiali e di popcorn. Pensato da George Lucas comeun giocattolo di immagini da infilare tra gli ingranaggi luminosi di Hollywood, le sei avventure diSkywalker, le principesse, i cavalieri, le armi, gli amori e le peripezie che ne conseguono, hanno intrapre-so a loro volta un viaggio clamoroso non al centro della Terra, ma dei terrestri. Per la straordinaria ragio-ne che il messaggio di quei mondi così lontani e di quei personaggi così vicini — che è poi il cristallo piùfragile e più resistente di ogni narrazione — ha raggiunto con successo almeno due stazioni psicoattivedei nostri recettori più profondi.

Nella prima, l’apparentemente complesso si è semplificato nell’euforia aritmetica dei dollari genera-ta dal successo. I concetti filosofici dello jedi Obi Wan Kenobi hanno trovato il loro riassunto più efficacenel merchandising delle spade laser. Darth Vader, che è poi il nero abissale della vendetta e del potere, èdiventato una maschera per i ragazzini che intendono modernizzare il loro Halloween. La Forza si è og-gettivata nel suo viatico: «Che la Forza sia con te» disponibile in molte versioni colorate su T-shirt. Ma an-che nel training di un numero infinito di palestre dove si insegnano spiccioli di yoga, a canone mensile,dalle verande luminose di Beverly Hills, ai seminterrati di Testaccio.

Nella seconda stazione, queste formidabili oggettivazioni della nostra meraviglia di spettatori, hannofatto il miracolo di trasformarci in folle di adepti, moltiplicando la loro natura identitaria in una offertaspeciale di miti e di mitologie. Addirittura in una svendita per altari casalinghi, collezionismo generazio-nale, mimesi teatrali e infine playstation. Mitologie che cominciano naturalmente dalla caverna di Plato-ne per approdare alle odissee di Ulisse, passando per la tavola rotonda dei cavalieri di Re Artù, per gli anel-li dei Nibelunghi, per le Terre di Mezzo di Tolkien. Con un sovrappiù ironico rintracciabile nelle disav-venture del Don Chisciotte e dei suoi mulini a vento. Ma pure con un eccesso qua e là di misticismo. Lad-dove gli sguardi dei devoti hanno intravisto — nel viaggio iniziatico dell’Eroe attraverso il Lato Oscuro del-la Forza verso la Maturità, la Giustizia e l’Amore — un po’ Buddha con le sue illuminazioni trascendenta-li e un po’ Gesù Cristo, quando fronteggia in solitudine le tentazioni, sopporta i sacrifici, persegue lasalvezza degli umani promettendo altri mondi, altre vite.

Ma come i fast food anche le saghe portatili e postmoderne andrebbero considerate con una certa in-dulgenza. È vero che offrono cibo plastificato. Ma anche qualcosa di un po’ più prezioso e persistente: unpiccolo riparo contro il nulla, per esempio. Il che spiega il passaparola generazionale che tiene accese leluci della Saga. La quale si rinnova (come certe mistiche o i buoni romanzi) attraverso gli occhi semprenuovi di chi guarda, o legge, o sogna, seduto al centro della propria galassia lontana lontana.

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Gangster & Co.Sul pianeta Tatooine

regna il banditoJabba the Hutt

Watto era il padronedi Anakin

WATTO

BOBA FETT

CONTE DOOKU

PALPATINE/L’IMPERATORE

GENERALE GRIEVOUS

Bounty killerIl dna del primo, Jango

Fett, darà vitaall’esercito dei cloni

che darà scaccoalla Repubblica. Il figlio

Boba catturerà HanSolo e lo consegnerà

a Jabba the Hutt

I FILMUna nuovasperanza(1977);

L’imperocolpisceancora (1980);

Il ritornodello Jedi(1983)

La minacciafantasma(1999);

L’attaccodei cloni(2002);

La vendettadei Sith(2005)

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42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24OTTOBRE 2010

Di stagione

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«Fecero sul lembo del manto melagrane diporpora viola, di porpora rossa, di scar-latto e di bisso ritorto. Fecero sonagli d’o-ro puro e collocarono i sonagli in mezzoalle melagrane, intorno all’orlo del man-to: un sonaglio e una melagrana, un so-

naglio e una melagrana lungo tutto il giro del lembo del man-to, per l’esercizio del ministero, come il Signore aveva ordina-to a Mosè».

Era già famoso ai tempi della Bibbia, il melograno. O mela-grana, se si considera solo il frutto e non la pianta nel suo insie-me: un’altalenanza tra maschile e femminile che addiziona fa-scino a fascino. Forse solo l’ulivo, tra gli alberi “da mangiare”

lograno, sacro a Venere e Giunone, mentre Shakespeare sce-glie l’ombra del melograno per la serenata di Romeo a Giuliet-ta. In Vietnam aprire il frutto «fa arrivare cento bambini», e inTurchia si getta la melagrana a terra dopo la cerimonia nuzia-le, per contare il numero dei figli, pari ai chicchi usciti dallaspaccatura. Tradizioni che trovano il loro miglior compimen-to a tavola, dove le ricette rifinite con succo o semi sono consi-derate bene auguranti e golose.

Il risvolto scientifico è sorprendente. La medicina d’un tem-po utilizzava i semi come vermifughi e astringenti, ma oggisappiamo che non esiste alimento di pari potere antiossidan-te. Un concentrato di giovinezza&salute talmente straordina-rio da far impallidire arance e mirtilli, che pure vantano la lorobella quota di flavonoidi. A scorrere l’elenco delle malattie sucui agisce beneficamente, viene voglia di prenotare un bic-chiere quotidiano di succo per i prossimi cent’anni: cancro, ar-trosi, arteriosclerosi, ipertensione, Alzheimer…

Se la scienza moderna ha battezzato la melagrana comefrutto-simbolo della nuova medicina preventiva, la gastrono-mia ha cominciato ad amarla parecchi secoli fa, elevando loscricchiolio acidulo dei semi tra lingua e palato a insostituibi-le bilanciatore di freschezza per selvaggina e carni salsate. Icuochi di nuova generazione hanno spostato l’abbinamentodalle lunghe cotture ai pesci crudi, dalle salse alle insalate, dal-la macedonia ai formaggi, in una successione di gusti lievi, di-versi, stimolanti.

Questo è il suo momento. Generosa ma poco incline allelunghe conservazioni, la melagrana accende le ricette d’au-tunno, regalando due mesi di splendore assoluto alla dolce sel-vaticità dell’agnello o alla setosa carnalità della ricciola. Fatefinta che sia Parmigiano grattugiato e spargete i semi su un ri-sotto bianco o di pesce: con un solo gesto, profumerete il piat-to e abbasserete il colesterolo.

vanta la stessa allure millenaria, a partire dal tronco ruvido, fit-to di rami spinosi e contorti, passando per i fiori, di uno sfac-ciato rosso vermiglio, fino alle bacche carnose, dalla spessabuccia giallo-rossastra, pienissime di semi rossi, che a contar-li passano quota cinquecento.

Briciole sparse di un alimento leggendario. Fertilità, amore,giustizia, ricchezza, coraggio: il melograno con le sue meravi-gliose attribuzioni attraversa lo spazio e il tempo, abita l’im-maginario laico e la tradizione religiosa, è protagonista di pa-gine struggenti e racconti mitologici. Così, i babilonesi masti-cavano i semi prima di andare in battaglia per diventare invin-cibili e le spose romane intrecciavano tra i capelli rami di me-

Orchidee farciteCarlo Cracco — “Cracco”, Milano — ha ideato una composizione di lenticchie, castagnee frutto della passione, ad accompagnareorchidee al vapore ripiene di melograno

Agnello sambucanoEnrico Crippa — “Piazza Duomo”, Alba —serve la carne a cottura rosata con cagliatadi latte di capra, che ne esalta il gustoCamomilla e melograno sgrassano il piatto

PiantaLa punica

granatum, originariadi un’area

compresa tra Iran e India himalayana, è una pianta dai fiori

rosso intensoI frutti, giallo-

rossastri, arrivano a maturazione

in autunno

VarietàDue tipologie:

a seme duro o soffice. Le prime

utilizzate per usoindustriale (succhi,

marmellate),le seconde — Dentedi Cavallo, Ragana,

Selinunte... —si consumano

fresche

GranatinaLo sciroppodi melograno partedai chicchi, rossi e maturi,schiacciatiRiduzione in pentolaa fuoco bassocon zuccheroo miele. A fuocospento, si aggiunge il succo di limone

SuccoLo straordinariocontenuto di antiossidantie potassio ne fannoun toccasanaa largo raggio,dalla prevenzione delle malattiedegenerative al supporto di acidofolico in gravidanza

Cracker di denticeCiccio Sultano — “Il Duomo”, Ibla, Ragusa —offre uno sfizioso, croccante cracker farcitocon polpa di dentice, foie gras e fave di cacaotorrefatte, profumato con mosto di melograno

Marbré di lepreGualtiero Marchesi — “L’Albereta”, Erbusco,Brescia — cuoce il controfiletto interonel burro chiarificato e lo serve affettatoaccanto a un’insalata di lattuga e melograno

MELOGRANO

Su carni e pesciil seme della vita

LICIA GRANELLO

Dai tempi della Bibbia abita immaginario laico e tradizioni religioseLa medicina ne celebra da sempre le virtù antiossidanti. E la gastronomianel corso dei secoli ne ha utilizzato le proprietà per esaltare selvaggina,salse ed insalate. Femminile il frutto, maschile l’albero, ha attraversatoogni epoca della storia. Ma vive in un solo periodo dell’anno: l’autunno

i sapori

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 24OTTOBRE 2010

itinerariIl vicentinoAndrea Rigonigestiscecon i fratelliuna storicaazienda biologicadi mieli

e trasformazionedella fruttaSana e golosala marmellatadi melograno

Avellino

Botticelli dipingela Madonna della melagrana

1487il numero mediodei semi in un frutto

600

Nelle campagne che circondano il capoluogodell’Irpinia, il melograno è diffuso da secoliUna coltura agricola che si traduce in ricettetradizionali, come succhi, gelati e marmellate

DOVE DORMIRELA MAGNOLIA B&BContrada Bosco San Raffaele Tel. 0825-1910668Camera doppia da 40 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELA MASCHERARampa San Modestino 1 Tel. 0825-37603Chiuso dom. sera e lunedì, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREGIOVOMEL AZIENDA AGRICOLAContrada Greci 11Località Aiello del SabatoTel. 0825-667410

Oristano

Disegnato, ricamato, inciso, il melograno fa bella mostra di sé negli oggettidell’artigianato locale, ed è parte integrante del ricettario tradizionale, fresco o trasformato

DOVE DORMIREHOTEL MISTRAL 2Via XX Settembre 34Tel. 0783-210389Camera doppia da 100 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREIL CAMINETTOVia Firenze 9. Località CabrasTel. 0783-391139Chiuso lunedì, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREPASTICCERIA CREAM ROSEVia Cagliari 422Tel. 0783-74186

Lecce

Il clima caldo e asciutto del Salento riesceparticolarmente felice per il melograno, la cui coltivazione si sta espandendo nella pianaleccese accanto a quella di viti e ulivi

DOVE DORMIREALVINO SUITESVia Roberto di Biccari 6Tel. 0832-240972Camera doppia da 100 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREOSTERIA DEGLI SPIRITIVia Cesare Battisti 4 Tel. 0832-246274Chiuso domenica sera, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREPASTICCERIA FRANCHINIVia San Lazzaro 36Tel. 0832-343882

l’apporto caloricoper 100 grammi

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Il Medioevo nel piattoun inno alla fertilitàMASSIMO MONTANARI

Ciòche fa di un “pomo” un “pomo granato” sono i “grani”, i semi. Lamelagrana è un frutto costituito dai suoi semi, situazione inusua-le, al limite del paradosso. Non poteva che derivarne una simbolo-

gia costruita attorno al tema della fertilità, che poi ritroviamo in ambitocristiano, nell’immaginario e nell’iconografia medievale.

Questa potente (prepotente) carica simbolica non ha impedito alla me-lagrana di occupare un posto significativo nelle pratiche di cucina. Il gu-sto che potremmo definire “premoderno”, dominante dal Medioevo fi-no al XVII secolo, pareva fatto apposta per prediligere questo frutto, il suosapore complesso, al tempo stesso delicato e forte, agro e dolce, con una

punta di amaro astringente. Un sapore comequello della melagrana rispondeva ai canoniscientifici (dietetici) e gustativi (culinari) del tem-po. Quei canoni esigevano sapori del genere che,unendo insieme varie qualità sensoriali, pareva-no utili alla conservazione della salute, identifi-cata primariamente con il “temperamento” bi-lanciato degli opposti. Al punto che, se i saporierano troppo semplici, era compito del cuocorenderli più complessi, più ricchi. Le salse agro-dolci-piccanti della cucina medievale eranoespressione di questa convinzione, di queste pre-messe teoriche elaborate in ambito scientifico.

In queste salse la melagrana entrava spesso evolentieri, a definire i sapori (“sapore” era il nomemedievale della salsa) che si aggiungevano alle vi-vande. Nel più antico ricettario italiano, compi-lato nel XIV secolo alla corte di Napoli, il succo dimelagrana serve per stemperare le spezie (in que-sto caso, cannella e noce moscata) che si aggiun-gono a rosso d’uovo, sale e mollica abbrustolitaper comporre la salsa «pro avibus», suggerita peraccompagnare ogni sorta di volatili. Ancora ilsucco di melagrana («agra e dolce», si specifica) è

protagonista di una ricetta detta “romania”, di origine probabilmentearaba, che prevede di stemperare in questo liquido del pollo soffritto concipolla e lardo (in ambito islamico si trattava ovviamente di olio) arricchi-to con mandorle tritate. Né mancano liquidi a base di melagrana consi-gliati «ad confortandum stomachum».

I dietologi del nostro tempo ci spiegano che la melagrana è un toccasa-na per la salute. Ce lo dimostrano con raffinate analisi chimiche, isolan-do e mettendo in valore le molteplici componenti nutrizionali del magi-co frutto ripieno di grani. I dietologi di qualche secolo fa, meno provvistidi strumentazioni analitiche, arrivavano a conclusioni non troppo diver-se, basandosi semplicemente sul sapore del frutto. Il sillogismo era ele-mentare: se il seme è l’origine della vita, e la melagrana è piena di semi,non può non conseguirne che la melagrana fa bene alla vita.

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l’appuntamentoTempo di melograno

nel calendario di sagre e feste,

a partire dal 10 novembre,quando a Masullas, Oristano,

terra di melograni, verranno proposti

piatti, dolci, succhi e liquorimonodedicati

Nella settimana che precedeil Natale, invece,

il “San Gallo” di Firenzecelebra

la festa del melograno, frutto-simbolo

della comunità iraniana

Repubblica Nazionale

le tendenzeScelte

In amore cuori solitari o battitori liberi, sul lavoro spesso in carrieraChe siano separati, scapoli o ex bamboccioni i tre milioni di maschiitaliani che vivono soli hanno soprattutto una cosa in comune:spendono (il sessanta per cento in più di una famiglia media)

Maniaci di fitness, design e hi-tech inseguono un loro stileE i brand fanno di tutto per accontentarli

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24OTTOBRE 2010

SingleMan

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Ieri erano bohémien stravaganti,geni incompresi e sregolati, oggisono uomini in carriera, narcisi,spendaccioni quando possono,comunque sempre attenti allemode e all’apparenza. Sono i sin-

gle d’Italia: battitori liberi, cuori solitariper necessità o convinzione, per sceltapropria o più spesso di qualcun altro,quasi dei Bridget Jones in pantaloni.Scapoloni incalliti o di ritorno. Perchéesistono due tipologie di maschi single:da una parte c’è il trentenne appena

uscito da casa di mamma e di papà,stanco di essere un eterno bamboccio-ne, dall’altra un esercito di quarantennie cinquantenni appena usciti da matri-moni sbagliati che, magari, si ritrovanoa vivere da soli per la prima volta. Sonoloro che hanno più soldi da spendere,sono loro a cui le case di moda e di desi-gn guardano come nuovo target di rife-rimento. Una categoria sociale e socio-logica che fino a qualche anno fa nem-meno esisteva. Oggi, invece, i single (trauomini e donne) superano i sette milio-ni e mezzo, in pratica il 26,4 per centodegli italiani, con una crescita esponen-ziale ogni anno che fa riflettere (negliStati Uniti, lo scorso agosto, il CensusBureau ne ha stimati novantasei milio-ni). E anche se più della metà continua-no a essere di sesso femminile, i maschihanno raggiunto quasi i tre milioni.Spesso vivono situazioni transitorie:perché si è conclusa una storia, hannocambiato lavoro e città, stanno attra-versando un periodo difficile.

Ma come vive chi ha scelto la solitu-dine come compagna? Partiamo dallaspesa: chi è solo spende il sessanta percento in più di una famiglia media, se-condo l’Istat ben 312 euro ogni mese.Che se ne vanno tra vaschette mono-porzione da rosticceria, surgelati, cibiprecotti, sughi pronti all’uso, frutta everdura confezionata e per questo assaipiù cara. Senza considerare gli sprechi,con cartoni di latte che restano apertiper giorni, yogurt scaduti, tortelloniiniziati e dimenticati in fondo al frigo.Perché il single non ha tempo, né tan-tomeno voglia, di cucinare solo per se

stesso. Al contrario, per coccolarsi econfortarsi segue la moda, sceglie abitie scarpe di tendenza, compra una lam-pada in più per il salotto. Tanto che pervestire — ci dice l’Eurispes — arriva aspendere anche novanta euro al mese.Le sue sono scelte spesso fatte in serie,trova un marchio che lo soddisfa e se neriempie il guardaroba. Un pantalone glicalza a pennello? Allora via con tutti icolori possibili dello stesso modello. Epoi chi è solo non può farsi mancarenulla, vuole muoversi, viaggiare. Altri-menti a cosa serve la tanto decantata li-bertà?

Tra le grandi passioni dei maschi sin-gle ci sono i gadget tecnologici: dal su-perstereo all’iPad, al cellulare all’ulti-mo grido. E poi la casa. Per tanti la solu-zione più ovvia è il monolocale, più fa-cile da gestire, da pulire, e naturalmen-te più economico. Ma ben attrezzato estudiato con soluzioni su misura. Arre-dare la propria “tana” diventa l’ennesi-ma sfida: crearsi un ambiente conforte-vole dove vivere e coccolarsi è ancorapiù importante per chi è solo. Così il sin-gle dedicherà più attenzione a un im-pianto hi-fi di ultima generazione se lasua passione è la musica, al contrarioallestirà una piccola palestra se ha l’os-sessione per i muscoli. E se per le don-ne prioritaria è la camera da letto, perl’uomo l’attenzione si sposta sull’areagiorno e di intrattenimento, che può es-sere anche una cucina allargata dove ilsingle mangia, dorme, incontra gli ami-ci, ascolta la musica. Vive, insomma,secondo il suo stile.

Quando la solitudinediventa un lusso

ILARIA ZAFFINOCASUAL CHICAma il bianco& nerol’uomoEmporioArmani:giacca scuraabbinataal pantalonecandido,guanti bicolor,scarpeda tempolibero

SPORTIVOCaldo pull in lanagrigio perladi Fred PerryUn classicodal mondodel tennisal guardarobamaschile

ELEMENTARECamicia a manica lunga in purocotone con taschinoCome un foglio a quadrettibianco, rosso e nero. Di Sonrisa

TECNOLOGICOBlackBerry di ultima generazionecon schermo luminoso ad altarisoluzione e lettore multimedialePesa 122 grammi, senza batteria

POLSO D’ACCIAIOUn’icona del marchioBreil: l’orologio Manta

con cronografoÈ in acciaio con ghieraverde smeraldo

Repubblica Nazionale

FUTURISTAHa una struttura futuristica, che alternapieni e vuoti: Genesy, lampada da terradi Zaha Hadid per ArtemideIn nero lucido o bianco opaco

DECISOGiacca peacoat di Herno:traspirante e impermeabilecon pettorina staccabileMantiene la temperaturadel corpo costante

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 24OTTOBRE 2010

“Per lui pochi colorie molta sobrietà”

«Più che affezionarsi a un marchio siaffeziona a un gusto: è meno versa-tile di una donna che cambia con

più frequenza l’arredo di casa, meno inclineperciò a eccessi ed esuberanze. E soprattutto,quando vive da solo, l’uomo privilegia aspet-ti della casa che interessano poco le donne:per esempio, l’aspetto tecnologico, domoti-co, quindi il computer, la tv, la musica». Ro-dolfo Dordoni, architetto e designer milane-se, è il direttore artistico di Minotti, le sue col-lezioni — lampade, divani, poltrone — so-brie, essenziali, incontrano spesso il gustomaschile.

«L’uomo è meno attento della donna allemode, comunque meno preparato. È più fa-cile allora che riconosca delle icone, storicheo contemporanee poco importa. Lui va per ri-ferimenti: la poltrona da lettura, per esempio,o il divano di Le Corbusier. Sono delle sicu-rezze. Perché è più pigro, anche nella sceltadei materiali. Le donne sono portate a ragio-nare su colori, tessuti. L’uomo invece ha unacartella più limitata, persino la paletta di co-lori è più limitata. I materiali che privilegia so-no legni, pelli, laddove le donne cercano lac-

cature e tessuti co-lorati. Lui è più so-

brio e tende a sce-gliere i colori del pro-

prio guardaroba: igrigi, i marroni, per de-

finizione toni maschi-li».

L’uomo single è unacategoria sociologica

ormai emersa, è ancheun nuovo target per i desi-

gner?«Naturalmente ci sono

oggetti che vengono pensa-ti, ragionati in funzione di un

target. Per esempio, in unprogetto di interior conside-

rare che la casa sia per una donnasingle, un uomo solo o una coppia

fa la differenza. Ci sono uomini sin-gle che hanno l’abitudine alla pale-

stra, al fitness. La donna privilegia il be-nessere, la vasca da bagno. La stessa at-

tenzione al corpo si manifesta in modo diver-so. E quel che conta sono i dettagli: anche so-lo una tenda, accessorio per definizione piùfemminile, può condizionare un progetto».

Come arrederebbe la casa di un single?«Cominciamo dalle differenze: una donna

ha bisogno di riservatezza, di privacy, in ca-mera da letto, in bagno. L’uomo al contrarioha meno problemi a esibire questi spazi ri-servati. Ecco allora che l’open space si addicebene alla casa di un uomo single. Proprio l’ul-tima casa che ho progettato per un single eraun loft, ovviamente open space».

Gli oggetti che lei progetta sono geometri-ci, angoli retti, linee secche: in una parola,pratici, essenziali, funzionali. Proprio comepiacciono agli uomini.

«È vero, il mio gusto è più legato al mondomaschile, uso poco i colori vivaci. E anche lamia rappresentazione dei prodotti, prendia-mo un divano, è indubbiamente più maschi-le. Quando penso a una casa per single sonopiù portato a immaginare una casa per uomi-ni. Le donne preferiscono lo stile di PatriciaUrquiola, o quello etnico di Paola Navone.Con loro mi capita più spesso di lavorare sulprogetto di guardaroba, di cabina armadio,che poi è sempre una stanza vera e propria.L’attenzione femminile, infatti, è rivolta allaluce, agli specchi, alla dimensione del guar-daroba, da usare come fitting room. Al con-trario, per l’uomo conta il numero di pezzi, miservono tanti pantaloni, tante camicie. Inquesto, lui è più ordinato quando si parla diguardaroba. Ma non vuol dire poi che ordi-nata sia la sua casa».

(i. za.)

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ESSENZIALEUn tavolo discreto, sottilee leggero, che sembra galleggiaresui sostegni scultura:è Palio di Ludovica + RobertoPalomba per Poltrona Frau

CLASSICORigorosamente neri i mocassinicon tomaia alta e fascetta frontale:lusso e stile classicoÈ la proposta di Dior Homme

IL DISEGNOL’illustrazione è tratta dal FantasyLookbook Fall Winter 2010 di PradaIl progetto grafico è statorealizzato da OMA di Rem Koolhaas

VIAGGIATOREGiacca

di velluto,dolcevita,pantalonevita bassa,mocassino

e borsada viaggioper l’uomo

GucciColore

dominanteil marrone

RILASSATOPoltrona e panchetto

per soddisfareil desiderio di completoabbandono: informalee rassicurante, Parker

di Minotti è disegnatada Dordoni

WILDSembra uno dei borsoniche si vedono nei film westernIn tessuto scozzese con maniciin pelle da Ferragamo

Rodolfo Dordonidi Minotti

Repubblica Nazionale

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24OTTOBRE 2010

l’incontro

‘‘

Architetti

Fossi nato nel desertoavrei un’altra testa:nel mio lavoroi paesaggi e la lucesono fondamentaliGuardi le casein Germania:ogni facciataha lo stesso colore

Tante chiese e altrettanti museiDa cinquant’anni questo“svizzero molto mediterraneo”disegna (rigorosamente a matita)

e progetta luoghiin cui spera di “poterfinalmente conciliarel’estetica con l’etica”Non ama gli eccessidella globalizzazionee la mondanità in stile

archistar.Perché non vuole correreil rischio “di diventare un clown”Preferisce insegnare il suo mestiere

MENDRISIO (Svizzera)

Capelli bianchi, disordina-ti, sguardo vispo e occhia-lini sulla punta del naso.Cinquant’anni di carriera

da festeggiare sono tanti, soprattutto sedi anni se ne hanno settantasette, maMario Botta è un lavoratore prima an-cora che un architetto. Autore di pro-getti come il Museo d’arte contempora-nea di San Francisco, la sinagoga Cim-balista di Tel Aviv, il Jean Tinguely di Ba-silea, è uomo infaticabile, rigore svizze-ro e passione mediterranea. «È che rie-sco a trovare la serenità di un bambinosolo lavorando. La domenica aspettocon impazienza che arrivi il lunedì perrimettermi al tavolo, le vacanze le vedocome una cosa inutile», racconta nellostudio di Mendrisio in cui si riflette la lu-ce delle montagne. Nella piccola e ordi-nata cittadina svizzera, dove è nato,Botta ha creato la sua Accademia di ar-chitettura che macina esami e progetti.Con gli studenti non è tenero, ma forsesolo perché lui, da ragazzo, non ha per-so tempo. «Tutto per me è cominciatoad appena sedici anni, quando decisi dinon andare più a scuola. Ed è stata quel-la la mia fortuna», racconta senza esita-zioni: «Ho chiuso con un’istituzioneche frequentavo malvolentieri sin dal-l’asilo e che mi trasmetteva solo noia.Appena ho cominciato a lavorare, tuttoè diventato più facile». Oggi si ritiene unuomo sereno: «Ho il privilegio di fare unmestiere che amo e in cui, miracolosa-mente, anche la matematica diventabella e utile. Ogni mattina mi svegliauna spinta irrazionale al fare, un biso-gno di forma espressiva che, in modopositivo, mi ha reso prigioniero del miolavoro. Anche gli ostacoli fanno partedell’innamoramento e, alla fine, c’è lasoddisfazione di fornire un servizio aglialtri e di sentirsi parte della storia».

Quando poco più che adolescente

Botta decide di lasciare la scuola, di-venta apprendista in uno studio di Lu-gano. Capisce che il suo futuro è il dise-gno, prende la maturità da privatista e siiscrive alla facoltà di architettura di Ve-nezia. Il caso, misto all’incoscienza del-la gioventù, lo aiuta. «In quegli anni micapita la fortuna d’incrociare Le Corbu-sier che è a Venezia per costruire l’ospe-dale e, con una forza che oggi non avreipiù, mi presento dicendogli di voler la-vorare con lui. La determinazione è vin-cente e m’inseriscono nel suo piccolostudio veneziano. Le Corbusier era ungenio, grazie a lui la storia della vita di-ventava la storia dell’architettura, ma èstato anche un uomo duro e smalizia-to». Non è l’unico grande maestro diMario Botta. Si laurea infatti con CarloScarpa: «Allora Scarpa era visto con so-spetto perché troppo dannunziano earistocratico, ma tra noi nacque subitoun buon rapporto. Ancora oggi la sua èuna figura misteriosa e anomala, riccadi una materialità artigianale che nonconcepisce un approccio ideologico.Scarpa aveva il grande pregio di trasfor-mare in linguaggio contemporaneo imateriali più poveri». E poi c’è stato LuisKahn: «Si presentava a Venezia comeun profeta e io avevo con lui lo stesso ti-po di rapporto che ha il fedele nei con-fronti del Messia. Aveva il dono di co-gliere il limite del progresso tecnologi-co e riproponeva il senso della gravità edella memoria. Scomparso Kahn è arri-vato il postmoderno». Un postmoder-no che a Botta, evidentemente, non vaproprio giù: «No, perché rende la storiauna caricatura in cui si confondono glistili».

Per lui costruire è un atto sacro, un’a-zione che trasforma una condizione dinatura in cultura. «Mi sono avvicinatoal sacro in modo profano quando,nell’86, una chiesa venne distrutta dauna valanga e mi chiamarono per rico-struirla. Il mio dilemma stava tutto den-tro la sfida ancestrale tra uomo e natu-ra. In altre parole mi domandavo comeriuscire a conciliare la perenne lotta tral’architettura sacra e i nuovi strumentiche potessero rendere l’opera resisten-te. Perché disegnare uno spazio archi-tettonico vuol dire predisporre le formeambientali affinché i sentimenti possa-no trovare una loro espressione». Lechiese da quel momento diventano unelemento ricorrente nel lavoro di Botta:la cappella del monastero di Santa Ma-ria a Bigorio, San Pietro e Paolo a Sarti-rana di Merate, Santa Maria degli Ange-li a Monte Tamaro, la chiesa di PapaGiovanni XXIII a Seriate, Santa MariaNuova a Terranuova. «L’architetturaoffre strumenti straordinari ma pur-

troppo nella costruzione ecclesiale nel-l’ultimo secolo ha dato il peggio. Eppu-re è meraviglioso realizzare quello spa-zio finito, che fa parte dell’infinito, conuna sfida che unisce il silenzio, la gra-vità, la luce, la meditazione. L’uomo hala possibilità di costruire universi dovela carica metaforica è fortissima e che siripetono da duemila anni». Sintetizzain una frase una cascata di pensieri: «Lavera avventura è riuscire a realizzareuna chiesa dopo Picasso, conciliandoetica con estetica».

Altra passione di Botta, i musei. Incinquant’anni ne ha realizzati parec-chi, dalla Galleria d’arte di Tokyo, alMuseo d’arte contemporanea di SanFrancisco, al Mart di Rovereto, al Mu-seo Jean Tingueley di Basilea. Ma anchequi torna il sacro. Per lui lo spazio espo-sitivo di oggi ha un ruolo analogo a quel-lo della cattedrale di ieri: «Il cittadino vain un museo per confrontarsi con l’arti-sta e nel realizzarli si raccontano i biso-gni dello spirito di una società apparen-temente secolarizzata. Tanto che a meoggi piacerebbe disegnare un conven-to, un’istituzione totale dove chi entrasceglie di amare e di morire tra quellemura. Il convento rappresenta una cittàin miniatura dove ogni settore organiz-

zativo è misurato alla città ideale, unariduzione in scala della grande vita col-lettiva che per l’architetto può essere ilmassimo da rappresentare». Ma c’è dipiù, nel sogno del convento: «La fasci-nazione verso quelle persone, e sonosempre meno, che hanno la forza di unascelta assoluta».

Botta s’interrompe per una veloce te-lefonata. Poi riparte vivace, per raccon-tare quanto conta nel suo lavoro il luo-go in cui gli è capitato di nascere: «Cer-co di guardare al mio passato con amo-re ma anche con occhio critico. L’attra-zione verso il Mediterraneo è per memolto forte, e condivido Dürrenmattche era molto sarcastico riguardo aquesto dna che ognuno di noi si portadalle montagne. Sicuramente se fossinato nel deserto avrei un’altra testa,perché il carattere dominante dell’ar-chitetto è dato dal paesaggio e la luce deiluoghi giocano un ruolo fondamentalenella creatività. Guardi le case in Ger-mania, ogni facciata ha lo stesso colore.O prenda gli Emirati Arabi: nessunaconsistenza, non mi piacciono i luoghiperfettamente orizzontali. Al contrarioamo lavorare in Cina, mi impressiona lalegge dei numeri, e quello è inevitabil-mente un Paese che viaggia a una velo-cità stratosferica. Ora sto lavorando auna biblioteca, a Pechino, dove vorreicostruire anche un museo dell’arte oc-cidentale». Un inno al mix della globa-lizzazione? Tutt’altro: «L’architetto dioggi lavora soprattutto sul territoriodella memoria dimenticata propriodalla globalizzazione, perché la rapi-dità della trasformazione è proporzio-nale all’oblio. Noi esistiamo perché ri-cordiamo e quindi è fondamentale te-stimoniare il passato».

Nei confronti di un mondo troppoglobalizzato è molto severo: «Per gode-re a pieno del totale bisogna soprattut-to assaporare il locale, solo così ognunopuò maturare i propri anticorpi. In unasocietà attraversata dalla globalizza-zione l’identità non può che passare at-traverso l’appartenenza al territorio, al-la riconoscibilità di un paesaggio. Peresempio: quando andiamo nei centristorici ritroviamo una qualità di vitastraordinaria e spesso è un paradossoperché quei posti sono espressione diun popolo estinto, sono le città dei mor-ti». Ed è proprio questa la grande forzadell’Europa rispetto all’America o allaCina: «Le nostre sono città legate al pas-sato da un’identità storica e culturaleunica, in cui è possibile sentirsi parte diun’umanità che ci appartiene e versovalori che stanno emergendo con sem-pre più forza». E allora forse non è un ca-so se nel lavoro Botta coltiva un’aperta

ostilità anche di fronte agli strumentipiù all’avanguardia (pur riconoscen-done le virtù: ad esempio il dimezza-mento dei tempi): «Continuo a dise-gnare a matita perché ha una forza pro-gettuale che manca al computer. Glistrumenti arcaici spesso portano unasperanza e io con lo schizzo non sonomai sazio».

L’accademia di Mendrisio è gremitadi studenti. Nel sottofondo mattutino sisentono i rumori di tanti passi veloci.Prima dell’estate i “suoi” ragazzi hannorealizzato un piano di ristrutturazionedi Varese che ha trasformato la cittàlombarda in una perla colta e ecologica.«I giovani sono meglio di come vengo-no descritti, quando arrivano a settem-bre quelli del primo anno hanno unafreschezza che, purtroppo, non ritrove-ranno più. Ma questa è comunque unascuola di architettura umanistica contanta filosofia e tanta arte, una scuolacapace di sollevare problemi e non didare delle risposte. Insomma, soprat-tutto una scuola di pensiero che s’inter-roga sul significato della vita».

Già, la vita. Mario Botta è un uomo ri-servato. Tanti figli, una moglie, pochemondanità. Quanto di più lontano dalmondo degli archistar: «Il fatto che im-provvisamente gli architetti siano di-ventati dei personaggi da un lato nonpuò che lusingare e contribuire allosvecchiamento dell’architettura, maindubbiamente il pericolo “clown” è inagguato. La mediatizzazione ci sta por-tando ad un’architettura distorta chediventa autoreferenziale e dimentical’interesse collettivo, si spinge troppoverso la spettacolarizzazione. Io ho rap-porti sereni con tutti ma ritengo chenessuno di noi possa avere la verità intasca, a me interessa quel che succedenel mondo ma non ho la pretesa di ave-re grandi certezze. Insomma, l’impor-tante è sapere di non poter cambiare ilmondo ma, invece, provare a cambiarel’architettura». ‘‘

IRENE MARIA SCALISE

Mario Botta

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